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Sicurezza alimentare e valorizzazione dei prodotti di qualità della Provincia di P Sicurezza alimentare e valorizzazione dei prodotti di qualità della Provincia di P Sicurezza alimentare e valorizzazione dei prodotti di qualità della Provincia di P Sicurezza alimentare e valorizzazione dei prodotti di qualità della Provincia di Palermo alermo alermo alermo Provincia Regionale di Palermo – Assessorato Agricoltura, Caccia, Pesca – Direzione Attività produttive 147 5. LATTE E DERIVATI CASEARI (a cura di Giuseppe Greco) Il Latte è l’alimento che viene ricavato “dalla mungitura regolare, ininterrotta e completa di animali in buono stato di salute e nutrizione”. Il termine latte tal quale indica il latte di vacca; per quello ricavato da altri animali deve essere specificato l’animale di origine (latte di capra, latte di pecora, ecc.). Il latte appena munto viene filtrato e raffreddato a 4°C e quindi conservato a circa 6°C per non più di tre giorni. La refrigerazione impedisce che il latte inacidisca a causa della trasformazione di lattosio in acido lattico ad opera dei fermenti lattici. Il latte crudo non è stato sottoposto a temperature superiori a 40°C o trattamenti termici equivalenti. La pastorizzazione consiste nel trattamento ad una temperatura di 71,7°C per 15 secondi o ad un’altra combinazione tempo / temperatura oppure a diverse combinazioni tempo / temperatura in grado di conseguire lo stesso effetto. Il latte fresco pastorizzato è prodotto a partire dal latte crudo mediante un solo trattamento di pastorizzazione entro 48 ore dalla mungitura Con la pastorizzazione si ottiene un prodotto sicuro e conservabile per alcuni giorni, poiché vengono distrutti tutti i microrganismi patogeni e gran parte di quelli alteranti non patogeni. Il latte UHT (Ultra High Temperature ovvero A Temperatura Molto Alta) è prodotto con una tecnica che utilizza una temperatura di almeno 135°C per non meno di 1 secondo. La confezione chiusa può essere conservata a temperatura ambiente fino a 3 mesi dal confezionamento. Il latte fresco pastorizzato e il latte UHT si equivalgono dal punto di vista nutrizionale, mentre le caratteristiche organolettiche sono migliori nel primo, grazie al trattamento termico meno intenso. Il latte sterilizzato si produce mediante l’immersione di bottiglie in vetro sigillate in acqua calda a 140°C per 3 - 4 secondi o attraverso scambiatori termici a piastre o tubolari; è in grado di distruggere tutti i microrganismi del latte e anche le spore eventualmente presenti e assicura al prodotto una vita conservativa molto lunga, fino a 6 mesi a temperatura ambiente dalla data del confezionamento. Il drastico trattamento termico provoca l’alterazione delle caratteristiche organolettiche del latte e la riduzione del contenuto in vitamine. In base alla percentuale di grasso se ne distinguono tre tipi: 1. il latte intero contiene una percentuale di grasso non inferiore al 3,5%; 2. il latte parzialmente scremato contiene una percentuale di grasso compresa tra l’1,5 e l’1,8%; 3. il latte scremato contiene una percentuale di grasso non superiore allo 0,3%. La legge viene in aiuto del consumatore con il bollo sanitario che, apposto sul prodotto o sulla confezione, attesta la conformità dello stesso alle normative igieniche vigenti. E' un bollo ovale al cui interno vi sono la sigla del paese d'origine, il numero di riconoscimento dello stabilimento e la sigla CEE. Riferimenti importanti sono anche il

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5. LATTE E DERIVATI CASEARI (a cura di Giuseppe Greco)

Il Latte è l’alimento che viene ricavato “dalla mungitura regolare, ininterrotta e completa di animali in buono stato di salute e nutrizione”. Il termine latte tal quale indica il latte di vacca; per quello ricavato da altri animali deve essere specificato l’animale di origine (latte di capra, latte di pecora, ecc.). Il latte appena munto viene filtrato e raffreddato a 4°C e quindi conservato a circa 6°C per non più di tre giorni. La refrigerazione impedisce che il latte inacidisca a causa della trasformazione di lattosio in acido lattico ad opera dei fermenti lattici. Il latte crudo non è stato sottoposto a temperature superiori a 40°C o trattamenti termici equivalenti. La pastorizzazione consiste nel trattamento ad una temperatura di 71,7°C per 15 secondi o ad un’altra combinazione tempo / temperatura oppure a diverse combinazioni tempo / temperatura in grado di conseguire lo stesso effetto. Il latte fresco pastorizzato è prodotto a partire dal latte crudo mediante un solo trattamento di pastorizzazione entro 48 ore dalla mungitura Con la pastorizzazione si ottiene un prodotto sicuro e conservabile per alcuni giorni, poiché vengono distrutti tutti i microrganismi patogeni e gran parte di quelli alteranti non patogeni. Il latte UHT (Ultra High Temperature ovvero A Temperatura Molto Alta) è prodotto con una tecnica che utilizza una temperatura di almeno 135°C per non meno di 1 secondo. La confezione chiusa può essere conservata a temperatura ambiente fino a 3 mesi dal confezionamento. Il latte fresco pastorizzato e il latte UHT si equivalgono dal punto di vista nutrizionale, mentre le caratteristiche organolettiche sono migliori nel primo, grazie al trattamento termico meno intenso. Il latte sterilizzato si produce mediante l’immersione di bottiglie in vetro sigillate in acqua calda a 140°C per 3 - 4 secondi o attraverso scambiatori termici a piastre o tubolari; è in grado di distruggere tutti i microrganismi del latte e anche le spore eventualmente presenti e assicura al prodotto una vita conservativa molto lunga, fino a 6 mesi a temperatura ambiente dalla data del confezionamento. Il drastico trattamento termico provoca l’alterazione delle caratteristiche organolettiche del latte e la riduzione del contenuto in vitamine. In base alla percentuale di grasso se ne distinguono tre tipi: 1. il latte intero contiene una percentuale di grasso non inferiore al 3,5%; 2. il latte parzialmente scremato contiene una percentuale di grasso compresa tra

l’1,5 e l’1,8%; 3. il latte scremato contiene una percentuale di grasso non superiore allo 0,3%. La legge viene in aiuto del consumatore con il bollo sanitario che, apposto sul prodotto o sulla confezione, attesta la conformità dello stesso alle normative igieniche vigenti. E' un bollo ovale al cui interno vi sono la sigla del paese d'origine, il numero di riconoscimento dello stabilimento e la sigla CEE. Riferimenti importanti sono anche il

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contenuto dell'etichetta nutrizionale, le modalità di conservazione, la praticità d'uso delle confezioni. Per il resto il prodotto segue le norme sulla etichettatura e rintracciabilità degli alimenti.

Il formaggio è il prodotto ricavato dalla coagulazione delle caseine presenti nel latte (cagliata). È frutto di una delle più antiche tecnologie alimentari che permette la conservazione di un prodotto altamente deperibile come il latte. Una serie di pratiche a cui viene sottoposto (es.: salatura e stagionatura), rende il prodotto stabile nel tempo. La figura mostra la tecnologia della caseificazione cui sono sottoposte le varie classi di formaggio (semigrassi e magri, grassi, fusi, a pasta filata e a pasta dura), dall'arrivo del latte fino alla confezione e alla distribuzione.

I formaggi si classificano in base all’origine del latte: Vaccini, Pecorini, Caprini e Bufalini, ovvero rispetto alla Consistenza della pasta: a pasta molle (dal 40 % al 70% di acqua) e a pasta dura (meno del 40% di acqua), oppure in base al Tenore in grassi: "Magri" (meno del 20%) e "Leggeri" (tra il 20% ed il 35%). Non è riportata alcuna indicazione per i formaggi generici con tenori superiori al 35%. Ed inoltre in base al Tempo di maturazione: Freschissimi (48 - 72 ore), Freschi (15 giorni), Semistagionati (da 40 giorni a 6 mesi), Stagionati (da 6 mesi ad un anno), Molto stagionati (oltre un anno); ed ancora con riferimento alla Cottura della cagliata: Formaggi crudi (temperatura ambiente), Formaggi semicotti (temperatura compresa tra 38 e 40 C), Formaggi cotti (temperatura compresa tra 58 e 60 C); oppure sulla scorta di Tecnologie particolari: a pasta filata (cagliata modellata in acqua bollente), Fusi (formaggi di diverse qualità fusi insieme a prodotti lattieri, sali, spezie ed aromi), Erborinati (addizionati con muffe), Mascarpone (coagulazione della crema di latte). La ricotta si ottiene riscaldando a circa 80°C il siero del latte, così da provocare la coagulazione delle proteine del siero. Nei coaguli rimangono inclusi il grasso, il lattosio e i minerali rimasti dopo la formazione della cagliata. Da questa lavorazione residua la cosiddetta scotta, che può servire come alimento per gli animali oppure per la produzione di lattosio. La ricotta può essere prodotta anche da siero misto a latte o panna e in tal caso è definita ricotta al latte; ha una composizione variabile in rapporto alla quantità di latte o panna aggiunta al siero . Per la produzione della ricotta è utilizzato latte di mucca, di pecora, di capra o di bufala.

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5.1. Accortezze nell’acquisto e nella conservazione (a cura di Giuseppe Greco)

ll latte alimentare deve essere confezionato per il dettaglio in contenitori di diversa capacità e chiusi mediante un dispositivo di chiusura non riutilizzabile dopo la apertura e tale da garantire la protezione delle caratteristiche del latte contro gli agenti esterni nocivi. Prima dell’acquisto controllare che il latte pastorizzato sia conservato nel frigorifero del rivenditore e verificare la data sul contenitore; inoltre non acquistare confezioni più grandi del necessario. Il latte fresco pastorizzato ha una vita conservativa di 7 giorni dal confezionamento e deve essere sempre mantenuto a temperatura di frigorifero, 4°C. Dopo l’apertura della confezione il latte deve essere consumato entro pochi giorni, secondo le indicazione in etichetta. Esiste in commercio anche il latte fresco pastorizzato d’alta qualità, ricavato da vacche selezionate e secondo procedure che impongono il raggiungimento e il mantenimento di delle migliori condizioni possibili in tutte le fasi della produzione, dalle stalle al confezionamento. . Il latte microfiltrato è un latte pastorizzato che prima di essere trattato col calore viene spinto attraverso membrane dotate di fori microscopici: ciò permette di eliminare una parte dei batteri presenti e di ottenere un prodotto con una maggiore conservabilità in frigorifero. Esiste in commercio anche il latte a lunga conservazione: latte sterilizzato e latte UHT. Dopo l’apertura della confezione sia il latte sterilizzato che il latte UHT devono essere messi in frigorifero e consumati entro pochi giorni, come riportato in etichetta. Relativamente ai formaggi vengono riconosciute come "denominazioni di origine" le denominazioni relative ai formaggi prodotti in zone geografiche delimitate osservando usi locali e costanti e le cui caratteristiche merceologiche derivano prevalentemente dalle condizioni proprie dell'ambiente di produzione. Molti formaggi di pregio (caciocavallo, provolone, ecc.) sono diventati così familiari ai consumatori che spesso vengono riconosciuti "a vista", in base alla loro forma tradizionale (spesso non tutelata). Occorre invece diffidare delle imitazioni, sempre più frequenti, non limitandosi più all'apparenza, che può ingannare, ma leggendo attentamente l'etichetta o assicurandosi della presenza dei marchi dei Consorzi di Tutela. Dietro l'aspetto di un "provolone" può celarsi un "formaggio fuso", ossia quello che è alla base di formaggini, fette per toast, preparati per pizza etc. che si ottengono mescolando formaggi di diversa natura, componenti del latte, additivi fondenti ed emulsionanti (citrati, fosfati di sodio, polifosfati), ad elevato contenuto in acqua (per la presenza di emulsionanti), e, contenenti spesso polifosfati che determinano una riduzione del calcio alimentare assimilabile. La qualità dei latticini è attestata dal bollo sanitario che, apposto sul prodotto o sulla confezione, attesta la conformità dello stesso alle normative igieniche vigenti. E' un

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bollo ovale al cui interno vi sono la sigla del paese d'origine, il numero di riconoscimento dello stabilimento e la sigla CEE. Altri riferimenti importanti sono nell contenuto dell'etichetta nutrizionale, le modalità di conservazione, la praticità d'uso delle confezioni. Sulle etichette, il consumatore può trovare: il nome del prodotto, l'elenco dei suoi ingredienti, il nome e la sede di chi lo ha prodotto o confezionato, la sua quantità, come conservarlo, la sua data di scadenza o il termine minimo di conservazione. Se gli ingredienti non sono riportati, significa che per produrli sono stati utilizzati solo latte, caglio, fermenti lattici ed eventualmente sale. La presenza di quest'ultimo dev'essere invece segnalata nei formaggi freschi, fusi e nel burro. Quando, invece, si aggiungono altri ingredienti come frutta o vengono utilizzati additivi, è necessario riportare in etichetta l'elenco completo. Per quanto riguarda gli additivi, il cui impiego invero è estremamente raro, si tratta di sostanze utilizzate per far sì che alcuni prodotti possano conservarsi per il tempo necessario e senza le quali in molti casi non sarebbe neanche possibile ottenere il prodotto stesso. Il loro uso è regolamentato da una severa legislazione che stabilisce quali sostanze, in che quantità e in quali prodotti essi possono essere utilizzati. La normativa prevede infatti che un additivo possa essere utilizzato solo se specificamente approvato dall'Unione Europea, e solo dopo che si sia dimostrata la sua reale necessità, in quanto consente vantaggi per il consumatore altrimenti non ottenibili, nonché l'assoluta innocuità alle dosi consentite. Su tutti i prodotti, è poi riportata la data di scadenza o il termine minimo di conservazione. Nel primo caso, si trova la scritta "da consumarsi entro..." che significa che quel prodotto non deve essere acquistato dopo quella data. Se, invece, come sui prodotti che durano più a lungo (formaggi stagionati) si trova scritto "da consumarsi preferibilmente entro la fine....", vuol dire che quel prodotto può essere consumato anche dopo quella data. Oltre a queste, molto spesso si trovano sulle confezioni informazioni sul contenuto nutrizionale del prodotto. Non si tratta d’indicazioni obbligatorie, ma sono riportate volontariamente dall'industria per fornire al consumatore ulteriori utili informazioni sulle caratteristiche nutrizionali del prodotto. Leggendole si può capire l'apporto energetico, e il contenuto in proteine, zuccheri e grassi. Indicazioni aggiuntive, relative a vitamine e alcuni sali minerali, come ad esempio il calcio, sono riportate se presenti in quantità significativa. Grazie alle confezioni, i prodotti si conservano nelle condizioni ottimali e possono essere venduti in porzioni più o meno grandi, a seconda delle esigenze dei consumatori. Va prestata attenzione allo stato della confezione: non acquistarla se gonfia o danneggiata. 1) il massimo della qualità, unitamente a produzioni particolare, prefigura una spesa è

piuttosto alta (spendere 20-30 euro al kg è la normalità). I formaggi si conservano

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bene per una o due settimane, quindi una capatina ogni tanto nel negozio di fiducia basta per garantire che il box dei formaggi in frigorifero sia sempre ben fornito.

2) In ogni supermercato c'è il banco dei formaggi al taglio, dove si possono trovare prodotti di qualità medio-alta. Anche nel banco del fresco è possibile trovare prodotti tipici confezionati. In questo caso è utile acquistare prodotti certificati, per esempio con il marchio DOP, per avere una maggior garanzia riguardo l'effettiva qualità, la provenienza e i metodi di lavorazione garantiti dal disciplinare di produzione.

3) Evitare formaggi contenenti additivi chimici d’ogni tipo: i più usati sono i polifosfati (o sali di fusione), che rendono omogeneo l'impasto; e i conservanti, che consentono una data di scadenza prolungata nei formaggi freschi con un notevole risparmio da parte dei produttori e dei distributori.

La soluzione migliore, per la conservazione del formaggio, è quella di un locale privo di luce, poco umido con una temperatura mantenuta dai 6° ai 7°C. In frigorifero vanno conservati nell’ apposita zona, chiusi singolarmente in contenitori di vetro, sacchetti, film di plastica o di alluminio in modo che non si mescolino gusti ed aromi. In pratica si ricorre al frigorifero, dove si sistemano i formaggi, magari nella zona meno fredda, chiusi singolarmente in contenitori di vetro, sacchetti, film di plastica o d’alluminio in modo che non si mescolino gusti ed aromi. Alcuni formaggi, come la mozzarella, si conservano meglio se immersi in un recipiente con dell'acqua e sale. I formaggi duri e molto stagionati, possono essere conservati in luoghi poco illuminati, ben ventilati, poco polverosi, ad una temperatura di 15 – 18 °C. Togliamo dal frigorifero solo la quantità di formaggio che pensiamo di consumare e lasciamola a temperatura ambiente per una buona mezz’ora prima di servirla in tavola. Attenersi alle date di scadenza, se confezionati, ed una volta aperti consumare entro pochi giorni. La ricotta deve essere conservata in frigorifero.

5.2. I prodotti caseari di qualità della Provincia di Palermo. I formaggi tradizionali.

5.2.1. Il comparto zootecnico siciliano e della provincia di Palermo (a cura di Adriana Bonanno)

A livello regionale, nelle zone di pianura e di bassa collina ad elevata vocazione agricola, si è progressivamente affermata una zootecnia intensiva da latte caratterizzata, per le adeguate possibilità di approvvigionamento alimentare, dall’allevamento delle razze bovine più produttive, come la Frisona e la Bruna, da moderne strutture e da buoni livelli organizzativi, la cui produzione di latte viene per lo più conferita ad aziende che si incaricano di trasformarlo in prodotti lattiero-caseari di tipo industriale.

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Tuttavia, l’attività zootecnica siciliana insiste in massima parte nelle aree interne di collina e di montagna, in ambienti cosiddetti “marginali” perché svantaggiati dalle difficili condizioni orografiche e pedo-climatiche e, di conseguenza, da una forte carenza di risorse foraggere. In queste aree gravitano per lo più allevamenti bovini ed ovi-caprini tradizionali, di piccole dimensioni, sia in termini di consistenza degli animali allevati, e quindi di capacità produttiva, sia in termini strutturali ed organizzativi; questi, condotti con sistema di tipo estensivo o semi-estensivo, fanno ricorso alle risorse foraggere spesso limitate dei pascoli naturali quale principale fonte alimentare, che solo gli animali di razze autoctone, per la loro peculiare rusticità, sono in grado di sfruttare garantendo soddisfacenti livelli di reddito. Inoltre, in tali aree, l’allevamento zootecnico svolge altre importanti funzioni in ambito economico e socio-culturale. Esso costituisce l’unica alternativa produttiva valida e svolge, nel contempo, un fondamentale ruolo di salvaguardia e valorizzazione del territorio sia sotto il profilo socio-economico che ambientale. Le attività zootecniche, infatti, opponendosi all’esodo rurale, causa di rovinose conseguenze sociali, favorisce l’antropizzazione del territorio e il mantenimento degli insediamenti vegetali garantendo, in conformità a quella che oggi viene chiamata agricoltura “sostenibile”, l’integrazione tra l’uomo e le risorse naturali, chiave fondamentale per contrastare i fenomeni di degrado ed erosione e mantenere l’equilibrio ambientale. Gli operatori zootecnici siciliani, oggi, meritano di essere sostenuti non solo per ciò che producono, ma per il contributo ambientale e culturale che offrono alla società. La zootecnia “marginale” rende disponibili, inoltre, prodotti alimentari di alta qualità, che possono essere consumati senza rischi e acquistati a prezzi competitivi, rispondendo in questo alle odierne richieste dei consumatori in materia di sicurezza igienica e qualità intrinseca e specifica dei prodotti alimentari, nonché di benessere degli animali. Il successo dei prodotti caseari di qualità rappresenta, per il mondo rurale, la strada per conseguimento di redditi soddisfacenti per gli allevatori, ma anche la permanenza delle popolazioni nei territori svantaggiati. Questa parte della zootecnia isolana trova ampia diffusione in vaste zone dell’area palermitana (Monti Sicani, Complesso Madonita, Valle del Torto e i promontori del palermitano compresi tra Cinisi e la Valle dello Jato), dove l’ambiente sfavorevole ha sviluppato nel tempo un sistema produttivo zootecnico di forte tipicità, in cui l’antropizzazione dei territori montani e marginali e la selezione di un patrimonio zootecnico autoctono in grado di interagire con le limitate risorse ambientali hanno portato alla genesi di tradizioni casearie da cui originano prodotti di alto valore alimentare e culturale. Tuttavia, l’evoluzione zootecnica regionale, negli ultimi anni, ha pesantemente risentito del sistema delle quote latte e delle emergenze sanitarie (BSE bovina, piani di eradicazione della tubercolosi bovina e della brucellosi sia bovina che ovi-caprina). A questo si aggiunge l’entrata in vigore di una normativa igienico-sanitaria piuttosto rigida, che ha interessato i ricoveri per gli animali e gli impianti di caseificazione aziendale. In tale contesto, le aziende zootecniche siciliane, ed in particolare i piccoli allevamenti che presidiano le aree interne e svantaggiate dell’isola, sono state

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sottoposte ad un processo di ridimensionamento, con ripercussioni sulla consistenza del patrimonio zootecnico e sui fenomeni di esodo rurale dalle zone montane e collinari. Tuttavia, l’attuale struttura degli allevamenti zootecnici della regione conferma l’esistenza di un processo di ristrutturazione in corso nell’intero settore, che ha portato alla riduzione numerica degli allevamenti più piccoli e la concentrazione dell’attività in aziende di maggiori dimensioni, più solide ed efficienti da un punto di vista tecnico-economico e ben collegate con il mercato (CORERAS, 2004). La zootecnia biologica, che si prefigura come modello produttivo in grado di garantire un livello adeguato di sicurezza e protezione agli alimenti di origine animale, in Sicilia ha subito una notevole espansione ed è fortemente rappresentata. Secondo il rapporto Nomisma sul biologico, già nel 2001 si contavano 3506 aziende zootecniche che avevano richiesto di aderire al sistema di certificazione nazionale, e di queste il 64% era nelle isole. Da un’indagine svolta dall’Assessorato Agricoltura e Foreste della Regione Siciliana in collaborazione con gli organismi di controllo, è stata rilevata, sempre nel 2001, la presenza in Sicilia di 1.568 aziende zootecniche biologiche (CORERAS, 2004).

5.2.1.1. L’allevamento bovino (a cura di Adriana Bonanno)

Con il 5° Censimento generale dell’Agricoltura del 2000, l’ISTAT ha censito in Sicilia un patrimonio bovino pari a 307.876 capi, mentre sulla base dei dati del Ministero della Salute, aggiornati al 30 agosto 2006, la consistenza regionale di bovini è di 402.146 capi, in aumento del 30,6% rispetto al 2000. La bovinicoltura siciliana è diffusa su tutto il territorio, ma con una maggiore intensità nelle provincie di Messina, Palermo, Ragusa ed Enna. Nella provincia di Palermo sono presenti 2.785 allevamenti bovini, pari al 22,6 % del totale regionale, in cui si allevano 79.968 capi, pari al 19,9% dei capi bovini regionali. In Sicilia, sulla base del 5° Censimento ISTAT del 2000, i bovini allevati con metodo biologico sono circa 11.000, pari al 9,4% del patrimonio bovino biologico nazionale; la provincia di Palermo detiene solo il 3,4% dei bovini biologici siciliani. Nelle aree di alta collina e di montagna palermitane sono prevalenti i sistemi semi-estensivi ed estensivi, anche ad indirizzo misto latte e carne con il classico schema vacca-vitello, caratterizzati da un più basso livello di produttività. Nell’area del palermitano, le razze bovine maggiormente allevate sono la Frisona, la Bruna, la Modicana, la Cinisara e, presente in pochi allevamenti, la Siciliana. Il sistema di allevamento più diffuso è il semi-estensivo. Le produzioni casearie ottenute dal latte bovino sono rappresentate dal Caciocavallo Palermitano, dalla Provola Siciliana e dal Canestrato.

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5.2.1.1.1. Le razze bovine da latte allevate in Sicilia: Modicana, Cinisara, Siciliana, Frisona e Bruna (a cura di Adriana Bonanno)

In tabella sono riportati i dati nazionali, siciliani e palermitani della consistenza delle bovine appartenenti alle diverse razze, nonché il numero delle bovine controllate dall’AIA (Associazione Italiana Allevatori) nel 2005 e le relative produzioni quanti-qualitative medie riferite alla lattazione convenzionale. Sulle origini della attuale razza bovina autoctona Modicana, di mole notevole e dal mantello rosso vinoso, l’ipotesi maggiormente accreditata è quella secondo cui essa costituisca un ceppo migliorato dell’originaria popolazione bovina Siciliana, selezionato nella Sicilia orientale nel territorio ragusano dell’ex contea di Modica, da cui prende il nome e da dove si è poi diffusa in tutta l’isola. L’attività di miglioramento operata nella parte orientale dell’isola ha riguardato inizialmente la sola morfologia, ma successivamente si è estesa alle attitudini produttive, soprattutto a quella lattifera. Al Libro Genealogico della razza, istituito nel 1958, è stata data struttura definitiva nel 1970, mentre nel 1965 si è dato avvio ai controlli funzionali da parte dell’Associazione Regionale Allevatori. La consistenza numerica della razza, che attualmente non supera i 10.000 capi nell’intera Sicilia, unica regione in cui viene allevata, ha subito nell’ultimo ventennio un notevole decremento che la pone in serio pericolo di estinzione. Dai dati riportati nei bollettini dell’AIA si evince che negli anni ‘70 i bovini Modicani controllati in provincia di Ragusa, sua area di origine, ammontavano a circa 1.800 capi, mentre nel 2005 se ne contano solo 484, che rappresentano solo il 2,9% delle bovine sottoposte ai controlli funzionali nella provincia. Di contro, nello stesso periodo, è aumentata la consistenza numerica di razze da latte specializzate più produttive ed economicamente più vantaggiose, come la Frisona e la Bruna, in analogia con la tendenza riscontrata nelle altre province dell’isola (Alabiso et al., 1999a; Alabiso et al., 2003). Anche a Palermo, provincia ad alta densità bovina, dove l’orografia territoriale e le condizioni pedo-climatiche non sono tanto favorevoli allo sviluppo di una zootecnia intensiva, si è assistito ad una graduale sostituzione dei bovini autoctoni di razza Modicana e Cinisara soprattutto con bovini di razza Bruna. Malgrado la diffusione della Bruna, esiste ancora un considerevole numero di bovine Modicane nelle aree del palermitano; qui, infatti, si concentra il 48% circa dell’intera consistenza della razza e le bovine controllate nel 2005 sono state 1340. In linea con l’orientamento attuale verso la rivalutazione dell’ambiente, dei patrimoni genetici autoctoni in via di estinzione e dei prodotti alimentari ad essi legati, sono state avviate per la Modicana, sia a livello comunitario che regionale, azioni di recupero e salvaguardia, oltre che interventi finalizzati concretamente alla incentivazione del suo allevamento e alla valorizzazione dei tipici prodotti caseari da essa ottenuti, come il Ragusano nella Sicilia orientale ed il Caciocavallo Palermitano nella Sicilia occidentale. Tra le iniziate andate in porto, si ricorda la creazione dell’Associazione di razza per la Modicana (A.Na.Mod.).

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La Modicana è una razza molto rustica, che si adatta a vivere allo stato brado. Originariamente a triplice attitudine (latte, lavoro e carne), con l’introduzione delle macchine ha perso l’attitudine al lavoro, pertanto è da considerarsi a duplice attitudine, latte e subordinatamente carne. Nel complesso si può affermare che i bovini di razza Modicana sono caratterizzati da una buona morfologia generale. La conformazione della mammella appare soddisfacente, sebbene a volte si riscontrano dimensioni eccessivamente grandi dei capezzoli tali da impedire l’uso corretto della mungitrice meccanica. Il suo latte presenta un’alta incidenza, pari al 72%, della variante B della k-caseina, frazione proteica che conferisce una buona attitudine alla coagulazione che si riflette positivamente sulla resa casearia e sulla struttura della pasta del formaggio (Chiofalo e Micari, 1979). Per quanto concerne la distribuzione dei parti, si evidenzia una certa stagionalità; questi infatti avvengono tutto l’anno, ma con una maggiore concentrazione da agosto a gennaio, per sfruttare vantaggiosamente la disponibilità foraggera dei mesi primaverili nel mantenimento di alti livelli di produzione di latte. Dotate di elevata longevità, le bovine Modicane effettuano il primo parto ad un’età media di 27 mesi, indice di una buona precocità della razza; la durata dell’interparto, in media pari a 13 mesi, rivela anche la buona fertilità (Giaccone et al., 1986). La Cinisara è un’altra interessante razza autoctona siciliana ad attitudine lattifera, di media taglia, dal mantello completamente nero, dall’apparato scheletrico robusto ma fine, quale segno di agilità, ottima e instancabile pascolatrice, ben adattata agli ambienti difficili. Circa l’origine della razza bovina Cinisara, l’ipotesi più diffusa afferma che essa sia frutto del meticciamento tra le bovine della popolazione Siciliana e i tori delle razze Frisona e Bruna, operata per migliorare la produzione di latte; tuttavia, non si esclude che si tratti di una razza autoctona mantenutasi in purezza per l’isolamento territoriale della sua zona d’origine, costituita da una fascia costiera delimitata dalle montagne, nel territorio di Cinisi in provincia di Palermo (Di Grigoli et al., 1998; Alabiso et al., 2003). La sua consistenza numerica è bassa, non supera attualmente le 3.500 bovine. Gli allevamenti sono localizzati soprattutto nella provincia di Palermo, dove è presente l’80% circa dei capi totali, in particolare nella fascia costiera dell’area di Cinisi e nel territorio di Godrano, mentre gli altri si distribuiscono soprattutto nella provincia di Trapani. L’attività del Registro Anagrafico, istituito nel 1996, consente la conservazione del patrimonio genetico di questa razza, anch’essa in pericolo di estinzione, e mira, inoltre, a valorizzare quelle sue peculiari caratteristiche produttive in ambienti marginali che da sempre l’hanno fatta apprezzare agli allevatori. Nel 2005, dai bollettini AIA, risultano registrati in Sicilia 2.996 capi, di cui l’84% in provincia di Palermo, e controllate 1.983 lattazioni con produzioni medie di 3.865 kg di latte in 254 giorni, il 3,49% di grasso e il 3,42% di proteine (tabella).

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I bovini Cinisari sono soggetti caratterizzati da elevata rusticità, ottimamente adattatisi alle limitazioni pedo-climatiche delle zone di allevamento, caratterizzate da una discontinua disponibilità alimentare, limitata soltanto ai brevi periodi dell’anno in cui si registrano favorevoli condizioni termo-pluviometriche. La buona attitudine lattifera, superiore alla Modicana, che le consente di produrre discrete quantità di latte di ottima qualità malgrado l’insufficienza dei pascoli delle aree di allevamento, l’adattabilità all’ambiente e la facilità di recupero corporeo e produttivo dopo periodi di sottoalimentazione sono le pregevoli doti che caratterizzano la razza e che ne determinano la preferenza degli allevatori che operano in zone marginali. Il suo latte, come quello della Modicana, presenta una buona attitudine alla caseificazione, data dall’elevata frequenza della variante B della k-caseina (Chiofalo et al., 1981). Esso viene prevalentemente lavorato in azienda seguendo le antiche e originarie tecniche di caseificazione per la produzione del Caciocavallo Palermitano. La distribuzione dei parti della Cinisara allevata nel palermitano è caratterizzata da una concentrazione nel periodo settembre-febbraio, determinata da un sistema di allevamento con monte stagionali, effettuate in modo da far espletare le lattazioni nei periodi di maggiore produttività dei pascoli. L’età al primo parto è piuttosto variabile e più elevata che nella Modicana, pari a circa 2 anni e 10 mesi. L’intervallo interparto è risultato in media di circa 397 giorni, valore che indica la buona fertilità della razza, paragonabile a quella delle bovine appartenenti alle razze specializzate per la produzione di latte, e nettamente inferiore a quello delle razze da carne (Fulco et al., 1985). La popolazione bovina autoctona Siciliana è stata riconosciuta come razza nel 2003 con il suo inserimento nel “Registro Anagrafico delle popolazioni bovine autoctone e dei gruppi etnici a limitata diffusione”. Si tratta della popolazione selezionatasi naturalmente nelle zone collinari e montane della Sicilia, dove viene denominata rispettivamente “mezzalina” e “montanina”. É presente soprattutto nelle aree montane delle provincie di Messina e Palermo. Morfologicamente presenta un mantello rosso più o meno accentuato ed una taglia ridotta. Ha notevoli doti di rusticità e adattabilità a difficili condizioni ambientali, nonché all’allevamento brado condotto su pascoli naturali montani particolarmente acclivi ed impervi. Viene allevata principalmente per la carne, mentre la mungitura viene eseguita per pochi mesi, durante il periodo primaverile, e le limitate quantità di latte ottenute vengono trasformate in azienda per l’ottenimento di prodotti caseari tipici. Le produzioni minime di latte richieste per l’iscrizione al Registro Anagrafico sono di 1400 kg in una lattazione di 150 giorni per le bovine di oltre 4 anni. Accanto alle razze autoctone, in Sicilia sono presenti razze cosmopolite ad alta specializzazione per la produzione di latte, come la Frisona e la Bruna, allevate intensivamente in stalle a stabulazione libera nelle zone di pianura e di bassa collina ad elevata vocazione agricola.

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Cinisara

Modicana

La Frisona, a mantello bianco pezzato nero e raramente pezzato rosso, è stata diffusamente introdotta in Sicilia a partire dal secondo dopoguerra. Nel 2005, ha fatto registrare in Sicilia una presenza di 28.778 capi iscritti al Libro Genealogico, che rappresentano l’1,7% della consistenza nazionale della razza. Il suo allevamento interessa tutte le provincie isolane, e l’8,3% si concentra nella provincia di Palermo. La notevole produzione quantitativa si associa ad una mediocre qualità del latte, che presenta bassi tenori in grasso e proteina, ad una breve longevità e ad una ridotta rusticità. La grande espansione della razza Bruna, a mantello grigio e talvolta bruno dorato, si è avuta in Sicilia a partire dagli anni ’80 per aumentare la produzione di latte degli allevamenti isolani. La consistenza regionale dei capi iscritti al Libro genealogico nel 2005 si è attestata sui 23.122 capi, pari al 4,7% del patrimonio nazionale della razza; il 34,5% delle Brune siciliane è sottoposto ai controlli funzionali, con produzioni di 62,7 qli in 305 giorni di lattazione (tabella). È presente in tutte le provincie siciliane con il 22,5% delle bovine controllate in Provincia di Palermo. Il latte della Bruna, contrariamente alla Frisona, presenta elevata qualità e buona attitudine alla caseificazione, dovuto anche alla elevata incidenza, intorno al 64%, della variante B della k-caseina nel latte. La razza presenta anche una certa rusticità che le consente di essere allevata al pascolo nelle aree collinari. In queste circostanze, il latte viene trasformato direttamente in azienda destinandolo anche alla produzione di prodotti caseari tipici. Tabella: Consistenza del patrimonio bovino, ovino e caprino siciliano. (1) 5°

Censimento generale ISTAT dell’Agricoltura, anno 2000. (2) Banca Dati Nazionale di Teramo, Ministero della Salute, dati aggiornati al 30 agosto 2006.

Capi di bestiame (var.% 2006-2000)

BOVINI OVINI e CAPRINI

2000 (1) 307.876 830.332

2006 (2) 402.156 (+30,6%) 1.233.913 (+48,6%)

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Allevamenti (var.% 2006-2000)

BOVINI OVINI e CAPRINI

2000 (1) 9.045 8.978

2006 (2) 12.326 (+36,3%) 9.461 (+5,4%)

Capi per allevamento (var. 2006-2000)

BOVINI OVINI e CAPRINI

2000 (1) 34,0 92,5

2006 (2) 32,6 (-1,37) 130,4 (+37,9)

Capi di bestiame e allevamenti nelle provincie siciliane, anno 2006 (2) BOVINI OVINI e CAPRINI

Capi Allevamenti Capi Allevamenti Palermo 79.968 2785 217.423 2.194

Caltanissetta 7.452 44.310 3.228 Agrigento 12.172 669 137.716 1.396 Caltanissetta 8.884 358 87.560 471 Catania 33.930 723 137.890 612 Enna 60.807 1.549 172.744 1.176 Messina 81.671 2.732 295.880 1.839 Ragusa 78.954 1.917 32.000 653 Siracusa 38.968 1.159 46.700 409 Trapani 6.802 434 106.000 711 Totale 402.156 12.326 1.233.913 9.461

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Tabella. Razze bovine da latte allevate in Sicilia: consistenza e produzione quanti-qualitativa di latte nella lattazione convenzionale in Italia, Sicilia e nella

provincia di Palermo (AIA, 2005) (LG=Libro Genealogico; RA=Registro Anagrafico).

Bovine Bovine controllate

Lattazioni controllate

Durata lattazione

convenzionale

Produzione di latte

Grasso del latte

Proteine del latte

(n.) (n.) (n.) (d) (kg) (%) (%) ITALIA Modicana LG 10.000 (1) 2.847 1.981 254 3.241 3,54 3,44

Cinisara RA 3.500 (1) 2.996 1.983 254 3.865 3,49 3,42 Siciliana RA 356 66 254 3.266 3,49 3,33

Frisona LG 1.655.020 (2) 1.101.657 673.342 305 8.758 3,66 3,25

Bruna LG 486.817 (3) 116.741 76.552 305 6.581 3,98 3,46 SICILIA Modicana LG 10.000 (1) 2.844 1.980 254 3.242 3,54 3,44

Cinisara RA 3.500 (1) 2.996 1.983 254 3.865 3,49 3,42 Siciliana RA 356 66 254 3.266 3,49 3,33 Frisona LG 28.778 (2) 18.962 12.072 305 7.553 3,50 3,19 Bruna LG 23.122 (3) 7.971 5.285 305 6.269 3,67 3,38 PALERMO Modicana LG 1.340 913 254 3.293 3,50 3,46

Cinisara RA 2.512 1.599 254 3.934 3,44 3,42 Siciliana RA 16 3 254 3.625 3,20 3,37 Frisona LG 3.016 (2) 1.581 1.018 305 6.744 3,66 3,33 Bruna LG 1.794 1.260 305 6.105 3,61 3,44

(1) Stime locali. (2) Bovine iscritte al Libro Genealogico, dato ANAFI (Associazione Nazionale Allevatori Frisona Italiana), 2005. (3) Bovine iscritte al Libro Genealogico, dato ANARB (Associazione Nazionale Allevatori Razza Bruna), 2005.

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5.2.1.2. L’allevamento ovino e caprino (a cura di Adriana Bonanno)

Gli allevamenti ovini e caprini sono presenti in numero consistente nelle province di Messina, Palermo ed Enna. Nella provincia di Palermo nel 2006 sono presenti 2.194 allevamenti ovini e caprini, pari al 23,2% del totale regionale, con un numero complessivo di capi pari a quasi 217.423, che rappresentano il 17,6% della consistenza ovina e caprina isolana. Gli ovini allevati in biologico nel 2000 sono 15.704 e i caprini 4.477, nel complesso pari al 6,1% del patrimonio ovino e caprino biologico nazionale; essi sono presenti soprattutto nelle province di Enna, Messina e Catania, mentre la provincia di Palermo detiene il 4,8% degli ovini ed il 2,5% dei caprini allevati con metodo biologico. La razza ovina più diffusa in Sicilia è la Pinzirita, ma resiste ancora bene la Comisana, mentre si va diffondendo sempre di più l’allevamento della razza Valle del Belice. Per gli ovini, l’indirizzo produttivo prevalente è quello del latte e, secondariamente, quello della carne. La tipologia è varia: si passa infatti dagli allevamenti stanziali, condotti con sistemi semi-intensivi, provvisti di ovili per il ricovero degli animali, alimentazione razionale e soddisfacenti condizioni igienico sanitarie dei capi, a quelli montani caratterizzati da un sistema pastorale “arcaico” di tipo brado, in cui a volte si continua a praticare la transumanza, assenza di strutture, alimentazione inadeguata, a volte carenti condizioni igienico-sanitarie dei capi. L’attività si presenta, comunque, sempre polverizzata, per il basso numero di capi per azienda; difatti il 60% delle aziende detiene meno di 100 capi. Tuttavia, negli ultimi anni, si è riscontrato un sensibile abbassamento dell’età media degli allevatori, da cui è derivato un ricambio generazionale che ha favorito il processo di adeguamento degli allevamenti alle attuali norme igienico-sanitarie. Tuttavia, chi non dispone per dimensione e per struttura di punti di caseificazione a norma comunitaria è costretto a vendere il latte sottraendo all’economia zonale, oltre che il valore aggiunto, anche la tipicità dei prodotti caseari. Le produzioni casearie, non omogenee in pezzatura e caratteristiche organolettiche, vengono veicolate prevalentemente verso il mercato locale (CORERAS, 2004). L’allevamento ovino del palermitano, localizzato soprattutto nelle zone di collina o di pianura, è incentrata principalmente sull’allevamento della razza Comisana e della Valle del Belice, sebbene esistano molti allevamenti con promiscuità di razze. Le produzioni tipiche sono rappresentate dal Pecorino Siciliano nelle sue varie tipologie (tuma, primosale, secondo sale e stagionato), dalla Vastedda della Valle del Belice e dalla ricotta. diffuseLe razze caprine più diffuse in Sicilia sono la Rossa Mediterranea, la Maltese e la Messinese. Nonostante l’interessante patrimonio genetico, la caprinicoltura siciliana risulta priva di una sua definita connotazione, che le deriverebbe da una specifica produzione lattiero-casearia. Essa, infatti, gravita in massima parte in allevamenti misti dove i caprini coesistono con altre specie e il loro latte viene destinato alla produzione di formaggi tipici e di ricotta da latte misto. Il latte caprino, infatti, entra frequentemente

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nella composizione del latte destinato all’ottenimento del Canestrato, ed è notevolmente apprezzata la ricotta prodotta aggiungendo latte di capra al siero. Fanno eccezione alcune sporadiche e recenti realtà produttive, presenti anche nella provincia di Palermo, che adottano tecnologie casearie d’importazione per confezionare prodotti freschi esclusivamente caprini. Ne consegue che, in Sicilia, così come anche nella provincia di Palermo, non esista una tradizione casearia tipica legata alla specie caprina, benché sia viva la consapevolezza che solo un’adeguata valorizzazione produttiva, che passi attraverso il rilancio del latte caprino per il consumo fresco o l’introduzione di nuove tecniche casearie per l’ottenimento di “caprini” freschi, possa promuovere lo sviluppo del settore e sia l’unico mezzo per scongiurare il rischio di estinzione cui versano alcune razze caprine autoctone siciliane. La caprinicoltura dell’area palermitana, localizzata principalmente nelle zone montane delle Madonie, è legata in massima parte a schemi di conduzione tradizionali caratterizzati da carenze di strutture e attrezzature e da pascoli poveri e impervi dove le capre, per la loro rusticità e capacità di adattamento, riescono a produrre discrete quantità di latte. Si alleva la popolazione indigena, che non è ascrivibile a nessun tipo genetico ben definito, con qualche insediamento delle razze Rossa Mediterranea e Maltese.

5.2.1.2.1. Le razze ovine da latte allevate in Sicilia: Comisana, Valle del Belice e Pinzirita (a cura di Adriana Bonanno)

La tabella riporta i dati nazionali, siciliani e palermitani della consistenza e degli allevamenti del Libro Genealogico delle razze ovine, nonché il numero delle pecore e degli allevamenti controllati dall’AIA (Associazione Italiana Allevatori) nel 2005, e le relative produzioni medie di latte riferite alla lattazione convenzionale. La razza Comisana, nota anche come “testa rossa” per il colore fulvo della sua testa, è una delle razze ovine più pregiate del Mediterraneo, seconda in Italia per consistenza dopo la Sarda e prima in Sicilia. Le stime che riportano per il 2000 una consistenza della popolazione nazionale pari a circa 700.000 capi, di cui almeno 400.000 allevati in Sicilia (ISZS, 2004), dovrebbero essere riviste alla luce della notevole diffusione cui è andata incontro negli ultimi anni la razza Valle del Belice sostituendo in molte aree regionali la Comisana. La pecora Comisana deriva il suo nome da Comiso, comune del ragusano dove in passato se ne svolgeva il più importante mercato. Venne selezionata agli inizi del XX secolo nelle province di Siracusa e Ragusa, attraverso incroci di sostituzione tra pecore autoctone siciliane, di cui ha conservato la rusticità e l'adattamento all'ambiente semi-arido, e arieti provenienti da Malta e dal nord Africa, dal caratteristico colore rosso della testa, che ne hanno migliorato la produzione lattifera. A seguito dell’emigrazione di alcuni allevatori isolani che portavano con sé le greggi, la Comisana cominciò a diffondersi fuori dalla Sicilia, nelle regioni dell’Italia centro meridionale, dove oggi si registra un'importante presenza della razza (ISZS, 2004).

