Lupi contro agnelli e altri racconti

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Lupi contro agnelli JAMES BERNARD LAMBERTINI e altri racconti auto da fé

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Quattro racconti che non potrebbero essere più diversi uno dall’altro. Eppure un fil rouge ce l’hanno. Tutti parlano di vendetta. Verso se stessi. Verso gli altri. Vendetta per le ingiustizie subite soprattutto da altri (Giglio). Vendetta perseguita caparbiamente per ritrovare la serenità perduta ma ritrovata solo apparentemente (Lupi contro agnelli). Vendetta al di là di ogni logica e di ogni ragionevolezza (Un tragico errore). Vendetta, o meglio, guerra senza quartiere a tutti gli aguzzini che vivono e godono delle sofferenze altrui, fino a distruggerne l’esistenza. Ma la vendetta è sempre un fatto negativo? James B. Lambertini È nato ad Atlanta nel 1971 da padre fiorentino e madre creola. Sposato e padre di una bambina di undici anni si divide fra Toronto e Praia, capitale di Capo Verde. Per le sue opere attinge a piene mani nell’atmosfera e nella filosofia di vita creola. Pubblica per la prima volta in Italia.

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Quattro racconti che non potrebbero essere più diversi uno dall’altro. Eppure un fil rouge ce l’hanno.

Tutti parlano di vendetta. Verso se stessi. Verso gli altri. Vendetta per le ingiustizie subite soprattutto da altri (Giglio). Vendetta perseguita caparbiamente per ritrovare la serenità perduta ma ritrovata solo apparentemente (Lupi contro agnelli). Vendetta al di là di ogni logica e di ogni ragionevolezza (Un tragico errore). Vendetta, o meglio, guerra senza quartiere a tutti gli aguzzini che vivono e godono delle sofferenze altrui, fino a distruggerne l’esistenza.

Ma la vendetta è sempre un fatto negativo?

JAMES B. LAMBERTINI È nato ad Atlanta nel 1971 da padre fiorentino e madre creola. Sposato e padre di una bambina di undici anni si divide fra Toronto e Praia, capitale di Capo Verde. Per le sue opere attinge a piene mani nell’atmosfera e nella filosofia di vita creola. Pubblica per la prima volta in Italia.

Lupi contro agnelli

12,90

JAMES BERNARD LAMBERTINI

e altri racconti

JAM

ES B

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RD

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TIN

IL

upi contro agnelli e altri racconti

1439217815339

ISBN 9781533143921

auto da fé

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Quattro racconti che non potrebbero essere più diversi uno dall’altro. Eppure un fil rouge ce l’hanno.

Tutti parlano di vendetta. Verso se stessi. Verso gli altri. Vendetta per le ingiustizie subite soprattutto da altri (Giglio). Vendetta perseguita caparbiamente per ritrovare la serenità perduta ma ritrovata solo apparentemente (Lupi contro agnelli). Vendetta al di là di ogni logica e di ogni ragionevolezza (Un tragico errore). Vendetta, o meglio, guerra senza quartiere a tutti gli aguzzini che vivono e godono delle sofferenze altrui, fino a distruggerne l’esistenza.

Ma la vendetta è sempre un fatto negativo?

JAMES B. LAMBERTINI È nato ad Atlanta nel 1971 da padre fiorentino e madre creola. Sposato e padre di una bambina di undici anni si divide fra Toronto e Praia, capitale di Capo Verde. Per le sue opere attinge a piene mani nell’atmosfera e nella filosofia di vita creola. Pubblica per la prima volta in Italia.

Lupi contro agnelli

12,90

JAMES BERNARD LAMBERTINI

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JAM

ES B

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NA

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ISBN 9781533143921

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© James Bernard Lambertini, 2016

© FdBooks, 2016. Edizione 1.0

L’edizione digitale di questo libro è disponibile online

in formato.mobi su Amazon

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e altri store online.

iSbN 978-1533143921

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

è vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.

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A Rosy e Valentina, il sale della mia vita.

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1. Geena

Atlanta, primi giorni di ottobre.

Con addosso un tubino nero che lasciava scoperta una generosa porzione di gambe, si stava avvicinando al locale notturno dove lavorava come barista. Data l’imminente stagione autunnale, sopra portava una giacca di pelle rosso scuro. Geena Rowley, una splen-dida ventottenne di Atlanta, pelle dorata lasciata in eredità dalla mamma cubana, camminava immersa in un plumbeo pomerig-gio informe e senza prospettive, proprio come il suo umore. Al centro della nuvola nera del suo furore, inconsapevole del mondo intorno a sé non si rendeva conto dell’effetto che produceva al suo passaggio.

Sguardi carichi di malcelata invidia nelle donne, giovani e belle o brutte e vecchie che fossero. Occhiate che erano veri e propri stupri da parte di ogni rappresentante del sesso maschile che avesse compiuto l’età della ragione. Un viso dall’ovale perfetto con due laghi blu al posto degli occhi, ereditati dal padre olandese, di una bellezza sconvolgente e sensuale, poggiato su un collo flessuoso ed elegante che completava il quadro di una figura da togliere il fiato, un paio di gambe da non riuscire a distogliere lo sguardo. Ogni curva del suo corpo faceva nitrire di desiderio ogni maschio degno di questo nome. Sta di fatto che questo miracolo vivente in quel preciso momento sentiva dentro di sé una fortissima furia distruttiva, dovuta al fatto che aveva conosciuto l’unico uomo che da tempo immemore la interessasse, e da cui non aveva ricevuto altro che indifferenza e, forse, un pallido interesse per il fatto che lei ballava piuttosto bene, cosa che provocava, a vederla muoversi a tempo di musica, negli altri uomini sconvolgimenti ormonali

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Dio, devo farmela, subito! degni di uno tsunami e in quel deficiente di Max Simmons praticamente zero sciacquetta! Eppure aveva le prove che lui, quanto a preferenze sessuali stava dalla parte giusta, ma, a suo parere, per lei nutriva un interesse pari a quello di un ban-chiere svizzero per un istituto di credito del Bangladesh. Coglione!

Quando lei gli aveva fatto chiaramente capire che le piaceva, lui, reduce da un periodo di astinenza piuttosto lungo aveva fatto le sue avances. Ok, facciamoci questa fighetta, che lei aveva sapien-temente provocato, portandoli in tempi brevissimi ad una notte di emergenza incendi, con una serie interminabile di performances degne di un acrobata da parte di lui; un incredibile mix di fantasia, pazienza e rudezza che digradava in dolcezza da sentirsi in para-diso, poi scrolloni improvvisi in cui lei si sentiva un fuscello in balia di una meravigliosa tempesta. Una calma improvvisa subito seguita da furia senza fine, fino al totale sfinimento subito dopo l’estasi più meravigliosa_ mente appagante che avesse mai provato sono o non sono Max, cioè il massimo?

Ebbene, pensava Geena, sommersa da un mare di frustra-zione, l’idiota avrà quello che si merita, e mentre lo pensava grossi lacrimoni le rigavano il viso. stronzobastardo! Bastardobastardoba-stardo, sibilava Geena mentre piangeva tutte le lacrime che aveva. Poi, lentamente, si calmò. Una gelida furia si impadronì di lei mentre concertava la sua vendetta. Mentre la bella Geena era alle prese con le sue fumate nere, il bel Max era concentrato sulla sua attività. Il suo lavoro, cioè il commerciante internazionale di armi, era ciò di cui prevalentemente si occupava. Non disdegnava comun-que altre forme di integrazione dei suoi guadagni, dal momento che si considerava uno di larghe vedute. Max era specializzato in ogni tipo di fornitura di materiale bellico. I suoi committenti abituali gli ordinavano di tutto e lui non aveva alcun problema a fornire loro qualunque cosa gli venisse richiesta. I suoi clienti erano solitamente gruppi di guerriglieri che combattevano i vari governi dittatoriali dell’Africa Centrale. Ma riforniva di armi anche gli stessi governi che avevano come nemici gli stessi che Max aveva armato. Ovvia-mente, lui adorava il tutti contro tutti. Riforniva indifferentemente gli uni e gli altri, si faceva in quattro per accontentare ogni richiesta,

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e godeva nel vedere che la stupidità umana non aveva limiti. Anche il suo conto ne traeva enormi vantaggi. Il suo motto era: “Viva la guerra, abbasso la pace”. All’occorrenza, come attività collaterale non disdegnava di onorare un “contratto” che gli veniva affidato. Specie se chi doveva eliminare si dava da fare come attivista per una qualche causa dove si chiedeva a gran forza la pace. Il vantaggio per lui era doppio. Riceveva così il compenso pattuito per il lavoro ese-guito, ed il suddetto attivista non creava più fastidi. Non dovendo più fare i conti con uno dei suoi detrattori, la guerra in questione poteva continuare indisturbata o quasi; con essa le forniture di armi, e di conseguenza gli introiti del bel Max.

Lui era fiero ed orgoglioso del proprio lavoro. Era consapevole di tutte le implicazioni politiche che il suo lavoro comportava. Ed anche di quelle morali.

Di queste, come di tutte le altre, non si preoccupava minimamente.Era graniticamente convinto di essere solo un mezzo atto a

soddisfare alcune necessità di determinati gruppi di pensiero e soprattutto d’azione. L’esigenza di reperire dieci razzi Katiusha, cinquanta lanciarazzi rpg oppure duecento AK 74, veniva pron-tamente presa in carico dal nostro buon samaritano, valutata non tanto per la gravità degli sconvolgimenti politici o ambientali che avrebbe potuto provocare, quanto attentamente soppesata in base al profitto che avrebbe portato a colui che avrebbe soddisfatto pie-namente e velocemente queste particolari necessità. Poteva anche capitare, ed era già successo, che una grande cooperativa edilizia in odore di mafia avesse bisogno di un centinaio di tonnellate di diserbante per avvelenare qualche appezzamento di terreno che, essendo dopo questo trattamento non più coltivabile, sarebbe stato reso velocemente edificabile, e pazienza se nel giro di qualche anno qualche centinaio di bambini sarebbe nato deforme o deficiente e qualche migliaio di adulti sarebbe morto di cancro o di leucemia.

Così andava il mondo. mica posso sperare di cambiarlo io, no?Ed una volta percepita la sua ricca, anzi, a parer suo, solo ade-

guata commissione, il cerchio si chiudeva e lui era in pace con se stesso e con il mondo. Ultimamente il suo perfetto equilibrio era in parte disturbato da quell’incontro in discoteca con quella

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stronzetta che si dava arie da Jennifer Lopez e non si rendeva conto di essere una qualunque troietta con un bel corpo e poco cervello, che lui aveva gratificato della sua attenzione, e che già considerava acqua passata. Ma siccome non era uno sprovveduto, intuiva la sanguigna pericolosità del carattere passionale di lei. bah, la solita-rompicoglioni Con un’alzata di spalle decise che non valeva la pena pensarci più del necessario, almeno per il momento. “Il mondo è grande”, andava ripetendosi, “e se io non voglio, sarà molto diffi-cile che la troietta mi trovi e mi rompa ulteriormente le palle”. Ma, come si suol dire, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e quindi quando meno se l’aspettava se la ritrovò davanti. Un viso prima sorpreso e poi felice oltremisura fu quello che egli vide davanti a sé, anche se per un fugacissimo attimo gli sembrò di captare l’espres-sione del cobra che sta per infilarti i denti avvelenati nella vena giugulare. Mah, me lo sarò sognato…

Fu giusto un attimo di incertezza, perché istantaneamente, non vide altro che felicità allo stato puro da parte di lei. Il che gli pro-vocò un moto di noia mortale.

«Che bella sorpresa! – fece lei – Ma dove ti eri cacciato? Non ti ho più né visto né sentito…»

«Sono stato molto occupato», uh che palle questa qui… fu la poco convincente risposta.

«Sei sempre allo Sheraton?», tubò lei.«Sì, ma mi fermo ancora per poco; sono in partenza per l’Arabia

Saudita»«Potremmo vederci questa sera, o magari nel tardo pomeriggio

per un aperitivo – azzardò Geena – lo sai dove lavoro…». «Chiamami più tardi, e facciamoci ‘sta sveltina – fece lui, con aria

distratta – d’accordo?»«D’accordo».Trascorsero la serata insieme. Una bella serata. Cena e night. Fu

piacevole per entrambi e finì nel solito modo. Alle sette in punto della mattina successiva la sveglia iniziò il suo repertorio di musica classica con un brano di Mahler, peraltro subito interrotto da una precisa zampata di Max Simmons. Con i soli boxer addosso ed i pet-torali scolpiti bene in vista, lui si alzò dal letto con uno scatto felino.

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Lei lo guardava con una voglia bestiale di mettere le mani su quelle natiche dure come il granito, su quei genitali tosti che qualche ora prima l’avevano portata più volte in paradiso. Con uno scatto delle braccia riuscì ad arpionargli una coscia e per un attimo a trattenerlo. Lui si bloccò, si girò lentamente verso di lei che nel frattempo si era sollevata sulle ginocchia. Fulmineamente gli circondò le cosce in un abbraccio che esprimeva tutta la bramosia di lei di possederlo ancora una volta. Poi si avventò famelicamente su di lui e affondò le labbra sul suo pene, che all’istante divenne di ferro. Il movimento ritmico di lei fu letale per lui. In un momento venne e lei bevve avidamente il suo succo caldo e salato. Immediatamente lui la staccò a forza da sé.

