3.2 Latto Cognitivo Come Atto Intenzionale

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3 PROPRIETÀ INTENZIONALE DELL'ATTO COGNITIVO. 3.2 L'ATTO COGNITIVO COME ATTO INTENZIONALE: REALISMO, RAPPRESENTAZIONISMO, NATURALISMO. Obiettivo di questo paragrafo è fare chiarezza sulla necessaria proprietà intenzionale dell'atto cognitivo. Contro ogni riduzione e/o naturalizzazione dell'atto intenzionale conveniamo nell'idea che, nonostante l'atto cognitivo nella sua complessità non possa fare a meno della componente sensibile quale sua propria componente intrinsecamente essenziale, l' operazione intellettiva dell'azione cognitiva sia, in ultima analisi, una operazione immanente immediata, il che significa che è una operazione spirituale. Tenendo bene a mente quanto espresso nel paragrafo dedicato al metodo cognitivo come promosso da Aristotele e Tommaso circa il processo dell'azione cognitiva, non ci ripeteremo oltremodo nel designare quale è l'oggetto originario di conoscenza e la sua costituzione. Piuttosto sottolineeremo la distinzione tra una conoscenza a carattere intenzionale così come è rintracciabile nel realismo filosofico, una conoscenza a carattere intenzionale così come è concepita nella filosofia rappresentazionista (empirista, idealista, e trascendentale), e, infine, una conoscenza di matrice scientista/naturalista al fine di vedere se anche in quest'ultimo caso si può parlare concretamente di operazione intenzionale nell'azione cognitiva. Storicamente possiamo ricollegare tutte le varie teorie della conoscenza in uno dei tre modelli e/o impostazioni dell'azione cognitiva sopra elencati. Teoricamente però solo il primo di essi, quello che concepisce l'intenzionalità quale condizione dinamica tra soggetto e oggetto, ossia la capacità che la coscienza ha nel dirigersi verso il suo contenuto intenzionale, può dirsi a tutti gli effetti essere il fondamento di ogni teoria cognitiva, anche di quelle che non convengono del tutto o in parte con i principi promossi da siffatta analisi del processo gnoseologico. A questo punto la domanda da porsi è perché l'azione cognitiva non può che essere intenzionale? E che differenza c'è tra i modi di intendere la stessa nozione di intenzionalità tra le diverse impostazioni filosofiche? Il differente valore semantico della nozione di intenzionalità è solo diverso ma complementare o, invece, si pone come una giustapposizione tra queste diverse correnti filosofiche? Una prima risposta a queste domande ci è offerta da Basti che scrive: «L'analisi rappresentazionista della conoscenza considera come costitutivo della verità della conoscenza l'evidenza dell'oggetto ideale della conoscenza interno alla coscienza: la rappresentazione, appunto. Tale oggetto ideale può essere considerato o come idea intelligibile evidente o “concetto” (= rappresentazionismo razionalista) o come idea sensibile evidente o “sensazione” (= rappresentazionismo empirista) o come una sintesi di

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3 PROPRIETÀ INTENZIONALE DELL'ATTO COGNITIVO.