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Dotata di Libro Genealogico, è sottoposta ad un programma di miglioramento genetico coordinato dall’Istituto Sperimentale Zootecnico per la Sicilia, presso il quale è attivo il Centro di valutazione genetica degli arieti. I capi iscritti al Libro Genealogico nel 2005 sono circa 128.000 in 877 allevamenti, di cui il 69% presente in Sicilia. L’AIA nel 2005 ha controllato in Italia 630 allevamenti, per un totale di circa 69.665 pecore, registrando produzioni medie di latte di 182 kg in 200 giorni di lattazione (tabella). A livello individuale, la produzione di latte varia dai 120 a oltre i 200 kg per lattazione, e in alcune aziende vi sono soggetti di pregio che producono più di 2 litri di latte al giorno. Il 42% circa delle pecore Comisane del Libro Genealogico in Sicilia è allevato nella provincia di Palermo, dove i controlli funzionali, effettuati sul 56,6% delle pecore, hanno fatto registrare produzioni medie di 199 kg di latte in 200 giorni di lattazione (tabella). La pecora Comisana è allevata principalmente per la sua ottima produzione di latte con un'elevata resa alla caseificazione, destinata alla trasformazione in formaggi tipici di alto pregio prodotti artigianalmente, il principale dei quali è il Pecorino Siciliano. Essa costituisce una risorsa genetica preziosa per le aree interne collinari e montuose della Sicilia, dove nonostante le difficili condizioni pedo-climatiche la razza è capace di assicurare una produzione lattiero-casearia di grande valore, basata sull'utilizzo delle risorse naturali locali. Pur essendo allevata con sistemi tipicamente estensivi o semi-estensivi, la pecora Comisana si adatta bene anche a sistemi di allevamento più intensivi, con stabulazione semi-libera, mungitura meccanica e un regime alimentare che prevede il ricorso al concentrato, dando ottimi risultati produttivi (Giaccone et al., 1994; ISZS, 2004) Per la sua fertilità (95%) e prolificità (180%), la Comisana è un'ottima produttrice di agnelli dalla cui vendita a 30-45 giorni e al peso di 9-12 kg si ricava circa 1/3 del reddito dell'allevamento. La maggior parte degli agnelli nasce durante le due stagioni di parto autunnale e primaverile, in anticipo rispetto alle festività di Natale e Pasqua, quando la domanda di agnelli è tradizionalmente elevata. La pecora Valle del Belìce, recentemente riconosciuta con l’istituzione del Libro Genealogico, è una razza autoctona molto interessante, caratterizzata da produzioni quanti-qualitative di rilievo nel panorama zootecnico nazionale ed internazionale. Per questo motivo ha subito in questi ultimi anni una notevole espansione in Sicilia come anche in altre regioni centro-meridionali. Sempre di recente, è stato avviato un piano di miglioramento genetico che prevede la valutazione genetica degli arieti ai fini della selezione. Annualmente, a Santa Margherita Belice, si svolge una mostra regionale del Libro Genealogico della razza, dove vengono esposti i soggetti della migliore genealogia. L’attuale consistenza dei capi iscritti al Libro Genealogico è di oltre 154.000, quasi tutti presenti in Sicilia; il 60% circa delle 148.745 pecore siciliane è sottoposto a controlli funzionali, con produzioni medie di 196 kg di latte in 200 giorni di lattazione. In Sicilia è presente nella zona collinare compresa tra le provincie di Agrigento, Trapani e Palermo, detta appunto Valle del Belice dal nome del fiume che attraversa il territorio;

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il tali provincie si concentra l’83,2% dei capi siciliani del Libro Genealogico ed il 74,5% delle pecore controllate dall’AIA in Sicilia. La provincia di Palermo è attualmente quella maggiormente interessata alla razza, infatti detiene il 42,2% della consistenza siciliana ed il 34,4% delle pecore controllate (tabella). Ha avuto origine dall’incrocio e successivo meticciamento tra tre diverse razze, la Pinzirita, la Comisana e la Sarda, dalle quali ha ereditato, rispettivamente, la rusticità, la mole e la produttività. Di taglia media, con vello bianco, presenta la testa bianca con gli occhi a volte contornati da una caratteristica orlatura di colore rosso più o meno scuro, talora anche color caffè. Sono presenti pure soggetti con una pigmentazione frastagliata di colore rosso molto chiaro o color caffè che può interessare anche la parte delle guance. Le corna spiralate sono eventualmente presenti nei maschi. La mammella è di grande volume, spesso quadrata con ampia base di attacco, ben sostenuta da attacchi forti. È fortemente apprezzata per le sue caratteristiche morfologiche, per l’elevata produttività e per la rusticità che la rende resistente alle avversità climatiche tipiche del suo habitat. Il sistema di allevamento è di tipo semi-estensivo, basato sul pascolamento giornaliero di 5-6 ore su pascoli naturali o coltivati, facendo ricorso alle integrazioni. Si registrano, in alcuni casi, anche produzioni pari a 250-270 kg di latte nell’intera lattazione, con produzioni medie di 1,5 litri di latte al giorno. Per quanto concerne la qualità del latte, sono stati rilevati contenuti percentuali di grasso oscillanti tra il 6,7 ed il 7,4% con un contenuto di proteina variabile dal 5,9 al 6,4% in funzione delle diverse condizioni di allevamento e dello stadio di lattazione. Notevole è l’attitudine alla caseificazione del latte, che mostra elevate rese e ottima coagulabilità che si mantiene quasi costante per l’intera lattazione. Oltre la Ricotta, dal latte si ricava il Pecorino Siciliano ma soprattutto la Vastedda della Valle del Belice, unico formaggio siciliano a pasta filata realizzato con latte ovino (Giaccone et al., 1999; Todaro e Scatassa, 2001). La razza Pinzirita, dotata anch’essa di Libro Genealogico, si è anticamente originata da ovini di razza asiatica o siriana del ceppo Zackel ed è considerata autoctona della Sicilia. La taglia è media, il vello bianco e la testa è bianca irregolarmente picchettata di colore nero o marrone scuro; le corna spiralate e portate all’indietro sono presenti nei maschi. Le zone di diffusione sono generalmente le aree interne montane e sub-montane dell’isola (Portolano et al., 1995; 1996).

Pinzirita

Valle del Belice

È stimata una consistenza di circa 200.000 capi, dei quali 81.371 sono quelli iscritti al Libro Genealogico nel 2005, presenti totalmente in Sicilia. Le 47.266 pecore

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sottoposte nel 2005 ai controlli funzionali hanno fatto registrare produzioni medie di 147 kg di latte in 180 giorni di lattazione. Il 55,6% dei capi iscritti è allevato nella provincia di Messina; buone consistenze si rilevano a Catania ed Enna, mentre la provincia di Palermo detiene pochissimi capi (tabella). La razza è dotata di notevole rusticità che le consente di fornire una, seppur esigua, produzione di latte negli ambienti estremamente difficili in cui è diffuso il suo allevamento. Il latte viene destinata alla trasformazione artigianale in formaggi tipici, come il Pecorino o, in miscela con quello delle altre specie, il Maiorchino (ARAS, 2001).

5.2.1.2.2. Le razze caprine allevate in Sicilia: Maltese, Rossa Mediterranea, Girgentana, Argentata dell’Etna e Messinese (a cura di Adriana Bonanno)

I dati nazionali, siciliani e palermitani della consistenza e degli allevamenti del Libro Genealogico o del Registro Anagrafico delle razze caprine, nonché il numero delle capre e degli allevamenti controllati dall’AIA (Associazione Italiana Allevatori) nel 2005, e le relative produzioni medie di latte riferite alla lattazione convenzionale, sono raccolti nella tabella. Il patrimonio caprino regionale comprende razze cosmopolite (Maltese e Rossa Mediterranea) e razze autoctone (Girgentana, Argentata dell’Etna e Messinese), ma la parte più consistente è costituita da una popolazione meticcia non ascrivibile ad alcun tipo genetico ben definito. La Maltese e la Girgentata sono dotate di Libro Genealogico, mentre le altre razze sono inserite nel Registro Anagrafico delle razze caprine. La consistenza stimata della Maltese, originaria dell’isola di Malta, è sui 40.000 capi. Nel 2005, i soggetti iscritti al Libro Genealogico, attivo dal 1976, sono 7.832, presenti in massima parte in Sardegna. La Sicilia ne detiene il 17,3%, soprattutto nelle province di Caltanissetta e Agrigento, mentre la provincia di Palermo ha 241 capi, pari al 17,8% dei capi iscritti siciliani (tabella). Morfologicamente, la testa presenta maculature nere corvine più o meno estese, orecchie lunghe, larghe, pendenti e con le estremità rivolte all'esterno e in alcuni casi le corna in entrambi i sessi, mentre il mantello è di colore bianco con possibilità di pezzature nere. Viene allevata prevalentemente allo stato semi-brado, ma si adatta a sistemi intensivi a stabulazione permanente. Docile e rustica, adattabile a diversi ambienti, mostra una spiccata attitudine lattifera, con produzioni medie intorno ai 390 kg in Sicilia, che possono raggiungere punte di 500-600 kg di latte in 300 giorni di lattazione. Il latte è caratterizzato dall’assenza dell’odore e del sapore ircino. Destinato in passato al consumo diretto, oggi il latte è caseificato con quello di altre specie (Portolano, 1987; Noè et al., 2005).

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Rossa Mediterranea

Girgentana

La Rossa Mediterranea, nota anche come Derivata di Siria, poiché si è originata dalla capra di Damasco o di Siria, ha una consistenza stimata di circa 56.000 capi. Nel 2005, gli iscritti al Registro Anagrafico, attivo dal 2003, sono 4.066, allevati per il 64,5% in Sicilia, e la restante parte in Basilicata e in altre regioni centro-meridionali. In Sicilia è presente principalmente nelle provincie di Caltanissetta, Palermo e Ragusa. Nella provincia palermitana si alleva il 19,4% del totale dei capi iscritti in Sicilia (tabella). L’allevamento è prevalentemente misto con ovini in sistemi semi-estensivi, ma si registra un buon adattamento della razza alla stabulazione. La testa è caratterizzata da orecchie lunghe, larghe, pendenti e con le estremità rivolte all'esterno e, raramente, dalla presenza di corna in entrambi i sessi, mentre il mantello è di colore fulvo. La razza è dotata di una spiccata rusticità che la rende adatta a difficili condizioni ambientali. La produzione di latte è elevata, soprattutto in Sicilia dove si registrano medie per lattazione di oltre 400 kg e punte fino ai 750 kg. Il latte presenta caratteristiche ircine poco percettibili e un alto contenuto in αs1-caseina che aumenta la resa casearia. La caseificazione è per lo più effettuata in miscela con latte ovino (Portolano, 1987; Giaccone et al., 1998; Noè et al., 2005). La razza Girgentana prende il nome da Girgenti, l’odierna Agrigento. Negli ultimi anni ha subito una forte contrazione numerica per il divieto ad allevarla nei centri abitati e il conseguente abbandono della vendita “porta a porta” del latte. I 30.000 capi censiti nel 1983 si sono ridotti in un decennio a 524. Per evitare l’estinzione, si sono intraprese azioni di salvaguardia. Il Libro Genealogico, attivo dal 1976, ha così raggiunto nel 2005 in Sicilia la consistenza di 1.232 capi distribuiti in 17 allevamenti, presenti per oltre il 66% nella provincia di Agrigento e per il 28,4% in quella di Palermo (tabella). L’allevamento è prevalentemente semi-estensivo, e in alcuni casi si mantiene la tradizionale stabulazione in poste di legno sopraelevate, benché la razza si adatti alla stabulazione libera. La Girgentane si caratterizza per le lunghe corna attorcigliate ed erette, presenti in entrambi i sessi, più lunghe nei maschi, fino a 70 cm. Il mantello è bianco con la fronte ed i mascellari di colore fulvo, spesso caratterizzato da una numerosa picchiettatura. La stessa colorazione è presente anche sulle orecchie e spesso sul garrese. La razza, rustica, è in grado di pascolare in zone impervie ma, per lo sviluppo delle corna, non si adatta alle aree boschive. Il carattere è vivace e mediamente docile. La produzione di latte è elevata, pari in media a 310 kg e di buona qualità. In passato il latte, privo di sapore e odore ircino e con basso tenore in grasso, era destinato al consumo fresco; oggi viene trasformato in azienda (Di Grigoli et al., 2003; Noè et al., 2005).

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L’Argentata dell’Etna deve la denominazione al mantello grigio-argenteo e alla zona di origine, ricadente nelle pendici dell’Etna. La consistenza non supera i 7000 capi e la diffusione è locale. Nel 2005, il Registro Anagrafico, istituito nel 2002, comprende 1.888 caprini presenti in 53 allevamenti, per la quasi totalità in provincia di Messina ed Enna, mentre a Palermo sono presenti pochissimi capi (tabella). É allevata allo stato brado e semibrado in zone di montagna, in nuclei poco numerosi affiancati ad altre razze e popolazioni caprine, la Messinese in particolare, e agli ovini. Le corna sono generalmente presenti in entrambi i sessi; il mantello, dal pelo lungo, è di colore grigio, dal chiaro allo scuro, con riflessi argentei. La razza, dal temperamento vivace, è dotata di particolare rusticità e adattamento agli estremi climatici e ai pascoli acclivi tipici delle aree di allevamento. La produzione di latte è buona, se commisurata all’ambiente in cui si ottiene; si registrano medie di 175 kg e punte di oltre i 300 kg nell’intera lattazione con il ricorso al concentrato. Il latte, ben dotato in grasso e proteine, era destinato in passato anche al consumo diretto, mentre oggi è normalmente caseificato insieme a quello ovino (Schembri, 1987; Noè et al., 2005). La capra Messinese, riconosciuta con l’istituzione del Registro Anagrafico nel 2001, si distingue per consistenza, pari a circa 42.000 unità, e per uniformità fenotipica. I capi iscritti al Registro Anagrafico nel 2005 sono 11.077, distribuiti in 85 allevamenti nella sola provincia di Messina. L’allevamento è condotto al pascolo brado in aree montane. Le corna sono presenti nei due sessi; il mantello può essere uniforme, pezzato o screziato, di colore nero, bianco, marrone e rosso in varie combinazioni e sfumature. La razza è rustica e frugale, utilizzatrice di pascoli acclivi, cespugliati e nutrizionalmente poveri. Gli allevamenti forniscono produzioni soddisfacenti con minimi costi di investimento e di gestione. Il prodotto principale è dato dai capretti macellati a 30-40 giorni d’età. Il latte, la cui produzione si attesta sui 162 kg, viene munto nei periodi di massima produzione destinandolo alla trasformazione casearia con latte bovino od ovino (Giaccone et al., 2005; Noè et al., 2005).

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Tabella: Razze ovine da latte allevate in Sicilia: consistenza e produzione di latte nella lattazione convenzionale in Italia, Sicilia e nella provincia di

Palermo (AIA, 2005) (LG=Libro Genealogico).

Capi totali (1) Pecore (1) Allevamenti (1) Pecore controllate Allevamenti controllati

Lattazioni controllate

Durata lattazione convenzionale Produzione di latte

(n.) (n.) (n) (n.) (n.) (n.) (d) (kg) ITALIA Comisana LG 128.128 124.838 877 69.665 630 63.248 200 182 Valle del Belice LG 154.547 149.893 853 88.054 691 82.084 200 196 Pinzirita LG 81.372 80.778 406 47.266 320 44.141 180 147 SICILIA Comisana LG 88.593 86.680 671 50.705 471 48.479 200 196 Valle del Belice LG 153.399 148.745 849 88.043 690 82.073 200 196 Pinzirita LG 81.371 80.777 405 47.266 320 44.141 180 147 PALERMO Comisana LG 37.589 36.461 317 20.622 214 19.643 200 199 Valle del Belice LG 53.850 52.141 342 30.195 276 29.062 200 193 Pinzirita LG 78 78 2 37 1 37 180 134

(1) Capi iscritti al Libro Genealogico, dati ASSONAPA (Associazione Nazionale per la Pastorizia), 2005.

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Tabella: Razze caprine allevate in Sicilia: consistenza e produzione di latte nella lattazione convenzionale di 210 giorni in Italia, Sicilia e nella provincia di

Palermo (AIA, 2005). (LG=Libro Genealogico; RA=Registro Anagrafico).

Capi totali

(1) Capre

(1)

Allevamenti (1) Capre

controllate

Allevamenti

controllati

Lattazioni

controllate

Produzione di latte

(n.) (n.) (n) (n.) (n.) (n.) (kg) ITALIA Maltese LG 7.832 7.389 118 3.218 74 2.426 298 Rossa Mediterranea RA 4.066 3.927 75 1.343 36 730 339

Girgentana LG 1.251 1.132 18 502 18 405 310 Argentata dell’Etna RA 1.888 1.853 53 510 20 186 175 Messinese RA 11.077 11.008 85 10.163 81 8.815 162 SICILIA Maltese LG 1.356 1.311 39 514 21 191 397 Rossa Mediterranea RA 2.624 2.601 61 976 25 461 406

Girgentana LG 1.232 1.115 17 497 17 401 311 Argentata dell’Etna RA 1.888 1.853 53 510 20 186 175 Messinese RA 11.077 11.008 85 10.163 81 8.815 162 PALERMO Maltese LG 241 232 5 36 2 35 313 Rossa Mediterranea RA 510 495 7 128 2 113 293

Girgentana LG 350 292 2 135 2 115 232 Argentata dell’Etna RA 69 66 1 49 1 47 210 Messinese RA - - - - - - -

(1) Capi iscritti al Libro Genealogico o al Registro Anagrafico, dati ASSONAPA (Associazione Nazionale per la Pastorizia), 2005.

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5.2.2. Il settore lattiero-caseario regionale (a cura di Adriana Bonanno)

In Sicilia nel 2001, secondo i dati ISTAT, il valore della produzione di latte di tutte le specie ammonta a oltre 170 milioni di euro, pari al 5% della produzione a prezzi di base (PPB) dell’agricoltura regionale. Il latte bovino, con un valore di circa 108 milioni di euro, contribuisce per il 62% sulla PPB del settore lattiero-caseario, mentre il latte ovi-caprino, con una PPB di circa 64 milioni di euro, vi contribuisce per il 38% (Pappalardo, 2006). In Sicilia, la produzione di latte delle varie specie, rilevata dall’ISTAT nel 2004, è stata pari a 2,8 milioni di ettolitri, pari al 2,5% della produzione nazionale, di cui 2,2 milioni di ettolitri di latte bovino e bufalino e 592.000 ettolitri di latte ovi-caprino (tabella). La quantità di latte di tutte le specie è diminuita rispetto al 2000 in cui si registravano produzioni di 2,9 milioni di ettolitri e 963.000 ettolitri rispettivamente per il latte bovino e bufalino e per quello ovi-caprino, riduzione superiore a quella registrata a livello nazionale nello stesso periodo. Per il latte bovino, la produzione è stata influenzata dal regime delle quote latte, che ha portato ad una riduzione della consistenza animale, mentre per il latte ovi-caprino l’andamento produttivo è stato determinato da fattori climatici e sanitari (Pappalardo, 2006). Il latte complessivo raccolto dall’industria lattiero-casearia ha costituito in Italia, nel 2004, il 95,5% del latte prodotto. Nello stesso anno, in Sicilia, tale quota ha riguardato il 47% circa del latte prodotto da tutte le specie, e di questo il latte bovino rappresenta il 90,9%, il latte ovino l’8,9% e quello caprino solo lo 0,1% (tabella). La quota conferita risulta notevolmente inferiore rispetto al dato nazionale ma superiore rispetto al 2000 quando il latte siciliano destinato all’industria rappresentava il 37% (Pappalardo, 2006). Tale aumento si spiega con l’evoluzione subita nel quadriennio dal comparto della trasformazione del latte, sia bovino che ovi-caprino, dettata dai vincoli imposti dalla normativa comunitaria in materia di tutela igienico sanitaria del latte e dei prodotti da esso derivati, che ha portato, in Sicilia, ad un aumento delle quantità di latte conferite all’industria lattiero-casearia e ad una corrispondente riduzione del latte trasformato direttamente presso l’azienda agricola. Difatti, l’adeguamento delle vecchie strutture aziendali di trasformazione alla vigente normativa si è rivelata una strada percorribile solo per quelle imprese che per dimensioni produttive hanno potuto sostenere gli investimenti, mentre le piccole imprese, attrezzate di vasche refrigeranti, hanno finito per collocare preferibilmente il prodotto verso le imprese di trasformazione industriale. Queste ultime, se da un lato garantiscono un elevato livello igienico-sanitario dei prodotti al consumo, grazie all’adeguamento alle disposizioni normative, all’applicazione dei sistemi di autocontrollo HACCP, alla certificazione di qualità secondo le norme ISO 9000 e alla tracciabilità di filiera, dall’altro lato hanno provocato un totale appiattimento della variabilità degli aromi e dei sapori delle tradizionali tipologie di formaggio.

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Alle industrie casearie si contrappone ancora oggi in Sicilia la caseificazione aziendale, condotta artigianalmente con tecniche tradizionali, soprattutto nelle zone interne collinari e di montagna. Secondo dati AGEA sulla produzione commercializzata di latte bovino nella campagna 2002/2003, il 22% delle aziende zootecniche in Sicilia realizzano la caseificazione direttamente in azienda, mentre nel resto d’Italia la percentuale si abbassa al 7,1% (CORERAS, 2004). Allo stato attuale, il latte trasformato in azienda riguarda ancora la quota preponderante del latte prodotto in ambito regionale, pari nel complesso al 53%, e in maggior misura per quello ovi-caprino (80%) rispetto a quello bovino (46%).

Tabella: Produzione di latte e latte raccolto presso le aziende agricole dall’industria lattiero-casearia per specie

(ISTAT, 2004).

Sicilia Italia latte prodotto latte raccolto latte prodotto latte raccolto (ettolitri) (quintali) (ettolitri) (quintali) Vacca 1.183.272 99.692.021 Bufala 1.467 1.670.529 Vacca e bufala 2.189.000 1.184.739 105.070.000 101.362.550 Pecora 115.708 4.938.709 Capra 1.421 247.030 Pecora e capra 592.000 117.129 6.483.000 5.185.739

Totale 2.781.000 1.301.868 111.553.000 106.548.289

5.2.3. I formaggi tradizionali della provincia di Palermo (a cura di Adriana Bonanno)

Le origini della tradizione casearia siciliana risalgono a tempi remoti. Secondo la mitologia pare che il primo “tecnico caseario” della Sicilia sia stato un certo Aristeo, figlio del dio Apollo e della ninfa Cirene, cui per primo è rivelata l’arte di preparare il formaggio. Anche Omero, nel IX libro dell’Odissea, racconta l’antichissima vocazione casearia dell’isola, descrivendo l’incontro in Sicilia tra Ulisse e il ciclope Polifemo che, dedito alla pastorizia e alla trasformazione casearia, può essere considerato il più antico quanto leggendario casaro dell’isola. Sicuramente la produzione del latte ha avuto nei secoli un’importanza fondamentale per un’isola a vocazione agricola come la Sicilia, e la sua trasformazione in prodotti di lunga durata, come i formaggi, lo ha reso adatto al sostentamento delle famiglie contadine ed agli scambi commerciali. D’altra parte, le testimonianze storiche confermano come la Sicilia rappresenti anche la culla di origine della produzione casearia europea da quando, divenuta una provincia romana nel 241 a.C., le legioni romane diffusero l’arte casearia dell’isola nelle terre che andavano conquistando (Caracappa, 2004). Ancora oggi, il settore lattiero-caseario siciliano, accanto ai formaggi di produzione industriale perfettamente standardizzati per aspetto e qualità, vanta un ricco ed inestimabile patrimonio di prodotti caseari tipici, frutto di antiche tradizioni artigianali e dell’esperienza dei casari tramandate da generazione in generazione, che li rendono unici ed inimitabili.

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Si tratta di formaggi ancora oggi realizzati nelle aziende agricole ricorrendo a metodi di lavorazione artigianale e attrezzi tradizionali, caratterizzati da una forte identità territoriale e storica ed espressione di una cultura casearia che affonda le radici nella storia stessa di questa regione. Le loro pregevoli peculiarità organolettiche, le preziose proprietà nutritive e salutistiche e il legame con le tradizioni alimentari e la cultura storica sono in grado di soddisfare pienamente le nuove esigenze di gusto e genuinità del moderno consumatore. Inoltre, le loro fasi produttive, localizzate all’interno di un ambiente specifico e ben circoscritto, quindi facilmente controllabile e rintracciabile, ne rendono perfettamente individuabile l’origine e ne garantiscono la sicurezza alimentare. La Sicilia annovera un cospicuo numero di formaggi tipici che, riconosciuti come “prodotti storici fabbricati tradizionalmente”, godono della deroga al DPR 54/97 per l’impiego, nel processo di caseificazione, di attrezzature, utensili e locali di stagionatura tradizionali. Nella 5a revisione aggiornata dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali, allegato al Decreto del MIPAF del 18 luglio 2005, pubblicato nel Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale Serie generale n. 174 del 28/7/2005, sono inclusi 33 prodotti siciliani storici, di cui 28 formaggi e 5 ricotte, queste ultime classificate come prodotti di origine animale (tabella). Come tutte le altre province regionali, anche quella di Palermo annovera una cospicua produzione di formaggi tipici. Dei 33 prodotti storici siciliani, 16 sono ottenuti a livello locale, gli altri hanno valenza regionale. Tra i formaggi locali, 5 riguardano esclusivamente la provincia di Palermo (Caciocavallo Palermitano, Provola dei Monti Sicani, Provola delle Madonie, Tumazzu di vacca, Vastedda Palermitana), che risulta così in ambito regionale quella maggiormente interessata ai prodotti tradizionali.

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Tabella: Prodotti agroalimentari tradizionali della Regione Siciliana inclusi nella 5a revisione dell’elenco nazionale allegato al Decreto del MIPAF del 18 luglio 2005, pubblicato nel Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale Serie generale n. 174 del 28/7/2005 (L= prodotto locale; R= prodotto regionale).

Tipologia N° Prodotto formaggi 13 ainuzzi R 14 belicino L 15 caci figurati R 16 caciocavallo palermitano L 17 caciotta degli elimi L 18 canestrato R 19 canestrato vacchino R 20 cofanetto L 21 cosacavaddu ibleo L 22 ericino L 23 formaggio di capra “padduni” R 24 formaggio di capra siciliana R 25 formaggio di s. stefano quisquina L 26 maiorchino L 27 maiorchino di novara di Sicilia L 28 mozzarella R 29 pecorino rosso R 30 piacentino (piacentinu) L

31 picurinu: tuma, primosale, secndo sale, stagionato

R

32 piddiato R 33 provola R 34 provola dei monti sicani, caciotta L

35 provola delle madonie L

36 provola siciliana R

37 tumazzu di vacca L

38 vastedda della valle del belice L 39 vastedda palermitana L prodotti di origine animale (miele, prodotti lattiero caseari di vario tipo escluso il burro)

235 ricotta di pecora R

236 ricotta di vacca R 237 ricotta iblea L 238 ricotta infornata R 239 ricotta mista R

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Nella tabella sono elencati i principali prodotti caseari tradizionali che, per area di produzione, coinvolgono la provincia di Palermo. Sono state individuate 8 tipologie di prodotto, 7 formaggi e la ricotta, ad alcune delle quali sono state affiancate le tipologie derivate, che si differenziano per la zona di produzione, come la Provola delle Madonie e la Provola dei Monti Sicani, per il latte di origine, come il Canestrato vacchino, oppure per aspetti relativi ad alcune fasi della lavorazione, come i Caci figurati, il Pecorino rosso e la Ricotta infornata. Le tipologie dei prodotti caseari tipici della provincia di Palermo, come quelle dell’intera Sicilia, possono essere classificate in base al tipo di latte da cui derivano (formaggi vaccini, ovini o misti) e al tipo di lavorazione; in relazione a quest’ultima si distinguono i formaggi a pasta filata e quelli a pasta pressata. I formaggi a pasta filata sono caratterizzati dal processo di filatura della massa caseosa, che avviene generalmente utilizzando la scotta ad una temperatura di 70-90°C; la scotta è il liquido che residua dalla duplice lavorazione del latte, prima per l’ottenimento del formaggio, da cui residua il siero, e dopo per l’ottenimento della ricotta dal siero. Tra questi spiccano il Caciocavallo Palermitano, la Provola Siciliana, la Vastedda Palermitana e la Vastedda delle Valle del Belice. I formaggi a pasta pressata sono formaggi ottenuti pressando la massa caseosa direttamente all’interno di appositi contenitori, canestri di giunco o le tipiche fascelle, oggi anche di plastica, che conferiscono loro la forma. Sono formaggi a pasta pressata il Canestrato, il Fiore Sicano e il Pecorino Siciliano. Vi è poi la Ricotta, che non può ritenersi un formaggio in quanto deriva dalla flocculazione acido-termica delle proteine solubili del siero e non dalla coagulazione delle caseine del latte come è il caso del formaggio. Nell’area palermitana, il Pecorino Siciliano è al momento l’unico formaggio che si fregia del marchio a Denominazione di Origine Protetta (DOP, Reg. CEE 1107/96) con il quale se ne certifica la produzione in conformità allo specifico disciplinare. In ambito regionale, il riconoscimento della DOP è esteso, oltre al Pecorino Siciliano, al solo Ragusano. La richiesta del riconoscimento della DOP è stata già avanzata per la Vastedda delle Valle del Belice ed è in procinto di presentazione per il Caciocavallo Palermitano; entrambi questi formaggi, comunque, sono dotati di un apposito disciplinare di produzione ed usufruiscono della tutela da parte dei rispettivi Consorzi di produttori. Per il Caciocavallo Palermitano, la Provola delle Madonie e la Vastedda della Valle del Belice, oltre che per altri prodotti caseari siciliani, quali il Maiorchino, la Provola dei Nebrodi ed il Ragusano, sono stati costituiti dei “Presidi” da parte della Fondazione SLOW FOOD che, favorendo l’aggregazione tra i produttori, rappresentano oggi un efficace strumento di valorizzazione e promozione dei prodotti tipici, oltre che un importante riconoscimento del loro valore storico e delle loro pregevoli peculiarità organolettiche e nutrizionali. La lista ”Arca del Gusto”, in cui sempre SLOW FOOD raccoglie prodotti di nicchia ai fini del loro recupero e della loro valorizzazione, include, tra i prodotti caseari siciliani, il

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Caciocavallo di vacca Cinisara, il Canestrato, la Provola delle Madonie, la Ricotta infornata e la Vastedda della Valle del Belice. La descrizione e le caratteristiche di ciascuno dei prodotti caseari della provincia di Palermo in elenco nella tabella sono raccolte nei successivi paragrafi.

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Tabella: Principali prodotti caseari tradizionali della provincia di Palermo. Latte di origine Tipologie derivate Varianti Area di produzione

Formaggi a pasta filata

1,2,3,5Caciocavallo Palermitano Bovino

Caciocavallo di Godrano 4Caciocavallo di vacca Cinisara 1Caci figurati

Fresco e stagionato Comuni di Godrano, Cinisi e aree limitrofe in provincia di Palermo, fino alla fascia nord occidentale della provincia di Trapani

1Provola Siciliana Bovino

1,2,4Provola delle Madonie 1Provola dei Monti Sicani Tutta la Sicilia, zone di montagna

1Vastedda Palermitana Bovino Provincia di Palermo ed alcuni comuni della

provincia di Trapani 1,2,3,4,5

Vastedda della Valle del Belice

Ovino Comuni della Valle del Belice delle provincie di Trapani e Agrigento; Contessa Entellina e Bisacquino nella provincia di Palermo

Formaggi a pasta pressata

1,4Canestrato

Bovino o misto con ovino e a volte caprino

1Canestrato vacchino Tuma persa (Monte Sicani)

Tuma, primosale, secondo sale, stagionato

Tutta la Sicilia

Fiore Sicano (1tumazzu di vacca)

Bovino Comuni dei Monti Sicani, provincia di Palermo

3Pecorino Siciliano DOP Ovino

1Picurino 1Pecorino rosso Pecorino pepato

Tuma, primosale, secondo sale, stagionato

Tutta la Sicilia

Prodotti di origine animale

Ricotta Bovino, ovino, caprino, misto

Ricotta salata 4Ricotta infornata Tutta la Sicilia

1Prodotto tradizionale riconosciuto dal MIPAF (elenco aggiornato al 2005 dei prodotti agro-alimentari tradizionali delle regioni italiane, riportato nel DM 18/7/2005 del MIPAF, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 28/7/2005. 2Presidio SLOW FOOD. 3Consorzio di tutela e disciplinare di produzione. 4Prodotto inserito nella lista “L’arca del gusto” di SLOW FOOD. 5In attesa di DOP.

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5.2.3.1. Caciocavallo Palermitano (a cura di Adriana Bonanno)

Tipologia Formaggio a pasta filata, semicotta, prodotto dal latte intero e crudo di bovine, prevalentemente delle razze autoctone Cinisara e Modicana. Ottenuto dalla coagulazione presamica del latte ad acidità naturale. La pasta, parzialmente acidificata per la fermentazione operata dalla microflora naturale, viene filata manualmente e salata in salamoia. Varietà Viene consumato a diverse epoche di stagionatura: fresco da tavola, con sapore dolce e delicato; semistagionato, sapido e leggermente piccante; stagionato per oltre 4 mesi, gradevolmente piccante, più adatto come formaggio da grattugia. Notizie storiche Sono numerosi gli scritti che attestano l’antica origine delle paste filate siciliane. Il Trasselli in “Alcuni calmieri palermitani del ‘400” riferisce che già nel 1412 si riscontra un chiaro riferimento al Caciocavallo presente nei mercati di Palermo, addirittura differianzandolo da altri formaggi; esso faceva parte della dieta delle monache del monastero di S. Castrenze di Monreale dal 1549 al 1552, e veniva servito nei rinfreschi nobiliari nel 1679. Era considerato un prodotto pregiato, di alto valore nutritivo, ed era utilizzato come merce di scambio nei contratti di affitto. Il Pitrè, nel Vespro del 1886, parla delle figure di animaletti che venivano modellate con la pasta del Caciocavallo. Il significato del termine Caciocavallo è da ricollegare alle particolari fasi del ciclo di lavorazione; il nome deriverebbe da “cacio a cavallo” in quanto, per far acidificare la tuma, questa viene disposta a sella di una sbarra di legno di castagno, l’appizzatuma; o anche per la necessità di asciugare la pasta posta a spurgare sulla cannara “cavalcandola”. Aspetto Forma parallelepipeda a sezione quadrata con angoli vivi o leggermente smussati. Dimensioni 13x13x34 cm, con variazione in più o in meno tale da comportare una oscillazione del peso da 9 a 15 kg. Crosta liscia, estremamente sottile ed elastica, di colore giallo pallido nei primi mesi di stagionatura; all’avanzare della stagionatura la crosta si ispessisce sino ad un massimo di 3,5 mm ed assume un colore tendente al giallo ocra e al marrone, rimanendo sempre liscia e compatta. Può essere cappata con olio o morchia di olio. Pasta compatta, tenace, di colore dal bianco avorio al giallo paglierino nei primi mesi di stagionatura; di colore giallo più intenso fino al giallo bruno, semidura e tendente alla sfogliatura a stagionatura avanzata. È ammessa una leggera occhiatura nei primi

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mesi e qualche fessurazione negli stagionati, purchè la pasta sia grassa, compatta e di buon odore. Peculiarità organolettiche Aroma gradevole, molto leggero, di erbe aromatiche, di frutta matura e di butirrico nei primi mesi della stagionatura; più intenso e fragrante nei prodotti stagionati. Sapore delicatamente sapido, leggermente piccante, con qualche sfumatura acidula gradevole al palato nei primi mesi di stagionatura. Con la stagionatura assume via via note piccanti più accentuate, caramellate, di fiori di campo. In bocca è suadente, pastoso, lungo, con un’evidente nota acidula che ne bilancia la grassezza. L’umidità è al massimo del 38%; il grasso sulla sostanza secca è superiore al 41% nel prodotto fresco e non inferiore al 38,5% nei prodotti stagionati; il cloruro di sodio è inferiore al 3,9% sulla sostanza secca. La tabella raccoglie alcuni parametri chimici e la resa del Caciocavallo Palermitano.

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Tabella: Parametri chimici e resa del Caciocavallo Palermitano.

Fonte CNR, 1996 ARAS, 1986 Bonanno et al., 2004ab

Numero campioni e stagionatura 12 campioni

a 4 mesi Diversi da 2 a

12 mesi 16 campioni a 2

mesi

media 64,07 69,82 66,98 Sostanza secca

min.-max 56,70 – 68,82 59,25 – 82,81

media 45,34 42,56 42,83 Grasso (% s.s.)

min.-max 35,77 – 60,75 34,88 – 47,04

media 104,75 Colesterolo (mg/100g)

min.-max

media 44,02 43,53 46,89 Proteina totale (azoto totale*6,38)

(% s.s.) min.-max 41,79 – 45,74 31,59 – 50,78

media 0,44 Azoto non proteico (% s.s.) min.-max 0,06 – 1,04

media 1,02 0,55 Azoto solubile (% s.s.)

min.-max 0,40 – 1,64

media 5,24 5,02 pH

min.-max 4,90 – 5,72 4,90 – 5,36

media 8,43 8,17 8,48 Ceneri (% s.s.)

min.-max 6,93 – 10,78 5,79 – 11,66

media 4,61 3,55 NaCl (% s.s.)

min.-max 6,93 – 10,78 1,36 – 6,79

media 1,35 1,60 Ca (% s.s.)

min.-max 1,12 – 1,69 0,72 – 2,28

media 0,92 1,98 P (% s.s.)

min.-max 0,65 – 1,02 0,83 – 2,84

media 11,40 8,10 Resa (kg/100 kg latte)

min.-max 8,90 – 13,10

Apporto energetico (kcal/100g) 374

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Area di produzione e ambiente L’area di produzione comprende tutta la provincia di Palermo, in particolare i comuni di Godrano, Cinisi e aree limitrofe, fino alla fascia costiera collinare nord occidentale della provincia di Trapani. L’attività zootecnica che interessa la produzione del Caciocavallo Palermitano si inserisce in zone marginali di collina e di montagna, alcune tipicamente boschive, caratterizzate, dal punto di vista pedologico, da litosuoli, regosuoli e suoli bruni delle diverse tipologie. Si riscontrano rilievi di una certa altitudine che fanno assumere notevoli pendenze al territorio, alcuni interessati da interventi di rimboschimento. Malgrado le discrete precipitazioni, variabili in funzione dell’altitudine e dei versanti, la loro distribuzione è irregolare, con autunno e inverno piovosi in maniera discontinua. Il periodo secco dura oltre 3 mesi ed è tale da determinare l’arresto della crescita dell’erba dei pascoli. Le risorse foraggere prevalenti sono quelle dei pascoli naturali, ricchi di essenze tipiche dell’ambiente mediteranno, e del sottobosco, ma anche delle ristoppie colturali e delle foraggere avvicendate. Periodo di produzione Nei mesi da settembre a giugno. Tecnica di allevamento e alimentazione degli animali Il sistema di allevamento più diffuso nelle aree di produzione del Caciocavallo Palermitano è di tipo estensivo o semi-estensivo. In tali ambienti, soltanto animali dotati di grande rusticità e adattabilità, come le razze bovine Cinisara e Modicana, sono in grado, nonostante la scarsa vegetazione dei pascoli naturali e, quindi, la razione alimentare insufficiente, di produrre discrete quantità di latte aromatico, grasso e di notevole ricchezza proteica. Soltanto in autunno ed in estate, in corrispondenza dei periodi di carenza foraggera, la dieta degli animali al pascolo viene integrata con fieno o paglia e granelle di produzione aziendale. Le particolari condizioni ambientali, la tecnica di allevamento e di alimentazione delle bovine, unitamente alla tecnica tradizionale di caseificazione, contribuiscono a conferire al formaggio le specifiche e peculiari caratteristiche che lo contraddistinguono.

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Tecnologia di caseificazione La produzione del Caciocavallo (figura), come previsto nel Disciplinare di produzione, di cui si allegano in calce le parti salienti, è caratterizzata dall’uso di recipienti e arnesi artigianali in legno e dalla sequenza delle tipiche fasi di lavorazione, tra le quali l’”accuppatina” è quella che richiede il massimo della maestria da parte del casaro: la pasta viene lavorata sotto scotta fino a farla diventare pasta filante che, modellata manualmente, viene riposta nel “tavuleri” dove acquisisce la classica forma a parallelepipedo. Tra i recipienti e gli arnesi trovano impiego: la “tina”, grande tinozza in legno in cui il latte è fatto coagulare per l’azione del caglio; la “rotula”, asta di legno culminante all’estremità con un disco che serve a rompere il coagulo nella tina; la “cisca”, caratteristico recipiente in legno che, riempito di siero, serve a pressare la massa caseosa per favorire lo spurgo del siero; il “sirratizzu”, recipiente di legno a forma tronco-conica e a doghe dove viene posta la scotta ad acidificare per l’ottenimento dell’”agra”; la “cannara”, un piano orizzontale fatto di canne intrecciate; l’”appizzatuma”, sbarra di legno a cavallo della quale si appende la pasta ad asciugare e ad acidificare; il “piddiaturi”, recipiente in legno dove viene filata la pasta del formaggio; il “vaciliatuma”, bastone in legno per la filatura della pasta del formaggio; il “tavuleri” o tavoliere, apposita cassa in legno dove si ripone la pasta filata per farle acquisire la forma a parallelepipedo. Coagulazione. Il latte intero crudo di una o due mungiture viene eventualmente scaldato a circa 34°C e versato nella tina filtrandolo con l’ausilio di un telo o un setaccio. Nella tina si aggiunge il caglio in pasta di agnello o di capretto, prodotto artigianalmente, grazie al quale avviene, dopo circa 40-60 minuti, la coagulazione presamica. La dose del caglio è variabile in dipendenza del titolo e dell’esperienza del casaro. Il coagulo viene rotto con l’ausilio della rotula agendo per circa 2 minuti fino a ridurlo alle dimensioni del cece. Sineresi. Al termine della rottura, la cagliata si lascia sedimentare per circa 10 minuti. Quindi, per favorire la sineresi, cioè lo spurgo del siero, la massa caseosa viene pressata con l’ausilio della cisca e contemporaneamente si procede all’allontanamento del siero che viene trasferito in una caldaia per ottenerne la ricotta. Dopo circa 1-2 ore, la pasta semi-asciutta viene estratta dalla tina e tagliata a fette triangolari. Scottatura. Le fette ottenute vengono poste a maturare sotto scotta calda a circa 80°C nello stesso recipiente in cui è avvenuta la coagulazione, coperto da un telo, per un tempo di circa 4 ore, ma variabile da 2 a 5 ore in funzione della stagione di lavorazione e della temperatura ambiente, e comunque finchè non ha raggiunto la temperatura di 41°C. La scotta è quella che residua dalla lavorazione del siero per l’ottenimento della ricotta, che contiene l’”agra”; infatti, nella preparazione della ricotta, al siero viene aggiunta l’“agra”, che agisce come una sorta di siero innesto naturale acido, che facilita la flocculazione delle sieroproteine. L’agra viene preparata artigianalmente in azienda lasciando inacidire per 2-3 giorni la scotta residua della lavorazione della ricotta nel “sirratizzu”; la funzione di questa operazione è quella di creare sulle pareti di legno del recipiente un substrato batterico che provocherà l’acidificazione della scotta

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che vi viene addizionata giornalmente per reintegrare quella, già acidificata, usata per la ricotta. L’agra presente nella scotta favorisce la maturazione della pasta sotto scotta. Spurgatura. Successivamente, le fette triangolari di pasta vengono estratte dalla tina e distese a spurgare sulla cannara. Per favorire la spurgatura, il casaro pressa la pasta sfruttando il peso del proprio corpo, “cavalcando” così la massa caseosa, fino a conferirle una forma piatta ed allungata. Acidificazione. La pasta ottenuta viene quindi appesa ad asciugare a cavallo dell’appizzatuma, dove si lascia acidificare per circa 20-21 ore. Filatura. Raggiunta l’acidificazione ottimale, l’indomani la pasta viene tagliata a fette nel senso della stiratura e posta nel recipiente di legno idoneo alla filatura, il piddiaturi. Successivamente la pasta viene sommersa dalla scotta calda a 75°C e, non appena decalcifica, viene lavorata per la filatura con l’ausilio del vaciliatuma fino ad ottenere un’unica forma ben amalgamata; tale forma viene quindi suddivisa in varie parti, a seconda la pezzatura che si vuole ottenere, e ciascuna parte viene modellata con le mani per l’”accuppatina”, facendole assumere la forma di una sfera ovoidale omogenea, simile ad una pera perfettamente chiusa (“ncuppata”) e senza bolle d’aria interne. Formatura. La pasta così ottenuta viene posta per la formatura nel tavoliere, caratteristica cassa di legno dove, dopo alcuni rivoltamenti, viene modellata facendole assumere la tipica forma di parallelepipedo a spigoli vivi. Salatura. Il giorno dopo la forma viene immersa in una salamoia satura per un tempo variabile in funzione del peso, in genere 24 ore per ogni kg di formaggio. Stagionatura. La stagionatura avviene in locali tradizionali, freschi e ventilati, tenuti alla temperatura di 14-16°C, spesso costituiti da cantine o grotte naturali dove i formaggi vengono poggiati su ripiani e rivoltati continuamente. I tempi di stagionatura variano dai 15 giorni per il tipo fresco, ai 30-90 giorni per il semi-stagionato e ad oltre 4 mesi per lo stagionato.

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Figura. Schema di lavorazione del Caciocavallo Palermitano.

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Rottura a cece, dopo 40’ circa

Spurgo per pressione e taglio

Siero

Coagulazione termico - acida

Ricotta

Scotta75°C

Maturazione sotto scotta a 80°C per 4h

Asciugatura ed acidificazione per 20 h

Filatura

Messa in forma

Caciocavallo fresco

Salatura in salamoia 24 ore/kg

Stagionatura per almeno 4 mesi

Agra

Caciocavallo stagionato

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Rottura a cece, dopo 40’ circa

Spurgo per pressione e taglio

Siero

Coagulazione termico - acida

Ricotta

Scotta75°C

Maturazione sotto scotta a 80°C per 4h

Asciugatura ed acidificazione per 20 h

Filatura

Messa in forma

Caciocavallo fresco

Salatura in salamoia 24 ore/kg

Stagionatura per almeno 4 mesi

Agra

Caciocavallo stagionato

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Impiego gastronomico Viene consumato come formaggio da tavola nei primi 4 mesi di stagionatura e come formaggio da grattugia a stagionatura più avanzata. Il Caciocavallo Palermitano viene usato in molti piatti tipici siciliani, tra i quali si ricordano: pizza rustica, sfincione, arancine di riso, timballo di maccheroni rossi, polpettone alla siciliana, polpette con le mandorle, sarde a beccafico, frittata con la cicoria, frittata con i legumi freschi o con ortaggi di stagione, cacio all’argentiera, torta di melanzane, sformato di peperoni e cipolle. Si accostano vini bianchi con il prodotto fresco e i rossi con i prodotti semi-stagionati e stagionati. Tipologie derivate Caciocavallo di Godrano, prodotto con il latte delle bovine di razza Cinisara e Modicana, sia pure che meticcie, nell’area comprendente tutto il territorio comunale di Godrano e le zone limitrofe ricadenti nei comuni di Monreale, Corleone, Mezzojuso e Marineo. Caciocavallo di vacca Cinisara, che deriva dalla lavorazione del latte ottenuto dalla razza bovina Cinisara. Caci figurati, elementi decorativi, per lo più piccoli animali, che alcuni pochi e anziani casari si dilettano a modellare, per poi regalarli ai bambini, utilizzando l’”accuppatura”, ciòe la parte di pasta filata che rimane dalla chiusura del Caciocavallo fresco; si tratta di una lavorazione che va scomparendo e che viene riservata ad occasioni particolari. Marchi e riconoscimenti Il Caciocavallo Palermitano ed i Caci figurati sono inclusi nella 5a revisione aggiornata dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali allegato al Decreto del MIPAF del 18 luglio 2005 (Gazzetta Ufficiale del 28/7/2005). Per il Caciocavallo Palermitano sta per essere avanzata la richiesta di riconoscimento del marchio a Denominazione di Origine Protetta (DOP), ed è stato predisposto l’apposito “Disciplinare di Produzione”, del quale si allegano in calce le parti salienti. Il prodotto dispone di un apposito “Consorzio volontario per la Tutela”, costituito il 20 maggio 1992, con sede a Palermo presso gli uffici dell’ARAS (Associazione Regionale Allevatori della Sicilia). Nel 2004 è stato costituito per il Caciocavallo Palermitano il Presidio di SLOW FOOD, sostenuto dall’Assessorato Agricoltura e Foreste della Regione Sicilia, dalla Provincia Regionale di Palermo e dall’ARAS (Associazione Regionale Allevatori della Sicilia), al fine di definirne la realtà produttiva, favorire l’allevamento delle bovine Cinisare e Modicane e di avviare strategie di valorizzazione e promozione del prodotto ottenuto con il loro latte. Infine, il Caciocavallo di vacca Cinisara è compreso nella lista dell’”Arca del Gusto” di SLOW FOOD, che individua e raccoglie prodotti di nicchia ai fini del loro recupero e della loro valorizzazione.