«Devi proprio andare?», cinguettò lei con espressione imbronciata.

«Certo che devo andare», con molto dispiacere, ma non lo ammet-terò nemmeno sotto tortura! puntualizzò lui con tono asciutto, che non ammetteva repliche. Doveva effettivamente andare: gli ordini dei sauditi non si discutevano.

Ma non sarebbe partito subito per l’Arabia Saudita.Prima aveva un lavoretto da sbrigare. Pochi giorni prima aveva

incontrato un conoscente, un affiliato di secondo piano del clan dei Casalesi. La mezza figura gli aveva affidato un “contratto” su di un certo Giuseppe Greco, un impresario edile fuggito dall’Italia per essere entrato in rotta di collisione con una piccola organizzazione criminale indipendente. Il Greco aveva cercato di consegnarla alle forze dell’ordine. Era stato minacciato di morte per via di certi ammanchi non giustificati, e lui non aveva escogitato di meglio che denunciare i due soci alla Polizia. Aveva trafugato circa quattro milioni di euro, e questo non era proprio andato giù a nessuno dei due soci. I due soci dell’organizzazione, Ugo Danzi ed Hector Alvarado, che avevano commissionato il “contratto” a Max, ave-vano i loro canali per reperire informazioni ed avevano saputo dai loro amici di Casal di Principe che il loro ricercato si era rifugiato negli Stati Uniti. Avevano chiesto ai Casalesi di incaricare un killer di loro fiducia, e così Max Simmons era stato scelto per portare a termine l’operazione. Il compenso faceva gola a Max, duecentomila euro, cui poteva aggiungere il dieci per cento se avesse recuperato

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l’intera cifra. Se quindi se avesse recuperato tutto, altri quattro-cento mila euro. Niente male per un’operazione che gli avrebbe portato via una settimana di tempo nella peggiore delle ipotesi. Anche lui sapeva a chi rivolgersi per trovare informazioni utili. Venire a conoscenza di dove un tale di nome Giuseppe Greco fosse atterrato fu uno scherzo. Greco aveva ovviamente molta disponibi-lità di denaro. Max scartò gli alberghi economici e si concentrò sui più lussuosi. Alla quarta telefonata alla reception dei vari alberghi lo trovò. Alloggiava all’Hilton e per il momento non aveva inten-zione di muoversi da lì. Lo diceva la prenotazione per le successive due settimane nella stessa suite. “Che spreco pagare in anticipo – pensò Mark sogghignando – e se poi ti succede qualcosa? Hai buttato via i soldi…, con quel che costa quell’albergo…”. Allertò immediatamente una delle cellule americane dei casalesi, messa a sua disposizione per l’occasione, facendo presente di prelevare l’interessato senza clamore ma anche senza perdere troppo tempo. Aveva fretta di confermare l’appuntamento con il re saudita. Due giorni dopo, a metà mattinata, lo avvertirono che la merce era appena stata recapitata alla ditta di spedizioni John Surtiss Ltd, al 2025 di Victoria Queen. Era una zona di capannoni industriali progressivamente caduta in abbandono causa la crisi che aveva profondamente colpito alcuni stati degli uSa. Giuseppe Greco era legato come un salame ad una sedia da ufficio, ed aveva la bocca sigillata con del nastro da imballo color argento. Era vestito elegan-temente, segno che era uscito per un incontro, o semplicemente per fare acquisti. Max gli allentò la cravatta, e l’altro gli fece un cenno di ringraziamento.

«E così tu saresti il furbacchione che ha cercato di fottere l’orga-nizzazione di Danzi…», osservò Max pensieroso.

«Beh, se voglio una qualche risposta comprensibile sarà meglio che ti tolga il bavaglio». E gli strappò senza tanti complimenti il nastro adesivo dalla bocca.

«Mm – fece l’altro – grazie, così va un po’ meglio».«Senti, giusto perché tu lo sappia, in questo momento per me

sei una gran rottura di coglioni; più in fretta mi libero di te e prima riprendo a fare quello che mi preme di fare».

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«Amico – lo apostrofò Giuseppe Greco – io non ti conosco, non ti ho mai visto prima e con ogni probabilità sei l’ultima persona che vedrò nella mia vita. Ho trentacinque anni e quindi capisci bene che mi rompe non poco dover morire adesso; pensavo di aver trovato il modo di mettere un dito in culo a tutto il mondo, ma evi-dentemente c’è gente molto più in gamba di me. Per cui, non farmi la manfrina: fai in fretta quello che devi fare, e in culo a tutti!».

Max lo guardò come se lo vedesse in quel momento; lo squadrò in silenzio per un paio di minuti; era sorpreso dal sangue freddo dimostrato dalla sua vittima. L’altro non fece una piega.

«Sei in gamba, non c’è che dire, però, che ci vuoi fare, ti devo per forza uccidere. Anche perché se non lo facessi io lo farebbe qualcun altro, e poi cercherebbero me».

L’altro lo guardò di traverso: «Se mi uccidi subito non saprai mai dov’è il denaro che cerchi».

«E chi ha parlato di ucciderti subito; se voglio sapere qualcosa in fretta so come fare, puoi crederci».

Giuseppe Greco si preparò mentalmente alla fine imminente, e rimase sorpreso quando Max gli disse: «Quello che penso è che se ti sei appropriato di tutti quei soldi non sei uno stupido e hai sicura-mente dei buoni contatti in città, quindi tu adesso mi farai recuperare i soldi, tutti i soldi! Poi, ti dirò, mi sei simpatico; a me non piace ucci-dere la gente a sangue freddo: ergo, tu utilizza le tue conoscenze per sparire dal mondo, pensa tu a come fare; adesso ho bisogno che tu faccia una telefonata per avvertire che vuoi fare una transazione dal tuo conto ad un altro, e poi puoi andartene tranquillo».

«Certo – sogghignò sarcastico Giuseppe Greco – ho trovato l’u-nico killer dal cuore tenero sulla faccia della terra».

«Come vuoi, signor coraggioso: io adesso ti sparo in un ginoc-chio, poi nell’altro, e via così fino a che non fai quella telefonata…».

«Come faccio a fidarmi?»«Direi che non hai scelta: hai due secondi per pensare a cosa

fare, dopo di che non sentirai lo sparo ma le conseguenze, quelle si le sentirai, eccome!».

«Va bene, non ho scelta, hai ragione – rispose, totalmente incredulo Giuseppe Greco – anche se sono ancora convinto che

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tanto non mi risparmierai. Ed in ogni caso, senza un soldo sono comunque morto!»

«Ok, signor piagnucolone, adesso sbrigati, non farmi rimpian-gere di essere stato così generoso con te».

Greco telefonò. Max si fece dire il necessario per poter recupe-rare il denaro e, guardando il prigioniero ancora legato come un salame, gli disse dolcemente: «Bravo, hai fatto il tuo dovere fino in fondo, ora tocca a me». Lentamente, girò dietro le spalle di Greco. La Glock emise un “plop” attutito dal silenziatore. La pallottola entrò alla radice del collo ed uscì all’altezza del naso portandosi via metà della faccia di Greco. Quando il proiettile gli devastò il volto stava ancora sorridendo. Anche Max Simmons sorrideva. Per dimostrare che il “contratto” era stato onorato, Mark fece ritrovare il cadavere in quel che rimaneva del capannone di Victoria Queen, entrambi ridotti ad un mucchietto di rovine fumanti. Per un po’ di tempo Max ripensò a quell’episodio, ed ogni volta si congratu-lava con se stesso. Aveva guadagnato circa seicentomila euro, quasi ottocentomila dollari senza fatica. Giuseppe Greco gli era piaciuto, ma non al punto da risparmiargli la vita. Nel frattempo era volato in Arabia Saudita, dove aveva incontrato le più alte cariche dello stato, che gli avevano commissionato armamenti per circa due miliardi di dollari, in sostituzione di quelli divenuti obsoleti, ma, siccome non amava gli sprechi, per conto dei sauditi aveva a sua volta rivenduto quei quattro ferrivecchi a diversi paesi africani, alla solita commis-sione del dieci per cento. Era felice come un bambino la mattina di Natale. Però incominciava a mancargli qualcosa. Ogni tanto ripen-sava a quella sciacquetta, come si chiamava? Ah, si, Geena. Ma non gli pareva più una sciacquetta. Sarà che il ricordo era un po’ sbiadito, ma stranamente il ricordo era di una splendida femmina. Come aveva fatto a non accorgersene prima?

«Cazzo, vecchio mio, mi sa che ti sei un po’ rincoglionito… eh sì, gran brutto segno, questo». Ma essendo uno che non amava i conflitti esistenziali, non si fece problemi di sorta ed andò a cercarla al bar dove lei lavorava.

«Ciao Geena – la salutò mentre lei era di spalle – come butta?».

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«Oh, ecco il granduomo! Chi non muore si rivede» grandissimo cazzone, disse lei in tono gelido.

«E nonostante al mondo esistano stronzi come te, butta bene! Butta talmente bene che fra un mese mi sposo!»

«Ma non mi dire» oh, cazzo!», fece lui, con un tono che voleva sembrare contento ma che risultò falso come una moneta da tre dollari. Nel frattempo lei era uscita da dietro il bancone del bar per andargli incontro. Gli si avvicinò con le braccia a penzoloni lungo i fianchi. Giunta di fronte a lui alzò una mano come per fargli una carezza. Lo schiaffo lo colpì come una frustata. Lui sbattè gli occhi ma rimase immobile.

«Questo per aver fatto tutto quello che cazzo hai voluto senza farmi sapere niente. È vero, ho intenzione di sposarmi, coglione… ma con te!… Ma solo quando lo deciderò io».

Senza preavviso, con la mano destra gli strizzò i genitali, facen-dolo impallidire e lasciandolo senza fiato, poi, a sorpresa, lo baciò insinuandogli la lingua in bocca, provocandogli un effetto esplo-sivo. Lui rispose al bacio, ed affannosamente le chiese quando avrebbe staccato dal lavoro. «Adesso, stronzo!». Poi lo prese per mano e si avviarono verso l’uscita del locale.

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2. Renzo Sanniti

Torino, inizio ottobre.

La sveglia suonò, come tutte le mattine, alle sette. Renzo Sanniti aveva il sonno leggero. Al primo squillo aveva già dato la solita zam-pata ed il trillo si era interrotto all’istante. Si girò verso di lei, ma, come sempre, la sua giovane e bellissima moglie non aveva fatto una piega. Aveva continuato a dormire russando in maniera som-messa, quasi impercettibile. Renzo, un bell’uomo di quarantatre anni, spalle larghe e fisico asciutto, aveva una moglie di tredici anni più giovane. La guardò a lungo con il solito sentimento di amore e di frustrazione, per non essere, dopo tre anni di matrimonio, ancora riuscito a darle la vita agiata che agognava per entrambi.

Si alzò di malavoglia. Senza entusiasmo si preparò una tazza di latte e mangiucchiò qualche biscotto. Preparò anche una caffettiera per quando la moglie si fosse alzata. Lei lavorava come commessa in un lussuoso negozio di pelletterie in via Lagrange, in pieno centro città, e li la giornata lavorativa iniziava alle nove e trenta. Si fece una doccia, si vestì e si avviò verso la sua zona di lavoro. Faceva il rappresentante di materiali per l’edilizia, ma l’edilizia era in forte crisi, ed il suo lavoro ne risentiva parecchio. Quasi tutta la mattinata trascorse in sterili chiacchiere con i suoi clienti, che non portarono il benché minimo risultato. Il pomeriggio non dava segni di essere molto migliore della inutile mattinata appena trascorsa. Cercava di vendere i suoi prodotti a clienti riottosi e per nulla invogliati ad acqui-stare. Anche il suo atteggiamento rassegnato e un po’ distaccato non migliorava certo la situazione. Pareva quasi che a lui vendere o non vendere non interessasse più di tanto, ma il vero problema era che lui non riusciva più a trovare le motivazioni giuste per farlo. Il cielo

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plumbeo e la leggera nebbiolina che il sole stentato di inizio ottobre non cercava nemmeno di sciogliere, di certo non aiutava né il suo umore né i suoi affari. Pensieri piuttosto foschi si affollavano nella sua mente. Sentiva una sorta di rabbia impotente ed un sentimento di rancore verso tutto e tutti montava sempre di più dentro di lui.

Ad un certo punto, come sempre succede in presenza di indeci-sioni altalenanti covate a lungo, troppo a lungo, egli esplose in un silenzioso ma non meno potente accesso d’ira. Si disse: “Basta, non né posso più di continuare questa vita da coglione “eh, che cazzo!