3.2 L'ATTO COGNITIVO COME ATTO INTENZIONALE: REALISMO, RAPPRESENTAZIONISMO, NATURALISMO.

Obiettivo di questo paragrafo è fare chiarezza sulla necessaria proprietà intenzionale dell'atto cognitivo. Contro ogni riduzione e/o naturalizzazione dell'atto intenzionale conveniamo nell'idea che, nonostante l'atto cognitivo nella sua complessità non possa fare a meno della componente sensibile quale sua propria componente intrinsecamente essenziale, l'operazione intellettiva dell'azione cognitiva sia, in ultima analisi, una operazione immanente immediata, il che significa che è una operazione spirituale.Tenendo bene a mente quanto espresso nel paragrafo dedicato al metodo cognitivo come promosso da Aristotele e Tommaso circa il processo dell'azione cognitiva, non ci ripeteremo oltremodo nel designare quale è l'oggetto originario di conoscenza e la sua costituzione. Piuttosto sottolineeremo la distinzione tra una conoscenza a carattere intenzionale così come è rintracciabile nel realismo filosofico, una conoscenza a carattere intenzionale così come è concepita nella filosofia rappresentazionista (empirista, idealista, e trascendentale), e, infine, una conoscenza di matrice scientista/naturalista al fine di vedere se anche in quest'ultimo caso si può parlare concretamente di operazione intenzionale nell'azione cognitiva.Storicamente possiamo ricollegare tutte le varie teorie della conoscenza in uno dei tre modelli e/o impostazioni dell'azione cognitiva sopra elencati. Teoricamente però solo il primo di essi, quello che concepisce l'intenzionalità quale condizione dinamica tra soggetto e oggetto, ossia la capacità che la coscienza ha nel dirigersi verso il suo contenuto intenzionale, può dirsi a tutti gli effetti essere il fondamento di ogni teoria cognitiva, anche di quelle che non convengono del tutto o in parte con i principi promossi da siffatta analisi del processo gnoseologico. A questo punto la domanda da porsi è perché l'azione cognitiva non può che essere intenzionale? E che differenza c'è tra i modi di intendere la stessa nozione di intenzionalità tra le diverse impostazioni filosofiche? Il differente valore semantico della nozione di intenzionalità è solo diverso ma complementare o, invece, si pone come una giustapposizione tra queste diverse correnti filosofiche? Una prima risposta a queste domande ci è offerta da Basti che scrive:«L'analisi rappresentazionista della conoscenza considera come costitutivo della verità della conoscenza l'evidenza dell'oggetto ideale della conoscenza interno alla coscienza: la rappresentazione, appunto. Tale oggetto ideale può essere considerato o come idea intelligibile evidente o “concetto” (= rappresentazionismo razionalista) o come idea sensibile evidente o “sensazione” (= rappresentazionismo empirista) o come una sintesi di

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ambedue che consideri l'“autocoscienza”, o coscienza delle rappresentazioni coscienti, come fondamento trascendentale della conoscenza (rappresentazionismo trascendentale).Nel rappresentazionismo insomma una conoscenza è vera non perché è adeguata al reale, ma perché l'idea rappresentata alla mente è evidente alla coscienza.Viceversa, in una prima approssimazione che in qualche modo contiene tanto l'elaborazione moderna, fenomenologica, quanto quella scolastica, aristotelico-tomista sull'intenzionalità, una teoria intenzionale della conoscenza definisce come costitutivo dell'atto cognitivo non l'evidenza dell'idea, ma la relazione o direzione ad un contenuto della conoscenza stessa. In una parola, costitutivo dell'atto cognitivo è la relazione intenzionale soggetto-oggetto»1.Basti ha così delineato il punto di confine tra la conoscenza di stampo aristotelico-tomista e fenomenologica da un lato e rappresentazionista dall'altro. Punto di confine che coincide col carattere intenzionale quale proprium dell'azione cognitiva. Inoltre, nell'estratto appena riportato, Basti evidenzia anche un altro fattore estremamente importante che è conseguenza della nozione di intenzionalità così come fatta propria dalla modernità (ad esclusione della scuola fenomenologica), ovvero la questione inerente la verità. Ora non ci soffermeremo su questa tematica giacché trattata in un capitolo a parte; ciononostante è bene sapere che la verità quale evidenza piuttosto che adeguazione è condizione necessaria di tutte le filosofie di matrice rappresentazionista.Torniamo ora sulla differenza tra ciò che significa «intenzionalità» nella filosofia scolastica e fenomenologica, dal significato che assuma invece nelle correnti di pensiero rappresentazioniste.Nella filosofia scolastica e nella tradizione fenomenologica si può parlare di vera intenzionalità, ossia si può considerare l'intenzionalità nel senso più pregnante e autentico del termine. Questo per il fatto che entrambe considerano l'atto intenzionale come la capacità dell'intelletto di dirigersi verso l'oggetto di conoscenza. In più, il realismo, a differenza della fenomenologia, esplica in modo assai chiaro le prime due operazioni costituenti l'atto intenzionale. La fenomenologia, di controparte, pone le sue attenzioni esclusivamente sulle due riflessioni dell'intelletto (coscienza ed autocoscienza), senza però negare l'intero sviluppo e processo intenzionale dell'atto cognitivo. Invero, la fenomenologia implicitamente conviene anche nelle cosiddette prime due operazioni dell'intelletto (apprensione dell'essenza e formulazione del giudizio); e questo è possibile affermarlo sicché essa, la fenomenologia, conviene nell'esistenza di una totalità di fenomeni ontologicamente indipendenti, e concepisce quindi la verità come una forma di adeguazione.Nel paragrafo precedente abbiamo fatto osservare la distinzione che Tommaso apporta all'atto intenzionale distinguendo l'intenzionalità in «diretta» ed in «indiretta». Riprendendo brevemente questa distinzione ricordiamo che per intenzionalità diretta l'Aquinate intendeva il dirigersi della coscienza (o intelletto) verso l'oggetto ontologicamente sussisistente, per intenzionalità indiretta il dirigersi della coscienza verso la rappresentazione dell'oggetto di conoscenza. 1 Gianfranco BASTI, Filosofia dell'uomo, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2008, 197-198.