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Dal “Disciplinare di produzione” del Caciocavallo Palermitano

Descrizione del prodotto Il Caciocavallo Palermitano è un formaggio a pasta filata. Per il suo ottenimento può essere utilizzato esclusivamente latte bovino intero e crudo. Il latte inoltre deve provenire da bovine la cui alimentazione è costituita prevalentemente da pascoli naturali del territorio di produzione, ricchi di essenze spontanee, ed anche erbai e prati coltivati e pascolati direttamente, sempre dello stesso territorio, anche affienati, con integrazione in stalla di foraggi e concentrati in quantità variabile rispetto alla stagione foraggera ed allo stadio fisiologico dell’animale. La produzione degli alimenti somministrati ad integrazione del pascolo può avvenire anche al di fuori del territorio di produzione. Il latte utilizzato per la caseificazione può essere di una mungitura o di due mungiture successive (sera + mattina). Nel primo caso la coagulazione deve avvenire immediatamente dopo la mungitura, mentre nel secondo caso il latte della sera precedente deve essere conservato in apposita vasca refrigerante alla temperatura di 4°C, fino alla fine della mungitura della mattina quando il latte verrà mescolato per la successiva caseificazione. Il latte deve essere coagulato alla temperatura di 34°C; sono tollerate variazioni nella temperatura di ± 3°C. Al latte non possono essere aggiunti innesti e viene sfruttato quindi lo sviluppo spontaneo della flora microbica casearia. Caratteristiche fisiche Forma: parallelepipeda, a sezione quadrata con angoli vivi o leggermente smussati. Dimensioni: sezione quadrata con lato di 13 cm ± 4 e lunghezza di 34 cm ± 5. Peso: variabile da 9 a 15 kg in funzione della dimensione. Pasta: compatta con colore che varia dall’avorio al giallo paglierino che diventa sempre più intenso fino al giallo bruno con l’avanzare della stagionatura. Eventuali piccole fessurazioni possono essere tollerate con il protrarsi della stagionatura. É ammessa una lieve occhiatura a condizione che la pasta presenti un buon odore e sia compatta e grassa. Crosta: nei primi periodi di stagionatura risulta di colore giallo pallido, sottile, elastica e liscia. Con l’avanzare della stagionatura diventa di colore più intenso fino ad arrivare al bruno, con uno spessore max di 3,5 mm, perdendo parte della sua elasticità ma rimanendo compatta. Caratteristiche chimiche Umidità massima: 38%. Grasso sulla s.s.: minimo 41% per i formaggi consumati freschi e non inferiore a 38,5% per i formaggi con una stagionatura avanzata. Cloruro di sodio sulla s.s.: massimo 3,9%. Caratteristiche microbiologiche E’ presente esclusivamente una microflora batterica procasearia, naturale ed autoctona. Caratteristiche organolettiche Uso: viene utilizzato come formaggio da tavola nei primi 4 mesi di stagionatura mentre lo si adopera come formaggio da grattugia a stagionatura avanzata, che comunque non si protrae dopo il 18° mese. Sapore: leggermente acidulo ma delicato, lievemente sapido ed appena piccante nei primi mesi di stagionatura; gradualmente più piccante e deciso, ma sempre gradevole, con l’avanzare della stagionatura. Aroma: intensamente gradevole e caratteristico della particolare tecnologia di trasformazione; delicato e leggero nei primi periodi di stagionatura, vigoroso ed intenso a stagionatura avanzata.

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Zona geografica di produzione L’area di produzione comprende il territorio comunale di Godrano e Cinisi ed aree limitrofe della provincia di Palermo, fino alla fascia costiera nord occidentale della provincia di Trapani. Periodo di ottenimento del prodotto: settembre – giugno. Descrizione del metodo di ottenimento -materia prima: latte intero, crudo; -microflora: naturale; -caglio: pasta di agnello o capretto ottenuto tradizionalmente dalla conservazione sotto sale di abomasi di animali allattanti. Tecnologia di fabbricazione Il formaggio Caciocavallo Palermitano è prodotto esclusivamente con latte bovino intero, crudo di una mungitura o di due mungiture successive (sera + mattina). Il latte viene coagulato alla temperatura di 34°C, con oscillazione in più o in meno non superiore ai 3°C, sfruttando lo sviluppo spontaneo della microflora casearia. La coagulazione è ottenuta con l'uso di caglio in pasta di agnello, preliminarmente sciolto in una piccola quantità di latte o acqua riscaldata ad aggiunto al latte filtrandolo attraverso un telo o un setaccio. La quantità di soluzione impiegata, data la variabilità del titolo del caglio ottenuto tradizionalmente, è variabile e deve essere tale da comportare un tempo di presa e di indurimento da 40 a 60 minuti. La coagulazione presamica avviene in un recipiente di legno detto tina e la rottura della cagliata avviene, tramite un utensile di legno detto rotula, in un tempo di 2 minuti circa. La giusta consistenza del coagulo per la rottura viene determinata con l’ausilio della rotula, che già si trova immersa nella massa caseosa e deve riuscire a mantenersi senza difficoltà in posizione verticale. La dimensione dei granuli ottenuti dalla rottura della cagliata sono indicativamente confrontabili a quelle di un cece. Il tempo medio di sedimentazione della cagliata è di circa 10 minuti ed in questa fase il casaro con movimenti rotatori della rotula agevola l’adesione tra i frammenti caseosi in modo da limitare la perdita degli stessi. La massa caseosa cosi ottenuta, non spurgata, viene separata dal siero per decantazione. Per velocizzare lo spurgo tale massa viene pressata con l’ausilio di un caratteristico recipiente in legno pieno di siero detto cisca. La spurgatura della pasta fatta in tal modo dura circa 1,5-2 ore, successivamente il grumo caseoso viene estratto dalla tina, tagliato a fette triangolari della sezione di circa 10 cm, e rimesso nello stesso recipiente di legno, affinché avvenga la fase di maturazione sotto scotta. La scotta aggiunta alla pasta, alla temperatura di circa 80°C (±3°C), deriva dall’ottenimento della ricotta che contemporaneamente viene prodotta. Al siero utilizzato per l’ottenimento della ricotta era stata precedentemente aggiunta l’agra (in ragione di 70-100 ml di agra per litro di siero), sorta di siero innesto naturale acido utilizzato per la flocculazione totale delle sieroproteine. L’agra viene ottenuta tramite acidificazione naturale della scotta fresca, che viene giornalmente aggiunta all’inoculo residuato dalla lavorazione giornaliera. La fase di maturazione della pasta sotto scotta dura circa 4 ore, in funzione della temperatura ambientale, e comunque fino a quando la scotta non raggiunge la temperatura di 41°C, rispetto agli 80°C di partenza. In seguito la pasta viene estratta e pressata sulla cannara, caratteristico piano fatto di canne intrecciate, in modo da favorire al massimo la spurgatura, fino a farle assumere una forma allungata ed appiattita. Una volta asciugata, la pasta viene sistemata ed appesa ad asciugare a cavallo di un’asse di legno, detto appizzatuma. Tale fase di maturazione ed acidificazione della pasta dura circa 20-21 ore, fino al giorno successivo. Il giorno seguente la tuma asciugata viene tagliata a fette lungo il senso della stiratura e posta in un recipiente di legno idoneo alla filatura, il piddiaturi.

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La filatura viene effettuata utilizzando scotta calda alla temperatura di 75°C (±3°C), residua dall’ottenimento della ricotta descritta precedentemente. Alla tuma viene aggiunta quindi la scotta calda e dopo un’attesa di circa 4-7 minuti, occorrente per l’ammorbidimento delle fette di tuma tagliate, si inizia l’operazione di filatura con l’aiuto di un robusto bastone di legno (vaciliatuma o maciliatuma). Una volta raggiunta l’aggregazione di tutte le fette in una unica massa caseosa compatta viene effettuata la lavorazione con le mani che serve a modellare la pasta facendole assumere la caratteristica forma ovoidale ed occorrente anche a far evacuare le eventuali bolle d’aria che possono ritrovarsi all’interno della pasta. Successivamente la tuma così filata viene posta in un caratteristico stampo di legno, a forma di cassa e delle dimensioni tali da contenere circa 3-4 forme di caciocavallo affiancate, detto tavuleri. In tale stampo il Caciocavallo Palermitano, rigirato più volte, assume la caratteristica forma parallelepipeda. E’ da considerarsi obbligatoria l’utilizzazione di utensili e recipienti in legno durante tutta la fase di lavorazione del prodotto caseario in oggetto, ed il relativo risciacquo degli stessi con scotta calda in modo che rimangano impregnati della caratteristica microflora autoctona tipica. Seguono poi le fasi di salatura e stagionatura. La salatura delle forme viene effettuata in salamoia dentro vasche con l’uso di blocchi di sale grezzo; il tempo di salatura è in ragione di 24 ore per ogni kg della forma di “Caciocavallo”. La salatura viene iniziata entro la giornata successiva a quella di ottenimento del prodotto. La durata della stagionatura è variabile da 1 ad oltre 6 mesi e viene effettuata in locali freschi tenuti alla temperatura di 14-16°C, dove le forme vengono sistemate su scaffali di legno.

5.2.3.2. Provola Siciliana (a cura di Adriana Bonanno)

Tipologia Formaggio a pasta filata, dura, semicotta, prodotto in modo artigianale con latte intero crudo bovino. La coagulazione è presamica. La pasta, acidificata per la fermentazione operata dalla microflora naturale, viene filata manualmente e salata per immersione in salamoia satura. Notizie storiche Le notizie storiche sulle origini della Provola non sono molte. Tuttavia, le sue origini si ritengono comuni a quelle delle paste filate siciliane, e del Caciocavallo in particolare, di cui un primo riferimento si riscontra nei calmieri del mercato di Palermo nel 1412. Pertanto, la Provola Siciliana è uno dei formaggi più antichi dell’isola, così come il Caciocavallo. La tradizionale tecnica di caseificazione della Provola è illustrata dagli storici Mario Giacomarra e Antonino Uccello. Aspetto Forma a pera oblunga, tondeggiante, con una breve protuberanza all’estremità, detta “testina”, sormontata da un ingrossamento tondeggiante. L’altezza è di 12-20 cm e il diametro massimo di 9-11 cm.

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La crosta è sottile, lucida, liscia e di colore giallo paglierino a 1-3 giorni; tende ad ispessirsi ed è di colore decisamente giallo a 1-3 mesi. La pasta è elastica, morbida, compatta e di colore bianco non candido a 3-5 giorni; dura, sfogliabile, con lieve occhiatura e di colore giallo a 1-3 mesi. Il peso oscilla normalmente tra 0,5 e 2 kg, in relazione alle condizioni tecniche di produzione. È di circa 1 kg nella Provola delle Madonie. Peculiarità organolettiche Ha odore gradevole. Il sapore è dolce e delicato quando il formaggio è fresco, mentre assume una maggiore sapidità, con note gradevolmente piccanti, quando è stagionato. Presenta, sulla sostanza secca, un tenore in grasso pari al 40-44%, in proteine minimo del 35% e circa il 4% di cloruro di sodio. La tabella riporta alcuni parametri analitici della Provola Siciliana.

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Tabella: Parametri chimici della Provola Siciliana.

Fonte CNR, 1996

Numero campioni e stagionatura 7 campioni a

10 giorni

media 56,59 Sostanza secca

min.-max 48,94 – 59,75

media 43,44 Grasso (% s.s.)

min.-max 38,21 – 47,85

media 46,77 Proteina totale (azoto totale*6,38)

(% s.s.) min.-max 38,92 – 56,59

media 0 Azoto non proteico (% s.s.) min.-max

media 0,48 Azoto solubile (%)

min.-max 0,10 – 1,23

media 5,40 pH

min.-max 5,15 – 5,53

media 7,17 Ceneri (% s.s.)

min.-max 6,41 – 8,37

media 1,32 NaCl (% s.s.)

min.-max 0,04 – 3,55

media 1,38 Ca (% s.s.)

min.-max 0,55 – 1,66

media 1,44 P (% s.s.)

min.-max 0,97 – 1,91

Apporto energetico (kcal/100g) 327

Area di produzione e ambiente Tutto il territorio siciliano, con maggiore diffusione nella provincia di Ragusa e nelle zone di alta collina e montagna delle provincie di Palermo (Madonie, Monti Sicani), Enna e Messina (Nebrodi). Le zone di produzione della Provola, principalmente le aree montane delle Madonie e dei Nebrodi, comprendono vasti pascoli naturali ricchi di essenze foraggere spontanee

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tipicamente mediterranee che conferiscono ai formaggi aromi e sapori particolari. Nei diversi areali, tuttavia, variano lievemente le tecnologie di trasformazione, ma è soprattutto la diversità dell’ambiente e dei pascoli dove vengono allevati i bovini che gioca un ruolo fondamentale nella differenziazione del prodotto tra i vari ambiti locali. Periodo di produzione Tutto l’anno. Tecnica di allevamento e alimentazione degli animali Il sistema di allevamento delle bovine è di tipo estensivo o semi-estensivo e, pertanto, la razione alimentare è costituita dal foraggio dei pascoli, naturali o coltivati, integrati con fieno di produzione aziendale e concentrati, la cui quantità è commisurata alla disponibilità al pascolo e ai fabbisogni nutritivi degli animali. Nel caso di razze produttive (Frisona e Bruna), le bovine sono allevate in stabulazione libera permanente con un regime alimentare a base di foraggi aziendali. Tecnologia di caseificazione È simile a quella del Caciocavallo Palermitano (figura), da cui differisce per la forma finale, la pezzatura e, dal punto di vista tecnologico, per una ridotta durata della salatura e della stagionatura. Pertanto, gli attrezzi tradizionali impiegati sono gli stessi del Caciocavallo: la “tina”, grande tinozza in legno in cui il latte è fatto coagulare per l’azione del caglio; la “rotula”, asta di legno culminante all’estremità con un disco che serve a rompere il coagulo nella tina; la “cisca”, caratteristico recipiente in legno che, riempito di siero, serve a pressare la massa caseosa per favorire lo spurgo del siero; il “sirratizzu”, recipiente di legno a forma tronco-conica e a doghe dove viene posta la scotta ad acidificare per l’ottenimento dell’”agra”; la “fascedda” o fascella, canestro in giunco in cui, in alcuni casi, è posta la pasta del formaggio per la scottatura; la “cannara”, un piano orizzontale fatto di canne intrecciate; l’”appizzatuma”, sbarra di legno a cavallo della quale si appende la pasta ad asciugare e ad acidificare; il “piddiaturi”, recipiente in legno dove viene filata la pasta del formaggio; il “vaciliatuma”, bastone in legno per la filatura della pasta del formaggio. Coagulazione. Il latte intero crudo di una o due mungiture viene eventualmente scaldato a circa 34°C e versato nella tina filtrandolo con l’ausilio di un telo o un setaccio. Nella tina si aggiunge il caglio in pasta di agnello o di capretto, prodotto artigianalmente, grazie al quale avviene, dopo circa 40-60 minuti, la coagulazione presamica. La dose del caglio è variabile in dipendenza del titolo e dell’esperienza del casaro. La cagliata viene rotta con l’ausilio della rotula agendo per circa 2 minuti fino a ridurla in grumi delle dimensioni del cece. Sineresi. Al termine della rottura, la cagliata si lascia sedimentare per circa 10 minuti. Quindi, per favorire la sineresi, cioè lo spurgo del siero, la massa caseosa viene pressata con l’ausilio della cisca, e contemporaneamente si procede all’allontanamento del siero che viene trasferito in una caldaia per ottenerne la ricotta.

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Dopo circa 1-2 ore, la pasta semi-asciutta viene estratta dalla tina e tagliata a fette triangolari. Scottatura. Le fette ottenute vengono poste a maturare sotto scotta calda a circa 80°C nello stesso recipiente in cui è avvenuta la coagulazione, coperto da un telo, per un tempo di circa 4 ore, ma variabile da 2 a 5 ore funzione della stagione di lavorazione e della temperatura ambiente, e comunque finché non ha raggiunto la temperatura di 41°C. La scotta è quella che residua dalla lavorazione del siero per l’ottenimento della ricotta, che contiene l’”agra”; infatti, nella preparazione della ricotta, al siero viene aggiunta l’“agra”, che agisce come una sorta di siero innesto naturale acido che facilita la flocculazione delle sieroproteine. L’agra viene preparata artigianalmente in azienda lasciando inacidire per 2-3 giorni la scotta residua della lavorazione della ricotta nel “sirratizzu”; la funzione di questa operazione è quella di creare sulle pareti di legno del recipiente un substrato batterico che provocherà l’acidificazione della scotta che vi viene addizionata giornalmente per reintegrare quella, già acidificata, usata per la ricotta. L’agra presente nella scotta favorisce la maturazione della pasta sotto scotta. Nel caso della Provola delle Madonie, la pasta semi-asciutta viene estratta dalla tina e posta in apposite fascelle di giunco, spurgata pressandola manualmente e sottoposta a scottatura per 2 ore mantenendola all’interno delle stesse fascelle. Spurgatura. Successivamente, le fette triangolari di pasta vengono estratte dalla tina e distese sulla cannara dove vengono pressate per favorire lo spurgo del siero fino a conferire loro una forma piatta ed allungata. Acidificazione. La pasta ottenuta viene quindi appesa ad asciugare a cavallo dell’appizzatuma, dove si lascia acidificare per circa 20-21 ore. Filatura. Raggiunta l’acidificazione ottimale, l’indomani la pasta viene tagliata a fette nel senso della stiratura e posta nel recipiente di legno idoneo alla filatura, il piddiaturi. Successivamente la pasta viene sommersa dalla scotta calda a 75°C e, non appena decalcifica, viene lavorata per la filatura con l’ausilio del vaciliatuma fino ad ottenere un’unica forma ben amalgamata. Formatura. Tale forma di pasta viene quindi tagliata in varie parti della pezzatura desiderata (circa 1 kg per la Provola delle Madonie) e ciascuna parte viene modellata con le mani per l’”accuppatina”, facendole assumere la tipica forma affusolata a pera con testina. Salatura. Avviene in salamoia satura, per 4-10 ore in rapporto alla pezzatura per i tipi da consumare freschi, per 24 ore per ogni kg di formaggio per le forme da stagionare. Stagionatura. La maturazione può essere rapida di tipo lattica, in 3-5 giorni, o media di tipo proteolitica-lipolitica, in 1-3 mesi. La stagionatura avviene in locali tradizionali freschi e ventilati, con temperature comprese tra 10 e 16°C, dove le provole sostano legate in coppia e appese a cavallo di una trave. La Provola delle Madonie stagiona per 1 mese.

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Figura Schema di lavorazione della Provola Siciliana.

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Rottura a cece, dopo 40’ circa

Spurgo per pressione e taglio

Siero

Coagulazione termico - acida

Ricotta

Scotta75°C

Maturazione sotto scotta a 80°C per 4h

Asciugatura ed acidificazione per 20 h

Filatura

Formatura e salatura in salamoia satura per 24 ore/kg

Provola Siciliana

Agra

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Rottura a cece, dopo 40’ circa

Spurgo per pressione e taglio

Siero

Coagulazione termico - acida

Ricotta

Scotta75°C

Maturazione sotto scotta a 80°C per 4h

Asciugatura ed acidificazione per 20 h

Filatura

Formatura e salatura in salamoia satura per 24 ore/kg

Provola Siciliana

Agra

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Impiego gastronomico Si consuma prevalentemente come formaggio da tavola, sia fresco che semi-stagionato, ma anche da cucina o da grattugia in una fase più avanzata di stagionatura. La Provola, tra i più rinomati formaggi siciliani, viene usata in diversi piatti della cucina tradizionale siciliana, tra i quali si citano: caciocavallo all’argentiera, antipasto rustico, fave e provola, arancine di riso, panzerotti ai formaggi, busiati ai 4 formaggi, melanzane con provola. Si accostano vini bianchi con le provole fresche, rossi con i prodotti semi-stagionati e stagionati. Tipologie derivate a valenza locale Provola delle Madonie, prodotta nel Massiccio delle Madonie, in provincia di Palermo, di forma tondeggiante con collo corto. Provola dei Monti Sicani, prodotta nel comprensorio dei Monti Sicani, in provincia di Palermo. Marchi e riconoscimenti La Provola Siciliana, la Provola delle Madonie e la Provola dei Monti Sicani sono incluse nella 5a revisione aggiornata dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali allegato al Decreto del MIPAF del 18 luglio 2005 (Gazzetta Ufficiale del 28/7/2005). La Provola delle Madonie costituisce un presidio di SLOW FOOD, oltre ad essere compresa nella lista dell’”Arca del Gusto” di SLOW FOOD, che individua e raccoglie prodotti di nicchia ai fini del loro recupero e della loro valorizzazione. Non esiste alcuna struttura per la valorizzazione del prodotto.

5.2.3.3. Vastedda Palermitana (a cura di Adriana Bonanno)

Tipologia Formaggio fresco a pasta filata semicotta, ottenuto dal latte intero crudo di bovine, soprattutto di razza Cinisara. La coagulazione è presamica. La pasta, parzialmente acidificata per la fermentazione operata dalla microflora naturale, viene filata manualmente e salata in salamoia. Notizie storiche Le origini sono comuni a quelle delle paste filate siciliane, e del Caciocavallo in particolare, di cui un primo riferimento si riscontra nei calmieri del mercato di Palermo nel 1412.

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Aspetto Forma ovoidale, simile ad una pagnotta o ad una focaccia. Crosta liscia, sottile ed elastica, di colore giallo pallido. Pasta compatta, di colore bianco avorio. Peso di circa 1 kg. Peculiarità organolettiche L’aroma ed il gusto sono del tutto analoghi a quelli del Caciocavallo Palermitano fresco. L’odore è leggero e gradevole, il sapore è fresco e leggermente acidulo. Area di produzione e ambiente Coincide con l’area di produzione del Caciocavallo Palermitano, che comprende tutta la provincia di Palermo, soprattutto il territorio dei comuni di Godrano e Cinisi, in cui si ottiene la massima produzione, ed alcuni comuni della provincia di Trapani. La produzione avviene prevalentemente in un territorio montuoso dove, pur ampiamente dotati in essenze foraggere spontanee, i pascoli naturali presentano una condizione di forte degrado ed una scarsa produttività, tanto che solo razze bovine dotate di notevole rusticità, come la Cinisara e la Modicana, sono in grado di sfruttarli adeguatamente. Periodo di produzione Nei mesi da settembre a giugno. Tecnica di allevamento e alimentazione degli animali Il sistema di allevamento delle bovine è di tipo estensivo e semi-estensivo e, pertanto, il regime alimentare si basa sull’utilizzazione diretta al pascolo di foraggi spontanei e, talvolta, coltivati, integrati con fieno di produzione aziendale e concentrati, in quantità variabile in funzione della disponibilità stagionale di erba al pascolo e dei fabbisogni degli animali. Tecnologia di caseificazione Il processo di caseificazione (figura) è praticamente analogo a quello del Caciocavallo Palermitano, da cui si discosta solo nel momento della filatura della pasta, quando vengono modellate a mano forme ovoidali di piccole dimensioni. Si tratta di una tecnica tradizionale in cui trovano impiego antichi utensili, gli stessi utilizzati per il Caciocavallo Palermitano: la “tina”, grande tinozza in legno in cui il latte è fatto coagulare per l’azione del caglio; la “rotula”, asta di legno culminante all’estremità con un disco che serve a rompere il coagulo nella tina; la “cisca”, caratteristico recipiente in legno che, riempito di siero, serve a pressare la massa caseosa per favorire lo spurgo del siero; il “sirratizzu”, recipiente di legno a forma tronco-conica e a doghe dove viene posta la scotta ad acidificare per l’ottenimento dell’”agra”; la “cannara”, un piano orizzontale fatto di canne intrecciate;

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l’”appizzatuma”, sbarra di legno a cavallo della quale si appende la pasta ad asciugare e ad acidificare; il “piddiaturi”, recipiente in legno dove viene filata la pasta del formaggio; il “vaciliatuma”, bastone in legno per la filatura della pasta del formaggio. Coagulazione. Il latte intero crudo di una o due mungiture viene eventualmente scaldato a circa 34°C e versato nella tina filtrandolo con l’ausilio di un telo o un setaccio. Nella tina si aggiunge il caglio in pasta di agnello o di capretto, prodotto artigianalmente, grazie al quale avviene, dopo circa 40-60 minuti, la coagulazione presamica. La dose del caglio è variabile in dipendenza del titolo e dell’esperienza del casaro. Il coagulo viene rotto con l’ausilio della rotula agendo per circa 2 minuti fino a ridurlo a piccoli grumi delle dimensioni del cece. Sineresi. Al termine della rottura, la cagliata si lascia sedimentare per circa 10 minuti. Quindi, per favorire la sineresi, cioè lo spurgo del siero, la massa caseosa viene pressata con l’ausilio della cisca, e contemporaneamente si procede all’allontanamento del siero che viene trasferito in una caldaia per ottenerne la ricotta. Dopo circa 1-2 ore, la pasta semi-asciutta viene estratta dalla tina e tagliata a fette triangolari. Scottatura. Le fette ottenute vengono poste a maturare sotto scotta calda a circa 80°C nello stesso recipiente in cui è avvenuta la coagulazione, coperto da un telo, per un tempo di circa 4 ore, ma variabile da 2 a 5 ore in funzione della stagione di lavorazione e della temperatura ambiente, e comunque finché non ha raggiunto la temperatura di 41°C. La scotta è quella che residua dalla lavorazione del siero per l’ottenimento della ricotta, che contiene l’”agra”; infatti, nella preparazione della ricotta, al siero viene aggiunta l’“agra”, che agisce come una sorta di siero innesto naturale acido che facilita la flocculazione delle sieroproteine. L’agra viene preparata artigianalmente in azienda lasciando inacidire per 2-3 giorni la scotta residua della lavorazione della ricotta nel “sirratizzu”; la funzione di questa operazione è quella di creare sulle pareti di legno del recipiente un substrato batterico che provocherà l’acidificazione della scotta che vi viene addizionata giornalmente per reintegrare quella, già acidificata, usata per la ricotta. L’agra presente nella scotta favorisce la maturazione della pasta sotto scotta. Spurgatura. Successivamente le fette triangolari di pasta vengono estratte dalla tina e distese sulla cannara dove vengono pressate per favorire lo spurgo del siero fino a conferire loro una forma piatta ed allungata. Acidificazione. La pasta ottenuta viene quindi appesa ad asciugare a cavallo dell’appizzatuma dove si lascia acidificare per circa 20-21 ore. Filatura. Raggiunta l’acidificazione ottimale, l’indomani la pasta viene tagliata a fette nel senso della stiratura e posta nel recipiente di legno idoneo alla filatura, il piddiaturi. Successivamente la pasta viene sommersa dalla scotta calda a 75°C e, non appena decalcifica, viene lavorata per la filatura con l’ausilio del vaciliatuma fino ad ottenere un’unica forma ben amalgamata Formatura. Tale forma di pasta viene quindi tagliata in varie parti di circa 1 kg e ciascuna parte viene modellata con le mani per l’”accuppatina”, facendole assumere la forma di una sfera ovoidale omogenea, simile ad una pera perfettamente chiusa (“ncuppata”) e senza bolle d’aria interne.

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La forma così ottenuta viene immersa in acqua a temperatura ambiente per favorirne il raffreddamento e, dopo pochi minuti, posta su un ripiano di legno dove assume naturalmente la tipica forma a pagnotta o focaccia, da cui il nome di “vastedda”. Salatura. La salatura avviene il giorno dopo immergendo la forma in una salamoia satura per circa 24 ore. Impiego gastronomico È un formaggio da tavola che viene consumato fresco già a partite da 48 ore dopo la preparazione. Essendo un prodotto fresco, si accostano preferibilmente vini bianchi. Marchi e riconoscimenti Il prodotto è incluso nella 5a revisione aggiornata dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali allegato al Decreto del MIPAF del 18 luglio 2005 (Gazzetta Ufficiale del 28/7/2005). Non esiste alcuna struttura per la valorizzazione del prodotto.

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Figura: Schema di lavorazione della Vastedda Palermitana.

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Rottura a cece, dopo 40’ circa

Spurgo per pressione e taglio

Siero

Coagulazione termico - acida

Ricotta

Scotta75°C

Maturazione sotto scotta a 80°C per 4h

Asciugatura ed acidificazione per 20 h

Filatura

Formatura e salatura in salamoia satura per 1 giorno

Vastedda Palermitana

Agra

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Rottura a cece, dopo 40’ circa

Spurgo per pressione e taglio

Siero

Coagulazione termico - acida

Ricotta

Scotta75°C

Maturazione sotto scotta a 80°C per 4h

Asciugatura ed acidificazione per 20 h

Filatura

Formatura e salatura in salamoia satura per 1 giorno

Vastedda Palermitana

Agra

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5.2.3.4. Vastedda della Valle del Belice (a cura di Adriana Bonanno)

Tipologia Formaggio a pasta filata ottenuto dal latte intero crudo di pecore della razza ovina autoctona Valle del Belice. La sua specificità è quella di essere l’unico formaggio ovino a pasta filata nel panorama caseario nazionale. La coagulazione è presamica. La pasta, acidificata per la fermentazione operata dalla microflora naturale, viene filata manualmente e salata per immersione in salamoia satura. Notizie storiche Da sempre, nella Valle del Belice, dove l’introduzione degli ovini si perde nella notte dei tempi, parte del latte delle pecore locali veniva e viene tuttora trasformato dalle abili mani dei casari in “Vastedda della Valle del Belice”. Essa si otteneva in passato nel solo periodo estivo da latte ovino di fine lattazione delle pecore allevate nella zona, particolarmente produttive, appartenenti alla popolazione locale, oggi elevata a rango di razza “Valle del Belice”. Oggi questo formaggio viene prodotto tutto l’anno e rappresenta, anche sul piano quantitativo, un importante prodotto caseario della zona. Sebbene le sue origini siano remote, si può senz’altro ritenere che esista da sempre nel territorio compreso tra le provincie di Trapani, Agrigento e Palermo. Il suo nome “vastedda” deriva dalla forma che acquisisce mettendola nei piatti fondi, che evoca la pagnotta di pane. Trae certamente origine dalla cultura casearia del Pecorino Siciliano, ma ne rappresenta una specificità unica in quanto, se non il solo, è sicuramente uno dei pochissimi formaggi ovini a pasta filata del mondo, per la ragione che il latte di pecora mal si presta alla filatura. L’aspetto particolare delle sue origini storiche sta nel fatto che essa deriva da pecorini difettosi che, durante i periodi estivi, i casari della Valle del Belice rilavoravano facendoli filare ad alta temperatura. Si racconta di un antico casaro che, nel periodo estivo, dopo aver munto il latte delle sue pecore, lo caseificò a pecorino. Data l’alta temperatura ambientale, la pasta, collocata nei classici canestri di giunco per il periodo di rassodamento prima della salatura, si inacidì. Il casaro lo fece a fette e lo immerse in acqua calda e prese a rimestarla con l’aiuto di un bastone di legno. La pasta, molto demineralizzata data l’elevata acidità, prese a filare. Il vecchio casaro, estratta la pasta dall’acqua, ne fece una prima piccola forma ovoidale che pose in un piatto. Quando non si disponeva di sistemi di raffreddamento o di pastorizzazione, con i pascoli magri, poco latte e la temperatura rovente estiva, fare pecorini era in effetti difficile. Il formaggio gonfiava e si rischiava di gettare tutta la produzione. Produrre un formaggio da mangiare freschissimo era un modo per ovviare ai problemi della produzione estiva.

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Aspetto Forma ovoidale, schiacciata, simile ad una focaccia. Diametro da 15 a 17 cm, altezza da 3 a 4 cm. Peso compreso tra 0,5 e 0,7 kg. Superficie liscia, compatta, priva di crosta, di colore bianco avorio, a volte tendente al giallo paglierino. Pasta compatta di colore bianco avorio omogeneo, molto tenera. Peculiarità organolettiche Il prodotto va consumato fresco, subito dopo la caseificazione: solo in questo modo si possono apprezzare le sue caratteristiche aromatiche. Benché possa essere conservato in ambienti freschi e asciutti per qualche tempo, non è un prodotto che si presta alla stagionatura. L’aroma è quello del latte fresco e burro; il sapore è dolce, delicato, lievemente acidulo. Al pari di altri prodotti caseari freschi, è un eccellente fonte di principi nutritivi, soprattutto proteine, vitamine liposolubili e sali minerali. Il suo contenuto proteico risulta superiore rispetto ad altri formaggi ovini freschi. Ciò è dovuto alla sua particolare tecnica di lavorazione, che causa il dilavamento del grasso durante il processo di filatura della pasta ed il conseguente aumento, a parità di peso, delle proteine presenti. Questo determina anche una spiccata leggerezza del formaggio e una maggiore digeribilità. Il grasso sulla sostanza secca non deve essere inferiore al 35% e il cloruro di sodio sulla sostanza secca non deve essere superiore al 2%. La tabella riporta alcuni parametri analitici e la resa della Vastadda della Valle del Belice

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Tabella: Parametri chimici e resa della Vastedda della Valle del Belice.

Fonte ARAS, 2001 Conte e

Barreca, 2006 Todaro et al.,

2006

Numero campioni e stagionatura

40 campioni da 3 a 30

giorni

Diversi da 0 a 50 giorni di

refrigerazione

8 campioni di 15 giorni

media 61,82 59,36 71,74 Sostanza secca

c.v. 5,73 1,70

media 42,66 48,77 50,59 Grasso (% s.s.)

c.v. 4,77 3,19

media 49,02 42,76 38,65 Proteina totale (azoto totale*6,38)

(% s.s.) c.v. 9,49 0,79

media 5,53 5,24 5,28 pH

c.v. 0,15 0,05

media 7,14 5,18 Ceneri (% s.s.)

c.v. 1,47

media 1,58 NaCl (% s.s.)

c.v. 0,54

Cloruri (g/100 g) 0,33

media 1,49 Ca (% s.s.)

c.v. 0,54

media 1,12 P (% s.s.)

c.v. 0,19

media 16,25 15,90 Resa a 24 h (kg/100 kg di latte) min.-max 14,56 – 18,75

Area di produzione e ambiente Comprende l’intera Valle del Belice, cui confluiscono le province di Trapani, Palermo e Agrigento e che prende il nome dal fiume Belice che la percorre. La zona interessata comprende i territori dei comuni di Calatafimi, Campobello di Mazara, Castelvetrano, Gibellina, Partanna, Poggioreale, Salemi, Salaparuta, Santa Ninfa e Vita in provincia di Trapani; Santa Margherita Belice, Montevago, Sambuca di Sicilia, Menfi, Sciacca, oltre a Caltabellotta, in provincia di Agrigento; Contessa Entellina e Bisacquino limitatamente alla frazione denominata “San Biagio” in provincia di Palermo. Nella Valle del Belìce, l’allevamento ovino rappresenta da sempre l’attività zootecnica fondamentale, che ha oggi assunto particolare rilevanza con la selezione della

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popolazione locale, oggi riconosciuta a rango di razza con il nome di pecora della Valle del Belìce. Si tratta di una popolazione di oltre 150.000 capi capace di produrre anche oltre 250 litri di latte per lattazione. L’indirizzo agricolo di tale area è sempre stato quello ceralicolo-foraggero, basato sulla coltura di cereali, quali grano, avena e orzo, avvicendati generalmente con le fave, da seme e da foraggio, la sulla e, in minor misura, la veccia consociata con avena, ma anche con favino e orzo. La produzione foraggera dei pascoli naturali è normalmente condizionata dall’andamento termopluviometrico stagionale; per questa ragione alla larga disponibilità nella stagione inverno-primaverile e pre-estiva di essenze spontanee dei pascoli naturali, costituite da ecotipi locali di Graminacee, Leguminose, tra cui domina la sulla, Crucifere e Composite, caratterizzati da un alto grado di adattamento ambientale, si contrappone il deficit produttivo della stagione estivo-autunnale. Le particolari condizioni orografiche, le caratteristiche climatiche e pedologiche, nonché gli indirizzi colturali praticati nella zona, concorrono alla realizzazione di una produzione foraggera le cui caratteristiche produttive, relativamente alla qualità e alla distribuzione nel corso dell’anno, si riflettono sulla produzione quanti-qualitativa del latte e del formaggio. Periodo di produzione Fino a poco tempo fa la lavorazione di questo formaggio era limitata al solo periodo estivo, utilizzando la piccola quantità di latte prodotto da pecore in avanzato stato di lattazione, circostanza che, abbinata alle elevate temperature estive, favorisce la naturale acidificazione della pasta. Nella stagione estiva, peraltro, il latte diviene più ricco di aromi intensi e di componenti, soprattutto il grasso, che ne consentono il tipico procedimento di lavorazione. Attualmente, per l’aumentata richiesta del prodotto, la lavorazione è stata estesa a tutta la durata della lattazione, che abbraccia quasi tutto l’arco dell’anno. Tecnica di allevamento e alimentazione degli animali L’allevamento ovino nella Valle del Belice è di tipo tradizionale, condotto con sistema semi-estensivo, basato sul pascolamento giornaliero di 5-6 ore. Il pascolo rappresenta, quindi, la base alimentare della pecora belicina per gran parte dell’anno. Le essenze pascolate sono costituite prevalentemente dalle essenze dei pascoli naturali, oltre che da prati sulla ma anche da veccia, avena e orzo. Pertanto, l’alimentazione della pecora Valle del Belìce è strettamente dipendente dall’andamento stagionale. Nel periodo estivo-autunnale, quando la disponibilità foraggera si fa critica, si fa ricorso a risorse alimentari di soccorso, quali stoppie di grano, cladodi di ficodindia e foglie di vite. Tecnologia di caseificazione Il Disciplinare di produzione della Vastedda della Valle del Belice, di cui si allegano in calce le parti salienti, prevede che si produca artigianalmente in azienda nel rispetto

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della tradizione (figura), con latte intero crudo ad acidità naturale, utilizzando caglio di produzione artigianale e soprattutto con l’impiego delle attrezzature “storiche” in legno, che ne influenzano l’assetto microbiologico. Tra queste trovano impiego: la caldaia di rame stagnata; la “tina”, grande tinozza in legno di forma tronco-conica in cui il latte è fatto coagulare per l’azione del caglio; la “rotula”, asta di legno culminante all’estremità con un disco che serve a rompere il coagulo; la “cisca”, caratteristico recipiente in legno; la “fascedda” o fascella, canestro in giunco in cui è posta la pasta del formaggio per l’acidificazione; la paletta in legno per la filatura della pasta del formaggio. Coagulazione. Il latte ovino intero crudo, opportunamente filtrato con un telo o con apposito setaccio, è riscaldato nella caldaia fino alla temperatura massima di 40°C, e coagulato nella tina in 25-35 minuti con caglio artigianale in pasta di agnello, le cui quantità variano in dipendenza del titolo e dell’esperienza del casaro. La cagliata viene rotta con la rotula in grumi molto piccoli della dimensione dei chicchi di riso, ed addizionata con acqua calda alla temperatura di 75°C circa in ragione di 1 litro per 5 litri di latte. Sineresi e acidificazione. I grumi si lasciano sedimentare e, successivamente, la massa caseosa viene prelevata dalla caldaia e posta in fascelle di giunco, senza operare nessuna pressatura. La forma si lascia, quindi, spurgare dal siero e acidificare per una notte all’interno delle fascelle e a temperatura ambiente. Filatura. La mattina successiva, la pasta acidificata viene tagliata a fette sottili e immersa all’interno della cisca in acqua o nella scotta, residuo della lavorazione della ricotta, entrambe a 80-90°C. La pasta viene filata con l’ausilio di una paletta di legno prima e poi manualmente fuori dalla scotta. Formatura. Quando la pasta ha assunto una superficie bianco-lucida, si distaccano dalla massa delle porzioni a forma di sfera che vengono richiuse manualmente nel punto di distacco. Ogni porzione viene posta, con il punto di chiusura in basso, in un piatto fondo di ceramica dove, dopo essere stato rivoltato, assume la forma di focaccia. Salatura. Dopo 6-12 ora dalla filatura, le forme ottenute vengono salate ponendole in salamoia satura per un tempo variabile da 30 minuti a 2 ore. Vengono quindi fatte asciugare in locali freschi e ventilati e, dopo 12-48 ore, possono essere consumate. Impiego gastronomico La Vastedda della Valle del Belice è un formaggio fresco da tavola, da consumare anche 12-48 ore dalla sua produzione. Essa fa parte integrante della cultura gastronomica del Belice, caratterizzando numerose ricette di provenienza contadina dell’intera zona di produzione. Tra i piatti tipici si ricordano: busiate “a la belicina”, insalata campagnola della Valle del Crimiso, pasta ‘ncasciata, melanzane “a la belicina”. Il consumo di tale formaggio è esteso anche ai settori della gastronomia “giovanile”, come le pizzerie e le paninerie, dove trova diffusione e apprezzamento nella famosa “pizza alla Vastedda della Valle del Belìce” servita, oltre che nella zona di elezione,

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anche in alcuni locali di Sciacca e di altre località dell’area di produzione, e nel condimento di tanti panini oggi molto graditi ai giovani. La Vastedda della Valle del Belìce, per le sue particolari caratteristiche merceologiche e qualitative, ben si abbina ad alcuni prodotti tipici della Valle del Belìce, tra cui è rinomato il “miele di sulla”, foraggera diffusissima, ed il “miele millefiori”, ricco delle preziose essenze florali specifiche della zona. Inoltre si abbina ai rinomati e pregiati vini della zona.

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Figura: Schema di lavorazione della Vastedda della Valle del Belice.

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Rottura a riso

Messa in forma in fascelle di giunco

Siero

Coagulazione termica (80° C circa)

Ricotta

Acidificazione a temperatura ambiente per 24 ore

Filatura

Messa in forma

Vastedda della Valle del Belice

Salatura in salamoia satura per 30minuti – 2 ore

Acqua 75°C

Scotta o acqua 80–90°C

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Rottura a riso

Messa in forma in fascelle di giunco

Siero

Coagulazione termica (80° C circa)

Ricotta

Acidificazione a temperatura ambiente per 24 ore

Filatura

Messa in forma

Vastedda della Valle del Belice

Salatura in salamoia satura per 30minuti – 2 ore

Acqua 75°C

Scotta o acqua 80–90°C

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Marchi e riconoscimenti La Vastedda della Valle del Belice è inclusa nella 5a revisione aggiornata dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali allegato al Decreto del MIPAF del 18 luglio 2005 (Gazzetta Ufficiale del 28/7/2005). È in attesa del riconoscimento del marchio a Denominazione di Origine Protetta (DOP), per il quale nel 2005 è stata avanzata la richiesta ed è stato predisposto l’apposito “Disciplinare di Produzione”, del quale si allegano in calce le parti salienti. Il prodotto dispone di un apposito “Consorzio per la Tutela”, costituito il 28 agosto 2001, con sede ad Agrigento presso l’Ufficio Provinciale dell’ARAS (Associazione Regionale Allevatori della Sicilia). Infine, da sottolineare che per il formaggio Vastedda della Valle del Belice è stato costituito il Presidio di SLOW FOOD, realizzato in collaborazione con il Consorzio Ricerca Filiera Lattiero-Casearia di Ragusa, al fine di attivare momenti di aggregazione e di solidarietà tra i produttori e di avviare una strategia di valorizzazione del prodotto attraverso la comunicazione ai consumatori del valore qualitativo, merceologico, nutrizionale e culturale di questo unico formaggio a pasta filata di latte ovino a carattere assolutamente artigianale. É inoltre compreso nella lista dell’”Arca del Gusto” di SLOW FOOD, che individua e raccoglie prodotti di nicchia ai fini del loro recupero e della loro valorizzazione. Manifestazioni e sagre Nella Valle del Belìce, proprio per il suo ricchissimo passato storico, si svolgono numerose manifestazioni e sagre rievocative della cultura e delle antiche tradizioni, nel cui ambito i prodotti agricoli assumono particolare rilevanza quali testimonianze storico-culturali, e tra questi spicca il formaggio Vastedda della Valle del Belice che diventa prodotto di sintesi di quei fattori ambientali, naturali, zootecnici e umani in cui tutta la Valle si riconosce e di cui va fiera, che rappresentano nel loro complesso il patrimonio socio-economico e la leva di sviluppo dell’intera area. Le sagre, le fiere, le manifestazioni, con la loro ricaduta in termini di turismo e di promozione dei prodotti tipici della zona, in un’area di per sé molto visitata dal turismo “culturale”, rappresentano una ulteriore occasione di fruizione dei luoghi, di valorizzazione di siti di alta suggestione quali sono quelli presenti nell’area di produzione della Vastedda della Valle del Belice. Il territorio annovera numerose manifestazioni; di queste si indicano di seguito le più significative per i prodotti caseari ed il relativo periodo di svolgimento. Provincia di Trapani: SALAPARUTA, Sagra del formaggio e della ricotta, in marzo; POGGIOREALE, Sagra del formaggio e della ricotta, in giugno. Provincia di Agrigento: S. MARGHERITA DI BELICE, Fiera mercato del bestiame e Mostra della pecora Valle del Belìce, in settembre; MONTEVAGO, Sagra del vino e dei prodotti tipici, in novembre; CALTABELLOTTA, Sagra dell’ulivo e dei prodotti tipici locali, in dicembre.

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Provincia di Palermo: CONTESSA ENTELLINA, Sagra della ricotta e del formaggio, in aprile.

