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Saggi di filosofia antica e mitologia La nascita dell'uomo Eroi e mistici nella Grecia antica di Giuseppe Lampis 1 L’origine dell’umanità mortale Presso i greci antichi la questione della nascita dell’uomo si formula paradossalmente nei termini della questione della nascita della morte. Dato che l’uomo viene pensato come colui che essenzialmente muore, il pensiero della natura dell’uomo equivale al pensiero della natura della morte. Ade - Opera fotografica di Lorenzo Scaramella Questa saldatura fa sì che il significato della morte prenda risalto, reciprocamente, dal significato della nascita. Per questa ragione non esiste e non può esistere né un’antropologia né un’antropogonia a sé e il racconto dell’origine dell’uomo fa parte di un racconto generale sulla nascita del mondo nel suo insieme. La morte dell’uomo di cui si tratta non è la morte in genere bensì quel certo Pagina 1 di 124

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Saggi di filosofia antica e mitologia

La nascita dell'uomoEroi e mistici nella Grecia antica

di Giuseppe Lampis

1L’origine dell’umanità mortale

Presso i greci antichi la questione della nascita dell’uomo si formula paradossalmente nei termini della questione della nascita della morte. Dato che l’uomo viene pensato come colui che essenzialmente muore, il pensiero della natura dell’uomo equivale al pensiero della natura della morte.

Ade - Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

Questa saldatura fa sì che il significato della morte prenda risalto, reciprocamente, dal significato della nascita. Per questa ragione non esiste e non può esistere né un’antropologia né un’antropogonia a sé e il racconto dell’origine dell’uomo fa parte di un racconto generale sulla nascita del mondo nel suo insieme.

La morte dell’uomo di cui si tratta non è la morte in genere bensì quel certo tipo di morte che caratterizza l’umanità attuale. Gli uomini morivano anche prima che morissero di questo tipo speciale di morte, ma in altro modo.

In effetti, presso i Greci non si pone una dottrina univoca della morte perché correlativamente non si immagina un “primo uomo”, si daranno invece tante morti quante sono le varietà di

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umani.

L’inaugurazione dell’umanità attuale non si compie con la semplice introduzione della morte, tutto ciò che nasce muore, e l’umanità attuale non comincia con l’inizio dell’uomo, essa comincia con l’arrivo di una particolare specie di morte.

A vedere le cose in questa maniera non è solo la tradizione greca. Nel libro ebraico della Genesi Adamo non è esente dalla morte di per sé, tutto ciò che nasce muore, la creatura Adamo non è immortale e sarebbe comunque morto pure se il Genesi non ci dice come. Si riferisce di una doppia creazione, di un Adamo di luce (1, 26) e di uno di fango (2, 7), ma nemmeno quello di luce è intrinsecamente refrattario alla morte. Non sarà la stessa di colui che è “il rosso”, sarà la caduta di Lucifero.

Tanto il primo uomo, immagine di Dio, sarebbe morto che il suo peccato consiste proprio nel tentativo di mangiare il frutto dell’albero della vita nel giardino in cui il Primo Creatore lo ha collocato. Se ci fosse riuscito, secondo che il drago guardiano del giardino gli spiega, da copia sarebbe diventato uguale a Dio: avendo già gustato il frutto dell’albero della sapienza, avrebbe unito in sé sapere e vita eterna.

Il suo è stato un peccato di superbia, di ybris? La sorte degli sconfitti è di passare per criminali. Adamo disubbidisce e commette un imperdonabile crimine di disubbidienza, gli altri esseri primordiali che invece hanno successo e rovesciano, cruentemente, il primo sovrano del mondo diventano il fondamento dell’ordine giusto.

In conclusione, sembra che sia il racconto della nascita a contenere il racconto della morte, mentre è l’esigenza di spiegare in che consiste la morte che si proietta all’indietro a condizionare il racconto della nascita.

2Arrivo dell’orfismo

Nella Grecia antica le esposizioni più organiche e sistematiche di un’antropogonia generale sono due: la Teogonia di Esiodo e l’orfismo. Nel valutare in che rapporti le due correnti stanno fra di loro, è importante valutare in che rapporti stanno con la tradizione olimpica di cui in Omero.

È sbagliato dare per scontata una sequenza schematica e scolastica. Esiodo è molto legato a Omero ma la sua rappresentazione contiene elementi affini a quelli orfici e punti di contatto interessanti perfino nella curvatura d’insieme.

Non è chiaro se ciò dipenda da una irruzione dell’orfismo alla maniera di un corpo estraneo infettivo o se la sua penetrazione abbia trovato una certa congenialità in componenti essenziali della religione esiodea e le abbia adattate in una sintesi feconda.

La mistica orfica ha una forte essenza sciamanica e per questo non può essere più recente della religione olimpica. Dioniso, che sta al centro dei misteri orfici, è un grande dio preomerico originariamente connesso con l’estasi.

Dell’orfismo ci può essere, e c’è stata, una fase che va ritenuta tarda, un orfismo irrigidito, popolare, umanistico, generico; la tradizione pitagorica si distribuisce lungo un percorso secolare durante il quale si modifica e diviene involuta e si appesantisce, ma c’è un pitagorismo e un orfismo arcaico che non è più tardo della religione olimpica.

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In ogni caso, in materia di orfismo, la ricerca filologica ha oramai conseguito dei risultati importanti e ci permette di disporre di un quadro ben documentato, ricco, raffinato.

Il nostro tema, come abbiamo detto nell’esordio, è la ragione per la quale l’idea greca di uomo si connette con quella idea della morte che in definitiva è la nostra.

Ci occuperemo sinteticamente di questa idea, nata in seno a una delle più ricche spiritualità religiose e che non è tramontata e campeggia ancora nella cultura moderna.

3Le generazioni primitive

La tradizione dei cicli di generazioni di uomini riportata da Esiodo è già presente nella spessa stratificazione dei poemi omerici. Nell’Iliade si trova il passo sulla decisione di Zeus di travolgere la razza degli eroi e sul suo orientamento a alleggerire la madre Terra infastidita dal peso degli umani moltiplicatisi a dismisura; nell’Odissea Penelope chiede al misterioso straniero arrivato a casa sua da dove venga, se da «quercia o da roccia», drys - petra.

Quantunque quest’ultimo cenno non corrisponda con precisione al racconto di Esiodo, l’affermazione fondamentale di Esiodo è che uomini e dei siano stati generati entrambi dalla stessa madre, Gea, la Terra.

Da diversi resoconti mitologici apprendiamo che gli uomini dei primordi sono spuntati direttamente dalla Terra gravida di vita. Così fu per un Alalcomeneo e per i vari gruppi di gnomi creativi e fallici, fabbri e guaritori ingegnosi, Dattili, Cureti, Coribanti, Cabiri, Telchini, che in corteo accompagnano la Grande Madre.

Dietro ciascuno di questi popoli delle origini mitiche è possibile riconoscere una società segreta maschile di maschere, un Männerbund, una confraternita iniziatica depositaria di una propria gelosa tradizione tecnica militare sapienziale e devota a una visione del mondo nella quale autointerpreta le sue origini.

In unione con il mito si deve pensare anche a una ritualità; in altre parole, si deve pensare che alla visione della propria collocazione nel mondo si accompagna l’orgoglio del proprio ruolo attivo in esso e la valorizzazione del modello delle azioni e dei gesti fondamentali.

La confraternita di maschere comprende se stessa come la vera umanità e definisce il vero uomo con il proprio nome. Siamo ancora assai lontani da una visione filosofica universalistica o monistica. La posizione arcaica di un Männerbund di cacciatori assistiti e guidati da un leader sciamanico è pluralista e gerarchica. Il mondo arcaico non è omogeneo, è qualitativamente differenziato fra poteri unici e inconfondibili.

4Le cinque stirpi di Esiodo

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Dioniso - Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

Un altro popolo era nato dalle Meliadi, le ninfe dei frassini, spuntate dal sangue di Urano sgocciolato sulla Terra quando la falce del titano Crono lo evirò rovesciando il governo del mondo. Nella stessa occasione da quello stesso sangue, oltre ai frassini, sorgono i Giganti e le Erinni.

Gli uomini dei frassini appartengono alla terza generazione dell’elenco di Esiodo, ma andiamo per ordine.

Esiodo non parla mai di un “primo uomo”, egli espone un’antropogonia articolata su cinque generazioni, quattro di metallo e una no. La serie è la seguente: oro, argento, bronzo, eroi, ferro.

Gli esseri della razza aurea vengono creati prima degli olimpici e stanno con Crono in cielo. Vivono beati, non soffrono alcuna fatica e sono esenti da ogni ansia. Armenti e frutti sono offerti a loro liberamente dalla Terra. Non invecchiano e muoiono addormentandosi sempre giovani al volgere di un tempo sterminato rientrando nel suolo da cui sono usciti.

Trapassando, diventano dèmoni custodi degli uomini, il poeta dice “custodi dei mortali”. Procacciano la ricchezza e ispirano la giustizia. In breve, la situazione civile dei viventi e dei loro antenati si svolge sotto il segno di questi progenitori che hanno conseguito la beatitudine.

La seconda razza fu creata dagli olimpici. Sono gli uomini d’argento, assai inferiori ai primi. Nella loro epoca, il figlio restava per cento anni accanto alla madre e dopo il distacco durava pochissimo e fra le sofferenze. Assetati a dismisura di dominio, erano permanentemente in conflitto reciproco, non sacrificavano agli dei e Zeus li sprofondò nelle viscere della terra, dove

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continuano, anch’essi venerati per beati dagli abitanti di sopra.

La terza fu la razza di bronzo, che Zeus trasse dai frassini. Duri di anima, dalla muscolatura possente, terribili combattenti, non “mangiatori di pane”, aggressivi, violenti, guerrafondai, si liquidarono da soli piombando nell’abisso.

A questo punto, fu il turno degli eroi, che persero la vita nelle guerre mitiche di Tebe e di Troia.

Infine, la quinta razza degli uomini di ferro, cupa, ingiusta, con bambini che nascono già vecchi, protagonista di una decadenza inarrestabile, è l’umanità in atto di cui il poeta non parla per la disperazione di dover vivere sotto il suo primato.

5I Veglianti custodi

Gli eroi trapassati sono stati assegnati, per l’intrinseca giustizia del loro animo, a Crono re delle Isole dei Beati. Il Crono oramai liberato da Zeus che ha consolidato il suo trionfo.

Laggiù essi sono i Veglianti custodi, trasformati in “puri dèmoni terrestri benevoli difensori dai mali e custodi degli uomini mortali” (Esiodo, Op. 122 s).

Eraclito li ha riproposti nel frammento 63 (Ippolito, Ref. 9, 10, 6): “e di fronte a lui, che sta laggiù, si drizzano, e diventano custodi che vegliano sui vivi e sui morti.”

Anche il grandioso affresco cosmogonico della Bibbia contiene, e in modo nemmeno troppo dissimulato, una sequenza di razze sul genere indiano e esiodeo.

Ci sono nel Libro dei Libri varie umanità che scompaiono catastroficamente dopo essersi caratterizzate per un ethos loro particolare.

La prima è la razza di Adamo e Eva sciolta nel diluvio e dal diluvio esce la seconda del nuovo uomo Noè.

Le altre sono scandite dall’esodo di Abramo dalla terra di Ur, dal cataclisma di Sodoma e Gomorra da cui scampa Lot. Dal disastro della torre di Babele, dall’esodo dall’Egitto e dal passaggio del Mar Rosso quasi sopravvivendo con Mosè a un secondo diluvio.

6La natura comune di uomini e dei

Né in Esiodo né in Omero vediamo il mito greco concentrarsi sulla nascita dell’uomo in generale o su un “primo” uomo. L’uomo in generale ancora non esiste e occorrerà attendere gli orfici per farne la conoscenza. Il mito greco preorfico parla della nascita di esseri divini di varie generazioni e di esseri umani, a loro simili per natura, di altrettante varie generazioni.

La differenza tra uomini e dei non dipende dalla nascita da fonti diverse ma da vicende successive. In principio uomini e dei, avendo natura comune, vivono assieme e soprattutto mangiano assieme.

Nel libro della Genesi (18) Abramo incontra il Signore con due angeli nel campo di Mamre. Il Pagina 5 di 99

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patriarca offre da bere e da mangiare ai tre con rispettosa ospitalità e ne riceve la promessa di un figlio nonostante che lui e Sara siano vecchi.

In Omero la comunione esemplare di dei e uomini è quella degli Etiopi e dei Feaci.

Iliade I, 423-5: “Zeus verso l’Oceano, verso gli Etiopi senza macchia ieri partì, per un pranzo; e tutti gli dei lo seguivano…”

Odissea I, 22 s: “se ne andò Poseidone fra gli Etiopi lontani, gli Etiopi che in due si dividono, gli estremi degli uomini, quelli del sole che cade e quelli del sole che nasce, per essere presente a un’ecatombe di tori e d’agnelli. Là egli godeva, seduto a banchetto…”

Odissea VII, 201-3: “gli dei ci si mostran visibili, quando per loro facciamo elette ecatombi, banchettano in mezzo a noi, sedendo dove noi siamo; e se un viandante, anche solo, li incontra, non si nascondono, perché siamo prossimi a loro, come i Ciclopi e le selvagge tribù dei Giganti.”

In Esiodo: “comuni erano i pasti, comuni i sedili agli dei immortali e agli uomini mortali” (frammento 82 Ratz.)

La comunanza di focolare e di mensa fra tutti gli uomini divini e “gli altri immortali” continua a vivere nella filosofia arcaica e nel culto eroico (Kerényi, Religione Antica).

7Il destino diverso

Galata morente - Opera fotografica di Lorenzo

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Scaramella

Che entrambi vivano assieme per una comune natura significa altresì che entrambi sono soggetti a morire, e che non è la possibilità o l’impossibilità di morire a distinguerli. O, per lo meno, che la morte che gli uomini disgraziatamente subiscono non è tale da annullare la loro natura originale, e che il privilegio di non morire goduto dagli dei, a sua volta, non concerne la loro natura.

Mortalità o immortalità sono due diversi modi di vivere una natura che non ne viene intaccata.

Entrambi, sia gli esseri divini sia gli esseri umani, sono suscettibili di una trasformazione della propria condizione, trasformazione che si chiama morte: tuttavia il cambio non avviene in modi uguali. Da una parte, gli dei passano chi nel Tartaro, chi nelle Isole dei Beati, chi viene inchiodato a un monte, chi spinto nel sonno; dall’altra, gli uomini cambiano andando ugualmente nell’Ade e in prevalenza non diventano beati.

Uomini e dei non sono differenti per natura bensì per per destino, moira, la parte assegnata.

Dopo uno stato paradisiaco di comunione e uguaglianza, interviene un ordine nuovo con il distacco e la perdita della condizione iniziale. Da quel momento l’uomo decade e non è più libero.

La novità imposta alla natura, che in quanto tale non può essere mutata, è la sua riduzione in schiavitù. Da quel momento, la moira umana è la servitù.

La morte dell’uomo è il suo divenire servo, incatenato, bloccato.

Un conflitto, un confronto, una lotta: l’esito è l’uomo schiavo. L’uomo non è servo in quanto uomo, è servo perché ha subito una sconfitta.

Come si vede, siamo lontani dalla visione del destino post mortem di Omero, l’ombra di Achille si lamenta con Odisseo dello stato larvale in cui è sceso e esclama che piuttosto che essere re di uno stuolo di ombre preferirebbe essere l’ultimo dei servi nel mondo dei vivi.

8Il sacrificio e il crollo

Il mito esiodeo fissa nell’invenzione del sacrificio (a Mecone) la data dello scontro e della conseguente trasformazione che inaugura la storia attuale umana.

Prometeo sacrificò un toro, lo arrostì e divise le parti con l’intenzione di ingannare gli dei. Affinchè ciò che assegnava non si vedesse da fuori, riempì di polpa per sé e gli uomini il ventre del toro e a Zeus riservò le ossa avvolte nel lucido grasso.

A Zeus che sulla base delle apparenze gli rimproverava di aver fatto una distribuzione diseguale a sfavore degli uomini rispose: “Scegli tu la parte che più ti piace!”

Il sovrano degli dei accettò di venire ingannato e poi si vendicò. Tolse il fuoco agli uomini, nascondendolo. Il tema dell’origine dell’uomo attuale si confonde con l’origine del sacrificio. Gli uomini attuali cominciano con il sacrificio.

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Uguale correlazione è presente in India (Prajâpati), in Iran (Mithra), presso gli ebrei e nel cristianesimo. Il centro di altissime culture è occupato dalla meditazione sul sacrificio.

Inoltre, lo stesso quadro della successione delle razze esiodee ha una corrispondenza nella dottrina indiana degli yuga.

Avvento di un certo tipo di morte, nella forma dell’inchiodamento a uno statuto subalterno e degradato, perdita della libertà, imposizione di una moira triste, sono tutt’uno.

L’Iliade fissa il crollo degli umani di tipo divino all’epoca della famosa guerra. Questo non è contraddetto da Esiodo e è conforme con Eraclito (frammento 53: “pòlemos è il padre di tutti, gli uni fece dei e gli altri uomini…”)

Gli uomini che perdono la libertà al tempo del sacrificio sono quelli della razza di bronzo, i figli dei frassini. Per gli orfici, sono i titanici (Prometeo è un titano, Crono è un titano).

Essi saranno affogati dal diluvio mandato da Zeus e torneranno dalle pietre (gli ossi della madre Terra) lanciati dalla coppia sopravvisssuta Deucalione e Pirra (il figlio di Prometeo e della “rossa”, cifra di Gea).

9Gli eroi

Gli sterminati dalla guerra cosmica di fondazione dell’ordine attuale sono invece gli eroi, la quarta razza. La loro fine è la premessa necessaria all’introduzione dell’età oscura in atto.

Esiodo li ha interpolati prima dell’ultima orribile razza, sciogliendone la implicita coincidenza con la razza di bronzo e facendone gli sfortunati rappresentanti di una specie di ripresa e di ritorno della razza d’oro degli inizi.

Gli eroi sono infatti affini a Crono presso cui realizzeranno il destino di beati dèmoni custodi.

Si tenga presente che il “custode vegliante” è un guerriero. Lo stare con Crono sta a significare che divengono invisibili e non che si separano in una lontananza invalicabile, essi in ogni caso si aggirano fra gli uomini dei quali sono i custodi benigni.

L’interpolazione di una cesura nella sequenza franosa fra la razza di bronzo e la razza di ferro è una variante che testimonia la presenza di una religione molto caratteristica e significativa.

È il segno di una connessione della religione degli eroi con la religione orfica della fase aristocratica e esclusiva.

10Potenze del sacrificio

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Zeus - Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

Dato che la morte prometeica equivale alla caduta in schiavitù, la resurrezione dalla morte equivale alla liberazione dalla servitù postparadisiaca.

Tale liberazione ha a che vedere con il sacrificio, ne segue il dramma e i significati interni.

Nella religione eroica e nell’orfismo la meditazione sul sacrificio conduce alla valorizzazione finale dell’autosacrificio.

L’autosacrificio è il sacrificio perfetto, quello in cui vittima e sacerdote coincidono e non lasciano resti.

Il mito esiodeo illustra che l’uomo viene istituito dal sacrificio. L’insegnamento è che il dominio del sacrificio consegna il potere di istituire l’uomo.

La cerniera tra la condizione divina paradisiaca in illo tempore e la condizione umana sta nella nascita della morte nella forma della servitù. Nascita dell’uomo, nascita della morte, nascita della servitù sono un unico avvenimento cosmico.

Chi s’impadronisce della chiave di questo avvenimento ha il potere di invertire il destino e di regolarlo. Nella religione eroica di una delle tradizioni più pure, la religione di Mitra, questo è

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nettissimo.

In tempi storici successivi, la decadenza universalizzante e genericizzante della religione orfica popolare irrigidisce il distacco, verticalizza il divino, sposta l’accento dal compito dell’autoliberazione alla pratica della purificazione e alla ritualità estrinseca sfociante nella superstizione.

Questa diagnosi si può riscontrare in Eraclito e nella Repubblica di Platone dove si mettono in relazione stretta i gradi di qualità e di dignità della pòlis con il tipo di uomo prevalente. In altre parole, Eraclito e Platone stabiliscono una uguaglianza tra il livello di umanità, il genere di epoca, la razza che occupa il primo piano.

In tempi storici successivi, dunque, in contrasto con l’orfismo aristocratico, si pretende che la mappa del percorso liberatorio post mortem, uno strumento adoperabile appropriatamente solo da una esclusiva cerchia di iniziati, sia disponibile automaticamente a chiunque.

11Prometeo e gli uomini attuali

Nel mito, due eventi – la guerra cosmica di fondazione dell’umanità attuale e il sacrificio – sono analoghi.

Però, mentre non è difficile prendere atto che una razza alta possa venire sconfitta e sterminata in guerra, è più arduo rendersi conto della ragione per la quale il sacrificio produca lo stesso effetto.

Il sacrificio nella forma prometeica (Prometeo è un progenitore degli uomini, e in alcune spiegazioni popolari ne è addirittura l’artefice) provoca la punizione fatale della perdita o del nascondimento del fuoco.

In proposito, ha ragione Eliade (Histoire, I, § 86) a ritenere, sulla base di Meuli e Burkert, che il sacrificio è punito in quanto è il titano Prometeo a farlo.

Nel suo caso il sacrificio assume il valore di un atto conflittuale e insurrezionale. Zeus percepisce che il Titano e i suoi protetti attentano alla sua volontà, non vogliono sottostare a lui e accettarne il primato.

Si noti, di sfuggita, che il conflitto è, al fondo, un conflitto di astuzie, di intelligenze, di pensieri.

Allorchè un uguale sacrificio sarà celebrato con attitudine subalterna da Deucalione (Deucalione è un Prometeo ridimensionato, sopravvissuto, depotenziato e succube), Zeus lo accetterà e gradirà.

Tuttavia, da entrambe le interpretazioni balza che il sacrificio è un’arma, che si possa usarla in una guerra o in una parata non cambia che sia un’arma potente e letale.

Perché?

La ragione sta nel fatto che nel sacrificio c’è la morte: il fare la morte, il potere di morte. Si

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tratta di un potere straordinario e eccitante. Il potere della trasformazione di stato.

12La perdita del fuoco

Il mito della perdita del fuoco da parte degli uomini esige una riflessione.

Zeus toglie il fuoco per punirli, Prometeo (rubandolo da dove si trova, dal sole?) lo riconsegna ai suoi protetti per aiutarli a essere se stessi.

Gli uomini senza fuoco regrediscono al crudo, ritornano divoratori di carne cruda (e non vegetariani, secondo che vorrebbe Pitagora): ciò li assimila ai predatori, agli animali selvaggi, e li riporta in uno stato primordiale paradisiaco, in illo tempore gli animali sono dei.

Per quale ragione, allora, la perdita del fuoco è una punizione così grave? Non è l’avvento del cotto a fissare la differenza e a stabilire il nuovo ordine postparadisiaco?

Gli dei gradiscono i profumi della carne cotta… gradiscono che gli uomini li servano. Se gli uomini smettono di servirli e di mandare a loro verso l’alto i fumi del cotto, gli dei illanguidiscono..

Notiamo che ciò accade con questi dei, mentre altri dei, più antichi e più feroci, hanno preferenze diverse.

Nel pitagorismo successivo, la scelta vegetariana (che implica un rifiuto etico dello stato di comunità con il selvatico primordiale) si propone con l’abolizione del sacrificio cruento di togliere il nutrimento agli dei olimpici.

Purtroppo l’uomo che è insorto e che è stato sconfitto non riconosce più che la perdita del fuoco equivale alla restituzione dello status iniziale, non è più in grado di capire che gli si riapre la via per rovesciare la supremazia dei padroni divini: per lui, si tratta solo di una perdita netta.

Il motivo profondo di quanto succede si coglie andando sotto la superficie.

In che cosa consiste veramente il fuoco che è stato sottratto e che viene recuperato quantunque senza la caratterizzazione liberatoria (il suo restitutore sarà condannato a morire ogni giorno, incatenato all’axis mundi)?

Qui soccorre lo studio di Kerényi (Miti e Misteri): l’uomo, anthropos, è colui che ha la “faccia di brace”. Il Titano, il figlio del fuoco stellare, il figlio di Urano.

Togliere il fuoco significa togliere la faccia, l’identità, il potere originale, sconfiggere, abbassare, privare, mutilare…

Il rito del fuoco e della morte, il sacrificio, è veramente il centro delle gerarchie cosmiche.

Gli orfici invocavano i Titani come antenati sotterranei del genere umano (Orphei Hymni 37, 2). I Titani sono maestri del fuoco, allo stesso modo delle turbolente razze divine preolimpiche.

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Giuseppe Lampis

Il mitraismo

L'ultima religione di una società di maschereGiuseppe Lampis

1. Un mistero con le maschere a Roma

I devoti dei misteri di Mithra erano organizzati secondo una gerarchia di sette gradi: corvo, sposo, soldato, leone, persiano, corriere del sole, padre.

I mosaici del mitreo di Felicissimus a Ostia ci informano sulle corrispondenze dei gradi con i pianeti e sulle insegne che loro rispettivamente competono; gli affreschi di quello di Santa Prisca sui loro costumi e funzioni. Nel mosaico del mitreo ostiense il settenario dei gradi iniziatici viene messo nella seguente corrispondenza con i pianeti: corax , Mercurio; nymphus , Venere; miles , Marte; leo , Giove; Persa , Luna; heliodromus , Sole; pater, Saturno (1). Robert Turcan, che ritiene secondario e posticcio lo strato dottrinale astrologico, considera il settenario dei gradi iniziatici una formazione tarda, istituzionalizzata solo nella seconda metà del II secolo, per far quadrare la serie degli astri con la scala dei gradi; a suo avviso gli unici titoli sicuramente primitivi sono quelli di corvo e di leone (2).

Il primo e il quarto grado, corax e leo , indossavano maschere di animali (come risulta dal bassorilievo di Konjic, presso Sarajevo in Bosnia).

È idea comune generale dei misteri che l'iniziato, nel rinnovare se stesso, rinnovi anche il mondo e la comunità. Certamente si tratta di un'idea presente nel pensiero vedico e iranico, ma anche presso i Latini, gli Egizi, e – più lontano – presso i Cinesi; eppure l'idea che la rinascita degli individui (in particolare la rinascita della classe dei maschi adulti, dei governanti e dei guerrieri, ovvero soltanto del sovrano in cui si riassume la società intera) si ripercuota in una rinascita generale appartiene a un fondo ancora più arcaico, del quale è stato riconosciuto tributario lo stesso pensiero indoiranico. Tale fondo è quello che in sede etnologica si esprime nelle procedure introduttive alla nascita dei veri uomini attraverso i riti di cui sono depositarie le società segrete delle maschere, i Männerbünde , le confraternite maschili iniziatiche.

Nella società e nella cultura persiane tali società segrete di guerrieri godono di grande prestigio e è noto che presso di esse è coltivato in sommo grado il valore della lealtà reciproca, del mantenimento della parola data, della fedeltà al giuramento agli dei. Altrettanto nota è la importanza della mano destra nella cultura indoiranica, come sede della propria potenza e come rappresentante impegnativa della propria persona.

Nella Commagene, regione nella quale sembra potersi rintracciare l'anello intermedio tra il Mithra originale iranico e quello greco-romano, uno dei simboli fondamentali del culto del re era la stretta della mano destra ( dexiosis ) tra lui e Mithra, proprio quella che ritroviamo al centro del rito e dell'immaginario mitraico greco-romano, anche qui con il valore di autentico sacramento con il quale ci si impegna nel rapporto di alleanza con gli dei, essenziale come la romana pax deorum .

Per il mitraismo, l'umanità non è metafisicamente separata dalla divinità e esclusa da un destino divino; al contrario una parte di essa può partecipare al drammatico conflitto che segna la fase cosmica in atto in stretta alleanza con Mithra. L'uomo, che rischia di rimanere

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inchiodato nell'irrigidimento e precipitato nell'oscurità, deve alzarsi e lottare.

Richiamando i poteri che le maschere suggellano in sé, l'uomo può farcela; può farcela acquistando nature sempre più ricche. Del resto, una volta accertata la presenza qualificante delle maschere nel nucleo primitivo del mitraismo se ne deve dedurre che ciò comporti con sé anche la retrostante ideologia (3).

Il conseguimento dei vari gradi doveva venire interpretato come una trasmutazione in forme speciali demoniche e la assunzione delle maschere corrispondenti confermava l'avvenuta integrazione con stati di esistenza e poteri più intensi.

Si configura così un fenomeno religioso relativamente recente in cui la metafisica della maschera si presenta ancora in primo piano.

2. Una religione filosofica?

I l primo e il quarto grado degli iniziati mitraici, corvo e leone, corax e leo , indossavano le maschere degli animali corrispondenti e ne imitavano il verso gracchiando e ruggendo.

Anche i Traci si mascheravano in occasione del sacrificio del toro (4).

Il corvo è un messaggero del sole, il cui tentativo di trovare il toro fuggito non raggiunge il risultato. Il leone è un simbolo solare e dato che tutti i simboli contengono una doppia valenza esso potrebbe anche rappresentare un demone negativo e contrario. L'arcangelo Michael e l'evangelista Marco hanno la testa di leone, come peraltro l'arconte malvagio Ialdabaoth.

Un grande eroe liberatore – dal profilo strutturale arcaicissimo –, Herakles, indossa abitualmente uno strano elmo formato dalla testa a fauci aperte di un leone. Nello strato più primitivo del suo mito affiorano i caratteri di un Signore degli animali (5), ovvero di una arcaica divinità che ha la forza di trarre gli animali dal mondo dell'invisibile.

Fino dal Paleolitico gli animali – come tutto ciò che viene alla vita e la alimenta – vengono dal regno dell'oscuro, dalle viscere del mondo, dalle caverne. Hermes, il trickster , ruba i buoi del fratello Apollon trascinandoli a ritroso, come conviene fare liberando le ricchezze di cui l'aldilà – che costituisce il rovescio dell'aldiqua – è sempre dovizioso. La sua procedura contiene tuttavia un'aura di ambiguità, perché il cammino a ritroso potrebbe anche e meglio indicare che l'armento sta così tornando nel luogo suo proprio; e con ciò si mostrerebbe anche la ambiguità di Apollon-Helios il quale, dato che riesce a scoprire ciò che è stato ricondotto nell'aldilà, deve di conseguenza essere dotato del potere di estendere la sua influenza sia sul chiaro sia sullo scuro.

Anche per il grado di heliodromos è stata avanzata l'ipotesi (6) che sia stato usato il nome di un animale. Si tratterebbe di un uccello indiano la cui vita imita il sole, infatti fino dalla nascita si alza verso oriente e scende verso occidente e la sua vita dura esattamente un anno. Così, nel suo comportamento starebbe racchiusa e la corsa diurna e la corsa annuale del sole.

Che i Misteri prevedessero la presenza di animali, almeno per i gradi che occupavano i sedili, risulta a Gordon anche dal fatto che proprio i sedili possono venire chiamati praesepia (Ostia, Aldobrandini) (7). Queste argomentazioni sollevano una questione più generale; se si prende atto che la nuova e fresca metafora locale del gruppo di Ostia rinvia a un pre-existing complex of established Mithraic metaphors wich speak of human beings in terms of animals , allora bisognerà anche decifrare il codice secondo cui sono stati organizzati e trasvalutati in tale

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modo specifico uomini negli animali e animali negli dei e nelle stelle.

Roger Beck (8), riconoscendo che la linea interpretativa astrologica introduce in un campo altamente simbolico, attribuisce particolare importanza ai testi del neoplatonico Porfirio ( de antro nympharum e de abstinentia ) in quanto rappresentante di una filosofia a forte caratterizzazione simbolica. Per la stessa ragione Porfirio viene considerato inattendibile da Turcan, che lo prende piuttosto per un interprete filosoficheggiante dei misteri in genere invece che per un testimone ravvicinato del mitraismo.

Comunque, gli studiosi che propendono per la tesi interpretativa astrologica debbono fare i conti con le testimonianze neoplatoniche. In proposito, Gordon taglia corto: Plutarco e Porfirio portano al caos (9) perché non distinguono più tra esegesi e mito, mentre Origene ( c. Cels. 1, 12) almeno si lascia sfuggire che «fra i Persiani (= i mitraisti) ci sono riti di iniziazione che vengono interpretati loghikôs dagli eruditi ma messi direttamente in atto da gente di livello popolare.»

Ora, per Gordon, neanche Origene era più in grado di distinguere loghikôs (= filosoficamente, secondo la sua traduzione) tra il mito e la speculazionesacerdotale non greca che di solito interessa i filosofi (10). Però, paradossalmente, proprio la impossibilità di distinguere ormai più tra misteri veri e filosofia neoplatonica (11) rende imprescindibili le allegorie neoplatoniche. Esse (e il loro complex ) costituiscono a suo avviso ormai un passaggio obbligato per ogni tentativo di raggiungere un nucleo del mistero più genuino e meno sofisticato eventualmente sottostante alle rielaborazioni romane. Di modo che tocca a noi ora di fare ciò che i contemporanei del mitraismo non hanno fatto, cioè di discriminare nell'universo delle allegorie.

Così la tesi origeniana – che i misteri erano interpretati dallo strato più colto mentre i più semplici li applicavano direttamente ( enacted directly ) – stimola Gordon a ricercare le metafore non istituzionalizzate ( established ) presso i lessici locali.

In breve, si affaccia un criterio volto a spiegare la stratificazione delle metafore del mitraismo sulla base della articolazione dei livelli sociali degli adepti, articolazione che si proietterebbe in una sorta di dualismo nel culto e nella dottrina, una religione passiva per il popolino o la truppa ( common, rather shallow, people ) e una filosoficamente sofisticata per le classi colte.

Non è chiaro se Gordon spingerebbe la sua interpretazione del passo di Origene fino a affermare che una traccia intatta del mistero originale potrebbe essersi conservata presso i mitraisti più ingenui, proprio a causa della loro passività; mentre il culto effettivamente affermatosi a Roma sarebbe altra cosa, specificatamente risultando dall'intervento di ambienti culturalmente sofisticati impegnati a valorizzare, adeguare, assimilare una divinità esotica, o le divinità esotiche in genere.