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Similmente possiamo utilizzare questa intrinseca distinzione della nozione di intenzionalità per varcare l'angusto confine che separa realismo e rappresentazionismo. Il realismo filosofico infatti incorpora nel suo metodo cognitivo quelle che abbiamo definito le operazioni dell'intelletto e le riflessioni dello stesso. Orbene, una teoria della conoscenza che può dirsi epistemicamente consistente si avvale in un primo momento dell'intenzionalità diretta (in esplicito riferimento alle operazioni dell'intelletto), ed in un secondo momento dell'intenzionalità indiretta (per ciò che concerne il duplice momento riflessivo dell'intelletto). Difatti, Tommaso utilizza il termine «intentio» sia per indicare l'attenzione della facoltà conoscitiva2, sia per sottintendere i modi in cui un oggetto si rende manifesto all'atto cognitivo intellettivo3. Basti, riprendendo l'Aquinate, è bene attento a distinguere tra le operazioni dell'intelletto e le riflessioni dello stesso. Scrive sulle due operazioni dell'intelletto4:«Le due operazioni dell'intelletto (apprensione dell'essenza e formulazione del giudizio), mediante le quali esso escogita, “costruisce” i concetti, le idee e le loro definizioni sulle cose in forma di enunciati, per riferimento alla realtà attraverso la sensazione (conversio ad phantasmata). Nelle due operazioni dell'intelletto la relazione intenzionale è dunque fra il soggetto conoscente e l'oggetto reale esterno al soggetto dell'atto cognitivo. Nelle due operazioni dell'intelletto, esso perciò non è rivolto a se stesso, “chiuso” su di sé, come quando riflette su di sé nella coscienza o nell'autocoscienza, ma è rivolto ai sensi e, attraverso di essi, è “aperto” alla medesima realtà esterna al soggetto conoscente. Per questo Tommaso parla, per le prime due operazioni dell'intelletto di conversio ad phantasmata (“conversione alle sensazioni”) e non di reflexio ad semetipsum (“riflessione su se stesso”)»5.Continua sulle due riflessioni dell'intelletto6:2 Cfr. TOMMASO, De Veritate, q. II, a. 3, ad 2; q. 13, a.3; q. 21, a. 3, ad 53 Cfr. TOMMASO, Summa contra Gentiles, q. 78, a. 34 In particolare, così Basti definisce l'apprensione dell'essenza: «L'atto dell'intelletto agente. Ripiegandosi sul dato sensibile individuale, singolare, per illuminarlo in quanto tale nella sua irriducibile specificità che non è riportabile ad alcuna esperienza precedente, astrae quella che è la differenza specifica propria dell'oggetto rendendola così intelligibile, conoscibile in forma universale per qualsiasi individuo umano, nel passato, nel presente e nel futuro si dovesse applicare a conoscere quel medesimo oggetto» [Cfr. Ivi, 252]. E così definisce la seconda operazione dell'intelletto: «Formulazione del giudizio mediante cui esprimiamo a noi stessi cosa abbiamo capito, riapplicando l'essenza appresa sui dati sensibili per vedere se effettivamente ciò che ci sembra di aver compreso davvero si adegua ai dati da cui eravamo partiti» [Cfr, Ibidem].5 Ivi, 199-200.6 Basti così definisce la prima riflessione: «La prima riflessione accompagna l'intelletto in ogni sua operazione, sia diretta intenzionalmente alla coscienza delle cose esterne al soggetto, sia diretta intenzionalmente a conoscere se stesso (= seconda riflessione). Essa è dunque coscienza, cum-