Dal “Disciplinare di produzione” della Vastedda della Valle del Belice

Descrizione del prodotto La VASTEDDA DELLA VALLE DEL BELICE, formaggio di pecora a pasta filata, è ottenuto con latte ovino intero, crudo, ad acidità naturale di fermentazione, di pecore di razza Valle del Belìce e suoi incroci. Il latte deve provenire da una o due mungiture, in genere quella serale e quella del mattino successivo; la lavorazione deve essere eseguita entro 48 ore dall’effettuazione della prima mungitura. E’ consentita pertanto la refrigerazione del latte nel pieno rispetto dei valori minimi previsti dalle vigenti disposizioni legislative in materia. Il latte ovino intero, crudo, ad acidità naturale di fermentazione, destinato alla trasformazione in formaggio Vastedda della Valle del Belice deve provenire da allevamenti il cui sistema di alimentazione è costituito dal pascolo naturale e/o coltivato, da foraggi freschi, da fieni e paglia di ottima qualità, dalle ristoppie di grano e dai sottoprodotti vegetativi (l’erba cresciuta lungo i filari dei vigneti, frasche di ulivo della potatura invernale, cladodi di ficodindia, foglie di vite dopo la vendemmia, ecc.). E’ consentita l’integrazione con granella di cereali, con leguminose e concentrati semplici o complessi NO OGM. Nell’alimentazione è vietato l’utilizzo di prodotti derivati di origine animale e di piante o parti di piante (semi) di trigonella, tapioca e manioca. E’ altresì vietato utilizzare alimenti di origine animale o vegetale di qualsiasi tipo geneticamente modificati. Il caglio utilizzato per la coagulazione essenzialmente presamica del latte si ricava dall’abomaso di agnelli lattanti alimentati esclusivamente con latte materno. Il caglio in pasta, prima dell’uso, viene sciolto in acqua tiepida e quindi filtrato. La quantità impiegata si aggira fra i 60-100 grammi per 100 litri di latte, con un tempo di coagulazione che varia da 40 a 50 minuti e comunque fin tanto che la rotula immersa nella tina in legno rimane in posizione verticale. Il formaggio Vastedda della Valle del Belice va consumato fresco (dopo tre giorni dalla produzione) ed all’atto dell’immissione al consumo deve avere le seguenti caratteristiche: - la forma deve essere quella tipica di una focaccia con facce lievemente convesse; - la dimensione delle forme deve rispettare il diametro del piatto da 15 a 17 cm e l’altezza dello scalzo

da 3 a 4 cm; - il peso deve essere compreso tra 500 e 700 grammi in relazione alle dimensioni della forma; - la superficie deve essere priva di crosta, di colore bianco avorio, liscia, compatta, senza vaiolature e

piegature; può presentare una patina di colore paglierino chiaro; - la pasta deve essere di colore bianco omogeneo, liscia, non granulosa, con eventuali accenni di

striature dovute alla filatura artigianale; l’occhiatura deve essere assente o molto scarsa, così come la trasudazione;

- l’aroma è quello caratteristico del latte fresco di pecora; il sapore è dolce, fresco e gradevole, con venature lievemente acidule;

- il grasso sulla sostanza secca non deve essere inferiore al 35%; - il contenuto di cloruro di sodio (sale) sulla sostanza secca non deve superare il 2%. Zona geografica di produzione La zona geografica di produzione del latte, di trasformazione e di condizionamento del formaggio Vastedda della Valle del Belice interessa principalmente i comuni ricadenti nella valle del Belice delle province di Agrigento e Trapani.

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Per quanto concerne la provincia di Palermo i comuni interessati sono Contessa Entellina e Bisacquino limitatamente alla frazione denominata “San Biagio”, ricadente all’interno del territorio della provincia regionale di Agrigento e confinante con i territori dei comuni di Caltabellotta e Sambuca di Sicilia. Origine del formaggio Vastedda della Valle del Belice Il formaggio Vastedda della Valle del Belice, come detto, viene realizzato nell’area delle colline interne alla confluenza delle tre province siciliane di Agrigento, Palermo e Trapani. L’antica origine dell’attività casearia nelle tre province, legata alla tradizionale produzione di latte ovino, fa ritenere attendibile l’ipotesi che la Vastedda della Valle del Belice sia l’unico formaggio ovino a pasta filata conosciuto fino ad oggi. Il nome Vastedda deriva dalla forma che acquisisce dopo la filatura quando viene immessa in piatti fondi onde conferirgli la forma di pagnotta, tipico pane di forma rotonda e schiacciata, prodotto nella Valle del Belice, noto appunto come “vastedda”. L’origine è quella di un formaggio che si produceva in passato dal latte della popolazione ovina della zona, oggi elevata a razza Valle del Belìce, a fine della loro lattazione annuale, in concomitanza del periodo estivo. Verso la metà del 1900, invece, a causa della crescente richiesta, ne iniziava la produzione durante la gran parte dell’anno, rappresentando una nuova realtà produttiva e quindi commerciale. La produzione continua fino ai nostri giorni, costituendo oltre che un indiscusso ed esclusivo patrimonio storico-culturale e produttivo della Valle del Belìce, una solida realtà commerciale in continua crescita. Metodologia di produzione I metodi locali che assumono carattere cogente nella produzione sono l’uso di attrezzature storiche, in legno, quali: la cisca, la tina, il tavoliere o spersore, la rotula ed il bastone o paletta per la filatura, nonché la caldaia di rame stagnato, le fascelle di giunco e piatti fondi in ceramica. Con l’utilizzo di tali attrezzi il latte si arricchisce di una flora microbica pro-casearia in associazione trofica unica ed irripetibile che conferisce al formaggio Vastedda della Valle del Belice, in modo naturale, particolarità e specificità. Il latte ovino intero, crudo, ad acidità naturale di fermentazione, di pecore di razza Valle del Belìce e suoi incroci, di una o più munte, opportunamente filtrato con appositi setacci e/o filtri in tela, è riscaldato tradizionalmente in caldaia, fino alla temperatura massima di 40°C con fuoco diretto a legna o gas; quindi alla temperatura di 36-40°C viene aggiunto caglio in pasta di agnello. Formatasi la cagliata, deve essere rotta in grumi molto piccoli, con l’ausilio di un mestolo, detto rotula, recante una protuberanza all’apice, necessaria per una rottura omogenea della cagliata, fino ad ottenere grumi delle dimensioni di un chicco di riso; la sineresi spontanea è favorita dall’acqua calda aggiunta durante la rottura della cagliata. I grumi di cagliata depositati sul fondo del recipiente, vengono lasciati riposare per cinque minuti, affinché avvenga la coesione fra essi, quindi la massa caseosa viene prelevata dalla tina e depositata in fascelle di giunco senza operare nessuna pressatura della pasta. La cagliata viene quindi lasciata all’interno delle fascelle in giunco a temperatura ambiente per la maturazione (fermentazione naturale della pasta). Il tempo necessario per la maturazione cambia con il variare della temperatura dell’ambiente (più fresco è il locale maggior tempo è richiesto). Dopo 24 ore, ma nella stagione fredda anche dopo 48 ore, valutato il grado di acidificazione della pasta con pH-metro portatile (pH compreso fra 4,7 e 5,5) e/o mediante prove di filatura della pasta, la cagliata è tagliata a fette, posta in un recipiente in legno, la cisca, e ricoperta di scotta o acqua calda alla temperatura di 80-90°C. Il tutto si rimuove blandamente con la paletta in legno, onde favorire la fusione in unico blocco. Si procede quindi alla filatura della cagliata dopo un tempo di immersione della pasta di 3-7 minuti. Successivamente si inizia la fase di asciugatura e di lavorazione della pasta fuori dalla scotta o dall’acqua calda, formando dei cordoni che vengono ripiegati in due ed amalgamati a modo di trecce. Quando la pasta avrà assunto una superficie bianco-lucida si distaccano dalla massa delle porzioni a forma di sfera che vengono lavorate manualmente e richiuse nel punto di distacco. La saldatura avviene stringendo speditamente tra il pollice e l’indice le labbra della sfera, che inizialmente si presentavano sfaldate. Si pongono, quindi, con la chiusura in basso, in piatti fondi in ceramica, ove, dopo essere stati rivoltati, assumeranno la forma caratteristica della vastedda o focaccia.

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La pasta è molto spurgata e, quindi, rassoda rapidamente. Successivamente, quando le forme raffreddano e prendono consistenza (dopo 6-12 ore dalla filatura) si procede alla salatura; questa viene condotta ponendo le forme di formaggio in salamoia satura di sale da cucina a temperatura ambiente, per un tempo da 30 minuti a 2 ore. Segue l’asciugatura in locali freschi e moderatamente ventilati e dopo 12-48 ore possono essere consumate. Legame con l’ambiente geografico L’ovinicoltura e l’attività casearia, nell’area di produzione del formaggio Vastedda della Valle del Belice, hanno un’antichissima tradizione. La qualità e le caratteristiche del formaggio Vastedda della Valle del Belice sono attribuibili essenzialmente all’ambiente geografico di produzione; ambiente inteso come insieme di fattori umani e naturali. Infatti, anche limitando l’analisi ad alcuni aspetti, quali la produzione del latte, il tipo di caglio e la tecnica di produzione, l’influenza dei fattori umani e naturali sulle caratteristiche del prodotto è unica. In tal senso la qualità e le caratteristiche organolettiche del latte utilizzato per la produzione del formaggio Vastedda della Valle del Belice assumono carattere peculiare e non ripetibile altrove. Infatti molteplici sono gli studi scientifici che hanno dimostrato come il pascolo e la sua composizione botanica influenzano le produzioni casearie modificandone la loro composizione chimica ed aromatica. Inoltre la modalità di preparazione del caglio trasferisce al formaggio un patrimonio enzimatico che sviluppa aromi e sapori che non si riscontrano in altre paste filate. Una tecnologia di produzione antica ma sapiente, legata all’uso di strumenti della tradizione, conferisce inoltre quella particolarità che fa del formaggio Vastedda della Valle del Belice un prodotto unico.

5.2.3.5. Canestrato (a cura di Adriana Bonanno)

Tipologia Formaggio a pasta pressata, dura, semicotta, ottenuto dalla coagulazione presamica del latte intero crudo ad acidità naturale bovino o misto bovino e ovino, e a volte caprino. Le proporzioni del latte delle diverse specie variano in rapporto alle condizioni tecniche di produzione e alle disponibilità. La microflora attiva è quella naturale della zona di produzione. Varietà A seconda della durata della stagionatura, il Canestrato assume le seguenti denominazioni: tuma fresca, ottenuta senza alcuna salatura; primosale, formaggio fresco di circa 8-10 giorni che ha subito la prima salatura a secco; secondo sale, formaggio semi-stagionato di circa 2-4 mesi che ha subito ulteriori salature a secco; stagionato, la cui maturazione supera i 4 mesi.

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Notizie storiche Sono rare le testimonianze storiche sulle origini del Canestrato siciliano, comunemente chiamato “cannistratu” o “ncannistratu”, ma denominato anche “Cacio Vacchino Siciliano”. La sua somiglianza con il Pecorino Siciliano, sia per la forma sia per la tecnologia di caseificazione, fa presumere che ne condivida le profonde origini, e che abbia preso vita negli allevamenti misti di bovini con ovini e/o caprini dove la lavorazione del Pecorino è stata adattata al latte misto disponibile. Diverse notizie storiche attestano l’appartenenza del Canestrato alla tradizione ed alla cultura casearia siciliana. Appare nel calmiere dei formaggi già nel 1407 come “tumazza”, e nel 1412 alla voce “cacio vacchino” con una quotazione inferiore rispetto al Caciocavallo Palermitano. Viene citato nella dieta delle monache del monastero di S. Castrenze di Monreale nel 1562 e nella dieta imposta dall’Arcivescovo di Monreale nel 1578 per far fronte alle indisposizioni di natura alimentare delle monache per i cibi nocivi consumati. Viene anche citato in contratti di gabella del 1400 e del 1600 come uno dei generi da consegnare al gabelloto quale prezzo di affitto del latifondo. Aspetto Forma cilindrica, a facce piane o lievemente concave, con diametro variabile tra i 18 ed i 35 cm. Scalzo leggermente convesso di 12-28 cm. Peso variabile dai 4 ai 20 kg. Crosta sottile, con uno spessore massimo di 4 mm, che presenta la tipica superficie rugosa dovuta alla modellatura lasciata dal canestro di giunco, da cui deriva il nome; di colore ocra o tendente al marrone, la crosta può essere cappata con olio. Pasta grassa, compatta, di colore uniforme bianco o giallo paglierino, di consistenza tenera o dura a seconda del grado di stagionatura; è tollerabile una lieve occhiatura. Peculiarità organolettiche Rappresenta uno dei prodotti più rinomati della tradizione casearia siciliana. L’eccezionale miscela di odori e sapori contenuti nel latte delle specie di provenienza ne fanno un formaggio dalle spiccate qualità organolettiche, gustoso e fragrante, da consumare e apprezzare sia delicatamente fresco come prodotto da tavola, sia marcatamente stagionato come prodotto da grattugia. L’odore è delicato se fresco, pungente se stagionato. Il sapore è prevalentemente dolce se fresco, piccante se stagionato. La tuma è un formaggio da tavola, di gusto gradevolmente dolce, da consumare subito dopo la produzione. Il primosale è un prodotto da tavola caratterizzato da leggera salatura, che si consuma dopo circa 8-10 giorni dalla produzione. Il secondo sale ha un sapore più marcato, utilizzato come prodotto da tavola o da tenera grattugia, da consumare tra il primo ed il terzo mese dalla sua produzione.

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Il Canestrato stagionato è un prodotto che ha subito oltre 4 mesi di maturazione, dal sapore gradevolmente piccante con odore pungente, da usare sia da tavola sia da grattugia. La tabella riporta i parametri chimici e la resa del Canestrato.

Tabella: Parametri chimici e resa del Canestrato.

Fonte CNR, 1996 ARAS, 1986

Numero campioni e stagionatura 6 campioni a 4

mesi Diversi

media 65,89 68,53 Sostanza secca

min.-max 62,88 – 69,45 49,63 – 80,77

media 44,62 42,24 Grasso (% s.s.)

min.-max 37,95 – 51,66 21,21 – 64,34

media 42,87 44,55 Proteina totale (azoto totale*6,38)

(% s.s.) min.-max 36,88 – 50,47 33,63 – 59,99

media 0,44 Azoto non proteico (% s.s.) min.-max 0,20 – 0,73

media 1,13 Azoto solubile (% s.s.)

min.-max 0,39 – 1,92

media 5,60 5,39 pH

min.-max 5,43 – 5,78 4,83 – 6,16

media 9,40 9,58 Ceneri (% s.s.)

min.-max 7,03 – 11,60 3,86 – 15,10

media 4,71 5,19 NaCl (% s.s.)

min.-max 3,31 – 7,30 1,89 – 10,99

media 1,50 1,36 Ca (% s.s.)

min.-max 1,31 – 1,74

media 0,99 0,68 P (% s.s.)

min.-max 0,79 – 1,20

13,00 Resa (kg/100 kg latte)

9,00 – 18,40

Apporto energetico (kcal/100g) 378

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Area di produzione e ambiente Tutto il territorio siciliano, con maggiore diffusione nelle zone di alta collina e montagna. Le zone di produzione del Canestrato sono ricche di pascoli naturali dove le numerose essenze foraggere mediterranee conferiscono ai formaggi aromi e sapori unici e inimitabili. Periodo di produzione Prodotto stagionalmente, nel periodo compreso tra ottobre e giugno, da animali delle diverse specie allevati al pascolo. Il prodotto rispecchia la composizione mista delle mandrie che, sin da tempi remotissimi, consentiva una migliore utilizzazione dei pascoli. Tecnica di allevamento e alimentazione degli animali Gli animali vengono allevati con sistema estensivo o semi-estensivo. In entrambi i casi, il pascolo naturale è, per gran parte dell’anno, la base dell’alimentazione delle specie lattifere da cui è ottenuto il formaggio, integrato con fieno e concentrato somministrato in stalla. Tecnologia di caseificazione La tecnica di caseificazione (figura) segue uno schema di lavorazione artigianale in cui vengono utilizzati attrezzi tradizionali: la “tina”, grande tinozza in legno in cui il latte è fatto coagulare per l’azione del caglio; la “rotula”, asta di legno culminante all’estremità con un disco che serve a rompere il coagulo nella tina; la “fascedda” o fascella, canestro in giunco in cui è posta la pasta del formaggio per la formatura; il “tavulere” o tavoliere, ripiano inclinato di legno su cui si appoggiano le fascelle contenenti la pasta del formaggio. Coagulazione. Il latte intero crudo bovino o misto, generalmente di due mungiture, viene riscaldato ad una temperatura di circa 35-37°C e versato, filtrandolo con un telo o un setaccio, nella tina dove è fatto coagulare addizionando caglio artigianale in pasta ottenuto dall'abomaso di agnelli o capretti lattanti, la cui dose varia in funzione del titolo e dell’esperienza del casaro. Il tempo di presa ed indurimento della cagliata è di circa 30-60 minuti, in dipendenza della forza e della dose di caglio. Dopo il rassodamento, si procede alla rottura della cagliata fatta con l’ausilio della rotula per circa 3 minuti, e contemporaneamente viene immessa nella tina dell’acqua molto calda a circa 75°C, in ragione di 20-30 litri per 100 litri di latte, che innalzando la temperatura della cagliata favorisce la sineresi, cioè lo spurgo del siero. Dopo la rottura, la dimensione dei granuli è simile a quella delle lenticchie. Alla rottura segue una fase di 5-10 minuti in cui i granuli caseosi sedimentano nel fondo della tina. Formatura. La massa caseosa raccolta nel fondo della tina viene estratta, posta nei canestri o fascelle di giunco o più modernamente di plastica, e “frugata”, cioè premuta manualmente per facilitare la spurgatura dal siero e fare assumere alla pasta, la tuma,

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la caratteristica forma. In questa fase è possibile aggiungere pepe nero in grani. Le forme rimangono qualche ora su appositi ripiani per l’ulteriore spurgo. Scottatura. Alla fine della spurgatura, i canestri vengono rimessi per circa 3-4 ore nella tina e ricoperti con scotta calda (siero esausto proveniente dalla lavorazione della ricotta) a circa 80°C, coprendo la tina con un telo per evitare dispersioni di calore. Questa fase ha come obiettivo quello di permettere la selezione dei batteri lattici termofili e l'avvio dei processi di fermentazione microbica che sono all'origine di molte delle caratteristiche del formaggio. Acidificazione. Dopo la scottatura le forme vengono estratte dalla tina e lasciate acidificare ponendole per 1 giorno su un piano inclinato, il tavoliere, effettuando ripetuti rivoltamenti all’interno dei canestri per conferire al prodotto la tipica forma canestrata. Salatura. Dopo circa 24 ore, il giorno successivo, la forma viene estratta dal canestro e salata a secco manualmente, cospargendo il sale uniformemente sull’intera superficie; di rado la salatura avviene in salamoia satura con un’immersione per un periodo variabile in funzione della pezzatura del formaggio. La salatura a secco viene ripetuta dopo 10 giorni e quindi una volta a settimana per i successivi 3 mesi. Alcune forme non subiscono la salatura e vengono consumate come tuma fresca. Stagionatura. La maturazione è rapida, di tipo lattico-proteolitica, nei primi 8-10 giorni per il tipo fresco o primosale; media, di tipo proteotilita-lipolitica, nei 2-4 mesi per il semi-stagionato o secondo sale; lipolitica, dai 4 mesi per lo stagionato. La stagionatura può prolungarsi fino ad un anno e più. I locali di stagionatura sono ambienti freschi e ventilati, a volte cantine e grotte naturali, nei quali le forme vengono poggiate su scaffali di legno e subiscono ripetuti rivoltamenti. Impiego gastronomico Il Canestrato che, al pari del Pecorino, viene consumato a diversi gradi di salatura e stagionatura, assumendo in tal modo caratteristiche diverse, costituisce l’ideale connubio di aromi e sapori che rispecchiano le peculiarità del latte delle specie di provenienza. Il Canestrato gode stima e richiesta da parte dei consumatori dai gusti più delicati, rappresentando un formaggio, sia da tavola che da grattugia, gradevolmente saporoso e fragrante. Per il suo sapore gustoso e deciso, assume le caratteristiche di un vero e proprio companatico, da consumare con pane casereccio accompagnato da vini locali, piuttosto che quelle di un formaggio adatto a concludere un pasto raffinato. Un modo tipico di consumarlo, quando è fresco, è condirlo con olio, aceto, origano, sale e pepe. Il Canestrato viene usato in molti piatti della tradizione culinaria siciliana, tra i quali si ricordano: minestra di pasta e broccoli, maccheroni con la pancetta, maccheroni all’aglio crudo, pasta alla maniera di Gangi, pasta con sugo di cipolle e carne di

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maiale, Canestrato fritto con l’acciuga, frittata di fave, frittata di piselli, spiedini al Canestrato. Si accostano vini bianchi con il prodotto fresco e i rossi con i prodotti semi-stagionati e stagionati. Tipologie derivate Canestrato vacchino, prodotto esclusivamente con latte bovino, le cui differenze organolettiche sono sostanzialmente riconducibili al diverso latte di origine. Tuma persa, prodotto caseario tipico, autoctono dell’areale dei Monti Sicani, nato da circa un secolo. Denominato anticamente Cacio bufalo, poi abbandonato per motivi sconosciuti dalla tradizione casearia, attualmente viene prodotto con latte misto vaccino od ovino, ma non di bufala. Nel 1936, Romolotti ne descrive la tecnica di caseificazione insieme a quella dei più diffusi formaggi siciliani. Oggi se ne tenta il recupero facendolo conoscere e apprezzare dai consumatori. La forma è cilindrica a facce piane. Il peso varia da 8 a 10 kg, con scalzo da 12 a 14 cm. La crosta è di colore giallo ocra, diventa scura in seguito alla curatina, cioè alla cappatura eseguita con olio di oliva e pepe macinato. È un formaggio a pasta tenera, compatta e tendente a sgranarsi, con scarsa occhiatura, di colore bianco virante al giallo paglierino; l’aroma è intenso di frutta e latte cotto e il sapore è tra dolce e leggermente piccante ma mai salato, con un retrogusto lungo e aromatico. La prima fase di lavorazione, e le relative attrezzature, sono esattamente quelle usate per il Canestrato, così come anche per il Pecorino. La Tuma persa nasce praticamente ritardando la salatura durante la fase della stagionatura, che avviene in locali freschi e ventilati; il nome pare abbia un legame diretto con tale fase in quanto la tuma, dopo essere stata messa in forma, viene abbandonata, cioè persa, per 8-10 giorni fino a quando non compare la prima muffa; viene quindi lavata in maniera grossolana dalla muffa creatasi e riabbandonata per altri 8-10 giorni prima di essere nuovamente lavata, spazzolata accuratamente e finalmente salata.

Marchi e riconoscimenti

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Il Canestrato ed il Canestrato vacchino sono inclusi nella 5a revisione aggiornata dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali allegato al Decreto del MIPAF del 18 luglio 2005 (Gazzetta Ufficiale del 28/7/2005). Il Canestrato è inoltre compreso nella lista dell’”Arca del Gusto” di SLOW FOOD, che individua e raccoglie prodotti di nicchia ai fini del loro recupero e della loro valorizzazione. Non esiste alcuna struttura per la valorizzazione del prodotto.

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Figura: Schema di lavorazione del Canestrato.

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Acqua 75°CRottura a lenticchia

Messa in forma e pressatura

Siero

Coagulazione termica (80°C)

Ricotta

Scotta Maturazione sotto scotta a 80°C per 3-4 ore

Spurgo e asciugatura

Tuma

Primosale

Canestrato

Salatura a secco o in salamoia

Stagionatura da 4 a 12 mesi

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Acqua 75°CRottura a lenticchia

Messa in forma e pressatura

Siero

Coagulazione termica (80°C)

Ricotta

Scotta Maturazione sotto scotta a 80°C per 3-4 ore

Spurgo e asciugatura

Tuma

Primosale

Canestrato

Salatura a secco o in salamoia

Stagionatura da 4 a 12 mesi

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5.2.3.6. Fiore sicano (a cura di Adriana Bonanno)

Tipologia Formaggio a pasta pressata, cruda e morbida, proveniente da latte intero crudo bovino. Si tratta dell’unico formaggio a pasta molle prodotto in Sicilia, noto anche come ”tumazzu di vacca”. La coagulazione è presamica e la microflora attiva è quella naturale della zona di produzione. Notizie storiche Le origini di questo formaggio sono piuttosto recenti rispetto ad altri formaggi storici siciliani, ma sembra che la sua produzione avvenisse già in tempi passati e sia stata poi interrotta. Si racconta che le sue origini debbano essere ricondotte al caso. La storia, largamente diffusa, narra del primo produttore che, per un imprevisto, non riuscì a portare a termine la lavorazione del Canestrato e, piuttosto che buttare la tuma, la rimise in forme più piccole per non usare quelle grandi che sarebbero servite per la caseificazione del giorno dopo. In seguito, ritenendo di non poterla utilizzare, la trascurò, permettendo l’insediarsi di muffe provenienti dalla frutta vicina. Successivamente, quando decise di assaggiare il formaggio prima di buttarlo, lo trovò di sapore insolito ma gradevole, e decise di ripetere il nuovo procedimento di lavorazione. Per questa ragione, le attrezzature sono le stesse utilizzate per il Canestrato. Negli anni ’80, alcune aziende dei Monti Sicani hanno ripreso e messo a punto la tecnologia di caseificazione. Aspetto La forma è cilindrica, con diametro di 18-20 cm, scalzo di 4-7 cm e peso di circa 2 kg. La crosta è sottile, elastica, di colore grigio-verde dovuto all’insediamento uniforme di muffe autoctone su tutta la superficie. La pasta è di consistenza molle e di colore bianco. Peculiarità organolettiche Presenta un aroma di burro, floreale e speziato, con una nota finale di funghi. Il sapore è delicato e inconfondibile, con un lungo retrogusto leggermente acido e amaro. Area di produzione e ambiente Si produce nel territorio dei Monti Sicani, in provincia di Palermo, nei comuni di Santo Stefano Quisquina, Prizzi, Palazzo Adriano, Cammarata e, in particolare, Castronovo di Sicilia.

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L’ambiente è quello del distretto dei Monti Sicani, sede di numerose Riserve Naturali (Monte Cammarata, Bosco della Ficuzza, Monte Genuardo e Santa Maria del Bosco, Monte Carcaci, Monti di Palazzo Adriano e Valle del Sosio, Riserva Montagnola e Acqua Fitusa di San Giovanni Gemini, Bagni di Cefalà Diana e Chiarastella). Quasi la metà del territorio è rappresentato da boschi e aree pascolive dove è presente una ricca flora naturale; questa comprende numerose essenze erbacee di elevata appetibilità e valore nutrizionale per le specie zootecniche, che conferiscono particolari specificità ai prodotti caseari di questa zona. Periodo di produzione Tutto l’anno. Tecnica di allevamento e alimentazione degli animali Il sistema di allevamento delle bovine è di tipo semi-estensivo. Gli animali si alimentano prevalentemente al pascolo, naturale o coltivato, e ricevono integrazioni in stalla con fieno di produzione aziendale e concentrati, le cui quantità sono stabilite in base alla disponibilità delle risorse al pascolo e ai fabbisogni degli animali. Tecnologia di caseificazione Si usano (figura) attrezzature tradizionali, simili a quelle utilizzate per il Canestrato: la “tina”, grande tinozza in legno in cui il latte è fatto coagulare per l’azione del caglio; la “rotula”, asta di legno culminante all’estremità con un disco che serve a rompere il coagulo nella tina; “fascedda” o fascella, canestro in giunco in cui è posta la pasta del formaggio per la formatura; “tavulere” o tavoliere, ripiano inclinato di legno su cui si appoggiano le fascelle contenenti la pasta del formaggio. Coagulazione. Il latte intero bovino crudo di due mungiture, eventualmente scaldato a 35°C, viene fatto coagulare in circa 60 minuti nella tina di legno con caglio in pasta di agnello o capretto la cui quantità è variabile in dipendenza del titolo e dell’esperienza del casaro. La rottura della cagliata viene effettuata con la rotula in due tempi e modi differenti; la prima rottura avviene grossolanamente e con poca energia e ad essa segue, dopo circa 3 minuti, una seconda rottura più energica che riduce la massa caseosa in piccoli chicchi. Contemporaneamente alla rottura viene immessa nella tina dell’acqua molto calda a circa 75°C. Formatura e scottatura. Quindi la cagliata, immersa nel siero, viene estratta manualmente e pressata nelle apposite fascelle che, dopo essere state qualche tempo a scolare su un tavoliere di legno, vengono poste nuovamente nella tina per essere sottoposte a cottura con scotta calda, proveniente dalla lavorazione della ricotta, per un tempo variabile da 15 minuti a 1 ora, in funzione della temperatura ambiente, fino a quando la cagliata non ha raggiunto l’acidificazione ottimale. Quindi la forma viene posta in una cassa di legno a riposare per circa 4 ore e rivoltata per 5-6 volte. Salatura. Il giorno dopo viene effettuata la salatura, che avviene a secco sull’intera superficie della forma, più raramente in salamoia satura per 12 ore.

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Stagionatura. Il formaggio viene stagionato poggiandolo su scaffali in legno di quercia o leccio all’interno di locali specifici molto freschi, spesso costruzioni in pietra calcarea con muri molto spessi o seminterrati, mantenuti ad una temperatura compresa tra 8 e 12°C e con elevata umidità (89-90% UR). Il microclima presente in questi ambienti ed i quotidiani rivoltamenti delle forme consentono che sulla crosta dei formaggi si sviluppi e si insedi una copertura superficiale di muffe autoctone, di cui il genere più importante è il Penicillium. La stagionatura dura per un periodo minimo di 60 giorni sino ad oltre 2 anni. Impiego gastronomico È un formaggio da tavola che si consuma dopo una stagionatura minima di 2 mesi, fino ad oltre 2 anni. Con una stagionatura più prolungata, il formaggio si presenta più morbido e profumato. Marchi e riconoscimenti Il prodotto è incluso, con la denominazione di ”tumazzu di vacca”, nella 5a revisione aggiornata dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali allegato al Decreto del MIPAF del 18 luglio 2005 (Gazzetta Ufficiale del 28/7/2005). Non esiste alcuna struttura per la valorizzazione del prodotto.

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Figura: Schema di lavorazione del Fiore Sicano.

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Acqua 75°CRottura a chicchi

Messa in forma e pressatura

Siero

Coagulazione termica (80°C)

Ricotta

Scotta Maturazione sotto scotta a 80°C per 1 ora

Spurgo e asciugatura

Fiore Sicano

Salatura a secco o in salamoia

Stagionatura in locali ad elevata umidità da 60 giorni a 2 anni

Insediamento muffe

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Acqua 75°CRottura a chicchi

Messa in forma e pressatura

Siero

Coagulazione termica (80°C)

Ricotta

Scotta Maturazione sotto scotta a 80°C per 1 ora

Spurgo e asciugatura

Fiore Sicano

Salatura a secco o in salamoia

Stagionatura in locali ad elevata umidità da 60 giorni a 2 anni

Insediamento muffe

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5.2.3.7. Pecorino siciliano DOP (a cura di Adriana Bonanno)

Tipologia Formaggio a Denominazione di Origine Protetta, a pasta pressata, dura, semicotta, ottenuto dalla coagulazione presamica del latte intero crudo ovino ad acidità naturale, lavorato manualmente e coagulato con caglio di agnello. La microflora attiva è quella naturale autoctona della zona di produzione. Varietà A seconda della durata della stagionatura, il Pecorino assume caratteristiche e denominazioni diverse: tuma, formaggio fresco da tavola ottenuto senza alcuna salatura, a maturazione di tipo lattico che dura qualche giorno, consumato subito dopo la produzione; primosale, formaggio fresco da tavola che ha subito la prima salatura a secco, a maturazione lattico-proteolitica, si consuma dopo circa 10-20 giorni dalla produzione; secondo sale, formaggio semi-stagionato di circa 2-4 mesi che ha subito ulteriori salature a secco, da tavola o da tenera grattugia; stagionato, è il Pecorino Siciliano a Denominazione di Origine Protetta (DOP, Reg. CEE 1107/96), la cui maturazione dura almeno 4 mesi, consumato come formaggio da tavola o da grattugia. Notizie storiche Si tratta, probabilmente, del più antico formaggio prodotto in Sicilia ed uno dei formaggi più antichi tra quelli prodotti in Italia. Le citazioni storiche risalgono al IX secolo a.C. quando, nel IX libro dell’Odissea, Omero narra dell’incontro tra Ulisse ed il ciclope Polifemo, esperto pastore e casaro che, in Sicilia, fa cagliare il latte ovino e lo ripone in canetri intrecciati. Nel mondo greco classico venne redatta una carta dei formaggi in cui era inserito il Pecorino Siciliano. Aristotele e Plinio il vecchio si soffermarono sul processo di trasformazione. Aristotele ne esalta il gusto unico. Plinio, che nella sua “Naturalis Historia” redasse la prima classificazione dei formaggi nazionali ed esteri, cita tra i migliori formaggi dell’epoca i Pecorini provenienti da Agrigento. Aspetto La forma è cilindrica a facce piane o lievemente concave. L’altezza dello scalzo varia da 10 a 18 cm ed il peso da 4 a 12 kg; il Pecorino Siciliano generico ha peso e altezza dello scalzo variabili. La crosta è bianco giallognola, sottile, con la superficie rugosa per la modellatura lasciata dal canestro nel quale è stata immessa per la formatura. Può essere cappata con olio o morchia d’olio prima dell’immissione sul mercato.

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La pasta ha struttura compatta, uniforme, con limitata occhiatura, di colore bianco nella tuma e giallo paglierino più o meno intenso nel primosale, nel secondo sale e nello stagionato Il Pecorino Siciliano DOP, ad almeno 4 mesi di stagionatura, è caratterizzato dalla superficie rugosa, impressa dal canestro di giunco nel quale viene modellata la pasta, e dall’assenza di pepe nero. Le forme vengono marchiate a fuoco imprimendo la scritta “Pecorino Siciliano DOP” e vi viene apposta una matrice di caseina con il numero progressivo per la rintracciabilità del prodotto. Peculiarità organolettiche La tuma ha una pasta morbida, sapore delicato e dolce e un intenso profumo di latte; essendo un formaggio morbido e non salato, è particolarmente indicato in diete iposodiche. Il primosale presenta una pasta più asciutta e compatta, e assume un sapore lievemente più sapido e piccante, che si accentua nel secondo sale. Il Pecorino Siciliano DOP, stagionato per 4 mesi ed oltre, si distingue per le sue particolari caratteristiche dagli altri pecorini stagionati prodotti in Italia. La pasta è asciutta, l’aroma è tipico, decisamente forte e gradevole con fragranze di fresco, floreale e speziato, variabili secondo i pascoli. Il sapore tende al fruttato e al piccante, estremamente gustoso, specialmente se è stato utilizzato caglio di capretto, e assume connotazioni più intense con l’avanzare della maturazione, adatte a palati abituati a gusti forti. Oltre i 6-8 mesi di stagionatura, diventa un ottimo formaggio da grattugia. Il tenore in grasso sulla sostanza secca non deve essere inferiore al 40%. La tabella riporta alcuni parametri analitici di tuma, primosale e Pecorino Siciliano. Area di produzione e ambiente Il Pecorino Siciliano ed il Pecorino Siciliano DOP vengono prodotti nell’intero territorio siciliano. Le zone di produzione sono quelle tipiche dell’allevamento ovino, diffuso soprattutto in aree di alta collina e montagna, ricche di pascoli naturali e di essenze foraggere spontanee, ma anche in territori di bassa collina dove si sfruttano maggiormente le foraggere avvicendate.

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Tabella: Parametri chimici e resa di tuma, primosale e Pecorino Siciliano.

Fonte CNR, 1996 CNR, 1996 CNR, 1996 Leto et al.,

2000 ARAS, 1986

Prodotti, numero campioni e stagionatura

Tuma,

7 campioni di circa 5 giorni

Primosale, 10 campioni di circa 20

giorni

Pecorino Siciliano,

6 campioni a 4 mesi

Pecorino Siciliano,

7 campioni a 4 mesi

diversi, da 1 a 13 mesi

media 58,10 57,32 66,68 77,50 69,95 Sostanza secca

min.-max 56,57 – 61,17 52,93 – 62,90 62,48 - 69,98 62,01 – 78,08

media 46,67 44,84 48,11 48,9 42,48 Grasso (% s.s.)

min.-max 44,30 – 51,93 35,02 – 53,41 40,35 - 53,23 33,45 – 49,81

media 45,23 45,68 39,68 36,27 41,05 Proteina totale (azoto totale*6,38)

(% s.s.) min.-max 39,11 – 49,38 35,54 – 56,72 30,62 – 51,61 30,92 – 51,33

media 0,07 0,12 0,33 Azoto non proteico (% s.s.) min.-max 0 – 0,38 0 – 1,18 0,11 – 0,48

media 0,91 1,03 1,48 Azoto solubile (% s.s.)

min.-max 0,39 – 1,62 0,25 – 1,58 0,91 – 1,90

media 5,86 5,81 5,72 5,18 pH

min.-max 5,50 – 6,17 5,44 – 6,18 5,56 – 5,92 4,80 – 5,72

media 5,15 6,16 9,19 11,72 10,70 Ceneri (% s.s.)

min.-max 4,64 – 5,62 5,21 – 7,00 8,11 – 11,04 7,08 – 14,47

media 0,10 1,28 5,07 4,86 5,03 NaCl (% s.s.)

min.-max 0,09 – 0,13 0,16 – 2,80 2,12 – 7,09 1,84 – 8,92

media 1,53 1,43 1,23 1,09 0,91 Ca (% s.s.)

min.-max 1,30 – 1,81 0,95 – 1,90 0,96 – 1,60

media 1,50 1,45 0,93 0,79 0,89 P (% s.s.)

min.-max 1,03 – 3,49 1,01 – 2,62 0,82 – 1,08

Resa (kg/100 kg latte) 16,91

Apporto energetico (kcal/100g) 350 337 395

Periodo di produzione Il Pecorino Siciliano DOP viene prodotto stagionalmente nel periodo ottobre-giugno, che coincide con quello della lattazione delle pecore e della disponibilità dell’erba verde dei pascoli naturali o coltivati.

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Tecnica di allevamento e alimentazione degli animali La base dell’alimentazione delle pecore è costituita, per gran parte dell’anno, dal foraggio verde dei pascoli naturali siciliani, che incide fortemente sull’aroma, sul sapore, sulla struttura e sul colore del prodotto finito e conferisce al prodotto un forte legame con il territorio. Nei periodi di carenza, il pascolo naturale viene integrato con il foraggio di essenze coltivate in azienda, tipiche dell’ambiente mediterraneo, quali sulla, veccia, avena e orzo, utilizzate direttamente al pascolo o affienate, e con alimenti concentrati per lo più di origine aziendale. Fattori ambientali e di gestione delle greggi, oltre alla tradizione che si è affermata nel tempo, fanno si che i parti e la conseguente produzione di latte coincidano con l’inizio della stagione piovosa, quando i pascoli possono essere utilizzati direttamente dagli animali, con evidenti riflessi sulle caratteristiche qualitive del latte e del formaggio. Tecnologia di caseificazione Il Pecorino Siciliano DOP viene prodotto secondo una tecnologia di caseificazione tradizionale (figura) e unica, consolidatasi nel corso dei secoli e tramandata di generazione in generazione, che lo diversifica notevolmente dagli altri pecorini e ne esalta la genuinità e l’elevato valore qualitativo. Stralci del Disciplinare di produzione sono allegati in calce. Il sistema di caseificazione prevede l’utilizzo di attrezzature storiche tradizionali, quali: la “tina”, grande tinozza in legno di forma tronco-conica in cui il latte è fatto coagulare per l’azione del caglio; la “rotula”, asta di legno culminante all’estremità con un disco che serve a rompere il coagulo nella tina; la “fascedda” o fascella, canestro in giunco in cui è posta la pasta del formaggio per la formatura; il “tavulere” o tavoliere, ripiano inclinato di legno su cui si appoggiano le fascelle contenenti la pasta del formaggio. Coagulazione. Il latte intero crudo ovino, generalmente di due mungiture, viene riscaldato ad una temperatura di circa 35-37°C e versato, filtrandolo con un telo o un setaccio, nella tina dove è fatto coagulare addizionando caglio artigianale in pasta ottenuto dall'abomaso di agnelli lattanti, la cui dose varia in funzione del titolo e dell’esperienza del casaro. Il tempo di presa ed indurimento della cagliata è di circa 40 minuti, in dipendenza della forza e della dose di caglio. Dopo il rassodamento, si procede alla rottura della cagliata fatta con l’ausilio della rotula, e contemporaneamente viene immessa nella tina dell’acqua molto calda a circa 75°C, in ragione di 20-30 litri per 100 litri di latte, che innalzando la temperatura della cagliata favorisce la sineresi, cioè lo spurgo del siero. Dopo la rottura, la dimensione dei granuli varia da una lenticchia ad un cece. Alla rottura segue una fase di pochi minuti in cui i granuli caseosi sedimentano nel fondo della tina. Formatura. La massa caseosa raccolta nel fondo della tina viene estratta, posta nei canestri o fascelle di giunco, e “frugata”, cioè premuta manualmente per far fuoriuscire il siero e fare assumere alla pasta, la tuma, la caratteristica forma. Le forme rimangono qualche ora su appositi ripiani per l’ulteriore spurgo.

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Scottatura. I canestri vengono quindi posti nella tina e ricoperti con scotta calda a circa 80°C, proveniente dalla lavorazione del siero per la produzione della ricotta, dove rimangono per circa 3-4 ore coperte con un telo per evitare dispersioni di calore. Questa fase ha come obiettivo quello di permettere la selezione dei batteri lattici termofili e l'avvio dei processi di fermentazione microbica che sono all'origine di molte delle caratteristiche del formaggio. Acidificazione. Dopo la scottatura le forme vengono estratte dalla tina e lasciate acidificare ponendole per 1 giorno su un piano inclinato, il tavoliere, effettuando ripetuti rivoltamenti all’interno dei canestri per conferire al prodotto la tipica rugosità e la forma cilindrica. Salatura. Dopo circa 24 ore, il giorno successivo, la forma viene estratta dal canestro e salata a secco manualmente, cospargendo il sale uniformemente sull’intera superficie; di rado la salatura avviene in salamoia satura con un’immersione per un periodo variabile in funzione della pezzatura del formaggio. La salatura a secco viene ripetuta dopo 10 giorni ed, eventualmente, dopo 2 mesi. Solo la tuma non subisce alcuna salatura. Stagionatura. La fase di maturazione, che si può protrarre anche fino ai 12 mesi ed oltre, avviene in locali di stagionatura ben ventilati, ad una temperatura di 14-15°C ed un’umidità relativa dell’80-90%, dove le forme vengono sistemate su scaffali di legno singolarmente o disposte in coppia l’una sull’altra, e subiscono ripetuti rivoltamenti. Poiché per ottenere la certificazione DOP il formaggio deve stagionare almeno 4 mesi, superato tale periodo può essere commercializzato con il marchio Pecorino Siciliano DOP. Durante la stagionatura le forme possono periodicamente essere unte con olio (cappatura). Impiego gastronomico Il Pecorino viene consumato come formaggio da tavola nelle tipologie fresche o semi-stagionate, e come formaggio da tavola e da grattugia quando è stagionato. Il Pecorino Siciliano viene utilizzato come condimento o farcitura in molti piatti tipici siciliani, ai quali conferisce i peculiari sapori mediterranei. Tra le pietanze più rinomate si ricordano: maccheroni con il sugo di maiale, gnocchetti al sugo, bucatini alla contadina, pasta stufata, spaghetti alla carrettiera, polpette con la salsa, uova a soffiello, carciofi alla villanella, pizza siciliana, Si accostano ottimamente i vini rossi con prodotti di secondo sale e stagionati, i vini bianchi con la tuma, ideale per gli aperitivi. Tipologie derivate Pecorino rosso, con aggiunta di fiocchi di peperoncino all’atto dell’incanestratura. Pecorino pepato, con aggiunta di pepe in grani all’atto dell’incanestratura. Piacentino, prodotto nella provincia di Enna con aggiunta di zafferano nel latte, che conferisce al formaggio una intensa caratteristica colorazione gialla, e di pepe nero in grani nella pasta durante l’incanestratura.

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Altre tipologie si preparano con le olive e con le erbe. Marchi e riconoscimenti Riconosciuto fin dal 1955 a denominazione di origine (DPR 30 ottobre 1955 n. 1269), dal 1996 si fregia del marchio a Denominazione di Origine Protetta (DOP, Reg. CEE 1107/96) che ne certifica la produzione secondo uno specifico disciplinare, del quale si allegano in calce alcuni stralci, e che si basa sui metodi di lavorazione tramandati dalla tradizione. Il Consorzio Ricerca Filiera Lattiero-Casearia (CORFILAC) è stato designato nel 2001 quale organismo di controllo e di certificazione sulla DOP Pecorino Siciliano. Il prodotto dispone di un apposito “Consorzio volontario per la tutela”, riconosciuto dal MIPAF con DM del 13 aprile 2005, con sede a Cammarata (AG). Il Picurino ed il Pecorino rosso sono inclusi nella 5a revisione aggiornata dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali allegato al Decreto del MIPAF del 18 luglio 2005 (Gazzetta Ufficiale del 28/7/2005).

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Figura: Schema di lavorazione del Pecorino Siciliano DOP.