3. Il mito di Mithra

N on abbiamo notizie complete e argomentate sul mito di Mithra, tanto meno dall'interno della confraternita dei mitraisti, salvo nel caso di Tertulliano che pare fosse stato iniziato ai misteri mitraici in Roma prima della conversione al cristianesimo sul finire del II secolo. Le notizie più estese che questo autore ci rimanda sono circoscritte al rituale di consacrazione dei gradi di miles e di leo . Ma la sua attendibilità è oggetto di riflessione preoccupata: nel passo in predicato (de praescr. haer. , 40) compare l'inquietante affermazione che era il diavolo a offrire agli iniziati una rappresentazione della resurrezione (imaginem resurrectionis inducit). E tuttavia accogliamo la notizia (che, fatte salve tutte le doverose riserve, risulterebbe pur sempre provenire dall'interno) che i mitraisti si concentravano su una icona della resurrezione . Il concetto di resurrezione va preso con la massima cautela e però è interessante che esso si trovi in relazione con la uccisione compiuta dall'eroe, padrone della vita – si direbbe – in quanto

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padrone dell'atto di morte.

Tra gli elementi di un mito che doveva avere una sua complessità spiccano la nascita dalla roccia ( saxigenus ); l'avere provocato con un colpo di freccia sulla roccia lo sgorgare di una copiosa sorgente vitale per gli uomini; una impresa ardua – definita transitus dei – che comprende la cavalcata del toro, il suo trascinamento (tauroforia) nei modi che si è detto fino al trasporto a spalla dentro l'antro; la tauroctonia (il termine taurobolion usato come sinonimo corrisponde effettivamente alla stessa azione?), ampiamente documentata come episodio culminante.

Come si vede già dalle grandi linee, ci troviamo di fronte a prove e imprese particolarmente ardue che si richiamano quasi certamente a uno scenario iniziatico, peraltro tipico dell'eroe.

Il dono delle acque, dissuggellate dalla montagna con la forza magica delle proprie armi, potrebbe riferirsi allo strato più antico della figura di Mithra, a quel ruolo di grande mediatore psicopompo che abita la vetta del mitico monte Hara (il vertice della terra per gli Iranici), sulla quale scende l'arcobaleno che fa da ponte tra la terra e il cielo. Le grandi acque benefiche che si rendono disponibili in terra (Gange, Nilo, e in definitiva tutti i grandi fiumi) provengono da grandi bacini celesti attraverso misteriosi passaggi dall'alto principalmente seguendo l'arcobaleno o la strada aperta da grandi dee (Ishtar) o dei dalla loro sede urania, localizzata spesso sulla luna. Ora, il Mithra antico iranico abita il luogo alto da cui prende slancio questo fondamentale passaggio e il colpo della freccia miracolosa – che somiglia molto da vicino a un atto da sciamanico mago della pioggia – garantisce il collegamento con il cielo. Mithra, lo sappiamo, è infatti il giudice delle anime per delega del Signore Sapiente e constatiamo che anche nel quadro monoteistico non gli si è potuta sottrarre questa sua essenziale funzione.

E' vero che l'arma più nota di Mithra sembra essere il pugnale a lama larga che affonda nella gola del toro, epperò questo non deve impedirci di dare il peso dovuto alla sua freccia, la quale in un certo senso sembra restare consegnata nell'ombra di un episodio secondario mentre invece illustra in modo significativo la figura del dio eroico.

La freccia va lontano e colpisce oltre le distanze. Nello stesso termine di taurobolion (alla lettera, uccisione del toro mediante un colpo lanciato da lontano) (12) si allude a un rituale diverso dallo sgozzamento – che sembra più circoscritto e più da recinto sacro (per una vittima preparata e disciplinata) – del genere più arcaico della cultura dei cacciatori paleolitici proiettati negli spazi aperti delle vaste praterie a inseguire circondare sfiancare i tori selvaggi, in una delle cacce più difficili e selettive (13). Questa considerazione non depone a favore della tesi di Turcan che la tauroctonia sia un sacrificio ordinario.

Il trascinamento a ritroso di animali da armento sembra a prima vista un comportamento furbesco di abigeatari che vogliano ingannare il legittimo proprietario. Hermes, nell'inno omerico a lui dedicato, trafuga in siffatto modo la mandria di suo fratello. Similmente si comporta il gigante Cacus che sottrae a Herakles sette capi di bestiame trascinandoli per la coda nella sua grotta dell'Aventino (14). Mithra viene anche denominato ladro di buoi (sprezzantemente: bouklopos , in Firmico Materno).

Il collegamento con lo scenario dei cacciatori e razziatori arcaici illustra un tratto della figura primitiva di Mithra; in quella ideologia, gli animali selvaggi sono proprietà delle potenze invisibili dell'aldilà e solo un eroe che abbia ottenuto il soccorso di dei potenti può andare a prenderli vincendo i guardiani. Herakles costringe il Sole a aiutarlo, in specie nel percorso oltremondano (e infatti trasborda nell'aldiqua i buoi del triplice Gerione infero sulla coppa del Sole. Il Sole, lo abbiamo già visto più sopra, è ambiguo e ha due facce). Anche Mithra fruisce dell'aiuto del Sole (o lo costringe?).

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Tuttavia il percorso dell'impresa faticosa del dio, che si dimostra capace di catturare il toro, sfiancarlo, trascinarlo per le zampe, trasportarlo a spalla nel suo antro, e infine offrirlo in modo esemplare va studiato con attenzione. Infatti qualcosa non quadra completamente. Il sacrificio del toro non avviene all'aria aperta bensì nella caverna, come se fosse stato riportato dal proprietario vero lì indietro, nella sede naturale, dopo una fuga indebita.

Il toro viene fatto rientrare nella caverna, sede appropriata alle mandrie infere. E il rovesciamento forzato del modo di marciare indica piuttosto che si tratta di un ritorno. Inoltre, il dio sta di casa (mito della nascita) nella caverna, cosicché si configura nel tempo stesso come un Signore degli animali e come un Signore del labirinto . Il toro appartiene alla sua giurisdizione, e solo lui dimostra di poterne trarre le potenze intrinseche.

Il mito primitivo contempla che il toro era fuggito e che il benefattore lo aveva ripreso per sé in qualità di legittimo proprietario. Del resto nella ideologia dei paleocacciatori la caccia riesce fortunata solo a condizione che la preda venga riconsegnata (anche simbolicamente, p.e. nel modo della pars pro toto ) al terribile proprietario Signore o Signora degli animali, in quanto solo questi può disporre della preda selvaggia.

Ecco, Mithra pare specialmente congiunto con la ambivalenza del Sole. Egli è anche il Sole che sta nella caverna, ovvero anche l'altra faccia del Sole. Versato sulle due regioni che costituiscono l'una il rovescio inscindibile dell'altra, di esse mediatore, il molteplice Mithra (15), mortale e vitale, uccisore e creatore, si colloca nel punto di passaggio e di inversione tra visibile e invisibile. Ciò è caratteristico del signore della maschera.

Mithra viene giustamente accostato al leone, tipica maschera della bipolarità del Sole. Sottolineo di sfuggita che la figura del dio che assalta il toro ricalca fedelmente l'iconografia esemplare del leone che caccia il toro, lo assale sulla groppa e lo azzanna per atterrarlo.

Non a caso, come ho sottolineato, il culto mitraico comprende l'uso delle maschere da parte di una società segreta maschile di guerrieri. È questa una delle ragioni per la quale è connaturato con la religione di Mithra di essere un mistero, infatti al centro dei misteri sta il tema della preparazione a affrontare il terribile e sconvolgente incontro con le potenze dell'invisibile, per appropriarsene a integrazione di sé.

Naturalmente a una entrata a rovescio rispetto alle apparenze e alle regole del mondo sensibile dovrà corrispondere una uscita simmetricamente inversa; di modo che il toro deve entrare a rovescio nella caverna come le anime per liberarsi debbono sciogliere i nodi nell'ordine inverso rispetto a quello con cui sono stati legati dai poteri che dominano il mondo.

4. Il sacrificio del toro

I l sacrificio del toro è l'episodio culminante del mito di Mithra. Nel mitreo di Santa Prisca un verso dipinto recita: et nos seruasti (a)eternali sanguine fuso , e tu ci hai salvato con lo spargimento del sangue eterno. In verità, il rito del taurobolion è fondamentale anche nella religione della Magna Mater Cibele; ma nel caso mitraico non si tratta di un sacrificio al dio sibbene del dio.

Fino dai primordi il toro è stato simbolicamente connesso con il cielo nel suo aspetto uranico, sia come cielo notturno stellato in genere sia come una figura specifica presente nello Zodiaco (16). La figura del toro si specializza come rappresentazione del lato notturno del sole e arriva a essere associato all'astro lunare dalle corna falcate del quale segue le vicende patetiche. La luna è l'astro vagante per eccellenza e viene inoltre considerata sede delle acque e dei semi della vita (17). Nei rilievi mitraici del tipo danubiano ricorre un particolare tipico: il toro seduto

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nella navicella lunare a forma di falce, scapha lunaris .

Mithra, nel compimento del suo atto supremo, quando affonda il pugnale tra la spalla e il collo del toro, non guarda la vittima a cui pure torce il muso volgendolo a sé. L'espressione che viene fissata sul viso del giovane dio non è di trionfo, come sarebbe naturale in chi avesse prevalso su una forza indomita. Cumont la considera una espressione di tristezza, come se l'atto venisse compiuto malvolentieri, e sulla base di questa interpretazione attribuisce l'archetipo iconografico a uno scultore della scuola di Pergamo, tipica per le espressioni patetiche e drammatiche, scultore che si sarebbe rifatto al modello della Nike bouthutousa (la Vittoria che sacrifica il toro) del tempio di Athena sull'Acropoli.

Turcan ritiene invece che il viso del tauroctono sia solo “teso e ispirato” (18): del resto egli vede la vittima bardata secondo le regole del sacrificio romano ricinta con una tipica dorsuale ricamata (19) e giudica che la sua immolazione si compia all'interno di un rito pacato. Cumont in luogo della dorsuale distingueva la cintura dei tori da combattimento e, in effetti, il toro sembra opporre una selvaggia resistenza e essere stato preso di slancio (indignata sequi torquentem cornua – canta Stazio, Tebaide , I,720 –).

La discussione sulla icona archetipica è del massimo interesse perché in essa non può non essersi conservata la chiave per decifrare il senso strutturale del dio.

Comunque vada intesa la maschera di Mithra, un suo tratto permanente è che egli non guarda il toro mentre lo uccide e che si gira dall'altra parte: il tema del rovesciamento nel rapporto con il toro ricorre in modo caratteristico e non solo nell'episodio culminante (in cui sono rovesciati la testa del toro e il volto dell'eroe), ma anche in quello precedente e altrettanto peculiare della cattura, nel modo a ritroso con cui il toro viene trascinato nell'antro – modo che esaminerò più avanti –.

In verità, nell'immaginario classico c'è un eroe, splendidamente solare, che affronta la sua vittima con la testa girata, senza guardarla direttamente per non restarne attratto e irrigidito. Egli è Perseo, il mitico fondatore della nazione persiana, ma tutto ciò non è prova sufficiente per una sua identificazione con Mithra.

Tuttavia la coincidenza di Mithra con Perseo è stata sostenuta, sulla base di argomenti astronomici, da David Ulansey (20) il quale ha attribuito la formazione della nuova religione alla crisi provocata dalla scoperta della variabilità degli equinozi e cioè del corso stesso degli astri (in breve, della zona più divina del cosmo). Gli astronomi si erano accorti già da tempo della precessione degli equinozi, negata per ragioni di principio dai sostenitori della fissità del grande ciclo cosmico, e una corrente attenta allo studio del valore religioso dei segni degli astri ne avrebbe fatto il suo tema principale.

Orbene, per quella particolare oscillazione conica dell'asse terrestre (nel sistema geocentrico, l'asse terrestre si prolunga nell' axis mundi ) che provoca il fenomeno della precessione, l'inizio dell'anno (la primavera) non veniva a cadere più sotto il Toro (maggio) bensì sotto l'Ariete (aprile). In quel tempo, mentre le costellazioni corrispondenti agli animali dell'icona archetipica (cane, serpente, corvo) comparivano sopra l'equatore, si vedeva il Toro soccombere sotto la costellazione di Perseo. Ulansey sostiene che a questa sarebbe stato attribuito il nome di Mithra in onore di re Mitridate VI Eupatore che rivendicava di discendere da Perseo. C'è da aggiungere che tale attribuzione risultava coerente con la credenza che Mithra, dio del Sole levante, reggesse proprio l'equinozio di primavera.

Turcan obbietta che la suddetta precessione non avrebbe affatto sconvolto le menti (21), e incalza osservando che la teoria di Ulansey « ne rend pas compte de toute l'imagerie mithriaque, en particulier des épisodes qui suivent ou précèdent la mise à mort du taureau.

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Pour être crédible une exégèse doit être totale » (22).

Dal canto suo egli ha preferito attenersi alle steli a figure multiple del tipo retico-renano dalle quali emergerebbe il racconto di una vera e propria storia del mondo che cominciata con Aiôn leontocefalo, Saturno, finisce con il suo ritorno. In mezzo, l'intervento di Mithra (23).

Da tutto ciò Turcan ricava che quella del mitraismo è la religione dell' eterno ritorno . (*)

Ulansey ha ulteriormente precisato (24) che nel dio del mitraismo andrebbe riconosciuto il sole iperuranio dei platonici, forza che non può essere contenuta nella caverna cosmica ma che ne erompe e la governa, quasi un dio eroico con il potere di sovrastare e di invertire il corso degli astri.

Se dietro il toro si celasse Saturno-Aiôn la tauroctonia corrisponderebbe alla mitica mutilazione con la quale si dà inizio all'ordine attuale.

Tuttavia alcuni studiosi hanno ritenuto che Mithra si ponga in contrasto non tanto con Crono-Saturno quanto con Ahriman, dio di questo mondo, e nella figura con la testa di leone circondata da segni zodiacali hanno preferito vedere quest'ultima potenza. Naturalmente, una simile lettura comporta che l'uccisore del toro (saturnino) sia Ahriman.

5. Mithra e Ahriman

L' escatologia iranica ci è pervenuta da testi redatti in epoca relativamente tarda dai riformatori zoroastriani, ma non dobbiamo sottovalutare i testi ancora più recenti dei controriformatori i quali reagendo alle innovazioni spiritualiste di Zarathustra con ogni probabilità hanno ripresentato idee più primitive tratte dalla tradizione precedente, anche se va considerato che spesso i riformatori hanno cura di avvolgere le loro accelerazioni in arcaismi altrettanto autentici – ciò vale per gli Orfici, vale per i vangeli cristiani – al fine di potersi presentare come i realizzatori della vera tradizione.

Nella religione dell'Iran antico sono stati proposti due salvatori, uno è lo stesso Zarathustra (Saoshyant, alla fine dei tempi, nasce dal seme di Zarathustra conservato in un lago dove si bagnerà una vergine che ne resterà fecondata), l'altro è Mithra.

Dunque una più accentuata valorizzazione di Mithra è congeniale, per così dire, con una riscossa reazionaria tradizionale (nello zoroastrismo ortodosso egli è soltanto un grande demone positivo aiutante di Ohrmazd), e come l'iniziativa di Zarathustra rientra nella grande ondata di svalutazione del rito a favore della maggiore potenza dell'interiorità (25) così Mithra si ripropone come il grande signore dell'azione, come il modello dell'azione sacra, come colui che recupera il valore insopprimibile dell'azione rituale. Mentre per Zarathustra il rito prolunga l'efficacia delle forze cosmiche dominanti nel mondo e va pertanto ridimensionato, Mithra insiste sulle possibilità di salvazione scaturenti proprio dall'incontro-scontro con le forze infere.

Sembrerebbe perciò che, alla fin fine, si debba dare credito proprio a quanto traspare dalla notizia di Plutarco ( de Is. , 46), che la religione persiana contempli il culto di due divinità avversarie, alle quali si tributano due generi di sacrifici – su prescrizione erroneamente attribuita al mago Zarathustra – . Ora, dal momento che Mithra si colloca come mediatore tra i due principi del bene e del male in conflitto, ne conseguirebbe che questo suo ruolo dovrebbe esercitarsi anche nel rito. In tale caso resterebbe da capire in che modo con Mithra il sacrificio contempli anche e essenzialmente un incontro mediatore con il dio del male e la questione

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investirebbe direttamente il nucleo intrinseco del mistero.

Nel Bundahshn , libro della cosmogonia in 36 capitoli, redatto in lingua sacerdotale pahlavi nel IX-X secolo durante il dominio abasside dopo la conquista araba dell'Iran, si trova una rielaborazione letteraria della dottrina zoroastriana. In questo testo compare un passo secondo il quale l'uccisione del toro fu compiuta all'inizio da Ahriman, il quale attacca la creazione e avvelena le acque e la vegetazione.

In altro luogo, il testo avestico prevede che il Salvatore (il Saoshyant, identificato con Mithra) alla fine ucciderà anche egli un toro per comporre la bevanda di immortalità «mescolandone il grasso con lo haoma ».

Però nella iscrizione di Santa Prisca leggiamo che il sacrificio è già avvenuto ( seruasti è al tempo perfetto) e forse si deve intendere che per i mitraisti si sia già entrati nella epoca della fine dei tempi; del resto è proprio delle escatologie il ripetere gli atti dell'inizio per revocarne e mutarne l'effetto.

La tardività della redazione pahlavi non è ragione sufficiente per ritenere non appartenente alla tradizione iranica la dottrina che il sacrificio cosmogonico sia stato compiuto da Ahriman. In attesa che gli specialisti decidano inequivocabilmente sulla questione, si può tuttavia ammettere fino da ora che la struttura del dio Mithra non sarebbe modificata dal fatto che in illo tempore il toro sia stato ucciso dallo spirito antagonista. È evidente che la presenza delle due varianti circa il vero uccisore del toro appare intollerabile solo a partire da un presupposto monoteista. Anzi, le apparenti oscillazioni possono costituire proprio dei segnali di una tensione diteista o antimonoteista (nelle dottrine più arcaiche il creatore primario viene contrastato da un avversario).

Zarathustra, il grande riformatore religioso autore di una energica intensificazione monoteista, proibì il sacrificio cruento, ma non riuscì a eliminare quello dello haoma la cui preparazione prevede l'uso del grasso (o del sangue?) del toro e di conseguenza comporta che comunque un toro venga ucciso.

Per Turcan (26) il rimprovero di Zarathustra ai sacrificatori di buoi di volere in tale modo allontanare da sé la morte ( Gatha Y 32) rivela che già nella ritualità precedente era presente un sacrificio positivo non legato a Ahriman.

Secondo Philiph G. Kreyenboeck (27), Mithra è l'autore del sacrificio positivo con il quale si apre la creazione in un mito indoiranico prezoroastriano che avrebbe conservato la tradizione originale della cosmogonia: a suo avviso, Yasht 13 «contiene tracce di un mito cosmologico che si distacca nel fondo dai racconti molto zoroastrianizzati del Bundahshn e si accorda con l'evidenza vedica per la quale il presente stadio del mondo (il secondo) è emerso per un atto di liberazione, e per la quale il primo stadio è inferiore a questo» (28). Durante il primo stadio, infatti, il cielo schiacciava la terra e i prototipi della creazione stavano immobili in uno spazio stretto.

Anche per la religione zoroastriana, all'inizio, prima del secondo atto creativo (quello dell'attacco di Ahriman, a causa del quale il mondo cade nella mescolanza con le tenebre), il cosmo è immobile. La differenza della tradizione più antica con lo zoroastrismo consiste nel fatto che mentre per questo il secondo atto creativo introduce in una fase di caduta – e è opera del principio del Male (di Ahriman che, fra l'altro, uccide il Toro) –, per quella il secondo atto inaugura il regno della luce – e è opera di Mithra –.

Nei Veda (in cui Indra finirà per assorbire le funzioni creative originali di Mitra), il Sole e le

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Vacche erano inizialmente chiuse nella pietra – ashman –; allora il cielo era considerato di pietra e il senso dell'affermazione di RV . 7. 88. 2 è che un cielo di pietra serrava il Sole e le Vacche, come una caverna (29). Il ruolo di Mithra signore delle vaste praterie (del cielo) di esemplare apritore del regno della luce, in definitiva di Sole levante, è ampiamente confermato dagli studi (30).

Si deve considerare che anche il sacrificio mitraico rientra, con la sua specifica proposta, nel quadro innovativo che consegue alla crisi del sacrificio tradizionale. D'altronde esso non viene compiuto effettivamente ma celebrato solo simbolicamente (come peraltro anche presso neopitagorici e neoplatonici). Bisogna tuttavia intendersi sul concetto di simbolico, che non equivale affatto a quello di fittizio; anche il sacrificio della messa cristiana si presenta in vesti simboliche ma viene considerato reale dai suoi fedeli.

I mitrei non sono templi del dio ma di uomini che lo commemorano, e non tanto con il compiere essi stessi una immolazione quanto piuttosto con il ricordo di quella esemplare compiuta da lui. Turcan sostiene che il sacrificio mitriaco è fortemente innovativo rispetto alla consuetudine greco-romana per il fatto che l'altare non sta fuori del tempio all'aria aperta ( sub diuo ) bensì dentro l'antro al chiuso. Eppure quel dentro è una imago mundi ; di modo che spesso sul suo soffitto è raffigurato il firmamento e nella volta del mitreo di San Clemente sette fori rappresentano i pianeti.

Non pare che ci sia una differenza sostanziale tra il luogo della nascita di Mithra ( saxigenus ) e il luogo del suo atto supremo di libertà. Inoltre, bisogna considerare che nella tradizione liturgica classica in effetti è previsto un tipo di sacrificio notturno , precisamente quello per gli eroi, cosicché non escluderei che la liturgia mitraica si innesti su una rilettura del valore di quella arcaica consuetudine.

6. Mithra re

N onostante la autenticità della tradizione che fa uccidere il toro da Ahriman, resta assolutamente indubbio che anche Mithra uccida il toro e se non bastassero le notizie sulla dottrina soccorrerebbero i numerosissimi documenti archeologici.

Mithra riassume forse su di sé Ahriman per mutarlo di segno? Eppure egli non era e non è un dio privilegiato, per così dire, dal monoteismo, un dio al quale spetti di eliminare il dualismo (o il diteismo) assorbendolo in sé, come compete alla figura rielaborata del Signore Sapiente da Zarathustra.

Forse Mithra e Ahriman hanno qualcosa di essenziale in comune? Le due varianti del testo avestico possono essere entrambe autentiche salvo prova contraria, però difficilmente possiamo immaginare il mitraismo a Roma come un culto nero, ancorché apotropaico.

Plutarco ( de Is. , 46) sostiene che il mago Zarathustra insegnò che si dovessero «celebrare riti lugubri e apotropaici» al dio dell'oscurità e dell'ignoranza Arimanios. Il Mithra introdotto a Roma soddisfa una esigenza romana diffusa, e se qualcosa nel fondo della sua storia lo accomunasse al dio del male anche questo dovrebbe soddisfare la stessa esigenza. Sgombriamo tuttavia in via preliminare il campo dal sospetto che una eventuale componente rituale dei misteri di Mithra rivolta alle tenebre e al male (il versante nero di Saturno?) possa venire confusa con una grossolana superstizione. Se ci fosse realmente, tale componente andrebbe individuata nella struttura stessa del dio salvatore.

In effetti Mithra risulta innanzitutto un mediatore a partire dal senso di stringitore di contratti che caratterizza la sua primitiva figura iranica. E, nel quadro in cui egli si muove, il principale

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problema della mediazione concerne la principale divaricazione dualistica in atto, quella tra il Signore Sapiente Ormazd e il suo avversario cosmico Ahriman. Bisogna afferrare in tutti gli aspetti e in tutte le relazioni interne il complesso religioso mitraico riflettendo sulla natura profonda del «Mithra iranico, il mesítes (31), colui che osserva e promuove il trattato regolante il conflitto tra Ormazd e il suo nemico, e che è nello stesso tempo – e per la medesima motivazione – giudice e combattente contro il male e il maligno» (32).

Per Turcan (33) la definizione di Plutarco rappresenta una tappa della influenza della dottrina platonica della mediazione che spinge la figura di Mithra fuori dall'originale iranico facendone un demiurgo. Il mediatore platonico per eccellenza è Hermes-logos e già Varrone aveva fatto derivare il nome di Mercurio (con cui fu notoriamente identificato lo Hermes greco) dalla idea che si trattasse di un dio medius currens .

Turcan prende le mosse dalla tesi di Stig Wikander che aveva decifrato e sciolto l'attributo di Mesoromasdes , con il quale il Gran Re persiano invocava il sole come mediatore tra il mondo della luce e il mondo delle tenebre, in Mithra-Ohrmazd . Il documento essenziale dell'avvenuta affermazione di un Mithra mediatore si ritroverebbe nella equazione Apollon-Mithra-Helios-Hermes con la quale viene designata (I sec. a. C.) una statuadel tempio di Nemrud Dagh, nella Commagene, sede di un culto a forte caratterizzazione astrologica del re defunto divinizzato.

D'altronde stabilire legami con il male non vuole dire sottomettersi a esso; il male – anzi – si può combattere efficacemente solo incrociandolo in un contatto stretto e costringendolo entro delle regole. In proposito non va dimenticato che, per Zarathustra, Ohrmazd ha creato il mondo votandolo segretamente alla catastrofe per attirarvi Ahriman a combattere come in una trappola, di modo che il semplice rispetto delle regole che trattiene Ahriman in quel campo di battaglia contiene in partenza la sua sconfitta finale.

Il grande demiurgo si impone soprattutto come il supremo detentore della potestà regale e della ars regia , che è l'arte di manipolare vittoriosamente il male (34). Mithra il mediatore , collocato tra il sole superiore e il sole inferiore (Cautes e Cautopates), celebra il trionfo della faccia diurna e vitale del sole su quella mortifera e notturna. Nato nel solstizio d'inverno (saturnino) si afferma nell'equinozio di primavera, tipico della mondanità trionfante. Non si tratta infatti della vittoria di un dio lontano, al contrario egli è nel mondo e lo governa, lo regge, lo salva. Egli è il dio della vita attiva per eccellenza, non muore, non deve resuscitare; egli è semplicemente, da eternamente giovane, un combattente vittorioso.

Colui che si colloca nel punto in cui si compie l'atto fondamentale può essere dunque uno spirito della rottura o uno spirito della salvezza. La differenza fra i due non è data dal mero compimento di atti diversi, perché l'atto rimane lo stesso, l'uccisione del toro cosmico; la differenza è data dal senso che si imprime a questo stesso atto. Il sangue può alimentare animali immondi e può salvare, et nos seruasti ( a ) eternali sanguine fuso .

La esigenza di andarsi a collocare in quel punto cruciale non compete a uno spirito volto alla contemplazione, o sacerdotale, ma a uno spirito squisitamente attivistico e regale. Il centro dal quale il mondo può disperdersi e può salvarsi viene occupato da un dio dell'azione e non da un deus otiosus . Non un sovrano lontano dagli affari complessi e attuali del governo, bensì un re che ne sa affrontare le terribili fatiche e le conseguenti inevitabili battaglie (35). Ora, il dio che sta dietro la funzione regale, dietro la funzione che si immerge fattivamente nelle cose del mondo degli uomini, dietro la mediazione , è un dio signore della morte. Esso può essere Ahriman, ma può essere Mithra il Saoshyant. Nell'incendio escatologico che affonderà il mondo, Mithra il Giudice farà risorgere tutti gli uomini e li dividerà in definitivamente mortali e immortali, resi tali dalla bevanda di immortalità, la più regale delle bevande, il vino, acqua di vita, simbolo del sangue del toro sacrificato.

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L'ideologia mitraica riguarda il senso del conflitto paradigmatico e tocca il grande problema delle potenzialità creative e salvifiche dell'uccisione o del gesto cruento correttamente orientato (problema che occupa il centro delle ideologie degli kshatriya , militari e governanti, depositari della funzione solare).

Va tuttavia rilevato che lo spirito romano classico non è certo favorevole all'atto del singolo, essendo piuttosto per la sacralità della comunità orientata nel suo territorio con i suoi dei, vale a dire per la urbs . Roma non poggia né sulla idea di razza né su una religione esclusiva bensì sulla legge e la conseguente gerarchia.

Con il mitraismo e il cristianesimo primitivo l'accento si spostava dalla urbs alla parte. Vale in proposito la riflessione di Pettazzoni, per il quale i misteri come religioni dell'individuo appaiono in contrasto con la religione dello stato e della città perché nascono da istituzioni che precedono la formazione degli stati.Giuseppe Lampis

________________________________________________

Note:

*) Si può esprimere una tesi sostanzialmente nietzscheana sia facendo del mitraismo la religione dell'eterno ritorno (Turcan, Beck, Couliano,...) sia sostenendo che lo spirito religioso cristiano originario viene dall'Iran (la Religiongeschichtlicheschule può non essersi mossa per diretta ispirazione dello Also sprach Zarathustra ma rientra a pieno titolo nella vasta corrente che ridiscusse in profondità le radici del cristianesimo nello scorcio del secolo scorso e che ebbe in Nietzsche uno dei più radicali rappresentanti). Va tuttavia rilevato che lo spirito romano classico non è certo favorevole all'atto del singolo, essendo piuttosto per la sacralità della comunità orientata nel suo territorio con i suoi dei, vale a dire per la urbs . Roma non poggia né sulla idea di razza né su una religione esclusiva bensì sulla legge e la conseguente gerarchia. Con il mitraismo e il cristianesimo primitivo l'accento si spostava dalla urbs alla parte. Vale in proposito la riflessione di Pettazzoni, per il quale i misteri come religioni dell'individuo appaiono in contrasto con la religione dello stato e della città perché nascono da istituzioni che precedono la formazione degli stati.

1) A S. Prisca, invece, Mercurio protegge i Persiani e la Luna i Corvi .

2) Mithra et le mithriacisme , Paris 1993 (I ed. 1981), p. 82-83. Va tuttavia osservato che l'ordine completo delle tutelae dei sette gradi non corrisponde a nulla di astronomicamente noto

3) Giuseppe Lampis , Maschera e daimon , «Atopon», IV (1996), pp. 17-32 .

4) Raffaele Pettazzoni , I Misteri: Saggio di una teoria storico-religiosa , Bologna 1924, n.va ed. Cosenza 1997, p. 159-160 .

5) Walter Burker t, Structure and History in Greek Mithology and Ritual , University of California 1979, tr. it. Mito e rituale in Grecia: Struttura e storia , Bari 1987, ed. 1996, cp. IV, pp. 125-156 .

6) Richard L. Gordon , Mystery, metaphor and doctrine in the Mystery of Mithras , in J. R. Hinnells (ed.), op. cit. , p. 111 .

7) Questo termine per lo studioso significa mangers – greppie – oppure stalls or byres – ricoveri per bestie –, op. cit. , p. 115 .

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8) In the place of the Lion: Mithras in the tauroctony , in J. R. Hinnells (ed.), op. cit. , pp. 29 ss.; ma dello stesso v. Planetary Gods and Planetary Orders in the Misteries of Mithras , Leiden 1988 .

9) Op. cit. , p. 117 .

10) Op. cit. , p. 115 .

11) Op. cit. , p. 121 .

12) Burkert, op. cit. , p. 191 .

13) V. in proposito la pittura parietale del santuario di Çatal Hüyük, Turchia, fine VII millennio a. C. considerata da W. Burkert, op. cit. , p. 191, una “conferma” del rituale arcaico, peraltro collegato con personaggi mascherati .

14) Il paragone di Mithra con Cacus è già noto al poeta latino cristiano Commodiano , del III sec., – apud Turcan, op. cit. , p. 97 .

15) Triplice Mithra per lo Pseudo-Dionigi, Ep. , 7, in quanto associato a Cautes e Cautopates, epifanie del Sole levante e calante .

16) I Greci vedevano giacere sulla groppa del toro celeste le Pleiadi, le colombe cacciate da Orione-Scorpione. Una identificazione di Mithra con Orione nel quadro degli studi che hanno valorizzato l'interpretazione astrologica della principale scena del culto mitriaco è stata proposta da Michaël P. Speidel , Mithras-Orion: Greek Hero and Roman Army-God , Leiden 1980.) .

17) Sono altresì identificati con la luna il soma indiano e lo haoma iranico, bevande di immortalità .

18) Op. cit. , p. 49 .

19) Op. cit. , p. 139 .

20) Op. cit. , p. 107 .

21) The Origins of the Mithraic Mysteries: Cosmology and salvation in the Ancient World , New York-Oxford 1989 ) .

22) Op. cit. , p. 108 .

23) Op. cit. , pp. 95 ss .

24) Mithras and the hypercosmic sun , in J. R. Hinnells (ed.), op. cit. , pp. 257-264 .

25) Questa linea emerge all'interno della svolta che caratterizza i secoli VII-VI a. C. dall'Oriente all'Occidente, con le Upanishad, l'Iran riformato, i primi pensatori greci, i profeti ebrei, il Buddha, Confucio. La svalutazione dei sacrifici rientra in un disegno di spiritualizzazione del conflitto con il male. Dal momento che al male viene negato lo statuto ontologico di forza indipendente e oggettiva, per Zarathustra esso si riduce a una opzione della dialettica interna dell'unico vero Signore dell'universo. Il male appare come una proiezione del dio unico e non come un altro dio a lui irriducibile e contrapposto. Per questa ragione la grande battaglia ha natura spirituale e non può venire decisa con i sacrifici, i quali si muovono incrociando su un piano diverso e incongruo. Inoltre Zarathustra proibì la antica usanza di sacrificare al dio del male; come si capisce, si tratta dello stesso coerente disegno .

26) Eppure dietro questo nome potrebbe celarsi, e in tal caso non ci sarebbe errore, una casta

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e una funzione collettiva e non soltanto il riformatore .

27) Op. cit. , p. 105 .

28) Mithra and Ahreman in Iranian Cosmogonies , in J. R. Hinnells (ed.), op. cit. , pp. 173-182 .

29) Op. cit. , p. 177.

30) Op. cit. , pp. 178-9, v. anche nn. 21 e 22.) .