scientia, qualcosa che accompagna sempre la conoscenza e quindi anche la conoscenza vera (scientia), ma, diversamente da quanto afferma il rappresentazionismo, non ne fonda la verità. La prima riflessione, dunque, accompagna l'atto intellettivo, sia mentre esso sta escogitando le idee e i concetti sulle cose stesse, sulla realtà esterna al soggetto conoscente attraverso le prime due operazioni dell'intelletto, sia mentre sta escogitando idee e concetti su se stesso, sulla propria interiorità (meditazione, introspezione) e sulla natura delle proprie idee (scienza logica e riflessione epistemologica), attraverso la seconda riflessione. La prima riflessione consisterà perciò in ciò che l'analisi introspettiva della conoscenza comunemente definisce la coscienza,

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«Le due riflessioni su se medesimo dell'intelletto (prima riflessione o coscienza e seconda riflessione o autocoscienza) mediante le quali esso diviene consapevole delle sue stesse operazioni e delle idee che produce, sia mentre sta eseguendo le due operazioni medesime (= prima riflessione), sia dopo che le ha eseguite (= seconda riflessione). Nelle due riflessioni dell'intelletto la relazione intenzionale è dunque fra il soggetto conoscente e l'oggetto ideale interno al soggetto dell'atto cognitivo»7.Come si può apprendere dalle citazioni sopra riportare «intenzionalità» si può dire in due modi: la prima in relazione alle operazioni dell'intelletto, ossia la capacita intenzionale della coscienza di dirigersi verso l'oggetto ontologicamente ed indipendentemente inteso; la seconda in relazione alle riflessioni dell'intelletto, ovvero la capacità della coscienza di dirigersi verso l'oggetto ideale (rappresentazione) di conoscenza. Nonché entrambe sono a tutti gli effetti movimenti dinamici ed intenzionali dell'intelletto, solo nel primo caso, quello delle operazioni intellettive, si può parlare di una intenzionalità forte, di una intenzionalità cioè capace di trascendere la sfera egocentrica dell'agente epistemico. Nel secondo caso, quello delle riflessioni dell'intelletto, la capacità intenzionale della coscienza è per certi versi più debole, in quanto il suo protrarsi è pur sempre costipato nella sfera dell'io.A questo punto è lecito domandarsi se è concretamente possibile il darsi della conoscenza ammettendo solo una di queste capacità intenzionali della coscienza, oppure, se necessariamente devono essere presupposte entrambe per la finalizzazione dell'azione cognitiva. La distinzione tra filosofia realista e filosofia rappresentazionista risiede proprio nella risoluzione di questa domanda. Mentre il realismo filosofico ammette entrambe le capacità intenzionali della coscienza, in particolare la sua capacità diretta nel processo induttivo dell'epagoghé – quando si astraggono le caratteriste essenziali dagli enti particolari per giungere alla definizione universale degli stessi – e la sua capacità indiretta nel sillogismo deduttivo – quando l'analisi inferenziali si muove per idee e concetti, i rappresentazionismi di ogni genere convengono nella solo capacità indiretta