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Acqua 75°CRottura a lenticchia

Messa in forma e pressatura

Siero

Coagulazione termica (80°C)

Ricotta

Scotta Maturazione sotto scotta a 80°C per 3-4 ore

Spurgo e asciugatura

Tuma

Primosale

Pecorino Siciliano DOP

Salatura a secco

Stagionatura per almeno

4 mesi

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Acqua 75°CRottura a lenticchia

Messa in forma e pressatura

Siero

Coagulazione termica (80°C)

Ricotta

Scotta Maturazione sotto scotta a 80°C per 3-4 ore

Spurgo e asciugatura

Tuma

Primosale

Pecorino Siciliano DOP

Salatura a secco

Stagionatura per almeno

4 mesi

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Dal “Disciplinare guida e piano dei controlli” del Pecorino Siciliano DOP

Requisiti di conformità Materia prima: latte intero di pecora, fresco, proveniente da allevamenti ubicati in tutta la regione siciliana. Periodo di produzione: compreso tra ottobre e giugno. Caratteristiche fisiche Forma: cilindrica, a facce piane o leggermente concave. Dimensioni: altezza da 10 a 18 cm in rapporto alle condizioni tecniche di produzione. Peso: variabile da 4 a 12 kg in rapporto alle condizioni tecniche di produzione. Crosta: bianco giallognola, con la superficie rugosa per la modellatura lasciata dal canestro nel quale è stata formata (incanestrata). Può essere cappata con olio o morchia d’olio. Pasta: struttura compatta, bianca o paglierina con limitata occhiatura. Caratteristiche chimiche: grasso sulla sostanza secca non inferiore al 40%. Caratteristiche sensoriali: sapore piccante caratteristico. Zona di produzione: territorio della regione siciliana. Descrizione del metodo di ottenimento Il latte intero di pecora, fresco, proveniente da allevamenti ubicati nel territorio della regione siciliana, viene coagulato con caglio di agnello. La cagliata viene fatta spurgare con le mani dopo essere stata posta in canestri di giunco o “fascedde” che lasciano sulla superficie una particolare modellatura. Durante la fase di maturazione, la pasta viene posta su un tavoliere di legno e le forme vengono rivoltate più volte all’interno dei canestri per conferire loro il caratteristico aspetto a cilindro con facce piane leggermente concave e con impressi i segni del canestro. Successivamente alla produzione, viene praticata a mano la salatura a secco sull’intera superficie della forma. La stagionatura avviene per un periodo di almeno 4 mesi. È prevista la cappatura con olio o morchia di olio. Sistemi di identificazione e rintracciabilità del prodotto Al fine di fornire completa evidenza dei requisiti di conformità, ogni produttore di formaggio Pecorino Siciliano adotta metodologie per dare evidenza oggettiva, nel rispetto del Disciplinare di produzione del Pecorino Siciliano, lungo tutto il processo produttivo. Relativamente all’origine della materia prima, al prodotto in lavorazione e al prodotto finito devono pertanto essere adottati dei sistemi di identificazione. Ogni produttore di latte documenta la regolarità della provenienza della materia prima attraverso una scheda di stalla e il numero del produttore di latte destinato alla produzione del formaggio DOP Pecorino Siciliano. Dopo la formatura, su ogni forma di Pecorino Siciliano sono apposti, mediante una fascera, il numero del caseificatore di formaggio e il marchio Pecorino Siciliano, consegnati entrambi dal Consorzio Ricerca Filiera Lattiero-Casearia; su ogni forma è impressa la data di produzione. Ogni forma di Pecorino Siciliano è quindi identificato dal numero del produttore e dalla data di produzione; sul prodotto finito è impresso su una faccia della forma il marchio Pecorino Siciliano a fuoco, previo accertamento della rispondenza del prodotto alle caratteristiche del Disciplinare di produzione.

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Piano dei controlli Affinché questi formaggi possano beneficiare della Denominazione di Origine Protetta, il piano si articola in tre livelli:

� autocontrollo dei produttori; � attività di verifica da parte del Consorzio Ricerca Filiera Lattiero-Casearia sui produttori; � controlli di conformità svolti dal Consorzio Ricerca Filiera Lattiero-Casearia.

La verifica della conformità del formaggio Pecorino Siciliano DOP e del suo processo produttivo ai requisiti obbligatori prevede l’autocontrollo attuato dai produttori sulla propria attività e verifiche effettuate da parte del Consorzio Ricerca Filiera Lattiero-Casearia sui produttori. I controlli svolti dal Consorzio Ricerca Filiera Lattiero-Casearia sono effettuati tramite verifiche documentali e verifiche ispettive. È previsto il controllo documentale del 100% dei produttori di latte, dei caseificatori e degli stagionatori, ed è prevista almeno una visita ispettiva annuale presso tutti i produttori. Il controllo sensoriale del prodotto viene effettuato da un panel di assaggiatori esperti, appositamente selezionati e addestrati, come descritto nel documento “Analisi sensoriale del formaggio Pecorino Siciliano DOP”.

5.2.3.8. Ricotta (a cura di Adriana Bonanno)

Tipologia La Ricotta è un latticino fresco che non può dirsi esattamente un formaggio. Essa, infatti, rappresenta il prodotto che si ottiene dal riscaldamento del siero intero che residua dalla coagulazione del latte per la produzione dei formaggi bovini, ovini, caprini e misti. In base al latte di origine, si fa distinzione tra ricotta di vacca, di pecora, di capra e mista. E ottenuta dalla denaturazione termica o acido-termica delle sieroproteine contenute nel siero intero, addizionato di latte ed eventualmente di “agra”. Viene sottoposta a spurgo naturale, salata con addizione di sale al siero, senza maturazione. A seconda degli usi locali, possono essere utilizzati acidificanti naturali per ottimizzare la resa. Notizie storiche Formaggio e ricotta sono strettamente legati: non c’è ricotta che non si faccia con il siero del formaggio e non c’è formaggio che non stia a riposare nella scotta che residua dalla lavorazione della ricotta. La ricotta rappresenta uno dei prodotti più antichi dell’isola. Già nei calmieri dei mercati di Palermo dal 1407 al 1440 era considerata un prodotto a grande diffusione di vendita. La storia della ricotta è ampiamente illustrata dallo storico Antonio Uccello che ne descrive la lavorazione e gli utensili tradizionali utilizzati. Le ricotte di pecora e di capra sono citate nell’opera del Gallo nel IV secolo d.C., che asserisce come la migliore sia quella di capra, mentre la ricotta di pecora risulta più saporita di quella bovina. Ne “La descrizione della città e del territorio di Noto” del 1813 si fa riferimento ad una fiorente produzione di ricotta fresca e salata. Nel 1872, il sacerdote don Gaetano Salamone compilò un trattato destinato agli agricoltori e ai casari dove descriveva minuziosamente la tecnica di fabbricazione della ricotta di pecora, assai simile a quella attuale.

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Aspetto La forma della ricotta siciliana fresca è tronco-conica, dovuta al contenitore, la caratteristica “fascedda” o fascella, che solitamente si adopera per il confezionamento, con piatto superiore lievemente concavo. L’altezza è di 13-18 cm, il diametro minore di 11-13 cm e quello maggiore di 14-21 cm. Il peso varia da 0,5 kg fino a 3 kg. La pasta presenta un aspetto uniforme e soffice, con struttura finissima e consistenza morbida, cremosa e spalmabile. Il colore è variabile dal bianco niveo al bianco giallastro, se ottenuta rispettivamente dal siero di latte ovino e misto o dal siero di latte bovino. Peculiarità organolettiche È un alimento dietetico, altamente digeribile, ricco di proteine e poco dotato di grassi, molto ricercato e apprezzato dai consumatori. L’odore è delicato di latte e siero. Ha sapore latteo, dolce e delicato o leggermente sapido con note acidule. La ricotta di pecora e/o capra ha un odore di siero molto intenso e un sapore più sapido e gustoso rispetto a quella bovina. Alcuni parametri chimici della Ricotta sono riportati nella tabella. Area di produzione e ambiente Si estende in tutto il territorio siciliano. Le zone di produzione sono quelle dei formaggi da cui deriva il siero. Si tratta, in genere, di aree dotate di pascoli naturali dove sono rappresentate numerose essenze foraggere spontanee. La ricotta bovina o mista si produce, in sostituzione di quella di pecora, nelle zone di produzione del Caciocavallo, del Canestrato e degli altri formaggi ottenuti dal latte bovino. La ricotta di pecora si produce nelle zone di produzione del Pecorino e della Vastedda della Valle del Belice. Nella Sicilia orientale si apprezza maggiormente la ricotta bovina, mentre nella Sicilia occidentale la ricotta di pecora è ritenuta la vera ricotta, più gustosa e ricercata di quella bovina.

Periodo di produzione Corrisponde al periodo di produzione, generalmente stagionale, da settembre a giugno, dei formaggi da cui deriva il siero che viene lavorato. Tecnica di allevamento e alimentazione degli animali Gli animali, siano essi bovini, ovini o caprini, sono allevati con sistema estensivo o semi-estensivo. La base alimentare è il pascolo per gran parte dell’anno, integrato con mangimi aziendali nei periodi di carenza foraggera. Le foraggere pascolate sono le essenze spontanee dei pascoli siciliani e, tra quelle coltivate, la sulla, la veccia, l’avena e l’orzo.

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Tabella: Parametri chimici della Ricotta.

Fonte CNR, 1996 CNR, 1996

Prodotto, numero campioni e stagionatura

Ricotta di vacca o mista

12 campioni ad 1 giorno

Ricotta di pecora 7 campioni ad 1

giorno

Media 31,18 31,79 Sostanza secca

min.-max 25,70 – 34,04 23,17 – 40,74

media 61,33 56,49 Grasso (% s.s.)

min.-max 43,72 – 77,44 26,63 – 68,64

media 26,60 29,35 Proteina totale (azoto totale*6,38)

(% s.s.) min.-max 22,90 – 33,18 15,38 – 31,77

media 0 0 Azoto non proteico (% s.s.) min.-max

media 0,28 0,28 Azoto solubile (% s.s.)

min.-max 0,15 – 0,75 0,15 – 0,75

media 6,52 6,64 pH

min.-max 5,87 – 6,91 5,99 – 6,83

media 3,77 4,15 Ceneri (% s.s.)

min.-max 2,96 – 4,69 3,21 – 5,06

media 1,65 2,00 NaCl (% s.s.)

min.-max 0,48 – 3,15 0,15 – 3,45

media 1,34 0,75 Ca (% s.s.)

min.-max 0,47 – 3,48 0,45 – 1,41

media 0,79 0,73 P (% s.s.)

min.-max 0,34 – 1,49 0,33 – 2,38

Apporto energetico (kcal/100g) 214 207

Tecnologia di lavorazione La tecnologia di produzione delle ricotte fresche (figura) si basa su metodi artigianali e utensili tradizionali, e prevede l’utilizzo del siero di latte delle diverse specie (vacca, pecora, capra o misto), residuo della lavorazione del formaggio. Riscaldamento del siero. Il siero, detto “lacciata”, viene riscaldato in una caldaia, la “quarara”, una volta di rame stagnato ora di alluminio, e addizionato di sale in quantità variabile dallo 0,3 all’1%. Il sale viene aggiunto al siero esclusivamente quando il produttore ritiene di mettere la ricotta sul mercato per il consumo fresco; quando

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invece pensa di destinarla alla salatura, soprattutto se si tratta di ricotta vaccina o mista, non viene aggiunto sale al siero. Quando il siero raggiunge la temperatura di circa 60°C, viene aggiunto del latte in proporzione pari al 10% circa per aumentare la resa. Acidificazione con agra. In molte zone, e particolarmente in quelle occidentali dell’isola, al siero bovino riscaldato viene aggiunto il 5-10% di “agra” che agisce favorendo la flocculazione delle sieroproteine. L’agra viene preparata artigianalmente in azienda lasciando inacidire per 2-3 giorni la scotta residua della lavorazione della ricotta in un recipiente di legno a forma tronco-conica e a doghe chiamato “sirratizzu”; la funzione di questa operazione è quella di creare sulle pareti di legno del recipiente un substrato batterico che provocherà l’acidificazione della scotta che vi viene addizionata giornalmente per reintegrare quella, già acidificata, usata per la ricotta. Alcuni produttori di ricotta di pecora aggiungono al siero di latte rametti di fico selvatico opportunamente incisi per favorire la fuoriuscita del lattice che ha proprietà coagulanti, e dare così una maggiore consistenza ed un aroma particolare alla ricotta. Affioramento. Successivamente si prosegue il riscaldamento della massa, sempre continuando ad agitarla lentamente con l’ausilio di una piccola scopa, “zubbio” o “zubbu”, fino a raggiungere la temperatura di circa 85°C che in pochi minuti provoca la flocculazione delle proteine solubili e, quindi, l’affioramento della ricotta. Formatura. Durante l’affioramento si elimina la schiuma che si forma in superficie con lo “scumaricotta”, e quindi si procede a raccogliere la ricotta con un mestolo, detto “cazza”, e deporla nelle tipiche “fascedde” o fascelle, un tempo di giunco di canna oggi sostituite con quelle di materiale plastico. Altri antichi produttori depositavano la ricotta in fascelle dove sul fondo mettevano dei ramoscelli di “Tabbisu”, un’ombrellifera del genere Ferula, per conferire maggiore fragranza. Conservazione. Al fine di favorire lo spurgo dell’eccesso di scotta e quindi il rassodamento del prodotto, le fascelle di ricotta vengono poste per circa 4 ore su un tavolo inclinato all’interno dello stesso locale di caseificazione. Quindi vengono conservate in cella frigorifera a 6°C fino alla vendita. Il periodo di conservazione è inferiore ad 1 settimana, superata la quale aumenta la consistenza, il colore tende al giallo, l’odore diventa acido e sgradevole ed il sapore evolve verso l’acidulo e l’amaro. Impiego gastronomico Si consuma prevalentemente fresca come prodotto da tavola o come ingrediente per altri alimenti o pietanze, in modo particolare nella preparazione della crema di ricotta usata nel riempimento dei più rinomati prodotti della pasticceria tipica siciliana. Tra i piatti più famosi della cucina tradizionale siciliana, si citano: lasagne con la ricotta, lasagne con il sugo di maiale, ditali con broccoli e ricotta, ditali con fave verdi e ricotta, frittata di ricotta; a questi si aggiungono vari sformati, scacciate e pizze, in cui la ricotta viene ampiamente adoperata come ripieno. Tra i dolci si citano: cassata siciliana, cassata al forno, cannoli di ricotta, sfince di San Giuseppe, cartoccio alla palermitana, iris con ricotta, ravioli di ricotta, cassatelle.

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Figura: Schema di lavorazione della Ricotta.

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Rottura

Siero

Riscaldamento fino a 60° C

Ricotta

Riscaldamento fino ad 85° C

Cagliata

Latte 10%Agra(per la ricotta bovina)

Affioramento

Sale da cucina0,1-0,3%

Latte

Caglio in pastaCoagulazione presamica

Cagliata

Rottura

Siero

Riscaldamento fino a 60° C

Ricotta

Riscaldamento fino ad 85° C

Cagliata

Latte 10%Agra(per la ricotta bovina)

Affioramento

Sale da cucina0,1-0,3%

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Tipologie derivate Nei periodi dell’anno in cui la richiesta di ricotta fresca è minore e per aumentarne, quindi, il periodo di conservazione e consumo, la ricotta può essere salata o infornata. Ricotta salata. Tipico prodotto siciliano di antica tradizione, ottenuto in tutto il territorio regionale per salatura e asciugatura della ricotta fresca. Dopo la produzione, la ricotta fresca rimane nelle fascelle per circa 24 ore, in modo da permettere il drenaggio della scotta e nello stesso tempo assumere la giusta consistenza, tale da non rompersi appena uscita dalla fascella. Resta, quindi, per altre 48 ore fuori dalla fascella per consentire un’ulteriore asciugatura e consolidamento. La salatura viene effettuata a secco utilizzando per ogni forma circa 40-50 mg di sale che viene strofinato manualmente su tutta la superficie esterna; completata tale operazione si procede all’eliminazione del sale superfluo. L’asciugatura, o stagionatura, avviene possibilmente all’aperto, in ambienti soleggiati, asciutti e ben areati, ponendo le forme su appositi scaffali di legno entro stipi chiusi da pareti in rete metallica. Durante tale fase, ogni 2-3 giorni, le forme vengono capovolte e sottoposte ad un’attenta pulizia della superficie esterna per eliminare sia le muffe sia il sale residuo. Dopo un periodo di maturazione blandamente proteolitica, di circa 2-3 mesi, assume la giusta consistenza per essere consumata come prodotto da grattugia, mentre più raro è l’utilizzo del prodotto fresco da tavola. La ricotta salata grattugiata è un indispensabile ingrediente per condire alcune rinomate pietanze della cucina tradizionale siciliana, tra cui la pasta con pomodoro fresco, melanzane e basilico (pasta alla norma). La forma è cilindrica o tronco-conica, con diametro di 12-15 cm, altezza di 10-16 cm e peso di 0,5-3 kg. La pasta ha una consistenza tenera, cremosa, a struttura fine e compatta, di colore bianco avorio se fresca, semidura e friabile, di colore tendente al giallo-paglierino se stagionata. Il sapore è particolare, marcato, gradevolmente sapido, l’odore è forte, di grasso. Ricotta infornata. La ricotta destinata alla cottura in forno è prodotta in tutto il territorio siciliano, prevalentemente nella zona di Catania e Messina, utilizzando per lo più siero misto, spesso bovino e caprino. Dopo un paio di giorni, in cui viene lasciata spurgare su un ripiano inclinato, la ricotta fresca viene estratta dalla fascella, salata leggermente a secco, posta in contenitori di ceramica e cotta in forno di pietra a legna a 180-250°C per 30 minuti. Viene poi rivoltata nel tegame e infornata per altri 30 minuti, ripetendo questo procedimento per almeno altre 2 volte, fino ad ottenerne un’asciugatura completa. La forma è cilindrica o tronco-conica, con diametro di 12-26 cm e altezza di 5-8 cm; il peso varia da 0,5 a 1 kg. La pasta è morbida, cremosa, compatta, di colore avorio o marrone, a seconda le volte in cui è stata infornata. Il sapore è fortemente aromatico, caratterizzato da note di nocciole tostate e frutta secca. Viene consumata come prodotto da tavola, soprattutto per gli antipasti, o da grattugia per condire varie pietanze.

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Marchi e riconoscimenti Nella 5a revisione aggiornata dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali allegato al Decreto del MIPAF del 18 luglio 2005 (Gazzetta Ufficiale del 28/7/2005), tra i prodotti di origine animale della Sicilia sono inclusi la Ricotta di pecora, la Ricotta di vacca, la Ricotta iblea, la Ricotta infornata e la Ricotta mista. La Ricotta infornata è inoltre compresa nella lista dell’”Arca del Gusto” di SLOW FOOD, che individua e raccoglie prodotti di nicchia ai fini del loro recupero e della loro valorizzazione. Non esiste alcuna struttura per la valorizzazione del prodotto.

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5.2.4. La qualità e la tipicità dei prodotti caseari (a cura di Adriana Bonanno)

Oggi si tende a definire un prodotto “di qualità” se lo stesso trova buona accoglienza sul mercato. Nel caso dei prodotti alimentari, viene rivolta ormai grande attenzione alla loro qualità che, secondo la definizione più diffusa ed attuale, viene indicata come “quel complesso di caratteristiche che ne determinano l’accettabilità da parte del consumatore”. Con tale definizione si mette in chiara evidenza come la qualità di un qualsiasi alimento sia un requisito multiforme e complesso, cui concorrono aspetti di diversa natura, sebbene alcuni di essi siano mutevoli e fortemente influenzabili, ad esempio, dalla pubblicità e dal costo di acquisto. Per i prodotti animali, possono distinguersi tre diversi aspetti della qualità, anche se tra loro difficilmente separabili: la qualità dietetica e nutrizionale, la qualità igienica e sanitaria e la qualità sensoriale (Boyazoglu e Morand-Fehr, 2001). Nel settore lattiero-caseario, anche la qualità totale dei formaggi, che scaturisce innanzitutto dalla qualità del latte crudo di partenza, è data dalla interazione di requisiti relativi a diversi aspetti di tipo dietetico-nutrizionale, igienico-sanitario e sensoriale. La qualità dietetica e nutrizionale dipende dalla composizione nei principali nutrienti del latte e del formaggio, come grasso e proteine, ma anche dalla presenza di acidi grassi, vitamine ed altre sostanze ad azione dietetica e salutistica o, in una accezione più evoluta, “nutraceutica”. La qualità igienica è legata al livello di contaminazione microbiologica, in genere di provenienza ambientale, e chimica, per la presenza di residui di farmaci, pesticidi, micotossine, metalli pesanti, disinfestanti o detergenti. La qualità sanitaria è data dall’assenza di microrganismi patogeni, provenienti da animali affetti da malattie. Infine, la qualità sensoriale o organolettica è quella rilevabile dagli organi di senso, data cioè da colore, consistenza, odore e sapore che, a loro volta, dipendono in larga parte dal regime alimentare degli animali ma sono anche strettamente connessi con la qualità igienica e sanitaria che può provocare alterazioni dei formaggi. I consumatori moderni, oggi sempre più consapevoli, tendono a privilegiare nella loro alimentazione la qualità piuttosto che la quantità, sono più attenti alle caratteristiche dietetico-salutistiche e di sicurezza degli alimenti, e per questo hanno progressivamente rivalutato, aumentandone la domanda, i prodotti agroalimentari tradizionali che associano peculiari caratteristiche organolettiche alla genuinità, vengono ottenuti per lo più in ambiti strettamente locali e sono pertanto riconoscibili da una precisa origine. Per questi prodotti agroalimentari tradizionali da qualche anno la qualità viene veicolata anche dalla parola “tipico” che da sola basta ad evocare valori di genuinità; da qui l’attrazione da parte di consumatori nei confronti dei prodotti tipici, proprio perché identificati come “genuini”, quindi naturali e salubri. Ormai è diventata consuetudine usare la parola “tipicità” anche per definire la qualità dei prodotti caseari locali, ottenuti con lavorazioni artigianali legate alla tradizione. Per

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tipicità di un formaggio si intende l’insieme di tutte quelle caratteristiche che lo rendono riconoscibile e assimilabile ad una determinata tipologia e ad una specifica zona di origine e produzione (geografica e storica). I caratteri di tipicità di un formaggio derivano, pertanto, dall’interazione fra l’ecosistema di produzione del latte (territorio, razza, sistema di allevamento) e le tecniche di trasformazione del latte in formaggio. I formaggi tipici, quindi, raccolgono in sé un insieme di caratteri di specificità dovuti all’ambiente naturale, alla razza, al sistema produttivo, alla base alimentare della specie da cui è stato ottenuto, alla presenza di fermenti autoctoni selezionati nel tempo, alle tecniche tradizionali del casaro, tramandate di generazione in generazione. Il risultato non è solo un “alimento”, ma un patrimonio di valori identificabili non solo nelle specifiche peculiarità organolettiche e salutistiche del prodotto, ma anche nel contesto sociale e culturale di cui queste produzioni sono parte integrante. I formaggi tipici siciliani sono ottenuti esclusivamente in sistemi produttivi caratterizzati da tecniche di allevamento degli animali e da tecnologie tradizionali di caseificazione strettamente connesse al territorio di origine. Essi costituiscono un inestimabile patrimonio, frutto di antiche tradizioni artigianali e dell’esperienza tramandata che i casari mettono in pratica tutti i giorni rendendoli unici e non riproducibili in altre parti del mondo. Essi rappresentano sicuramente una delle massime espressioni del legame fra territorio, razze allevate e tecnica di trasformazione del latte, fattori questi che costituiscono, appunto, la base del concetto di tipicità. Diversi sono i punti di forza che è possibile individuare per i prodotti caseari tipici regionali: originano da un patrimonio zootecnico di pregio, caratterizzato da razze autoctone adatte a diversi ambienti di allevamento; si tratta di prodotti tradizionali di attestata storicità, graditi dai consumatori per la loro genuinità; alcuni di essi sono prodotti a Denominazione di Origine Protetta (Pecorino Siciliano DOP e Ragusano DOP), altri in attesa del riconoscimento della DOP, alcuni dotati di Consorzi per la tutela e quasi tutti oggetto di attività promozionali in ambito regionale, nazionale ed europeo; tutti trovano ampio impiego nella gastronomia tradizionale o nella pasticceria tipica regionale (ARAS, 2001). Nell’analisi dei fattori chiave che determinano e influenzano la qualità delle produzioni casearie tipiche siciliane, così come quelle della provincia di Palermo, emerge come questi siano svariati ma essenzialmente riconducibili, da un lato, all’ambiente e al sistema di produzione del latte da cui derivano e, dall’altro, alla specifica tecnica artigianale di caseificazione del latte. Tali fattori, interagendo tra loro, conferiscono ai prodotti quel complesso di requisiti di natura nutrizionale, igienica ed organolettica che li rendono apprezzabili ai consumatori che ricercano prodotti sani e genuini.

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5.2.5. Effetti dell’ambiente e del sistema di produzione del latte (a cura di Adriana Bonanno)

I prodotti caseari tradizionali sono legati profondamente al territorio di origine dal quale traggono le caratteristiche peculiari più importanti, per effetto dell’ambiente e del clima, della razza, delle tecniche di allevamento, del pascolamento e del pascolo, del sistema di alimentazione. L’insieme di questi fattori, unitamente a tutti gli aspetti socio-culturali, definiscono il sistema di produzione e condizionano la qualità del latte crudo di partenza e dei prodotti caseari derivati.

5.2.5.1. L’ambiente e il clima (a cura di Adriana Bonanno)

Gli ambienti di produzione dell’area palermitana sono caratterizzati da territori con morfologia e giacitura oltremodo diversificata, dove si ritrovano in prevalenza sistemi di colline e di montagne delimitati da qualche rara pianura. Anche nelle zone costiere si riscontrano frequentemente alti rilievi, che fanno assumere al territorio notevoli pendenze. Dal punto di vista pedologico, la natura dei suoli è abbastanza varia, ma prevalgono litosuoli, regosuoli e suoli bruni delle diverse tipologie e relative associazioni. Spesso si riscontrano suoli caratterizzati da un substrato povero, quindi di bassa fertilità, anche per il limitato spessore e la roccia affiorante. Si tratta di terreni in gran parte argillosi o argilloso-calcarei, impermeabili o semipermeabili, ben vocati per i seminativi (ARAS, 1986). Su tale territorio, come nel resto della Sicilia, agisce il clima mediterraneo, il cui aspetto più tipico è quello della semi-aridità, data da un periodo secco estivo più o meno prolungato a seconda l’altitudine, tale da arrestare il ritmo di crescita dell’erba, che si contrappone ad una stagione piovosa autunnale ed invernale. La piovosità media annua è di 600-700 mm, variabile dai 400 ai 1200 mm a seconda l’altitudine ed i versanti; la distribuzione delle piogge è alquanto irregolare e discontinua, e talvolta gli eventi piovosi assumono carattere di notevole violenza, provocando fenomeni di erosione e frequenti manifestazioni franose. Per tali ragioni i rilievi sono interessati da iniziative di rimboschimento, in gran parte con finalità protettive e paesaggistiche, ma in qualche caso anche con finalità produttive (ARAS, 2001). La temperatura media annua varia da 12 a 21 °C, dando nell’insieme un clima mite che solo sui rilievi delle Madonie manifesta una maggiore rigidezza. Tali condizioni pedo-climatiche non sono favorevoli allo sviluppo di sistemi agricoli intensivi. Difatti, le risorse di tali ambienti sono costituite prevalentemente dai pascoli naturali permanenti e dal sottobosco, unitamente alle più limitate superfici investite a colture foraggere avvicendate destinate al pascolamento e alla fienagione, nonché le ristoppie colturali dei cereali e delle foraggere utilizzate nella stagione calda tardo-primaverile ed estiva. Da sottolineare come, in molte aree del Palermitano, e in particolare in quelle madonite e dei Monti Sicani, sono state istituite Riserve Naturali, per la salvaguardia e

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la conservazione delle loro peculiarità floro-faunistiche, Esse sono sottoposte per lo più alla vigilanza dell’Azienda Foreste Demaniali della Regione Siciliana che dà in concessione i terreni demaniali ricadenti nelle aree protette per lo sfruttamento delle essenze spontanee dei pascoli con contratti che regolano il carico di bestiame e la durata del pascolamento, in modo da prevedere l’uscita degli animali nell’epoca di riproduzione delle specie che concorrono a formare il cotico pabulare, epoca che varia in funzione dell’altitudine delle aree a pascolo. Tuttavia, le limitazioni di ordine climatico e la scarsa fertilità dei suoli, oltre che un carico animale il più delle volte eccessivo, riducono fortemente la produttività dei pascoli naturali e ne determinano una forte variabilità stagionale, sebbene questi siano nella maggior parte dei casi caratterizzati da una ricca composizione floristica dominata da specie botaniche tipiche della macchia mediterranea. Per questi, quindi, occorre ancora attentamente considerare un serie di interventi volti al miglioramento delle infrastrutture e della qualità dei pascoli ed alla razionalizzazione delle tecniche di pascolamento. Nonostante i caratteri orografici e climatici comuni al territorio, è possibile distinguere diversi microclimi, determinati soprattutto dalla conformazione e dall’orientamento dei rilievi circostanti e dall’esposizione sul mare. A differenziare ciascun microclima concorrono l’umidità relativa dell’aria, l’intensità luminosa, l’insolazione, la natura e l’esposizione del suolo, che insieme contribuiscono così a diversificare la composizione della flora spontanea di ciascun areale. Pertanto, uno dei principali effetti del territorio e dell’ambiente di produzione sui prodotti caseari tipici che vi hanno origine viene veicolato essenzialmente attraverso le caratteristiche delle risorse foraggere spontanee pascolate dagli animali, che lo specifico ambiente orografico e climatico permette di differenziare nel corso delle stagioni. Le risorse foraggere naturali contribuiscono, infatti, a conferire ai prodotti lattiero-caseari i caratteri di tipicità che li legano strettamente all’ambiente, che si esprimono soprattutto attraverso le peculiarità organolettiche che derivano dalla loro componente aromatica.

5.2.5.2. Le razze (a cura di Adriana Bonanno)

I prodotti caseari tipici della provincia di Palermo sono ottenuti dalla lavorazione del latte prodotto da animali di razze prevalentemente autoctone. Pertanto, le aree di produzione dei formaggi tipici e quelle di allevamento delle razze locali spesso si sovrappongono. Diverse razze, alcune delle quali sono oggi minacciate di estinzione, hanno contribuito in modo rilevante, unitamente al loro ambiente di allevamento, al consolidamento di molti formaggi di qualità. Difatti, le peculiari caratteristiche pedo-climatiche e floristiche delle aree rurali del palermitano hanno contribuito, come nel resto della Sicilia, all’affermazione dell’allevamento delle razze bovine, ovine e caprine autoctone, che continuano a rivestire un ruolo fondamentale nella valorizzazione di molti territori destinati altrimenti

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a collocarsi in una posizione di forte svantaggio economico ed ecologico-sociale. Gli animali delle razze autoctone, infatti, sostengono l’attività zootecnica di tali ambienti, in quanto, in considerazione della loro rusticità, frugalità e potenzialità produttive, sono le uniche capaci di utilizzare le risorse naturali presenti in questi territori, contribuendo alla conservazione dell'ambiente e integrando il reddito dell'agricoltura locale. Il principale valore delle razze autoctone siciliane, che ne giustifica il legame con il territorio ed i formaggi tipici, risiede appunto nella loro notevole rusticità, per la quale sono perfettamente adattate agli ambienti di allevamento spesso difficili. Sono quindi le specificità di tali ambienti, unitamente a quelle delle razze che vi sono perfettamente adattate, che concorrono a diversificare e caratterizzare le produzioni casearie che ne derivano, frapponendosi opportunamente alla intensivizzazione degli allevamenti e alla tendenza verso la standardizzazione delle produzioni zootecniche. In tal modo la relazione ambiente-razza e formaggio diventa indissolubile per i risvolti produttivi che comporta, ed assume anche un notevole significato di tipo socio-economico. La razza, quindi, è un elemento di primaria importanza nella tipicizzazione del prodotto finale, così come, nel quadro della salvaguardia delle razze autoctone, la valorizzazione dei prodotti lattiero-caseari che da esse si ottengono è un fatto irrinunciabile per la conservazione del patrimonio genetico animale negli ambienti difficili. In Sicilia, mentre le razze ovine autoctone, come la Comisana e la Valle del Belice, sono pienamente affermate ed apprezzate su tutto il territorio per la loro produttività e le loro doti di rusticità, le razze bovine autoctone siciliane, la Modicana e la Cinisara, a causa della progressiva affermazione delle razze lattifere più produttive, quali la Frisona e la Bruna, hanno fatto registrare una pericolosa contrazione numerica se non addirittura il rischio dell’estinzione. Risulta, pertanto, prioritaria la necessità di recuperare e mantenere il legame di tipo storico-culturale che esiste tra le razze locali e i formaggi tipici, definendo le relazioni che legano il patrimonio genetico delle razze con l’ambiente di allevamento e con il latte prodotto, la cui conoscenza, infatti, può servire a rafforzare il legame razza-prodotto caseario tipico e a fornire agli allevatori un’ulteriore spinta per l’orientamento nella scelta delle razze da allevare. Va sottolineato che queste razze autoctone, per l'antichità della loro costituzione o anche per l'isolamento genetico di cui hanno goduto, rappresentano dei veri e propri serbatoi di geni che nelle razze cosmopolite è difficile trovare. Occorre anche tenere presente, a questo proposito, che le differenti popolazioni animali di una stessa specie presentano comportamenti e risposte diverse ai fattori ambientali. Nella maggior parte dei casi le popolazioni rustiche locali hanno sviluppato meccanismi di difesa immunitaria atti a contrastare gli agenti patogeni propri dell'ambiente in cui si sono originate. Difatti, i ruminanti appartenenti ai tipi genetici autoctoni sono dotati di notevole resistenza a determinate patologie e risultano più refrattari nei confronti della mastite, circostanza che garantisce la qualità igienico-sanitaria del latte e dei formaggi che da essi derivano.

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Oggi la ricerca scientifica sta evidenziando alcuni legami di tipo biologico tra caratteri genetici della razza, tipo di alimentazione e attitudine del latte alla caseificazione. Generalmente, il latte delle razze autoctone a minore attitudine produttiva presenta una migliore composizione ed una migliore attitudine alla trasformazione rispetto a quello delle razze selezionate soprattutto per l’aspetto quantitativo della produzione (Picchi et al., 1996). Così come il formaggio ottenuto dal latte di razze autoctone francesi è stato giudicato da un panel di assaggiatori migliore di quello prodotto con il latte di bovine Frisone perché a pasta più compatta e tenera e più gustoso (Verdier-Metz et al., 1998). La Modicana e la Cinisara, ad esempio, associano la minore produzione di latte a maggiori tenori in grasso e proteina rispetto alla Frisona ed alla Bruna. In allevamenti di Modicane ricadenti nel territorio comunale di Godrano sono state registrate percentuali medie di grasso e proteine nel latte dell’intera lattazione rispettivamente pari al 3,71% e al 3,87% (Alabiso et al. 1999b). Sulle bovine Cinisare, si sono rilevate concentrazioni medie di grasso e proteine nell’intera lattazione rispettivamente del 3,46%, e del 3,42% (Alabiso et al., 1997). Si tratta di percentuali nettamente superiori rispetto a quelle registrate nei controlli funzionali della Frisona e della Bruna, soprattutto per quanto riguarda la proteina che, costituita in massima parte da caseina, contribuisce ad innalzare la resa del latte alla caseificazione. Per quanto riguarda il grasso, che pure contribuisce alla resa casearia, le percentuali sono invece, nel complesso, piuttosto basse per bovine rustiche come la Modicana e la Cinisara; questo è da imputare al sistema di mungitura che viene tradizionalmente effettuata a mano e sempre in presenza del vitello. E’ opinione diffusa che nella Modicana, così come nella Cinisara, non avvenga la discesa del latte se non sotto l’azione stimolante della suzione da parte del vitello. Questa radicata convinzione ha determinato la conservazione della pratica di mungitura in presenza del vitello, tipica delle razze rustiche poco migliorate. Al vitello viene destinato il latte di un intero quarto della mammella e quello di “sgocciolatura”, il primo solo nei primi 2-3 mesi, l’altro, che rappresenta spesso un quota considerevole di produzione ed è più ricco in grasso, per l’intera durata della lattazione. Ciò comporta un aggravio di manodopera per le complicate operazioni di mungitura, che implicano lo spostamento dei vitelli dai recinti di ricovero alle poste delle madri, ed un ostacolo all’impiego della mungitura meccanica. Inoltre, poiché la mungitura viene effettuata in maniera incompleta ed il latte munto è più povero in grasso, tale pratica costituisce una rilevante perdita economica in termini di produzione quanti-qualitativa di latte e formaggio, senza trascurare i riflessi sulle caratteristiche organolettiche del formaggio, in considerazione del fatto che la componente grassa è quella maggiormente responsabile dell’odore e del sapore. Difatti, la mungitura di bovine Modicane effettuata meccanicamente senza il vitello ha comportato, rispetto alla mungitura tradizionale a mano con il vitello, un aumento del tenore in grasso del latte sia nelle primipare che nelle pluripare (tabella) (Alabiso et al. 2003); questo, unitamente all’aumento della quantità di latte munto nelle primipare, ha innalzato la produzione di Caciocavallo Palermitano del 22%. È stato comunque dimostrato che, se le giovani bovine vengono abituate fin dalla prima

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lattazione ad essere munte senza vitello, non presentano problemi al rilascio del latte sia con la mungitura manuale che con quella meccanica (Alabiso et al., 1998; 2000). Tale risultato potrebbe dare avvio ad una maggiore diffusione della mungitura meccanica delle bovine autoctone, pratica che avrebbe effetti positivi sulla produzione quanti-qualitativa e, contribuendo a ridurre la carica microbica del latte, garantirebbe una maggiore igienicità del latte.

Tabella: Effetto della mungitura meccanica senza vitello sulla produzione di latte di bovine Modicane (Alabiso et al., 2003).

Tenica di mungitura Lattazione

Latte Latte Grasso Proteine

d kg kg/d % %

Primipare

Manuale con vitello 257 1.543

5,8 3,3 3,5

Meccanica senza vitello

224 2.162

8,9 4,1 3,6

Pluripare Manuale con vitello 257 2.284

8,9 3,4 3,5

Meccanica senza vitello

232 2.258

9,6 3,9 3,6

Le principali componenti proteiche del latte sono le caseine, proteine globulari in dispersione colloidale nel latte sottoforma di micelle, presenti in diverse frazioni (αs1, αs2, β1, β2, κ, γ), e le sieroproteine solubili (β-lattoalbumina e α-lattoglubulina). Le caseine, che rappresentano la maggior parte delle proteine del latte dei ruminanti (75-78%), sono quelle che coagulano per azione del caglio, e rappresentano quindi i precursori del formaggio e ne influenzano le rese. Inoltre, ciascun tipo di caseina è caratterizzato dall’essere polimorfo e, pertanto, sono individuabili le diverse varianti genetiche. I rapporti quantitativi tra le diverse frazioni caseiniche e tra le varianti genetiche delle singole caseine possono variare, e questi cambiamenti, che influiscono fortemente sulle proprietà nutritive e tecnologiche del latte, sono regolati da geni strutturali, quindi dipendono strettamente dal corredo genetico della specie, della razza o anche dell’individuo animale (Greppi e Roncada, 2005). L’analisi delle frazione caseinica, con metodi immulogici ed elettroforetici che impiegano anticorpi monoclonali (Chianese et al, 1992; Nicolai et al., 1997), rappresenta anche un approccio fondamentale nella determinazione della presenza in miscela del latte di specie animali diverse. Studi sul polimorfismo genetico delle frazioni caseiniche del latte hanno dimostrato che la percentuale più elevata di individui in cui sono presenti varianti genetiche che influiscono negativamente sull’attitudine alla coagulazione del latte appartiene alle razze più produttive (Ramunno et al., 1991; Castagnetti et al., 1994). Difatti, razze autoctone meno produttive come la Modicana (Chiofalo e Micari, 1979) e la Cinisara

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(Chiofalo et al., 1981) presentano un’elevata frequenza della variante B della k-caseina che, rispetto alla variante A, determina un aumento del tenore caseinico nel latte, una minore dimensione delle micelle caseiniche e una loro migliore disposizione, aspetti che conferiscono al latte una maggiore reattività al caglio e una superiore resa alla caseificazione, e al formaggio una migliore struttura alla pasta. Relativamente agli ovini, in alcune razze meridionali sono stati individuati enzimi che promuovono una più rapida aggregazione delle micelle di caseina durante la coagulazione presamica o determinano una maggiore consistenza della cagliata presamica. Ancora, il latte delle razze ovine che presentano le varianti CC della αs1-caseina è più ricca in caseina e ha migliori caratteristiche alla coagulazione; alla trasformazione, dà un formaggio con un maggiore contenuto azotato e un minore tenore lipidico (Pirisi et al., 1996). Pertanto, l’assetto genetico di una razza, caratterizzato da un suo polimorfismo caseinico, determina variazioni tra le frazioni caseiniche del latte attraverso le quali influenza la qualità del formaggio. Ciò significa che, a parità di condizioni produttive (microambiente, tecnologia), il formaggio di una specifica razza acquisisce una determinata diversità, o anche che ciascuna razza, per il suo determinato patrimonio genetico, è in grado di marcare un formaggio con specifiche caratteristiche organolettiche. Si dibatte, inoltre, sulla unicità del latte ovino e caprino che, in relazione alla composizione, apporta benefici per la digestione ed il metabolismo umano: le proteine del latte hanno specifici e differenti polimorfismi che danno luogo ad una pasta del formaggio più soffice, utile nei processi digestivi e nella caseificazione; il grasso del latte e del formaggio degli ovini e dei caprini, rispetto a quelli dei bovini, è più ricco in acidi grassi a corta catena e in acidi grassi insaturi (Haenlein, 1998).

5.2.5.3. Le tecniche di allevamento dei bovini e degli ovini (a cura di Adriana Bonanno)

In Sicilia, e nel palermitano, l’allevamento da latte di tipo intensivo o semi-intensivo riguarda le razze produttive, Frisona o Bruna. Queste vengono allevate in aziende ubicate in zone di media collina, dove è possibile coltivare le foraggere da destinare alla loro alimentazione. L’allevamento è stabulato per la quasi totalità dell’anno, ad eccezione dei casi in cui le bovine, soprattutto quelle di razza Bruna, effettuano il pascolamento limitatamente al periodo primaverile. La gestione è oltremodo razionale, la selezione e l’alimentazione degli animali è particolarmente curata; il ricorso alla fecondazione artificiale e la somministrazione di razioni di tipo “unifeed” rappresentano ormai pratiche diffuse. La mungitura viene effettuata due volte al giorno meccanicamente, in stalla o in sala di mungitura, previa accurata pulizia delle mammelle. La produzione di latte è continua per tutto l’anno in quanto, nei mesi estivi ed in generale quando scarseggiano le disponibilità di erba fresca, le bovine vengono alimentate in stalla con il ricorso a fieno e insilato. Il prodotto principale che si ottiene è

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il latte che non viene di norma caseificato in azienda ma viene destinato alla vendita diretta. In provincia di Palermo, il sistema di allevamento delle razze autoctone siciliane, da cui si ottiene la quasi totalità dei formaggi tipici, è invece essenzialmente di tipo estensivo o semi-estensivo, dove il ricorso al pascolo è prevalente. Per quanto riguarda i bovini, gli animali delle razze autoctone siciliane (Di Grigoli, 1998; Alabiso et al., 2003) vengono mantenuti al pascolo per gran parte dell’anno, sia di giorno che di notte. I ricoveri, nella maggioranza dei casi, sono costituiti da vecchie stalle a stabulazione fissa che spesso ancora oggi risultano insufficienti, irrazionali e poco igienici; vengono usati per lo più nei periodi invernali in cui si registrano notevoli abbassamenti termici, o per il finissaggio dei vitelli destinati alla produzione di carne, o ancora per sfuggire agli attacchi di Hypoderma bovis le cui pupe sfarfallano nel periodo aprile-maggio, dopo il quale, scongiurato il pericolo, gli animali tornano nuovamente al pascolo continuo. In inverno, quando le produzioni nei pascoli scarseggiano e le condizioni climatiche non consentono il pascolamento, gli animali, tenuti al chiuso nei ricoveri, ricevono un’integrazione costituita da paglia di grano, orzo o avena a volontà, da alcuni chilogrammi di fieno di prato naturale o artificiale (sulla, veccia-avena, etc.) e da piccole quantità di concentrati, prevalentemente fave, mais, orzo, crusca e cruschello che l’allevatore miscela in diverse proporzioni, valutate per lo più empiricamente. Non sempre tale razione risulta quantitativamente e qualitativamente sufficiente. Occorre aspettare l’arrivo della primavera (marzo-maggio), quando diventano abbondanti le essenze foraggere naturali, o anche quelle coltivate, costituite spesso da prati di sulla (Hedysarium coronarium L.), perché gli animali assumano al pascolo una razione adeguata ai loro fabbisogni di mantenimento, produzione e riproduzione. In questa fase le bovine, non solo riguadagnano il peso perduto nei precedenti periodi, ma addirittura lo incrementano e mostrano una ripresa della produzione di latte, evidenziata dall’innalzamento repentino della curva di lattazione. Le produzioni di latte che si registrano in questo periodo sono senz’altro ragguardevoli se si mettono in relazione alle condizioni marginali di allevamento delle bovine. In estate (giugno-settembre), la razione delle vacche è costituita prevalentemente dal residuo del pascolo che, in relazione al clima arido e siccitoso di tale periodo, risulta ormai secco e qualitativamente scadente. Nell’entroterra collinare, in estate, viene sovente praticata la transumanza, per lo più di tipo orizzontale: gli animali vengono condotti al pascolo sulle ristoppie di grano duro o di altri cereali e rientrano nelle loro aree di allevamento quando tali residui si esauriscono o, comunque, al sopraggiungere delle prime piogge abbondanti, che incidono negativamente sulla qualità delle ristoppie e determinano il ricaccio dell’erba dei pascoli abituali. In questo periodo si assiste ad un progressivo deperimento organico degli animali, evidenziati da una notevole riduzione di peso, fino a diverse decine di chilogrammi. La mungitura, che rappresenta la prima fase del processo produttivo del formaggio, è generalmente manuale, avviene due volte al giorno, di solito all’aperto, per lo più in appositi recinti, oppure in stalla; si effettua all’alba e nel pomeriggio, quando gli animali

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vengono fatti rientrare dal pascolo, ed avviene sempre in presenza del vitello, come già sottolineato in un precedente paragrafo. Terminate le operazioni di mungitura gli animali vengono lasciati nuovamente liberi fino alla mungitura successiva. Tuttavia, anche per le bovine autoctone, è sempre più diffusa la mungitura meccanica, effettuata in stalla alla posta con sistemi a secchio o a carrello, prevalentemente in presenza del vitello. La distribuzione dei parti delle bovine autoctone siciliane, come già sottolineato, non è uniforme durante l’anno; gli allevatori tendono infatti a far partorire le bovine nei periodi in cui è possibile sfruttare vantaggiosamente la disponibilità foraggera dei pascoli per la lattazione. Tradizionalmente i parti, nel palermitano, vengono programmati nei mesi invernali, dicembre-febbraio, in modo da far ricadere la fase di più alta produzione lattea nei mesi primaverili, in corrispondenza del massimo rigoglio vegetativo dei pascoli; non manca comunque una quota di animali che vengono fatti partorire in autunno, per allungare il periodo di lattazione annuale sfruttando sempre le risorse primaverili. La produzione di latte delle bovine autoctone siciliane è fortemente legata all’andamento stagionale che, come è noto, condiziona l’entità delle risorse foraggere al pascolo, su cui si basa prevalentemente l’alimentazione degli animali; essa è pertanto favorita in primavera, momento in cui si registra la massima disponibilità di essenze foraggere, e cessa poi del tutto nella stagione secca, in estate, per l’assenza di risorse al pascolo. In tali condizioni, è naturale che la stagione di parto costituisca uno dei fattori in grado di condizionare fortemente la produttività complessiva delle bovine. Infatti, la produzione di latte dell’intera lattazione delle bovine Modicane e Cinisare che hanno partorito in autunno (agosto-novembre) è superiore a quelle con parto in inverno (dicembre-febbraio) (tabella). Questa differenza sarebbe imputabile esclusivamente alla maggiore persistenza e durata della lattazione che caratterizza le bovine con parto in autunno, alle quali corrisponde però una produzione media giornaliera inferiore. Le bovine con parto in inverno, invece, riescono ad utilizzare al meglio le risorse foraggere che si rendono maggiormente disponibili nei mesi di marzo-aprile-maggio, consentendo loro di prolungare la fase di massima produzione, e di mantenere a più alti livelli la produzione giornaliera di latte (Alabiso et al., 2003).