31) V. anche Jean Kellens , La fonction aurorale de Mithra e la daênâ , in J. R. Hinnells (ed.), op. cit. , pp. 165-171 .

32) = mediatore: Plutarco, op. cit. , 46), colui che osserva e promuove il trattato regolante il conflitto tra Ormazd e il suo nemico, e che è nello stesso tempo – e per la medesima motivazione – giudice e combattente contro il male e il maligno " .

33) Ugo Bianchi , Il dualismo religioso , Roma 1966, ed. 1991, p. 168 .

34) Mithras platonicus , op. cit .

35) Si tratta della funzione magica, tipica della funzione sovrana. V. Georges Dumézil , Les dieux souverains des Indo-Européens , Paris 1977 .

36) V. anche di Robert Turcan , La royauté de Mithra , in G. Sfamen i Gasparro (a c. di), Studi storico-religiosi in onore di Ugo Bianchi , Roma 1994, pp. 361-372 .

Eros e il comicodi Maria Pia Rosati

Introduzione

Eros e Psiche Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

Nel Simposio di Platone, quando per Aristofane, il prestigioso e geniale comico ateniese, arriva il turno di “tenere in lode di Eros il discorso più bello che può” (177 D), egli svolge il mito che

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segue.

Gli esseri umani dei primordi non erano conformati come quelli dell’età attuale ma erano rotondi. Sul tronco doppio, risultante da fianchi e spalle disposti a forma di cerchio, spuntavano quattro gambe e quattro braccia con le relative quattro mani. Sul collo cilindrico e sulla testa una e duplice, due facce identiche rivolte in direzioni opposte. Doppi, come tutta la loro natura, i sessi. E questi erano di tre generi: duplice maschio, duplice femmina, androgino.

La loro rotondità ripeteva per somiglianza quella dei loro genitori, dato che il maschio discendeva dal sole, la femmina dalla terra, l’androgino dalla luna.

Il seguito del racconto mette capo a una scoperta inquietante: è improprio affermare che tali esseri primordiali fossero doppi, come si è dovuto dire per poterli descrivere; infatti, la loro conformazione costituiva esattamente una unità intera e completa. Semmai, sono gli esseri successivi da loro derivati a costituire dei mezzi. A rigore, gli uomini androginici e gli altri, gli andro-androici e i gino-ginici – per chiamarli così –, non risultavano dalla aggiunta di due unità intere e perfette tanto da arrivare a formare un doppio in senso stretto. Al contrario, essi formavano già un intero proprio nello stato in cui si trovavano all’inizio mentre gli uomini attuali – quelli monosessuati, per intenderci –sono dei frammenti.

L’uomo attuale esce così come lo vediamo da una brutale frattura, inferta da Zeus in illo tempore ai suoi terribili antenati.

Cos’era accaduto?

Quelli esseri d’eccezione, “terribili per forza e per vigore”(190 B), potevano camminare sia eretti sia saltando a ruota su mani e piedi come fanno gli acrobati (190 A). E, montati in superbia per tanta potenza, tentarono la scalata al cielo con l’ambizione di spodestare gli dei, come i giganti.

Gli dei, sotto la presidenza di Zeus, discussero sul modo di respingerli. Il loro imbarazzo era tuttavia supremo. Tali uomini mostruosi dovevano sì venire fermati ma non bruciati dal fulmine come i giganti, perché in tal caso sarebbe venuto a mancare il nutrimento necessario di onori e sacrifici che giungeva da loro agli dei (190 C).

Ricorre anche qui irresistibile l’idea antica che i destini di uomini e dei fossero fin dal principio legati intimamente e che anche gli uomini detenessero la chiave della vita e della morte degli dei, come questi reciprocamente quella degli uomini.

Alla fine Zeus trovò il sistema di indebolire gli uomini e decise di tagliarli in due, dando l’avvio alla sessualità dell’età attuale.

Il modo con il quale Zeus si esprime, ormai soddisfatto per la sua trovata, lo mostra nel tempo stesso crudele e beffardo: “(...) li taglierò ciascuno a metà, così diventeranno più deboli (...). Se mostrano di insistere (...) li taglierò ancora a metà, cosicché per muoversi debbano saltare su una gamba sola” (190 D).

La situazione che si determinò contiene caratteri comici elementari, decisamente crudeli e beffardi: Zeus cominciò a tagliarli “come si fa con le sorbe prima di metterle sotto sale o quando si tagliano le uova sode con il capello”(190 D-E), e intanto Apollo – patrono paradigmatico dei medici e dei chirurghi – procedeva via via a una plastica ricostitutiva, rovesciando la loro faccia dall’altro verso e tirando la pelle tagliata “come si fa con le borse

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strette in un nodo”(190 E), del genere delle sacche – si suppone –, fino a stringerla sull’ombelico.

Tutte le rughe furono spianate con uno “strumento simile a quello che usano i calzolai quando sul piede di legno spianano le pelli”, avendo cura tuttavia di lasciarne qualcuna “sul ventre, a ricordo dell’antico evento”(191 A), per monito e non certo per benevolente celebrazione nostalgica.

Né l’opera si fermò lì. Infatti tali uomini, dopo il trauma, morivano per fame perché le due metà, che angosciosamente si erano ricercate e ritrovate, una volta riabbracciatesi non sapevano fare altro.

Zeus allora escogitò un nuovo stratagemma, e stavolta per pietà. Dato che l’essere rotondo primordiale portava il sesso rivolto ovviamente sul versante esterno della sua rotondità, era accaduto che i nuovi uomini derivati dal taglio si trovavano con la faccia (ormai rovesciata dalla plastica di Apollo) nel verso opposto al sesso. Questa svista di Zeus (o di Apollo?) comportava che l’incontro delle due metà riuscisse insoddisfacente e sterile.

Non era la prima volta che l’artefice dell’umanità attuale si dimostrava goffo e inetto; se ne ritrova ampia notizia in sede etnologica e presso i miti di moltissime tradizioni arcaiche, così come peraltro presso gli stessi Greci. Riferisce un racconto forse di Protagora (Platone, Protagora, 321 A-E) che Epimeteo, gemello e collaboratore di Prometeo nella formazione dei primi uomini, non riesce a rifornirli delle difese naturali, avendole assegnate per sventatezza tutte in anticipo in dote agli altri animali. Inoltre, gli uomini, ridivenuti potenti per il furto-dono2

del fuoco da parte di Prometeo, saranno di nuovo indeboliti con la nascita della donna, vale a dire della sessualità.

L’arcaizzante Platone non vuole, forse, con il caso dell’essere originario spezzato in due, farci trovare di fronte a una situazione originariamente comica? L’espediente pietoso, il mechanê, consistette nello spostare le pudende sul davanti, costringendo i nuovi esseri a subire la spinta della loro nuova natura.

Da ciò conseguì che l’incontro del maschio (derivato dalla divisione o dell’androgino o dell’essere maschio-maschio) con la femmina (a sua volta derivata dalla divisione rispettivamente o dell’androgino o dell’essere femmina-femmina) portava alla prosecuzione della specie; mentre invece dall’incontro tra due metà egualmente maschili si ingenerava un senso di completezza capace di liberare le energie da dedicare alle altre grandi attività della vita.

Il racconto di Platone, a questo punto, si è fatto sovranamente ellittico. Cosa era cambiato in effetti per l’uomo-uomo e la donna-donna rispetto a prima, salvo un diverso allineamento del sesso sul davanti insieme con il volto?

Eppure a questo espediente il racconto ha voluto attribuire l’effetto di ricostituire quel senso di interezza e di pienezza necessario a proiettarsi nelle attività creative. Queste saranno coltivate con esiti tanto più importanti quanto più l’incontro sarà perfezionante e soddisfacente. Dato che ognuno cerca la “contromarca (symbolon) di se stesso”(191 d), solo quando l’avrà trovato, ritornando così a quella sua natura originaria che era l’intero, diverrà capace di grandi cose.

Aristofane lo dice con chiarezza: “non sembra assolutamente trattarsi del rapporto sessuale, come stessero insieme l’uno accanto all’altro con tanta passione in vista di questa soddisfazione; in realtà è evidente che l’anima di ciascuno dei due desidera qualcos’altro, che

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non sa esprimere, eppure presagisce ciò che desidera e lo dice in forma di enigmi”(192 c-d).

Così, la ricerca amorosa (la stessa attività sessuale in sé non significa niente e è enigmatica e rinvia a altro) si mostra intrinsecamente simbolica e esprime una carica trascendente. Tuttavia per poter sviluppare il suo potenziale deve svolgersi secondo il verso giusto (in questo pare consistere il messaggio di Platone), mediante l’allineamento del volto e del desiderio. In sostanza, la proposta platonica non consiste nell’elogio della mutilazione e dell’ascetismo forzoso, bensì nella realizzazione di tutte le finalità implicite nella spinta erotica.

Slancio verso il destino dell’uomo e ubbidienza a Eros fanno un tutt’uno. Ma vanno perseguiti fino in fondo senza fissarsi su di un solo gradino intermedio.

Il racconto di Aristofane è molto fugace circa le propensioni delle “donne che derivano dal taglio di donne”, mentre si dilunga su ciò che accade a “quelli che sono dal taglio di maschio”.

Dell’incontro, poi, di quelli che derivano dall’androgino se ne parla per dire che essi sembrano presi da necessità elementari, che li portano irrefrenabilmente all’infedeltà e all’adulterio, e – come abbiamo detto prima – sembrano servire prevalentemente alla riproduzione.

Gli esseri dei primordi ebbero come genitori gli astri rotondi, rispettivamente il sole i maschi, la terra le femmine, la luna gli androgini. Successivamente gli esseri derivati dal taglio punitivo e ancora con i genitali rivolti verso l’esterno si riproducevano “non già fra di loro, ma in terra, come fanno le cicale”(191 d).

L’incontro di maschi e femmine, quale che sia il taglio da cui provengano, dopo il compassionevole ultimo intervento di Zeus, inaugura la modalità generativa attuale e costituisce il punto di partenza di una lunga risalita.

Nel racconto di Aristofane, fatto un cenno fugace alle donne che cercano le donne, si elogia la propensione per il proprio sesso da parte di coloro che derivano dal taglio del maschio originario, che “non fanno questo per impudenza, ma per arditezza, per fortezza e per virilità”(192 a).

Gli uomini dei primordi non provavano desiderio dato che erano già completi. Non si dice se il loro numero fosse completo fin dall’inizio o se gli astri loro genitori ne riproducessero a più riprese.

Quello che invece risulta dal prosieguo del racconto è che una moltiplicazione consegue di certo sia al taglio punitivo sia alla successiva congiunzione carnale dei dimezzati.

Nella fase intermedia, subito dopo la punizione, gli uomini appaiono sommamente goffi e ridicoli. Dopo la frattura, non sanno riprodursi mediante la congiunzione tipica dell’età attuale; e non tanto per una difficoltà morfologica ma perchè non lo hanno mai fatto: non avendone mai avuto bisogno in illo tempore, non sanno cosa sia. Sarà allora che Zeus, vedendoli annaspare e morire abbracciati improduttivamente, li costringe – in un certo senso – a farci caso con la soprariferita operazione.

Gli uomini attuali hanno bisogno di imparare tutto dagli dei, come i buoni selvaggi amerindi hanno bisogno che un missionario suoni la campana a una certa ora della notte per rammentare loro che è il momento di adempiere ai doveri coniugali, secondo la nota di Hegel2.

La nascita della sessualità effettiva interviene a rimedio di una situazione penosa e ridicola. Pagina 27 di 99

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Non siamo al dramma satiresco, ma la grande meditazione metafisica presente nel messaggio si accompagna a una indissociabile atmosfera di beffarda comicità e di compassione ironica.

Anche questo serve a farci comprendere la natura metasessuale della sessualità. Qui non si vuole provocare un riso irriverente sulla sessualità, ma indicare che la sessualità va trascesa, perché sorge da un’astuzia compassionevole per uomini spezzati e deboli.

Comunque, se non potesse ripartire da lì, l’intera umanità si troverebbe nell’impossibilità di imboccare la strada che la riconduce a se stessa, alla sua antica e vera natura.

Eros e il comico

Platone, particolare della Scuola di Atene di RaffaelloIn una delle case più prestigiose dell’Atene del V sec. a. C. – il secolo d’oro delle arti, della filosofia, della potenza politica – si riuniscono a cena alcuni degli uomini più rappresentativi dell’élite cittadina, i migliori, i più famosi e i più raffinati. Naturalmente non potrà mancare Socrate, il ricercatissimo Socrate. L’occasione è una di quelle che si attendono per una vita e che devono perciò celebrarsi con lo splendore adeguato, affinché se ne possa conservare il ricordo e tramandarlo, e riandarvi continuamente per attingerne soddisfazione e compiacimento.

L’ospite magnifico e i suoi amici convitati vivranno in effetti una serata indimenticabile. Il grande medico Erissimaco, il politico di successo Pausania, il famoso uomo di teatro Agatone, il letterato alla moda Fedro e l’elegante Alcibiade, giovane politico e militare, tutti si ritrovano a casa di Agatone, il quale vuole e deve celebrare la sua prima vittoria nella gara fra gli scrittori di tragedie che, per l’appunto, si tiene in quel tempo di festa sacro a Dioniso.

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Bisogna riandare a quel clima e ravvivarlo con l’immaginazione per cogliere più da vicino il senso della situazione.

Passati due anni interi, all’arrivo del terzo il dio tornava ancora, con le Grandi Dionisie a lui dedicate. L’articolazione della festa era complessa e si distribuiva lungo l’arco di cinque giorni; nei tre giorni centrali il popolo ateniese si recava a teatro per assistere alla rappresentazione delle tetralogie (tre tragedie e un dramma satiresco), una al giorno dall’alba al tramonto, degli autori scelti dallo speciale comitato di stato che presiedeva ai festeggiamenti. Colui che vinceva la gara acquisiva una fama e un prestigio tali da dover essere iscritto in perpetuo negli archivi ufficiali della città e da essere premiato con la corona di edera sacra a Dioniso.

Tutta la durata della festa era segnata dalla partecipazione a una forte emozione collettiva. Il ritorno del dio della vita e della morte rompeva la quotidianità, introduceva un’altra dimensione e rivelava un altro mondo, più vero e sconvolgente. E, proprio per questo, la rivelazione provocava un effetto liberatorio.

Ogni avvenimento pubblico e privato di quei giorni si inscriveva nel clima della festa e della sua commozione. Gli atti previsti dal rituale a maggior ragione dovevano interpretare con rigore la propria parte. Gli stessi festeggiamenti che il tragico, vincitore dell’agone, teneva prima con i coreuti e poi con i suoi amici rappresentavano un atto liturgico voluto dalla tradizione e dovevano anch’essi svolgersi sotto il segno del grande dio della maschera.

In quella cornice, l’eccitazione di Agatone vincitore della gara che lo consacrava in perpetuo agli occhi del dio e della città doveva essere alle stelle e grande doveva essere la sua felicità nel ricevere invitati di tanto valore.

Un racconto di Platone eternizza quel banchetto. Quel racconto, che nella finzione si svolge molti anni dopo, conserva le cose importanti come accade alla distanza. Ed importanti erano i discorsi che quegli uomini eminenti tennero fra di loro e la dinamica dello scambio reciproco.

Quello del Simposio è certamente uno dei racconti più profondi e sottili, condotto con arte leggera e delicata. Non siamo certo in presenza di un dramma tragico, del quale mancano le morti, il conflitto, lo scacco. Il raffinato sorriso di Platone avvolge tutta l’atmosfera, che resta sospesa in una luce metafisica; una intera nottata fino all’alba passata a discutere, come fosse questo il sommo dei piaceri. Leggermente frastornati dalle bevute precedenti, i commensali congedano la fanciulla addetta a suonare la musica e si propongono di moderare l’uso del vino. Né sobri completamente, né tuttavia travolti dall’ebbrezza, discorrono assegnandosi un tema che non doveva essere estraneo –evidentemente all’atmosfera della festa: l’eros.

La parte centrale del simposio si trova chiusa tra un’assenza condizionante e una presenza nuova che irrompe.

Tutto questo riesce tipico dell’andamento di una commedia. Lo abbiamo già detto prima, manca il conflitto, manca la morte. Il distaccato sorriso ironico del racconto di Platone tocca le figure a una a una e le fa vivere in un’atmosfera sospesa e inclinata verso una scoperta liberatoria. Socrate, soprattutto, interpreta il ruolo con cui si introduce la contraddizione che accende la tonalità comica.

Dice Aristotele nella Poetica che la commedia ebbe origine da coloro che cantavano i canti fallici. Ora, qui, non vogliamo certo ragionare sull’origine della commedia bensì richiamare lo spirito del comico e mostrarne l’intrinseco profondo collegamento con l’ebbrezza dionisiaca e l’avvento di una verità nascosta che rovescia le ovvietà e le scontatezze del quotidiano.

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Riconoscere la componente dionisiaca del comico equivale a riconoscerne il collegamento con l’irruzione di un demone nascosto che evocato compare e disorienta. Quando arriva lui, il mondo quotidiano si sgretola e l’animo si sente liberato e ride.

Il demone del Simposio riveste le fattezze di Socrate. Il vero demone al quale si rende omaggio è Eros, ma Socrate ne è la maschera che lo rappresenta alla perfezione, egli che è – come dimostrerà lo sviluppo del dialogo – il “perfetto amante”.

Si è fatto tardi, i commensali sono arrivati tutti e manca solo Socrate; Agatone, il festeggiato, dimostra impazienza; i servi hanno già annunciato il filosofo che però non entra. A che cosa sarà dovuta l’esitazione improvvisa? Forse è stato trattenuto da ammiratori importuni? Niente di tutto ciò, Socrate si è fermato in piedi a seguire un pensiero che gli era arrivato, senza badare a dove stesse e senza sentirsi obbligato a proseguire verso la meta alla quale era diretto. Agatone manda il servo a sollecitarlo ma senza successo: Socrate non vuol venire. Una situazione davvero strana! Non insolita per Socrate probabilmente, tanto che nessuno si offende più ormai; la cosa viene subita ed accettata come un accidente di natura, un’azione intrinsecamente consustanziale con la personalità di Socrate, il quale viene tanto ricercato proprio da chi abbia desiderio di incontri fuori del comune.

Eppure, la circostanza getta la sua luce avvolgente su tutta la scena, la condiziona, la determina, la attira e solleva nella sua particolare angolazione. L’arrivo di Socrate a metà convito imprimerà una curvatura decisiva all’incontro dei convenuti e l’attesa di Socrate serve a prendere le distanze da ciò che fino a allora è accaduto e a rideterminare il centro dell’attenzione.

Non si esprime così l’ironia? L’ironia infatti, alla base, consiste nello spostamento dei pesi e dei valori che si ritenevano assodati e acquisiti; consiste nella loro levitazione e destabilizzazione. Si pensa di stare con i piedi sul fermo e invece si manifesta un nuovo baricentro nei confronti del quale le premesse vacillano, e tutto viene preso dalla vertigine e rovesciato.

Socrate, per il modo in cui balza fuori a tutto tondo dai ritratti di Platone, incarna precisamente l’ironia, nel profondo significato metafisico che essa comporta. Significato di rovesciamento delle apparenze di questo mondo in forza dell’avvento di una prospettiva prima nascosta, la quale – mostrandosi – revoca le verità precedenti e le riclassifica come errori che cadono di fronte alla nuova verità che si rivela.

“Signore, Socrate sta fermo nell’atrio dei vicini e non vuole venire”. “Un vero atopon, dici”(175 A).

Francamente, la situazione contiene un risvolto comico.

Ma come! Ti invito alla mia cena, ho vinto l’agone tragico, sono l’uomo del giorno, qui nella sala da pranzo tutti sono già sdraiati ai loro posti, ho lasciato per te libero il posto accanto al mio, e tu stai fuori per ore, in disparte, perduto nei tuoi pensieri?

Una cosa proprio fuori dal mondo! Traducendo in questo modo la parola atopon, alla lettera, ben si conserva l’ambivalenza sostanziale dei suoi significati, sia nella sfumatura seria sia in quella comica.

Socrate d’altronde passa per essere un tipo strano. E proprio uno degli eminenti invitati lo aveva introdotto nelle sue commedie con i tratti della più netta comicità. Intendiamo riferirci ad Aristofane. Questo dominatore del teatro comico ateniese per decenni aveva collocato Socrate in un cesto appeso in alto – perduto nelle sue speculazioni sul cielo – sulla scena della

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commedia Le nuvole, rappresentata nel 423, già molti anni prima della data possibile della circostanza (la vittoria nell’agone tragico da parte di Agatone) nella quale si tiene il simposio raccontato da Platone.

Una simile caratterizzazione di Socrate non viene lasciata affatto cadere da Platone, anzi egli la richiama e attualizza nella sua reinterpretazione. Il Socrate che interviene al simposio ha proprio le caratteristiche già colte con penetrazione dal geniale commediografo: egli è davvero uno che se ne sta fuori, uno che si pone da una prospettiva fuori del comune.

In quella posizione egli appare ridicolo o comico, ma è anche vero il rovescio, e cioè che dalla sua posizione il mondo comune appare reciprocamente a sua volta ridicolo o comico.

Il comico, annunciato e interpretato dal genio di Aristofane, corrisponde all’irruzione di una prospettiva non ordinaria e fuori del comune, all’avvento di una forza che si mette in contraddizione con il mondo consueto.

Platone richiama esplicitamente questa dimensione del Socrate aristofanesco e burlesco fin dall’arrivo del pensatore alla festa. Inoltre, in seguito il richiamo a Aristofane si fa addirittura letterale e si corona di una precisa citazione tratta proprio dalle Nuvole.

Quando, nello scorcio conclusivo del dialogo, l’ebbro Alcibiade svolge – come gli altri hanno già fatto per Eros – il suo inno-elogio indirizzato a Socrate (il quale non viene proposto anche per questo quale perfetta presenza sostitutiva del grande demone?); quando arriva a lodarne il coraggio sul campo di battaglia, ricorda: “o Aristofane, per usare la tua espressione, che anche lì camminasse come qui, a testa alta e storcendo gli occhiNuvole, 362)”(221 B), manifestando così quella fierezza dell’impavido che intimorisce i nemici. (

In sostanza, ci pare chiaro che Platone non solo non abbia trascurato il ritratto voluto da Aristofane ma che lo abbia fatto proprio e tirato dentro il suo affresco filosofico.

Platone, cioè, dà atto a Aristofane di essere stato interprete sottile del valore riposto di Socrate. Il fatto che quell’immagine sia divenuta un vieto luogo comune e che nella città certamente la si usasse per derisione da parte del pubblico non toglie niente del suo spessore a più strati.

Lo dice lo stesso Platone, attraverso il padrone di casa, il festeggiato Agatone, che si schermisce con Socrate temendo il giudizio degli astanti: ”Non mi vorrai credere così fissato sul teatro da non sapere che chi ha un po’ di sale in testa si lascia impressionare più da pochi intenditori che da una massa di sciocchi”(194 B).

Medesima cosa pensava certamente l’aristocratico Aristofane. D’altronde il comico sgorga da una contraddizione, e la più immediata e di più facile presa è quella tra le consuetudini consolidate e le novità volgari, che vengono prese di mira.

Ma il comico risiede in ben altro, più in profondità. Perché ciò di cui si deve ridere e da cui ci deve liberare ridendo non si restringe alla novità dei costumi, che è offa sugosa per l’invidia del grosso pubblico, bensì è il mondo stesso, o – meglio – quell’attaccamento al mondo che ne amplifica l’importanza e impedisce di vederne il rapporto con l’altro.

In definitiva, si può ridere di qualcosa soltanto se la si trascende. Di modo che – come vedremo – solo il vero filosofo sarà vero comico (e vero tragico).

Platone ci lascia intendere che si può partire dal ritratto comico di Socrate e, guardando sotto Pagina 31 di 99

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la sua superficie alla quale si fermano i più semplici, arrivare a trovarvi il messaggio per i saggi. Socrate non è l’uomo con la testa per aria, il distratto, il sofista assorto e perso nelle sue elucubrazioni (tutto ciò appartiene allo strato superficiale), o almeno non solo questo, bensì l’uomo partecipe di un altro mondo.

L’uomo che sa vivere nel rovescio di questo non è più, certo, il Socrate aristofanesco quanto piuttosto già quello trasfigurato da Platone. Eppure Platone ha voluto che si vedesse che aveva ragionato sull’intuizione di Aristofane e che vi aveva cercato cosa ci fosse di vero. Per farlo ha preso le mosse proprio dalla natura demonica del comico, del quale il Simposio ci consegna l’interpretazione a cui è pervenuto. Tale consegna avviene in modo indiretto e implicito, con la sovrana eleganza che contraddistingue l‘arte di Platone.

Del resto, la lettura dell’arte di Aristofane fa parte integrante del tema principale. E questo si capisce meglio se poniamo mente al fatto che sussiste un rapporto essenziale tra l’eros e il comico. E infatti Platone inquadra programmaticamente il comico nello spirito dionisiaco, orgiastico, folle, liberatorio, di rottura del mondo, di irruzione del demone della verità.

Ora, come avrebbe potuto Platone immaginare un discorso di Aristofane, del comico Aristofane, senza che in esso si esprimesse inevitabilmente quel carattere? Come avrebbe potuto Platone, in una situazione così paradigmatica, volere che il comico non facesse un discorso tipico del suo modo di essere artista, e cioè un discorso comico?

Se tutto ciò rischiava di non apparire a noi ben chiaro e se scandalizza e sconcerta che, per esempio, il mito degli androgini possa venire inteso come facente parte di un racconto radicalmente comico, ciò dipende soprattutto da quell’irrigidimento dei nostri schemi culturali che ci ha fatto smarrire e avvilire il significato originario del comico, e del dionisiaco.

Aristofane, giunto il suo turno, non riesce a parlare e deve far luogo al medico Erissimaco. Egli non riesce a parlare perché afflitto dal singhiozzo e il medico lo consiglia: “Mentre io parlo, tu prova a trattenere il respiro... fà dei gargarismi. Se il singhiozzo è molto ostinato prendi qualcosa per solleticare il naso e starnutisci”(185 D).

Allorché Erissimaco finisce di svolgere il suo discorso, Aristofane è ormai guarito mediante la pratica dello starnuto e è finalmente pronto a sua volta, meravigliato che “l’armonia conveniente (to kosmion) del corpo richieda simili rumori e solletichi (gargalismos)”(189 A).

Cosa ci ha voluto dire Platone inquadrandone così il suo intervento in onore di Eros?

Aristofane, il comico, non riesce a parlare, la sua voce resta compressa e impedita da un difetto della respirazione, la sua gola è interrotta da un meccanismo coatto che non riesce a interrompere e dominare per poter liberare la sua parola. Anche se sappiamo bene che il singhiozzo appartiene ai sintomi dell’ubriachezza, qui Platone non vuole mettere alla berlina il famoso uomo di teatro; tutti sono un po’ ebbri, come abbiamo visto, come non potrebbe non accadere durante la festa di Dioniso.

Quello che Platone intende è che il singhiozzo, dato che impedisce di esprimersi, si presenta come una malattia – sia pure non drammatica – dalla quale bisogna curarsi e guarire. Il singhiozzo è un rumore animalesco indistinto che bisogna vincere. E, nel caso in questione, esso va vinto al fine di potere liberamente svolgere un discorso comico da comici.

E c’è di più: il singhiozzo appartiene alla sintomatologia del riso e insieme – particolare non secondario – del pianto. Un riso convulso trascinante elementare non si distingue da un pianto altrettanto convulso e rotto dai singhiozzi: stesse lacrime, stesse contrazioni dei muscoli

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facciali e del diaframma, stessi scoppi della gola.

Esiste insomma un fondo oscuro, indistinto, elementare, nel quale riso e pianto si confondono nello stesso ceppo. Ciò fa nascere il sospetto che forse abbiano una comune natura anche a livelli più alti. Nelle battute conclusive del Simposio, giunta ormai l’alba, il resistentissimo insonne Socrate costringe Aristofane e Agatone, il comico ed il tragico, prima che stramazzino arrendendosi sia a lui sia al sonno, a ammettere “che lo stesso autore deve saper comporre e commedie e tragedie” (223 D).

Con l’articolazione della parola, quando si sarà usciti dal dominio di quel fondo indistinto, il riso apparirà distinto dal pianto, eppure è da lì che prorompono entrambi.

Comunque da quel fondo non se ne può uscire senza quella esplosione, quella rottura, quello strano rumore dello starnuto. Tra il singhiozzo che strangola il respiro e la libertà della parola parlata si passa attraverso uno starnuto, rimedio e guarigione.

E, per guarire, si deve procedere al “solletico”, pratica che – ciò è fin troppo evidente – provoca proprio il riso, oltre che il singhiozzo consigliato dal medico.

Alla fin fine tutti questi – singhiozzo, solletico, starnuto, racconto comico – appaiono a poco a poco, a ben vedere, come i vari gradi, a loro modo iniziatici, verso il riso liberatorio e metafisico.

Se già il parlare, essendosi emancipato dal meccanismo primordiale (il singhiozzo) che bloccava l’immissione nella giusta via, dimostra che è intervenuta una guarigione preliminare, la vera guarigione ce la dona però solo Eros.

Dato che amore è il nome che si dà al desiderio e alla ricerca dell’intero, se ci renderemo cari al dio e ci riconcilieremo con lui ritroveremo la parte dalla quale siamo stati divisi per la colpa commessa in illo tempore.

Avviandosi al termine del suo discorso, Aristofane dice proprio questo; e sottolinea con benevola ironia che non si riferisce ai noti amanti Pausania e Agatone, bensì a “tutti, uomini e donne”. “Per questa via la nostra specie raggiungerebbe la felicità, se cioè conducessimo l’amore al suo fine e ciascuno incontrasse il proprio amato, ritornando all’antica natura”(193 C).

La restituzione dell’antica natura ci farà beati e felici, perché equivarrà alla guarigione dal nostro male.

In che senso un tale discorso sia un discorso da comico resta in gran parte sottratto alla nostra vista, diseducata dagli stereotipi. Eppure sentiamo che Platone ha toccato una verità più forte e che deve esserci una ragione profonda perché lo stesso dio possa adeguatamente venire celebrato dai tragici, con il pianto, e dai comici, con il riso.

Allo stesso modo sentiamo che deve esserci una ragione perché entrambe le espressioni si trovino a partire da una comune radice, nella quale sono in origine intrecciate indistintamente.

Si tratta di un livello nel quale l’uomo non ha ancora acquisito il potere della parola. Quando l’avrà acquistata, dovrà badare a farne buon uso, come di tutto ciò che gli sarà stato affidato,

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per realizzare il suo fine profondo che, in sostanza, è quello di tornare da dove è venuto.

Dal parlare deve tornare al riso; dalla voce al silenzio assorto del folle satiro Socrate.

Il riso, dono degli Dei

Il potere apotropaico del riso

«Sebbene a malincuore, ineluttabilmente noi esseri umani dobbiamo sopportare quel che ci danno gli dei: infatti il giogo ci grava sul collo» ( Inno a Demetra , v. 215) (1).

La vita non sempre sorride all'uomo, il quale deve continuamente confrontarsi con la sua impotenza e creaturalità, subendone, suo malgrado, le conseguenze.

A questo rapporto dell'umano con il divino fu particolarmente sensibile la cultura greca: è questo del resto il senso del famoso conosci te stesso, scritto sul frontone del tempio di Apollo.

Tuttavia le divinità sembra abbiano anche concesso agli uomini, e parrebbe solo agli uomini, un grande dono, un modo per stemperare il dolore della vita, per renderlo sopportabile e addirittura per trasformarlo in una ulteriore possibilità: cioè la capacità di scoprire improvvisamente un aspetto totalmente altro delle cose, una faccia prima nascosta, e di conseguenza di tramutare il pianto in riso.

Il riso è infatti un privilegio e una prerogativa divina e caratterizza proprio l'atteggiamento di distante superiorità degli dei di fronte alla pochezza e debolezza umana.

Secondo le più antiche tradizioni religiose, tale espressione di superiorità e di potenza è inizialmente legata ad un'idea di creazione o di distruzione. Ciò è particolarmente evidente per alcune divinità orientali, come il dio Sandas il cui riso “letale” sarebbe rimasto nella memoria degli uomini come “riso sardonico”.

Diverso il senso della risata degli dei greci: gli dei omerici ridono, ed il loro riso risuona nell'Olimpo, di un riso che è segno di piena esistenza, il riso di forme eterne. Presso i Greci infatti c'era inizialmente un rapporto di parentela tra uomini e dei e l'umanità è vista come l'infelice stirpe dei fratelli degli dei. Secondo le parole di Pindaro, «la stessa madre dà respiro ad entrambi, ma ci divide tutto il potere separato cosicché da una parte rimane il nulla, dall'altra, quale sede eternamente immobile, il cielo di bronzo».

Se tale divisione è tragica, proprio perché gli uomini sono ormai nulla di fronte agli dei, dall'altra tuttavia essi partecipano ancora allo splendore degli dèi: dèi ed uomini condividono insieme ad esempio in una sorta di sinousia, il luogo e il tempo della festa, che sono appunto un tempo ed un luogo altro, sottratto alla definizione umana.

Ed in questo senso agli uomini è concesso di ridere, durante la festa, quasi fossero dei. Gli dei stessi possono essere a loro volta oggetto di riso, quando anch'essi toccano il contatto tra finito ed infinito e il limite del loro dominio, quando cioè si avvicinano all'«umano, troppo umano».

Ride Zeus di fronte alla stupidità di Epimeteo (colui che riflette troppo tardi) e che nella sua imprudenza accetta come dono la donna, che si rivelerà foriera di guai per l'umanità. Ridono tutti gli dei della storia troppo umana dell'adulterio di Afrodite ed Ares, come dello stesso Efesto, sposo tradito di Afrodite, che per vendetta espone al ridicolo i furtivi amanti, colti in

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flagrante e caduti nella rete, scoprendoli e scoprendosi in una situazione imbarazzante, in cui il comico e l'osceno si toccano, e divenendo con ciò egli stesso ancor più ridicolo.