Cercò nella tasca del soprabito che aveva visto giorni migliori e che avrebbe dovuto indossare anche più in là perché prevedeva di non poter affrontare la spesa di un cappotto nuovo. Scavando alla cieca nella tasca, trovò il suo cellulare, un modello molto superato, sia perché non era molto interessato alle novità tecnologiche sia per le solite ragioni economiche. Sperò che non gli avessero già staccato la linea, visto che era in ritardo con il pagamento dell’ab-bonamento. Questo avrebbe alzato la sua pressione arteriosa a livelli preoccupanti e l’avrebbe gettato nel più profondo scon-forto. Digitò il numero internazionale, mentre pensava a quanto gli sarebbe costata quella chiamata. Ma un’altra parte del suo cervello diceva: «Stacchino pure tutte le linee che vogliono, ma dopo questa chiamata non sarà più un problema!». Per alcuni interminabili secondi l’apparecchio resto desolatamente muto. Poi, improvvi-samente, il cellulare ritornò in vita, emise una serie di scariche ed emerse limpido il segnale di linea libera. Dall’altra parte del mondo, in un mondo a lui sconosciuto, ma che sarebbe diventato a breve il suo mondo, fatto di agi e di successo, si sentì rispondere. «Que pasa?» (Che succede?)

«Sono Renzo Sanniti, ho finalmente preso la mia decisione…». Fu bruscamente interrotto.

«Bueno, ci faremo sentire noi, adios!».Click.Silenzio.“Stronzi – pensò – vaffanculo, stronzi”.La linea ritornò immediatamente muta, con la differenza che

l’amo era stato gettato, il contatto stabilito. La speranza sfociata

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24 James Bernard Lambertini, Lupi contro agnelli e altri racconti

in quella telefonata fatta di getto, era stata sostituita dalla soddi-sfazione per la decisione finalmente presa, dal consenso ottenuto, seppure in tono brusco e irritante, e soprattutto da tutti gli enormi benefici, tutti di carattere economico, che ne sarebbero derivati. Con la propria coscienza avrebbe fatto i conti più avanti, soprat-tutto quando avesse un po’ calmato l’endemica fame di denaro che da tanto tempo lo divorava. Sorridendo malignamente si ricordò di un proverbio indiano che diceva approssimativamente: la coscienza è un triangolo con le punte aguzze che ruota dentro di noi, a contatto con la nostra anima, graffiandola quando si com-mettono cattive azioni; ma un indigeno un po’ più furbo degli altri aveva completato con: ma le punte del triangolo, a forza di ruo-tare si smussano fino a non fare più tanto male…! Gli venne in mente che quella giornata iniziata con un senso di sconfitta, stava finendo insperatamente in un meraviglioso stato di grazia che annullava totalmente la precedente angoscia, che oramai la faceva da padrona da troppo tempo. Un po’ di tempo prima si era imbat-tuto in un tizio benvestito, che aveva conosciuto in un bar dove si era fermato per un panino. Non aveva voglia di cenare da solo nel suo angusto appartamentino in affitto, visto che quella sera la moglie era uscita per festeggiare il compleanno di un’amica. Il tizio aveva attaccato bottone con lui. Con zero voglia di starlo a sentire, ma che vuole , questo… di primo acchito lo aveva trovato un po’ invadente. Stava cominciando ad architettare una strategia finaliz-zata a toglierselo di torno quando, suo malgrado, si era ritrovato ad ascoltarlo con un certo interesse. Quel tizio, gli fu chiaro solo successivamente, era un reclutatore, un incaricato di una qualche organizzazione malavitosa. Un cane da tartufi alla ricerca di dispe-rati disposti a qualunque cosa o quasi per sbarcare il lunario. Quel tizio asseriva che i “perdenti” hanno le stesse possibilità degli altri di avere successo, basta che si rendano conto dei propri limiti e delle proprie attitudini. Ma soprattutto devono rendersi conto che potranno avere successo solo se capiranno qual è il loro naturale campo d’azione. Un camionista, diceva, con tutto il rispetto per i camionisti, non potrebbe mai fare il violinista o il professore di lettere alla “Normale” di Pisa. Lo sconosciuto andava dicendo

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al Sanniti che a lui era capitato proprio così. Un giorno era stato abbordato da un elegante personaggio che gli aveva fatto capire cosa poteva fare per dare una svolta alla propria vita. «Ed eccomi qui, disse con un certo orgoglio. In un baleno sono passato da una squallida e stentata esistenza alla possibilità di avere bei vestiti ed un conto in banca che sta crescendo a vista d’occhio. Sto acqui-stando una casa tutta per me e comincio finalmente a godermela! Certo, qualche compromesso con la tua coscienza lo devi accet-tare… però…».

Renzo Sanniti avrebbe voluto approfondire subito l’argomento, ma l’altro lo fermò: «Senti, ti do un consiglio che farai bene a seguire: dormici su e cerca di capire se sei veramente disposto a cambiare radicalmente direzione. Quello che sto cercando di farti capire è che, se decidi di seguire questa linea, lo farai sapendo che non ti sarà più possibile tornare indietro. Mai più!». E non disse altro.

Si salutarono dandosi appuntamento alla settimana succes-siva. Si rividero e, Sanniti, per l’ansia di sapere, quasi dimenticò di salutare il suo interlocutore. Iniziò a tempestarlo di domande, ma l’altro, con un gesto eloquente della mano, lo fermò.

«Sediamoci in un bar, ecco uno che può fare al caso nostro mettia-moci comodi in un angolino tranquillo e chiacchieriamo»

«Non ti svelerò ancora il mio nome, per evidenti ragioni di sicu-rezza, gli disse l’uomo, ma ti metterò al corrente di cosa si tratta». Renzo Sanniti era al culmine della curiosità, ma si trattenne dal fare altre domande.

«Secondo te, In cosa consiste il mio lavoro?», gli chiese all’im-provviso l’uomo.

Sanniti non era uno stupido: «Posso presumere che lavori per una qualche organizzazione con il compito di ampliarla… in qual-che modo», disse. Pensa davvero che io sia così sprovveduto?

«Bravissimo – disse sorridendo l’uomo – hai risposto da solo alla metà della domande che probabilmente volevi farmi! Il tuo lavoro sarà lo stesso»

«Ho capito, azzardò Renzo, che invece non aveva ancora del tutto chiara la situazione, sei dentro qualche mafia, camorra o…»

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«Niente di tutto questo, gli rispose l’altro: è un’organizzazione totalmente indipendente e diversa da qualsiasi tipo di mafia».

E lo mise al corrente dell’attività dell’“azienda”.«Pensaci su tutto il tempo che vuoi, ma ti ripeto: non si ritorna

indietro. I guadagni sono altissimi, ma niente ripensamenti, se non vuoi essere la prima notizia del telegiornale delle venti. Meglio spa-ventarlo un pò; vediamo se ha fegato. Se e quando deciderai, devi telefonare a questo numero in Ecuador e dire semplicemente: ho deciso! Ti richiameranno loro e ti daranno istruzioni su cosa fare. Un’ultima cosa: se ti venisse in mente di fare qualche scherzo, ti avverto: il numero che ti dò non porta da nessuna parte, se non a grossi guai per te, nel malaugurato caso volessi giocare qualche scherzo. Penso che tu tenga parecchio a quel tenero fiorellino con cui ti addormenti la sera, giusto?».

«Non ti preoccupare, bastardo non ho alcuna intenzione di aggiungere altri guai a quelli che ho già!».

Si strinsero la mano e si accomiatarono.Renzo Sanniti trascorse un paio di notti girandosi e rigirandosi

nel letto, dormendo male e facendo strani sogni, fin che la moglie non si accorse della sua agitazione. Sdraiati a letto, lui con gli occhi spalancati, lei gli chiese se dipendesse dal lavoro. Lui rispose: «In un certo senso…»; come glielo dico? stette un momento in silen-zio, poi fece un sospiro profondo. Non le nascondeva mai nulla, convinto che fra marito e moglie che si amano non ci debbano essere segreti.

Le raccontò tutto. La mise al corrente fin nei minimi particolari. Lei lo guardò per un interminabile momento, senza dire nulla. La sua espressione si fece via via più intensa. Poi, prendendogli il viso tra le mani, gli disse dolcemente, guardandolo negli occhi: «Quale che sia la tua decisione, io sto con te, sempre e per sempre!». Lui la baciò dolcemente e le disse semplicemente, abbracciandola stretta: «Grazie». Era buio ed erano a letto. Lei non se ne accorse, o forse si ma Renzo aveva gli occhi umidi per la gratitudine. saprò ricompen-sarti, riuscirò a darti la vita felice che meriti. Lo giuro!

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3. Il preventivo

Torino, ottobre inoltrato.

La nebbia era fitta, faceva freddo, un freddo umido che penetrava in profondità nelle ossa e che era arrivato con oltre un mese in anti-cipo. La temperatura era precipitata da oltre trentacinque gradi a meno di dieci, disorientando alquanto il termometro biologico della gente. Anche a quell’ora, erano le due del pomeriggio di un autunno precoce, il freddo e la nebbia facevano si che il traffico incessante della città fosse costituito esclusivamente da gente che, per un motivo o per l’altro non poteva evitare di stare in giro, ma che avrebbe preferito starsene in casa al calduccio. Dome-nico Gigliotti, “Giglio” per amici e conoscenti, un bel ragazzo di trentacinque anni, capelli ricci e folti, occhi scuri come i capelli e bei lineamenti mediterranei, impresario edile di belle speranze, tanti progetti e pochi soldi in tasca, si avviò di malavoglia al suo appuntamento. Il giorno prima si era imbattuto in un tipo un po’ eccentrico che era entrato nel cantiere dove stava costruendo una palazzina di tre piani. Il tizio aveva attaccato discorso chiedendogli se si occupasse anche di ristrutturazioni di stabili d’epoca. Giglio gli aveva risposto: certamente! con subitaneo interesse, soprattutto perché le ristrutturazioni erano quasi sempre fra i lavori più red-ditizi, e di lavori redditizi ultimamente ne capitavano pochi. Il suo interlocutore gli chiese se fosse disponibile a fare un sopralluogo per rendersi conto dei lavori da eseguire e Giglio accettò di buon grado. Per non sembrare ansioso di vedere di che cosa si trattasse, fece un po’ il prezioso.«Lei mi deve lasciare qualche giorno di tempo in modo che possa organizzarmi», sono molto preso, spero che tu ci creda…

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«Mi lasci un suo recapito telefonico, mi farò vivo io appena possi-bile – disse Giglio cercando di assumere un’aria molto indaffarata – Oggi è venerdì – bofonchiò come se pensasse a voce alta – Penso che per metà della prossima settimana potremo senz’altro vederci», buttò lì, sperando di non avere esagerato a dilazionare i tempi.

Il martedì della settimana successiva telefonò per confermare l’appuntamento per il pomeriggio del giorno dopo e per farsi dare l’indirizzo. Non dirmi che ci hai ripensato, ti prego!

Dopo un frugale pranzo a base di panini, consumato in cantiere insieme ai due operai rumeni che costituivano la sua forza lavoro, si accomiatò raccomandando ai due di non litigare e di fare quanto gli era stato ordinato. I due annuirono mugugnando qualcosa nella loro lingua che lui non capì. Mentre sperava di non essere stato mandato a quel paese si avviò ed uscì dal cancello sghembo e tra-ballante che delimitava il cantiere. Cercò brevemente l’indirizzo dello stabile da ristrutturare, che, se ben ricordava era in Barriera di Milano, una zona popolare di anonimi casermoni, una specie di quartiere dormitorio per operai ed immigrati. Torino cominciava ad assomigliare sempre di più ad una città cosmopolita e multi-razziale. Non gli piaceva per niente, quella zona, ma tant’è … E poi giravano voci non molto rassicuranti. Pareva infatti che vi si praticassero certi riti di presunta magia… bianca… o nera, non ne capiva molto di quella roba , e non si ricordava bene. Questi riti – dalle voci che gli erano arrivate – venivano organizzati nelle fon-damenta e negli scantinati di stabili fatiscenti ed in rovina, forse proprio come quello verso il quale si stava dirigendo. Comunque, oramai era incuriosito riguardo al lavoro che gli avevano prospet-tato, di cui comunque aveva bisogno; si strinse quindi nelle spalle e si accinse ad entrare al numero civico che gli avevano indicato. Era un ingresso carraio molto ampio e senza portone. Ai lati, a delimitare il passaggio, due alte colonne in cemento, con alla base due sfere di granito che nei tempi andati servivano a far sì che le ruote dei carri non graffiassero le colonne. Si trattava di un vec-chio complesso industriale dove si poteva entrare con autocarri e furgoni. Un ampio vialone a forma di anello, che visto dall’alto

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poteva ricordare la pista di atletica intorno ad un campo di calcio; all’interno dell’anello un corpo centrale di edifici fra loro confi-nanti, a formare un unico palazzone con tanti ambienti di varie metrature divisi da pareti, risultato di un frazionamento succes-sivo alla dismissione del fabbricato di un’antica filanda, attività ormai chiusa da decenni. All’esterno del viale ad anello un’altra serie di costruzioni suddivise in spazi divisi da tramezzi, con una porta d’ingresso protetta da una inferriata e una porta di servi-zio sul retro per il rifornimento di materie prime. Tutte queste costruzioni erano in mattoni oramai anneriti dal tempo e dall’in-quinamento, cosa questa che denunciava l’epoca di costruzione del complesso risalente agli anni venti del ‘900. Giglio si guardò intorno per un lungo momento, per assimilare il luogo inconsueto e per capire dove dovesse dirigersi. Poi si ricordò di una indica-zione che il suo interlocutore gli aveva dato. Girando lo sguardo verso destra vide la tipica fontanella torinese a forma di testa di toro e dipinta di verde, e si accorse solo in quel momento di un uomo sulla soglia di quello che sembrava l’ingresso di un magaz-zino. L’uomo, evidentemente convinto di aver visto la persona che stava aspettando, gli stava facendo ampi gesti con le braccia per attirare la sua attenzione. Giglio vide un uomo non molto alto, dalla corporatura esile, che gli sorrideva in maniera accattivante. Non era la persona che lo aveva cercato in cantiere. Diffidente per natura, ma tutto sommato rassicurato dall’atteggiamento di quell’uomo, si incamminò verso di lui. torna indietro, dammi ascolto, lascia perdere! Ma cosa vuoi che succeda? Lasciami in pace!