ovvero la consapevolezza di sé e della propria operazione che accompagna ogni operazione cognitiva del soggetto. Si tratta insomma di quel “capire di capire”, di quel “sapere di sapere” che accompagna ogni atto cognitivo del soggetto umano» [Cfr. Ivi, 201]. Così invece si esprime sulla seconda riflessione: «La seconda riflessione invece, suppone la prima riflessione dell'intelletto e le altre due operazioni dell'intelletto. Suppone infatti le idee ed i concetti come già costituiti attraverso le due operazioni dell'intelletto e resi consapevoli mediante la “prima riflessione”. Nella seconda riflessione, insomma, l'intelletto non ha mai per oggetto la realtà esterna al soggetto mentre egli la sta comprendendo, bensì ha per oggetto o le stesse idee precedentemente costituite dall'intelletto e/o l'atto intellettivo medesimo per analizzarli, le une e l'altro, introspettivamente. In una parola, nella prima riflessione l'intelletto è cosciente di se stesso “ad occhi aperti”, in relazione intenzionale con la realtà esterna al soggetto. Nella seconda riflessione, invece, l'intelletto è cosciente di se stesso “ad occhi chiusi”, riflettendo unicamente su se stesso e sulle proprie idee, come avviene in ogni atto introspettivo o di “meditazione” di un soggetto umano. Se la prima riflessione può essere così definita modernamente come coscienza, la seconda riflessione è quella che può essere modernamente definita come autocoscienza» [Cfr. Ivi, 202].7 Ivi, 200-201.

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dell'atto intenzionale della coscienza8. Ma è possibile il giustificarsi di un processo cognitivo esente dalla sua capacità intenzionale diretta? A questo punto riprendiamo un breve passo del Padre Domenicano Tito Centi, erudita e cultore del pensiero di Tommaso.«L'idea astratta non è l'idea platonica, piovuta da un mondo trascendente: è un'immagine della realtà concreta, con una forza di rappresentazione che abbraccia tutti gli individui di una specie. La rappresentazione è necessariamente universale, ma l'intenzionalità di essa raggiunge i soggetti concreti, che vengono rappresentati nella loro concretezza soltanto nelle facoltà sensitive. Quando io penso al cane so di non pensare a una realtà astratta, ma concreta; appunto perché la mia idea di cane, per la sua intenzionalità originale, raggiunge gli individui nella loro concretezza. Nell'atto della riflessione posso rilevare l'universalità della mia idea di cane; ma posso anche rivolgere l'attenzione sul termine concreto di essa. Ed ecco allora che la mia idea viene a concretarsi in questo individuo presentato dai sensi»9.Dall'estratto di Padre Centi si può individuare un esito negativo alla domanda posta poc'anzi per un duplice motivo: il primo per il fatto che se una teoria della conoscenza vuole dirsi epistemicamente consistente, in ultima analisi, non può che non fondare le rappresentazioni mentali dell'oggetto interno di conoscenza sulla forma essenziale dello stesso oggetto, stavolta esterno, di conoscenza; ed il secondo perché le teorie epistemologiche che negano l'intenzionalità diretta convengo in una teoria della verità che si fonda sull'evidenza della rappresentazione mentale piuttosto che sull'essere sostanziale dell'oggetto esterno di conoscenza (problematica che conduce all'identificazione della verità con la certezza).Una teoria della conoscenza epistemicamente consistente non può prescindere da nessuno di questi due momenti intenzionali dell'intelletto; e se il realismo filosofico fonda le sue premesse su questa duplice differenziazione dell'azione intellettiva, le filosofie rappresentazioniste della modernità hanno considerato solo il secondo aspetto finendo per negare quella che la scolastica chiamava intenzionalità diretta. Una obiezione a questo punto è lecita: perché la fenomenologia che al pari delle filosofie rappresentazioniste muove anch'essa le proprie inferenze sillogistiche dal pensiero piuttosto che dall'essere delle cose può rivendicare l'aspetto intenzionale (nel senso più pregnante del termine) della coscienza? La risposta non risiede esclusivamente nella concezione precedentemente espressa circa la nozione di intenzionalità che ne danno Brentano prima ed Husserl poi, quanto invece perché convengono in entrambe le specificazioni intenzionali (diretta ed indiretta). Se è pur vero che la fenomenologia si interessa esclusivamente dell'intenzionalità indiretta, ponendo le sue analisi esclusivamente sulla scia soggetto-rappresentazione (io-fenomeno psichico) per tutti i motivi esposti nel paragrafo precedente, è vero allo stesso tempo che 8 Non a caso i rappresentazionismi hanno da sempre prediletto articolare le proprie inferenze sillogistiche sul metodo scientifico, cioè sul sillogismo deduttivo. E Tommaso dice bene quando afferma che la scienza non è altro che una «riproduzione nell'anima della realtà conosciuta», poiché la scienza è detta essere l'assimilazione del conoscente al conosciuto. Cfr. TOMMASO, De Veritate, q. 11, a. 1, arg. 11.9 Tito CENTI, introduzione a: TOMMASO, Summa Theologiae, 2009, 138.