Ma la mitologia greca ci narra anche di una dea, Demetra, la madre delle messi e di tutto ciò che fiorisce e germina sulla terra, che afflitta dalla perdita della figlia Core, a causa del suo lutto, aveva tramutato le fertili terre coltivate in un deserto desolato: tuttavia gli scherzi riuscirono a riportare il riso sulle sue labbra e la primavera sulla terra.

«[Demetra] apportatrice di messi, dai magnifici doni,/ non volle sedersi sul trono risplendente,/ e ristette in silenzio, abbassando i begli occhi,/ finché l'operosa Iambe ebbe disposto per lei/ un solido sgabello, gettandovi sopra una candida pelle./ Là ella sedeva, e con le mani tendeva il velo sul volto;/ e per lungo tempo, tacita e piena di tristezza, stava immobile sul seggio,/ né ad alcuno rivolgeva parola o gesto,/ ma senza sorridere, e senza gustare cibi o bevande,/ sedeva, struggendosi per il rimpianto della figlia dalla vita sottile:/ finché con i suoi motteggi l'operosa Iambe,/ scherzando continuamente, indusse la dea veneranda/ a sorridere, a ridere e a rasserenare il suo cuore:/ Iambe che anche in seguito fu cara all'anima della dea.» ( Inno a Demetra , vv. 197-205).

Nella versione di Clemente Alessandrino ( Protrettico 2, 20-21), la dea Demetra, mentre vagava intorno ad Eleusi alla ricerca della figlia Core, si era seduta piangente e stremata accanto ad un pozzo e qui si imbatté con i nati dalla terra che abitavano quella contrada tra cui Trittolemo, il mandriano di buoi, e Baubò. Questa, per distoglierla dal suo dolore, improvvisamente mostra le parti più intime del suo corpo, abitualmente celate, provocando il sorriso della dea, e di conseguenza anche la terra ricominciò a sorridere e a produrre i suoi frutti preziosi per l'umanità.

«... Baubò, accogliendo Demetra come ospite, le offre il Ciceone. Ma questa rifiuta di prenderlo e non vuole bere, a causa del suo cordoglio. Baubò, assai contristata, come se fosse realmente disdegnata, mette a nudo i genitali e li esibisce alla dea. E Demetra si rallegra a questa vista, e finalmente accetta la bevanda, compiaciuta dello spettacolo .»

Questa vicenda sarebbe ricordata e celebrata dal popolo greco nei sacri misteri eleusini, che concedevano ai mortali la possibilità di trovare «un rifugio alle sofferenze, un porto senza dolore» e agli iniziati di raggiungere la verità pura, attraverso una conoscenza intuitiva.

Il riso libera dalla colpa .

Il riso, strettamente connesso col pianto, può dunque essere visto come un antidoto al pianto. È la risposta della vita, con la sua forza istintuale, di cui l'osceno non è che una manifestazione, di fronte al dolore, al sentimento di colpa ad esso legato e al vissuto di minaccia annientante. Il riso è infatti anche una possibilità di difesa dal dolore, in quanto riesce a stornare e a stemperare l'ira di un ipotetico nemico e le sue nefaste conseguenze.

La mitologia greca conosce un dio, Ermes, il messaggero degli dei, e lo psicopompo, figura di mediatore tra l'umano e il divino, il mondo celeste e quello infero, che utilizza ampiamente il ridicolo quale strumento creatore ed eversivo: egli è il tipico trasformatore.

Tale personaggio assomiglia a quello che, in altre culture, è stato chiamato il trickster (2), una sorta di buffone divino, burlone spesso burlato, che unisce in sé gli opposti (femminile/ maschile, giovane/ vecchio ecc.).

L'elemento distintivo del trickster è la sua bricconeria grazie alla quale egli può cooperare alla creazione, distruggendo mostri, creando animali, introducendo differenti forme di tecnologia e

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di istituzioni sociali, quando non la morte. Ciò che lo caratterizza non sono le sue azioni ma la maniera bricconesca in cui le conduce e la sua capacità di uscire dalle situazioni critiche in cui rimane invischiato. Tuttavia la sua bricconeria non è mai interamente malvagia e al contrario può dar luogo ad alterazioni e trasformazioni che si rivelano benefiche per gli uomini.

Le sue vicende che appartengono ai tempi eterni del sogno hanno valore archetipico per il modo in cui sono affrontati i problemi della vita.

Il trickster rappresenta la forza vitale della natura che continuamente si rinnova e dunque assume quasi sempre la figura di un personaggio giovane, addirittura di un infante, che riesce a sottrarsi alla rigidità delle regole e alla voracità e distruttività del vecchio mondo. Il riso scaturisce dal suo essere giovane, nuovo, dal suo naturale contrapporsi all'irrigidimento del vecchio, dell'adulto e dalla sua carica eversiva che fa saltare ogni schema (“riso sardonico”!).

Il Briccone divino è ridicolo anche proprio per la sua natura di monstrum : ridicola è l'eccessività dei suoi desideri ed istinti, anche sessuali, dovuti alla sua dimensione titanica, espressa anche dalla sua precocità o dai suoi sovrabbondanti apparati fisiologici, la cui sacralità scaturisce dal chiaro simbolismo. I miti del trickster «con un humor, che sconfina pericolosamente nella tragedia, descrivono le ambiguità e contraddizioni in cui in fondo, si trova a vivere l'uomo: essere spirituale oppresso dai desideri della carne, dominato da un istinto...» (3).

Il dio greco Ermes, secondo Kerényi (4), è una tipica figura di briccone divino, capace di ricorrere all'arma del ridicolo per placare con il riso l'ira degli dei, e perfino del possente Zeus, provocata dalle sue malefatte. Lo stesso Apollo, avendo scoperto il furto delle vacche a lui consacrate compiuto da Ermes, ancora infante, è inizialmente pronto a dar pieno corso alla sua ira ma è costretto, di fronte allo sconcertante e sfacciato comportamento dell'astuto fanciullo divino, a sorridere e ad assumere un atteggiamento meno severo.

« – Ma suvvia, se non vuoi dormire il tuo ultimo e supremo sonno, scendi dalla culla, amico della notte nera. Questo privilegio, senza dubbio avrai anche in futuro fra gli immortali: sarai chiamato per sempre il re dei furfanti.– Così disse Febo Apollo; e, preso il bambino, lo portava via. Ma proprio allora, di proposito, il forte uccisore di Argo, mentre era tenuto in braccio, emise un presagio, sfacciato complice del ventre, impudente messaggero. Subito dopo, con premura, starnutì: lo udiva Apollo, e dalle sue braccia lasciò cadere a terra il glorioso Ermes. Poi, per quanto avesse fretta di compiere il cammino, sedette di fronte lui, e, prendendosi gioco di Ermes, gli rivolse queste parole: – Coraggio, lattante, figlio di Zeus e di Maia! Io presto o tardi ritroverò le vacche dalla testa vigorosa, con questi presagi; ma sarai tu che mi indicherai la strada –» ( Inno a Ermes vv. 289-303).

L a colpa, proprio perché impudentemente commessa e sotto gli occhi di tutti, si stempera e pare dissolversi. Tutto sfocia in un sorriso quasi complice. E persino lo stesso Zeus « rise di cuore vedendo il suo intrigante figliolo che si difendeva».

Come nota Aristotele «il ridicolo è infatti un errore e una bruttezza indolore e che non reca danno, proprio come la maschera comica è qualcosa di brutto e di stravolto senza sofferenza» (Aristotele, Poetica , 49 a , 35).

Il riso dunque perciò stesso è anche una possibilità di sottrarre l'uomo dall'angoscia della colpa. Con la comicità e con il riso che da essa scaturisce entriamo in una logica diversa, dirompente. Siamo fuori dalla concatenazione di causa ed effetto, e quindi di colpa e punizione.

Usciamo anche dalla logica della simmetria e dell'opposizione, da un contrasto che ci pone

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sullo stesso piano dell'avversario. Siamo imprendibili ed inafferrabili. Entriamo in un mondo totalmente altro, paradossale, in cui tutte le nostre strutture ben congegnate vengono vanificate dalla trovata buffonesca.

All'uomo che si trova di fronte alla tragicità di una colpa inevitabile in quanto connessa alla sua situazione umana, e alla sofferenza ad essa legata, stretto tra Scilla e Cariddi, nell'impossibilità di sottrarsi e nell'impossibilità di accettare, il riso apre una terza possibilità: tertium datur .

L'angoscia, (dal lt. angustia = strettoia), sparisce in quanto improvvisamente si riesce ad accedere ad una sorta di libertà spirituale che ci sottrae alla problematica tragica che aggredisce l'anima con l'impossibilità di soluzione. Cambia l'orizzonte delle nostre possibilità.

Siamo trasportati in una situazione surreale, potremmo dire tridimensionale, in quanto riusciamo a uscire dal piano orizzontale e ad accedere ad una terza dimensione, verticale. Gli opposti non si escludono, ma anzi ci troviamo proprio nel regno magico della coincidentia oppositorum, degli adunata, mondo in cui è finalmente possibile o forse ritorna ad essere possibile quanto è nella più profonda aspirazione dell'uomo, al di là delle limitazioni di una realtà che egli sente come angusta e provvisoria.

È il mondo in cui si esprime, attraverso l'immaginario, l'attesa di un'altra realtà ontologica, in cui l'impossibile è possibile.

Nel mondo ebraico Isacco, il figlio insperato che Dio dona a Sahra nella sua vecchiaia, già nel nome ( jiz-haq = Il Signore ride) porta il messaggio di una speranza di salvezza per l'uomo dovuta al fatto che il Signore può, ridendo, stravolgere quelle che all'uomo paiono le regole della natura. Anche il terribile Dio dell'Antico Testamento, può dunque ridere, giocare, essere assurdo.

La rivoluzione del comico e la fondazione di un nuovo ordine

Nel mondo Greco, accanto al divino briccone Ermes, il complice dio della notte, sempre impunito, protettore dei ladri e dei furfanti, ma anche guida delle anime nel regno di Ade, l'Invisibile, esiste un'altra divinità che possiede tratti sconcertanti fino all'assurdo e tali da travolgere l'uomo in situazioni che possono passare dal pianto al riso.

È Dioniso, il dio degli opposti, (maschio-femmina, bambino/adulto, cacciatore e vittima), dio del fuori, che si sottrae con il suo corteo ad ogni ben strutturato ordinamento civile, mentre preferisce come suo habitat ciò che è átopon, come il mare o le radure boscose, o la montagna.

Le feste in onore di Dioniso, le grandi Dionisiache, erano celebrate con degli agoni teatrali in cui ogni drammaturgo presentava una tetralogia formata da una trilogia tragica ed un dramma satiresco. Dioniso è infatti anche il dio del teatro, della tragedia e della commedia. Ancora una volta vediamo come tragico e comico sono strettamente concatenati, proprio come il riso e il pianto, il mondo degli dei e degli eroi e il mondo degli uomini.

La carica creativa del riso, strettamente connessa alla possibilità di azzerare il mondo e rinnovarlo possiede anche una valenza innovativa e rivoluzionaria, con pericolosi risvolti sul piano dell'ordine sociale .

A Roma, le feste dei Saturnali e dei Baccanali ben presto furono proibite per il loro potenziale sovversivo. In esse infatti si celebrava il ritorno della felice età d'oro di Saturno e dunque

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venivano ad essere annullate per un giorno tutte le regole e gli ordinamenti civili: non esistevano più schiavi, né erano valide le altre regole e costrizioni.

Se ci soffermiamo sulla commedia antica Ateniese vediamo come questa soprattutto mirasse ad agire sull'immaginazione, attraverso invenzioni strane, non naturali, poetiche, fantastiche, creando personaggi allegorici (la Ricchezza, la Pace ecc.) cose inverosimili, stravaganze, chiamando in causa Dei e miracoli. Più che di azioni ( dramata ), si trattava di satire immaginose, fantasie satiriche drammatizzate, come ci fa notare Leopardi ( Zibaldone , II, p. 476). Infatti «non si può essere grandi se non pensando e operando contro ragione, e in quanto si pensa e opera contro ragione e avendo la forza di vincere la propria riflessione o lasciarla superare dall'entusiasmo, che sempre e in qualunque caso trova in essa un ostacolo, e un nemico mortale, e una virtù estinguitrice, e raffreddatrice» ( Zibaldone, II 4).

La commedia antica in Atene dunque provocava il riso agendo soprattutto sull'immaginazione: anche i personaggi storici venivano presentati in un'aura di caricatura assolutamente particolare, quasi deformati da uno specchio concavo.

Proprio il più grande poeta comico, Aristofane, nelle sue commedie ci trasporta continuamente in una dimensione surreale, fuori dal mondo degli uomini, in un mondo immaginario, senza luogo e senza tempo, in un átopon .

La sua fantasia, unita ad una prorompente e indomita vitalità raggiunge ogni luogo, terrestre, celeste, o infero, mostrandosi capace di smontare il mondo intero fin dalle fondamenta e di gettare nel calderone alchemico della commedia dèi, eroi, uomini, grandi ed umili, poeti e villani, vivi e morti.

Con Le Rane ci porta negli inferi, assieme a Dioniso travestito da Eracle, con tanto di clava e pelle di leone, il quale suscita la nostra ilarità proprio per le reazioni poco leonine e troppo evidentemente umane di fronte alle inquietanti figure dell'aldilà.

Con Gli Uccelli Aristofane ci fa volare tra cielo e terra: mette in scena e dà vita a un grande sogno collettivo, una città sospesa tra le nuvole, Nubicuculia, simile a un gigantesco accogliente nido, in cui si è accolti in una situazione morbida e calda, “come una pelliccia”.

Uno dei protagonisti delle opere di Aristofane è proprio il filosofo Socrate, collocato nelle Nuvole in un cesto sospeso per aria e lontano dai piccoli problemi del quotidiano che gli sono presentati da un genitore anziano tormentato dal solito figlio scialacquatore e perdigiorno.

Socrate del resto nel Simposio di Platone è definito come un átopon al di fuori delle regole e difficilmente collocabile, e viene ritratto, attraverso le parole di Alcibiade, come una figura insolita, paragonabile addirittura a un satiro o un sileno.

« Dico dunque che egli è similissimo a quei sileni esposti nelle botteghe degli scultori, che gli artisti raffigurano con zampogne e flauti in mano e che, aperti in due, mostrano nell'interno immagini di dei. E dico per di più che somiglia al satiro Marsia. E che tu sia nell'aspetto simile a quelli, neanche tu, Socrate, oseresti metterlo in dubbio. Sei un gran canzonatore o no? E un flautista, no? Anzi più meraviglioso di Marsia. [...] sei di tanto superiore a lui che senza bisogno di strumenti, con semplici parole ottieni questo medesimo effetto.

Sotto i discorsi di questo Marsia che è qui ho provato spesso l'impressione che non valesse la pena di vivere, vivendo come vivo . [...]E solo davanti a quest'uomo ho provato quel sentimento che nessuno sospetterebbe in me, il sentimento della vergogna. [...] A tutti questi beni [bellezza, ricchezza] egli non dà nessun valore [...] e passa tutta la vita a far dell'ironia e a

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scherzare alle spalle degli altri. Ma quando fa sul serio ed è aperto, non so se qualcuno ha visto i simulacri di dentro; ma io li ho visti una volta e mi parvero così divini e aurei e bellissimi e mirabili da dover fare senz'altro quel che Socrate comanda. [...] anche i suoi discorsi sono in tutto simili ai Sileni che si aprono.

Infatti, se uno volesse prestare orecchio ai discorsi di Socrate, gli parrebbero addirittura ridicoli a prima giunta; tali sono le parole e le frasi di cui si rivestono, pelle di satiro burlone: non discorre che d'asini da soma e di fabbri e di calzolai e di conciapelli, e par che dica sempre le stesse cose con le stesse parole, sicché qualunque persona ignorante e sciocca può ridere dei discorsi di lui. Ma chi per caso li veda aperti e vi si addentri, prima di tutto li troverà i soli discorsi che entro di sé abbiano una mente, e poi divinissimi e pieni di innumerevoli simulacri di virtù, tendenti ad altissimi fini, o, per dir meglio, tendenti a tutto quello a cui deve mirare chiunque voglia essere un uomo veramente a modo.» ( Simposio , 214-216)

I poeti di più grande forza comica, non si preoccupano mai della verisimiglianza, anzi si allontanano da una piatta trascrizione della realtà, fanno rapide piroette con le arguzie più acrobaticamente intelligenti, volano con lo spirito e cercano di proposito l'inaspettato e l'inverosimile, che generalmente suscitano il riso. La loro comicità scaturisce dalla vivacità dei personaggi messi in ridicolo i quali riescono più reali della realtà in quanto sono colti nella loro essenza, anche se attraverso una lente d'ingrandimento che ingigantendo i difetti li evidenzia.

Leopardi riteneva che le armi del ridicolo per la loro forza naturale, potessero giovare più di quelle della passione, dell'affetto, dell'immaginazione, dell'eloquenza e anche più di quelle del ragionamento. Nei suoi dialoghi egli, grande ammiratore del commediografo Plauto, ha cercato di fare divenire tema di commedia ciò che prima era stato ritenuto tema proprio della tragedia, cioè «i vizi dei grandi, i principi fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia, l'andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell'uomo, lo stato delle nazioni » (Leopardi, Zibaldone , I, p. 993).

Vogliamo ancora una volta sottolineare che la commedia e la satira se hanno per oggetto il brutto e il vile che appartengono largamente all'umano, troppo umano, sanno tuttavia guardarlo con una partecipazione distaccata, un respiro più ampio che allontana il pianto e consente il riso, e pongono in tal modo le condizioni per una possibile trasformazione ( ridendo castigat mores ).

Nei momenti di crisi epocali, troviamo quasi sempre grandi figure poetiche che hanno affidato al riso o al sorriso il loro messaggio nuovo e rivoluzionario.

Così, dopo il difficile e contrastato periodo medioevale, proprio la commedia con i suoi altissimi poeti di grande ingegno e finezza, sostituirà alle drammatiche tinte apocalittiche una nuova leggerezza, aperta al riso e foriera di speranze in un nuovo mondo.

Commedia è chiamata da Dante la sua più alta opera (a cui i posteri concessero l'attributo Divina ), di cui è egli stesso protagonista in quanto rappresentante di un uomo che facendo il cammino infernale tra i vizi e le passioni umane, arriva infine a «salire alle stelle» e «all'amor che move il sole e l'altre stelle».

Non meno rivoluzionaria la vivace coloritura comica di Boccaccio, grande antesignano dell'umanesimo, che con il riso sollecitato dalle cento novelle del suo Decamerone pone un balsamo sulle ferite materiali e spirituali inferte dalla peste in un triste momento storico e apre

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le porte di una nuova epoca.

La dissoluzione del vecchio mondo è evidenziata ancora in Italia da altre figure geniali quali il Berni, il Pulci o il Folengo, attraverso il riso suscitato dagli effetti comici dovuti ad altisonanti figure e situazioni dell'epopea classica e cavalleresca che vengono a trovarsi in un contesto senza più referenti, in una situazione « átopon », e che con burlesca vivacità affermano un nuovo mondo.

Parimenti in Francia si staglia la gigantesca figura di Rabelais e dei giganteschi protagonisti delle sue opere, grandiose affermazioni della vita stessa che si impone con le proprie leggi e prorompe con la forza di una robusta risata. Senza alcuna preoccupazione di verosimiglianza e con un'immaginazione esuberante, prorompente, sfrenata, ridanciana, rompe con ogni formalismo irrigidito e fa incontrare giganti, maghi, fate, animali mostruosi, come in un sogno, in un universo fantastico, libero da ossessivi timori e in cui, come nel famoso episodio delle «parole sgelate», possono sciogliersi l'affanno e il dolore rimasti inascoltati e cristallizzati, a guisa di chicchi di grandine.

Il riso, come il pianto, è sentito da un altro grande poeta, Baudelaire (5), come profondamente umano, indice della contraddizione e della duplice possibilità dell'uomo: grandezza infinita rispetto alla pura animalità e infinita miseria rispetto all'Essere assoluto di cui l'uomo possiede la concezione. Segno di una grande miseria, di una degradazione fisica e morale, in quanto intimamente legato ad una caduta antica, ma contemporaneamente segno del riscatto, perché se con le lacrime l'uomo lava i dolori dell'uomo, con il riso addolcisce il suo cuore. Proprio dall'urto perpetuo di questi due infinite possibilità dell'umano si svilupperebbe il riso.

Perché ci sia il riso, cioè emanazione, esplosione, di comico è sempre comunque necessario che l'uomo abbia acquisito la forza di sdoppiarsi, di assistere come spettatore disinteressato allo svolgersi della sua vita, ridere della sua caduta e essere spettatore di se stesso. Da qui la grandezza poietica ed artistica del fenomeno comico che, come tutti i fenomeni artistici, è segno di una grande potenzialità dell'essere umano: quella di essere sé e l'altro, quella di trascendersi.

Per Baudelaire esiste ancora un'altra possibilità di riso: un riso creativo, artistico che ha in se qualcosa di profondo e di primitivo che si avvicina alla vita innocente e alla gioia assoluta, appannaggio degli artisti superiori che hanno in se stessi la ricettività sufficiente per ogni idea assoluta. Simile al sorriso o al riso dei bimbi e allo sbocciare di un fiore: manifesta la gioia di ricevere, di respirare, di aprirsi, di contemplare, di vivere, di crescere, è la gioia di una pianta, è un vero dono degli dei.

Questo riso ci riporta , secondo Nietzsche, nel mondo dionisiaco, il regno della danza, dell'ebbrezza e del riso divino, immergendosi nel quale l'uomo, come Zaratustra che «ride la verità», può vincere il destino di morte, divenire simile al dio e scoprire un nuovo senso della sofferenza e della morte.

Note:

1) Inni Omerici (a cura di) F. Càssola, Mondadori, Milano 1975 .

2) Il termine trickster fu coniato da Daniel Brinton ( Myths of the New World , 1868) dall'inglese to trick “ingannare, gabbare”, ad indicare la peculiarità di una figura singolare degli indiani nord-americani: il Coyote .

3) G. Filoramo , intr. a Raffaele Pettazzoni Tra dei e demoi , Utet, Torino 1990, p. XVIII .

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4) P. Radin , C. G. Jung , K. Kerényi , Il briccone divino , Bompiani, Milano 1965; orig., Der Göttliche Schelm , Zurigo 1954 .

5) Charle Baudelaire , Oeuvres complètes II , Paris 1868 .

I Terapeuti di Alessandria

Filosofia e guarigione dell’anima secondo Filone

di Julien Ries

I terapeutiNel suo trattato La vita contemplativa Filone D’Alessandria, contemporaneo di Cristo, dipinge una società di filosofi asceti vissuti sul bordo del lago Mareotide in Egitto (1). «La scelta di questi filosofi è immediatamente sottolineata anche dal nome che essi portano - scrive Filone - Terapeuti e Terapeutridi è il loro vero nome, innanzitutto perché la terapeutica di cui fanno professione è superiore a quella che vige nelle nostre città; questa si limita a curare i corpi, ma l’altra cura anche le anime (psychos) in preda alle malattie penose e difficili da guarire che i piaceri, i desideri, le preoccupazioni, i timori, le avidità, le sciocchezze, le ingiustizie e l’infinita moltitudine delle altre passioni e miserie fanno abbattere su di loro. Ed ancora perché hanno ricevuto un’educazione conforme alla natura e alle sante leggi, al culto dell’Essere che è migliore del bene, più puro dell’uno, più primordiale della monade” (vc 1-2)

Così Filone dà due sensi alla parola Terapeuta: da una parte curano e guariscono le passioni e dall’altra rendono culto a Dio.

Il loro quadro di vita

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Filone di Alessandria

Filone situa la colonia dei terapeuti su una collina di mezza altezza al disopra del lago Mereotide, eccellente situazione in ragione della sicurezza del luogo, della temperatura equilibrata dell’atmosfera, degli effluvi del lago, del clima molto salubre (vc 22-23). F Daumas ha localizzato questo luogo tra il lago Mareotide e il mare, non lontano da Alessandria, dal lato ovest davanti alla villa di Taposiride, regione in cui erano stati innalzati numerosi monasteri, forse proprio sul luogo dove avevano vissuto i terapeuti. Su tutta la costa sono d’altronde presenti antiche vestigia (2).

I terapeuti hanno iniziato con l’abbandono dei beni ai figli, alle figlie, ai parenti o amici, in quanto l’essenziale era costituito dal desiderio di immortalità e di vita felice. Inoltre, invece di lasciar rovinare la loro fortuna sceglievano la filosofia per loro stessi, ma lasciavano agli altri la ricchezza e la sua gestione (vc. 13, 17). Essi fuggono la città e cercano la solitudine al di fuori delle mura della città, in giardini e luoghi isolati (vc. 18-20). Le loro case, molto semplici sono protette contro il sole e contro il freddo, separate l’una dall’altra, ma in grado di permettere la vita in comunità e il mutuo soccorso in caso di bisogno (vc.24). In ogni casa si trova un santuario o eremitaggio che permette di adempiere i misteri della vita religiosa. Qui essi non portano né bevande, né alimenti, né alcun altra cosa che possa riguardare i bisogni del corpo, ma oracoli, leggi, inni, tutto ciò che permette alla scienza e alla pietà di divenire grande e di raggiungere la pienezza (vc. 25). Questi terapeuti non sono asceti che cercano la pazienza, ma mistici che si danno alla contemplazione. Conducono una vita austera al fine di riservare forza e tempo alla vita interiore: non bevono che acqua, non mangiano che pane e sale condito con isopo. Si vestono di lino e si astengono da ogni cibo in cui ci sia del sangue (vc 73).

La loro vita religiosa

Una delle due zone della loro casa è dedicata alla contemplazione di Dio e delle potenze divine, Pagina 42 di 99

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a tal punto che i loro sogni ne portano traccia. Hanno l’abitudine di pregare due volte al giorno, mattina e sera; all’alba essi chiedono una giornata felice, veramente felice, cioè che la luce celeste si riversi sulla loro intelligenza; al tramonto pregano perché la loro anima, completamente placata dal tumulto dei sensi e dagli oggetti sensibili, raccolta nel suo consiglio e nel suo foro interiore, segua le vie della verità (vc 27-28). Tra questi due momenti di preghiera, essi si danno alla lettura delle sante Scritture. I loro libri sono opere che spiegano il senso allegorico dei testi sacri. Filone insiste evidentemente sull’esegesi allegorica dei libri santi e degli autori antichi, ma non ci dà precisazioni. Egli ha forse in mente alcune speculazioni egiziane, simili a quelle del De Iside.

Oltre alla meditazione, hanno un posto di rilievo nella loro vita la composizione di canti e di inni in lode a Dio. Durante sei giorni, il programma è identico e i terapeuti rimangono nei loro eremitaggi, liberi dalle preoccupazioni materiali, ma anche da ogni affetto e da ogni relazione. Vivono in un clima propizio alla meditazione, in una fraternità tra persone solitarie. Per i terapeuti, si tratta di vedere chiaro, di impegnarsi nella contemplazione dell’essere per arrivare alla felicità perfetta al fine di divenire luce per gli altri.

La riunione comune del settimo giorno.

Il settimo giorno tutta la comunità si raccoglie per una riunione comune in una sala divisa in due parti, l’una per gli uomini, l’altra per le donne. Il rituale di questa riunione è una celebrazione è molto precisa: i partecipanti sono seduti per ordine di età, in atteggiamento di grande dignità, con le mani sotto i vestiti; il più anziano e il più versato nella dottrina avanza e fa un’esposizione che differisce per profondità da quella di coloro che fanno i retori e i sofisti, perché deve raggiungere l’anima. Anche le donne, separate da un muro di tre o quattro gomiti d’altezza, ascoltano gli oratori (vc. 31-33).

In questo giorno santo e festivo, massaggiano il corpo con l’olio per distenderlo e, secondo la loro usanza, non mangiano e non bevono che al tramonto: le occupazioni filosofiche sono degne di luce, i bisogni del corpo possono trovare soddisfazione la notte.

La solenne assemblea del cinquantesimo giorno

Attraversamento del Mar RossoBiagio d'Antonio - Cappella Sistina

Dopo un periodo di sette settimane, i terapeuti si riuniscono con la più solenne maestà. Vestiti di bianco e radiosi, allineati davanti a letti di tavola, alzano gli occhi e le mani in direzione del cielo per chiedere a Dio che la festa gli sia gradita (vc. 66). Dopo le preghiere, gli anziani,

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considerati secondo la loro data di ammissione alla comunità, prendono posto, da un lato a destra gli uomini, dall’altro a sinistra le donne che hanno mantenuto la castità per il loro zelo appassionato di saggezza (vc. 67-68). Distesi su semplici letti di foglie, ricoperte da tovaglie fatte con il papiro del paese, sono serviti non da schiavi, ma dai novizi della comunità scelti secondo il rango del merito (vc 69-70).

Prima dell’inizio del banchetto il presidente fa un’omelia, incidendo lentamente le idee nelle anime: spiegazione delle sante Scritture a seconda del significato allegorico, al fine di evidenziare la bellezza straordinaria dei simboli e delle idee e di risalire dal visibile alla contemplazione dell’invisibile (vc.78). Seguono il canto di un inno da parte del presidente e la ripresa dei ritornelli e delle antifone da parte di tutta l’assemblea.

Quando questi canti sono terminati, comincia il pasto: pane lievitato con del sale mescolato all’isopo come condimento. Poi tutti si alzano per celebrare la veglia sacra con due cori, di uomini e donne, nella sala del banchetto. « A volta cantano all’unisono, a volte battono le mani in cadenza e danzano con canti che si rispondono, eseguendo su un ritmo divinamente ispirato sia i canti di processione, sia di stanze, eseguendo le strofe e le antistrofe della danza dei cori» (vc 84-85). Quindi i due cori si mescolano e divengono uno, come già in altro tempo sul bordo del Mar Rosso dove si è compiuto il miracolo della liberazione del popolo, quando il profeta Mosé intonò i canti. In effetti questa veglia del cinquantesimo giorno ricorda la liberazione di Israele in viaggio verso la Terra promessa. Al termine di questa notte, al levarsi del sole, tendono le mani verso il cielo e con un’ultima preghiera domandano una giornata felice, la conoscenza della verità e la chiarezza di giudizio e ciascuno si ritira nel suo santuario.

I Terapeuti di fronte alle malattie della civiltà ellenistica

Nel suo De vita Contemplativa, Filone oppone i terapeuti ai sofisti, agli adoratori dei semi-dei della corrente evemerista della sua epoca, agli adoratori di immagini e di statue degli dei e a tutti coloro che si danno alle orge dei banchetti greci. Tutto ciò rappresenta malattie penose e difficili da guarire. In altre parole, Filone stigmatizza le malattie della civiltà ellenistica.

I terapeuti del lago Mareotide hanno scelto la terapia in grado di procurare loro la guarigione della psiche (psykas), in accordo con l’essere e l’immortalità (3).

La loro terapia si svolgeva in tre tappe. La prima tappa, quella dei sei giorni della settimana, ha luogo per ogni uomo e donna - tutti dediti alla castità totale - nel monasterium della sua casa: silenzio, lettura, contemplazione, digiuno rotto soltanto al calare della notte da un pasto fatto di pane condito con sale, isopo ed annaffiato con acqua della sorgente. Ciascuno inizia e termina la sua giornata con la preghiera. La seconda tappa, quella del settimo giorno, si svolge nel santuario in cui si riunisce l’assemblea comune degli uomini e delle donne, separati da un muro di quattro gomiti. E’ il giorno sacro della terapia liturgica: ascolto della Torah spiegata e commentata, pasto in comune. E’ anche il giorno durante il quale ognuno massaggia il suo corpo con l’olio per distenderlo. La terza tappa è quella della grande terapia, la veglia del cinquantesimo giorno, poiché il numero cinquanta è il più santo e il più conforme alla natura. La sera del quarantanovesimo giorno ha luogo la grande assemblea solenne. Tutti sono vestiti di bianco, iniziano con il prendere un pasto frugale e passano la notte in una veglia sacra fatta di letture, di preghiere e di canti. Questa veglia è in ricordo delle opere di dio compiute attraverso l’intermediazione di Mosé sui bordi del Mar Rosso in favore della liberazione definitiva del popolo.

Note

1) F. Daumas, P. Miquel, Philon d’Alexandrie, De Vita Contemplativa introduction, notes, texte grec, trad. française, Cerf, Paris,1963. J. Y. Leloup, Prendre soin de l’Etre. Philon et les

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Thérapeutes d’Alexandrie, Albin Michel, Paris,1993. Trad. Franc. et commentaire.

2) F. Daumas, op. cit. pp. 42-45.

3) M. Simon, L’ascetisme dans les sectes juives, in U. Bianchi (a cura di) La tradizione dell’enkrateia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1984, pp.393, 431.

(da àtopon Vol. V)

IMMORTALI MORTALITrasformazioni di uomini e Dei

Giuseppe Lampis

Immortali mortali, mortali immortali, viventi nella morte di quelli,ma, nella vita di quelli, morti.1

Premessa

Secondo il pensiero tradizionale, gli avvenimenti dei primordi non appartengono ad un tempo perduto ed esaurito; al contrario, essi raggiungono il presente condizionandolo e determinandolo in modo decisivo. Una tale idea vuole indicare che le cose accadute in illo tempore rappresentano il vero senso riposto della situazione dell’uomo presente.

Mosse da questa credenza, varie culture hanno sentito con particolare acutezza il bisogno di cimentarsi nel deciframento delle vicende del principio. Per esse solo la riuscita di una tale impresa potrebbe svelare la configurazione del problema della nostra epoca.

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Ares - Opera fotografica di Lorenzo ScaramellaRitroviamo riformulato un discorso analogo perfino dal pensatore con il quale, per molti versi, si avvia proprio l’età moderna, Agostino, quando afferma che non potremo capire chi veramente siamo fino a che il volto di Dio non si sarà aperto completamente davanti a noi (Conf., X, V).

Alle origini della nostra cultura, per il mondo greco, uno degli avvenimenti dei primordi dal quale prende avvio la condizione dell’umanità attuale consiste in una grande guerra mitica che coinvolge uomini e dei.