Tabella: Effetto dell’epoca di parto sulla durata della lattazione e sulla produzione di latte delle bovine Modicane e Cinisare (Alabiso et al., 2003).

Modicana Cinisara

Autunno Inverno Autunno Inverno

ago-nov dic-feb ago-nov dic-feb

Lattazione (d)

251 178 302 237

Latte (kg) 2342 1755 3073 2641

Latte (kg/d) 8,9 9,6 10,0 11,4

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Il sistema di allevamento degli ovini nel palermitano, principalmente delle razze autoctone Comisana e Valle del Belice, è sempre quello tradizionale diffuso anche nel resto della Sicilia, sebbene oggi abbia assunto maggiore valore sociale, storico, ma soprattutto economico, poiché continua a fornire all’allevatore, seppur tra molte difficoltà, un reddito adeguato derivante dalla realizzazione e commercializzazione dei pregiati prodotti dell’attività ovinicola e della trasformazione casearia. Esso ha carattere familiare, è di tipo semi-estensivo e più raramente estensivo, contraddistinto da uno scarso impiego di capitali e dall’utilizzo prevalente delle risorse foraggere naturali o coltivate con il pascolamento, aspetti che ne fanno un esempio brillante di agricoltura sostenibile ed eco-compatibile. La forma semi-estensiva di allevamento prevede sempre il ricovero notturno degli animali in ovili coperti ed il pascolamento durante le ore del giorno. Nella forma di allevamento estensivo, invece, si attua il pascolamento libero delle greggi, mentre il loro ricovero sotto rudimentali tettoie o in recinti si effettua soltanto per eseguire la mungitura o durante le notti invernali; non esiste una vera e propria transumanza, almeno nel senso di migrazione stagionale dalla pianura ai monti e viceversa, ma talvolta le greggi si spostano nel corso dell’anno da contrada a contrada nell’ambito dello stesso comune, effettuando piccoli spostamenti dettati dalle necessità alimentari. L’allevamento degli ovini si inserisce sempre nel contesto di un’azienda a indirizzo cerealicolo-zootecnico, dove l'alimentazione si basa prevalentemente sull’utilizzazione giornaliera al pascolo, per tempi variabili dalla 4 alle 8 ore, di cotici spontanei o di colture foraggere tradizionali in asciutto (prati di sulla ed erbai monofiti od oligofiti di varia natura), che vengono coltivate dagli stessi allevatori durante il periodo autunno-vernino. Tuttavia, l’alimentazione delle pecore è strettamente dipendente dall’andamento stagionale. La punta di maggiore sfruttamento dei pascoli naturali si ha in primavera in concomitanza con il massimo rigoglio vegetativo delle essenze foraggere. Le foraggere coltivate, invece, vengono sfruttate al pascolo da dicembre a marzo; nei mesi successivi fino a giugno vengono pascolate soltanto quelle che non sono destinate alla fienagione. Per l’ottenimento di fieno, infatti, il pascolamento viene sospeso in marzo per permettere il ricaccio primaverile. Nel periodo estivo-autunnale, quando la disponibilità foraggera si fa critica, il gregge viene tenuto in stalla nelle ore più calde e alimentato con fieno e paglia, mentre nelle ore più fresche viene avviato al pascolo su risorse alimentari definibili di soccorso, costituite dai residui di colture cerealicole e di leguminose da granella che, nonostante siano nutrizionalmente poveri, rappresentano una preziosa fonte alimentare, nonché dai residui di foraggere e dal cotico erboso assai scarso che si può trovare lungo le sponde dei fiumi e dei canali (Giaccone et al., 1994). Nei periodi di carenza delle risorse al pascolo, e soprattutto per i capi in lattazione, gli allevatori forniscono agli animali un’integrazione alimentare in ovile, costituita da fieno di varia natura, prevalentemente di sulla o di veccia avena, granelle di produzione aziendale (fave e orzo) o mangime industriale, o anche paglia di cereali. Durante i mesi di ottobre e novembre, in corrispondenza dei parti e dei primi giorni di lattazione, vengono somministrati sia fieno che concentrati. Nei mesi primaverili non viene fornita

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agli animali alcuna integrazione o, laddove questa dovesse esserci, è assai limitata data l’abbondanza di pascoli naturali e di foraggere coltivate. In maniera piuttosto limitata, l’integrazione alimentare viene anche fornita durante il periodo estivo (agosto-settembre) che precede l’inizio dei parti, per sopperire alle forti carenze nutrizionali delle pecore gestanti. Nella maggior parte delle aziende i ricoveri sono costruiti con materiali poveri e riciclati, ma sono sempre più frequenti i casi in cui l'allevatore realizza ovili funzionali e razionali in grado di offrire un ricovero adatto alle esigenze degli ovini e al loro benessere, con positivi riflessi sulla qualità del latte prodotto. Normalmente le pecore vengono munte a mano due volte al giorno, ma si vanno estendendo le aziende ovine che dispongono di ovili moderni con sala mungitura e mungitrice meccanica che garantiscono maggiore igienicità al latte, riducendone la carica microbica. Le produzioni lattiero-casearie ovine sono caratterizzate da una forte stagionalità, dipendente dall’andamento stagionale della disponibilità foraggera al pascolo. Quest’ultima condiziona il periodo dei parti che si verificano per lo più in autunno, al fine di ottenere lattazioni più lunghe sfruttando le abbondanti risorse foraggere della primavera. A gennaio-febbraio si realizza un ulteriore concentrazione di parti, con una minore incidenza rispetto all’autunno (Giaccone et al., 1994; Bonanno et al., 2006a). Con tale distribuzione dei parti, gli allevatori riescono a fornire al mercato gli agnelli nei periodi durante i quali si concentrano le maggiori richieste, che coincidono con le festività del Natale e della Pasqua. Pertanto, la stagionalità dei parti determina una certa variabilità dei livelli quanti-qualitativi della produzione di latte nel corso dell’anno, che costituisce una delle maggiori problematiche del settore ovino. La lattazione dura generalmente sino al periodo tardo primaverile-estivo (giugno) quando le condizioni climatiche e la qualità dei foraggi determinano una riduzione produttiva; in estate, quando l’erba pascolata dissecca, la scarsità delle risorse nutrizionali comporta la cessazione della secrezione lattea e quindi l’asciutta delle lattifere, qualsiasi sia il loro stadio di lattazione e, eventualmente, di gestazione. Di fatto, il periodo di mungitura varia da un minimo di 4 mesi, per le pecore che hanno partorito in febbraio, ad un massimo di 9 mesi per quelle che hanno partorito in settembre. Ne consegue l’interruzione estiva della produzione casearia con il relativo vuoto produttivo fino ad inizio autunno. I prodotti caseari sono, quindi, offerti sul mercato in periodi definiti, cosa che pone notevoli difficoltà a livello commerciale, penalizzando la redditività aziendale. La “destagionalizzazione” dei parti, ottenuta facendo partorire le pecore più tardivamente in primavera, rappresenta un’ottima strategia per prolungare il periodo produttivo, colmando il vuoto estivo, ed immettere sul mercato i prodotti lattiero-caseari in un periodo dell'anno in cui l'offerta è limitata. Non mancano gli allevatori che, delle aree interne siciliane, già perseguono tale indirizzo di ampliamento del periodo produttivo, al quale ben si prestano le potenzialità produttive e riproduttive delle razze ovine siciliane (Bonanno et al., 2003; 2005a; 2006a). Il latte per il primo mese viene destinato quasi esclusivamente all’alimentazione dell’agnello, che avviene generalmente in modo naturale. Terminata questa fase, inizia

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la mungitura che prosegue fino all’asciutta della pecora. Il latte ovino è tutto destinato alla caseificazione per la produzione di formaggio e ricotta, cui si presta meglio delle altre specie lattifere per il maggiore contenuto in solidi totali, soprattutto grasso e proteine. La lavorazione del latte in azienda avviene nella maggior parte dei casi giornalmente, sebbene nel periodo che va da gennaio ad aprile quando la produzione è più abbondante, o quando la temperatura atmosferica è considerevolmente elevata, si procede, a volte, ad una lavorazione dopo ogni mungitura, soprattutto se le aziende non sono fornite di vasche refrigeranti.

5.2.6. Il pascolamento ed il pascolo (a cura di Adriana Bonanno)

Gli allevamenti delle specie animali da cui si originano i prodotti caseari tipici palermitani vengono condotti con forme estensive o semi-estensive, caratterizzate, rispetto a quelle intensive, da una minore produttività ma anche da un basso impatto ambientale dell’attività zootecnica. In tali sistemi produttivi, la principale, se non l’unica, fonte di approvvigionamento foraggero è rappresentata dal pascolamento su risorse vegetali naturali o coltivate. Il pascolamento è la più tradizionale ed economica fonte di alimenti per le specie zootecniche che, con lo sfruttamento dell’erba dei pascoli, determinano minori competizioni con l’uomo nell’utilizzazione delle risorse agronomiche. I sistemi produttivi basati sul pascolamento sono indubbiamente i più convenienti poiché l’erba utilizzata direttamente dagli animali costituisce una componente economica fondamentale, e ottimizzarne l’utilizzazione rappresenta, quindi, un obiettivo primario per massimizzare l’efficienza dell’allevamento. I vantaggi del pascolamento di aree naturali o artificiali da parte di tutte le specie zootecniche sono principalmente legati alla possibilità di sfruttare le risorse vegetali che non si prestano ad essere tagliate e conservate, o per la loro esiguità o perché presenti in aree che per collocazione e giacitura non sono adatte alla meccanizzazione della raccolta del foraggio; di ridurre i costi delle materie prime e della manodopera rispetto a quelli necessari per alimentare gli animali in stalla; di esercitare una favorevole azione sulle condizioni di benessere e di salute degli animali; di realizzare una certa estensivizzazione dell’agricoltura conservando il suolo e la sua potenziale fertilità, anche attraverso il rilascio delle deiezioni. A questi aspetti positivi si contrappone, tra gli altri, il forte limite dato dall’irregolarità della disponibilità quanti-qualitativa dell’erba fra le stagioni, condizionata dall’andamento termo-pluviometrico, che vincola la produttività degli allevamenti a quella delle risorse foraggere e obbliga gli allevatori a fare ricorso a tecniche di alimentazione integrata che vanno dalla transumanza, con la quale si utilizzano aree a pascolo a produttività differenziata nel tempo, fino al ricorso alle integrazioni in stalla con foraggi e concentrati (Cavallero e Ciotti, 1991). É sicuramente importante, in tal senso, mettere in atto tecniche di pascolamento che consentano di mantenere quanto più a lungo nella stagione adeguate e costanti

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disponibilità nella quantità e qualità dell’erba in modo da prolungare e massimizzare i livelli d’ingestione e ridurre così al minimo i costi dell’integrazione alimentare. Una razionale tecnica di gestione del pascolo (programmazione dei tempi, dell’intensità di utilizzazione, del carico ottimale ed eventualmente dei turni di pascolamento in funzione del periodo dell’anno e della velocità di crescita delle risorse pabulari) è in grado di assicurare agli animali, entro i limiti imposti dalle fluttuazioni stagionali delle disponibilità di erba, la possibilità di esprimere il più a lungo possibile e appieno il comportamento selettivo, la massima capacità d’ingestione e il soddisfacimento delle esigenze nutrizionali dettate dalla fase fisiologica e ottimizzare così il livello produttivo. Una conduzione razionale ed equilibrata è quindi il presupposto indispensabile per massimizzare l’efficienza del sistema produttivo al pascolo, anche in considerazione del ruolo insostituibile che esso svolge nella salvaguardia ambientale e paesaggistica del territorio (Bonanno et al., 2005b). Nonostante le limitazioni legate alla produttività, il pascolamento è una tecnica ancora oggi largamente diffusa, poiché è l’unica economicamente attuabile per utilizzare risorse foraggere naturali. Gli animali pascolano per gran parte della giornata, se non addirittura continuativamente nelle 24 ore, come è il caso degli allevamenti completamente bradi. Questo assicura condizioni di assoluto benessere agli animali (Andrighetto et al., 1996), liberi di poter esprimere i normali comportamenti della specie, e potenzia il loro sistema immunitario, rendendoli maggiormente resistenti agli agenti patogeni e riducendo, quindi, il rischio di ritrovare nel latte residui di farmaci veterinari somministrati a scopo terapeutico. Il pascolamento, inoltre, riduce i momenti in cui gli animali usufruiscono dei ricoveri dove, se inadeguati in quanto ad igiene e pulizia, hanno maggiori possibilità di imbrattare le mammelle con le proprie deiezioni e, di conseguenza, di contaminare il latte durante la mungitura, riducendo la qualità igienica dei prodotti lattiero-caseari. Infatti, la carica batterica del latte appena munto è notoriamente superiore in condizioni di allevamento da ritenere “sporche” rispetto a quelle igieniche e “pulite”; pur conservando il latte a 4°C in vasca refrigerante, in condizioni sporche i germi aumentano in maniera esponenziale, mentre il loro sviluppo è irrisorio in condizioni pulite anche dopo 48 ore di conservazione del latte. Peraltro, le produzioni ottenute in sistemi al pascolo danno alte garanzie di salubrità, in quanto avvengono a maggiore distanza dalle fonti di contaminazione ambientale rispetto a quelle ottenute utilizzando le foraggere coltivate in pianura, e danno, quindi, una minore possibilità di reperire nella vegetazione dei pascoli residui di sostanze inquinanti che si possono trasmettere nel latte. In definitiva, il pascolamento, oltre ad assicurare il più economico approvvigionamento alimentare, induce negli animali uno stato di maggiore benessere e resistenza alle malattie, quindi un migliore stato di salute, e migliora le loro condizioni di igiene e pulizia; tutto questo conferisce una maggiore igiene e salubrità ai prodotti, a garanzia della sicurezza alimentare dei consumatori. Nel Mezzogiorno d’Italia sono circa 60.000 le aziende ovi-caprine e oltre 5.000 quelle bovine che basano l’alimentazione dell’animale sull’utilizzazione diretta dei pascoli e

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delle superfici foraggere. In Sicilia, come nel Mezzogiorno, i sistemi al pascolo rappresentano una realtà importante. Le aree destinate al pascolamento in Sicilia sono investite in massima parte in pascoli naturali, cui seguono le colture foraggere; a queste si aggiungono i residui della coltivazione di granelle, per lo più cereali ma anche leguminose. In Sicilia (ISTAT, 2004) (tabella), si stima una superficie complessiva investita a foraggere pari a 476.297 ettari. Le foraggere permanenti (prati e pascoli naturali) occupano il 63,3% di tale superficie, e quindi prevalgono sulle foraggere temporanee (erbai e prati avvicendati). Analoga situazione si riscontra nella provincia di Palermo, che comprende quasi il 20% della superficie regionale investita a foraggere e dove le foraggere permanenti rappresentano il 69,4% delle foraggere della provincia.

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Tabella: Foraggere e granelle in Sicilia e nella provincia di Palermo: superfici e produzioni (ISTAT, 2004).

SICILIA PALERMO

Superficie Produzione totale

Unità foraggere

totali Superficie Produzione

totale

Unità foraggere

totali (ha) (000 qli) (000) (ha) (000 qli) (000) FORAGGERE 476.297 33.704 502.947 93.580 1.635 19.711

Foraggere temporanee 174.802 29.483 443.412 28.580 1.310 14.511

Erbai 76.570 14.556 217.745 Monofiti 28.922 5.360 93.298 orzo 3.458 551 9.906 Polifiti 47.648 9.196 124.447 graminacee 15.328 3.312 46.369 leguminose 11.996 1.907 24.793 altri miscugli 20.324 3.976 53.285 Prati avvicendati 98.232 14.927 225.667 28.580 1.310 14.511 Monofiti 48.962 4.454 50.779 28.580 1.310 14.511 sulla 43.824 3.599 39.234 28.000 1.260 13.734 Polifiti 49.270 10.472 174.888 Foraggere permanenti 301.495 4.221 59.535 65.000 325 5.200 Prati 4.085 382 5.499 Pascoli 297.410 3.839 54.035 65.000 325 5.200 GRANELLE 400.885 11.274 103.293 3.027 Cereali 376.787 10.547 98.945 2.915 frumento 350.700 9.776 90.000 2.700 orzo 15.050 376 5.200 124 Leguminose 24.098 727 4.348 112 fava 18822 535 4.000 100

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Per quanto riguarda i tipi di pascolo naturale, si tratta in prevalenza di cotici naturali, presenti anche in aree boscate, che presentano una vasta composizione in essenze foraggere spontanee, per lo più Graminacee, Leguminose, Crucifere e Composite, tipiche della macchia mediterranea, che conferiscono ai prodotti caseari fragranza, aromi e odori legati al territorio. Ad esempio, nell’ambiente naturale del distretto dei Monti Sicani, dove è presente una ricca flora naturale, il Dipartimento di Botanica dell’Università di Palermo ha censito 783 specie suddivise in 86 famiglie e 413 generi, che rappresentano il 30%, il 53% ed il 63% rispettivamente delle specie, dei generi e delle famiglie botaniche che costituiscono l’intera flora dell’isola (Ass. Agr. For. Reg. Siciliana, 2000). Tra le foraggere temporanee (ISTAT, 2004) (tabella), in Sicilia prevalgono, con un’incidenza del 56,2% sulla superficie, i prati avvicendati; questi ultimi sono gli unici ad essere stimati nella provincia di Palermo, dove si deve presumere rappresentino la maggior parte delle foraggere coltivate. É importante evidenziare che tra le essenze prative avvicendate nell’area palermitana la quasi totalità della superficie (28.000 ha) è investita a sulla (Hedysarum coronarium, L.), specie che si adatta egregiamente alle condizioni pedo-climatiche di tali territori e fornisce elevate produzioni quanti-qualitative di foraggio da pascolare nella stagione inverno-primaverile e da affienare nella fase pre-estiva. La sulla è, in Sicilia, considerata la “regina delle foraggere”, con ottime motivazione: eccezionale rusticità entro l’ambito del suo areale climatico e pedologico, che corrisponde alle aree mediterranee; grazie al suo sviluppato e potente apparato radicale fittonante, è capace di valorizzare modeste risorse irrigue, permea le argille sino a profondità rilevante, conferendo al suolo una migliore struttura e porosità, aumentandone la capacità di scambio cationico ed arricchendo il terreno di sostanza organica ed azoto; per il suo rapido e rigoglioso sviluppo vegetativo esercita un’azione soffocante nei riguardi della flora infestante, tanto che il sulleto viene considerato come la coltura che meglio di ogni altra prepara il terreno per la successiva coltura granaria; presenta un’ottimale capacità di azotofissazione; ha elevato valore nutritivo, alta dotazione proteica unitamente al basso tenore in fibra e a un elevato contenuto in carboidrati solubili, buon contenuto in microelementi, digeribilità maggiore di quella dell’erba medica, assenza totale di estrogeni e sostanze antinutrizionali; presenta un moderato contenuto in tannini condensati che rappresentano una buona difesa contro le malattie vegetali e, a basse concentrazioni, hanno un effetto benefico sugli animali, dovuto principalmente alla loro azione antielmintica che riduce i parassiti intestinali (Niezen et al., 1998), ad una maggiore disponibilità di proteina post-ruminale (Niezen et al., 2002) e alla riduzione del meteorismo dovuto ai gas prodotti nel rumine da fermentazioni anomale (Waghorn et al., 1989). In diverse esperienze sulle pecore (Di Miceli et al., 2005; Stringi et al., 2005; Di Grigoli et al., 2006; Bonanno et al., 2006b), l’utilizzazione al pascolo del prato di sulla ha determinato, rispetto al pascolamento sulla loiessa, un aumento della quantità del latte prodotto accompagnato da un innalzamento del tenore in grasso e caseina del latte. Tale risultato è spiegabile dal maggiore rapporto tra carboidrati fermentescibili e

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carboidrati strutturali nella sulla, che agisce favorendo una maggiore ingestione volontaria (Terrill et al., 1992; Burke et al., 2004). Viene giustificato anche dal suo contenuto in tannini condensati che, a livelli contenuti, favoriscono una minore degradabilità proteica nel rumine e, quindi, una maggiore disponibilità di aminoacidi per l’assorbimento nel tratto intestinale (Niezen et al., 2002; Min et al., 2003); ma provocano anche un certo dilazionamento dell’ingestione di erba al pascolo in seguito al quale si verificherebbe un rallentamento del transito ruminale che, allungando i tempi di degradazione dei diversi principi nutritivi, avrebbe favorito la formazione di acetato e la sintesi di proteina microbica, precursori rispettivamente del grasso e della caseina del latte (Silanikove et al., 1997; Landau et al., 2000). Pur non considerati nella stima ISTAT, anche nella provincia di Palermo sono coltivate, sebbene in minor misura rispetto ai prati avvicendati, gli erbai autunno-primaverili monofiti ed oligofiti di specie graminacee, quali avena e orzo, e leguminose, quali veccia, favino e trifoglio alessandrino, destinati al pascolamento, alla fienagione e, meno frequentemente, all’insilamento. Tra le leguminose, la veccia, per lo più a portamento semistrisciante, viene consociata solitamente con l’avena, ma anche con l’orzo ed il favino, a portamento eretto, al fine di aumentarne la produttività e la qualità del foraggio ottenuto. Le superfici occupate da colture da granella, che potenzialmente forniscono le materie prime per i concentrati zootecnici e i residui colturali da pascolare nel periodo estivo, costituiscono in provincia di Palermo il 25,8% della superficie totale regionale investita a granelle; prevalgono i cereali, e tra questi il frumento seguito dall’orzo, mentre le leguminose sono costituite in massima parte da fave. Le ristoppie di grano duro o di altri cereali rappresentano spesso le uniche possibilità di foraggiamento per gli animali durante il deficit produttivo della stagione estivo-autunnale.

5.2.6.1. L’alimentazione degli animali al pascolo (a cura di Adriana Bonanno)

Nei ruminanti da latte, l’alimentazione è il principale fattore che condiziona la produzione quanti-qualitativa. Essa infatti influenza il livello di sintesi e secrezione del lattosio, da cui dipende la quantità di latte prodotto, dei macrocostituenti, grasso e proteine, e dei microcostituenti, vitamine e minerali. L’alimentazione è anche responsabile del passaggio nel latte di sostanze aromatiche o ad azione salutistica, oppure di composti tossici o indesiderati presenti negli alimenti e costituisce un fattore predisponente all’aumento del contenuto in cellule somatiche e in microrganismi dannosi al processo di conservazione del formaggio. In tal modo l’alimentazione opera su tutte le caratteristiche casearie del latte: resa alla trasformazione, attitudine alla coagulazione, velocità di maturazione, aspetto, conservabilità, proprietà dietetiche, salutistiche e aromatiche del formaggio (Nudda et al., 2001). Nei sistemi estensivi o semi-estensivi di allevamento delle razze autoctone siciliane, basati sullo sfruttamento del pascolo, la disponibilità e la qualità dell’erba determinano in gran parte la produttività quanti-qualitativa: se le prime sono modeste, la seconda si

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riduce. Pertanto, nei sistemi estensivi, il principale fattore limitante la produzione è la quantità e la qualità di erba che l’animale riesce ad ingerire al pascolo. L’erba del pascolo ha sempre tradizionalmente costituito l’alimento base delle razze siciliane autoctone, ritenuta nella concezione dell’allevatore più tradizionale in grado di soddisfarne i fabbisogni e di garantire la qualità delle loro produzioni. La nostra isola, per altro, offre agli animali un’elevata variabilità di vegetazione, dovuta sia alle differenze climatiche delle diverse aree, sia alla diversa natura dei suoli e alle modificazioni di carattere agronomico e zootecnico intervenute nel corso degli anni. Le numerose piante presenti in un pascolo apportano svariate sostanze chimiche potenzialmente capaci di svolgere un ruolo importante nel funzionamento dei processi digestivi e metabolici dell’organismo animale, condizionando, pertanto, anche le caratteristiche qualitative delle produzioni. In termini generali, si può ritenere che le numerose essenze presenti nei pascoli naturali siano in grado di fornire all’animale tutti i principi nutritivi precursori dei componenti del latte. Tuttavia, essendo la vegetazione molto variabile nel corso dell’anno, le fluttuazioni nella disponibilità quantitativa di erba, nel contenuto e nella qualità dei principi nutritivi, porta, in alcuni periodi, particolarmente quello invernale ed estivo, a carenze quantitative e a squilibri nutrizionali che alterano le fermentazioni e le sintesi microbiche ruminali e comportano una riduzione della produzione quanti-qualitativa del latte e del suo contenuto in grasso e proteine. Tra l’altro, se tutte le piante rappresentano in teoria una base alimentare per l’animale, in realtà, solo una parte di esse sono ingerite, perché più accessibili o più appetibili o perché soddisfano meglio i fabbisogni degli animali. La causa principale di questa penalizzazione produttiva è rappresentata proprio dalla impossibilità degli animali di soddisfare completamente i propri fabbisogni nutrizionali attraverso la sola ingestione di erba (Fedele, 1998). In inverno l’erba è giovane, ricca in azoto e zuccheri solubili, poco fibrosa ed altamente proteica. Con il sopraggiungere della primavera si stabilisce un buon equilibrio fra i componenti, ma in estate l’erba si trova in fasi avanzate di sviluppo, il rapporto foglie/steli diminuisce e pertanto si riducono le sostanze solubili e il tenore proteico ed aumenta la componente fibrosa, caratterizzata da una maggiore lignificazione. Gli zuccheri, rappresentati per lo più dal fruttosio, dal saccarosio e dal glucosio, passano dal 18-22% dell’inverno al 12-15% della primavera e spariscono o quasi in estate. L’azoto solubile, che rappresenta circa l’80% del totale, passa dal 16-18% dell’inverno al 10-12% della primavera e a meno del 5% dell’estate. Le fibre, da valori piuttosto bassi in inverno (circa il 35% di NDF), si portano a valori più o meno buoni in primavera (42-48% di NDF) ed alquanto elevati in estate (circa il 75% di NDF) (Fedele, 1998). Tenendo presente tali cambiamenti chimico-nutritivi che l’erba del pascolo subisce nel corso delle stagioni di pascolamento, è proprio nei periodi di bassa disponibilità di erba, in inverno ed estate che si verifica il maggiore disequilibrio fra i nutrienti. Per correggere i disequilibri nutritivi dell’erba e conservare le principali caratteristiche qualitative del latte e dei suoi derivati, è opportuno, in tali periodi, che gli animali al

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pascolo ricevano un’integrazione alimentare con concentrati, e in qualche caso anche con foraggi conservati.

5.2.6.1.1. L’integrazione alimentare del pascolo (a cura di Adriana Bonanno)

Il ricorso all’integrazione alimentare diviene necessario quando la disponibilità e la qualità dell’erba al pascolo non permettono agli animali di esprimere adeguati livelli produttivi; tuttavia, nei sistemi al pascolo, dove non si conoscono l’ingestione alimentare degli animali e la qualità dell’erba ingerita, non è facile stabilire quando e come intervenire con l’integrazione alimentare. L’effetto della distribuzione dell’integrazione alimentare con concentrato si manifesta innanzitutto a carico del comportamento selettivo degli animali nei confronti delle specie botaniche e dei nutrienti. In genere, al variare della quantità o della qualità del concentrato, gli animali, quando il pascolo ne offre la possibilità, tendono ad equilibrare la dieta selezionando erba dal diverso contenuto in nutrienti. Tuttavia, quando viene fatto uso di un concentrato, l’effetto si manifesta principalmente modificando la capacità di ingestione di erba al pascolo, che il più delle volte diminuisce anche sensibilmente. Ciononostante, quando la disponibilità dell’erba è ridotta, l’integrazione determina un aumento dell’ingestione totale di sostanza secca ed un aumento delle prestazioni produttive degli animali (Bonanno et al., 2005b). Per le bovine Cinisare, l’effetto dell’integrazione del pascolo naturale con 5 kg/capo/d di concentrato a base di orzo, favino e cruschello si è manifestato esclusivamente in tarda primavera (maggio-giugno), in concomitanza con la forte contrazione della disponibilità foraggera al pascolo e con un generale scadimento qualitativo dell’erba rispetto alla primavera (aprile-maggio); nel periodo tardo-primaverile, il concentrato ha consentito di contenere la riduzione della produzione di latte, realizzando una superiorità produttiva di oltre 2 kg/capo/d di latte rispetto all’alimentazione con solo pascolo, ma anche di mantenere un migliore stato nutrizionale delle bovine, che, in virtù dei maggiori apporti, hanno potuto limitare il ricorso alle riserve corpore (Di Grigoli et al., 2000). Tuttavia, il concentrato, deprimendo l’ingestione di erba, può avere notevoli effetti sulla qualità del latte, soprattutto quando l’animale non è nelle condizioni di bilanciare i nutrienti al pascolo e si creano squilibri nutrizionali che modificano il quadro fermentativo ruminale che sono poi responsabili del peggioramento della composizione del latte in grasso e proteina e della resa casearia. Spesso, infatti, il concentrato, riducendo l’ingestione dell’erba, e quindi la concentrazione fibrosa della dieta, è responsabile dell’abbassamento del livello di grasso nel latte e quindi della resa e del tenore lipidico del formaggio; questa è dovuta alla maggiore produzione in sede ruminale del propionico, indotta dall’apporto energetico di tipo amilaceo del concentrato, e dalla conseguente minore produzione, normalmente indotta dai carboidrati strutturali, di acido acetico, precursore degli acidi grassi a corta e media catena del latte. Nonostante da un punto di vista dietetico i lipidi

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di origine animale siano ritenuti responsabili di molte patologie, il mantenimento di un adeguato tenore lipidico nel latte destinato alla caseificazione contribuisce alle caratteristiche organolettiche e di tipicità del formaggio, in quanto è proprio la frazione lipidica la matrice che veicola molti composti ad azione salutistica ed è responsabile del sapore e dell’odore del formaggio. Inoltre, quando l’energia apportata dal concentrato è in eccesso rispetto all’azoto della dieta, provoca nel rumine uno squilibrio che limita la sintesi di proteina microbica, cui consegue la riduzione della caseina nel latte; di contro, la caseina si innalza quando nel rumine si instaura l’equilibrio tra energia e azoto apportati dalla dieta (Bonanno et al., 2004c). A tal proposito, occorre aggiungere che quando l’ingestione energetica dovuta ai concentrati eccede quella azotata viene preferibilmente dirottata per la costituzione di tessuti adiposi di riserva inducendo negli animali uno stato di ingrassamento che incide negativamente sulla loro produttività. É bene rimarcare come anche gli eccessi proteici apportati dal concentrato, soprattutto quando l’erba del pascolo ne è ben dotata, creano un errato rapporto tra proteina ed energia della dieta, e contribuiscono ad innalzare i livelli di ammoniaca nel rumine, e così i rischi di alcalosi, nonché di urea e azoto non proteico del latte. Di contro, il ricorso al concentrato energetico diventa utile per contenere l’innalzamento del livello di urea nel latte, in cui si incorre frequentemente quando gli animali utilizzano al pascolo un’erba nelle prime fasi di sviluppo, quindi altamente dotata in azoto solubile. L’eccesso proteico, non bilanciato da un adeguato tenore energetico della dieta, contribuisce ad elevare il livello di ammoniaca nel rumine, da cui l’aumento dell’urea nel sangue e nel latte. Questo squilibrio, che si può evidenziare dalle alte concentrazioni di urea nel latte, è alla base dell’insorgenza di infiammazioni mammarie e di casi di zoppie, e ha un impatto negativo sull’efficienza riproduttiva degli animali, sul loro stato di salute e, di conseguenza, sulla qualità igienico sanitaria del latte e dei formaggi. Da questo punto di vista l’urea del latte costituisce per i ruminanti un utile indicatore nutrizionale in merito all’ingestione e al metabolismo delle proteine, nonché all’equilibrio della dieta (Jonker et al., 1998; Shepherd and Meijer, 1998; Cannas et al., 1998). In definitiva, l’obiettivo di eliminare i deficit nutrizionali del pascolo trova ostacolo nella tendenza dell’animale che riceve il concentrato a ridurre l’ingestione di foraggio, e quindi a peggiorare la qualità del latte. Pertanto, la meta da perseguire con la somministrazione del concentrato non deve essere solo quello di aumentare la produzione di latte, ma anche di mantenere elevati standard qualitativi dei prodotti lattiero-caseari. In condizioni di pascolo equilibrato in quantità e qualità, in considerazione della spiccata attività selettiva degli animali ai fini della qualità della dieta, il ricorso all’integrazione con concentrato deve essere oltremodo contenuto, in quanto comporta solo la riduzione dell’ingestione di erba che deprime la qualità del latte. Occorre, inoltre, tenere presente che la riduzione dell’ingestione di erba al pascolo indotta dal concentrato limita la presenza di composti ad azione aromatica e salutistica, di cui si dirà in seguito, e contribuisce quindi al peggioramento della qualità organolettica e nutrizionale dei prodotti lattiero-caseari. Nelle situazioni, invece, in cui l’erba del pascolo risulta quanti-qualitativamente

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squilibrata sotto l’aspetto nutrizionale, il ricorso al concentrato è certamente conveniente in quanto consente di bilanciare la dieta e, di conseguenza, di migliorare la quantità e la composizione del latte prodotto. Nel periodo invernale, quando l’erba è troppo ricca in sostanze fermentescibili e carente in fibra, l’aggiunta di un alimento ricco di fibre strutturate (crusca, fieno di buona digeribilità) salvaguarda gli animali dall’insorgenza di turbe digestive, migliora la qualità del latte e l’efficienza produttiva del sistema (Bonanno et al., 2005b). In linea di massima, gli allevatori siciliani fanno ricorso all’integrazione alimentare nei momenti di scarsa disponibilità quantitativa di risorse al pascolo, di clima avverso o di maggiori fabbisogni da parte degli animali, usando fonti alimentari per lo più autoctone in dosi e proporzioni tali da non stravolgere l’efficienza di utilizzazione della dieta complessiva. Insieme al concentrato somministrano generalmente anche fonti fibrose preservando così l’equilibrio nutrizionale dell’animale in produzione, oltre che la qualità del latte. Circa gli alimenti impiegati per le integrazioni alimentari, gli allevatori somministrano foraggi e concentrati di origine vegetale, per lo più prodotti in azienda o comunque localmente. Nell’alimentazione delle razze autoctone siciliane, non è mai stato fatto uso di fonti proteiche di origine animale (farine di carne, di sangue, di pesce), il cui impiego per i ruminanti è oggi comunque vietato dalla legislazione, nell’ambito delle misure preventive nei confronti della encefalopatia spongiforme bovina (BSE). I foraggi sono essenzialmente costituiti da fieni o paglia, in massima parte di produzione aziendale. Più raro è l’impiego dell’insilato, nonostante consenta di abbattere notevolmente i costi di alimentazione delle lattifere; questo sia perché tecnicamente più impegnativo, sia perché si ritiene erroneamente che possa conferire odori e sapori sgradevoli ai prodotti caseari. La ragione principale è comunque legata alla presenza nell’insilato delle spore di Clostridi, seppure in minima quantità negli insilati ben riusciti; se in elevata concentrazione, come negli insilati in cui si sono innescate fermentazioni anomale di tipo butirrico, le spore clostridiche contaminano l’ambiente, anche attraverso le deiezioni degli animali alimentati con l’insilato, e quindi possono facilmente passare nel latte, divenendo responsabili del gonfiore tardivo dei formaggi. Tuttavia è stato dimostrato che, in condizioni di conservazione adeguate, l’uso dell’insilato di sulla in rotoballe fasciate nell’alimentazione delle pecore non induce effetti negativi sulle caratteristiche chimiche e microbiologiche dei formaggi freschi, tuma e primosale, e del Pecorino stagionato (105 giorni), sui quali non è stata infatti riscontrata la presenza di Clostridi (Leto et al., 2000). Anche per i concentrati, gli allevatori siciliani prediligono l’uso di risorse vegetali locali, per cui è ampiamente diffuso l’orzo, la fava o il favino, preferiti a mais e farina di estrazione di soia, riducendo così al minimo i rischi eventuali per l’uso di alimenti OGM o infestati da micotossine. Per altro, si è evidenziato come l’utilizzo di fonti amilacee a lenta degradabilità ruminale, come il mais, sembra contribuire alla riduzione del tenore in proteina e caseina del latte. Di contro, la più rapida degradabilità dell’orzo ottimizza la disponibilità energetica nel rumine, favorendo la sintesi di proteina microbica,

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precursore delle caseine nel latte, e quindi di elevare il tenore in caseina nel latte e la resa alla caseificazione (Di Grigoli et al., 2000). Il rischio OGM Riguardo all’impiego di piante geneticamente modificate nell’alimentazione animale, fino al giorno d’oggi i test specifici di controllo, condotti soprattutto sulla soia, non hanno in effetti dimostrato alcun rischio per la salute degli animali o effetti negativi sulle loro prestazioni, sulla composizione del latte e del fluido ruminale bovino (Aumaître, 1999). Studi sulla possibilità di trasferimento di materiale genetico vegetale alla microflora ruminale degli ovini a seguito dell’ingestione di mais transgenico ha dato esiti negativi, probabilmente perché l’integrazione di frammenti di DNA transgenico da parte della microflora microbica viene preclusa o limitata dalla rapida degradazione enzimatica che le cellule vegetali subiscono in ambito ruminale (Trabalza Marinucci et al., 2004). Tuttavia, non si esclude che altre e nuove piante OGM possano apportare conseguenze sulla salute degli animali e sulla qualità dei prodotti. A tal proposito, occorre comunque sottolineare come i più prestigiosi organismi scientifici nazionali ed internazionali, sulla base degli innumerevoli test e studi effettuati per verificare i reali rischi degli OGM in tema di sicurezza alimentare, sono concordi nell’affermare che “le piante geneticamente modificate e i prodotti sviluppati e commercializzati fino ad oggi non hanno presentato alcun rischio per la salute umana e per l’ambiente”. Anche l’EFSA, l’organismo europeo per la sicurezza alimentare, ritiene che, in base ai risultati delle verifiche effettuate dalla UE nell’arco di oltre 15 anni (1985-2000), la pianta OGM o il suo prodotto siano sostanzialmente equivalenti a quelli convenzionali, e i saggi per la tossicità e l’allergenicità danno esito negativo, e giudica quindi i prodotti positivamente per il consumo umano o animale, sfatando così una delle massime preoccupazioni del consumatore attuale. Il rischio aflatossine Le micotossine sono prodotti tossici del metabolismo secondario di varie specie fungine, in particolare dei generi Aspergillus, Fusarium e Penicillium. Esse possono contaminare i prodotti di origine vegetale destinati all’alimentazione umana e animale, così come ritrovarsi in prodotti di origine animale, come il latte e i derivati, se gli animali sono stati alimentati con mangimi contaminati da micotossine (Pascale e Visconti, 2004). Sono state identificate diverse micotossine con attività biologica differente e loro derivati, tuttavia sono le aflatossine AFB1, AFB2, AFG1, AFG2 e AFM1 che, per diffusione e tossicità, soprattutto a carico di reni e fegato, sono a più elevato rischio per la salute umana e animale. La particolare tossicità delle aflatossine B1 e M1, prodotte da Aspergillus flavus e A. parasiticum, ha indotto lo IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul cancro) a classificarle tre le sostanze cancerogene per l’uomo e per gli animali. I ruminanti sono meno sensibili agli effetti tossici delle micotossine, anche perché la flora ruminale è in grado di degradarle in derivati dotati

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di scarsa attività tossica; tra questi gli ovini e i caprini sono i meno sensibili (Pulina e Battacone, 2004). Tra gli alimenti zootecnici, quelli a maggiore rischio di contaminazione da parte della AFB1 sono le granaglie oleaginose (arachide, cotone, girasole e soia) e di cereali (mais in particolare) (Bottalico, 1999) e, in minore misura, i fieni; la loro contaminazione può già essere presente in campo ma avviene soprattutto durante la conservazione, se mantenuti in condizioni tali da favorire lo sviluppo dei funghi tossigeni, quali elevate umidità e temperatura. Quando gli animali ingeriscono alimenti contaminati da AFB1, nel latte e nei derivati si ritrova la AFM1, che deriva dall’idrossilazione metabolica della AFB1 all’interno dell’organismo animale. La loro diffusione e tossicità ha portato a definire, a livello comunitario, i limiti massimi ammissibili di tali contaminanti in vari prodotti alimentari, compresi i mangimi e il latte. In particolare, per i mangimi destinati alle lattifere il limite massimo ammissibile di AFB1 è di 0,01 mg/kg per i mangimi completi e di 0,005 mg/kg per i mangimi complementari (Direttiva 2003/100 CE del 31 ottobre 2003; Decreto 11 maggio 1998, n. 241, Ministero della Sanità). Il limite massimo di AFM1 ammissibile nel latte, sia crudo che destinato alla produzione di prodotti derivati, è di 0,05 µg/L, ovvero 50 ng/L (Regolamento CE 1525 del 16 luglio 1998; Circolare 9 giugno 1999 n. 10, Ministero della Sanità) (Pascale e Visconti, 2004). Anche i formaggi possono risultare contaminati da AFM1. Poiché la tossina si lega alla caseina del latte e risulta scarsamente degradata dai trattamenti tecnologici di trasformazione casearia, nei formaggi si può ritrovare la AFM1 con concentrazioni più elevate rispetto al latte di partenza. Al momento non esiste alcuna direttiva comunitaria che stabilisca i livelli massimi ammissibili di AFM1 nei formaggi, sebbene in alcuni paesi della UE (Austria e Olanda) il livello massimo tollerato è di 0,20-0,25 µg/kg, ovvero 200-250 ng/kg (Pascale e Visconti, 2004). In considerazione del fatto che le comuni fonti alimentari di contaminazione da micotossine sono rappresentate da concentrati (mais e soia in particolare), i sistemi di allevamento dei ruminanti a carattere intensivo presentano, in linea di massima, un più alto rischio di contaminazione. Meno esposti al rischio risulterebbero gli allevamenti estensivi che prevedono una utilizzazione prevalente o esclusiva di risorse foraggere pascolive ed un moderato ricorso ai concentrati (Ronchi e Bernabucci, 2004). Negli allevamenti siciliani, del resto, è poco diffuso l’impiego di concentrati come mais e soia che, totalmente d’importazione, subiscono, anche per il trasporto, modalità inappropriate di conservazione e risultano, pertanto, a maggiore rischio di contaminazione. In Sicilia, la fonte energetica più utilizzata è l’orzo, mentre la soia viene sostituita dalle leguminose da granella, soprattutto fava e favino. Pertanto, i rischi di contaminazione da aflatossine nel latte e nei formaggi è di gran lunga ridotto nei sistemi estensivi siciliani rispetto a quelli intensivi dove è diffuso l’impiego di mangimi composti commerciali, dove mais e soia costituiscono i principali componenti. In una recente indagine, condotta su 240 campioni di latte ovino prelevato in aziende della provincia di Enna, la presenza di aflatossina M1 è stata riscontrata nell’81% dei campioni, fenomeno da ricondurre alla somministrazione di concentrati, ma con un

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basso livello di contaminazione, compreso tra tracce e 108 ng/L, che non costituisce un pericolo per la salute dei consumatori; solo in 3 campioni il livello di contaminazione ha superato il limite di legge di 50 ng/L. Interessante constatare come maggiori livelli di contaminazioni si siano riscontrati nel latte proveniente da animali mantenuti in stabulazione rispetto a quelli allevati al pascolo (Bognanno et al., 2004). Un’ulteriore studio che ha riguardato i formaggi da latte ovino e caprino prodotti nel sud Italia ha evidenziato una loro contaminazione da AFM1 con una bassa incidenza (17% dei casi per i formaggi ovini e il 20% per i misti ovini e caprini), in concentrazioni però sempre inferiori ai 250 ng/L (Minervini et al., 2000). Nell’indagine che ha riguardato latte ovino e formaggi della Sicilia occidentale (Finoli e Vecchio, 2003), la contaminazione da AFM1 ha riguardato il 30% dei campioni di latte ed il 13% dei formaggi. I livelli di contaminazione sono, tuttavia, risultati molto bassi, compresi tra 4 e 23 ng/L nel latte e 21-102 ng/kg nei formaggi. Negli alimenti analizzati (pellettati, fieni, avena e fava) il livello di contaminazione della AFB1 è oscillato tra <10 e 769 ng/kg. Nessuno dei campioni contaminati ha, comunque superato i limiti stabiliti nell’Unione europea nel latte (50 ng/L) e negli alimenti (5 g/kg) o quelli fissati dalla legislazione olandese nei formaggi (200 ng/L). In definitiva, è possibile asserire che le tecniche di allevamento al pascolo e di alimentazione delle razze autoctone siciliane sono tali da ridurre al minimo i rischi per la salute umana legati ad elevati livelli di contaminazioni da aflatossine nei formaggi attraverso l’alimentazione zootecnica.

5.2.6.1.2. Effetti sulle componenti salutistiche e aromatiche (a cura di Adriana Bonanno)

Gli studi condotti sul latte hanno consentito di approfondire le conoscenze sulle sue caratteristiche nutrizionali, dimostrando come il latte e, di conseguenza, i formaggi sono prodotti multifunzionali. Tra i componenti del latte, la frazione lipidica, che riveste notevole importanza nella caratterizzazione nutrizionale, tecnologica e organolettica del latte stesso e dei suoi prodotti di trasformazione, è fortemente influenzata dall’alimentazione, e risente positivamente, ai fini nutrizionali, del regime alimentare basato sul pascolo. Alle già note proprietà nutrizionali del latte, legate al contenuto in proteine, lipidi, vitamine e minerali, sono associate altre proprietà benefiche dovute alla presenza di numerose molecole bio-attive in grado di svolgere importanti funzioni di difesa dell’organismo umano, alcune delle quali, presenti in natura nelle erbe brucate dagli animali al pascolo, vengono da queste trasferite per via alimentare nei prodotti lattiero-caseari. In particolare, l’alimentazione al pascolo sembra garantire la presenza nel latte di composti in grado di esercitare un’azione antiossidante, quali l’acido linoleico coniugato (CLA), alcune vitamine, come il β-carotene, precursore del retinolo o vitamina A, l’α-tocoferolo o vitamina E ed i flavonoidi.