L’uomo sulla porta gli andò incontro, gli si avvicinò fino a strin-gergli la mano, e con una voce molto profonda, che Giglio non si sarebbe aspettato da un tizio così mingherlino:

«Buongiorno, sono Ugo Danzi. Il signor Renzo Sanniti, che lei ha già conosciuto nel suo cantiere è un mio collaboratore»

«Piacere», disse Giglio cercando di non cacciare un grido di dolore porcaputtanachemale! per quella stretta di mano da tritacarne.

«Ha trovato facilmente? Sa, chi non è pratico della zona in questo dedalo di vecchie costruzioni può perdersi con una certa facilità».

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Giglio, mentre si riprendeva dal dolore per le ossa della mano destra messe a dura prova, lo rassicurò spiegando che era abituato, per lavoro, a trovare gli indirizzi più strani. A volte i suoi clienti gli davano l’indirizzo di un prato dove sarebbe dovuto in futuro nascere una villetta oppure un condominio, ma dove, al momento, c’era solo un prato. Danzi andò subito al sodo, facendo denotare una certa attitudine al comando ed un carattere alquanto decisioni-sta. Giglio avrebbe scoperto molto presto quanto quella dote fosse destinata a mutare il corso della sua esistenza.

«Venga, le faccio vedere il lavoro che c’è da fare», disse Ugo Danzi. Entrarono in un salone immenso con un altissimo soffitto a volta, in mattoni a vista, dove, sopra un terrapieno, poggiato su due binari c’era un vero vagone ferroviario. Evidentemente tutto l’ambiente era in fase di ristrutturazione. Intorno al vagone si affac-cendavano alcune persone, probabilmente architetti, che davano istruzioni ad una squadra di operai intenti a tagliare, saldare e piegare lamiere. Giglio, incuriosito, stava per rivolgere alcune domande riguardo all’attività che ferveva intorno al vagone, ma Danzi non gliene diede il tempo. Seguendo il padrone di casa, Giglio percorse una trentina di metri lungo il salone. Affiancati, iniziarono a scendere i gradini di una scala in pietra, fino ad arri-vare in un locale interrato che Giglio valutò essere non meno di nove o dieci metri sotto terra, la qual cosa gli procurò un brivido involontario. Il locale era fiocamente illuminato da una lampadina che emetteva una inquietante luce rossastra, che non fece altro che aumentare la sensazione di disagio che Giglio già provava in pre-cedenza. Si diede mentalmente dello stupido, soprattutto quando il Danzi gli chiese quando poteva essere disponibile ad iniziare i lavori di sgombero delle macerie di una parte del soffitto recen-temente crollato, ed indicandoglielo con la mano, gli chiese che tempi avrebbe richiesto la ricostruzione dello stesso. Il consolida-mento di altri locali che intendeva mostrargli avrebbe fatto parte dell’incarico che Danzi gli avrebbe affidato, sempre che il preven-tivo di spesa non si rivelasse superiore alle aspettative. Procedendo nella ricognizione dei locali di cui avrebbe dovuto preventivare la spesa, Giglio finì con il sentirsi rinfrancato, cosicché la sensazione

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negativa provata poc’anzi andò progressivamente riducendosi. Diligentemente, Giglio prese nota sul suo quadernetto dell’entità dei lavori da eseguire, rassicurò il suo interlocutore che nell’arco di pochi giorni gli avrebbe fatto conoscere la cifra da spendere. Si diedero appuntamento per il venerdì successivo, alla stessa ora. Andandosene, Giglio rimuginava sullo svolgersi dell’incontro, mentre rifaceva capolino lo strano pensiero che in tutto ciò c’era qualcosa che stonava. Per l’ennesima volta si diede dello stupido. smettila, idiota, cominci a vedere i fantasmi, adesso? Si disse che se avesse voluto lavorare solo per le persone che lo convincevano pienamente sarebbe morto di fame, e quindi che si facesse furbo una volta per tutte e per cortesia non si comportasse più come una donnicciola timorosa della propria verginità. I pochi giorni con-cordati per rivedersi trascorsero in un lampo, impegnato com’era fra il cantiere, i due operai rumeni sempre in guerra tra loro, e le lotte con il direttore della banca, più che mai deciso a non conce-dere più dilazioni sulle rate in ritardo del finanziamento ottenuto l’anno prima. Il venerdì pomeriggio, puntuale, si presentò all’ap-puntamento con il Danzi, sperando di non aver fatto un viaggio a vuoto, come purtroppo ogni tanto gli capitava. Appena varcate le colonne davanti alla vecchia costruzione lo vide sorridente ad aspettarlo sulla soglia del locale. Danzi lo salutò calorosamente, e che, suo fratello sono? persino troppo, percepì la natura sospettosa di Giglio; tutto sommato non era né un amico né tantomeno un suo famigliare, ma solo uno a cui doveva sistemare i locali disastrati.

«Le ho portato il preventivo», annunciò Giglio con tono volu-tamente distaccato, come se l’altro non immaginasse già il motivo della visita.

«Ah, benissimo – rispose Danzi – Venga, me lo illustrerà sul luogo, così mi renderò conto più facilmente di quello che intende fare».

Giglio trovò la richiesta un po’ strana, dal momento che non era passato molto tempo da quando avevano visionato i locali da risi-stemare, ma, stringendosi nelle spalle, acconsentì. In cima alla scala che dava nel seminterrato, Danzi lo invitò a precederlo: «Oramai – disse – conosce la strada». Iniziarono a scendere i gradini di pietra,

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Giglio davanti e Danzi al seguito. Arrivati in fondo alla scala si fer-marono. In un angolo, appoggiato ad una parete, c’era un vecchio tavolo sgangherato le cui gambe sembravano reggerlo a fatica.

Sulla superficie scrostata del tavolo Giglio appoggiò gli schemi che aveva portato per valutare insieme al Danzi l’entità dei lavori da eseguire ed il relativo prezzo. Dopo una dettagliata spiegazione ed un più che normale tira e molla sull’ultimo prezzo, si accorda-rono, con notevole soddisfazione di Giglio, che in base all’accordo avrebbe incassato un congruo acconto a fronte dello sconto con-cesso. Decisamente soddisfatto per l’esito della trattativa, Giglio si mosse per iniziare a risalire la scala che portava al piano terra, quando Danzi propose una bevuta per festeggiare l’accordo.

«Mi aspetti un attimo, faccio un salto in cantina a prendere una bottiglia di Brachetto e torno».

Giglio già si immaginava il bruciore allo stomaco che lo avrebbe perseguitato fino a sera, minchia, pure la bevuta fuori programma. Che palle! dal momento che era astemio, ma si guardò bene dal rifiutare, per non indisporre il suo cliente, il quale, tra l’altro, dopo il brindisi avrebbe messo mano al libretto degli assegni. Mentre attendeva Danzi, Giglio si guardò intorno distrattamente, come sempre succede quando si aspetta, e cioè senza notare nulla di par-ticolare. Gli sembrò di sentire per un attimo un tenue lamento, quasi un sospiro tremante, ma subito dopo pensò di esserlo imma-ginato. Danzi arrivò con la bottiglia di vino, la stappò con fare da esperto e riempì due bicchieri, per la verità non troppo puliti. Giglio fece buon viso a cattivo gioco, disse “alla salute” e bevve. Il vino, di ottima qualità, scese nello stomaco riscaldandolo, e lui si sentì bene. Ma solo per pochi secondi. Quasi subito gli si anneb-biò la vista. Si stropicciò gli occhi, pensando che la stanchezza e lo stress gli stavano giocando un brutto scherzo. La figura di Danzi gli sembrava sempre più distorta, informe, bassa e schiacciata. Senti un forte ronzio negli orecchi e una vampata di calore, e senza accor-gersene si afflosciò come un sacco vuoto. Fu sostenuto da Danzi, che evitò così che sbattesse malamente la faccia sul pavimento.

«Uff, ma quanto pesa questo fessacchiotto», sbuffo Danzi pren-dendolo al volo sotto le ascelle.

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Il sottosuolo di Torino è un vero e proprio labirinto di galle-rie, spesso collegate fra loro. Nei secoli, esse sono state oggetto di innumerevoli cambiamenti per opera della natura, mediante crolli ed inondazioni, e dell’uomo, che le ha modificate a suo pia-cimento innumerevoli volte. A seconda del periodo storico, sono diventate via via rifugio di perseguitati politici, nascondiglio più o meno temporaneo di diverse specie di malviventi, magazzini di merci assolutamente normali o del tutto fuorilegge e, nel tempo, trasformate per servire agli scopi più diversi.

Per questi motivi, in periodi diversi, sono state chiuse alcune gallerie, aperte altre, tanto che, cunicoli senza sbocchi, demolendo pareti intermedie e collegandole ad altre gallerie, sono diventati budelli lunghissimi e noti solo a chi li aveva modificati. Alcuni, in origine corridoi di collegamento, sono stati in seguito adibiti a pic-cole celle delimitate da pareti, con davanti una robusta porta di ferro con un minuscolo spioncino. Chi aveva progettato e poi rea-lizzato questi ambienti aveva evidentemente nozioni approfondite di acustica, perché a distanza di pochi metri dalla porta d’ingresso di ogni singola cella non si udiva praticamente nulla di quanto vi avveniva all’interno, anche se l’eventuale inquilino della suddetta cella si fosse messo a gridare od a imprecare.

Le otto giovani donne rinchiuse all’interno di altrettante celle anguste ed umide, non avevano più nulla della grinta e della fiera bellezza che le contraddistingueva al momento della loro cattura. Dopo una serie molto convincente di interventi tesi a far desistere le sciagurate da ogni tentativo di fuga o di ribellione, come iniezioni di sedativi, minacce di ogni tipo, e per le più riottose una buona dose di percosse con appositi sacchetti di sabbia, trattamento doloroso ma che non lascia segni, per non rovinare la merce, erano giunte a più miti consigli e, rassegnate, attendevano terrorizzate di conoscere cosa avrebbe loro riservato la sorte.

Tipica bellezza sudamericana, con un’espressione fiera e volitiva nei grandi occhi neri, centosettanta centimetri di fisico snello e curve mozzafiato, Lupe Morales era arrivata a Torino otto anni prima, emigrata da un Messico che non aveva più nulla da offrire se

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non entrare nel giro della droga, degli omicidi su commissione o, se eri molto fortunata o troppo onesta per fare altre cosa, andare a fare la lavapiatti in uno di quei ristoranti di lusso per signori della droga o del traffico d’armi, per quattro pesos e le briciole che cadevano accidentalmente dalle tavole riccamente imbandite.

A meno che non fossi di larghe vedute e ti piacesse la vita comoda e decidessi di fare la prostituta mmh, mestiere alquanto pericoloso!, considerando comunque che la concorrenza era molta ed agguerrita, e continuamente alimentata da nuovi arrivi, pratica-mente sempre più giovani di te.

Alla veneranda età di trentadue anni, Lupe aveva cambiato un’infinità di posti di lavoro. Non riusciva a tenersi un’occupazione per più di qualche mese, pur essendo molto precisa, scrupolosa, responsabile ed onesta. Ecco, quello era il punto: onesta.

Era talmente seria e onesta che quando, e succedeva invariabil-mente, un suo superiore decideva che era venuto il momento di farsi questo gran pezzo di figliola, alla prima mano sul sedere, partiva uno schiaffo da togliere il fiato Yo te mato, cabron! o, in alternativa, una ginocchiata in direzione dei gioielli di famiglia del malcapitato, cosa che aveva l’effetto immediato di far passare ogni velleità all’autore dello sconsiderato tentativo. Queste dimostrazioni di scarso apprez-zamento nelle iniziative maschili erano seguite immediatamente da un’occhiata di fuoco da parte della sconsiderata ragazza, occhiate che non era possibile fraintendere. Il tempo di riprendersi dalla robusta dimostrazione di disappunto dell’interessata, ed inevitabil-mente arrivava il: fuori di qui! Sei licenziata. Cercati un altro lavoro, ingrata, dopo tutto quello che ho fatto per te… Lupe rimaneva ogni volta stupita della sua scarsa memoria; eppure non riusciva a ricor-darsi di cosa avesse fatto per lei il cabron di turno per meritare la sua riconoscenza, se non cercare di palpargli il culo e non solamente quello. Madre de Dios, los hombres!