Come è noto, si tratta della guerra raccontata nell’Iliade di Omero. In questo monumento dell’epica universale, che presuppone a sua volta un vasto retroterra di saghe cantate dagli aedi, la tradizione viene rimodellata attorno all’idea del primato di Zeus olimpio, in quanto si riconoscono nell’azione da lui intrapresa per il consolidamento di questo primato i presupposti fondamentali della condizione attuale degli uomini.

Attorno a Troia uomini e dei non vennero allo scontro già separati per generi diversi, ma in ciascuno dei due eserciti si fronteggiarono dei alleati con uomini contro altri dei egualmente alleati con altri uomini. Finita la guerra, gli stessi dei e uomini prima apparentati, si troveranno, invece, in sfere nettamente distinte.

A noi resta di capire cosa abbia voluto significare che ci sia stata un’epoca nella quale entrambi si trovavano così vicini e così alla portata gli uni degli altri da poter duellare su un terreno

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comune.

Sotto quel mito si è conservata un’idea di grande peso; e cioé che, una volta, l’uomo sebbene mortale – come oggi – godeva già dell’eterna giovinezza e beatitudine.

In quel tempo uomini e dei condividevano un’esistenza integrata e perfetta in un regime di comunicazione, scambio e trasformazione immediatamente reciproci. Successivamente, il dio si sarebbe appropriato in esclusiva di quella situazione privilegiata e avrebbe cosparso di tremende asperità la via per entrarvi.

Eppure l’uomo, proprio perché per sua intrinseca costituzione già da sempre è mortale, si mantiene paradossalmente ancora aperto a quella possibilità. Ma a quale prezzo? Inoltre anche il dio non ha smesso, nonostante la vittoria riportata in illo tempore, di rivestire una natura altrettanto esposta all’eventualità della morte.

Per il Zarathustra di Nietzsche, Dio è morto. Ma questo proclama non può sancire nessun automatico passaggio del regno all’uomo. L’annuncio è di quelli che possono essere dati legittimamente solo dopo e a cose fatte da chi abbia saputo superare (übermensch) l’epocale condizione di decadenza, appropriandosi delle potenzialità liberate da quel rovesciamento.

Proviamo ora a vedere più da vicino di che cosa si tratti.

1. La grande guerra primordiale fra dei ed uomini

La guerra di Troia ha avuto un prologo in cielo, in mente dei.

Si racconta che fu Zeus, con il fine di alleggerire la sua progenitrice – la Terra – del peso del genere umano che era cresciuto troppo, a decidere (Il., I, 5)2 di spingerlo a decimarsi con una guerra intestina. Bisogna però considerare che non si trattava del genere umano dell’età attuale, la penosa età degli uomini di ferro, ma di quel genere di uomini semidivini chiamati eroi che seguirono alla scomparsa della razza di bronzo.

Gli eroi, secondo Esiodo «li uccise la guerra malvagia e la battaglia terribile, alcuni a Tebe dalle sette porte (...) altri poi sulle navi aldilà del grande abisso del mare condotti a Troia, a causa di Elena dalle belle chiome; là il destino di morte li avvolse». Finché, posti da Zeus lontano dai luoghi degli uomini, ai confini della terra «abitano con il cuore lontano da affanni nelle isole dei beati presso Oceano dai gorghi profondi, felici eroi» (Le opere e i giorni, 161-170)3.

Zeus aveva avvertito il profilarsi di una grave minaccia al suo primato e, dimostrandosi supremo depositario di ogni preveggenza e astuzia da reggitore, volle ribadire in un solo colpo il suo ordine anche sugli dei. Tutte le potenze, uomini-eroi e dei, vengono da lui provocate al combattimento; egli impianta l’occasione irrestibile nella quale tutte, seguendo le intime loro predisposizioni (Il., XX, 21 ss.), gli permetteranno di consolidare l’ordine avviato con la cruenta detronizzazione del padre.

La causa remota apparente che scatenò la guerra di Troia si manifesta già durante il banchetto delle nozze tra la dea Tetide e l’uomo dei primordi Peleo e compenetra di sé l’effetto della loro unione. Accadde allora infatti che Eris, non invitata, lanciò fra i convenuti la famosa mela d’oro da attribuire kallistei, alla più bella.

Era stato proprio Zeus a non invitarla, mettendo in moto così la inevitabile sequenza dei fatti.

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Achille, figlio di quelle nozze gravide di nefasto futuro, troverà la morte nella fase conclusiva della guerra di Troia, colpito nell’unico punto del corpo4 che era rimasto vulnerabile dopo le pratiche immortalizzanti a cui la madre lo aveva sottoposto.

La freccia fu indirizzata al bersaglio dal signore di ogni freccia che apporta la morte da lontano, Apollo – il costruttore delle mura di Troia –, mediante la mano di Paride.

Il vero nome di questo eroe Troiano, che fin dall’inizio godette della posta in palio nella guerra, Elena la splendida, solare e notturna, in greco suona Alexander, che significa protettore degli uomini. Ed anche per lui ricorre la caratteristica, come per il tebano Edipo, di essere uno di quei figli che dovrebbero morire per far vivere il proprio padre, e che invece – per un fato ineluttabile – ne provocano la morte o direttamente o indirettamente.

Così, troviamo il bellissimo eroe, sopravvissuto all’esposizione sul monte, all’inizio e alla fine, proprio come accade nei piani ben orditi da un potente che tutto sa e vede. In fondo, è nel suo destino che la conquista della città mitica ed il possesso della donna divina si manifestino come la stessa partita.

Riprendendo ciò che dicevamo all’inizio, dobbiamo sottolineare come Zeus sia riuscito ad apprendere il segreto per lui essenziale – il rischio che avrebbe corso a causa del figlio che gli sarebbe nato da Tetide – in quanto la Sapienza in persona lo premiò con i suoi favori e come, altrimenti, sarebbe finito inconsapevole sotto un nuovo sovrano, coinvolto troppo presto, anche egli, nella vicenda cosmica alla quale non possono sottrarsi neanche gli dei.

Se la suprema legge che regola e sottomette ogni essere estende il proprio dominio necessariamente senza limiti di sovranità, allora anche Zeus vi è sottoposto e la sua preveggenza gli sarà servita soltanto a rinviare la sua ora. Al contrario, Zeus sarà invece davvero intramontabile se tale legge altro non è che lui stesso5.

Zeus si conserva perché con la grande guerra riesce a spingere gli eroi lontano dall’esistenza perfetta. Gli eroi da allora in poi potranno riacquistarla solo a prezzo di durissime prove. E già la guerra di Troia rappresenterà o un primo terribile passaggio, necessario ma non sufficiente, o addirittura il simbolo generale dell’entrata nella penosa nuova situazione di distretta; a seguito di essa, gli uomini restano ormai inchiodati ad un destino che equivale alla discesa agli inferi.

Il livello della prova divenne tale che nessun eroe, né fra i vinti né fra i vincitori, potrà più evitare questa morte pericolosa, o già sotto le mura della superba Ilio (città di Priamo e Ecuba-Ecate, e dunque città infera di re inferi), o durante il ritorno o a casa. Tutti in un modo o nell’altro portano i segni della morte su di sé. Perfino i pochissimi che scampando dureranno più a lungo degli altri sono decifrabili come figure di carattere infero. Fra loro, Nestore è il re di Pilo e pylai sono le porte degli inferi (Il.,V, 397); Menelao, a parte la stretta associazione con la mutevole notturna sposa selenica, significa colui che attende la gente6; essi dureranno in modo inequivocabilmente anormale, il primo vivendo tre generazioni, il secondo passando nei Campi Elisi divinizzato per influsso di Elena. Odisseo, poi, è un tipico viaggiatore oltremondano, quasi un’altra forma di Ermes; Enea7, lo scampato per eccellenza, finirà i suoi giorni – anche se per una leggenda tarda – nel Latium- Ades approdo dei beati, come se lì avesse conclusivamente riacquistato l’occulto aspetto di daimon, caratteristico degli uomini della razza d’oro. Entrambi, Odisseo e Enea, sopravviveranno più a lungo ma soltanto per continuare a cimentarsi con altre discese, fino alla prova decisiva di ogni viaggio, quella del passaggio attraverso la porta stretta che richiudendosi con fulmineità può schiacciare8.

2. Con la morte degli eroi nasce l’ordine attuale

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Guardiamo meglio al significato del fatto che nessun eroe partecipante alla guerra di Troia si salverà dalla morte.

Particolare di un'anfora proveniente da Vulci con Eracle, Cerbero ed Atena (525 a. C. - Parigi, Museo del Louvre)Gli uomini non divennero mortali solo allora, dato che lo erano per costituzione fin dalla nascita; ma da allora in poi, essendosi interrotto l’equilibrio precedente, a loro toccherà immancabilmente passare per la città dei morti (vedremo poi come questa simboleggi il mondo attuale). Il prodursi della rottura del regno di comunicazione e scambio tra uomini e dei fa tutt’uno con lo scatenarsi della guerra primordiale. Da quel momento mitico, gli uomini – più precisamente soltanto alcuni di loro, gli eroi – potranno ancora ritornare al regno iniziale se riusciranno a morire nella direzione giusta, superando la ormai inevitabile prova iniziatica del passaggio attraverso la cittadella infernale. Tutti i grandi eroi della Grecia, da Eracle a Teseo, da Giasone a Orfeo, dovranno affrontare la prova della discesa nel mortifero labirinto.

Gli uomini degli inizi, quelli aurei (gli eroi non erano ancora comparsi sulla scena), conoscevano un modo diverso di passare attraverso la morte che li rendeva simili agli dei. In verità essi erano già da sempre nella condizione di beatitudine, di olbioi, e la loro morte non era un’autentica morte, come la loro nascita non pareva una vera nascita. In quel tempo, imperava il Caos, niente nasceva e niente moriva. Dominava una confusione indifferenziata onnicomprensiva ed onniavvolgente. Crono divorava ogni novità ed impediva lo svolgersi della creazione.

Ben altri effetti discendono dall’arrivo degli eroi che introducono il nuovo pericoloso itinerario, incommensurabilmente più arduo e complesso, dell’attraversamento di questo mondo e della frattura che esso rappresenta. Gli eroi furono creati per cimentarsi e riuscire. Con la loro razza, che si sostituiva alla violenza disordinata e mostruosa degli uomini della razza di bronzo, nata dai frassini9, Zeus aveva voluto dare un nuovo ordine al mondo.

Prima degli eroi vigeva la confusione, mentre il loro arrivo introdusse l’ordine. Il modo di morire precedentemente sperimentato da parte delle altre razze non aveva esiti trasformativi e creativi; bisognava allora affrontare la morte in un modo diverso, bisognava essere mortali in un altro modo.

Infatti prima degli eroi, gli uomini d’oro, addormentandosi dopo millenni ancora giovani in una morte sui generis, accedevano pianamente alla condizione di beatitudine. Il loro genere di morte equivaleva a una semplice inversione della via da cui inizialmente avevano preso forma, una sorta di spontanea retrocessione per la stessa via dalla quale erano emersi, sbocciando dalla terra10 direttamente come fiori o alberi. Successivamente, gli uomini d’argento a causa della loro tracotante stoltezza furono spediti definitivamente negli inferi; quelli di bronzo, selvaggi, non mangiatori di pane, violenti, si sterminarono a vicenda. Il genere di morte di

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queste due razze non poté produrre esiti creativi e le confinò in un vicolo cieco.

La razza di ferro, quella che verrà dopo gli eroi, quando sarà il suo turno nascerà già vecchia (nella condizione paradigmaticamente contraria alla indefinita giovinezza della stirpe aurea) e si esaurirà devastata dalla perdita di ogni senso dell’onore reciproco. Sarà questo il destino degli uomini dopo che se ne saranno andati gli eroi, vale a dire una volta che si saranno spogliati delle doti eroiche, irresistibilmente attratti dal baratro.

Come si vede, tutti costoro – quelli delle razze d’argento, di bronzo, di ferro, come anche quelli della razza d’oro – incarnano un’esistenza intrinsecamente squilibrata e incapace di introdurre l’ordine, e la loro maniera di essere mortali finiva per alimentare la confusione.

Si rendeva dunque necessario introdurre un nuovo tipo di mortalità.

I tentativi susseguentisi di dar luogo a diverse razze d’uomini, dopo quella d’oro degli olbioi autosufficienti, lasciano intravvedere la ripetuta ricerca di aggiustare la creazione, inseguendo varie incarnazioni del fuoco guerriero. L’uomo entra infatti in campo nella creazione come una delle trasformazioni del fuoco11; solo quella meglio riuscita saprà inserirsi nel circuito universale, compiendo anche il cammino e la prova più difficile.

La successione mitica delle razze non va intesa in senso piattamente cronologico; il modo antico (esiodeo in particolare) di disporle nel racconto una dopo l’altra non vuole indicare che esse si siano susseguite storicamente. Ognuna di quelle razze rappresenta una dimensione strutturale e archetipica dell’umanità e non sprofonda nel niente una volta sostituita. Bisogna intendere, invece, che la razza che prevale in primo piano riassuma e riformuli a modo suo il potenziale di tutte le altre.

La guerra di Troia fu certamente una prova più radicale e più universale di altre. Dei e eroi partecipano altresì alla caccia del cinghiale di Calidonia e alla spedizione degli Argonauti12, ma soltanto con la guerra di Troia e le vicende degli eroi cantate nell’Iliade e nell’Odissea Zeus emerge come l’unico che ne trae profitto durevole.

I due poemi omerici, pur mettendo in primo piano miti diversi, mantengono entrambi al centro l’intreccio delle simbologie della prova della morte e della prova della conquista della donna divina.

Lo stesso nucleo dell’Achilleide, inglobata nella più ampia Iliade, fa centro proprio sui furori suscitati dalla perdita della preda femminile13.

Nell’Odissea, l’eroe ringiovanisce improvvisamente e sorprendentemente e stravince nella prova finale per la conquista della sposa, nel giorno della festa di Apollo (Od., XXI, 259)14.

Sia Achille sia Odisseo sono eroi della trasformazione. Achille propende all’ambiguità, anche sessuale (i sentimenti per Patroclo), si traveste da ragazza (nel gineceo di Licomede), è mobile come una divinità fluviale15; del resto sua madre possiede in sommo grado l’arte di mutare forma – prima di cedere esausta a Peleo assunse una dopo l’altra quella di fuoco, acqua, leone, serpente, seppia –. Odisseo è l’eroe della maschera per eccellenza, dissimulatore, imbroglione, ermetico; è l’eroe che riesce a tornare nel punto in cui essere ed apparire, vita e racconto – per così dire – si salderanno e si ritroveranno nel proprio centro occupato dalla donna divina, figlia del sole, tessitrice e maga, diurna e notturna. In quel punto, per lui, si fermerà il tempo (Od., XXIII, 243) 16.

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Achille e Odisseo sono inoltre entrambi legati al cavallo, animale connesso con la simbologia del movimento veloce, viaggiatore multiforme da un mondo all’altro, esemplarmente infero. Achille ha per amici una coppia di cavalli, i poseidonici Xanto e Balio, e sotto vari aspetti sembra quasi appartenere al loro genere. La fama di Odisseo resta indissolubilmente legata con quella del cavallo da lui ingannevolmente usato per penetrare nella mitica fortezza di Troia.

La speciale caratteristica degli eroi risiede nel fatto che alla loro natura appartiene di andare soggetti alla morte pur partecipando al tempo stesso della dignità divina. Gli eroi sono uomini tipicamente mortali; essi hanno una tomba e a loro si celebra il sacrificio nella seconda parte del giorno, quella in cui il sole segue un percorso calante, facendo colare il sangue della vittima (che doveva essere di colore nero e che non veniva consumata, ma intieramente bruciata) verso le viscere della terra da un altare basso chiamato focolare17. Tuttavia la mortalità, lungi dal rappresentare un segno di mediocrità e di decadenza, nel loro caso si stampa come il contrassegno della capacità di affrontare una prova esemplarmente difficile.

I Greci hanno sentito che c’era qualcosa di divino nella forma umana. Essi hanno voluto scorgere un elemento divino in ciò che prende forma equilibrata nella natura e che si apre con proporzione alla luce: in ogni mondo che si apre armoniosamente i Greci hanno visto un dio. C’è chi ha giudicato che tale pensiero fosse dovuto a una loro disposizione per la decadenza (ma piuttosto vedrei annidarsi uno sbilanciamento verso la decadenza nella esaltazione del novum, quando si presenterà, per un’implicita motivazione nichilista che l’idea di novum contiene). A maggior ragione la corporeità perfetta, l’azione concreta perfetta, il gesto pratico creatore sono stati da loro valorizzati come segni di un’alta presenza.

Per un avvenimento dalla portata incalcolabile, dei ed uomini ad un certo punto si sono divisi in campi opposti, pur rimanendo simili, troppo simili per non lasciar trasparire nel codice delle loro rispettive figure (e delle passioni che le animano) un’antica e primitiva coappartenenza18.

Per la mente greca, l’uomo dispone della possibilità di innalzarsi sulla verticale del divino; e per realizzare ciò deve portare al perfezionamento il complesso dei suoi carismi di vivente nel mondo. Più l’uomo esce dall’indistinto infero ed apre mondi più in lui si esprime l’orizzonte di una divinità.

3. Uomini e Titani contro Zeus

Si tramandano anche altri racconti nei quali gli uomini vengono distrutti da Zeus. In occasione di uno dei diluvi scatenati da Zeus, il titano Prometeo insegna a una coppia di uomini a sopravvivere costruendo un’arca. La coppia sbarcata sulla terra ferma, dopo la fine del diluvio nel quale erano stati sommersi tutti gli altri esseri umani, riprodurrà ancora altri simili, attraverso il lancio delle pietre, ossa della terra.

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Atena - Opera fotografica di Lorenzo ScaramellaPrometeo ha un nome che significa il preveggente. Dotato della capacità di conoscere di più e prima (pro-metis), egli in particolare sa la cosa più importante: che anche gli dei muoiono o possono morire, il che è la stessa cosa. Lo ha appreso dalla madre Temi e se ne avvale per aiutare gli uomini; per questo Zeus lo sottopone ad un’atroce punizione19, fino a quando sarà liberato da un eroe, Eracle, le cui storie di partecipazione a pericolosissime prove iniziatiche tratteggiano proprio la struttura di un liberatore di uomini.

Prometeo difensore degli uomini sarebbe, secondo una tradizione, anche loro fratello avendoli plasmati con la terra, che è sua progenitrice. Tutti i Titani appartengono d’altronde alla generazione primordiale di Gea – la terra – e Crono è uno di loro e con i suoi fratelli per alleati scatenerà una guerra decennale contro Zeus per la restaurazione del vecchio ordine.

Inoltre, torna utile ricordare che dietro i Titani20 si tiene l’umanità attuale, anche secondo uno dei miti più densi e fondamentali quale il racconto orfico di Dioniso.

Prometeo, dunque, è alleato degli uomini e sa. Egli sovrabbonda di metis anche se non nella misura della quale si è appropriato Zeus, per il quale Metis è precisamente quella sua sposa primordiale che egli volle inghiottire gravida al fine di evitare che il figlio che stava per nascere (nascerà invece Atena direttamente dalla testa di Zeus) lo rovesciasse. Zeus riesce a garantirsi il perdurare del proprio primato esercitando una particolare capacità di raddoppiarsi androginicamente e di integrarsi con la originale forza della femminilità, cosa che gli conferisce una veggenza che altrimenti non avrebbe.

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Non sarà quella l’unica volta in cui egli si rafforzerà mediante simili unioni. Un’altra sua sposa primordiale, la titanide Temi, che forse è un altro nome della sua stessa madre21, lo informerà che il figlio delle eventuali nozze con Tetide lo avrebbe rovesciato dal trono e si sarebbe sostituito a lui nel potere, avvalendosi del possesso di armi più formidabili della sua folgore e del tridente di suo fratello Poseidone22, anch’egli pretendente alla mano di Teti.

Apprendiamo così, scorrendo quelle particolari figure di sillogismo che sono le genealogie degli dei e degli eroi, che Zeus e Prometeo sono cugini, in quanto figli di due Titani fratelli, ma forse – come figli della stessa Temi – potrebbero essere addirittura fratelli.

Chi è Temi? Essa rappresenta l’ordine lecito, la norma giusta, il costume conveniente dei rapporti fra i due sessi23; sue figlie sono le Ore24, “il tempo giusto”, il ritmo ordinato delle stagioni, in quanto guardiane delle porte del cielo stellato (Il.,V,749) da dove iniziano i sentieri della notte e del giorno. Nessuno meglio di lei possiede la nozione di chi sia la sposa adatta e positiva.

Per suo consiglio Zeus e il fratello Poseidone scanseranno le nozze con la desiderata Tetide, pericolosa dea marina, attribuendola in sposa ad un mortale, all’eroe tessalo Peleo25. Achille sarà il frutto di quell’unione celebrata nella grotta del centauro26. E Achille fu destinato in modo esemplare alla morte27 e alla conquista di Troia, che in definitiva, e non soltanto nel suo destino, sono la stessa cosa.

4. Dioniso, il signore della morte, il vero creatore

La nuova strada necessaria ormai per gli uomini verrà indicata da Dioniso, il signore della morte.

Se Zeus dovesse mai venire detronizzato da un eroe – o uomo divino – capace di superare la prova della morte, ciò potrebbe accadere soltanto con Dioniso, anche se gli Orfici hanno voluto intravvedere nel grande dio della maschera, nel fanciullo divino barbuto, reinterpretandolo, un’altra forma del luminoso padre degli dei che impassibile li guarda scorrere davanti a lui28.

Dioniso si presenta come l’unico eroe che ha attraversato la morte29 e è divenuto un dio. Egli viene conosciuto come il sofferente per eccellenza, e per questo viene in aiuto di chi voglia rinascere. Onorato con il canto in occasione del sacrificio del capro (tragos), la tragedia, egli irrompe come il vero signore della morte, quello che ha introdotto la morte positiva, l’uscita verso la trasformazione in una nuova vita alta e beata, la realizzazione dell’ordine, l’imposizione di un senso alla confusione iniziale.

La presenza di una dottrina, secondo la quale l’introduzione della morte imprime senso ad un cosmo inizialmente confuso, rivela nella complessa stratificazione della religione greca una traccia che, almeno per le importanti componenti dei culti eroico e dionisiaco, conduce a visioni caratteristiche dei paleocacciatori.

Tratteggiamo le linee principali di tale dottrina.

In alcuni scenari fortemente arcaici, accanto al creatore primario compare un suo doppio, talora un gemello, di origine oscura e non creato da lui, che si arroga il compito di modificare la sua opera. Il suo intervento si configura o come quello di un concorrente disturbatore o come quello di un cooperatore positivo che riesce a correggere gli errori iniziali.

In questo caso, la prima creazione si presenta così disorientata e sovraccarica (cosa che

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evidentemente comporta un artefice iniziale inetto e goffo) da esigere una profonda revisione. Lo squilibrio principale a cui porre rimedio riguarda la formazione degli uomini che lasciati a se stessi proliferano oltre misura, finché l’intervento del secondo artefice non aggiusta le cose inventando la morte. Egli stesso reca con sé la morte, e muore per la prima volta.

Il creatore secondario, signore della morte (dato che la morte, per la mente arcaica, è sempre un’uccisione), si uccide da sé o accetta di farsi uccidere.

In questo complesso dottrinale sono associati strettamente insieme tre elementi: il sacrificio violento del secondo creatore, l’avvio dell’ordine cosmico, la morte degli uomini primevi.

Si tratta di credenze che provengono dai fondali della cultura dei grandi cacciatori del paleolitico e che hanno subito svariate riformulazioni. Una, forse quella più fedele al nucleo duro tradizionale, la si ritrova nel complesso sciamanico; un’altra emerge nell’Induismo (Prajâpati) e nel Mazdeismo (Saoshjant); in età recente la vediamo riaffiorare trasfigurata nel cristianesimo. Un’altra perdura nella forma dionisiaca nel mondo greco il cui lascito culturale è fondamentale per la coscienza europea.

In alcuni esiti dualistici degli scenari sopradescritti, il secondo creatore viene addirittura identificato con il diavolo30. Quando si sarà arrivati a tanto, con l’uomo assegnato all’asse ereditario opposto a quello del dio primario e buono, il processo di netta separazione di ogni negatività da ogni positività all’interno del principio divino, inizialmente compatto, avrà raggiunto un punto estremo.

È questo il caso, contrario a quello descritto prima, in cui gli errori del cosmo vengono attribuiti al creatore secondario, che fa la figura del disturbatore dell’opera buona (mentre nello scenario precedente ne è il perfezionatore). In esso si fa avanti la universalissima e ben nota figura del briccone divino o trickster.

Tuttavia proprio i due elementi principali che caratterizzano il trickster (e cioè la sua irresistibile, strutturale propensione al gioco e la sua solidarietà con gli uomini) ci permettono di capire che la sua diabolizzazione – in una con la trasformazione in senso rigidamente negativo e malvagio dell’uomo – consegue a un tardo processo di camuffamento.

Il primo elemento, la capacità di giocare, rivela una facoltà squisitamente divina e creativa. Notevoli e chiari sono gli esempi che possono corroborare quest’affermazione. Nell’Induismo, i mondi si aprono sui passi di danza di Shiva; l’assoluto gioca manifestandosi nella molteplicità; a ciò che agli uomini appare come la mutevole illusione della mâyâlîlâ, il gioco di Dio. Quello che i Greci chiamano aion, il grande anno, la vita che perdura nella varietà degli eventi, il tempo senza fine, per Eraclito è un fanciullo che gioca sulla scacchiera31. Per la sensibilità religiosa greca, la libera creatività del gioco divino appartiene al dio più primitivo di tutti, a quell’onnicomprensivo Caso32 che si profila dietro la figura arcaica del briccone Ermes, ladro scopritore delle immense ricchezze giacenti nel creato. corrisponde un rovescio ben potente e reale, la

La solidarietà tra trickster e uomini è ancora più significativa. Le loro figure convergono nel fatto che ambedue patiscono. Ambedue soffrono e muoiono; e soffrire e patire, messi in corrispondenza, si mostrano come il rovescio della capacità di trascorrere, nel gioco cosmico, da una forma all’altra.

Dunque, il secondo creatore, cooperando nella correzione della creazione, rivela in fin dei conti il suo ruolo di creatore decisivo. Egli riesce a mettere ordine nel caos con l’introduzione della sua morte; morendo egli stesso in illo tempore per la prima volta, si fa carico di insegnare

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quale debba essere la morte vera, quella che – per l’appunto – potrà riuscire a instaurare l’ordine giusto nel cosmo, sottraendolo agli errori e ai pasticci del suo primo autore.

La figura di Dioniso ha molteplici implicanze che non possiamo indagare nei limiti che ci siamo prefissi. Per ora basti ricordare che egli conduce la cavalcata degli spettri e che quella particolare follia di cui è signore segnala e porta con sé un salto radicale di esistenza. In lui si concentrano i poteri di un grande dio della trasformazione iniziatica; ma soprattutto Dioniso si impone quale dio della suprema coincidentia; morente e rinascente, egli può essere l’uno perché è anche l’altro. Con lui ed attraverso lui i morenti della vera morte approdano alla vera rinascita.

Non è necessario indagare se l’identificazione di un Dioniso sicuramente infero con uno Zeus padrone della vita intramontabile sia frutto di una sintesi posteriore alla costituzione delle due figure originali33 e se lo Zeus bambino nato nella grotta di Creta fosse già Dioniso. Che Zeus abbia prodotto l’ordine del cosmo morendo nella forma di Dioniso, o che questi in quanto introduttore dell’ordine sia apparso coincidere con il signore degli dei, non muta la sostanza del messaggio religioso così come si configurò nella sua forma matura: un dio di suprema importanza doveva passare attraverso la vicenda trasformativa della morte per riappropriarsi della condizione iniziale.

5. Anche gli dei muoiono

Che il padre degli dei abbia sentito il bisogno di difendere gelosamente il segreto del suo essere esposto alla possibilità di morire, o di essere rovesciato, risulta ancora più comprensibile se si pone mente al fatto che nella visione arcaica la morte corrisponde ad una violenta sottrazione di una delle anime vitali da parte di un avversario che accresce la propria potenza a spese del soccombente.

Teseo uccide il Minotauro

È opportuno anche precisare che il vero segreto, quello che concerne l’effettiva posta in gioco, non consiste tanto nella notizia di un generico essere esposti alla trasformazione, quanto nel

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conoscere in anticipo chi e come, quale dio o eroe e con quale arma, abbia il potere di infliggere la perdita della forma essenziale e di assumerla per sé.

Lo strano genere di morte (se così può essere definita) in cui si passava agli inizi consentiva uno scambio reciproco diretto, spontaneo, pacifico e per niente drammatico tra uomini e dei; tuttavia ad un certo punto, come riferiscono i miti, allorché insorse una rivalità per il possesso e la fruizione in esclusiva della condizione divina, si formarono le alleanze che diedero luogo alle schiere contrapposte e si scatenò la guerra.

Il mito risulta molto complesso e a più strati. Si racconta che la guerra ha come fine la conquista della città oltremondana e le nozze con la regina che vi regna; e questo spinge a pensare che il possesso saldo della eterna beatitudine, tipica degli dei, venisse subordinato, da un certo punto in poi, ad una discesa agli inferi tesa ad acquisire la potenza della donna divina che ne occupa il centro.

Dopo una rottura drammatica intervenuta nell’epoca dei primordi in seno alla comunità degli dei (vale a dire nell’intimo stesso della natura di Dio), una parte di quel consesso (o una parte di Dio stesso?) viene costretto ad un percorso molto più accidentato e pericoloso per giungere al godimento stabile di quanto gli apparteneva nella condizione originale. Il mito indica che la parte soccombente nel conflitto dovrà passare, da allora in poi, attraverso la prova di una morte drammatica cercando di scoprirne le potenzialità rigeneratrici.

Lo spirito greco si è curvato con grande impegno sul deciframento del senso della morte, giudicandolo come il problema saliente dell’uomo. Gli uomini, in greco, vengono soprattutto indicati come brotoi, i mortali. Prima ancora che si stabilizzasse il dualismo corpo-anima, l’uomo greco ha individuato nel dramma della physis, ovvero dell’avere origine nascendo nel concreto mondo delle cose visibili, la sostanza del dramma umano ed ha avvertito in modo acuto l’esigenza di verificarne gli sbocchi possibili.

Già per il pensiero arcaico, il ribellarsi alla morte equivaleva a respingere la minaccia di un aggressore determinato in una occasione altrettanto determinata. La morte – che equivale ad una uccisione – comporta sempre un duello-agonia; e anche chi per una volta sarà uscito gloriosamente vittorioso, conservando la propria potenza vitale, non si sottrarrà alla rapina in perpetuo, bensì solo fino a quando manterrà il possesso di un’arma più formidabile di quella del nemico e la capacità di usarla.

La rivelazione che anche gli dei muoiono non indica peraltro qualcosa di automaticamente negativo per loro, ma che essi sono esposti alla possibilità di rientrare nella sfera di un imprevisto dominatore, di un insorto che li sopraffaccia.

In sostanza, gli dei (o il dio del mito che abbiamo citato), nel momento in cui in illo tempore si pose il problema di un nuovo ordine, non vollero morire in modo da favorire il subentro degli uomini-eroi in loro vece nell’esercizio della sovranità e cercarono una conferma del loro deliberato nel cimento risolutivo34. Essi dovettero sentirsi a rischio, di fronte ad una minacciosa tracotante pretesa avanzata da una avversa alleanza guidata dagli uomini-eroi e vollero resistere ad una morte che avrebbe comportato la cessione della loro anima agli uomini, ovvero il trapasso e la sottomissione nella sfera di questi. Nel tempo stesso, per simmetrica conseguenza, gli uomini primigeni non riuscirono ad appropriarsi della natura e condizione degli dei in esclusiva.

Questo mito, con cui in sintesi viene descritto il nucleo centrale misterioso dell’intero scenario, presuppone in tutta evidenza una situazione metafisica di somiglianza e comunicazione tra uomini e dei, nella quale era in atto un reciproco scambio in quanto entrambi non erano ancora separati da quella distanza successivamente divenuta abissale.

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L’affermazione che anche gli dei muoiono (da intendersi – lo abbiamo già detto – nel senso che possono morire) non significa che per essi si prepari necessariamente una decadenza analoga a quella degli uomini dell’età attuale dato che, pur essendo soggetti alla trasformazione, tutto dipende dal verso in cui sapranno dirigersi.

Le due sopradescritte direzioni possibili della morte stanno in reciproca perfetta alternativa. Così, al mancato raggiungimento dell’esito che fa acquistare un più intenso statuto esistenziale (il caso tipico di eroi o dei vittoriosi) corrisponderà il confinamento in una condizione involutiva e meschina. Ciò che resta saldo possesso di una parte viene a mancare simmetricamente all’altra.

Eppure, all’inizio, le cose non stavano così e gli uni si trasformavano negli altri all’interno dello stesso circuito congeniale di esistenza integrata e beata. È la scissione successiva a aver stabilito che beatitudine e decadenza ricadono su due versanti rispettivamente incompatibili, tanto che ormai rimane difficile e paradossale pensare a quella dei primordi come ad una morte effettiva, chiusi come siamo in un’epoca nella quale la morte si impone con un altro volto.

Capire il senso dell’accaduto è una delle grandi questioni della storia della religione. Mircea Eliade ha detto una volta35 che la religione nasce solo dopo che l’essere divino primordiale si è eclissato allontanandosi in una sfera di indifferenza irraggiungibile dagli uomini. A partire da allora, il cielo si popola di entità sempre meno impassibili e sempre più dinamiche, le quali in definitiva configurano il tentativo di una ricostruzione progressiva della comunione con il sacro.

Nel quadro religioso greco si considera la possibilità di un tipo di morte che non equivale affatto alla decadenza genericamente irreversibile comune agli uomini attuali, né tantomeno alla scomparsa nel baratro del niente. Del resto, in quel quadro nessuna morte e nessuna uscita potrà mai comportare lo scavalcamento dei confini della realtà; tali confini restano invalicabili per un immodificabile decreto e al loro interno, di conseguenza, potrà darsi soltanto passaggio da un essere a un altro essere.