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L’attività antiossidante di tali composti si esplica sia a livello “merceologico”, inducendo una maggiore stabilità e conservabilità dei prodotti, ma anche a livello “fisiologico” dopo l’ingestione all’interno dell’organismo umano per la prevenzione nell’insorgenza di svariate forme patologiche umane, in particolare quelle cardio-vascolari e i tumori (Pizzoferrato, 1998). L’insorgenza di tali patologie dipende proprio da reazioni di ossidazione, da cui l’utilità di un apporto dietetico di antiossidanti. L’effetto di prevenzione si esercita attraverso un blocco degli effetti dannosi ed aggressivi conseguenti ai radicali liberi, ordinariamente presenti un po’ ovunque nell’organismo come prodotti del metabolismo intermedio o quale conseguenza di processi fisici e chimici, intossicazioni, radiazioni UV o eventi patologici diversi. I radicali liberi sono molecole o frammenti di molecole dotati di enormi capacità reattive perossidanti che, interagendo con molecole costituenti le membrane cellulari del nostro organismo, formano composti tossici, sovvertendo il metabolismo cellulare attraverso uno “stress ossidativo” che può danneggiare seriamente le funzioni biochimiche e fisiologiche, accelerare il processo di invecchiamento, favorire lo sviluppo dei tumori per un effetto mutageno, se non portare addirittura a morte la stessa cellula (Strata, 2000). L’effetto positivo dell’erba del pascolo si manifesta anche trasferendo nel latte particolari sostanze odorose in essa presenti, responsabili delle proprietà aromatiche dei formaggi. É ben dimostrato come il contenuto in sostanze aromatiche del latte di animali alimentati al pascolo presenti una concentrazione complessiva anche doppia rispetto al latte di animali stabulati, dovuto proprio alle superiori ingestioni di principi aromatizzanti presenti nell’erba (Andrighetto et al., 1996). Le conoscenze acquisite in questi ultimi anni su tutte queste sostanze presenti nel latte per effetto del pascolo portano oggi alla consapevolezza che la qualità salutistica e sensoriale dei formaggi può essere condizionata da ciò che gli animali mangiano. Il regime alimentare, quindi, oltre ad influenzare la composizione in macronutrienti del latte, riveste un ruolo fondamentale nella caratterizzazione dietetico-nutrizionale e organolettica dei prodotti lattiero-caseari. Di norma, i formaggi prodotti con il latte di animali alimentati al pascolo hanno una componente nutrizionale e aromatica più elevata di quelli prodotti con il latte di animali in stalla. L’alimentazione al pascolo riveste, quindi, un ruolo determinante sia nella estrinsecazione delle caratteristiche di tipicità, legate alla componente aromatica, sia nella qualificazione dei formaggi che, per la presenza di sostanze dotate di azione antiossidante, acquisisce interessanti e importanti proprietà salutistiche.

5.2.6.2. I lipidi e gli acidi grassi (a cura di Adriana Bonanno)

La frazione lipidica del latte assume un importante ruolo nella definizione delle caratteristiche nutrizionali, tecnologiche e organolettiche dei prodotti lattiero-caseari. Da un punto di vista nutrizionale il latte contiene sostanze di natura lipidica che esplicano un’azione positiva per la salute umana (acidi grassi mono e polinsaturi, acido linoleico coniugato o CLA, vitamina A). Per quanto riguarda gli aspetti

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tecnologici e organolettici, è noto il ruolo svolto dai lipidi nella definizione della resa del latte alla caseificazione e la loro influenza sulla consistenza e sugli aromi dei prodotti caseari. Le caratteristiche organolettiche di odore e sapore del formaggio, infatti, dipendono in larga misura dalla presenza di acidi grassi liberi a corta catena (C4-C10) (Antongiovanni et al., 2003), mentre gli acidi grassi mono e polinsaturi, di cui è maggiormente dotato il grasso del latte ovino e caprino e dei prodotti derivati rispetto al bovino (Haenlein, 1998), conferiscono al formaggio una tessitura meno coesa e una pasta più morbida. I lipidi alimentari subiscono nel rumine, ad opera della microflora, la lipolisi e la bioidrogenazione. La lipolisi comporta il rilascio di acidi grassi dagli esteri, consentendo la loro successiva bioidrogenazione, cioè la riduzione del numero di doppi legami eventualmente presenti lungo la catena carboniosa dell’acido grasso. Inoltre, i microrganismi ruminali sono in grado di sintetizzare ex novo quantità apprezzabili di acidi grassi dai carboidrati precursori, prevalentemente acido stearico (C18:0) e palmitico (C16:0). Pertanto, gli acidi grassi che raggiungono il tratto intestinale sono in parte di origine alimentare e in parte derivanti dall’attività microbica (Mele et al., 2005). Circa il 50% degli acidi grassi del latte viene sintetizzato dalla ghiandola mammaria utilizzando l’apporto ematico dell’acetato e del β-idrossibutirrato, di provenienza ruminale; tale quota comprende solo quelli a corta e media catena (dal C4 al C14); la rimanente quota proviene sia dalla dieta (circa il 40-45%) sia dalla eventuale mobilitazione delle riserve lipidiche dell’animale (Chilliard et al., 2000). L’acido palmitico (C16:0) proviene per metà dalla sintesi endogena della mammella e per metà dalla dieta. Tutti gli acidi grassi a catena più lunga di 18 atomi di carbonio devono essere forniti all’animale con l’alimentazione che, pertanto, rappresenta il momento centrale della definizione della frazione acidica a lunga catena del latte (Mele at al., 2005). Mediante l’alimentazione degli animali è, quindi, possibile modificare sia la quantità sia la qualità del grasso del latte agendo sulla composizione della razione di base, al fine di migliorare le caratteristiche tecnologiche, nutrizionali e dietetiche dei prodotti lattiero-caseari. L’alimentazione al pascolo, in relazione alla qualità dell’erba, all’incidenza del foraggio verde nella dieta, e al rapporto foraggio/concentrato, influenza fortemente la qualità del grasso del latte: tra l’elevato numero di micronutrienti apportati dalle piante dei pascoli, i più diffusi sono proprio gli acidi grassi. I foraggi verdi delle nostre regioni a clima temperato apportano circa l’1-3% di acidi grassi, in massimo livello in primavera e in autunno, e di questi più della metà sono rappresentati da acido linoleico (C18:2 cis 9,12 n-6) (Chilliard et al, 2001), mentre il complesso degli acidi grassi insaturi, quali il linolenico (C18:3), il linoleico (C18:2) e l’oleico (C18:1) rappresentano il 70% degli acidi grassi contenuti nell’erba (Harfoot e Hazlewood, 1988). Il pascolo, che rappresenta la migliore forma di utilizzazione del foraggio, soprattutto se pascolo di montagna, migliora la composizione acidica del latte rispetto all’impiego

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di foraggi conservati sia attraverso la fienagione che l’insilamento (tabella); esso infatti, nel latte bovino, ha ridotto la concentrazione di acidi saturi a media catena, laurico (C12), miristico (C14) e palmitico (C16), e aumentato la presenza degli acidi a corta catena (<C10), degli insaturi della serie C18, oleico, linoleico e linolenico, come pure degli acidi polinsaturi n-3, noti come “omega3”, e del pool di isomeri dell’acido linoleico coniugato (CLA), migliorandone in definitiva il rapporto insaturi/saturi. (Antongiovanni et al., 2003). Anche il pascolamento su un erbaio di veccia, rispetto all’alimentazione con fieno e concentrato, ha arricchito il latte di pecore Comisane in acidi monoinsaturi (19,1 vs 16,4%) e polinsaturi (12,4 vs 10,4%), e ha ridotto i saturi (68,6 vs 73,3%). In particolare, il pascolo ha elevato il livello di acido trans vaccenico (C18:1 trans-11) (1,72 vs 0,79% degli acidi grassi), di linolenico (c18:3 cis n-3) (4,87 vs 3,56%), e raddoppiato quello del CLA (c18:2 cis-9 trans-11) (2,53 vs 1,33%). Il rapporto insaturi/saturi è risultato, quindi, superiore con il pascolo (0,46 vs 0,37) (Valvo et al. 2005). La minore proporzione di acidi grassi saturi attesta la maggiore salubrità del latte prodotto al pascolo, poiché i saturi, noti per i loro effetti aterogenici e trombogenici dannosi per la salute umana, sono inclusi tra i maggiori responsabili delle patologie cardio-vascolari, la cui insorgenza è stata messa in relazione al consumo di prodotti caseari (Ulbricht e Southgate, 1991; Warensjo et al., 2004). La concentrazione nel latte di acidi polinsaturi, che non sono sintetizzati dai tessuti dei ruminanti, deriva esclusivamente dal loro contenuto della dieta, quindi nell’erba del pascolo, e da quella quota che sfugge alla bioidrogenazione ruminale (Chilliard et al., 2000). Per gli ovini, è risultato pure evidente come il passaggio dall’alimentazione secca in ovile a quella verde al pascolo naturale abbia modificato profondamente, peraltro in tempi molto brevi, il profilo in acidi mono e polinsaturi nel latte, con un aumento dell’acido vaccenico (C18:1 trans-11), del linolenico (C18:3 cis-9,12,15 n-3) e del CLA (C18:2 cis-9, trans-11) e una riduzione dell’acido oleico (C18:1 cis-9) e del linoleico (C18:2 cis-9,12 n-6) (Biondi et al., 2004). L’effetto della dieta al pascolo ha pure influenzato il profilo acidico del Caciocavallo Palermitano ottenuto dal latte di bovine Cinisare (Di Grigoli, dati non pubblicati) (tabella). L’alimentazione al pascolo naturale, con o senza l’integrazione con concentrato, ha arricchito il formaggio in acidi grassi insaturi e CLA e ridotto i saturi, migliorando così il rapporto insaturi/saturi rispetto all’alimentazione secca a base di fieno. Il pascolo esclusivo ha anche consentito di ridurre il rapporto tra gli acidi delle serie n-6 ed n-3. È stato pure evidenziato (Bugaud et al., 2002) che i formaggi ottenuti al pascolo naturale di montagna, rispetto a quelli ottenuti con una dieta a base di fieno, presentano anche una migliore struttura, sono meno elastici, meno deformabili e meno coesivi, differenze attribuibili in parte alla composizione in acidi grassi, che è risultata caratterizzata da una concentrazione degli insaturi maggiore del 35%,

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circostanza che induce una maggiore fluidità della sostanza grassa e quindi una minore coesione della pasta. La presenza di foraggio fresco nella razione rappresenta, pertanto, una fonte specifica di acidi grassi in grado di caratterizzare in maniera molto efficace il grasso del latte. Sulla base delle precedenti indicazioni, è quindi certamente possibile asserire che l’alimentazione al pascolo rappresenta uno strumento di manipolazione naturale della composizione acidica del grasso del latte e dei formaggi, che apporta variazioni favorevoli da un punto di vista sia nutrizionale per l’uomo sia tecnologico sulla struttura della pasta.

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Tabella: Effetto del foraggio del pascolo sulla composizione acidica (g/kg di grasso) del grasso del latte bovino (da Antongiovanni et al., 2003).

Tipo di foraggio Pascolo di

pianura Pascolo di montagna

Insilato di erba

Insilato di mais

% della sostanza secca della dieta

100 100 63 68

Acidi grassi:

Butirrico C4:0 35 48 32 34

Capronico e caprilico C6:0 + C8:0 32 31 32 41

Caprinico e laurico C10:0 + C12:0 58 45 73 82

Miristica C14:0 99 96 125 125

Palmitico C16:0 258 249 356 327

Palmitoleico C16:1 17 18 16 22

Stearico C18:0 114 108 99 81

Vaccenico C18:1 + trans 11 21 37 - 7

Oleico C18:1 279 283 209 195

Linoleico C18:2 26 45 15 22

Linolenico C18:3 14 15 5 3

Acido linoleico coniugato (CLA) C18:2 cis-9 trans-11

9 16 5 5

Insaturi/saturi 0,61 0,72 0,35 0,37

Tabella: Composizione acidica (g su 100 g di grasso) del Caciocavallo Palermitano in funzione del regime alimentare (Di Grigoli, dati non pubblicati).

Pascolo naturale

Pascolo e concentrato (mais, fava e cruschello)

Pascolo e concentrato (orzo, cece e cruschello)

Fieno e concentrato (favino

e cruschello)

Acidi grassi saturi 64,18 64,68 65,31 67,48

Acidi grassi monoinsaturi 30,70 30,21 29,26 27,19

Acidi grassi polinsaturi 5,12 5,11 5,43 5,33

Insaturi/saturi 0,56 0,55 0,53 0,48 Acido linoleico coniugato (CLA) 1,02 0,94 0,91 0,56

Acidi grassi serie n-3 1,27 1,18 1,24 1,28

Acidi grassi serie n-6 2,24 2,39 2,62 2,92

n-6/n-3 1,76 2,03 2,11 2,28

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5.2.6.2.1. L’acido linoleico coniugato (CLA) (a cura di Adriana Bonanno)

Tra gli antiossidanti naturali presenti nella frazione lipidica del latte è negli ultimi anni allo studio un particolare gruppo di acidi grassi, il cosiddetto acido linoleico coniugato o CLA, a cui in passato sono state, in un primo momento, riconosciute proprietà anti-cancerogene rispetto al tumore della mammella "murino" (Parodi, 1997), più di recente messe in dubbio da una rivisitazione della questione (Cannella e Giusti, 2000). La bibliografia dell’epoca indicava livelli di CLA nella dieta pari allo 0,1%, che è una dose 100 volte inferiore rispetto a quella necessaria per ottenere il medesimo effetto da parte degli acidi grassi omega 3 di origine ittica per esplicare la presunta azione anti-cancerogena. A prescindere dalle discusse proprietà anti-neoplastiche, i CLA hanno attività benefica nella prevenzione dell’aterosclerosi, poiché riducono la colesterolemia (LDL) ed i trigligeridi ematici senza interferire sulla concentrazione di HDL benefiche, nelle funzioni immunitarie, nello stress ossidativo, nell’osteogenesi, nell’obesità e nel diabete (McGuire e McGuire, 1999; Cabiddu, 2003). Si tratta di un prodotto di formazione endogena, costituito da una miscela di isomeri cis e trans dell’acido linoleico (C18:2) con doppi legami coniugati. Essi originano attraverso due vie metaboliche: prevalentemente come prodotto intermedio delle reazioni di bioidrogenazione degli acidi grassi polinsaturi di origine alimentare nel rumine, il linoleico ed il linolenico (Chilliard et al., 2000); secondariamente dalla desaturazione che avviene nella ghiandola mammaria a carico dell’acido trans-vaccenico (C18:1 trans-11) proveniente dal rumine, che dà luogo all’acido rumenico (C18:2 cis-9 trans-11) (Corl et al., 2001), forma in cui sono presenti la quasi totalità dei CLA. L’enzima che, a livello della ghiandola mammaria, opera la desaturazione, denominato stearoil Co-A denaturasi, è espresso dal gene omonimo presente nei cromonosmi di tutte le specie, bovini, ovini e caprini; l’espressione del gene e l’attività del relativo enzima sono sensibili a fattori nutrizionali, come la presenza di acidi grassi polinsaturi nella dieta (Ntambi, 1995). Cosicché, l’alimentazione verde favorisce l’incremento dei CLA nel latte agendo su entrambe le vie di formazione. Innanzitutto, gli animali al pascolo ingeriscono alte quantità di acidi grassi polinsaturi, e soprattutto di acido linolenico, di cui è ricco il foraggio fresco rispetto al fieno, nel quale invece i processi ossidativi conseguenti al taglio e al processo di essiccazione e conservazione riducono in maniera significativa la quota degli acidi grassi polinsaturi; l’acido linolenico presente nell’erba risulta infatti positivamente correlato con la proporzione di CLA nel latte. Poi, nel rumine degli animali al pascolo si verifica un’alta produzione di acido trans-vaccenico e, quindi, un più intenso flusso di questo verso la ghiandola mammaria (Mele et al., 2003). Pertanto, il pascolo contribuisce ad innalzare la concentrazione dei CLA nel latte e nei formaggi, mentre questa diminuisce con la somministrazione di foraggi affienati o concentrati. Sono numerose le ricerche, alcune già presentate nel precedente paragrafo, che dimostrano che l’alimentazione al pascolo a base di erba verde eleva la concentrazione di CLA nel latte bovino (Antongiovanni et al., 2003; Shingfield, 2005),

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ovino (Avondo et al., 2002; Nudda et al., 2003; Biondi et al., 2004; Valvo et al. 2005) e caprino (Nudda et al., 2003; Fedele, 2005). Più elevati contenuti di acido trans-vaccenico, di CLA e di acido linolenico sono stati osservati nel latte ovino quando nella dieta aumentava la percentuale di pascolo e diminuiva quella del concentrato (Nudda et al., 2003). Si è vista anche una correlazione positiva tra il contenuto di CLA nel latte e l’ingestione di sostanza secca al pascolo, ed un aumento del contenuto in acido linolenico all’aumentare dell’incidenza del pascolo nella dieta (Avondo et al., 2002). Ancora, le capre alimentate esclusivamente al pascolo producono un latte con un contenuto in CLA pressocchè doppio rispetto a quelle alimentate alla stalla con fieno e concentrato. Anche la stagione di pascolamento, per effetto della differente composizione botanica e del diverso stadio fenologico delle piante, modifica il contenuto in CLA del latte: questo è più alto in inverno, quando le piante si trovano in uno stadio precoce di sviluppo (Chouinard et al., 1998) e in piena stasi vegetativa e il pascolo è dominato dalle Graminacee. Queste variazioni sono correlate al contenuto in acido linolenico dell’erba, pari al 68% degli acidi grassi in inverno e il 40% in primavera ed estate (Di Trana et al., 2004), e che man mano che l’erba avanza nel suo sviluppo vegetativo si riduce perdendo il suo effetto di arricchimento del latte in CLA (Fedele, 2005). Il CLA è contenuto in elevate concentrazioni nel grasso dei ruminanti, e quindi nel latte e nei formaggi derivati. Infatti i prodotti alimentari che originano dai ruminanti, il latte in particolare, sono quelli naturalmente più ricchi in CLA (Antongiovanni et al., 2003). Va sottolineato anche il fatto che i processi di trasformazione e di conservazione dei formaggi non sembrano influenzare il contenuto in CLA (Luna et al., 2005). É stato evidenziato anche un effetto specie che comporterebbe un maggiore contenuto di CLA nel latte ovino, con livelli anche 4-5 volte superiori rispetto a quello bovino e caprino (Nudda et al., 2003), raggiungendo valori di oltre 30 mg/g di grasso (Cabiddu, 2003), possibilmente ascrivibili a differenze negli habitus alimentari e nella velocità di transito degli alimenti nel digerente. Nel Caciocavallo Palermitano è stato confermato quanto emerso in esperienze analoghe sul latte e formaggio. Infatti, i formaggi prodotti dal latte delle bovine Cinisare alimentate al pascolo naturale hanno presentato una dotazione di CLA quasi doppia rispetto alle bovine stabulate; il concentrato, in entrambi i casi, ha solo lievemente ridotto la concentrazione di CLA rispetto al pascolo esclusivo, mantenendola comunque a livelli sempre più elevati di quello rilevato con il fieno (tabella) (Di Grigoli, dati non pubblicati). Attualmente, la presenza di acido linoleico coniugato nei formaggi, per le sue provate proprietà salutistiche, è considerata un indicatore di qualità della filiera lattiero-casearia e di salubrità del prodotto, da rimarcare nelle strategie di valorizzazione dei prodotti tradizionali di nicchia.

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5.2.6.2.2. Le vitamine A ed E (a cura di Adriana Bonanno)

Gli animali alimentati al pascolo producono, rispetto agli animali alimentati in stalla, un latte più ricco in vitamine, alcune in grado di esercitare un’azione antiossidante naturale, come la A e la E che si ritrovano nella fase lipidica del latte. Sono soprattutto le foglie delle piante, particolarmente quelle più giovani, che contengono tali vitamine, e ne arricchiscono quindi la dieta degli animali al pascolo. Molte vitamine contenute nei tessuti verdi delle piante vengono distrutte dal calore, questo spiega perchè l’erba senescente dei pascoli o anche i fieni e gli insilati, che hanno subito trattamenti di conservazione, ne contengono anche il 90% in meno (McDonald et al., 1992). Pertanto, la dieta a base di foraggi conservati impoverisce il latte di vitamine. Tra le vitamine presenti nel latte il retinolo, o vitamina A, si ritrova anche sottoforma di β-carotene che è un suo precursore. Nel latte dei ruminanti, infatti, la vitamina A deriva principalmente dalla conversione dei carotenoidi contenuti nei foraggi. L’attività antiossidante della vitamina A risiede soprattutto nella capacità di dissipare, grazie alla sua struttura molecolare, il surplus di energia del radicale libero. L’energia in eccesso viene dispersa sotto forma di calore senza danneggiare la molecola del carotenoide che è quindi riutilizzabile per una nuova ed efficace azione antiossidante. Nel latte sono presenti gli isomeri trans e cis del retinolo, la prima delle quali ha una maggiore attività vitaminica. Nel latte e nei formaggi vaccini, rispetto a quelli ovini e caprini, è presente in maggiori quantità il β-carotene, perchè nei bovini la trasformazione del β-carotene in retinolo a livello intestinale è incompleta, mentre è più efficiente negli ovini e nei caprini. Ciò spiega perché il formaggio prodotto da bovine al pascolo ha un colore più giallo, dovuto proprio alla presenza di carotenoidi (Rosato et al., 2003), mentre quello ovino e caprino si presenta di colore bianco. Le più alte concentrazioni di retinolo si riscontrato nel latte prodotto da bovini, ovini o caprini al pascolo quando l’erba è giovane, le più basse quando l’alimentazione è a base di fieno o ricca di concentrati. Il contenuto in trans-retinolo appare anche correlato all’ingestione di erba. Il pascolo, quindi, comporta un maggiore arricchimento del latte in vitamina A rispetto al fieno (Fedele, 2005), che si riflette pienamente anche sui formaggi. Difatti, per il Caciocavallo Palermitano (tabella), sia il trans- che il cis-retinolo sono risultati più elevati nel formaggio ottenuto dalle bovine Cinisare alimentate con il solo pascolo rispetto a quello proveniente dalla dieta a base di fieno, mentre il β-carotene non ha mostrato differenze. Il formaggio ottenuto con il concentrato contenente il mais che, come noto, è particolarmente dotato in β-carotene, ha mostrato per questo elevati livelli sia di trans-retinolo che di β-carotene (Bonanno et al., 2004ab). Un altro composto con proprietà antiossidante è la vitamina E, nota anche come α-tocoferolo; tra le più diffuse nei foraggi verdi, e in particolare nelle foglie, viene trasferita nel latte e nei formaggi, seppure in tali prodotti si riscontri in quantità non

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elevata. Essa è costituita da un gruppo di sostanze (4 tocoferoli e 4 tocotrienoli) che agiscono donando un atomo di idrogeno e interrompendo in questo modo la catena di reazioni di ossidazione. Dei 4 tocoferoli α, β, γ e δ, la forma α è quella biologicamente più attiva e più dotata di potere antiossidante (Fedele, 2005). L’α-tocoferolo è in grado di rallentare le reazioni di ossidazioni a carico del colesterolo, i cui prodotti sono implicati nella eziologia delle malattie coronariche e dell’aterosclerosi. Inoltre, elevati livelli di vitamina E nel formaggio prevengono l’ossidazione e la periossidazione dei suoi acidi grassi insaturi e, pertanto, ne aumentano la stabilità e la conservabilità. L’α-tocoferolo è presente nei prodotti lattiero-caseari in quantità dipendente soprattutto dal tipo di alimentazione e, quindi, anche dalla stagione di produzione del latte. È stato evidenziato, infatti, come l’erba verde dei pascoli abbia arricchito di α-tocoferolo il latte e i formaggi di bovine (Martin et al., 2002) e di capre (Pizzoferrato et al., 2000) rispetto al fieno e al concentrato. Nelle capre, passando da un’ingestione da 0 a 1150 g/capo/d di erba nella razione, il livello di α-tocoferolo nel latte si è quasi triplicato (Pizzoferrato et al., 2000). Analogamente a quanto evidenziato su altri formaggi, il Caciocavallo Palermitano ottenuto da bovine Cinisare al pascolo naturale ha mostrato un maggiore contenuto in α-tocoferolo rispetto al gruppo alimentato con fieno (tabella) (Bonanno et al., 2004ab). Nella stessa esperienza, è stato pure messo in evidenza come il livello di α-tocoferolo abbia avuto un andamento crescente con l’avanzare della stagione, da aprile a giugno, particolarmente nel formaggio delle bovine al pascolo (figura). Nella tabella sono riportati altri dati relativi al contenuto in β-carotene, trans-retinolo ed α-tocoferolo di alcuni formaggi tradizionali siciliani che interessano la provincia di Palermo, prodotti da animali alimentati al pascolo (Rosato et al., 2003).

Figura Variazione stagionale del contenuto in α-tocoferolo (µg/100 g) nel Caciocavallo Palermitano in funzione del regime alimentare (Bonanno et al., 2004b).

200

600

1000

1400

1800

29 aprile 19 maggio 2 giugno 9 giugno

µg/100 g

Pascolo Pascolo+mais e favaPascolo+orzo e cece Fieno e concentrato

200

600

1000

1400

1800

29 aprile 19 maggio 2 giugno 9 giugno

µg/100 g

Pascolo Pascolo+mais e favaPascolo+orzo e cece Fieno e concentratoPascolo Pascolo+mais e favaPascolo+orzo e cece Fieno e concentrato

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5.2.6.2.3. La protezione antiossidante sul colesterolo (a cura di Adriana Bonanno)

La matrice lipidica del formaggio, che contiene acidi grassi insaturi e colesterolo, è suscettibile di degradazione ossidativa. L’azione antiossidante di molecole vitaminiche, come l’α-tocoferolo ed il trans-retinolo, è legata alla loro capacità di neutralizzare o rallentare i processi ossidativi a carico degli acidi grassi insaturi e del colesterolo e, pertanto, la loro presenza consente una maggiore stabilità alla conservazione del formaggio (Pizzoferrato e Manzi, 1999). L’effetto dell’alimentazione, e dell’erba in particolare, sul livello del colesterolo di latte e formaggi non è sempre ben evidente, probabilmente perché l’interazione con altri fattori assume maggior peso. Tuttavia, è stato spesso riscontrato un effetto favorevole dell’alimentazione al pascolo sulla riduzione del tenore in colesterolo del formaggio rispetto ad una dieta con fieno (Pizzoferrato e Manzi, 1999), sebbene questo sembri evidenziarsi se l’erba è sufficiente a soddisfare i fabbisogni degli animali, poiché la lipomobilizzazione del grasso corporeo aumenta i livelli di colesterolo del latte (Fedele, 2005). Nel Caciocavallo Palermitano prodotto con il pascolo naturale si è riscontrato, rispetto a quello ottenuto con il fieno, un minore livello di colesterolo nel grasso (3,5 vs 3,9 mg/g di grasso), mentre l’integrazione del pascolo con concentrato ha innalzato solo lievemente il colesterolo (tabella) (Bonanno et al., 2004ab). I prodotti dell’ossidazione del colesterolo sono quelli maggiormente implicati nell’eziologia delle malattie coronariche e dell’aterosclerosi, e per questo non è tanto il colesterolo totale di un alimento che assume importanza, quanto la sua suscettibilità all’ossidazione o, al contrario, il grado di protezione dai processi ossidativi di cui gode. Cosicché, in un prodotto lattiero-caseario le migliori caratteristiche nutrizionali e salutistiche si hanno soprattutto con i minori livelli di colesterolo, ma è altrettanto importante avere una soglia elevata della sua protezione antiossidante. Pizzoferrato e Manzi (1999) hanno quindi proposto un indice per misurare il grado di “protezione antiossidante” nei prodotti lattiero-caseari, indice calcolato come rapporto molare tra i composti ad azione antiossidante ed il bersaglio dell’ossidazione, il colesterolo. La valutazione della protezione antiossidante sul Caciocavallo Palermitano ha messo in evidenza come il prodotto ottenuto con fieno presenti un colesterolo meno protetto dall’ossidazione rispetto al regime alimentare a base di sola erba del pascolo, mentre l’integrazione con concentrato ha lievemente ridotto la protezione antiossidante (tabella) (Bonanno et al., 2004ab). L’effetto del regime alimentare sulla protezione antiossidante del Caciocavallo è in accordo con quanto rilevato su latte e formaggi di capre dove sono stati riscontrati valori superiori nel formaggio degli animali che usufruivano del pascolo rispetto agli animali stabulati (Pizzoferrato et al., 2000).

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Tabella: Resa, composizione analitica e vitamine lipo-solubili nel Caciocavallo Palermitano in funzione del

regime alimentare (Bonanno et al., 2004ab).

Tabella: Vitamine lipo-solubili (µg/100 g di grasso) in formaggi tradizionali siciliani (Rosato et al, 2003).

β-carotene trans-retinolo αααα-tocoferolo

Pecorino siciliano 2831 6419

Fiore Sicano 291 844 3355

Caciocavallo Palermitano 1197 1272 4859

5.2.6.2.4. I flavonoidi (a cura di Adriana Bonanno)

Tra i composti trasmessi dalle essenze del pascolo al latte, e quindi ai formaggi, che svolgono attività positive per la nutrizione e la salute dell’organismo animale e/o umano, vi sono anche i flavonoidi. I flavonoidi sono contenuti in molte specie vegetali; sono acidi fenolici, una classe di nutrienti appartenenti al gruppo dei composti aromatici noti come polifenoli, che le piante sintetizzano a partire dall’aminoacido fenilalanina e dall’acetato. Essi sono responsabili di molti colori brillanti nei frutti e negli ortaggi, sono causa del sapore

Pascolo naturale

Pascolo e concentrato (mais, fava e cruschello)

Pascolo e concentrato (orzo, cece e cruschello)

Fieno e concentrato

(favino e cruschello)

Resa casearia (2 mesi) kg/100 l di latte 8,2 8,0 7,9 8,3

Sostanza secca % 68,1 67,5 67,1 65,2 Grasso % 43,7 43,6 41,8 42,2 Azoto totale % 7,4 7,2 7,4 7,4 Azoto solubile % 0,7 0,5 0,5 0,5 Ceneri % 8,5 8,2 8,8 8,4 Colesterolo mg/100 g 102,6 108,6 101,0 106,8 Colesterolo mg/g grasso 3,5 3,7 3,6 3,9 Trans retinolo µg/100 g 235,3 256,8 206,2 205,9 Trans retinolo µg/g grasso 7,9 8,7 7,3 7,4 13-cis retinolo µg/100 g 59,9 42,6 37,0 32,7 13-cis retinolo µg/g grasso 2,0 1,5 1,3 1,2 β-carotene µg/100 g 104,8 139,7 103,4 110,2 β-carotene µg/g grasso 3,6 4,7 3,7 4,1 α-tocoferolo µg/100 g 1301 1314 1197 823 α-tocoferolo µg/g grasso 43,3 44,5 42,4 29,4 Protezione antiossidante

0,0122 0,0118 0,0113 0,0076

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astringente o tannico nel tè verde, nel vino rosso e in molte erbe e influenzano positivamente la conservabilità degli alimenti umani (Miller, 1996). I flavonoidi sono soprattutto dei potenti antiossidanti, che svolgono la loro funzione in sinergia con le vitamine C ed E, esercitando un ruolo fondamentale nella prevenzione e nel trattamento di molte forme patologiche umane, tra cui quelle cardiovascolari e cancerogene; questa è la ragione per cui, attualmente, essi sono al centro dell’attenzione di molti ricercatori nel campo della nutrizione umana. Ai flavonoidi sono, tuttavia, riconosciute numerose altre proprietà, tra le quali quelle antibatteriche, antivirali, antitrombotiche, anti-infiammatorie e antiallergiche. Alla rutina è riconosciuto un ruolo nella prevenzione dei tumori e un’attività antiossidante (Aliaga et al, 2004); al β-sitosterolo si riconosce la capacità di inibire la crescita delle cellule tumorali e di elevare la soglia del dolore (Awad et al., 2005); alla β-amirina un’azione anti-infiammatoria (Otuki et al., 2005). Le specie ruminanti assumono al pascolo i composti polifenoli contenuti nelle diverse essenze foraggere e, tra questi, i flavonoidi sono tra quelli maggiormente rappresentati; ingeriti dagli animali, vengono quindi secreti nel latte e si ritrovano nei prodotti derivati destinati al consumo umano. Il contenuto in flavonoidi è risultato notevolmente superiore in un pascolo naturale (38,1 g/kg SS), nel quale sono state individuate 32 diverse specie botaniche, rispetto ad altri alimenti destinati ai ruminanti, quali concentrati (6,4 g/kg di s.s. nell’orzo e 7,4 g/kg di s.s. nella farina di soia), insilati di erba (23,3 g/kg di s.s.) e fieni (da 16,3 a 20,7 g/kg di s.s.). Sulla base di queste concentrazioni, la quantità di sostanze fenoliche che gli animali possono ingerire al pascolo è di circa 1 g per kg di peso vivo metabolico (PV0,75); poiché la degradazione che tali sostanze subiscono nel rumine è bassa, è presumibile che le quantità secrete nel latte e presenti poi nei formaggi siano sufficienti per avere un interesse nutrizionale nell’alimentazione umana (Poulet et al., 2002). Per quanto riguarda specificatamente i formaggi, i flavonoidi, insieme ad altri composti polifenolici provenienti dall’alimentazione, sono in grado di influenzare anche le caratteristiche aromatiche e ne migliorano la stabilità microbiologica, ossidativa e termica (O’Connell e Fox, 2001).

5.2.6.2.5. Le sostanze aromatiche: i terpeni (a cura di Adriana Bonanno)

Come più volte ribadito, un ruolo dominante sui caratteri di tipicità dei prodotti lattiero-caseari viene svolto dalla loro componente aromatica, che contribuisce a definirne le caratteristiche sensoriali di sapore ed odore. I responsabili delle peculiarità organolettiche del latte e del formaggio, a livello di olfatto e di gusto, sono numerose molecole volatili che si combinano tra loro. Nel latte si ritrovano centinaia di sostanze volatili ad azione aromatizzante, appartenenti a diverse classi chimiche quali alcoli, aldeidi, chetoni, idrocarburi, acidi carbossilici, esteri, composti solforati, terpeni (mono- e sesquiterpeni) e altri derivati fenolici.

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Alcune molecole odorose si trovano nell’ambiente o negli alimenti ingeriti dall’animale e possono essere trasferite nel latte, anche senza alcun tipo di traformazione, attraverso la via digestiva (alimento-rumine-sangue-latte) o per contaminazione diretta attraverso l’aria inspirata dagli animali (ambiente o gas ruminali eruttati dagli animali-polmoni-sangue-latte). Altre molecole volatili originano dall’attività enzimatica e ossidativa della microflora casearia. Infatti, mentre l’aroma del latte può essere influenzato da alimenti ingeriti dall’animale con o senza elaborazione da parte dello stesso, l’aroma del formaggio, oltre ad essere influenzato dalla qualità aromatica della materia prima utilizzata, è anche conseguenza del metabolismo specifico (fermentazione del lattosio, proteolisi, lipolisi) dei ceppi batterici selezionatesi durante il processo tecnologico di produzione di ciascun formaggio e di conseguenza risulta, generalmente, molto più complesso dell’aroma del latte originario. Pertanto, le molecole odorose derivano dalla interazione tra ambiente, alimentazione degli animali lattiferi e tecnologia di trasformazione del latte in formaggio. Tuttavia, il fattore che sembra influenzare maggiormente l’aroma del latte e dei suoi derivati è l’alimentazione. Oggi, con numerosi supporti scientifici, si può con certezza asserire come sia l’alimentazione al pascolo a conferire al latte ed ai prodotti caseari che ne derivano particolari proprietà aromatiche, e che ogni tipo di pascolo rappresenta un fattore di differenziazione qualitativa di un formaggio (Fedele et al., 2000; Bonanno et al., 2004ab; Coulon et al., 2004). Del resto, nell’uomo, è sempre esistita la consapevolezza che il profumo ed il gusto di un formaggio fossero la diretta conseguenza di quel che mangiano gli animali, e che questi cambiano con la stagione perché nel corso delle stagioni cambia il pascolo. Una delle ipotesi circa la formazione di sostanze odorose nel latte è basata sull’azione dell’enzima lipossigenasi durante la masticazione dell’erba, che comporta la formazione di odori derivanti da composti carbonilici e dagli alcool corrispondenti a partire dagli acidi grassi insaturi dei lipidi dell’erba (Keen e Wilson, 1992). Secondo un’altra ipotesi (Forss, 1992), l’odore è associato con alti livelli di polyisoprene del pascolo. Ciononostante, è ben dimostrato che l’erba del pascolo assunta dagli animali trasmette nel latte specifici principi volatili aromatizzanti naturali in essa presenti, tra cui quelli più noti sono i terpeni, gli alcoli ed i chetoni, che l’animale al pascolo può eventualmente elaborare nel rumine e trasferire al latte, contribuendo così ai caratteri di tipicità dei formaggi. Il contenuto in sostanze aromatiche nel latte di animali che usufruiscono dell’erba del pascolo presenta una concentrazione anche doppia rispetto al latte di animali in stalla, proprio in conseguenza della superiore ingestione di principi aromatizzanti presenti nell’erba (Andrighetto et al., 1999). In tal senso, l’ambiente gioca un ruolo di primo piano, in quanto sono le caratteristiche del suolo, il clima ed altri fattori ambientali che determinano la specificità della vegetazione, favorendo l’instaurarsi di quelle essenze foraggere ben connaturate agli ambienti fisici.

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Tra i composti odorosi che, presenti nell’erba, vengono trasferiti nel latte senza subire particolari trasformazioni e si ritrovano nei formaggi, i terpeni sono sicuramente i più studiati anche perché nel grasso del latte di animali al pascolo si ritrova in genere, tra i vari componenti volatili, un maggior livello di sostanze di natura terpenica rispetto al latte degli animali stabulati, circostanza che si riscontra, in rapporti pressocchè analoghi, anche nel formaggio. I terpeni sono una classe di idrocarburi insaturi che hanno origine dal metabolismo secondario delle piante, presenti sottoforma di liquidi odorosi e volatili in foglie, fiori e frutta. Essi sono numerosi e molto diffusi nel regno vegetale, con maggiore o minore attività aromatica, e in genere prendono il nome delle piante da cui provengono, benchè nelle piante così dette aromatiche si rinvengono miscugli di terpeni. I terpeni più conosciuti appartengono a due gruppi: i monoterpeni (C10H16) costituiti da due unità di isoprene, come pinene, limonene, terpinene, ed i sesquiterpeni (C15H24) costituiti da tre unità di isoprene, come cariofillene, cedrene, cadinene (Tornambè et al., 2006). Fin dall’antichità i terpeni, come tutti i costituenti odorosi delle piante, hanno ricevuto particolare attenzione per la gradevolezza dei loro aromi. Nel passato i terpeni erano riconosciuti per le loro proprietà medicamentose, per aromatizzare gli alimenti o per conservarli meglio. In molte aree del sud si usava cospargere i formaggi con piante aromatiche tipo il timo e la nepeta, non tanto per aromatizzare il prodotto quanto per evitare la formazione delle muffe. In virtù dell’intenso odore che li caratterizza, i terpeni vengono considerati, tra i composti presenti in molte specie vegetali utilizzate dagli animali al pascolo, tra i responsabili del profilo aromatico del latte e del formaggio che ne deriva. Inoltre, la loro presenza viene ritenuta indicativa del fatto che il latte è prodotto da animali alimentati al pascolo. Infatti, il cambio della base foraggera del regime alimentare dal fieno all’erba del pascolo ha indotto un aumento dei sesquiterpeni nel latte di capra di circa 3-4 volte, passando da 2200 ng/L a oltre 16.000 ng/L (Fedele et al., 2001). Addirittura, essendo ritenuti dei buoni indicatori biochimici della composizione botanica del pascolo, si è pure ipotizzato di potere usare i terpeni per caratterizzare un formaggio in base alla sua area di provenienza (Fedele at al., 2000). Infatti, la quantità di monoterpeni e di alcuni sesquiterpeni dell’erba è risultata correlata con quella del latte (Bugaud et al., 2001), così come il profilo terpenico dell’erba e del formaggio presenta una buona rispondenza (Fedele et al., 2004). Dal punto di vista floristico, i pascoli si caratterizzano per una flora nettamente differente nel corso delle stagioni: nel periodo tardo autunno-inizio primavera dominano le Graminacee, in primavera vi è un discreto equilibrio tra Graminacee, Leguminose e altre specie, in estate dominano le altre specie. Ogni stagione, quindi, tende ad esprimere una propria qualità aromatica che dipende dalla composizione botanica, ed è comunque molto più apprezzabile in estate che non in primavera, proprio perché nel periodo di tarda primavera-estate le piante più caratterizzanti dal punto di vista aromatico sono maggiormente presenti nei pascoli e sono ben utilizzate dagli animali (Fedele, 1998). Infatti, il contenuto in terpeni nel latte si innalza

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generalmente in estate, quando nei pascoli mediterranei si raggiunge la massima incidenza delle essenze foraggere ricche in terpeni, quali molte Dicotiledoni, come alcune piante appartenenti alle famiglie botaniche delle Apiacee o Ombrellifere, delle Asteracee o Composite con il genere Chycorium, delle Geraniacee con il genere Geranium, delle Labiate cui appartengono molte piante aromatiche come menta, nepeta, origano, salvia e timo, Plantaginacee, Polygonacee con il genere Rumex, Rubiacee con il genere Asperula e Galium. Di contro, le Graminacee sono le più povere in terpeni (Bugaud et al.,.2001) Il contenuto in terpeni del pascolo e del latte sembra risentire anche del sistema di pascolamento; infatti, con il pascolamento a rotazione, che consente alle bovine maggiori possibilità selettive, il contenuto in terpeni nel latte ha subito una minore variabilità rispetto al pascolamento a strisce che prevedeva una permanenza delle bovine in ciascun appezzamento di 2 giorni (Tornambè et al., 2006). Oltre ai terpeni, anche i chetoni, presenti negli oli essenziali di molte piante, trasmettono odori particolari ai formaggi, tra cui il 2-propanone, il 2-butanone e il 2-nonanone, che conferiscono note di fieno, di burro e di latte rispettivamente. La concentrazione di chetoni nell’erba pascolata può essere da 1 a 3 volte superiore a quella dei terpeni, ed il formaggio corrispondente presenta un profilo chetonico simile a quello dell’erba, indicando come non si manifesti alcuna influenza del processo digestivo (Fedele, 2005). I pascoli siciliani, che presentano un’ampia e diversificata composizione botanica, sono ricchi in piante aromatiche, e concorrono pienamente a caratterizzare i prodotti lattiero-caseari che da essi si ottengono. L’analisi della frazione volatile nel Caciocavallo Palermitano (tabella) ha permesso l’identificazione di 61 composti, raggruppati secondo la classe chimica di appartenenza. Maggiormente rappresentati sono stati gli alcooli, derivati dall’attività fermentativa della microflora, seguiti dagli esteri. L’unica differenza di un certo rilievo per effetto del regime alimentare è emersa per i terpeni. Infatti, nel latte di Cinisare alimentate con solo pascolo e, di conseguenza, nelle forme di Caciocavallo da questo ottenute, si è riscontrata una maggiore dotazione in terpeni rispetto alle bovine alimentate in stalla con fieno e concentrato (35,4 vs 11,5 µg/kg). I terpeni isolati erano costituiti, in maniera similare per tutte le diete, per circa il 50% da α-pinene, per il 40% da p-menth-l-ene, e per la restante quota da limonene. I valori intermedi di terpeni, rilevati per effetto dell’integrazione al pascolo con concentrati, indicherebbero, in accordo con Fedele et al. (2000), come il concentrato, comportando un minore consumo di erba al pascolo, agisca diluendo nel formaggio il contenuto di tali composti, consentendo comunque di mantenere livelli superiori rispetto al formaggio ottenuto dalle bovine stabulate. Peraltro, il contenuto in terpeni nei formaggi ha mostrato, per tutte le diete, un andamento crescente nel corso della stagione di pascolamento, mostrando più elevati livelli in estate quando maggiore è l’incidenza di essenze aromatiche nel pascolo (figura); un aumento particolarmente evidente all’ultimo rilievo si è registrato per il formaggio prodotto dalle bovine che usufruivano del solo pascolo. A livello sensoriale, un panel di giudici ha potuto confermare,

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assaggiando i formaggi, la diversità tra i formaggi ottenuti dalle bovine alimentate esclusivamente al pascolo e quelli delle bovine stabulate (Bonanno et al., 2004ab). É risultato quindi evidente come l’alimentazione al pascolo, contribuendo al profilo aromatico del Caciocavallo, rivesta un ruolo fondamentale nella estrinsecazione delle specifiche caratteristiche di tipicità legate all’aroma. Occorre sottolineare, comunque, che, nel determinismo del profilo aromatico dei formaggi, contribuiscono fortemente le combinazioni tra le numerose molecole odorose originatesi, per lo più, da modificazioni avvenute durante i processi di caseificazione e maturazione. In questo, anche l’ambiente di lavorazione e conservazione del latte, nonché le tecnologie tradizionali di caseificazione influenzano il profilo aromatico del formaggio, e possono pertanto essere indicate come uno dei fattori di tipicità ed identità dei formaggi artigianali. Tuttavia, altri fattori possono giocare un ruolo determinante nel modulare tali modificazioni, non esclusa la composizione in composti volatili del latte di origine, a sua volta strettamente legata al regime alimentare e, in particolare, alla qualità e composizione botanica dell’erba pascolata. A conclusione di questa analisi, certamente non esaustiva, sugli effetti dell’alimentazione sulle caratteristiche dei prodotti caseari, si può senz’altro asserire che l’alimentazione a base di erba del pascolo degli animali, in stretta relazione con il territorio, può essere considerata, per il suo apporto in terpeni ed altre sostanze odorose, un fattore di diversificazione qualitativa del latte e dei suoi derivati, nonché uno degli elementi primari che contribuiscono a definirne la qualità aromatica. Essa costituisce, inoltre, uno strumento per arricchire il latte e i formaggi di sostanze che conferiscono loro utili proprietà nutraceutiche, oltre che migliorarne la conservabilità. Tabella: Contenuto in composti organici volatili (µg/kg) nel Caciocavallo Palermitano in funzione del

regime alimentare (Bonanno et al., 2004ab).