Da qualche mese lavorava come stiratrice alla sartoria Sanfi-lippo, un laboratorio artigiano che rifiniva capi di abbigliamento, applicava i bottoni e stirava il tutto per i grandi nomi dell’alta moda internazionale. Tutto le piaceva di quella sistemazione: il lavoro, anche se modesto, le colleghe, una dozzina circa, l’ambiente

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allegro e, miracolo, il principale: un vero gentiluomo! Anche un bel ragazzo, tra l’altro; sui trentacinque, alto, lisci capelli neri sul lungo, due occhi verdi che ti incantavano, beh, un peccatuccio ce lo farei! insomma, una meraviglia, da perderci la testa.

Ma lei stava ben sul chi vive. Alla luce delle passate esperienze, stava molto attenta a non lasciarsi andare a facili fantasie che le sarebbero potuto costare care.

Ma per lei il destino aveva deciso altrimenti. Un pomeriggio, quasi all’ora di chiusura, il signor Sanfilippo in persona le chiese se poteva fermarsi una mezz’oretta per finire di stirare alcuni capi che il cliente voleva ritirare il mattino dopo. Lei non vedeva l’ora oh no, por favor che venisse l’orario di chiusura per andarsene a casa. Aveva un mal di testa monumentale e poi non le piaceva fermarsi da sola dopo che le colleghe se ne erano andate. Ma come poteva dire di no al titolare che per una volta le chiedeva una cortesia, che oltretutto le sarebbe stata retribuita.

Si diede della stupida per quel suo modo di essere sempre sul chi vive, fidarsi è bene, ma non fidarsi…

“Ci saranno pure delle persone per bene sulla faccia di questo schifo di mondo!”

«D’accordo, signor Sanfilippo, le basta mezz’ora o vuole che mi fermi di più?».

A quel punto, tanto valeva far bella figura fino in fondo. «Mezz’ora sarà più che sufficiente. Grazie di cuore, signorina».

Giunta l’ora di chiusura, le colleghe si affrettarono a filarsela il più in fretta possibile, non senza, ognuna di loro, fare battutine tipo: «Vuoi fare carriera, neh?»; «Vuoi rimanere sola con il princi-pale, neh?». A quelle battute, dette comunque con simpatia verso di lei, Lupe rispondeva con un timido sorriso, preoccupata di fare più in fretta e meglio che poteva il lavoro che le era stato richiesto e andarsene di filato a casa. Mentre lavorava alacremente, le si avvi-cinò il signor Sanfilippo per chiederle a che punto fosse.

«Hai un’aria sofferente, non ti senti bene?», le chiese gentil-mente, passando al tu, cosa che Lupe non gradì affatto, mmh, ci sta provando?

«Ho un po’ di mal di testa….» minimizzò lei.

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«Nel cassetto della mia scrivania ho diversi tipi di farmaci per le cefalee. Soffro molto anch’io di emicranie e non resto mai senza analgesici. Senti, vado a prenderti una pillola, e una la prendo anch’io. Cosa preferisci? Un Moment, una Cibalgina e ho anche qualcosa d’altro di cui adesso non ricordo il nome». Lupe rimase per un momento a chiedersi se facesse bene ad accettare un qualsi-asi farmaco, ma ormai non c’era via d’uscita: doveva accettare.

«Un Moment andrà benissimo», disse con decisione; conosceva bene le confezioni di quel farmaco, e non avrebbe corso il rischio di accettare qualcosa di sconosciuto.

“Mah, speriamo che… uff, smettila stupida”Accettò la pillola che uscì dalla scatola che conosceva bene,

ora molto meno preoccupata. La confezione era integra, il blister intatto; era la prima pillola che usciva da quella confezione sigillata. Inghiottì il farmaco, e non si accorse che il Sanfilippo non prese nulla. Dopo un po’ iniziò a sentirsi meglio, molto meglio.

Non fece a tempo a finire di pensare: “Meno male, mi sta pas-sando…” che si afflosciò lentamente su se stessa, prontamente sostenuta dal signor Sanfilippo, che sorrideva dolcemente. “Vin-cenzo è veramente un artista! Come confeziona lui i blister… è veramente un maestro. Non c’è differenza dagli originali! “pensò soddisfatto il signor Sanfilippo.

Domenico Gigliotti si stropicciò gli occhi, pensando che lo stress e la stanchezza giocavano brutti scherzi. Vedeva infatti che più Ugo Danzi si avvicinava, più la figura gli sembrava distorta, bassa ed irreale.

«Buongiorno – esordì gioviale Danzi – anzi direi buonasera, visto che sono quasi le diciannove».

Domenico lo guardò stranito, poi si guardò intorno confuso; non riusciva a mettere bene a fuoco le immagini. Si sfregò gli occhi ripetutamente perché gli sembrava di avere sotto le palpebre della sabbia che gli impediva di vedere bene.

Era sdraiato su un divano di cuoio, in una confortevole e spa-ziosa stanza con pochi mobili ma di ottima fattura, tutti in legno massiccio. L’arredamento si componeva infatti di una imponente scrivania, di una sedia da ufficio, un mobile basso a quattro sportelli

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in stile barocco, ed un mobile gemello ma più alto, con appoggiata sopra una vetrina con vetri a cattedrale; il tutto dava alla stanza un’aria di classe senza essere sfarzosa. Tutti i mobili erano fine-mente lavorati ed in noce nazionale. Mano a mano che si riprendeva dagli effetti del vino drogato che gli avevano fatto bere, “Giglio” si guardava intorno meravigliato. Ugo Danzi lo rassicurò:

«Stia tranquillo, è un effetto che passa in fretta; evidentemente lei non regge molto il vino…», e ridacchiò alla sua battuta, che evi-dentemente divertiva solo lui. Poi, in un attimo, l’espressione del viso cambiò radicalmente.

«Bene: fine della ricreazione! – disse in un tono duro che non lasciava presagire nulla di buono – signor Gigliotti, o preferisce che la chiami “Giglio”? Tutto sommato, dato il suo candore e la sua ingenuità, mi sembra che questo soprannome le calzi piuttosto bene. Lei in questo momento è evidentemente in stato confusio-nale, ed io ho il compito di chiarirle le idee riguardo al suo ruolo presso di noi. Lei, che le piaccia o no, è di fatto nostro “ospite”, e questa stanza sarà il suo ufficio fino a che noi avremo bisogno di lei. Si chiederà perché non le abbiamo semplicemente chiesto di lavorare per noi. Bene, cercherò di spiegarglielo. Lei ha già avuto modo di visionare la costruzione: che cosa ha visto?, un dedalo infi-nito di gallerie senza capo né coda, mal sfruttate ed estremamente dispersive. In precedenza abbiamo affidato ad un’altra persona, evidentemente meno preparata di lei, lo stesso compito che ora pensiamo di darle. In quell’occasione i risultati sono stati disastrosi. Quello che vogliamo è che lei valuti attentamente il settore di galle-rie regolarmente richieste ed ufficialmente assegnateci dal comune di Torino, con la motivazione di valorizzare le storiche fondamenta della città. Ovviamente, gli integerrimi funzionari del Comune sono e devono rimanere all’oscuro della nostra vera attività. Lei deve riprogettarne la disposizione, in modo da evitare l’attuale scarsa funzionalità e farle diventare una zona totalmente operativa sotto tutti i punti di vista. Più i risultati saranno all’altezza e più riusciremo ad assicurare una soddisfacente permanenza alle nostre “ospiti” fino a che non raggiungeranno la loro destinazione defini-tiva, presso le sistemazioni per loro previste. Come dicevo prima, il

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suo predecessore non aveva i requisiti necessari al successo dell’im-presa, o forse noi non siamo stati sufficientemente convincenti, e le poche pareti divisorie costruite sono crollate miseramente alla prima vibrazione sotterranea. Ma soprattutto, questo sprovveduto signore, ha cercato di rendere pubblica la nostra piccola “atti-vità”. In aggiunta è anche riuscito a rubarci una grossa somma di denaro, denaro che avevamo messo a sua disposizione perché fosse utilizzato per i necessari acquisti di materiali. Lei capirà che non potevamo permettergli di avvertire nessuno, ma proprio nessuno, e tanto meno le forze dell’ordine! E altrettanto sicuramente non intendevamo farci sottrarre una montaga di denaro, denaro nostro, comprende?».

D’un tratto fu tutto molto chiaro per Domenico Gigliotti detto “Giglio”. Era caduto nelle mani di una feroce organizzazione cri-minale, dedita al commercio di esseri umani, rapiti per gli utilizzi più abbietti e spietati, che sicuramente non escludevano nemmeno il commercio di organi.

“È vero, sono proprio un fesso, anzi, un idiota!”.Un’espressione di assoluto disprezzo distorse i lineamenti, e d’i-

stinto sputò in faccia al suo interlocutore. Questi, passato l’attimo di sorpresa, divenne paonazzo, si deterse il viso con un fazzoletto, guardò Giglio negli occhi per un lungo momento. io ti uccido Poi sorrise, ma solo con le labbra. Gli occhi rimasero di ghiaccio, e l’e-spressione gli si indurì ancora di più.

«Al momento opportuno pagherà per questo, glielo assicuro. Ora stia zitto e mi ascolti attentamente, e se oserà ancora una sola volta farmi un simile affronto la ucciderò con le mie mani, e prima che lei se ne renda conto», disse con un tono tale da non lasciare alcun dubbio sul fatto che non avrebbe esitato ad attuare quanto asserito.

«La nostra “azienda” potrebbe definirsi “un’impresa di servizi” per i ricchi di tutto il mondo, anche se obbiettivamente debbo riconoscere che i servizi forniti sono di tipo un po’ particolare. Mi spiego meglio: ad un dittatore serve uno squadra di mercenari per rapire alcuni industriali nel mondo allo scopo di richiedere un riscatto e finanziare così il suo personale regime del terrore?

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Bene, noi procuriamo i migliori professionisti del settore. Serve un killer per uccidere un capo dissidente in nord Africa? Pronti, già fatto! Servono alcuni adolescenti, di entrambi i sessi e di bell’a-spetto, richiesti da un ricco emiro arabo per rilassarsi dalle fatiche del potere? Noi avviamo la ricerca, individuiamo i soggetti giusti e recapitiamo la “merce” nei tempi e nei luoghi concordati. Un ricco magnate australiano ha bisogno di un trapianto cardiaco e non può aspettare di essere messo in una lista di attesa che sicuramente è troppo lunga per le sue esigenze? Bene, fra i nostri collaboratori abbiamo i migliori chirurghi a livello mondiale nei più rinomati nosocomi del pianeta. Questi luminari selezioneranno, fra i degenti dell’ospedale dove operano, le persone più compatibili e adatte a “donare” il proprio cuore al magnate australiano. Vede, di esempi potrei fargliene molti altri, ma non voglio annoiarla ulteriormente. Per sua soddisfazione le regalerò ancora un’informazione: come pensa che le persone interessate ai nostri servizi entrino in contatto con noi? Semplicemente tramite i nostri rappresentanti dislocati in tutto il mondo, ovviamente nel mondo che conta. Ambascia-tori, gente a contatto con la finanza internazionale e quindi con grandi imprenditori, le “eminenze grigie” della finanza interna-zionale, hanno il compito di diventare amici di questi potenziali clienti. Sono degli specialisti nell’entrare in confidenza con loro e, se vedono la possibilità, consigliano con tutta la delicatezza possi-bile i nostri servizi. Per concludere: siamo un’impresa commerciale con una struttura di uomini di livello da basso a molto alto, che ci è assolutamente indispensabile; questi soggetti tengono gli occhi bene aperti, ed una volta individuato lo sfortunato oggetto di nostro interesse, lo contattano nel modo più idoneo e ci tengono informati su come procede l’acquisizione dell’oggetto stesso. Quando i tempi sono maturi, interveniamo nella maniera migliore, o sequestrando la vittima, o come nel suo caso invitandola cortesemente a venire dove ci serve che venga. A questo punto le sarà molto chiaro come siamo entrati in contatto con lei. A “Giglio” comparve davanti agli occhi la figura di Renzo Sanniti, il tizio che lo aveva interpellato in cantiere solo alcuni giorni prima. “Dio, non è possibile che stia capitando proprio a me”».

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«Vedo che ha capito – fece Danzi, guardandolo in viso e sor-ridendo – in effetti il Sanniti è un ottimo collaboratore, fedele e preciso nello svolgere i compiti a lui affidati, insomma una persona decisamente indispensabile. Vorrei che fosse chiaro che l’ho infor-mata di chi siamo noi, non per vantarmi, ma perché si convinca che non le conviene tentare in alcun modo di danneggiarci».

«Senta, come ha detto lei, forse io sono un po’ ingenuo, ma non sono completamente stupido: ho capito benissimo che quando avrò finito di svolgere il mio lavoro mi farete sparire».

Ugo Danzi rise di gusto: «Non dica stupidaggini; se non è assolutamente necessario, e solo per non mettere a repentaglio la nostra attività, non facciamo sparire nessuno nel senso che intende lei». Per il momento è meglio che tu ci creda, piccolo insignificante credulone.

E con l’aria di chi sa bene quello che dice, aggiunse: «Caro il mio Giglio, quando lei avrà finito i suoi compiti, e la invito fin da ora a fare del suo meglio, perché una eventuale negligenza da parte sua, quella si che sarebbe pericolosa per lei, bene, dicevo, quando avrà esaurito i suoi doveri verso di noi, faremo in maniera che lei, in modo del tutto indolore non ricordi nulla di quanto le è successo. Più avanti le spiegherò come sarà possibile, ma stia tranquillo, non le verrà torto un capello! Anche perché, se lei è in gamba come io credo e come dà prova di essere ogni giorno nel suo lavoro quoti-diano, potremmo avere ancora bisogno di lei, in futuro».