Nel tempo stesso, tuttavia, nell’affermazione che anche gli dei muoiono gli uomini non debbono leggere nessun automatismo in loro favore. Al contrario, gli dei muoiono soltanto se un ribelle dotato della potenza necessaria insorga contro di loro e si appropri della loro natura subordinandola a sé. Una tale sopraffazione si conseguirebbe soltanto attraverso una morte che faccia rinascere come dei.

Una morte capace di trasformare nella condizione privilegiata degli dei, deve necessariamente essere immaginata come di tipo qualitativamente non banale, paragonabile ad un’uscita verso l’alto – per così dire – e non verso il basso, ovvero ad un’uscita senz’altro, effettiva e non illusoria, e non ad una fissazione avvitata su sé stessa36.

Per conseguire una tale morte occorre disporre di doti eccezionali e di un aiuto di particolare efficacia per trovare la strada giusta e vincere i guardiani delle porte da attraversare. Occorrono una preparazione e una disposizione non comuni, che si acquistano nell’esistenza mondana – sbilanciata verso la rigidità e la depressione – soltanto a prezzo di una rigorosa ascesi iniziatica.

Riuscire a morire nel senso autenticamente trasformativo equivale invece a disincagliarsi dalla ripetizione banale e a introdursi nel percorso della generazione creativa delle forme, a sciogliersi per divenire altro, suscitando le formidabili potenze del fuoco interiore dell’eroe. Ma chi è l’eroe?

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6. La paura della morte

La possente riflessione vedica sul tema del sacrificio era pervenuta alla tesi che soltanto l’uomo può portare alla perfezione l’azione sacrificale. Egli soltanto può saldarne l’interna potenza generativa, in quanto è l’unico che può fungere insieme e da sacrificatore e da vittima.

Le caratteristiche essenziali dell’uomo – per i libri Brâhmana – lo dispongono all’esercizio del sacrificio perfetto, nel quale si ripete l’azione originale della creazione del cosmo. Tale creazione consistette nell’autofrantumazione di Prajâpati, il primo uomo, la persona primordiale, il principio metafisico trasformato in soggetto attivo. Egli si scalda, arroventandosi, suda e dai suoi effluvi nasce il mondo.

Dalla proiezione di Prajâpati nella molteplicità scaturisce l’universo manifestato. Il morire, per i Veda, si spiega come una trasformazione che renda vittime, offerte disponibili ad essere sciolte nella infinita esplicitazione delle potenze possedute. Per questo alto motivo, il morire appartiene tipicamente al dio-uomo iniziale. L’uomo superiore conosce il nesso mistico che salda l’uccisione alla creazione: egli sa uccidere, innanzitutto perché sa che a dover essere ucciso è l’uomo stesso, se stesso in definitiva.

Il sacrificio si pone come la riattualizzazione dell’uccisione perfetta, l’unica a avere potere creativo, quella che ha per inizio e termine l’uomo. La ricomposizione del principio, scisso in illo tempore, attraverso il perfezionamento ed il compimento dell’uomo nel sacrificio di sé, fa del problema dell’uomo il punto critico dell’intera manifestazione cosmica. Abbiamo già visto come venga interpretato nella cultura greca il valore di fuoco incarnato dall’uomo eroico.

Su questo sfondo ben si comprende in quali sensi il morire vero sia cosa da dei. In primo luogo – per il senso riposto e più vero – perché esso appartiene alla dignità del primo grande uomo divino; in secondo luogo perché gli dei generati con il cosmo ne seguono il destino37. Dato che il cosmo si consuma, tanto da aver bisogno di venire periodicamente rigenerato, anche gli dei perdono la potenza e debbono ritrovarla nell’azione trasformativa perfetta che ha la forza originaria di instaurarli. Tale azione perfetta, come abbiamo ormai più volte sottolineato, si realizza nel sacrificio.

Così, nella conoscenza della mortalità di dio si ritrova implicita la spiegazione del senso profondo della mortalità dell’uomo. E dalla riappropriazione di questo senso profondo l’uomo si riappropria di dio, in uno scambio drammatico.

Quando l’uomo invecchia e decade, a quale avvenimento primordiale si deve risalire per spiegarci un simile destino? Per quale ragione quell’essere di statuto divino, quel dio che era l’uomo38 subisce tale sorte?

Il fatto è che se ogni morto è comunque un ucciso, quel dio che l’uomo attuale era nei primordi deve essere stato aggredito da un altro dio; e se un dio ha compiuto violenza su un altro e ne ha provocato la decadenza, vuol dire che una frattura metafisica si è prodotta nella natura profonda inizialmente unitaria della stessa divinità.

La cosiddetta morte naturale genericamente comune agli uomini attuali, quella a cui si scende attraverso la perdita di potenza e la malattia, non solo non è cosa divina ma nemmeno è vera morte perché, invece di trasformare, fissa e prolunga indefinitivamente nello stesso stato.

Dal canto suo, la morte vera equivale così tanto ad un privilegio divino che, lungi dal rappresentare decadenza e affievolimento, apre il passaggio ad altri livelli di vita, all’accrescimento e all’intensificazione della propria natura.

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In sintesi, secondo le interpretazioni e le visioni tradizionali che abbiamo richiamato, si danno due specie di morte: l’una accrescitiva, l’altra diminuitiva, la prima di carattere divino, la seconda no. L’uomo che sa morire si fa dio, l’uomo che non sa morire decade. In questo secondo caso, la morte assume uno speciale connotato etico e viene intesa come il culmine del male, cosicché per l’uomo il problema etico consiste nell’evitare di morire dal verso sbagliato e di riuscire a morire nella direzione giusta.

All’inizio del viaggio l’uomo sente la paura della morte.

La paura della morte costituisce uno dei segnali più caratteristici della condizione ontologica dell’uomo, immerso nel rischio e nella minaccia. La consapevolezza più o meno lucida e più o meno mediata di questa situazione intimamente costitutiva della realtà degli uomini non può non accompagnarsi all’angoscia. L’allarme, che acutamente in primo piano o sordamente sullo sfondo accompagna il situarsi dell’uomo attuale nel mondo, segnala l’incombere di un rischio e di un pericolo radicali.

Se intendiamo la paura della morte come il segnale di reazione alla minaccia della trasformazione in un altro che assorba nel suo dominio, dobbiamo altresì riconoscere che essa potrà riguardare non soltanto il singolo individuo umano ma anche l’intero popolo e l’intera propria cultura. Di conseguenza, l’acutezza di tale paura (e cioè l’ampiezza del problema della morte) risulterà direttamente proporzionale alla inadeguatezza della posizione dalla quale la si affronterà. Quanto più debole ed insufficiente sarà l’angolo prospettico dal quale si riceverà la minaccia, tanto più essa finirà per apparire insopportabilmente ingigantita e terrificante.

7. Gli alleati degli uomini e il mandala

Dopo la prima grande frattura dei primordi, da allora in poi, rivestono importanza decisiva la porta e la direzione da cui si entra nella trasformazione.

Il giusto accesso e il giusto verso fanno incontrare gli alleati necessari e permettono di affrontare gli ostacoli dalla parte suscettibile di essere superata. Il processo non può venir affrontato con ragionevoli speranze di riuscita senza poter contare sull’aiuto di forze di superiore livello, che vengano incontro per via, e senza l’alleanza di facoltà più alte39, la cui presenza, non scontata, deve essere meritata e acquisita mediante procedure adeguate40.

Un caso particolarmente rilevante di conquista di un alleato potentissimo è quello rappresentato da Giacobbe. Il grande patriarca mediante l’incubazione sulla pietra sacra riesce a convocare Jahvè che gli promette il dominio (Gen 28,10-22); inoltre ingaggia con lui una terribile lotta notturna uscendone vittorioso (Gen 32, 22-32) e con il nome mutato in quello, che ne sanziona il nuovo stato, di Israel, traducibile in perché hai combattuto un Elohim e hai vinto. Egli stesso potrà dichiarare di aver superato (subendone una lussazione dell’anca) la prova dell’incontro faccia a faccia con il dio. Emerge dalla storia di Giacobbe che, in forza dei suoi carismi e della padronanza della ritualità tradizionale, egli affronta a partire dalla piena esperienza della sua condizione umana una prova decisiva superando la quale costringe il dio ad essergli alleato e garante.

La storia di Giacobbe aiuta altresì a chiarire un risvolto fondamentale della potenza sviluppabile da taluni itinerari esistenziali umani: l’uomo superiore sa riconoscere il luogo atto all’incontro con dio, per convocarlo e trattenerlo vittoriosamente. Un tale uomo sa consacrare lo spazio, e questo dal canto suo si rivela sacro proprio nel caso in cui venga abitato e scelto da colui che sa interpretare il rapporto con cielo e terra.

I popoli arcaici traducono l’ordine cosmico, di cui intendono essere interpreti e portatori, nella

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struttura gerarchica della loro comunità, la quale riesce così a disporsi come la vivente attuazione del sacro. Questa gerarchia, inoltre, deve trovare esatta trascrizione nell’articolazione del luogo abitato.

Le culture tradizionali hanno considerato della massima importanza la scelta del luogo fisico in cui affrontare correttamente il problema del destino. Per tutte, l’abitare assume sempre un alto valore metafisico poiché stimano di fondamentale importanza che nel luogo abitato sia registrata l’alleanza e l’armonia con le grandi forze cosmiche; l’accampamento, già presso i nomadi cacciatori, e la città presso i sedentari agricoltori devono essere una imago mundi idonea a richiamare e conservare la presenza delle potenze dell’origine, dei, antenati e demoni. Secondo questa ideologia, l’organizzazione del luogo da abitare fa parte integrante della disciplina tesa a acquisire le potenze necessarie a affrontare il problema dall’angolo prospettico giusto41.

Da Babilonia a Roma, da Pechino a Bagdad, la costruzione della città deve rispondere a una mappa ideale, nella quale possano essere legittimamente convocate le potenze mistiche che governano le strutture profonde del cosmo. Lo stesso palazzo del re doveva costituirne il nucleo paradigmatico. Reggia e città dovevano rispondere ad un disegno sacro, al fine di rappresentare un’autentica ripetizione dei rapporti tra le grandi forze della realtà e dei percorsi per incontrarle.

Come è noto, tale disegno si ritrova nel mandala42 e anche nel labirinto. La costruzione della città perfetta, eminente arte da re, comporta scienza dei segreti del mondo, capacità di comunicare con essi e di adoperarli. Essa deve garantire il corretto orientamento dei suoi abitanti nelle direzioni giuste. Se nella città si realizza un mandala, come nessuno che interroghi e percorra in modo sbagliato un mandala o che addirittura lo abbia disegnato scorrettamente potrà risolvere i problemi in esso rappresentati, così ugualmente nessuno che abiti una città sbagliata potrà salvarsi.

Abitare la città ben costruita dispone al raggiungimento del centro, da dove si può tornare a incontrare e vincolare gli dei. Nella pratica del mandala, il rito si conclude con l’insediamento al centro, sul trono regale-divino, dell’iniziato che lo esegue.

Anche nel labirinto, che riproduce l’archetipo di una caverna e quindi di un accesso oscuro o di una porta stretta, occorre imboccare le porte giuste e procedere nella sequenza corretta dei coridoi – le cui sinuose spirali ocultano la meta – orientandosi per l’avvicinamento al centro secondo l’ordine obbligato dal piano dell’architetto. Gli uomini che riuscirono a varcare le cinte murarie di Troia – innalzate da potenti architetti divini, Poseidone ed Apollo – furono eroi alleati con dei e demoni, ostacolati da altri eroi alleati con altri dei e demoni. Essi andarono incontro ad altre prove ancora, la principale delle quali consisteva nel ritrovare la propria città, il proprio luogo, il centro di ogni ritorno. Per affrontare tali prove nel verso giusto dovettero tuttavia iniziare dalla discesa ad inferos.

La simbologia del labirinto-caverna, o del mandala, indica nelle sue grandi linee che per poter uscire dalle strettoie dell’esistenza bisogna percorrerle tutte coraggiosamente fino in fondo; soltanto dopo averne attraversato tutti i gradi si sarà raggiunto il punto di svolta verso il ritorno. Soltanto dopo aver toccato il fondo dei meandri labirintici, o il centro del palazzo mandalico, il nuovo angolo visuale si rivelerà come una risolutiva via di controllo del mondo in cui si vive e di uscita dalla condizione di soggiacimento adesso.

La prova non deve essere un esercizio vuoto e formale. Quel simbolo manifesta la struttura riposta ma reale della vita attuale degli uomini. Finché il labirinto rimane solo un simbolo astratto, la prova non può riuscire; l’iniziando deve saper richiamare nella sua esistenza concreta i suoi demoni e decifrare i suoi meandri nel verso a loro appropriato. La prova impone

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di ubbidire fino in fondo a un condizionamento, scoprendolo nelle forme assunte nella attualità; il Troiae lusus, la gara troiana (En.,V, 545), ha l’aspetto esterno di un torneo di giovani cavalieri, eppure nella cavalcata lungo il percorso rituale fitto di circonvoluzioni e di andirivieni si rivela e interpreta il problema presente della comunità.

Dopo gli avvenimenti dei primordi, per un fato ineluttabile, la vita attuale è ormai la condizione dalla quale ripartire. Tale condizione viene interpretata nei termini di un difficile percorso infero, ormai obbligato per l’umanità gravata dell’inevitabile peso della sua tipica morte. La nostra epoca si svolge da tempo nella cittadella infernale; già da tempo siamo legati nella caverna, nel cuore della montagna del mondo.

8. Conclusione

Giunti a questo punto, si può meglio capire cosa voglia significare l’idea che la vera prova iniziatica consiste nel divenir capaci di morire dal verso giusto. Questo si è via via chiarito come un saper andare fino in fondo nel verso aperto dalla vita dell’età presente, secondo la sua effettiva modalità. Senza arrendersi a una fuga irresponsabile, l’eroe deve affrontare il problema così come si pone dopo la rottura dei primordi, nella vita attuale. Il centro da conquistare è nascosto da qualche parte qui, in essa; l’altro mondo costituisce la trama nascosta di questo e dietro l’effimero di questo sta sottesa una struttura eterna.

Il deliberato di Zeus ha inaugurato un’età stretta e mediocre, dalla quale gli uomini non possono uscire semplicemente voltandosi indietro, bensì soltanto prendendo atto del nuovo destino. Il dovere della ubbidienza alle nuove regole non legittima però alcun fatalismo ed impone il compito impegnativo di decifrare e attraversare il mondo quale effettivamente è oggi.

La posta della prova è altissima e fondamentale: restare in una condizione servile e meccanica o uscirne e liberarsi alla vita. Come afferma Eraclito, «polemos di tutte le cose è padre, di tutto poi è re; e gli uni manifesta come dei, gli altri invece come uomini; gli uni fa esistere come schiavi, gli altri invece come liberi»43.

Il vero uomo, per la cultura greca nasce solo a seguito di una seconda nascita. La prima nascita, quella da donna, mette fuori un essere ctonio legato alle profondità indistinte delle viscere infere della terra. Si tratta di un essere forse soddisfatto, ma ancora indeterminato e senza forma, il contrario dell’ideale etico ed estetico – la areté – della cultura greca. Per essa il vero uomo deve rinascere dal mistero di un lungo itinerario iniziatico, attraverso l’esperienza del dolore e la vittoria sulla morte. A quel punto egli non sarà più fatto di terra; sarà un daimon divino di luce e di fuoco, apritore di mondi. Sarà il viaggiatore che non solo scopre nuovi orizzonti già dati, ma che entra nel mondo egli stesso come un orizzonte che si dischiude.

Questa ideologia apparenta anche i Greci a complessi dottrinali fortemente primitivi, ben noti in sede etnologica, sul cui vertiginoso scenario possiamo, per ora, soltanto affacciarci.

Note

1) Eraclito, fr. 62, trad. G. Colli, La sapienza greca, vol. III, Eraclito, Milano 1980, p. 55.

2) andava a compimento il deliberato di Zeus.

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3) Nelle isole dei beati gli eroi soggiornano da olbioi, godendo cioè di una floridezza che estingue ogni desiderio. Quelle isole sono un simbolo polare e l’averle raggiunte indica che gli eroi si sono integrati dopo le prove tremende con il proprio centro. Talora esse vengono anche collocate ad occidente, anche se ciò non modifica il valore polare del simbolo perché, quale residenza finale degli antenati, continuano a rappresentare il centro verso cui muove ogni vero ritorno. Inoltre, ad occidente (per En., VIII, 325, nel Lazio favoloso dei primordi) viene collocato il regno di Crono-Saturno, signore dell’età dell’oro paradisiaca. Egli, dopo la detronizzazione ad opera del figlio, si sarebbe nascosto laggiù ed ivi accoglierebbe insieme con gli uomini della razza d’oro gli eroi divenuti demoni protettori degli uomini attuali. Latium, secondo la tesi accolta dall’Eneide, verrebbe proprio da latere – nascondersi –, di modo che indicherebbe in definitiva la stessa realtà che Ades, vale a dire il campo dell’invisibile.

Dallo stesso racconto di Esiodo, risulterebbe che l’accesso alla condizione aurea sia il premio ed il coronamento della parabola eroica. Il nucleo del mitologhema indica che l’archetipo dell’uomo perfetto è proprio l’eroe che ha superato quella prova.

4) Nel ciclo eroico tebano, il protagonista sembra portare un destino analogo addirittura incorporato nel nome. Oidipous infatti vuol dire piedi gonfi; ciò sarebbe dovuto ai legacci con i quali fu trasportato sul monte su cui doveva essere esposto per ordine del padre-re, il quale si riproponeva così di evitare che si realizzasse la profezia che lo aveva avvertito che sarebbe stato rovesciato e ucciso dal figlio. Per Kàroly Kerényi – Die Heroen der Griechen, Zürich 1958, tr. it. Gli eroi della Grecia, Milano 1963, p. 96 – si tratterebbe invece di un nome allusivo alla caratteristica fallica di uno dei Dattili, nani ingegnosi nati dalla Grande madre terra.

5) Orph. fragm. 21a (Kern).

In proposito si può altresì prendere in considerazione il fr. 32 di Eraclito: «una cosa sola, la sapienza, non vuole e vuole essere chiamata con il nome di Zeus», (tr. G.Colli, op. cit.); ovvero, nella versione di Eugen Fink (M. Heidegger, E. Fink, Heraklit. Seminar Wintersemester 1966/1967, Frankfurt am Main 1970; tr. franc., Héraclite. Séminaire du semestre d’hiver 1966-1967, Paris 1973, p.145): ...l’un, seul sage, ne veut pas et veut pourtant etre appelé du nom de Zeus.

6) Kerényi, Gli eroi, op. cit., p. 306.

7) La potentissima gens Julia, dalla quale proviene Cesare, si attribuiva di discendere misticamente – attraverso Enea da Venere-Aphrodite, dea che lungi dal rappresentare la bellezza estetica incarnava piuttosto la forza fascinosa e trascinante della natura generatrice di realtà. Insomma, i Romani – anche in questo caso – hanno voluto affermare che nessuna città può essere fondata per esercitare l’imperium, senza l’intervento di una razza eroica che si sia misurata nella lotta primordiale, avendo come alleate le divinità più potenti.

8) Quali le isole Simplegadi, ai confini del mondo, che cozzano l’una contro l’altra; o le rupi erranti, di Scilla e Cariddi, secondo le parole di Circe riferite da Odisseo prima ai Feaci e poi alla sposa ritrovata – rispettivamente in Od., XII, 61 e XXIII, 327: planktai –. Il passaggio tra le rocce erranti era stato fino ad allora consentito solo alle colombe di Zeus che portano dall’aldilà l’ambrosia, bevanda d’ immortalità.

9) Il frassino è una specie di quercia montana, polare, iperborea. Lo Yggdrasil, il germanico asse dei mondi, è un frassino. Le potenze dei frassini, le ninfe Meliadi, nascono senza madre direttamente dal sangue di Urano mutilato.

La stirpe nata dai frassini viene definita letteralmente (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 145-146)

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«come quella che non mangia il pane»; con tale attributo si allude in tutta evidenza all’ethos tipico della civiltà dei grandi cacciatori, che viene indicato sullo sfondo come un’alternativa radicale alla cultura olimpica, mentre invece per molti versi trapassa e ancora si mantiene ben in vista nei valori eroici: si pensi al furore guerriero e al culto del vigore fisico tipico della razza bronzea. Va notato infine che la stessa potenza del frassino sembra rappresentare un lascito iniziatico: la lancia di Achille, dono di nozze fatto a suo padre dal centauro Chirone, associato ad un dio tessalo primordiale successivamente reinterpretato come Crono ippomorfo, è fatta di frassino. Altri doni fatti a Peleo – da parte di Poseidone – e poi passati ad Achille saranno i cavalli Balio e Xanto.

Le nozze di Peleo e Tetide, insieme con quelle di Cadmo ed Armonia, sono gli unici casi in cui gli dei intervengono recando doni. Tutte queste nozze riguardano l’origine dell’uomo dei primordi.

10) Cfr. il racconto dell’età di Crono nel Politico di Platone, 269C-273E.

11) Károly Kerényi, Urmensch und Mysterium, in «Eranos-Jahrbuch 1947», Zürich 1948; tr. it., L’uomo dei primordi e i misteri, in Miti e misteri, Torino 1979, pp. 369-396.

Si veda anche il mito della formazione delle specie animali mortali (Platone, Protagora, 320 D) mediante “mescolanza di terra e di fuoco”.

La forza mediatrice del fuoco è nota: ogni cosa che vi è gettata dentro passa in altro stato, in particolare dal visibile all’invisibile.

12) Costituisce il modello vicino degli altri viaggi eroici. Il modello più lontano è l’avventura del sumero Gilgamesh. Ma l’archetipo del viaggio, che per essere inteso come tale deve attraversare i diversi mondi, postula l’ideologia dei non stanziali e trova una delle sue espressioni più arcaiche e caratteristiche nel complesso sciamanico.

Argos significa sia bianco sia veloce, in altri termini luminoso e rapido come il fulmine. Argò appare pertanto come una nave di luce, in stretto rapporto con il viaggio del sole altrove pensato come un caldaio di fuoco – lungo l’eterno circolo in cui si congiungono visibile ed invisibile attraverso l’archetipica porta stretta: cfr. Paula Philippson, Thessalische Mythologie, Zürich 1944; tr. it., Origini e forme del mito greco, Torino 1983, p. 265 e ss.

13) Sotto altri cieli, nell’India del tantrismo ad esempio, ed in altre epoche, presso la cavalleria europea medioevale, ricorrerà un’analoga equivalenza simbolica.

14) In proposito cfr. anche Titus Burckhardt, Il ritorno di Ulisse, in La maschera sacra; tr. it. Milano 1988.

15) Kerényi, Gli eroi, op. cit., p. 299.

16) Atena fermerà per lui la notte.

17) Angelo Brelich, Gli eroi greci, Roma 1958, p. 9. La monografia di Brelich contiene una interpretazione delle ragioni per le quali il culto funebre è tipico degli eroi.

L’autore, esaminato e lasciato cadere il criterio di una dipendenza specifica dei miti eroici dal culto, preferisce spiegare invece la religione degli eroi come un organico complesso di temi e

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motivi universali (tanto universali da essere addirittura non solo religiosi e non solo ristretti alla cultura greca) raccolto attorno a figure plasticamente sbalzate. Tali figure sarebbero dovute alla caratteristica propensione greca all’esaltazione del modello soggettivo umano.

L’eroe sarebbe pertanto una forma tipica, prodotta dall’antropomorfismo greco, nella quale vengono pensati temi universali riguardanti la condizione umana.

Il suo pattern viene disegnato attraverso una sintetica rassegna morfologica, condotta su un materiale altrimenti sterminato: si tratta di un personaggio che intrattiene un rapporto essenziale con la morte e la precarietà, mostruoso e trasgressivo, antenato e fondatore di attività umane esemplari.

Le figure eroiche sarebbero emerse progressivamente, specializzandosi nella fondazione della condizione umana, da un fondo precedentemente indifferenziato comprensivo di entità mitiche affini responsabili della cosmogonia e dell’ordine attuale. Nell’ambito di una concomitante sistemazione dei ranghi divini (è presso i Greci che si raggiunge la massima approssimazione a un politeismo compiuto), il culto degli antenati – componente essenziale degli strati profondi della religione greca preistorica – avrebbe promosso l’idea che le entità venerate nel sepolcro appartenessero a un tempo omogeneo con quello dei vivi, per quanto lontano. Con lo stesso processo, altre entità si sarebbero andate collocando in un tempo eterogeneo e separato a garanzia della immutabilità e della stabilità dell’ordine attuale, senza tuttavia che si perdessero completamente le tracce della loro provenienza dall’antico fondo comune.

Riteniamo molto significativo che uno studioso di impostazione immanentista, talora incline a una sorta di neo-evemerismo storicizzante, abbia colto bene il nesso strutturale tra dei e uomini eroici.

18) Lo stesso olimpizzante Esiodo (Le opere e i giorni, v. 108) afferma che dei ed uomini mortali hanno la medesima origine (da Gea, la terra). Anche Platone – Protagora, 322 A – parla di comune nascita e consanguineità tra gli uomini e il dio (o il divino)

19) Anche Tantalo conosce i segreti degli dei e ne parla per vanagloria, almeno così riferiscono i suoi detrattori. Tuttavia non devono essere stati solo banali conversari quelli da lui colti durante lo strano banchetto al quale aveva invitato gli dei per saggiarne la onniscienza. A quella tavola egli servì le carni del figlio Pelope (trattato come Dioniso, dunque), ma gli dei non ne mangiarono perché si accorsero dell’inganno, tranne Demetra che fece a tempo a consumare una spalla del fanciullo. La dea doveva essere evidentemente più incline, in contrasto con i suoi simili, a stabilire nessi sostanziali con gli uomini ed a consentire che si immortalizzassero partecipando alla ben nota procedura dello smembramento-cottura. In altra occasione Zeus divorò, invece, senza avvedersi del trucco (come a suo tempo era accaduto a suo padre crono, ingozzato con una pietra in sostituzione del figlio che poi lo avrebbe detronizzato), ciò che gli aveva imbandito Prometeo, o accettò di farlo (Esiodo, Teogonia, 550-2) per avere poi un motivo di vendetta, contro il Titano e contro gli uomini, sì da incatenarlo alla montagna caucasica. AncheTantalo fu attaccato ad una pietra. Sia Tantalo sia Prometeo hanno comunque a che fare con l’istituzione del sacrificio agli dei e i loro segreti. In particolare anche Tantalo, che è un figlio di Zeus (e di Pluto, l’abbondanza degli inferi), ed anche un antenato dei brotoi – mortali – può essere stato un candidato alla successione al trono. La regolazione dei rapporti nell’accesso al nutrimento da parte degli uomini-eroi e degli dei sembra essere una delle chiavi per decifrare il famoso segreto. Quanto l’eroe Tantalo sia strutturalmente connesso con la questione dell’accesso al nutrimento immortale e paradisiaco è segnalato dalle caratteristiche del suo supplizio di perdente, che indica a contrariis ciò di cui godono i vincenti. Del resto pare che, insieme con i segreti, egli rubasse agli dei proprio l’ambrosia e il nettare. Non si dimentichi infine che, secondo l’inno a Demetra, la dea infuriata per la perdita della sua kore minaccia gli dei di sterminio, disseccando la terra e sottraendo in

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tal modo la materia prima delle offerte.

In conclusione, ciò che emerge è che gli dei si accaniscono a rovesciare coloro i quali dimostrano di possedere la chiave segreta del sacrificio ovvero del loro nutrimento. Per il riformatore Zarathustra dovranno essere evitati i sacrifici ai daeva e nutriti solo gli ahura; in India sarà il contrario. La designazione sanscrita degli dei (deva) si trasformò nella religione iranica nel titolo dei demoni maligni (daeva). Viceversa, il titolo iranico dell’essere supremo (ahura), in India sta a indicare un gruppo di dei più antichi (asura) nemici degli dei-deva. In Iran, evidentemente, gli dei si sono trasformati in demoni.

20) In questo caso essi figurano come maschere esemplari di morti-antenati, con le loro sbiancate facce di titanos, gesso o calce che fosse.

Non tutti i fratelli appoggiano Crono durante la titanomachia. Oceano e l’oceanina Stige, Iperione, Temi, Mnemosine stanno con Zeus. Anche Prometeo (cfr. Eschilo, Prometeo incatenato) appare essersi schierato dalla parte di Zeus perché ha appreso dalla madre Temi, altro nome della Terra, che non sarà la violenza a prevalere bensì l’astuzia. Ciò non gli impedisce di soffrire egualmente la vendetta di Zeus, che non gli perdona la ostinata difesa degli uomini. Il fatto che Zeus fosse determinato a sterminare gli uomini determinazione contro cui il titano si oppose adombra che li avesse percepiti come nemici nonostante le parti prese da Prometeo nella guerra. Di conseguenza, l’opera civilizzatrice del loro protettore, il trickster Prometeo, viene giudicata alla stregua di una creazione arrogantemente antagonista e insurrezionale.

Fra i titani che si schierano con Zeus compare Capricorno (Aigokeros). Secondo Epimenide (fr. 24), egli avrebbe inventato uno strumento, derivato da una conchiglia, con il cui suono terrorizzò gli avversari: tale strumento era detto panico.

La presenza risolutiva di Capricorno nell’esercito di Zeus accende un altro segnale del senso riposto e esoterico del combattimento, che diviene decifrabile come uno scontro tra le potenze (titaniche) del cosmo materiale e quelle di un livello superiore o extramondano.

Nel simbolismo zodiacale, il Capricorno, che è la costellazione che domina il cielo del solstizio d’inverno, corrisponde al polo, estremità alta dell’asse cosmico, e pertanto a quella uscita dal ciclo delle esistenze mutevoli del cosmo delle apparenze che nel Veda è chiamata “porta degli dei” (dêva-yâna, e cfr. René Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Paris 1962; tr. it. Simboli della Scienza sacra, Milano 1975; pp. 306 e ss.).

Questo significato esoterico del Capricorno trova riscontro nella simbologia del proemio del poema di Parmenide, in primo luogo nella “porta dei sentieri della notte e del giorno” (Parmenide, 1, 10; e vedi anche la mia recensione a Coomaraswaamy), e in secondo luogo a proposito del “suono di siringa” (Parm., 1, 6: syringos aute) emanato dalla vorticosa rotazione dell’asse del carro solare sul quale il filosofo raggiunge la porta del cielo. Il potere liberatorio e trascendente di questo suono è infatti affine proprio a quello panico inventato dal titano.

D’altronde, su un piano più generale, va considerato il valore mistico dei suoni in un universo concepito come vivente e respirante. Negli scenari arcaici, il suono prodotto dal passaggio dell’aria in canne o canali rinvia al respiro del grande vivente, alle narici del Macrantropo, e più specificatamente richiama l’idea che le stelle siano anime-vento strutturate come canne, sfiatatoi o flauti (ne riferisce Aristotele, ma si veda Renato Laurenti, Introduzione a Talete, Anassimandro, Anassimene, Bari 1971/II ed. 1986, p. 153).

Nell’induismo, il dio Vishnu regge con una delle sue quattro mani la conchiglia che emette il

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suono dell’origine del mondo, il fondamentale om.

21) K. Kerényi, Die Mythologie der Griechen, Zürich 1951; tr. it., Gli dei della Grecia, Milano 1963, p. 91.

22) Furono i Ciclopi a dare la folgore ed il tridente ai due, nonché l’elmo dell’invisibilità a Pluto.

Che i Ciclopi siano fabbri e artigiani eminenti risulta confermato dal fatto che essi hanno insegnato la loro arte anche agli dei, in particolare a Efesto e Atena (Orph. fragm. 179 Kern, v. anche 178 e 180). A. Brelich, Eroi, op. cit., p. 333.

23) Kerényi, op. cit., ibidem.

24) E le Moire, signore delle parti di destino assegnate.

25) Forse un antico demone preomerico del monte d’argilla Pelion, il quale oltre che con la marina Tetide risulta strettamente connesso con il poseidonico ippomorfo Chirone, che lo consiglia sui modi per prenderla. Sulla triade divina suddetta, cfr. Philippson, op. cit., p. 215 e ss.

26) Oltre Achille, Chirone educa alle arti liberali e guerrresche Giasone, Asclepio, Aristeo, e forse lo stesso Eracle. In proposito cfr. Geoffrey Kirk, The Nature of Greek Mythe, Harmondsworth 1974; tr. it., La natura dei miti greci, Bari 1977, p. 216. Per George Dumézil (Le problème des Centaures, Paris 1929), e successivamente da Henry Jeanmaire (Couroi et Courètes, Paris 1939) a Walter Burkert (Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, Stuttgart 1977; tr. it., I Greci, Milano 1984, p. 255 e ss.), quelle dei centauri sono società di maschere, orientate all’apprendimento di tecniche iniziatrici al ruolo eroico.

27) Dopo la sua morte, la madre lo condurrà a Leuca, l’Isola bianca, altro esempio di simbolo polare, dove sposerà Medea.

Medea, figlia del sole, conosce l’arte di rinnovare smembrando e cuocendo, come i Titani fecero con Dioniso e come Demetra con Demofoonte e la stessa Tetide con Achille. Medea fece bollire in pentola un ariete a pezzi, traendone poi un giovane agnello, davanti alle figlie di Pelia per indurle ingannevolmente a rinnovare allo stesso modo il loro vecchio padre. La Grande madre Rhea ricompose con eguale procedura il giovane Pelope, servito alla tavola degli dei dal padre Tantalo.

28) Vaso François, vaso attico a figure nere di Ergotimos, con pitture di Klitias, prima metà del VI sec. a.C., Firenze, Museo archeologico nazionale.

La sfilata degli dei ivi raffigurata è quella per le nozze di Peleo e Tetide, nell’occasione da cui scaturisce la guerra che consolida il primato di Zeus.

29) Egli viene detto dighenes, nato due volte – e da Semele e da una ulteriore gravidanza condotta a termine da Zeus –. Invero sarebbe nato tre volte, perché viene trasformato e ancora ricomposto, dopo lo sbranamento e la doppia cottura operata dai Titani, da quel resto di lui che era rimasto crudo e intatto – cuore o fallo che fosse –. Resta tuttavia da verificare se sotto le storie pervenute possa intravvedersi una spiegazione diversa da quella orfica: che i Titani avessero immortalizzato mediante il rito tremendo proprio uno di loro, un uomo-dio alternativo

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alla generazione degli dei nemici, fra i quali campeggia Zeus.