Pascolo naturale

Pascolo e concentrato (mais, fava e cruschello)

Pascolo e concentrato (orzo, cece e cruschello)

Fieno e concentrato

(favino e cruschello)

Acidi carbossilici 447,68 323,22 639,92 326,49 Alcoli 5389,37 3769,84 5415,59 7454,23 Aldeidi 184,82 214,58 191,45 234,68 Chetoni 467,43 520,43 570,09 570,16 Esteri 817,67 781,05 539,08 852,50 Idrocarburi 96,24 85,40 109,82 75,46 Composti solforati 28,65 43,38 41,09 36,76 Terpeni 35,37 21,93 27,64 11,48

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Figura: Variazione stagionale del contenuto in terpeni (µg/kg) nel Caciocavallo Palermitano in funzione del regime alimentare (Bonanno et al., 2004b).

5.2.7. Effetti della tecnica di trasformazione del latte (a cura di Adriana Bonanno)

La qualità organolettica e nutrizionale dei formaggi dipende certamente, come più volte puntualizzato, dalle condizioni nelle quali il latte è stato prodotto, quindi dall’ambiente, dalla razza animale e dall’alimentazione, che influenzano la qualità del latte, ma è anche fortemente influenzata dai parametri tecnologici, insiti nel processo di caseificazione fino alla stagionatura, che sottende maggiormente l’influenza dell’uomo. Le tecniche di trasformazione dei formaggi tipici siciliani, a carattere artigianale, sono effettivamente quelle originarie della tradizione casearia locale che si sono tramandate nel tempo. Tuttavia, i formaggi prodotti in aree diverse, pur provenendo da latte della stessa specie e da tecnologie di caseificazione simili, si presentano qualitativamente non omogenei, seppure nella maggior parte dei casi le differenze non sono sostanziali. Queste nascono, innanzitutto, dalle diverse zone di produzione, dove la qualità del latte di partenza risente dei tipi di pascolo e di foraggio, ma anche a causa della variabilità delle condizioni operative riscontrabili in ciascuna azienda. Tuttavia, nonostante tale variabilità, si possono individuare gli aspetti salienti del processo di lavorazione del latte che contribuiscono a conferire pregevoli caratteristiche organolettiche ai formaggi tipici siciliani, oltre che garantire la loro salubrità.

0

20

40

60

80

29 aprile 19 maggio 2 giugno 9 giugno

µg/kg

Pascolo Pascolo+mais e favaPascolo+orzo e cece Fieno e concentrato

0

20

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80

29 aprile 19 maggio 2 giugno 9 giugno

µg/kg

Pascolo Pascolo+mais e favaPascolo+orzo e cece Fieno e concentratoPascolo Pascolo+mais e favaPascolo+orzo e cece Fieno e concentrato

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5.2.7.1. La qualità igienico-sanitaria del latte (a cura di Adriana Bonanno)

Il latte contiene numerosi componenti utili per la nutrizione e la salute umana. Contiene proteine, che forniscono in quantità elevata tutti gli aminoacidi essenziali; grassi e colesterolo, sebbene quest’ultimo sia ritenuto responsabile di effetti negativi sulla salute umana; carboidrati come il lattosio; minerali, soprattutto calcio e fosforo in un rapporto ottimale, magnesio, zinco, rame e selenio; le vitamine liposolubili A, E e K; la vitamina C, l’acido folico e la riboflavina. Il latte, come pure il formaggio, è la fonte più importante di calcio, importante per lo sviluppo scheletrico dei bambini e degli adolescenti, ma anche nella prevenzione dell’osteoporosi negli anziani; l’assunzione con questi prodotti è certamente da preferirsi alla somministrazione farmacologica. I componenti del latte sono fondamentali nel processo di caseificazione. La trasformazione casearia in prodotti tradizionali siciliani avviene a partire dal latte intero crudo e, pertanto, la qualità dei prodotti caseari dipende dalla qualità del latte appena munto. La caseificazione richiede un latte di ottima qualità da un punto di vista chimico e microbiologico. I componenti chimici del latte utili ai fini caseari sono essenzialmente il grasso e le proteine. Il primo, veicolo di diversi composti salutistici che si ritrovano nei prodotti caseari, dipende fortemente dall’alimentazione, ed è favorito dalla componente fibrosa della razione. L’alimentazione influenza anche la composizione acidica del grasso del latte, responsabile del sapore, dell’aroma e della consistenza dei formaggi. Le proteine sono influenzate dalla razza, soprattutto per quanto riguarda l’incidenza nelle diverse frazioni e varianti caseiniche, diretta espressione del patrimonio genetico dell’animale, e in minore misura dall’alimentazione. L’attitudine del latte alla trasformazione casearia, tuttavia, non dipende solo da questi componenti, ma è una sorta di indice sintetico alla cui formazione concorrono numerose proprietà del latte di natura diversa; associate alle già richiamate proprietà chimiche, date dal contenuto in grasso e proteine che agiscono positivamente sull’attitudine casearia, e a quelle aromatiche, essenziali per la tipicità dei prodotti, vi concorrono fortemente anche i parametri della qualità igienico-sanitaria. Nel suo complesso, la qualità igienica e sanitaria del latte dipende dall’assenza di agenti chimici, fisici o biologici in grado di provocare danni alla salute del consumatore o di alterare la qualità organolettica dei prodotti. La presenza di contaminanti nocivi, quali aflatossine, fitofarmaci, pesticidi, metalli pesanti come mercurio, piombo e cadmio, dipende dall’alimentazione e dall’ambiente. Tralasciando le aflatossine, di cui si è già trattato, i fitofarmaci e i pesticidi comprendono un consistente numero di sostanza chimiche usate nelle diverse fasi del processo di produzione degli alimenti zootecnici. Essi, insieme ai metalli pesanti, costituiscono una reale fonte di pericolo per gli effetti tossici conseguenti al loro consumo da parte di animali destinati alla produzione di alimenti e, pertanto, i limiti di presenza nei mangimi sono regolamentati a norma di legge. Il latte ed i suoi derivati

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costituiscono una delle fonti principali di assunzione di contaminanti nocivi da parte dell’uomo (Nudda et al., 2001), rischio che tuttavia è notevolmente contenuto quando gli animali vengono allevati su pascoli naturali dislocati in aree lontane da quelle dove si praticano le coltivazioni e hanno sede le attività industriali. Un ulteriore rischio è dato dai residui nel latte di farmaci animali, tra cui antibiotici e sulfamidici, di antiparassitari, ormoni, detergenti e disinfestanti. In particolare, la presenza di residui di antibiotici e sulfamidici nel latte può comportare nei consumatori problemi di ordine tossicologico con l’insorgenza di fenomeni allergici. Da un punto di vista tecnologico la loro presenza, insieme a quella di detergenti e disinfestanti, agisce inibendo e alterando il metabolismo e l’attività dei fermenti lattici caseari; ciò influenza lo svolgimento della caseificazione del latte in quanto altera l’andamento della coagulazione, delle fermentazioni e della stagionatura, con ovvi riflessi negativi sulla qualità dei prodotti caseari (Aureli et al., 1997). La prevenzione si basa sul rispetto dei tempi di sospensione del farmaco, sull’allontanamento del latte degli animali trattati con antibiotici o sulfamidici e sulla massima attenzione nell’uso di detergenti e disinfestanti per la pulizia dell’impianto di mungitura e dei locali (ARAS, 2001). Alcuni parametri citologici del latte, come le cellule somatiche e la carica batterica, sono stati ormai assunti ad indici della qualità igienica del latte, ed un loro elevato contenuto influenza negativamente l’attitudine casearia del latte. Le cellule somatiche sono costituite da leucociti e cellule di sfaldamento dell’epitelio ghiandolare della mammella. La presenza dei leucociti è causata da processi infiammatori della mammella sostenuti da batteri, che sfociano in mastiti, mentre quella delle cellule di sfaldamento è data da processi degenerativi del tessuto secretorio, che sono più intensi a fine lattazione o nelle bovine in età avanzata. In linea di massima, la concentrazione di cellule somatiche è indice della sanità della mammella, e un valore elevato è da mettere in relazione ad uno stato mastitico. Difatti, la conta delle cellule somatiche viene usata ampiamente per monitorare, mediante diversi test, la salute della mammella e la qualità del latte. Gli effetti di un elevato numero di cellule somatiche connesse alla mastite si evidenziano nelle modificazioni che subentrano nella composizione del latte (aumento di sieroproteine e pH, riduzione di lattosio, calcio e magnesio) e nel processo di caseificazione (coagulazione lenta, coagulo poco consistente, ritenzione di siero), che determinano una minore resa in formaggio, difficoltà alla stagionatura e alterazioni nella struttura e nelle caratteristiche organolettiche della pasta del formaggio (ARAS, 2001). Ad un aumento delle cellule somatiche si riduce nel latte l’attività inibente del plasminogeno sulla plasmina, che quindi aumenta la sua attività. La plasmina è un enzima endogeno presente nel latte crudo, di derivazione ematica, che svolge un ruolo primario nel processo di idrolisi delle caseine (β-caseina, αs1-caseina, αs2-caseina) con formazione di γ-caseine e di proteoso-peptoni. L’aumento della plasmina è responsabile dell’alterazione dei processi di coagulazione del latte, della riduzione della resa casearia e di un peggioramento delle caratteristiche di qualità dei formaggi (Albenzio et al., 2004).

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Nel latte bovino il valore normale di cellule somatiche è di 200.000/ml, mentre si evidenziano già gli effetti negativi quando superano 400.000/ml. Per garantire, in ambito europeo, la qualità dei prodotti lattiero-caseari nel trasferimento dalle aziende di produzione ai consumatori, il Regolamento CE 853/2004 stabilisce, conformemente al DPR 54/97, un livello massimo di cellule somatiche nel solo latte bovino, che è pari a 400.000/ml. La ricerca ha ormai documentato che le differenze fisiologiche nella secrezione del latte tra bovine ed ovi-caprini non giustificano per questi ultimi i limiti usati per le cellule somatiche nei bovini. Per le bovine il principale fattore di innalzamento delle cellule somatiche sono le infezioni mammarie, sebbene concorrano anche cause stressanti. Di contro, per gli ovini e caprini gli alti livelli di cellule somatiche non sono sempre associati alla mastite, poiché anche mammelle sane possono normalmente dare latte con alti valori di cellule somatiche (Boyazoglu e Morand-Fehr, 2001). Infatti, campioni di latte ovino siciliano con valori di cellule somatiche superiori ad un milione per ml sono risultati negativi all’analisi batteriologica per l’isolamento di agenti mastidogeni (Scatassa et al., 2004a). Sebbene non sia ancora dimostrato, negli ovini e nei caprini sembrano entrare in gioco altre cause non patologiche, tra cui fattori stressanti al pascolo, dati da un eccessivo carico di animali (Bonanno et al., 2005c) o da condizioni termiche elevate (Bonanno et al., 2005d), l’ordine di parto e lo stadio di lattazione. Sembra anche che l’estro e la mungitura manuale, rispetto a quella meccanica, possano elevare le cellule somatiche, ma gli studi in tal senso non hanno dato conferme. Gli studi sugli effetti delle cellule somatiche sulla produttività e sulla qualità del latte e dei formaggi ovi-caprini non hanno riscontrato in genere marcati effetti negativi, anche perché l’incidenza di mastiti cliniche e subcliniche in queste specie è di gran lunga inferiore rispetto alle bovine, e questo riduce anche il rischio di contaminazioni di antibiotici usati per i trattamenti. Le normative igienico-sanitarie, quindi, non stabiliscono alcun limite nel latte ovino e caprino, per il quale comunque si ritiene accettabile un livello massimo di 1.000.000/ml (Haenlein e Hinckley, 1995). Le misure preventive nei confronti di una eccessiva concentrazione di cellule somatiche nel latte sono le stesse da mettere in atto nei confronti della mastite, soprattutto nel caso delle bovine. La massima attenzione deve essere data, da parte dell’allevatore-casaro, come già evidenziato, al sistema di stabulazione, che deve garantire agli animali condizioni di benessere, pulizia e buono stato di salute; al normale funzionamento dell’impianto di mungitura ed alla corretta tecnica di mungitura, che devono preservare gli animali dall’insorgenza di mastiti; ad un regime alimentare equilibrato in nutrienti, senza bruschi cambiamenti e con alimenti sani e ben conservati. La qualità microbiologica del latte è legata alle eventuali contaminazioni che avvengono durante la mungitura, la conservazione e la trasformazione, e quindi alle condizioni igienico-sanitarie degli animali, dei locali di mungitura e trasformazione e degli utensili utilizzati; essa è data dalla presenza dei microrganismi che si sviluppano naturalmente nel latte, i lattobacilli, che rappresentano la microflora filocasearia che

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svolge azioni utili per la caseificazione, e dall’assenza di germi contaminanti presenti nell’ambiente e di quelli patogeni per l’uomo, quindi pericolosi per la salute umana. La carica batterica totale indica il contenuto di microrganismi vivi presenti nel latte, ed è un buon indicatore della contaminazione microbica ambientale avvenuta durante le fasi di mungitura, di raccolta e conservazione del latte, di cui è responsabile l’allevatore. La causa più importante dell’aumento della carica batterica nel latte è la contaminazione dall’ambiente, sebbene essa sia ascrivibile anche ad errori alimentari, quali eccesso proteico e/o carenza fibrosa, che innescano nel rumine fermentazioni anomale cui consegue l’emissione nell’ambiente di feci contaminanti per la presenza di coliformi. Il latte bovino di buona qualità igienica contiene 20.000 germi/ml, ovvero ufc/ml, al massimo 500.000 ufc/ml, benchè il latte proveniente da animali sani ne possa contenere anche solo 5.000 ufc/ml. Un latte ovino di buona qualità dovrebbe avere un numero di germi non superiore a 100.000 ufc/ml. Tuttavia, in condizioni sporche di allevamento e di mungitura, il valore può elevarsi a numerosi milioni di germi per ml. Il Regolamento CE 853/2004, in analogia al precedente DPR 54/97, stabilisce limiti massimi di carica batterica di 100.000 ufc/ml a 30 °C per il latte bovino destinato alla produzione di latte alimentare e formaggi, che deve inoltre provenire da animali indenni da tubercolosi e brucellosi, a meno che non sia destinato alla produzione di formaggi con stagionatura superiore ai 60 giorni. Per il latte degli ovini e dei caprini, tale limite si eleva a 500.000 ufc/ml per la fabbricazione di formaggi da latte crudo, e a 1.500.000 ufc/ml per la fabbricazione di formaggi da latte pastorizzato e di formaggi con più di 60 giorni di stagionatura; gli animali devono essere indenni da brucellosi, a meno che il latte non sia destinato alla produzione di formaggi con stagionatura superiore ai 60 giorni. Gli effetti di un’elevata carica batterica del latte si ravvedono sul peggioramento delle caratteristiche tecnologiche e organolettiche dei formaggi, riconducibile al ridotto sviluppo dei batteri lattici utili; nei formaggi si instaurano fermentazioni anomale che danno luogo a gonfiore e ad alterazioni del colore e del sapore (ARAS, 2001). Il controllo della carica batterica si raggiunge preservando il latte dalle contaminazioni ambientali, quindi osservando una perfetta pulizia delle strutture di allevamento, della lettiera e degli animali, in particolare della mammella; curando l’igiene nelle operazioni di mungitura, attraverso gli abiti e le mani degli addetti, il lavaggio della mammella, l’eliminazione dei primi getti di latte, la pulizia della mungitrice, dei recipienti di raccolta e refrigerazione del latte e comunque di tutte le attrezzature che vanno a contatto del latte, l’uso e la frequente sostituzione dei filtri per la filtrazione del latte. È consigliabile, inoltre, evitare la distribuzione di alimenti durante la mungitura. Importantissimo, per mantenere la qualità batteriologica del latte, è conservare il latte a basse temperature entro vasche refrigeranti in acciao inox, materiale che non rilascia contaminanti, in conformità alle disposizioni delle normative igienico sanitarie, soprattutto nel caso in cui non si caseifichi tutti i giorni o si caseifichi una sola volta al giorno, per cui è necessario stoccare il latte della precedente mungitura. Una recente

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indagine svolta su un campione di aziende siciliane ha permesso di evidenziare come nel 70% dei casi la modalità di conservazione del latte avviene entro vasca refrigerante, negli altri casi si utilizzano bidoni posti in luogo fresco o immersi in acqua fresca (ARAS, 2001). La mancata o non corretta refrigerazione del latte, già subito dopo la mungitura, comporta l’aumento della carica batterica, quindi il proliferare di microrganismi che, fermentando il lattosio, comportano la riduzione del pH, e quindi l’aumento dell’acidità del latte. Valori ottimali di pH sono 6,70-6,60, mentre valori inferiori pari a 6,55-6,45 indicano una carica batterica in aumento che raggiunge livelli elevati quando il pH è di 6,45-6,30. Un’eccessiva acidità del latte riduce la resa casearia e comporta la produzione di formaggi di qualità scadente, con gessature, screpolature o addirittura spaccature, e insorgenza di gonfiore precoce. La refrigerazione del latte deve quindi avvenire in vasche refrigeranti pulite e regolate alla temperatura idonea. Il latte bovino si può conservare a 4°C per non più di 48 ore, mentre il latte ovino per non più di 72 ore alla stessa temperatura. Inoltre, per mettere in atto eventuali interventi correttivi, è importante misurare sempre il pH del latte prima della caseificazione: se basso è consigliabile rompere la cagliata in granuli più piccoli; se è inferiore a 6,45, è bene anche aumentare la temperatura dell’acqua nella fase di rottura della cagliata o in quella di maturazione sotto scotta per creare un effetto “pastorizzazione” che distrugge buona parte dei batteri (ARAS, 2001). Dall’entrata in vigore del DPR 54/97 in Italia, le condizioni igieniche di produzione e quindi la qualità igienico-sanitaria del latte prodotto in Sicilia ha subito un trend evolutivo indubbiamente positivo, che dà chiara indicazione della tendenza all’adeguamento alle nuove normative in vigore ed ai cambiamenti richiesti in ambito commerciale. Questo aspetto risulta con evidenza dai dati raccolti nella tabella, relativi ai parametri igienico sanitari del latte ovino rilevati nel corso di indagini svolte presso allevamenti siciliani in tempi diversi, nel 1998, subito dopo l’entrata in vigore del DPR 54/97 (Truscelli, 1998) e dopo un quinquennio, nel 2003 (Scatassa et al., 2004b). Le aziende con tenore in cellule somatiche inferiori a 1,5 milioni erano il 52% nel 1998 e sono salite al 62% nel 2003; nonostante questo miglioramento, tali dati confermano gli elevati tenori in cellule somatiche che caratterizzano la specie ovina. Per quanto riguarda la carica batterica, le diverse classi di distribuzione utilizzate nelle due indagini non rende facile il confronto; tuttavia si può evidenziare come nel 2003 il 74% delle aziende rientri nei limiti di legge fissati per il tenore in germi nel latte ovino, ed in particolare il 52% ha conseguito i valori previsti per il latte destinato alla trasformazione in prodotti da “latte crudo” (< 500.000 ufc/ml).

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Tabella: Distribuzione di allevamenti ovini siciliani in base ai valori dei parametri igienico-sanitari del latte rilevati nel 1998 (Truscelli, 1998) e nel 2003 (Scatassa et al., 2004b).

1998

2003

Aziende 202 289

Cellule somatiche

< 1.500.000/ml 52 62

> 1.500.000/ml 48 36

Carica batterica

< 500.000 ufc/ml 52

500.000-1.500.000 ufc/ml

22

> 1.500.000 ufc/ml 26

< 1.000.000 ufc/ml 60

> 1.000.000 ufc/ml 40

La contaminazione microbiologica del latte può avvenire anche ad opera di microrganismi dannosi per la maturazione dei formaggi, responsabili di fermentazioni anomale, gonfiori precoci e tardivi, occhiature eccessive, colorazioni anomale e sapori sgradevoli. Tra questi vi sono i Coliformi, per lo più di provenienza fecale, responsabili del gonfiore precoce, ed i Clostridi, causa di gonfiore tardivo e di caratteri organolettici sgradevoli se presenti nel latte a livelli superiori alle 400 spore/ml. La presenza dei Clostridi, come già accennato, è legata spesso all’uso di alimenti contaminati come gli insilati di cattiva qualità che, a seguito di fermentazioni anomale di tipo butirrico, si arricchiscono di spore clostridiche; queste, eliminate con le feci, contaminano l’ambiente ed eventualmente il latte. Nel latte di animali mastitici si possono riscontrare Streptococchi e Stafilococchi, che sono pure responsabili dell’alterazione della pasta dei formaggi. Lo Stafilococcus aureus è un agente patogeno di potenziale pericolosità per la salute umana, anche per la sua capacità di produrre una tossina resistente al calore. Le normative igienico-sanitarie prevedono il controllo della presenza del batterio per il solo latte bovino destinato alla fabbricazione di prodotti a latte crudo che non vengono stagionati per oltre 60 giorni. Tuttavia, la tecnica di caseificazione dei formaggi siciliani e della ricotta prevede trattamenti ad elevate temperature che contribuiscono alla distruzione del germe. Il controllo di tali agenti batterici si raggiunge garantendo agli animali un adeguato benessere ed un’alimentazione sana e bilanciata, e mettendo in atto misure di profilassi per preservare gli animali dall’insorgenza di mastiti. Infine, il latte può veicolare agenti di patologie per l’uomo, quali Salmonellosi, Listeriosi, Brucellosi,

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Campylobacteriosi e Tubercolosi, la cui assenza garantisce la qualità sanitaria del latte. L’igienicità e la sanità del latte da un punto di vista microbiologico permette lo sviluppo dei batteri filocaseari che consentono il buon andamento del processo di trasformazione e innescano i processi proteolitici e lipolitici che avvengono durante la stagionatura, conferendo buone caratteristiche organolettiche in termini di consistenza della pasta, aroma e sapore. Pertanto, a conforto e sicurezza del consumatore, occorre tenere presente che i parametri di qualità igienico-sanitaria del latte rappresentano degli indici di accettabilità del latte per la trasformazione e, in egual misura, di sicurezza per i consumatori (Boyazoglu e Morand-Fehr, 2001). Ciò significa che un formaggio di buone caratteristiche organolettiche è di per sé una garanzia del fatto che esso sia stato ottenuto da un latte igienico e sano, e non può costituire un rischio per la salute dei consumatori. A questo proposito, occorre rimarcare come le condizioni igienico-sanitarie dei caseifici artigianali siciliani si presentavano soddisfacenti già nel 1998 subito dopo l’entrata in vigore del DPR 54/97, quando un’indagine condotta sui prodotti caseari (tuma, primosale e ricotta) prelevati da una decina di caseifici aziendali ha permesso di rilevare, oltre alla totale assenza di alterazioni organolettiche, anche la assoluta mancanza di germi conseguenti a cattive condizioni igieniche, quali Stafilococcus aureus ed Escherichia coli, e di agenti patogeni per l’uomo, quali Listeria monocytogenes e Salmonelle spp. (Di Noto et al, 1998).

5.2.7.2. L’impiego di latte crudo e la microflora naturale (a cura di Adriana Bonanno)

In generale, i formaggi sono prodotti utilizzando latte crudo, latte termizzato (60°C per 15 secondi) o latte pastorizzato (60°C per 20 minuti). I trattamenti termici aumentano la soglia di sicurezza dei formaggi, prevengono la formazione di anomalie ma distruggono la microflora naturale del latte che è responsabile dell’aroma del formaggio. Pertanto, i formaggi prodotti da latte trattato termicamente presentano una componente aromatica meno spiccata, poco gradita da certe fasce di consumatori. I formaggi tipici siciliani vengono prodotti quasi esclusivamente dalla trasformazione del latte intero crudo, che non viene quindi sottoposto a trattamenti termici per ridurre la carica microbica totale, o a scrematura per ridurre il tenore in grasso. Da una recente indagine condotta su un campione di aziende siciliane (ARAS, 2001), è emerso che l’88,5 % dei produttori di formaggi tipici non effettua alcun trattamento termico del latte prima della caseificazione. Il latte è raramente termizzato, e questo consente il mantenimento di tutte le proprietà intrinseche del latte, senza intaccare i componenti nutrizionali, ma soprattutto il mantenimento della flora batterica naturale del latte crudo derivante dall’ambiente che, successivamente fortificata e arricchita dalla flora microbica degli attrezzi di legno usati per la caseificazione e dei locali

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naturali di stagionatura, consente le trasformazioni biochimiche che avvengono durante la caseificazione e la stagionatura dei formaggi. Nell’ambito specifico degli aspetti tecnologici, è ben nota l’influenza della microflora naturale del latte sulla qualità sensoriale dei formaggi. Infatti, i formaggi prodotti da latte crudo stagionano più rapidamente e mostrano un diverso e più intenso “flavour” e una diversa struttura rispetto ai formaggi ottenuti da latte pastorizzato (Grappin e Beuvier, 1997; Buchin et al., 1998). A livello industriale, la pastorizzazione è tuttavia ampiamente praticata per correggere le carenze igieniche del latte, causa di gravi alterazioni nei formaggi stagionati. Essa agisce abbattendo la naturale flora microbica del latte, dando così origine a formaggi dall’aroma e dal sapore appiattiti che risultano fortemente dequalificati sul mercato. È ormai riconosciuto che lo sviluppo della microflora filocasearia è favorito dall’uso di latte crudo, substrato di una microflora naturale, unitamente alle condizioni microambientali dei locali di lavorazione, all’impiego di attrezzature ed utensili da lavoro in legno, a locali specifici di stagionatura che apportano la microflora naturale il cui sviluppo assicura al prodotto particolarità e specificità, oltre che igienicità. L’impiego del latte crudo pone le produzioni casearie siciliane e palermitane tra i formaggi con particolari caratteristiche di struttura e aroma legate alla zona di produzione. Il mantenimento della flora microbica naturale del latte crudo rappresenta, infatti, un elemento di specificità importante per i formaggi siciliani. Le tecniche di caseificazione di questi formaggi antichi sono ancora in grado di fornire un serbatoio incontaminato di biodiversità microbica. Tale microflora autoctona testimonia una condizione microambientale che garantisce uno specifico equilibrio microbico e di conseguenza un corredo enzimatico che contribuisce allo sviluppo di caratteristiche aromatiche e organolettiche spesso uniche e fortemente connesse al prodotto stesso. Ovviamente, questo sottende un forte impegno da parte dei produttori, che devono garantire i requisiti di igienicità del latte facendo leva su tutte le fasi del processo produttivo, come precedentemente sottolineato. In questo senso, nei caseifici aziendali siciliani si riscontrano, nel complesso, buone condizioni igieniche e accettabilità nei locali di lavorazione del latte e di stagionatura (ARAS, 2001).

5.2.7.3. Il caglio naturale artigianale (a cura di Adriana Bonanno)

Una fase importante del processo di caseificazione è la coagulazione della caseina del latte, operata da un agente specifico, il cosiddetto “caglio”. Sin dai tempi antichi, la coagulazione del latte veniva provocata utilizzando estratti dallo stomaco degli animali o da alcuni vegetali. Nel processo di produzione dei formaggi tipici siciliani viene impiegato caglio naturale in pasta che è un estratto di origine animale ottenuto artigianalmente dall’abomaso dei ruminanti lattanti, soprattutto di agnello ma anche di capretto, determinante per la formazione delle caratteristiche del formaggio. Il caglio naturale, proprio perché ottenuto da ruminanti lattanti, contiene un complesso di enzimi attivi per la degradazione dei componenti del latte, quali quelli lipolitici e

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proteolitici. I primi sono costituiti dalle lipasi, responsabili della idrolisi dei trigliceridi del grasso che porta alla formazione di acidi grassi liberi che determinano le caratteristiche organolettiche del formaggio, in termini di odore e sapore. Solo il caglio in pasta contiene lipasi, perché il processo di estrazione del caglio liquido la disattiva. Gli enzimi proteolitici sono chimasi e pepsina che provocano la coagulazione della caseina e la degradazione proteica durante la maturazione. La diversa combinazione dei risultati delle molteplici attività enzimatiche presenti nella cagliata, che agiscono promuovendo la degradazione di zuccheri, grasso e proteine, è quella che in definitva determina la riconoscibilità di un formaggio (Addeo, 1997). Il caglio in pasta impiegato nella maggior parte delle produzioni casearie tipiche siciliane si ottiene da abomasi di agnelli allattanti, più raramente capretti; la modalità di preparazione è del tutto empirica e fa riferimento ad antiche tradizioni. La tecnica di preparazione, quasi sempre artigianale, varia in relazione al produttore. Lo schema prevede la breve asciugatura all’aria degli abomasi che, successivamente, vengono stratificati con sale in contenitori che consentono il drenaggio del liquido che fuoriesce. Si passa alla stagionatura, sempre sottosale, per almeno 60 giorni. La pasta viene preparata eliminando o meno la parete abomasale e il grasso esterno e triturando quindi l’abomaso integro o solo il suo contenuto. Si omogeinizza la pasta, aggiungendovi il 15% circa di sale, e si conserva a bassa temperatura. Per l’impiego, la giusta dose di caglio si stempera in acqua o in latte tiepidi, la soluzione si filtra per evitare che nessuna particella di abomaso passi nel latte, così da usare come agente coagulante solo le gemme, e si aggiunge direttamente al latte (CNR, 1992). Il caglio così ottenuto non ha titolo noto, e quindi non si conosce il potere coagulante, cosicché la forza del caglio è saggiata mediante prove di coagulazione. Il dosaggio è fatto ad occhio quasi nell’80% dei casi, escludendo quindi l’uso della bilancia che è invece raccomandabile. Non sempre, infatti, il casaro riesce a modulare, in base alla forza coagulante, la quantità di caglio impiegata, per cui il tempo di presa e di indurimento diventa variabile. Il titolo e la quantità variabili determinano differenze nel patrimonio enzimatico che si riflettono sull’andamento dei processi chimici durante le fasi di lavorazione e di maturazione del formaggio e determinano, di conseguenza, le variazioni sensoriali che si riscontrano nei formaggi artigianali. Il caglio, in certi casi, può rappresentare una fonte di contaminazione del formaggio. Le conseguenze di un caglio inquinato o alterato si ravvedono, ovviamente, sulla qualità organolettica del formaggio, che può mostrare gonfiore precoce o tardivo, una bassa consistenza della pasta, sfogliatura più o meno accentuata, occhiature diffuse e screpolature. Per evitare tali inconvenienti, è bene porre la massima cura nella preparazione del caglio, e far eseguire controlli microbiologici per la ricerca di batteri inquinanti. Non è mai consigliato usare il caglio prima dei tre mesi e dopo un anno dalla preparazione. Infine, anche per ridurre la variabilità qualitativa dei prodotti caseari, è importante titolare e dosare il caglio con precisione.

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5.2.7.4. Le attrezzature storiche tradizionali (a cura di Adriana Bonanno)

Le produzioni casearie storiche fabbricate artigianalmente godono della deroga al DPR 54/97 che ha consentito l’utilizzo delle attrezzatura e degli utensili tradizionali in legno o giunco. Questi, che apportano una microflora lattica naturale, ne arricchiscono adeguatamente il latte; tale concentrazione di microrganismi filocaseari autoctoni che si viene a creare risulta essenziale per il processo di trasformazione e per la successiva maturazione dei formaggi e inoltre, opponendosi ai batteri anticaseari e patogeni, costituisce un’ulteriore garanzia di qualità microbiologica dei prodotti caseari. In particolare, nella lavorazione dei formaggi storici siciliani, i recipienti, le attrezzature e gli arnesi in legno usati vengono sempre risciacquati con la scotta; tale consuetudine favorisce lo sviluppo di una microflora caratteristica la quale, partecipando attivamente al processo di maturazione, costituisce un ulteriore fattore di tipicità dei formaggi siciliani.

5.2.7.5. Le fasi di lavorazione (a cura di Adriana Bonanno)

Le fasi di lavorazione dei formaggi tipici siciliani, proprio perché svolte artigianalmente a livello della singola azienda, presentano, anche per la stessa tipologia di prodotto, aspetti di differenziazione che sono causa di una certa variabilità che è facile riscontrare nell’aspetto e nelle caratteriche qualitative del prodotto finito (ARAS, 1986; CNR, 1992) ma che, come per qualsiasi altro prodotto artigianale, possono, entro certi limiti, essere considerate come una componente della loro specificità. Un fattore di variabilità nella lavorazione è la dimensione dei granuli caseari dopo la rottura della cagliata. La rottura molto spinta facilita lo spurgo della cagliata; a questa si accompagna la perdita dei componenti, grasso, proteine e lattosio, nel siero, provocando la riduzione della resa e l’ottenimento di una pasta più compatta. Le ripercussioni sono anche sulle caratteristiche organolettiche del formaggio, in quanto la modalità di rottura induce variazioni notevoli sul substrato di azione dei vari sistemi enzimatici, di origine microbica e del presame, che inducono la maturazione del formaggio. Altri aspetti da standardizzare opportunamente, nell’ambito della tecnica di trasformazione del Pecorino e del Canestrato, sono la quantità e la temperatura dell’acqua aggiunta durante la rottura della cagliata che influiscono anch’esse sulle caratteristiche organolettiche dei formaggi. L’elevata temperatura dell’acqua determina quasi uno shock termico che provoca la veloce disidratazione della pellicola esterna dei grumi caseosi bloccando l’ulteriore spurgo della cagliata; questo da un lato limita le perdite di lattosio nel siero, dall’altro provoca, nella fase liquida del granulo della cagliata, lo svilupparsi di un microambiente di fermentazione dove la flora microbica naturale, tipica dell’ambiente di produzione, opera una lenta trasformazione che porta a quei composti responsabili della formazione di gusto e aroma.

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Nel caso della lavorazione delle paste filate, come il Caciocavallo Palermitano, la fermentazione lattica della cagliata (periodo di maturazione) avviene con una modalità del tutto diversa da quella di altre paste filate. Infatti, essa viene condotta sotto scotta calda, che residua dalla lavorazione della ricotta. Tale modalità comporta due conseguenze: la prima è una forma di pastorizzazione ottenuta con il brusco rialzo termico subito dalla pasta all’aggiunta della scotta a circa 80°C di temperatura, che determina delle caratteristiche organolettiche del prodotto piuttosto stabili e uniformi; la seconda è una fermentazione lattica favorita dal siero-innesto presente nella scotta in condizioni del tutto particolari. Tale siero-innesto, naturale e specifico in quanto dipendente dall’ambiente di produzione, è rappresentato dall’agra, ossia dalla scotta residua dalla lavorazione della ricotta lasciata inacidire e continuamente rinnovata con l’aggiunta di scotta fresca al posto di quella utilizzata. Il nome stesso indica la sua tipica acidità, che si assesta su valori di pH di 3,7–4,0 (ARAS, 1986). L’agra viene aggiunta al siero per favorire la flocculazione delle sieroproteine nel processo di produzione della ricotta, e pertanto è contenuta nella scotta entro cui viene immersa la cagliata per la maturazione. Inoltre, la degradazione dell’acido lattico innescata dall’agra avviene essenzialmente sotto scotta (prova ne sia che il pH non si abbassa di molto durante la fase di asciugatura della pasta all’aria) e ad opera dei batteri lattici termoresistenti che si selezionano durante la fase di immersione della pasta nella scotta. Infine, l’uso di scotta a 75°C per effettuare la filatura permette di eliminare o ridurre fortemente il gonfiore precoce dei formaggi. Tuttavia, sia per i formaggi a pasta filata che per quelli a pasta pressata, la temperatura della scotta e il tempo di immersione delle forme sotto scotta è un altro fattore di diversificazione che rende di fatto estremamente variabile l’effetto di pastorizzazione indotto dalla scotta sulla pasta, che provoca così una differente selezione della microflora e risulta molte volte insufficiente ad impedire la proliferazione di germi anticaseari responsabili di numerosi difetti. Questo provoca anche variazioni del tenore di umidità della pasta che, unitamente a quella delle dimensioni e del peso del prodotto e alle modalità empiriche della salatura, inducono con ogni probabilità ad un diverso coefficiente di penetrazione del sale nelle forme. Ciò determina variazioni nell’azione inibitrice del sale sulla microflora presente e modificazioni nel gusto del prodotto. Un ultimo aspetto sottoposto a forte variabilità è la dimensione e il peso delle forme. La produzione di formaggi tipici avviene a livello artigianale in azienda. Questo comporta, per uno specifico prodotto, la mancanza di standardizzazione, sebbene a vantaggio della buona qualità e delle caratteristiche organolettiche. Tuttavia, la pezzatura non costante delle forme non favorisce l’immagine unica e riconoscibile del prodotto sul mercato. Essa si riflette anche sulle peculiarità organolettiche dei prodotti, soprattutto condizionando i tempi di penetrazione e diffusione del sale nella pasta, che aumenta nelle maggiori dimensioni. Anche il contenuto in cloruro di sodio presenta un’ampia variabilità, dovuta alle diverse modalità con cui viene eseguita la salatura in merito alla concentrazione della salamoia, alla quantità di sale distribuita con la salatura a secco, ai tempi e alla durata

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della salatura. La presenza del sale interferisce con l’andamento delle fermentazioni della microflora lattica, e quindi influenza le caratteristiche organolettiche nella misura in cui conduce ad un andamento variabile della maturazione lipidica ed azotata dei formaggi. Il sale inibisce, inoltre, la microflora anticasearia, impedendo lo sviluppo di fermentazioni anomale, e quindi favorendo la conservabilità del prodotto. Tuttavia, un eccesso di sale assorbito dalla pasta, pur bloccando le fermentazioni anomale, influenza il gusto, che diventa più sapido e piccante. L’uso di sale in eccesso o inquinato, o di salamoie vecchie e inquinate, o anche una salatura insufficiente sono tutte condizioni che comportano alterazioni del colore e delle caratteristiche sensoriali del formaggio. Nel caso delle salamoie, occorre un frequente rinnovo; nel caso del sale, occorre definirne i quantitativi ottimali in base alla pezzatura del formaggio. Sono molti ancora i casari che, come quelli del passato, non effettuano un controllo dei tempi e delle temperature durante le varie fasi della lavorazione dei formaggi tradizionali, che invece si susseguono empiricamente, basate esclusivamente sull’esperienza individuale acquisita nel tempo. Di contro, occorre sottolineare come l’uso di termometro, pHmetro e acidometro si vada sempre più diffondendo nei caseifici aziendali, con il vantaggio di ridurre la variabilità delle caratteristiche del formaggio. Il controllo dei tempi, delle temperature e delle variazioni di pH consente di attenersi a valori ottimali, che è opportuno fissare non solo a livello di azienda ma anche in appositi disciplinari.

5.2.7.6. La stagionatura (a cura di Adriana Bonanno)

La stagionatura è una fase importante della produzione del formaggio. La maturazione del formaggio è il risultato di vari fenomeni fisici e chimici che agiscono sulla cagliata e che condizionano, oltre la tessitura della pasta e l’aspetto esteriore della forma, anche e soprattutto l’aroma e il gusto del formaggio. Durante la fase di maturazione del formaggio si attivano intensi processi enzimatici a carico del grasso, delle proteine e del lattosio, la cui degradazione contribuisce alla formazione dei composti aromatici. Gli enzimi degradano i substrati specifici producendo sostanze più semplici a più basso peso molecolare che si possono ritrovare integri nel prodotto finito o possono essere ulteriormente rielaborati e trasformati in altri prodotti. Gli enzimi responsabili della maturazione arrivano nella cagliata per diverse vie. Oltre agli enzimi costitutivi del latte vi sono quelli coagulanti del caglio; a questi si aggiungono gli enzimi eventualmente rilasciati dalla microflora dell’innesto, se usato, e dalla microflora proveniente dalle attrezzature e dall’ambiente di lavorazione e conservazione (Alais, 1984). Pertanto i locali di stagionatura assumono una grande importanza, in quanto esercitano una notevole influenza sulle caratteristiche organolettiche dei formaggi. Essi devono avere condizioni ambientali ottimali in termini di umidità, temperatura e ventilazione, oltre che di igienicità, per favorire i processi di maturazione dei formaggi e prevenire l’insorgenza di un andamenti maturativi anomali. A tale proposito è ancora

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frequente l’uso di locali di stagionatura naturali, come le grotte, con pareti geologicamente naturali, e le cantine o anche celle climatiche, dove i ripiani di sosta dei formaggi sono per lo più in legno e viene garantito un ambiente fresco, ventilato, umido ed igienico. Tale ambiente naturale influenza in maniera decisiva la maturazione della crosta ed i processi enzimatici ad opera della flora microbica o derivanti dal latte. Anche i tempi e le condizioni di conservazione del prodotto risultano molto variabili tra i produttori, tanto da richiedere anche in questo caso l’opportunità di una standardizzazione dei tempi, della temperatura e dell’umidità relativa dei locali.

5.3. Valutazione nutrizionale dietetica del gruppo alimentare (a cura di Carlo Cannella e Giuseppina Colicci)

Il latte è un alimento completo perché contiene tutti i nutrienti necessari, ossia acqua, proteine, grassi, zuccheri (lattosio), vitamine e minerali . E’ la principale fonte di calcio per l’alimentazione umana. Il latte, tranne che per i neonati, non è un alimento completo ma è quello che si avvicina di più a questa definizione, poiché è ricco di proteine, calcio, alcune vitamine importanti, lipidi e glucidi. Un'alimentazione completa di deve basare sul latte ma anche su verdure, legumi, pane e frutta. Esso, infatti, contiene, in quantità proporzionalmente ottimali, tutti i prinicipali elementi nutritivi indispensabili all'organismo umano: � glucidi (4,8 %), rappresentati pricipalmente dal lattosio; � lipidi (3,5 %), rappresentati da trigligeridi e da altri lipidi (es. fosfolipidi) . I grassi del

latte, sottoposto ad omogeneizzazione, sono facilmente digeribili, in quanto le loro particelle sono molto piccole;

� protidi (3,5 %), rappresentati da caseina e sieroproteine. Le proteine contengono, in rapporti ottimali, tutti gli amminoacidi essenziali;

� sali minerali (1%) in particolare calcio e fosforo. Il latte è una fonte importante di calcio e di fosforo, anche questi in rapporti ottimali per l'assimilazione, utili nel periodo di accrescimento dei bambini o nei casi in cui è necessario aumentare l'assunzione di questi elementi (osteoporosi degli adulti).

� vitamine ( gruppo B, C, A, K, D e PP). Le concentrazioni dei nutrienti variano a seconda della specie animale di provenienza. Il lattosio, lo zucchero tipico del latte, può provocare disturbi digestivi e nutrizionali (intolleranza al latte) se, nell'intestino tenue, non è presente uno specifico enzima (lattasi) che lo demolisce in molecole più semplici. Oggi è disponibile il latte "delattosato", che non determina fenomeni di intolleranza. Oltre questo, in commercio si trovano alcuni latti destinati a consumatori con particolari esigenze (povero di sodio, arricchito con vitamine, con minerali, con acidi grassi omega 3 o altri nutrienti, ecc.). Il latte a basso contenuto di grassi (parzialmente o completamente scremato) non è meglio di quello intero perché il trattamento che lo rende magro danneggia le sostanze

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nutritive contenute nell’alimento naturale. Se possibile si dovrebbe consumare solo latte fresco e non pastorizzato. Per quanto riguarda lo yogurt, i suoi benefici sono noti da lungo tempo. Lo yogurt fornisce i batteri benefici che proteggono l´intestino da infezioni. Le proteine del latte hanno un valore biologico superiore e possono sostituire quelle della carne e del pesce. Nelle proteine del latte e dei suoi derivati sono presenti tutti gli aminoacidi essenziali, quelli che il nostro organismo non riesce a sintetizzare e devono essere quindi ingeriti attraverso gli alimenti. Inoltre il latte è la più preziosa fonte di calcio esistente in natura, e questi si trova in un rapporto ottimale di prevalenza con il fosforo, al contrario di quanto accade nella maggioranza degli alimenti. Oltre le tradizionali sulle confezioni si trovano informazioni sul contenuto nutrizionale del prodotto. Non si tratta d’indicazioni obbligatorie, ma sono riportate volontariamente dall'industria per fornire al consumatore ulteriori utili informazioni sulle caratteristiche nutrizionali del prodotto. Leggendole si può capire l'apporto energetico, e il contenuto in proteine, zuccheri e grassi. Indicazioni aggiuntive, relative a vitamine e alcuni sali minerali, come ad esempio il calcio, sono riportate se presenti in quantità significativa. I formaggi freschi contengono una maggiore percentuale di acqua e quindi hanno una minor quantità di nutrienti rispetto a quelli stagionati; il formaggio si ottiene per coagulazione del latte e successiva stagionatura durante la quale l’acqua viene sottratta grazie anche alla salatura e i lattobacilli lavorano consumando il lattosio, digerendo le proteine e liberando i prodotti del loro metabolismo che contribuiscono a costruire il valore organolettico del prodotto finito. Quindi non esistono formaggi magri ma i formaggi freschi (molli) e/o i latticini hanno un contenuto calorico meno elevato di quelli stagionati (duri) perché contengono più acqua ma sono meno saporiti! Le proteine dei formaggi hanno un elevato valore biologico al pari delle proteine di altri alimenti di origine animale; insignificante il contenuto in carboidrati (lattosio) che per esempio è del tutto assente nei formaggi a pasta filata o a lunga stagionatura. Il contenuto in grassi varia da circa il 18% nei formaggi freschi fino al 36% dei formaggi stagionati; i grassi dei formaggi contengono acidi grassi saturi a catena corta responsabili dell’aroma e del sapore tipico di ciascun formaggio. Di particolare interesse è il contenuto in calcio presente in una forma altamente biodisponibile che contribuisce in modo rilevante a soddisfare il fabbisogno del nostro organismo. Elevato è anche il contenuto di sodio che viene utilizzato, sotto forma di sale, nella preparazione dei formaggi; quindi chi soffre di ipertensione dovrebbe fare un uso discreto di formaggi specie di quelli stagionati e preferire la ricotta e/o i latticini. Le vitamine del gruppo B sono presenti in piccole quantità, mentre buona è la quantità di vitamina A. La ricotta non è un formaggio vero e proprio in quanto ottenuto dal siero eliminato nella fase di estrazione della cagliata durante la preparazione del formaggio. Il siero così ottenuto, contenente proteine (sieroproteine, particolarmente nutrienti), sali minerali ed una ridotta quantità di grasso, è sottoposto ad una ulteriore cottura (da cui il nome ricotta).

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5.4. Porzione di riferimento (a cura di Carlo Cannella e Giuseppina Colicci)

La porzione di riferimento (QB) corrisponde a 50 grammi di formaggio stagionato, mentre per il formaggio fresco si può arrivare a 100 grammi. Il valore energetico dei formaggi dipende dal contenuto di grasso ed è compreso tra circa 260 kcal di un formaggio fresco fino alle 400 kcal di alcuni formaggi stagionati.