“Spero proprio di no!”, pensò Giglio; aveva capito che oramai non avrebbe più avuto scampo, se quella banda di delinquenti avesse deciso di servirsi ancora di lui.

«Tra l’altro, mentre lavora per noi – continuò Danzi – avrà la possibilità di continuare la sua normale attività di impresario; le dirò di più, noi l’aiuteremo, in maniera del tutto discreta, a risolvere alcuni problemi di liquidità che le stanno rovinando l’esistenza. Dovrebbe infatti chiamarla il direttore della banca dove lei ha il conto per dirle che ha ricevuto istruzioni di ampliarle il fido esi-stente. E vada ad ordinare una nuova betoniera, che quella vecchia non ce la fa più, prima che un suo operaio rimanga fulminato da un filo scoperto».

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“Giglio” rimase sconcertato da quella tirata, che altro non era che l’ennesima variante del bastone e della carota. Poi, la sua indole onesta ebbe il sopravvento:

«Si tenga i suoi soldi sporchi di sangue, e non cerchi di farmi digerire in alcun modo quelle che non sono altro che grandi por-cherie ed odiosi ed inaccettabili crimini», schifoso bastardo sbottò irosamente “Giglio”.

«Non faccia lo stupido, visto che non lo è – lo rimbecco imme-diatamente Danzi, alzando la voce – Il mondo è fatto così e non sarà con il suo insulso perbenismo che potrà cambiarlo! Anche se lei decidesse di non collaborare, cercheremmo qualcun altro, e sicuramente lo troveremmo, ma a quel punto per lei la situazione si farebbe molto delicata. Ma noi vogliamo lei perché sappiamo che è in gamba, e non solo nella sua professione. Un po’ di sviolinatura a volte serve. Lei non è sposato, ma ha dei genitori anziani e indifesi, una sorella molto più giovane di lei e sono tutti bisognosi del suo aiuto, soprattutto economico; per questo le dico: vuole mettere a repentaglio l’esistenza dei suoi cari, che sappiamo che adora, o pre-ferisce che invece li aiutiamo, sempre tramite lei, a vivere meglio? Ci pensi e vedrà che le conviene essere, almeno per il momento, dalla nostra parte. Noi non siamo né dei filantropi né dei benefat-tori, sia chiaro, ma forse altra gente le avrebbe detto: fai come ti diciamo noi o ti facciamo fuori».

Questo disse Ugo Danzi, senza rendersi conto che tutto som-mato quello che aveva detto pocanzi non era altro che ribadire lo stesso concetto. Per Ugo Danzi l’argomento era esaurito. Stava per alzarsi dalla poltrona dove era seduto, quando dalla porta entrò un uomo piuttosto basso e tozzo, con i tipici lineamenti latino americani.

«Hola Ugo, que tal? Buongiorno, Ugo, come va?», esordì il nuovo venuto.

«Signor Gigliotti, le presento Hector Alvarado, rampollo di una delle più ricche famiglie ecuadoregne e stimatissimo membro della nostra piccola impresa».

Il nuovo venuto trasudava crudeltà da ogni poro, pur avendo un atteggiamento del tutto indifferente nei confronti del loro

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“ospite”. Sui trentacinque anni, fisico tarchiato, collo taurino, non particolarmente alto ma decisamente massiccio, i lineamenti tipici del centro America gli davano un’aria cattiva e per nulla rassicu-rante. Gli si indovinava l’intelligenza di un bue senza averne l’aria mansueta, anzi, pareva costantemente alla ricerca di un pretesto qualsiasi per scatenare un furore represso tanto idiota quanto ingiustificato. Ex arbitro di calcio, nel suo paese di origine si era distinto per una sfilza di eclatanti ingiustizie durante i mondiali di calcio del momento, dove aveva mandato a casa più di una squadra che invece avrebbe meritato di andare avanti, perché, si scoprì in seguito ad indagini svolte dalla commissione internazionale dello sport essere stato profumatamente pagato. Non aveva bisogno di quei soldi, ma non perdeva occasione per esternare l’innata mal-vagità e l’indole corrotta insita in lui. Vuoi mettere la soddisfazione di fottere gente come quegli smidollati italiani o europei in genere?

Radiato dall’albo della categoria arbitri, si dette al pugilato. Dei molti incontri disputati, alcuni li perse, come dimostrava il naso schiacciato e storto, ma molti li vinse. Picchiava forte, ignorando totalmente le regole di correttezza che questo sport impone. Alcuni pugili che combatterono contro di lui persero la vita. Fu anche inquisito per omicidio premeditato, ma, e qui l’influenza della sua potentissima famiglia fece il resto, fu sempre prosciolto da ogni accusa. Non gli andò altrettanto bene quando incappò nelle ire di una famiglia rivale per un fatto a dir poco increscioso. Le due fami-glieerano sempre in lotta per contendersi il mercato della cocaina, con molte più piantagioni e laboratori di trasformazione degli Alva-rado, più ricca e potente della sua. Ma non fu questo a scatenare una guerra senza quartiere fra le due famiglie. La famiglia Marquez, infatti, non gradì affatto lo stupro della figlioletta di dodici anni di uno dei rampolli del vecchio patriarca, e ancor meno l’uccisione di due dei figli del grande vecchio durante un’imboscata dei Marquez, organizzata per vendicarsi dello stupro della ragazzina. Dovette cambiare aria in tutta fretta lasciando i componenti delle due bande a scannarsi allegramente. Fuggito dall’Ecuador approdò in Sicilia, dove non ebbe difficoltà a mettersi in contatto con la potente fami-glia degli Orsello, una delle più antiche ed influenti dell’isola. Gli

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Orsello da sempre si rifornivano dagli Alvarado dei pani di coca in forma purissima, pani che venivano poi adeguatamente tagliati e distribuiti ai grossisti ed a loro volta agli spacciatori per la ven-dita al minuto. Era una fruttuosa collaborazione che durava ormai da tempi immemorabili, con reciproca soddisfazione. Per di più, la bassa manovalanza della famiglia Orsello era in massima parte ecuadoregna, e la famiglia Alvarado applicava sulle sue partite di merce per questo cliente tariffe assolutamente di favore. Per un po’, il nostro rampollo pascolò tranquillo e sereno nel prato degli affari della famiglia siciliana, svolgendo mansioni ora di manager nelle importazioni della merce centroamericana, ora, quando aveva voglia di sgranchirsi le braccia e le mani, prendendo parte a spe-dizioni punitive contro qualche riottoso commerciante che non voleva sapere di sottomettersi al pagamento del pizzo, o contro qualche piccolo trafficante che cercava di rendersi indipendente. Ma si stancò in fretta della vita tranquilla garantita dalla potenza economica e dal muro di omertà su cui la famiglia Orsello poteva contare. Voleva qualcosa di meglio per sé e per il suo futuro che non la semplice tranquillità economica in un ristretto e omertoso ambiente come quello siciliano. Ambiva ad agire in un ambiente internazionale e con vedute più ampie di quello che al momento gli garantiva sì vita facile, ma anche un tantino noiosa. L’occasione la trovò una sera in un locale molto esclusivo di Giardini Naxos.

Stava lì, quasi annoiato in compagnia di due bellezze del luogo, che, senza darlo a vedere, aspettavano ansiose un suo cenno per finire la serata in bellezza in una delle sfarzose stanze al piano di sopra. Camere, o meglio, appartamenti veri e propri che la dire-zione del locale metteva volentieri a disposizione dei clienti facoltosi che contribuivano generosamente al fatturato del locale. Le due ragazze cominciavano a chiedersi se quel bel tipo dall’a-ria pericolosa non soffrisse di qualche disturbo sessuale, quando Hector Alvarado fece loro un cenno con la testa. “Era ora…” pen-sarono in contemporanea. Un sorriso smagliante illumino loro il volto e, una a destra e una a sinistra si strofinarono addosso a lui. “Ragazze…”, sussurrò Alvarado con voce languida. «Sì caro?» tubarono insieme le due ninfette, incantate dalla profonda voce

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dall’accento sudamericano, e ancora di più dalla certezza che una consistente mazzetta di banconote si sarebbe serenamente trasferita nelle loro firmatissime borsette, al termine della serata. «Ragazze, fuori dai coglioni!», intimò Hector con voce ora molto meno vellutata. Le due donne lo guardarono a bocca aperta, per un attimo smarrite. «Hermosas, non avete ancora capito? Fuori dalla palle, rapido, adelante!». Finalmente fu loro chiaro quello che Alvarado intendeva. Si alzarono con tutta la dignità che riuscirono a recuperare, sibilando finocchio.

«Tranquilas – disse loro sorridendo Hector – La serata è comun-que salva; passate dal bar, chiedete di Salvatore: ci sono due buste già pronte per voi con dentro il mio grazie per la piacevole serata; comunque la noche non è ancora finita, troverete di certo chi apprezzerà la vostra compagnia. «Hasta luego, senoritas», disse lui senza alzarsi e portandosi due dita alla tempia in segno di com-miato. Le due senoritas se ne andarono verso il bar, incerte se essere deluse o risollevate. Indubbiamente quella specie di toro da monta avrebbe dato loro delle soddisfazioni, ma quel tipo di uomo poteva anche rivelarsi pericoloso; c’era il rischio che pretendesse qualche strano giochetto… Mah, forse, tutto sommato è meglio così

Il motivo della veloce dipartita delle due donne non stava in un improvviso desiderio di solitudine dell’uomo, cosa quanto mai lontana dal suo modo di essere, ma nel fatto che aveva visto venirgli incontro un componente del clan degli Orsello, una per-sona che lui stimava molto e di cui era molto amico, in compagnia di una persona che non conosceva. Era chiaro che i due erano molto in confidenza, dato l’atteggiamento di grande famigliarità che ostentavano, ed era altrettanto chiaro che il suo amico non l’aveva visto. Il fatto che venissero verso di lui era semplicemente casuale. Attese che i due fossero a tiro di voce: «Filippo», chiamò Alvarado in un tono più autoritario di quanto effettivamente intendesse. Sentendosi apostrofare in quel modo, l’altro si girò di scatto, chi cazzo si permette di… con un’espressione dura, che un attimo dopo si dissolse per distendersi in un sorriso smagliante alla vista di Alvarado, che si accorse all’istante della sorpresa e del subitaneo disappunto dell’amico.

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«Perdoname amigo – si scusò Hector – ma il mio italiano deve ancora migliorare, e poi avevo paura che tu non mi sentivi».

«Hector – lo riprese bonariamente Filippo – si dice “che tu non mi sentissi”».

E poi, abbracciandolo: «Sono felice di vederti, amico mio, hai fatto benissimo a chiamarmi: se mi fossi accorto che pur veden-domi non mi avessi chiamato, ti avrei dato una scarica di botte».

A questa frase seguì una sonora risata. Era evidente ad ambe-due che la punizione ventilata era pura fantasia, dal momento che Filippo era un peso piuma, mentre Hector era un autentico toro di razza Miura. Poi Filippo si fece serio: «Perdonami, Hector, sono un grande maleducato, non ti ho ancora presentato un caro amico venuto dal continente».

«Hector, il signor Ugo Danzi; Ugo, permettimi di presentarti un grande amico, una persona di grande valore: il señor Hector Alvarado».

Ugo Danzi ed Hector Alvarado si strinsero la mano, ed ognuno in quella stretta di mano espresse tutta la determinazione di far capire all’altro chi fosse e l’intenzione di pretendere pieno rispetto dall’altro. Il tutto con stampato in viso un sorriso stereotipato che sottintendeva: “vediamo se capisci con chi hai a che fare!”. Da per-sona di mondo, Hector invitò i due a sedersi al suo tavolo, cosa che essi accettarono di buon grado; Alvarado ordinò champagne, che fu portato dal capocameriere in persona.

«Offre la casa, signori – disse costui – con i complimenti della direzione». I tre ringraziarono e brindarono alle reciproche fortune.

«Hector – esordì Filippo – proprio di fortuna volevo parlarti». Il centroamericano alzò un sopracciglio in maniera interro-

gativa. Sapeva per esperienza che il suo amico non parlava mai a vanvera, e che valeva sempre la pena di starlo a sentire.

«L’averti trovato qui questa sera, mentre sono in compagnia dell’amico Ugo Danzi, è stato un vero colpo di fortuna; Ugo sta cercando la persona giusta da inserire come uomo di punta, in una posizione estremamente delicata ed importante, all’interno della sua organizzazione, che opera a livello internazionale. E

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qui occorre subito una premessa: se dopo aver sentito cosa ha da proporti Ugo, e capirai che la cosa ti interessa, potrai decidere libe-ramente di seguirlo, perché sappi che di fatto hai già la benedizione di Michele Orsello, nostro grande capo e fondatore della famiglia, possa il Creatore concedergli altri cent’anni di vita. Per lui sei come un figlio, e da buon padre vuole la tua felicità, e qui – ce ne siamo accorti tutti – non sei completamente soddisfatto».