30) Cfr. Ugo Bianchi, Il dualismo religioso, Roma 1991, p. 31 e ss.

31) fr. 52: « la vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: reggimento di un fanciullo». (Tr. G. Colli, op. cit., p. 35).

32) Il quale altro non è che lo stesso indifferenziato caos, dove infatti ogni cosa confluisce e si conserva senza gerarchie.

33) Kàroly Kerényi, Dionysos. Urbild des unzerstoerberen Lebens, Muenchen-Wien 1976; tr. it., Dioniso Milano 1992. E Henry Jeanmaire, Dionisos, Paris 1951; tr. it., Dioniso, Torino 1972.

34) Il Signore Sapiente dello zoroastrismo, Ahura Mazda, quando viene insidiato dal Signore del male, Ahriman, crea appositamente il mondo provocandolo alla battaglia finale in esso. La vittoria del Sapiente è sicura perché il nemico viene intrappolato in un campo segretamente votato alla catastrofe. Il grande protagonista mantiene le sue prerogative mediante la preveggenza e l’astuzia, ma egli regge altresì il centro dell’iniziativa perché è anche e soprattutto signore della morte.

Con la rivoluzione monoteista di Zarathustra la lotta tra i due spiriti, il buono e il cattivo, viene ripensata come una vicenda tutta interna all’unico dio del principio.

35) Fragments d’un journal, Paris 1973; tr. it., Giornale Torino 1976, p. 230; nota dell’8-11-1959.

36) Un tale tipo di morte alta lo si incontra seguendo la mistica della luce in varie grandi tradizioni, dallo sciamanesimo all’induismo, dal Libro dei morti tibetano (Bar-do thos-grol ) al biblico Elia, dalla gnosi all’alchimia. Sulle esperienze di luce mistica, cfr. Mircea Eliade, Méphistophélès et l’androgyne, Paris 1962, cp. I. Nelle varie rappresentazioni che di essa vengono date, si propone l’esito positivo dello scioglimento da ogni rigidità e da ogni fissazione, fino a trovare la strada per immettersi nel verso giusto nella trasformazione, vale a dire riuscendo a trovare il varco per il passaggio ad altro e più intenso stato dell’esistenza.

37) Anche nell’Edda germanico arriva un momento finale nel quale anche gli dei muoiono; Wodan-Odhinn, che è già un signore della morte, seduto nel centro della dimora celeste Walhalla, raduna attorno a sé eroi i berserkir, coloro che sono presi dal sacro calore guerriero – e principi caduti nelle battaglie, predisponendosi al combattimento conclusivo che precipiterà il cosmo nella catastrofe del Ragnarök, termine con cui si designa il destino ultimo degli dei, il loro famoso crepuscolo. Il signore della morte è peraltro superiore ad ogni dio; nell’induismo egli volge la ruota del mondo.

38) Una tale idea ricorre in diverse tradizioni, dall’induismo all’ebraismo. In questo, ad esempio, l’Adamo edenico – prima della caduta – appare costitutivamente luminoso (per il rapporto tra il nome Adamo e il sangue-calore-luce cfr. René Guénon, Formes traditionnelles et cycles cosmiques, Paris 1970; tr. it., Forme tradizionali e cicli cosmici, Roma 1974, pp. 43 e ss.) ed androgino (Gen 1, 27: «maschio e femmina li creò»; la donna fu esteriorizzata solo successivamente, Gen 2, 22. In proposito cfr. anche René Guénon, Le symbolisme de la croix, Paris 1931; tr. it., Il simbolismo della croce, 1973, cpp. II e III), autentico centro privilegiato della suprema coincidentia oppositorum. Peraltro egli si configura come l’immagine di Dio ovvero come il suo doppio speculare. Anche l’esegesi gnostica della formazione demoniaca di Adamo (e della inaugurazione dell’umanità attuale, sorta dalla scissione della natura divina) presuppone comunque un Anthropos divino quale modello da ripetere; cfr. l’Apocrifo di

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Giovanni e l’Ipostasi degli Arconti.

39) Nella religione iranica, il proprio demone (la propria daena o den individuale; speciale facoltà tipica dello stato di purità menog; un doppio, abitatore dell’altro mondo) sotto forma di graziosa fanciulla viene incontro ai giusti sul ponte Shinvat, mentre una megera spietata aggredisce gli ingiusti, per i quali il ponte si assottiglia pericolosamente come una lama di rasoio.

40) Si pensi, ad esempio, all’importanza che a tal fine è stata assegnata alla parola giusta. Una particolare preghiera-invocazione contiene una autentica potenza cosmica; nel quadro vedico e iranico, la cosiddetta parola di verità (satyakriya o preghiera vera, pratica rituale consistente nel dire una verità per ottenere il favore del dio) una volta pronunciata si fa realtà. Chi possiede il suono della verità, possiede la realtà stessa, che con quella inscindibilmente coincide. Si consideri che lo stesso importante concetto di rta significa, oltre che verità, anche inno del culto. I mantraAtharva-Veda – sono una autentica parola vivente, un sigillo di potenza. Un’eco veneranda e terribile di questa idea la riceviamo anche in Occidente da Parmenide, per il quale parola vera, pensiero vero, essere vero si tengono strettamente saldati insieme. Ma si veda anche come in Plotino (Enn., IV, 42, 26) la formula giusta serva a catturare le energie dell’invisibile. – risalenti allo

41) Nel foro dei Romani si trova il mundus, passaggio attraverso il quale gli abitanti della terra entrano periodicamente in comunicazione con quelli degli inferi. Da lì gli antenati ritornano sopra recando la loro influenza. Per la religione romana arcaica, si tratta di un luogo strettamente coessenziale con il carattere sacro della città, altrettanto fondamentale quanto la sede alta delle potenze protettrici, l’arce.

42) Rito tipico della religione induista e tibetana, mappa mistica, disegnata dal neofita con l’aiuto di un maestro, nella quale egli proietta una rappresentazione del dramma cosmico, per giocarvi la sua parte. – Cfr. Giuseppe Tucci, Teoria e pratica del mandala, Roma 1949 (19692).

Svolge una funzione similare il labirinto, nel quale infatti si propone una simbologia del viaggio verso il centro. Anche il labirinto sembra abbia fatto da modello per il palazzo regio.

Non abbiamo qui lo spazio per sviluppare un’indagine sui moventi ideali che hanno condotto gli uomini a costruire città. Pare ormai accertato che la formazione delle città sia collegata al sorgere delle civiltà megalitiche, i cui monumenti riguardano il culto dei morti. Le residenze stabili dei vivi si sarebbero inizialmente associate alle residenze in pietra dedicate ai morti. La scelta di un luogo fisso in cui abitare ha certamente a che fare con l’individuazione e la collocazione della sede dei propri morti, e soprattutto con l’esigenza di una comunione rituale con loro. La città dei vivi si sarebbe sviluppata attorno ad un centro di culto e di scambio con gli antenati. Anche se in seguito le due città, dei vivi e dei morti, talora si distinguono, nessuna cesura interviene mai per i re, gli eroi, gli antenati illustri che, anzi, continuano ad occupare il centro della città dei vivi.

In conclusione, l’idea che questo mondo sia il mondo infero da attraversare – e che appartenga al destino dei mortali organizzare con efficacia il suo attraversamento – sarebbe il motivo profondo sottostante alla fondazione delle città. Esse infatti vengono interpretate come accessi privilegiati, varchi particolarmente agevolati, porte del cielo (è questo il significato del nome di Babilonia). La successiva evoluzione storica ha progressivamente laicizzato il carattere del centro urbano, nel quale si riteneva attiva la comunicazione tra cielo, terra, inferi. La letteratura sulla simbologia della città è molto ampia. Per un primo orientamento cfr. Mircea Eliade, Histoire des croyances et des idées religieuses, vol. I, Paris 1974; tr. it., Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I, Dall’età della pietra ai misteri eleusini, Firenze 1979, cp.

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V, pp. 131-156. Dello stesso cfr. Le mythe de l’éternel retour, Paris 1969, pp. 13 e ss.

43) Fr. 53; la traduzione è quella di G. Colli, op. cit., p. 35.

Le origini della coscienza nell'uomo arcaico

Memoria, simbolo, estetica

Julien Ries Vogliamo tentare di individuare alcuni punti di riferimento che ci permettano di seguire la crescita della coscienza presso l’uomo arcaico.

Sebbene non abbiamo a disposizione dei testi, in quanto la scrittura ha inizio soltanto con il quarto millennio a. C., abbiamo tuttavia documenti che provengono dall’attività culturale dei primi uomini e il cui studio, grazie alle recenti scoperte, apre nuove prospettive.

Dobbiamo iniziare con il definire ciò che intendiamo per coscienza. Qui si tratta della coscienza psicologica (in tedesco Selbstbewußtsein), cioè di un sapere che accompagna l’attività psichica dell’uomo e da una parte lo fa essere consapevole di sapere ma d’altra parte lo fa essere consapevole di conoscere in maniera immediata la realtà del mondo esterno. Si tratta dunque di uno stato e di un sapere.

Il metodo che intendiamo qui utilizzare è semplice.

Poiché si tratta di seguire l’emergere e la crescita della coscienza nell’uomo, partiremo dalle tracce più antiche attualmente conosciute. Tenteremo di comprendere e di esplicitare le diverse tappe attraverso le quali queste tracce ci conducono e vedremo ad ogni tappa come si presenta ai nostri occhi la coscienza dell’uomo.

I. Da homo habilis a homo sapiens

1. Homo habilis, inventore della prima cultura

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Venere di Laussel - Incisione su pietra calcarea

A partire dal 1959, nei giacimenti di Olduwai in Tanzania ad est del lago Turkana in Kenia, alcuni archeologi e paleoantropologi hanno scoperto vestigia di crani risalenti a più di 2 milioni di anni 1. Queste vestigia si trovavano tra ciottoli tagliati su una faccia (choppers) e anche su due facce (chopping tools): armi da caccia e oggetti di percussione, ossa di animali riutilizzate, strutture di capanne d’abitazione e di aree di lavoro.

Nel 1964, L. Leakey, Ph. Tobias e J. Napier hanno dato il nome di homo habilis agli uomini creatori di questa cultura di Olduwai nella quale troviamo un abbozzo delle culture umane che seguiranno 2. Alla cultura che ha creato questi ciottoli intagliati, gli archeologi hanno dato il nome di cultura pebble.

Nel nostro contesto questa cultura interessa soprattutto per il fatto che in essa abbiamo l’utilizzazione dell’utensile da parte della mano dell’uomo, un bipede dalle mani libere. Nell’animale la mano stessa è l’utensile. A Olduwai l’uomo ha inventato l’utensile, cosa che suppone un’idea e un progetto. Per tagliare un chopper l’uomo ha dovuto scegliere il ciottolo adatto. Quindi è stato obbligato a eseguire tutte le operazioni necessarie alla realizzazione del suo progetto, cosa che suppone un intervento dell’intelligenza e dell’immaginazione. Ha dovuto cogliere i rapporti tra le fasi del lavoro e gli oggetti. Grazie alla sua immaginazione, l’uomo ha proiettato questo schema all’esterno ed è giunto alla realizzazione del suo progetto.

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Creatore della prima cultura, l’uomo di Olduwai si è mostrato capace di elaborare progetti e di organizzare il lavoro. Il taglio bifacciale di alcuni utensili mostra che possedeva la nozione di simmetria. Ha scelto alcuni materiali basandosi sul criterio del colore, cosa che costituisce una prova dell’esistenza in lui di una coscienza estetica. Tutti questi dettagli ci fanno dire che l’homo habilis possedeva già tecniche di acquisizione, di fabbricazione e di consumazione, indici di una coscienza ad un tempo simbolica e creatrice. Secondo Yves Coppens “l’uomo, per la prima volta nella storia della vita, estende il suo territorio e sa di sapere” 3.

2. Da homo erectus a homo sapiens

Homo erectus è l’anello della catena della specie umana che ha fatto la sua apparizione in Africa orientale, all’est del lago Turkana, 1.6000.000 anni fa. Ha riempito l’Antico Mondo (Asia, Cina, Africa, Europa) ed è scomparso da circa 150.000 anni. È il successore dell’homo habilis. In Asia le sue tracce più importanti si trovano a Chou-kou-tien e a Giava. Quest’uomo ha continuato a sviluppare l’industria della pietra. Ha anche inventato il fuoco, un’invenzione geniale che è stata la prima sorgente di energia domata dall’uomo. La scoperta di alcuni crani mutilati alla base fa pensare all’esistenza di rituali funerari.

Homo erectus si è lentamente trasformato in homo sapiens con il quale la cultura conoscerà uno slancio come si può vedere da numerose tracce di utensili. Il taglio bifacciale degli utensili progredisce, segno di una vera ricerca estetica (Terra Amata, Levallois). Il controllo e la produzione del fuoco sono un fattore costante. Con homo sapiens abbiamo le prime sepolture: quelle di Qafzeh in Israele, 90.000 anni fa, e quelle di Neandertal, dall’80.000 al 40.000. Queste ultime sono numerose: hanno dato scheletri interi; in alcune tombe si hanno tracce di differenti oggetti, di offerte alimentari e di silici tagliate. A Shanidar in Irak in una tomba risalente a 50.000 anni fa uno scheletro riposava su un letto di rami di efedra guarniti di fiori al centro di un cerchio di rocce.

L’esame dei documenti lasciati dall’homo sapiens mostra una nuova tappa della formazione della coscienza. Senza alcun dubbio la coscienza creatrice ed estetica percepita nell’homo habilis è divenuta più viva, ma i primi riti funerari sono il segno di una coscienza del mistero della vita e della sopravvivenza: si tratta di una coscienza religiosa che possiamo già indovinare alla fine del percorso dell’homo erectus. La presenza di tombe mostra che i vivi si occupano dei loro defunti ai quali si sentono legati da sentimenti di affetto e a cui vogliono assicurare un’esistenza post-mortem di cui sono testimonianza le cure e gli oggetti che le tombe hanno rivelato.

Con l’homo sapiens di Qafseh fino alla fine dell’epoca di Neandertal, siamo in presenza della ripetizione di riti funerari, segni di una vera esperienza della morte, ma anche segni di una memoria che è viva nella coscienza e nella vita dell’homo sapiens. L’esperienza religiosa è legata a questa memoria e a questa coscienza ed è legata all’origine della formazione delle prime tradizione religiose. Oggi i paleoantropologi non solo affermano senza alcuna esitazione che l’homo sapiens utilizzava un linguaggio ma asseriscono anche il linguaggio era già in uso presso l’homo erectus.

II. L’uomo magdaleniano: un homo religiosus

1. L’arte delle caverne

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Affresco del palazzo di Cnosso - particolare di un corridoio, la scena del toro ed i ginnasti

Il Paleolitico superiore inizia circa 35.000 anni fa e termina circa 9000 anni fa. L’apparizione dell’homo sapiens sapiens perfeziona l’industria della pietra, lavora anche l’osso, il corno dei cervidi, l’avorio e crea l’arte parietale e l’arte delle suppellettili. L’arte delle caverne e soprattutto la civiltà magdaleniana (da 25.000 anni fa a 10.000 anni fa) è fiorita essenzialmente nel Sud-Ovest della Francia, nei Pirenei, in Spagna nelle Asturie (Monti Cantabri) ma ne troviamo vestigia anche sulle coste europee del Mediterraneo.

L’apogeo di quest’arte va da 18.000 anni fa a 10.000 anni fa ed è rappresentato da 150 grotte decorate, considerate come santuari, talvolta chiamate “cattedrali della preistoria”. Le più belle sono Lascaux, Rouffignac, Niaux in Francia, Altamira, Monte Castillo, Ekain, Santimamine in Spagna. Gli studi fatti da Breuil a Lamaing-Emperaire e da Leroi-Gourhan evidenziano un tentativo di concettualizzazione, un cercare di strutturare un pensiero comune, segni di un alto livello culturale e simbolico 4.

Emmanuel Anati attraverso la sua ricerca sulla concettualizzazione ha mostrato come l’arte abbia contribuito alla formazione dello spirito umano 5.

2. Un’arte simbolica

Sulla base dello studio degli stili, A. Leroi-Gourhan ha mostrato come l’arte paleolitica sia legata, durante tutta la sua durata, ad uno stesso fondo simbolico e subisca una curva evolutiva coerente. Ciò è di importanza capitale in quanto mostra che l’arte esprime un messaggio e che non si tratta né di arte per l’arte né di totemismo. Un numero importante di segni e di simboli si incontrano nelle grotte e nell’arte delle suppellettili (utensili, placche di pietra o di osso). Ogni caverna partecipa alla composizione simbolica grazie alla diversità di forme delle cavità. Tutto ciò è manifestamente legato a tradizioni culturali nelle quali intervengono l’associazione delle specie animali, dell’uomo, della donna e dei simboli geometrici.

Leroi-Gourhan ha stabilito una seconda base importante per l’interpretazione dell’arte magdaleniana: il legame tra l’assemblamento delle figure rappresentate e il linguaggio. I simboli dipinti sul muro e sui soffitti hanno il loro senso soltanto nel contesto di un discorso

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esistente. Gli animali e gli scenari rappresentati costituivano dei mitogrammi, cioè delle figure non meramente aneddotiche ma radici di miti. Il disegno del soffitto richiede una spiegazione orale: i segni e le immagini hanno bisogno del racconto e della parola. Le grotte di Lascaux e di Rouffignac ci hanno rivelato numerose tracce di passi di adolescenti ammessi all’interno, manifestamente in vista delle cerimonie di iniziazione.

L’arte parietale franco-cantabrica è piena di mitogrammi, che rappresentano personaggi che acquistano il loro vero senso solo nel momento in cui vengono animati da un discorso. Ciò ci fa comprendere che il pensiero mitico ha le sue radici nelle profondità del Paleolitico.

3. Un’arte religiosa

Nel Paleolitico superiore i riti funerari acquistano grande estensione: oggetti da ornamento nelle tombe, conchiglie, denti, canini di cervo, uso generalizzato dell’ocra rossa. Manifestamente c’è una cura dei viventi nei riguardi dei defunti: preoccupazione di protezione post-mortem, preoccupazione di dare ai defunti occhi di eternità per mezzo di conchiglie inserite nelle orbite oculari, cura speciale del cranio.

Questi diversi indizi debbono essere presi in considerazione quando si interpreta l’arte delle caverne perché sono il riflesso della cultura.

Le grotte sono dei santuari legati alla cultura della popolazione del circondario. Ogni santuario ha la sua identità e la sua simbolica con i suoi mitogrammi dipinti sui soffitti e le pareti al fine di servire alle cerimonie d’iniziazione e forse a diverse cerimonie cultuali. Il numero e la qualità dei mitogrammi suggeriscono miti cosmogonici e miti di origine. Le statuette femminili sarebbero forse i testimoni dei primi culti della fecondità. Alcune danze circolari fanno pensare anch’esse a riti di iniziazione.

Possiamo dunque dire senza la minima esitazione che l’arte magdaleniana è il riflesso della coscienza dell’homo religiosus che fa l’esperienza del sacro, ha la percezione della trascendenza e grazie ad una memoria religiosa, grazie ai miti e ai simboli, fa riferimento alle origini, al cosmo e al mistero della vita. Per la prima volta l’uomo antico testimonia una storia sacra ricordata e vissuta da un clan che pare trarne modelli per una condotta di vita. Percepiamo le prime tracce della coscienza religiosa di una comunità.

III. La formazione della coscienza del divino

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Rappresentazione tardo-paleolitica di un cervo - Lascaux (Dordogne)

1. La sedentarizzazione e l’agricoltura

Nel X millennio nel Vicino-Oriente comincia un fenomeno che avrà una ripercussione decisiva sull’avvenire dell’umanità.

Col favore del riscaldamento del clima l’uomo lascia i suoi rifugi naturali e si installa all’aria aperta. La sedentarizzazione è un processo naturale e progressivo di fissazione al suolo in agglomerati di habitat costruiti.

La popolazione vive grazie a un ambiente favorevole: per questo diviene stanziale, si raggruppa, si alimenta e fabbrica utensili. È la creazione dei primi villaggi che fanno nascere una civiltà nuova, chiamata “natufiana” e che durerà fino all’8300. Questi villaggi vivevano di pesca, di raccolta, di caccia di selvaggina di montagna. Non conoscono l’agricoltura, la qual cosa prova che la sedentarizzazione è stata un elemento culturale e non un avvenimento inizialmente economico, come pretendeva la scuola di Gordon Childe.

Jacques Cauvin ha studiato l’evoluzione dei villaggi di Siria e di Palestina e ha situato la nascita dell’agricoltura verso l’8300. Con l’inizio dell’agricoltura coincidono la domesticazione degli animali selvaggi e l’invenzione di nuove tecnologie. Cauvin constata che l’uomo non ha inventato l’agricoltura a causa di una necessità alimentare, in quanto aveva grandi risorse a disposizione. La vera motivazione va cercata dal lato della psicologia sociale. Egli trova un argomento a favore della sua tesi nella progressione demografica rapida mostrata dal considerevole ingrandimento dei villaggi. A suo avviso i lavori dei campi rispondevano a un bisogno di equilibrio all’interno della società.

Una conferma di questa ipotesi si trova nella levigazione della pietra, nella ceramica, nella nuova tecnologia e nei nuovi utensili.

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I lavori di Cauvin e di Perrot mostrano che nella crescita dell’umanità l’influenza dello spirito e della coscienza umana hanno esercitato un ruolo preponderante.

2. La nascita simbolica degli dei

La figura umana era già conosciuta dall’arte delle caverne e dalle rappresentazioni femminili, cioè le Veneri di Aurignac. La civiltà natufiana non ha lasciato molte tracce di figure umane. Queste cominciano a trovarsi nell’VIII millennio nella regione dell’Eufrate. Jacques Cauvin di Lione ha consacrato uno studio approfondito alla figura della grande dea scoperta a Mureybet, villaggio del Medio Eufrate nel quale viveva una grande popolazione già prima dell’invenzione dell’agricoltura6.

Nella documentazione dei due millenni dell’arte natufiana troviamo rappresentazioni orizzontali, soprattutto animali, come nel Paleolitico.

Verso l’8.300 a Mureybet, appaiono due figure che spiccano in rapporto alle altre: una figura femminile e una figura animale, quella del toro. Queste due figure sono due simboli che troviamo alla stessa epoca in Siria e in Palestina, prima dell’invenzione dell’agricoltura. Esse sono il segno della nascita di un’arte nuova e dunque della coscienza nell’uomo di un pensiero nuovo.

Si tratta di due simboli chiave che danno adito all’interpretazione dell’arte neolitica che troviamo molto diffusa in Anatolia, in Siria e in Palestina nel VIII millennio e di cui la documentazione più importante è la città di Çatal Hüyük che fu occupata dal 6.200 al 5.500 a.C. In questa città gli archeologi hanno trovato una grande quantità di santuari domestici, di affreschi dipinti, di alto-rilievi, di statue.

I due simboli, la dea madre e il toro, occupano un posto di rilievo. Si tratta di due divinità in presenza delle quali si ergono esseri umani, con le braccia alzate verso di esse in un gesto di implorazione o per lo meno di relazione.

3. Coscienza del divino e sua rappresentazione da parte dell’Uomo

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Nether - Tomba di Seti I (Tebe)

Con la civiltà natufiana, all’alba del Neolitico, siamo in presenza di una nuova documentazione che gli archeologi sono sul punto di mettere a nostra disposizione. Questa documentazione ci fa percepire quattro tappe nella crescita dell’uomo a partire dal X millennio.

1. La sedentarizzazione, un fatto culturale che sfocia nella creazione di comunità di villaggio.

2. La creazione di un’arte nuova nella quale emergono due simboli: la donna feconda e il toro.

3. L’invenzione dell’agricoltura, del lavoro dei campi e della ceramica segnano l’inizio del Neolitico

4. La creazione di santuari, la moltiplicazione delle statue della dea madre e del toro, i primi oranti con le mani levate verso le divinità e la diffusione di questa religione in tutto il Vicino-Oriente dal VI millennio, quindi nel mondo mediterraneo.

L’uomo, secondo Cauvin, ha creato ormai una vera religione. Ha preso coscienza del divino, e la esprime attraverso simboli e rappresentazioni, per mezzo di significanti come le statue e gli affreschi. Per la prima volta nella storia dell’umanità si manifesta la coscienza della necessità di relazioni dell’uomo con la divinità. I gesti della preghiera di Çatal Hüyük, e che si ritrovano nel V millennio in Italia nella Valcamonica, traducono una coscienza nuova nell’uomo. Con la personificazione del divino, la credenza in esseri supremi permette all’uomo del Natufiano e del Neolitico di volgersi verso le sue divinità con lo sforzo della preghiera.

Bisogna anche accennare ai numerosi messaggi funerari dell’epoca neolitica. La grande omogeneità nei riti di inumazione, la scoperta di una casa dei morti a Byblos, il trattamento speciale riservato ai crani, i vasi di offerte nelle tombe, l’importanza della tomba per la vita nell’aldilà, la prossimità dei viventi con i loro defunti, la relazione con la divinità la cui presenza è segnata nei santuari, come nel caso di Çatal Hüyük, sono il segno di una vera coscienza della sopravvivenza dell’essere defunto 7.

4. Coscienza della presenza degli dei

Giunti in Mesopotamia nel corso del IV millennio, i Sumeri esercitano una grande influenza sulle popolazioni. Costruiscono le grandi città-stato di Nippur, Eridu, Uruk, Lagash, Ur e Mari. Questo popolo straordinario, grazie al suo ricco immaginario, ha genialmente inventato la scrittura cuneiforme. Si tratta di una vera esplosione culturale e religiosa. Grazie alla scrittura giungiamo a penetrare all’interno del pensiero dell’homo religiosus mesopotamico. I Sumeri sono quindi raggiunti da semiti venuti dall’Ovest, con il nome di Accadi, che accettano la loro scrittura, la loro arte, la loro cultura.

Sumeri e semiti rappresentano le divinità sotto forma umana e attribuiscono loro come caratteristiche la luce e lo splendore. La luminosità divina è una forza, rappresentata da un alone intorno alla testa della statua divina.

L’India, l’Iran e l’Occidente riprendono questa simbolica mesopotamica. Lo splendore divino irradia sui vestiti della statua e all’interno dei santuari e dei templi. Il rito dell’incoronamento delle statue acquista un’importanza primordiale perché si ritiene che questo rito conferisca alla statua divina una potenza soprannaturale.

Grazie alle tavolette ritrovate dopo il XIX secolo, abbiamo epopee, inni, preghiere che ci Pagina 76 di 99

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mostrano come l’homo religiosus mesopotamico del III e II millennio desse al sacro le sue vere dimensioni: trascendenza di dei e dee, architettura sacra dei templi e dei santuari, sacro valore delle statue, forza dei rituali grazie alla luce, al fuoco e ai sacerdoti.

L’uomo mesopotamico ha coscienza della grandezza degli dei e cerca la loro presenza. Cerca di conoscere i decreti divini al fine di sottomettervisi, perché sono gli dei che regolano il destino dell’uomo. Questa coscienza della grandezza degli dei, della condizione umana di sottomissione alle divinità è il leitmotiv della preghiera e del culto reso alle diverse divinità che si riteneva abitassero in cielo ma anche nel tempio del santuario.

Attraverso lo ziggurat, una torre che collega cielo e terra, i sacerdoti comunicavano con la divinità, la facevano scendere tra gli uomini affinchè percorresse i luoghi sacri ed essi potessero riceverne la benedizione.

Nella stessa epoca vediamo l’emergere della religione

faraonica ai bordi del Nilo. Dall’inizio del III millennio, data dell’unificazione del paese e dell’invenzione della scrittura geroglifica, i primi teologi tentano di spiegare i misteri che suscitano la meraviglia degli abitanti della valle e del delta del Nilo: il levarsi del sole ogni mattina; la crescita annuale del fiume e l’inondazione con una impressionante regolarità, senza che ci sia mai pioggia; acqua a profusione e limo fertile; tra due deserti una terra nera coperta da una vegetazione lussureggiante sotto un cielo luminoso.

Heliopolis, Memphis, e Hermopolis, tre città che molto presto irraggeranno la loro teologia, avranno un’influenza durevole sul pensiero religioso.

L’Egitto tenta di definire la nozione del divino, neter, la potenza: la personifica. Ciò dà luogo alla rappresentazione di 753 divinità: signori divini locali, dei e dee cosmici, dei dei saggi.

Tutti questi dei e dee sono portatori di una potenza che gli egiziani esprimono attraverso simboli e attraverso segni presi nel mondo umano o nel regno animale. La meraviglia davanti alla creazione ha portato i fedeli a scoprire il mistero della vita e del suo carattere sacro. È l’opera divina per eccellenza rappresentata dal simbolo misterioso ankh onnipresente.

Veramente impressionato dal mistero della vita, l’egiziano attende dal Faraone il culto quotidiano reso agli dei in tutti i templi dai preti suoi delegati.

In ogni tempio la divinità è presente nella sua statua e veglia sul buon andamento del cosmo. In ogni tempio il naos è il luogo segreto e sacro per eccellenza, cellula della residenza divina. Maât è lo stato della creazione, della natura e dell’Egitto previsto dagli dei creatori. È anche diritto, ordine, giustizia e verità garantita dal Faraone. In tal modo, l’homo religiosus dell’Egitto faraonico vive una meravigliosa esperienza del sacro segnata dal senso del divino e dall’amore per la vita.

Dall’inizio del III millennio, l’uomo della Mesopotamia e dell’Egitto, conscio della presenza del divino nel mondo, cerca di rappresentarlo per mezzo di simboli molto diversi e cerca di attirarlo, di collocarlo in templi che divengono la dimora del sacro, sempre ricostruiti sullo stesso luogo. In ogni tempio il naos, il santuario, è il luogo del sacro per eccellenza nel quale i preti rendono culto alle divinità. In Egitto ogni mattina il sacerdote, delegato dal faraone, fa discendere l’anima del dio o della dea nella statua del naos. Nelle religioni sumerica, accadica, egiziana, babilonese, un calendario di feste organizza le assemblee del popolo e i giorni festivi.

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Attraverso gli oracoli, attraverso la divinazione, si manifesta la volontà divina. Grazie alla scrittura, la memoria delle generazioni si trasmette direttamente e le tradizioni orali sono rinforzate dalla diffusione di miti e di riti attraverso la tradizione scritta.

In pochi millenni l’homo religiosus è presente dappertutto nel Vicino-Oriente e nel Mondo Mediterraneo, in Egitto, in Iran, in India, in Cina.

Julien Ries

(*) Prof. em. - Univ. Cattolica di Lovanio. Direttore del Centro di Storia delle Religioni (Lovanio).

Note bibliografiche

1) Ph. V. Tobias, Paleoantropologia, Jaca Book, Milano 1992.

2) Idem.

3)Y. Coppens, Le singe, l’Afrique et l’homme, Fayard, Paris 1983, tr. it., La scimmia, l’Africa e l’uomo, Jaca Book, Milano 1985; AA. VV., La main dans la préhistoire, «Dossiers de l’archéologie», n° 178, Gennaio 1993.

4) A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole (vol. I: Technique et langage, vol. II: La mémoire et les rythmes), Albin Michel, 2ª ed., Paris 1991.

5) E. Anati, Valcamonica. 10.000 anni di storia, Capo di Ponte 1987.

6) J. Cauvin, L’apparition des premières divinités, in La Recherche, Paris 1987, n° 194, pp. 1472-1480.Paris 1987, n° 194, pp. 1472-1480.

7) J. Mellaart, Çatal Hüyük, Thames & Hudson, London 1967.

Mnemosyne e l'Orfismo

di Giuseppe Pugliese Caratelli

L’Orfismo costituisce un problema molto interessante e importante per l’influenza che ha avuto sul pensiero antico e per aver alimentato il pensiero moderno.

Sono di particolare interesse i rapporti di questo movimento religioso col Pitagorismo e col Platonismo: intendo dire con la dottrina di Pitagora e dei suoi seguaci e successori e con Platone, prima ancora che con i neoplatonici.

Problema fondamentale è quello di aver chiara la nozione di Orfismo, perché vi è una tendenza a dichiarare orfico buona parte di quello che ci è stato conservato del pensiero religioso e filosofico antico riguardante i problemi dell’aldilà, il problema della morte, come anche i fondamenti della vita morale, della vita e delle modalità di vita nell’ambito dell’esperienza terrena.

Il primo problema è quello di chiarire quale sia la documentazione veramente orfica. Per tale Pagina 78 di 99

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ragione ho ripreso in esame i documenti autentici, distinguendoli dalle tante descrizioni o rielaborazioni della dottrina orfica e dalle esposizioni che risentono degli orientamenti delle informazioni degli stessi antichi. Infatti le stesse nostre fonti antiche sono in molti casi interpretazioni di tradizioni più antiche e non riferiscono sempre con precisione in quanto si rifanno a testi di autori ignoti appartenenti ad età varie. Inoltre l’interpretazione dell’Orfismo che è stata data nella tarda antichità ha molto influito sulla raffigurazione dell’Orfismo che noi abbiamo.

Mi è parso dunque che fosse necessario esaminare i documenti autentici, cioè quelli che sono una specie di vademecum per gli iniziati e che sono rappresentati da testi incisi su lamine d’oro deposte nelle tombe perché servissero come una guida nei viaggi dell’aldilà.

Orfeo - Mosaico - Museo archeologico di Istanbul

Ma qui si presenta subito un altro problema: questi testi hanno tra loro delle affinità, ma non hanno la stessa ispirazione. Da qui nasce la necessità di distinguere o di cercare di riconoscere ciò che si può veramente dire orfico (e naturalmente sopraggiunge il problema di tale definizione), e che comunque gli antichi stessi, meglio informati, riconoscevano come Orfico, e ciò che oggi è chiamato orfico e come tale era chiamato anche nella tarda antichità, quando tuttavia, a mio parere, la nozione di orfismo era già oscurata.