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conviene nell'intenzionalità diretta, senza la quale non si darebbero le rappresentazioni, le quali vengono edotte dagli oggetti esterni. Per la scuola fenomenologia i fenomeni psichici, gli stessi che come tali sono rappresentazioni interne alla nostra mente, in quanto tali sono prima di tutto fenomeni fisici, ovvero enti ontologicamente indipendenti. Solo nel momento in cui codesti vengono vissuti (esperiti e/o conosciuti) dal soggetto attraverso le due riduzioni (intenzionali), da fenomeni fisici divengono a tutti gli effetti fenomeni psichici.La differenza tra la scuola fenomenologica e i vari e molteplici rappresentazionismi post-cartesiani risiede, quindi, proprio nel fatto che mentre questa implicitamente ammette l'intenzionalità diretta adottando, infine, una teoria di adeguazione della verità, quest'ultimi negano ogni forma di intenzionalità diretta, e così facendo cadono inesorabilmente in un immanentismo senza uscita, sterile per ogni ricerca dell'arché, con-fondendo e sovrapponendo la verità alla certezza. Invero, negando un'intenzionalità diretta, si nega una trascendenza verso un mondo ontologicamente sussistente, e quindi si nega l'ente quale criterio regolatore di ogni giudizio di verità. Quindi, se si vuole parlare onestamente di processo intenzionale nell'atto cognitivo è giusto affermare che solo il realismo filosofico ed il metodo fenomenologico adottando sia l'intenzionalità diretta che indiretta sono, di fatto, teorie intenzionali con la “I” maiuscola. Tuttavia è' possibile parlare di carattere intenzionale dell'atto cognitivo anche per le filosofie rappresentazioniste, è vero, purché in questa accezione si concepisca l'intenzionalità come un dinamismo che, consapevolmente o inconsapevolmente, fluttua tra ego e rappresentazione, sempre cioè all'interno dell'immanentismo soggettivista. Ma in questo senso la nozione di intenzionalità viene in un certo qual modo snaturalizzata e ridotta. Difatti, se in queste due correnti filosofiche (realismo e rappresentazionismo) si può, seppur facendo chiarezza sul significato del termine, asserire che sono movimenti di pensieri intenzionali, c'è un caso limite che nonostante si voglia presentare come teoria della conoscenza epistemicamente consistente, annulla del tutto il carattere intenzionale della coscienza. Questo tipo di impostazione filosofica è chiamato naturalismo o riduzionismo. Le etichette linguistiche che specificano queste (presunte) teorie cognitive rimandano – da come si può intuire facilmente dai termini – alla naturalizzazione della coscienza, riducendola cioè alla materia. Ma è possibile ridurre ciò che è per natura spirituale a qualcosa di materiale? È possibile ridurre la psiché, l'anima, la mente, la coscienza ad un organo di senso quale il cervello? La conoscenza, lo ribadiamo, è un atto spirituale, e non può essere considerata come la sola percezione di dati sensibili esterni al soggetto ordinati medianti gli organi di senso e, quindi, costituiti come rappresentazioni mentali. La rappresentazione, invero, è sempre un'elaborazione intellettuale, che in quanto tale è un operazione spirituale. L'azione cognitiva di adeguazione dell'intelletto alla forma dell'oggetto non dipende da nessun organo fisico. I neuroni non sono agenti epistemici.Il paragrafo successivo vuole mettere in risalto proprio questo aspetto che ha influenzato la forma mentis filosofica di alcuni pensatori di matrice positivista, esaminando oltremodo il ruolo che le cosiddette “neuroscienze” occupano nei

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dibatti scientifici e filosofici dei nostri giorni.Alessandro Belli