Hector restò sorpreso; evidentemente i suoi pensieri e soprat-tutto le sue più segrete ambizioni si erano manifestate in maniera palese, fin troppo palese, a suo parere. Si ritenne fortunato a godere di una considerazione così grande da parte del vecchio patriarca, tanto capace di grandi gesti d’amore quanto spietato ed impreve-dibile nelle sue manifestazioni d’ira. “Santa Madre de Dios – pensò Alvarado – meno male che mi ama come un figlio, perché sennò sarei già un hombre muerto”.

«Ugo, ti prego – disse Filippo – illustra all’amico Hector cosa hai in mente».

Ugo Danzi si stampò un’espressione professionale sulla faccia ed iniziò: «Da qualche tempo ho messo in piedi un’attività molto redditizia e soddisfacente, anche dal punto di vista della gratifica-zione personale». E giù a spiegare che la sua organizzazione stava funzionando a meraviglia, ma essendo da solo a comandare e deci-dere, ed essendo in una fase di espansione non ce la faceva più a star dietro a tutto. Aveva bisogno di un socio, una persona di assoluta fiducia che avesse a cuore come egli stesso il bene dell’ “azienda”. Gli spiegò che in particolare doveva, per sostenere i costi delle ope-razioni che il lavoro dell’organizzazione comportava, aumentare l’attività di autofinanziamento. Come? Semplicemente miglio-rando le operazioni di collegamento dei suoi corrieri della droga, in particolare con il cartello di Medellin; mettere in piedi linee di inviati per il mondo con il compito di aumentare le commesse dei loro clienti e migliorare quelle esistenti, ad esempio, ”licenziando “alcuni personaggi poco gestibili o palesemente incapaci che non davano risultati apprezzabili, quando non creavano addirittura danni all’azienda. Tutto questo era miele per il palato di Alvarado, che alla fine della spiegazione fece un’unica domanda:

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«Quanto mi costerà entrare nella sua organizzazione?». «Hector, ti prego – fece Danzi – diamoci del tu».«Con mucho gusto – rispose prontamente Alvarado – Abbiamo

consolidato in questi ultimi due anni un fatturato di quasi venti milioni di dollari; abbiamo avuto spese per circa otto milioni, e tutto questo può essere in breve tempo raddoppiato, soprattutto migliorando il rendimento del lavoro, razionalizzando le spese e ottimizzando i contatti di cui ti parlavo prima. Intendo dire che, se invece di duecento chili di coca al mese ne acquistiamo quattro-cento, il prezzo si abbassa e, di conseguenza, i guadagni si alzano. Ovviamente tutta quella droga bisogna poi mettersi in condizione di venderla, e in fretta, per poi comprare la partita successiva. Hector mal sopportava quella filippica; sembrava che quell’al-tro volesse impartirgli la lezioncina, che lui peraltro conosceva benissimo».

«Ugo, por favor, dimmi quanto vuoi per far parte della tua orga-nizzazione – insistette Hector – rispondimi, maldido» mitigando l’impazienza di avere una risposta con un sorriso gentile, che invece sembrò un ghigno famelico. Non gli importava di urtare la suscetti-bilità di Danzi, voleva una risposta.

«Ok, amico mio, vedo che sei impaziente di sapere quanto ti costerà entrare nell’azienda». Però, sei sveglio: l’hai capito subito! Poi sparò: «Venti milioni di dollari, esattamente in valore di un anno di lavoro».

Alvarado impallidì leggermente: non si aspettava una cifra così alta. «Amigo – disse Alvarado – è stato un piacere conoscerti, ma non se ne fa nulla. Non dispongo di tutto quel dinero».

E così dicendo fece il gesto di alzarsi per accomiatarsi dai suoi ospiti. Danzi non si scompose, fece un bel sorriso, il sorriso di chi sta facendo l’affare della sua vita, anche se l’altro si era alzato per andarsene.

«Hector, ti prego, siediti», quasi ordinò Danzi. Il tono infastidì leggermente Alvarado, per nulla disposto a farsi comandare, ma intuì che la partita non era finita.

«Hector, ho voluto metterti alla prova; non si propone ad una persona qualsiasi di entrare in una società di questo tipo e di questa

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importanza. Nell’attimo in cui sei impallidito, mi hai risposto e ti sei alzato dalla poltrona, ho capito che tu sei l’uomo che fa per me come meglio non si potrebbe. Il cachet di ingresso per te è di cinque milioni di dollari, cioè il tuo guadagno di un anno di lavoro allo stato attuale delle cose, guadagno che sono sicuro saprai incremen-tare, ed anche di molto. Mi risulta che tu disponi di riserve molto superiori, quindi non dovrebbe essere un problema, questa cifra. Un giorno ti spiegherò perché secondo me sei la persona che mi serve, e come ho fatto a conoscere l’ammontare delle tue riserve auree». Anche se dubito che riuscirai mai a capirlo.

L’accordo fu presto raggiunto e, dopo una adeguata serie di brindisi a tutto ciò a cui valesse la pena brindare, si salutarono calo-rosamente, con la dichiarata intenzione di mettere a frutto quanto prima i vantaggi di questa nuova alleanza. In poco tempo Alva-rado fece così bene il suo lavoro, che diventò una preziosa colonna della società. Si organizzò perfettamente senza aiuto alcuno, ed i risultati non si fecero attendere. Mise in piedi una rete di corrieri della droga in collegamento continuo con diversi cartelli sia boli-viani che messicani. Fece richieste di partite più piccole di quelle richieste in precedenza da Ugo Danzi, ma più frequenti. La merce boliviana era molto diversa da quella messicana, non migliore o peggiore, ma diversa. Si sperimentarono così alcuni tipi di tagli e di miscele. Grazie ai più svariati mix ottenuti da una partita boli-viana e una messicana, si ottenne il non trascurabile risultato di accontentare ogni fascia di mercato, ogni “palato”, in pratica ogni naso o vena disponibile sul mercato sia a diversi livelli di prezzo che di qualità. Tutto questo impennò i già cospicui guadagni, e le casse della società si riempirono all’inverosimile, fino quasi a scoppiare. Tutto andava a gonfie vele, ma è risaputo che per quasi tutte le aziende che crescono arriva sempre il momento in cui devono fare il salto di qualità o, in alternativa, ricavarsi il proprio spazio circo-scritto, o addirittura ridimensionarsi. Era quindi necessario trovare una nuova “location” dove dare ulteriore impulso alle loro atti-vità. O, in alternativa ristrutturare profondamente i locali esistenti per adeguarli alle nuove necessità. Dopo attente ricerche fu deciso che una città sofisticata, quasi altera, leggermente defilata dalla

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vita pulsante del paese, un po’ snob ma soprattutto estremamente riservata, dove ognuno tendeva a farsi gli affari suoi era quel che ci voleva. La individuarono: era praticamente perfetta. «Torino?» Propose Ugo Danzi. Hector Alvarado non conosceva bene le carat-teristiche delle varie città italiane, e fu quindi facile lasciar fare a Ugo Danzi, che anzi sembrava avere molta esperienza in tal senso. E Torino fu. Con la sua popolazione ormai cosmopolita, insieme ad un consistente “zoccolo duro” di torinesi veraci che facevano della riservatezza la loro religione e filosofia di vita, con l’aiuto e la connivenza delle varie organizzazioni – triade, jakuza, mafia russa e quant’altro – che prosperavano sull’importazione di ragazze dell’Europa dell’est e del nord Africa da avviare alla prostituzione e altra varia umanità, era davvero il posto perfetto per i loro traffici.

Giglio era oramai consapevole di non avere scampo. L’organizza-zione aveva deciso in maniera inequivocabile che lui avrebbe messo le sue capacita al loro servizio. Così doveva essere e così sarebbe stato. Pena… Pena che cosa non lo sapeva per certo, ma certamente nulla di buono per lui e la sua famiglia (ma perché doveva capitare proprio a me…); quella era gente che non si fermava davanti a nulla, figuriamoci se si lasciavano impressionare dalle rimostranze di quello che doveva sembrare loro un moscerino fastidioso, e che se solo avesse provato a creare problemi avrebbero schiacciato senza pietà. Non aveva mai dimenticato lo sguardo carico di gelida vio-lenza negli occhi di Hector Alvarado. grosso, stupido bue

Lentamente, una sorta di rassegnazione si impadronì di lui. che altro posso fare?

Si sentiva svuotato di ogni energia utile a contrastare quella gente; pensava e ripensava a come uscire da una situazione apparentemente senza sbocchi ma niente. Si sentiva totalmente impotente. E disperato. Provò e riprovò ad immaginarsi le situa-zioni più assurde e meno probabili da cui trarre vantaggio per fuggire da questa maledizione che gli era capitata fra capo e collo. Nulla! Nulla! nulla!

Eppure un modo ci doveva pur essere. Ma in quanto a trovarlo, era tutt’altra storia.

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Quanto invidiava la sua vita precedente dove il problema più grosso era trovare il denaro per pagare gli stipendi ai due operai, sedare le loro liti e combattere con il direttore della banca che voleva revocargli il fido, indispensabile per continuare a lavorare. Ricordava con una sorta di nostalgia i problemi che fino a poco tempo prima gli rovinavano l’esistenza e che ora sembravano del tutto insignificanti. Trascorse notti interminabili ad occhi aperti in preda alla frustrazione, incapace di abbandonare il pensiero fisso di dover fare qualcosa per smantellare o almeno danneggiare quella congrega di delinquenti. Piangeva a dirotto, si disperava e poi smet-tila! Non serve a niente frignare tornava ad arrovellarsi su come arginare la criminosa attività di quei farabutti.

Poi, una notte, senza preavviso, gli venne l’illuminazione. sì, sì, sì!D’improvviso gli fu chiaro quale doveva essere la sua linea

d’azione. Adesso stai calmo. Non devi farti prendere dalla frenesia! Devi

organizzare tutto per bene, ok? Fu un pensiero complesso, a più riprese, articolato pensando ad una serie di azioni da compiersi a fasi prestabilite, dove ogni fase doveva essere portata a compi-mento prima di passare a quella successiva. In un primo tempo l’idea cominciò ad abbozzarsi in maniera nebulosa, appena accennata, poi, mano a mano che la cosa gli sembrava fattibile, iniziò a prendere forma in maniera sempre più definita, infine gli fu chiara come una mattinata di sole, e dette sfogo all’entu-siasmo lanciando un grido carico di euforia. Riempì di pugni ii cuscino sfatto, saltò di gioia incontenibile, poi si calmò: «Grazie Dio, grazie, grazie!», gridò al cielo. Di colpo, sbarrando gli occhi si mise una mano davanti alla bocca oh mio Dio…, spaventato dal fatto che qualcuno potesse udire la sua gioia irrefrenabile. Naturalmente non era possibile, la stanza era isolata dagli altri ambienti, e lui si sentiva scoppiare il cuore di felicità. Si stupì di essere arrivato alla soluzione in modo così naturale e così incon-sueto per lui. Si riteneva un’anima semplice ed invece la soluzione concertata semplice non lo era affatto; anzi, era molto tortuosa, complicata, e dall’esito tutt’altro che scontato. Ma era una possi-bilità, e tanto bastava. Almeno per il momento.

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«È anche vero, però – si disse – che non mi ero mai trovato in questi frangenti». Quando l’acqua tocca il culo… si impara a nuo-tare. Forse… E con un po’ di fortuna tanta fortuna io nuoterò e quei bastardi affogheranno!».

Giunse alla conclusione che, almeno per il momento, doveva fare buon viso a cattivo gioco e fingere una rassegnazione che oramai non provava più! L’euforia si era impossessata di lui. Con-fidava anche nel fatto che i suoi carcerieri oramai lo ritenessero assoggettato ai loro voleri. Neanche vi immaginate cosa ho in mente per voi, bastardi.

Imbaldanzito dalla sua ritrovata speranza, chiese un incontro con Danzi e Alvarado per informarli che aveva pronta la lista dei materiali, degli uomini e delle maestranze in generale che gli sareb-bero serviti per iniziare i lavori di ristrutturazione.

Aveva bisogno di tutto: dai materiali alla manodopera di bassa manovalanza agli ingegneri per l’approntamento dei progetti necessari alla realizzazione degli impianti di vario genere. Gli ser-viva una linea telefonica diretta verso l’esterno direttamente dal suo ufficio, cioè la stanza dove si era svegliato dopo essere stato drogato. Avrebbero sicuramente controllato tutte le sue telefonate. E comunque aveva bisogno di terminare le opere più urgenti nel cantiere di costruzione della casa dove era precedentemente impe-gnato prima di essere “invitato” a quella simpatica festicciola con la premiata ditta Danzi & Co. Quindi non avrebbe potuto comin-ciare prima di due o tre mesi. sempre che nel frattempo non trovi la maniera di stroncarvi la carriera…

Sia Danzi che Alvarado ascoltarono attentamente quanto Giglio disse loro.

«Si sta avvicinando l’inverno e tra un po’ farà troppo freddo per lavorare: il cemento congela – obbiettò Danzi – come pensi di fare?».

Il loro atteggiamento parlava chiaro: non siamo convinti che tu abbia abbandonato ogni tentativo di danneggiarci: sappi che ti teniamo d’occhio molto da vicino, ma ti concediamo tutto quello che ci stai chiedendo perché comunque le tue, almeno apparente-mente, sono obiezioni e richieste legittime. Durante tutto il tempo

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che occorse a Giglio per illustrare le sue necessità Danzi annuì con il capo, apparentemente d’accordo sulle sue richieste. Alvarado, una mente meno acuta ed anzi quasi primitiva ed incline alla vio-lenza, fece capire con poche frasi secche e decise che ci avrebbe pensato lui al primo accenno di atteggiamento sospetto da parte di Giglio.

«Giglio o non Giglio – tuonò – ti spezzo come una margherita se solo ho una mezza idea che vuoi fotterci»

«Tranquillo, amico mio – gli si rivolse Danzi con un sorriso aperto – Giglio ha capito da che parte gli conviene stare; sa per-fettamente che non avrebbe alcuna convenienza a tradirci, in più, presumo che abbia anche capito che siamo in grado di procu-rargli grandi vantaggi se dimostra di essere dalla nostra parte – o se, almeno collabora – come altrettanti grandissimi dispiaceri se invece fa i capricci. Dico bene signor Gigliotti?», chiese amabil-mente Danzi.

«Io ho finalmente compreso da che parte mi conviene stare», ma se riesco a fottervi… disse Giglio in maniera convinta, anche se non lo pensava nemmeno lontanamente. «Dirò di più: ne sono talmente convinto che se me ne darete l’opportunità, non solo eseguirò al meglio delle mie capacità quanto mi avete chiesto , e se ci sarà bisogno, previa vostra autorizzazione, apporterò tutte le miglio-rie possibili al vostro progetto, per rendere ancora più funzionale quanto da voi prospettato. E poi, vi prego, basta signor Gigliotti, chiamatemi Giglio, come fanno tutti»

«Benissimo, Giglio – esclamò Ugo Danzi – qua la mano». Pic-colo ingenuo ometto.

Danzi gli strinse la mano con entusiasmo ed il suo sorriso fu pieno e convincente, ma gli occhi rimasero gelidi; anche Alvarado, con un grugnito indistinto gli afferrò la mano stringendogliela in una morsa stritolante e non molto amichevole, poi, in un tentativo maldestro di attenuare la tensione, volendo sembrare fintamente cattivo, cosa che per la verità gli riuscì malissimo, lo apostrofò con un minaccioso: «Attento comunque, compagnero!».

Come gli avevano promesso, gli fornirono carte di credito e rimpinguarono il suo conto fino a quel momento asfittico,

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cosicché potesse provvedere ad acquistare i materiali necessari. Dal momento però che – come lui sapeva benissimo – i suoi “compagni” d’avventura lo avrebbero controllato molto strettamente, avrebbe dovuto giustificare la più piccola spesa, anche la più insignificante. A Giglio servì tutto il primo mese che gli avevano concesso per ter-minare la muratura della palazzina in costruzione, per far montare gli infissi, per ottenere l’abitabilità e per affidarla all’agenzia immo-biliare e mettere in vendita gli appartamenti appena terminati. Rispetto alle volte precedenti c’era però una differenza notevole. Più volte, in passato, l’agenzia immobiliare gli aveva prospettato di acquistare l’intero fabbricato appena terminato. L’agenzia si sarebbe presa in carico gli appartamenti da vendere, liberando Giglio dall’incombenza non indifferente di vendere ogni singolo appartamento. Lui non aveva mai accettato, adducendo come motivazione il prezzo troppo basso offerto dall’agenzia immobi-liare, a fronte dei costi sostenuti per la costruzione dell’immobile. Questa volta era diverso. Non era stretto dalla morsa del bisogno di incassare gli acconti versati dai compratori degli alloggi per pagare il mutuo che aveva chiesto alla banca e di dover vivere con i risicati guadagni che oramai concedeva l’edilizia in questi tempi di vacche magre. Desiderava indubbiamente rientrare delle spese affrontate, ma, foraggiato generosamente dall’”azienda” Danzi & Co, con una voglia folle e una determinazione granitica di fargliela pagare a quei bastardi per le porcherie commesse ed in programma di commet-tere, non ebbe dubbi quando accettò quasi subito il prezzo da fame proposto dall’agenzia immobiliare. Quasi non protestò per non aver guadagnato praticamente nulla, ed ottenuto un piccolo rialzo di prezzo, accettò di buon grado di firmare i documenti necessari alla vendita dell’immobile. Era pervaso da un tale desiderio di giustizia nei confronti di chi ormai considerava criminali della peg-gior specie, che se avesse seguito il folle istinto di quel momento, avrebbe fatto in modo di procurarsi una pistola ed avrebbe ucciso con fredda determinazione i responsabili di azioni tanto vigliac-che ed ignobili. Però si rendeva conto che così facendo, oltre ad incorrere in guai notevoli con la legge, si sarebbe messo al livello di chi invece disprezzava, oltre al fatto che non era certamente lui

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ad essere l’esperto in atti criminali. E quindi c’era anche il rischio concreto che la situazione gli si ritorcesse contro, finendo in un mare di guai, lui e soprattutto i suoi familiari. Una fredda, gelida lucidità si era impadronita di lui. Ormai era risoluto a fare l’im-possibile per annientare questa organizzazione ed i suoi fondatori con l’intelligenza, la pazienza e soprattutto aiutato dalle più recenti tecnologie. Il tutto inconsapevolmente finanziato dagli stessi esseri spregevoli che tanto disprezzava e che avrebbe sicuramente distrutto. almeno lo spero A quel pensiero si sentiva letteralmente galvanizzato e si riproponeva di non lasciare niente di intentato per riuscire nella sua impresa. Mentalmente si preparò alla fase succes-siva dell’operazione. Si trattava di predisporre la lista completa dei materiali necessari alla costruzione di tutto il complesso edilizio necessario alla ricezione ed al ricovero delle vittime che sarebbero state “ospitate” nei cubicoli una volta completati. Questo voleva dire pensare ad ogni aspetto della situazione. Niente poteva essere lasciato al caso! Erano necessari componenti elettronici come com-puter, monitor, programmi informatici, protezioni per gli stessi programmi, chilometri di filo elettrico, relais di vario tipo, inter-ruttori, schede elettroniche, attrezzi per assemblare gli impianti elettrici, componenti idraulici, macchinari specificatamente edili, ed infine tanta manodopera di tutti i livelli: dagli ingegneri ai tec-nici. Sarebbe stato poi necessario che la bassa manovalanza venisse scelta in modo che obbedisse pedestremente a quanto veniva loro ordinato, quasi senza capire cosa stavano facendo.”Anzi – pensò Giglio – non dovranno proprio capire cosa fanno”. Almeno non correranno il rischio, a lavori ultimati, di essere eliminati per garan-tire la segretezza di tutta l’operazione.

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4. Dalle stelle…

Giglio iniziò a mettersi in contatto con i propri abituali fornitori per approvvigionarsi di materiali ed attrezzature edili; un fornitore con cui aveva particolarmente confidenza gli chiese se avesse vinto alla lotteria, dal momento che da quanto risultava dagli ordina-tivi pareva che Giglio si accingesse alla costruzione di una fortezza blindata. Giglio aveva la risposta pronta:

«Hai proprio colto nel segno: devo costruire un castello con il ponte levatoio, che mi servirà per difendermi dall’assalto dei for-nitori quando scopriranno che non ho alcuna intenzione di pagare le fatture».

Scoppiarono insieme in una risata che chiuse la questione, ma che preoccupò leggermente Giglio: conosceva il suo pollo; gli pia-ceva spettegolare su tutto e di tutti, e con tutti. Se la cosa fosse arrivata all’orecchio di Danzi non sarebbe stato piacevole. Decise comunque che quando e se ci fosse stato di che preoccuparsi, ci avrebbe pensato al momento opportuno. Per quel che riguardava i materiali idraulici ed oleodinamici aveva buone conoscenze tec-niche, che facevano si che sapesse cosa ordinare, mentre era molto meno preparato su tutto quanto riguardava l’elettronica e l’infor-matica in generale. Anche in quel campo aveva alcune nozioni di base, risultato di corsi seguiti con diligenza, ma sicuramente gli occorreva un esperto che gli chiarisse quali caratteristiche dove-vano avere i vari componenti per funzionare bene insieme e per non entrare in conflitto tra di loro. Alla prima occasione ne parlò con Danzi, che rimase piacevolmente stupito da quel nuovo spirito collaborativo, ed ebbe l’impressione che Giglio fosse finalmente

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entrato nell’ottica giusta, con l’evidente intenzione di non sbagliare nulla e di non creare più problemi. Così pareva a Danzi, e così Giglio si sforzo di convincerlo, anche se gli costava uno sforzo tita-nico. Dio quant’è difficile, ma devo farlo Per sperare di riuscire nella sua impresa, aveva assoluto bisogno di guadagnare fiducia, affinché il Danzi mollasse sempre di più la presa. Doveva potersi muovere il più liberamente possibile per attuare un piano difficile, molto rischioso e dall’esito tutt’altro che scontato. Giglio chiese a Danzi se fra le sue conoscenze ci fosse un ingegnere informatico all’al-tezza del compito che avrebbe dovuto svolgere. Danzi gli rispose che ci avrebbe pensato, e se gli fosse venuto in mente qualcosa, avrebbe messo subito Giglio al corrente. Per la verità non aveva la più pallida idea di chi potesse essere l’eventuale persona a cui affidare quel compito. Non conosceva nessun esperto del campo, ma non voleva, o almeno non subito, dare a Giglio l’impressione di doversi mettere nelle sue mani dicendogli: «Cerca tu la persona più adatta». Intendeva dare l’idea che avrebbe valutato chi fosse il più adatto fra le sue conoscenze, per poi, in un secondo tempo, informare Giglio che chi se ne sarebbe potuto occupare non era disponibile e che non si poteva fidare di nessun altro.

«Valuteremo seriamente la persona che tu pensi possa fare al caso nostro, e se supererà la prova, farà parte della squadra di tecnici di cui abbiamo bisogno». Questo era intenzionato a dire a Giglio, appena se ne fosse presentata la necessità. L’ambizioso pro-getto consisteva nell’approntare un centro di controllo polivalente, tecnologicamente molto avanzato, utilizzando a piene mani le tec-nologie più all’avanguardia. Il fulcro dell’idea era che questo per il momento ipotetico cervello potesse svolgere infinite e fondamentali operazioni, tra le quali principalmente di controllo visivo continuo delle celle di prigionia di futura costruzione. I parametri da tenere sotto controllo erano molteplici. La temperatura e l’umidità relativa delle celle era solo uno di questi parametri, ma non era certamente l’unico, e nemmeno il piùn importante. Però il Danzi aveva alcuni dubbi che andavano chiariti. Convocò quindi Giglio, che ebbe un tuffo al cuore all’idea di andare a colloquio con il capo. “Accidenti, rimuginava Giglio, che cosa vuole adesso quel demonio? Quello

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ha uno sguardo che sembra un trapano elettrico, e sembra sempre che ti scavi in profondità per leggerti dentro e carpire i tuoi pen-sieri più segreti”. Ma, tant’è , con il cuore in gola, bussò alla porta dello studio di Danzi. Fu ancora più preoccupato quando si accorse anche della presenza di Hector Alvarado. Sembrava che i due fos-sero reduci da un alterco violentissimo e senza esclusione di colpi. Giglio non sapeva spiegarsi come quel concentrato di violenza ottusa non avesse mai fatto il ben che minimo tentativo di schiac-ciare fisicamente un peso mosca come Danzi. Fatto sta che questi lo controllava senza la minima difficoltà, ed anche in quell’occasione aveva avuto la meglio su quell’apparentemente micidiale concen-trato di forza fisica. E questo senza alcuno sforzo visibile.

«Entra, Giglio, e mettiti comodo – disse Danzi – sei tra amici». Poi entrò subito in argomento, senza dargli il tempo di rilassarsi.

«Stavano discutendo qui, con l’amico Hector, di un aspetto importante della questione che ci si sta prospettando. Mi spiego meglio: io sono d’accordo ad affrontare con tutte le maestranze necessarie e con la supervisione di cui tu sei l’unico responsabile (e qui a Giglio comparvero alcune goccioline di sudore sulla fronte), la realizzazione di una struttura polivalente e multifunzionale, anche se questo progetto verrà a costare un pozzo di soldi; ma quelli non ci mancano certamente. Per contro, l’amico Hector, insiste a chia-marlo amico invece, la vede in maniera notevolmente più semplice. Vorrebbe cioè fosse edificata una autentica fortezza sotterranea nelle viscere della città, ma senza tanti fronzoli, senza cioè tutte quelle raf-finatezze elettroniche che lui definisce “inutilmente costose e difficili da gestire”. Le “raffinatezze elettroniche inutili”, infatti, avrebbero il compito di metterci in condizione, tra le altre cose, di detenere l’assoluto controllo in tempo reale di tutti gli emissari presenti in qualsiasi parte del mondo, senza che questi possano interagire fra di loro, quindi, a nostra insaputa ed in modo indipendente. Sareb-bero cioè costretti ad interloquire sempre e comunque prima con noi attraverso la nostra sede qui, a Torino. E potrebbero avere contatti fra di loro solo dietro nostra autorizzazione. È anche assolutamente necessario uno stretto e continuo controllo delle condizioni fisiche e psichiche delle persone sequestrate ed imprigionate: un controllo