Ho studiato questi testi e sono giunto alla conclusione che alcuni di essi possono essere considerati genuinamente orfici se riconosciamo nell’orfismo una dottrina religiosa che si alimenta del pensiero filosofico riconducibile alla dottrina pitagorica e delle comunità pitagoriche. Ritengo infatti che l’Orfismo, il movimento religioso a cui spetta legittimamente il

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nome di Orfismo, sia la religione dei Pitagorici.

In Platone ci sono degli accenni a ciarlatani che diffondono testi attribuiti ad Orfeo. Naturalmente Platone non aveva preso posizione contro l’Orfismo, ma contro quei ciarlatani che spacciavano come testi orfici testi di discutibile autorità e genuinità, che servivano più per i loro scopi pratici che come documenti di un autentico pensiero religioso.

Studiando le lamine orfiche si nota subito una divergenza tra un gruppo di lamine in cui ricorre un riferimento a Mnemosyne, vale a dire alla divinizzazione della memoria, e invece un altro gruppo più numeroso, più diffuso e che si trova in Magna Grecia, in Tessaglia, Macedonia e anche Creta. (Per quel che riguarda Creta si apre un altro problema che riguarda una certa tesi secondo la quale l’Orfismo potrebbe avere le sue radici proprio a Creta).

Questo secondo gruppo non conosce Mnemosyne, non fa alcuna citazione di questa personificazione, divinizzazione della memoria e invece si richiama ai consueti numi dell’aldilà: Persefone, ecc... «Vengo puro tra i puri», oppure «vengo tra i puri, o pura regina degli Inferi [Persefone]». In questi testi si riconosce un riferimento ad altre raffigurazioni della vita dell’aldilà per gli iniziati, riferimenti che troviamo per esempio in Pindaro o anche in altri testi: la ricompensa per chi ha osservato le norme di purezza proprie degli iniziati ad una religione misterica è rappresentata da un perenne soggiorno prossimo agli dei inferi, godendo della loro vicinanza.

Non ritroviamo invece tale rappresentazione nei testi appartenenti al gruppo delle laminette che ho definito mnemosinie. In esse non è definitivamente indicato il termine di questa esperienza oltremondana. Inoltre le lamine orfiche in cui compare la citazione di Mnemosyne vedono per le anime degli iniziati l’inizio della salvezza (cioè la possibilità di sottrarsi al ciclo delle rinascite e delle successive esperienze legate ad una vita nel corpo) in un’esperienza dell’aldilà. Vale a dire che per l’iniziato che si presenti puro nell’aldilà è comunque decisivo, al fine di non condividere la sorte delle altre anime, il fatto che egli si disseti bevendo la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne (tutto ciò è naturalmente simbolico).

Cito a titolo di esempio il testo più completo e più importante inciso in una laminetta trovata in Magna Grecia, nella necropoli di Hipponion, presso Vibo Valentia. Si tratta di 16 versi che dicono:

«Andrai alle case ben costrutte di Ade: vi è sulla destra[una fonte,accanto ad essa si erge un bianco cipresso;lì discendono le anime dei morti per aver refrigerio.

A questa fonte non accostarti neppure;ma più avanti troverai la fredda acqua che scorredal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi i custodi,ed essi ti chiederanno, in sicuro discernimento,che mai cerchi attraverso la tenebra dell’Ade caliginoso.

Dì: “Son figlio della Greve e del Cielo stellato;di sete son arso e vengo meno: ma datemi prestoda bere la fredda acqua che viene dal lago di Mnemosyne”.Ed essi sono misericordiosi per volere del sovrano degli[Inferi,e ti daranno da bere (l’acqua) del lago di Mnemosyne;e tu quando avrai bevuto percorrerai la sacra via su cui

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[anche gli altrimystai e bacchoi procedono gloriosi.»

Laminetta Orfica - IV sec. a.C.

Secondo la mia interpretazione le anime che si affollano alla fonte accanto al bianco cipresso sono le anime che desiderano rinascere, che rimpiangono la vita terrena e desiderano rinnovare questa esperienza perché non hanno saputo prepararsi al viaggio nell’aldilà attraverso l’iniziazione ai misteri Orfici e non si sono resi degni dell’acqua vitale di Mnemosyne che sola permette di sottrarsi al ciclo delle rinascite.

La formula di riconoscimento che i mystai debbono pronunciare: «Io sono figlio della terra e del cielo stellato» è un’antica formula che ritroviamo già nella Teogonia di Esiodo ed è ricca di significati perché vi è presente l’idea della sottrazione all’ambito puramente ctonio, puramente terrestre, e il legame col cielo, vale a dire con l’infinito. Si allude infatti non al cielo diurno, in cui la luce del sole non rivela i segni dello spazio infinito rappresentato dagli astri, ma il cielo sidereo, il cielo stellato, che richiama l’infinito del cosmo e che più facilmente induce a superare i vincoli con l’esperienza terrena.

Qui non troviamo una definitiva indicazione della mèta, a differenza della visione escatologica delle altre dottrine misteriche. La confusione è facile, perché tutte le religioni misteriche hanno naturalmente un fondo comune, ma sia i misteri demetriaci che i misteri dionisiaci, non orfici, non mnemosinii (ossia non legati alla visione dell’intervento di Mnemosyne) presentano la salvezza eterna sotto forma di un soggiorno perenne, sia pur in una visione paradisiaca, presso numi inferi o uranii.

I testi orfici invece, quelli in cui si parla di Mnemosyne, non accennano al termine di questa esperienza, termine al quale tuttavia si riconnettono i testi platonici. Naturalmente bisogna ricordare che Platone non poteva parlare con chiarezza e precisione della dottrina orfica o della religione pitagorica, perché appunto non era dottrina da rivelarsi ai profani; ma in più luoghi platonici (specialmente nel Fedro, oltre che nel Fedone) vi sono accenni a questa beatitudine, beatitudine pienamente spirituale che prescinde da ogni bellezza di soggiorno, da ogni presenza o vicinanza di numi, bellezza del tutto spirituale, un raccogliersi nella visione della divinità (non di questo o di quel nume, ma proprio della divinità).

Si tratta di una visione di grande profondità e ricchezza intellettuale. Da qui l’importanza di Mnemosyne.

Espongo molto sommariamente questi temi, tracciando solo alcune linee della discussione sulle Pagina 81 di 99

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varie dottrine misteriche e sulla distinzione che a mio avviso si deve fare per evitare confusione.

Se prendiamo la famosa raccolta di testi dell’autorevole studioso Otto Kern, Orphicorum Fragmenta, troviamo uniti insieme testi che indubbiamente non sono assimilabili: testi in cui ricorre l’invocazione, il richiamo a Mnemosyne e altri di differente ispirazione che appartengono invece ad altre esperienze di iniziati, ad altre escatologie, ad altre dottrine esoteriche, ma a mio parere è necessario proprio evitare questa confusione e distinguere quanto più è possibile. Il segno distintivo, differenziante, che fa pensare ad un legame con la dottrina filosofica quale la pitagorica, è proprio il richiamo a Mnemosyne, la quale è divinizzazione appunto della Memoria.

La prima volta in cui ho esposto questa mia teoria in una riunione di studiosi a Torino, un autorevole studioso di filosofia greca ha dato un’interpretazione riduttiva sostenendo che il richiamo di Mnemosyne semplicemente significa che l’iniziato deve ricordare ciò che gli è stato insegnato, la dottrina che gli è stata impartita. Questo è troppo riduttivo. Nei testi mnemosinii ci confrontiamo con qualcosa di più complesso, che possiamo comprendere se lo colleghiamo con la dottrina platonica dell’anamnesis e con tutta l’esperienza dotta appartenente non soltanto ai filosofi, ma anche agli scienziati. Pensiamo solamente a quel che ha rappresentato l’anamnesis nella importante riforma scientifica del grande medico Ippocrate, la cui dottrina (in cui la reminiscenza è fondamentale per la visione dello svolgimento del processo morboso) ha avuto enorme influenza non solo sulla medicina, ma su tutto l’orientamento scientifico greco.

L’esigenza dell’anamnesis è cioè un presupposto necessario per intendere un ricordo del passato, ma anche un’esperienza necessaria per intendere il presente e per antevedere il futuro. Non si tratta di una previsione nel senso profetico o di un indovinare in senso mantico, ma della comprensione del necessario sviluppo delle premesse, ricordate attraverso l’anamnesis, riconosciute attraverso la diagnosis e dalle quali si può giungere alla pronoia, la previsione.

Questo metodo è stato applicato da Tucidide alla dottrina politica quando ha affermato che i grandi politici, come Pericle e Temistocle, avevano la capacità di intendere e di capire quali sarebbero stati gli sviluppi di una serie di eventi storici, proprio come Ippocrate il quale consigliava al medico la conoscenza del passato, l’anamnesi, e il riconoscimento, la diagnosi, come premessa necessaria per cogliere il corso della malattia. Questi momenti (l’anamnesis, la diagnosis, la pronoia) sono i momenti strutturanti di qualsiasi ricerca; legati e distinti per esigenze didattiche e pratiche, ma in realtà momenti di un processo indivisibile. Grazie a questo stesso principio ritroviamo la visione della vita e dell’anima, le cui premesse, le cui prime manifestazioni sono nella dottrina pitagorica.

La scuola pitagorica ha rappresentato una rivoluzione nel pensiero greco perché di là dalla ricerca dei principii, delle archai, dei presupposti, ha posto proprio l’esigenza dell’esperienza. Ciò vale sia per lo scienziato che per il politico, come pure per l’uomo che vive la sua vita e che deve considerare la sua esperienza terrena come un episodio, senza un visibile principio e quindi senza una conclusione in forma di premio. Ciò che è importante, secondo quanto dice molto chiaramente Platone nel Fedro e quanto troviamo nella dottrina pitagorica, è il rapporto costante tra l’uomo e l’universo e tra l’uomo e la divinità e l’inseparabillità dell’esperienza terrena dalla visione cosmica che fa della vita solo un episodio.

Da qui la necessità per l’uomo di conoscere tutto ciò e di ricordare sempre la sua origine («Sono figlio della Greve e del cielo stellato»). Il concetto di anamnesis (il sapere è un ricordare) è stato molto importante per la formazione della dottrina platonica dell’idea. Il legame, storicamente accertato, tra Platone e la scuola pitagorica della Magna Grecia e il suo

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studio dei testi pitagorici ci confortano nella nostra visione.

Abbiamo qui voluto dare soltanto un accenno della ricchezza di pensiero e di fede religiosa che è nella dottrina cui, a mio avviso, spetta il nome di Orfismo.

Giuseppe Pugliesi Caratelli

Maschera e daimon

Giuseppe Lampis

1. Potenza della maschera

Uno dei fenomeni più caratteristici dell’epoca in cui viviamo consiste nella disinvolta diffusione dell’uso di maschere e mascheramenti. Invece di essere circoscritto e attualizzato in un tempo e in uno spazio speciali, l’uso di maschere viene banalizzato quotidianamente. Donne e uomini di questa epoca celebrano, grazie anche a questo presuntuoso maneggio di un oggetto molto misterioso, un arrogante trionfo del proprio potere soggettivo. Ma, così facendo, essi divengono potenti effettivamente?

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Africa, Costa d'Avorio - Maschera di N'gere Wobe

Al contrario, la maschera indossata senza precauzione e senza preparazione adeguata, si vendica inesorabilmente di chi la usa con indegnità: gli uomini presumono di disporre del potere della maschera con facilità e, invece, è la maschera che si impadronisce di loro, svuotandoli ulteriormente. Essi pensano di possedere le maschere, mentre sono le maschere a possedere loro.

Si badi bene: l’uomo moderno non cade in errore per il fatto che attribuisce grande importanza alla manipolazione dell’aspetto esteriore. D’altronde, non sono tipicamente moderne né l’importanza assunta dalla dimensione teatrale della vita né l’idea che comunque acconciature e cosmetici, divise e paramenti, e in generale ogni travestimento, abbiano il potere di introdurre nel personaggio e nel ruolo etico-sociale in cui si desidera essere riconosciuti. Lo sviamento a cui accenniamo va ricercato piuttosto nella illusione di poter usare i sembianti a piacere come se fossero gusci neutri e vuoti, involucri senza realtà, oggetti senza profondità e spessore, accidentali e indifferenti, distaccabili da ogni connessione sostanziale retrostante.

La superficialità, la disinvoltura, la faciloneria dell’adozione delle maschere si unisce agli altri segni del disorientamento dell’uomo moderno.

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Non è questa la sede per ripetere per esteso le analisi circa la moda che molti, a partire per esempio da Georg Simmel, hanno sviluppato. Ricordiamo solo che l’intensificarsi dell’importanza sociale di tale fenomeno, assurto alla dimensione di una vera e propria ossessione di massa, ha corrisposto al farsi sempre più acuto di un problema di identità e di ruolo.

Alla radice della frenesia della moda è stato giustamente intravvisto il rifiuto di adottare un punto permanente di equilibrio e il soggiacere al fascino della rottura e dello spostamento continuo del centro. Avviene così che il bisogno di un rinnovamento continuo dello stereotipo dell’apparire si faccia sempre più imperioso; le masse consumatrici inseguono le classi alte le quali a loro volta, per sfuggire alla presa dell’omologazione, sono sospinte a imprimere un’ulteriore accelerazione al rinnovamento. Un sofisticato sistema industrial-finanziario dell’immagine e della moda interpreta con prontezza la corrente e ne amplifica scaltramente gli effetti.

Tuttavia la questione di fondo non è data dal fatto che gli uomini siano divenuti preda di poteri economici alienanti, bensì dall’equivoco che li ha preliminarmente disarmati. Essi credono di disporre delle maschere come se fossero oggetti da supermercato ed invece sono caduti in una trappola.

Così, anche nella inadeguatezza di chi usa senza cautela e preparazione la maschera, si presenta un effetto del nichilismo dell’epoca e del suo specifico modo di rapportarsi con la realtà.

La maschera contiene una carica di forza e perciò anche di pericolo. Essa è come la faccia del sole: il suo viso non si fa guardare direttamente e i raggi che diffonde sono sì benefici e vitali, ma anche mortali e malefici.

La forza della luce che al tempo stesso rende visibili e permette di vedere è anche una forza che può produrre l’effetto di oscurare e accecare.

Non c’è nessuna soluzione di continuità tra l’apparenza e la realtà che si consegna nell’apparire. L’apparire è indissolubilmente connesso con una realtà concreta retrostante.

Nell’apparire si fa strada una potenza che è quella stessa che riesce a dare origine alla realtà. Nel mondo e nella dimensione dell’apparire, nella vicenda dei molteplici fenomeni, si fanno avanti segni, tracce e presenze provenienti da una straordinaria riserva di potenza. Potenti forze produttrici di realtà entrano ed escono dal campo dell’apparire, mostrando a volta a volta qualcosa di loro, e con ciò aprono passaggi e accessi, ancorché difficili, verso il loro livello.

Le maschere non guardano agli uomini, non parlano agli uomini; succede così per quelle dei Dogon, come ancora per il volto dell’Afrodite di Milo. Esse sono rivolte in un’altra direzione: verso il luogo in cui si tengono e vivono le forze che sostengono ed orientano il mutevole divenire delle apparenze. Dietro la maschera si indovinano le potenze dell’azione e gli dei fondatori.

Colui che indossa la maschera, mediante essa, chiama il dio, ma deve essere capace di avvicinarne la potenza senza restarne schiacciato. Il vero attore sulla scena della danza e del mimo è il dio: l’uomo che lo chiama deve perciò essere un uomo sacro, un sacerdote, uno capace di fungere da mediatore. Non tutti riescono ad essere portatori di un dio; indossare degnamente la maschera è segno di aver superato una prova iniziatica e di aver compiuto un salto di livello esistenziale.

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La maschera, infatti, provoca una trasvalutazione e una trasformazione dell’uomo che la usa, in quanto non si può adottare senza un effetto di possessione. Essa concede e impone un’altra forma, introduce in un altro stato, riporta all’origine e ai primordi.

Le maschere non solo rappresentano ma sono anche effettivamente – per il nesso inscindibile che salda tra l’apparire e l’essere – gli antenati e gli dei della morte. Dal momento che solo i morti e gli dei della morte possono guidare nelle regioni delle origini, ora nascoste, attraverso di essa – e in compagnia di quelli – si torna all’inizio della creazione.

La maschera ha il potere di mettere in contatto con l’aldilà e, esercitando al tempo stesso la funzione sia di rivelare sia di nascondere, si colloca sul punto di passaggio tra il visibile e l’invisibile. Se qualcosa si rivela, vuol dire che se ne stava nascosto: ma essere nascosto non vuol dire non esserci affatto e, piuttosto, vuol dire esserci già da prima e poterci essere ancora nel dopo. L’invisibile è potente perché in esso si raccoglie la riserva della realtà che via via si manifesta. L’essere, che nel presente si manifesta e si fa visibile, in illo tempore era invisibile e tale tornerà; per questo motivo, ciò che si mostra appartiene ad un mondo più potente e più ricco di realtà che lo possiede e lo esprime.

2. La Gorgone

All’ambivalenza della simbologia solare si riconduce una delle maschere più inquietanti della grecità: il volto di quella Gorgô che, sola tra le tre sorelle, trova la morte. Il suo nome, Medousa, che vuol dire la Sovrana, al maschile ricorre come attributo del terribile multiforme oscuro Poseidon, l’unico che sia riuscito a congiungersi con lei.

Dato che la luce dei suoi occhi ha la forza di trasformare in pietra, ovvero in morti, il volto di Medusa non si può, o non si deve, guardare. In ciò, oltre che tornare dannoso esso può rendersi anche utile: il gorgoneion sul colmo del frontone greco arcaico svolge infatti una preziosa funzione apotropaica.

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Vulci - 490 a.C. - Riproduzione di Gorgone alata su anfora dio ceramica

Invero la stessa funzione apotropaica altro non è che un aspetto essenziale della signoria esercitata sugli spiriti inferi, signoria che mantiene tutti i caratteri dell’ambiguità di cui andiamo dicendo, perché tali spiriti, come possono essere frenati, così possono essere scatenati; del resto, la loro natura è sia distruttiva sia costruttiva dal momento che il morire è presupposto del nascere e il nascere se ne alimenta. L’apposizione della maschera sul colmo del tempio non testimonia la certezza di un automatico effetto apotropaico, ma si fa segno di una chiamata in aiuto e alleanza di potenze delle quali si riconosce la forza tremenda e alle quali ci si sottomette. Esse ci sono, sono più forti, possono tornare, la morte ha il potere di tornare e irrompere fra i viventi. Tutto ciò va regolato, per così dire, affinché il mondo dei viventi non ne risulti travolto; insomma, la regola che dispone i rapporti tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi va scoperta, riconosciuta, accettata, celebrata. I viventi non sono certamente essi a tenere a bada i morti, a spingerli lontano, a regolarne la presenza: ciò dipende dall’invocazione di una legge più alta che governa tutti e due i livelli.

Medusa, come il sole, è ambigua e polarizzata, bellissima e mortifera. Le tremende sorelle Gorgoni hanno mani di bronzo e di oro, squame di drago, zanne di cinghiale, chiome serpentine. Abitano lontano, vicino alla terra del tramonto e della notte, e Perseo può raggiungerle solo oltrepassando l’oceano che infatti circonda il sole.

Della testa invincibile di Medusa si approprierà Athena e la stessa primordiale Artemis, signora delle fiere, potnia therôn, ha talora la testa della Gorgone. La potenza dello sguardo insieme creativo e distruttivo dimostra una funzione di valore cosmico che ben appartiene alla grande dea che genera e domina i viventi.

La doppia valenza, oscura e luminosa, di Medusa è segnata dalla congiunzione con Poseidon: essa partorisce attraverso il collo mozzato Pegaso, il cavallo alato: e il cavallo è un animale tipicamente infero e mediatico.

Perseo riesce a tagliarle la testa guardandola solo indirettamente attraverso una superficie riflettente offertagli dalla divinità dell’intelligenza e della prudenza. Questo mito illustra ancora di più il carattere originario e principiale della Gorgone: il principio non si può guardare direttamente perché non è oggettivabile, e perché ad esso si può risalire soltanto attraverso le sue proiezioni. Lo stesso accade per il centro del labirinto, altro importante simbolo solare, il quale non può essere raggiunto direttamente, bensì soltanto attraverso le volute serpentine (1). che da lui irradiano. Anche in tal caso, quella Ariadna che conduce l’eroe e gli offre lo strumento per arrivare al principio di ogni discesa nella manifestazione è una delle figure della Grande Dea.

La situazione dell’eroe solare che nello specchio può guardare alla maschera abbagliante è la stessa dell’iniziato ai misteri dionisiaci che compare sugli affreschi della famosa villa pompeiana: lì il mystes rinasce a nuova vita e compie un salto di esistenza allorché nel catino vede riflesso il potente dio signore del divenire che incombe alle sue spalle.

Nella complessa stratificazione della figura della Gorgone si ripercuote un simbolo riconosciuto in molte tradizioni. Per Leo Frobenius, la Gorgone Medusa è il risultato delle metamorfosi del simbolo solare del leone in posizione frontale sotto l’influsso dei motivi dell’uccello e dell’uomo a forma di swastika (la «corsa in ginocchio» del sole, tipico simbolo « polare», che ridà il movimento dell’aprirsi del cosmo da un centro che simultaneamente lo trattiene). L’immgine del leone in posizione frontale è documentata nell’Europa occidentale e nell’Africa nordorientale fin dal Paleolitico superiore (Frobenius 1933, tr. it. Storia delle civiltà africane, Torino 1991, p. 140): travestito da sorcier campeggia nella grotta-santuario di Trois Frères in Dordogna sulla serie di animali coperti di spiculi e cioè consacrati alla morte.

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Tradizioni di popoli dediti alla caccia hanno individuato nel leone una inquietante ierofania. L’ora del leone è segnata dal silenzio degli altri animali che si ritirano; egli è il più maestoso degli spietati felini, il grande predatore capace di vedere nelle tenebre e di prevalere con la forza dei suoi occhi sugli altri viventi. La assimilazione della sua faccia a quella del sole traduce il senso cosmico della potenza del suo sguardo. Si tratta di un modo esemplare con il quale il pensiero arcaico comprende le più intense manifestazioni della natura; lo stesso modo fa da base all’elaborazione del valore della maschera, nella quale il primitivo a volta a volta raccoglie e interpreta proprio le potenze da cui si sente circondato e diretto. In tal senso, lo sguardo del leone finisce per rappresentare simbolicamente lo sguardo per eccellenza, la forza di penetrazione di una luce in cui si esprime una potenza che governa i viventi senza subirne la vicenda. Un fuoco che non si spegne mentre si immerge nella notte, quale quello di cui diceva Eraclito: «Di fronte a ciò che mai tramonta chi potrebbe nascondersi?» (fr. 16).

Ciò di cui bisogna essere consapevoli, tuttavia, è che la simbologia solare rientra in una drammatica dialettica di chiaro e oscuro. Riassume così Károly Kerényi: «Il sole nel ciclo dell’antica mitologia solare deve essere fatto a pezzi, dalla figlia, dalla sposa, dalla sorella, affinché possa rinascere». Una figlia del sole, Medea, potente incantatrice, uccide ovvero occulta i propri figli per renderli immortali, rende immortale nascondendo; ed in un’altra figlia, Circe, si riconosce la italica lupa aggirante, seduttrice e divoratrice, tessitrice del mondo con il filo d’oro della luce.

Nell’universo greco arcaico, il sole è circondato e chiuso da Oceano, sfondo della tenebra indistinta (àpeiron) onniavvolgente genitrice di tutti gli esseri. Ancora L. Frobenius riporta (op. cit., tr. it., p. 236) la figura di un disco di legno intagliato che i Somali della costa collocano nel centro della capanna, «nel mezzo è ancora chiarissima l’immagine del sole; intorno, per due volte, la treccia dell’oceano; nella corona esterna, la quadripartizione secondo i punti cardinali».

Le vicende del Minotauro e di Osiride, tipiche divinità solari, propongono la dialettica indissolubile di giorno e notte, nel quadro di una intensa riflessione sulla morte e la rinascita o resurrezione. Questi nessi sono al centro della religione solare sia egizia sia cretese, e sembrano essere richiamati nelle maschere d’oro mortuarie dei re micenei (tra l’altro, il fondatore leggendario di Micene si tramanda che sia l’arcaico eroe solare Perseo) nonché dai ritratti sui sarcofagi egizi, ritratti che non hanno nessun intento verista e si riferiscono piuttosto al risorto trasfigurato vivente in eterno. Tali maschere e tali sarcofagi sembrano pertanto basati sulla simbologia del rapporto tra volto regale e faccia del sole.

In conclusione, si può dire che nella maschera della Gorgone si esprime la potenza divina nella sua inafferrabile e accecante natura di coincidentia oppositorum. La congiunzione del motivo del serpente e dell’aquila fa della Gorgone un simbolo della totalità che misteriosamente raduna non manifesto e manifesto, inesplorato ed esplorato; di quella totalità che in lei si presenta nel volto inavvicinabile e travolgente (2)..

3. La maschera e l’invisibile

Ciò che si mostra richiama un aliud che gli sta dietro. Per questo motivo il sembiante ha sempre la natura del simbolo. Esso trascina con sé la potenza dell’invisibile al quale è indissolubilmente connesso e che gli è presupposto. Il sembiante non è superficie vuota senza profondità, bensì sigillo di un potente contenuto; dietro la visibilità della luce, senza soluzione di continuità c’è il sole; e la presenza del sembiante comporta la presenza di una potenza reale.

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Indiani nativi americani (1825-1875) - Maschera sciamanica di Tinglit

Alla figura corrisponde un archetipo; non c’è soluzione di continuità fra visibile e reale, tra apparire ed essere: eppure l’apparire entra ed esce, rispetto all’orizzonte della nostra portata, lasciandoci indovinare che esso va e viene da un mondo realissimo anche se a noi invisibile.

Una realtà durevole e potente soggiorna in una dimensione a noi familiare e interagisce con noi; essa tuttavia non vi si trattiene: è entrata e si è avvicinata a un certo punto, ad un altro punto ne uscirà. Lo stare con noi, rendendosi visibile e facendosi percepire, rappresenta soltanto un episodio di una vicenda più ampia.

Però tutto ciò che si mostra proviene da una riserva di vita e di potenza e ne porta con sé un grande carico di ricchezza. Il volto archetipico della maschera trattiene sovrumani centri di forza tanto che colui il quale riesce a catturare il visibile accede al possesso dell’invisibile.

Lo stesso volto umano comporta una dimensione sovrumana. Cosa si manifesta effettivamente nella luce del vero volto dell’uomo? Più un volto è un vero volto, un volto autentico, e più esso esprime le potenze dell’origine che danno avvio alla manifestazione (3)..

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Del resto l’intero corpo può fungere da maschera e trattenere una straordinaria mistica potenza. L’espressione del volto, nella quale si manifesta un ethos, può dunque aprire un mondo, una cultura, un destino; così come il gesto dell’intero corpo, sia esso immobile e ieratico sia esso danzante e signore del movimento, può ridare la statua vivente del dio. Inoltre, per mascherare un volto, sono sufficienti pochi tratti di colore e piccoli cambiamenti materiali, il che conferma che la trasformazione essenziale riguarda la sua espressione.

La natura della maschera è di essere doppia. La doppiezza è tanto un suo carattere fondamentale che senza di essa la maschera è inspiegabile. In primo luogo, si tratta della doppia polarità dei suoi versanti: essa si affaccia verso l’esterno e verso l’interno, verso il mondo degli uomini e verso quello degli dei, verso il mutevole e verso il duraturo, verso il grossolano e verso il sottile, verso il visibile e verso l’invisibile.

Ma alla natura della maschera, nel suo fondo, oltre alla doppiezza, appartiene anche di tenere uniti i due versanti e la doppia polarità.

Naturalmente, questa sua ambivalenza nelle due direzioni risponde alla convinzione che le due metà dell’universo, ancorché correlate, abbiano bisogno di essere mediate. Insomma, la maschera ha senso soltanto a condizione che l’ “esterno” e l’ “interno” corrano il rischio di non corrispondersi; che tra il visibile e l’invisibile sussista un varco e un passaggio, ma altresì sussista il rischio di non trovarlo e che comunque esso non sia garantito come una ovvia certezza.

Senza questo rischio la maschera non avrebbe senso. La maschera contiene una potenza formidabile proprio a condizione che l’universo si presenti con una pericolosa tendenza alla divaricazione fra le sue parti. In tale universo, l’uomo ha bisogno di mascherarsi e di truccarsi da animale, perché ha perduto l’animale. In esso, l’uomo deve trasformarsi, perché non ha più la forma vera e reale (4)..

Ecco che la mimesis acquista statuto di sacramento, di azione sacra capace di conferire realtà a colui che l’ha perduta e di fargli ritrovare l’unità che si è infranta.

La maschera affronta simbolicamente un grande problema metafisico. Essa insegna che si può “essere simili”, vale a dire che si può puntare sulle tendenze verso l’unità e invertire quelle verso la dispersione.

Imitare, assomigliare, cogliere il simile si pongono come azioni ricche di sacralità in quanto comportano di invertire la tendenza alla frammentazione e all’irrigidimento e di tornare alla vivente unità del reale scoprendo via via la strada dell’identità e della convergenza fra le cose.

In questa visione, le apparenze non sono vuote ombre abbandonate a se stesse, ma conservano un rapporto misterioso con il centro da cui irradiano e che si manifesta in loro. Quando l’apparire viene finalmente inteso e decifrato come un “essere simile a”, come un richiamo, improvvisamente lo si vede e riconosce come un ponte gettato verso il centro e il mondo dei principi. Anche se l’apparire fosse un rovesciamento ed un mistero, in esso scenderebbe pur sempre una corrente che a certe condizioni si potrebbe anche risalire.

4. Maschera e persona

Nel tema della maschera confluiscono in modo esemplare i vari aspetti del tema della unità e della pluralità della persona.

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Dicendo “persona” non si vuole trattare qui, naturalmente, della sua idea moderna, formulazione recente e circoscritta al pensiero europeo degli ultimi due secoli. Del resto, già lo stesso Dasein di Heidegger non vi corrisponde più e, in un certo senso, rappresenta un ritorno indietro ad un principio antimoderno.

L’identità di soggetto individuale e di persona si chiarisce come una versione recente anche in un senso più generale, perché risulta connessa con la formazione dei grandi monoteismi, e con la elaborazione giudaica dell’idea di un unico dio-persona. La stessa teoria dell’anima immortale in Platone rispondeva ad un’altra esigenza, anche se finì utilizzata nel quadro monoteistico cristiano-islamico. Anzi, tale teoria affermava proprio che l’anima è indipendente dal soggetto individuale e che il loro rapporto è soltanto provvisorio.

Nella visione anteriore ai moderni monoteismi, la persona precede l’individuo e mantiene nei suoi riguardi una certa indipendenza: si può affermare che l’individuo ha la facoltà di richiamare e comprendere una o più persone, ma a patto di intendere che sono esse a farlo diventare un soggetto reale.

211 a.C. circa - Raffigurazione di Giano bifronte su moneta

Questa idea di base sta inscritta nel simbolismo della maschera: l’individuo può realizzare più persone, purché si faccia assumere da loro per realizzare un destino più alto. Il mondo delle persone precede, sovrasta e domina l’individuo, di modo che l’individuo non ha altra strada da percorrere che quella di acquisire una persona per divenire reale.

Si tratta di una teoria che comporta un quadro tendenzialmente già dualistico, nel quale il problema dell’origine dell’uomo, ovvero dell’uomo delle origini, ovvero del rapporto dell’uomo

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con l’origine, acquista un rilievo prevalente. Come abbiamo visto a proposito del senso della mimesis nella maschera, la forza del significato sacro della maschera si intreccia con lo sfondo di una problematica di tipo dualistico e drammatico.

L’etimologia che fa risalire il termine latino “persona” all’amplificazione del suono della voce dell’attore prodotto dalla maschera teatrale è ingegnosamente fantastica e va ricondotta ai giochi interpretativi e simbolici in cui gli intellettuali antichi erano assai versati (se ne veda uno dei massimi esempi nel Cratilo di Platone. E ai tempi nostri, in alcune delle sconvolgenti traduzioni di Heidegger). La radice della parola latina è invece da riportare quasi sicuramente a una voce etrusca che designava un demone (phersu), probabilmente uno di quelli che incarnava il “doppio”, la potenza invisibile complementare.

Il fatto che la civiltà etrusca contempli una numerosa popolazione di maschere e demoni è ben noto, ma anche i Romani hanno un grande dio della maschera, anzi della doppia (5). maschera: Giano, dio delle “porte”, sia della casa sia della città.

Egli è il giovane-vecchio, colui che apre e chiude le porte del ciclo dell’anno, il dio bifronte del passato e del futuro, il signore delle due vie o delle due direzioni, ma anche l’esoterico signore del triplice tempo.

Eppure come spiega René Guénon, il suo vero volto è il terzo, invisibile e inafferrabile, il volto che raccoglie sotto il suo sguardo tutto il tempo nella simultaneità dell’istante eterno. Questo volto, vero ed occulto, è quello per il quale il mondo dello scorrimento temporale viene distrutto e trasformato nell’eterno. Non si tratta però di una vera distruzione, bensì della rivelazione e dello scoprimento della sua realtà profonda: il tempo, cioè il mondo delle apparenze, svela di avere una radice eterna; il tutto veramente tale non consiste nel continuo rinnovamento del ciclo bensì nell’eterno presente e nell’istante atemporale della simultaneità integrale.

Giano, janua, sta dunque per la porta dell’eternità. La doppia maschera introduce e inizia (6) al mistero dell’apparire. Del resto, l’istante è inafferrabile e, in un certo senso, in contraddizione con questo mondo, come un autentico átopon (Platone, Parmenide 156d). La facoltà di questo dio che può guardare nei due sensi equivale alla facoltà di guardare l’immutabile.

Egli presiede le corporazioni dei mestieri che, in tutte le civiltà tradizionali, sono depositarie di segreti iniziatici e di chiavi riservate. La chiave d’argento e la chiave d’oro, strette nelle sue mani, sono rispettivamente riferite ai piccoli e ai grandi misteri, dei quali i primi fanno accedere al paradiso terrestre e i secondi a quello celeste.

Come si vede nello studio di R. Guénon, nella struttura di questo grande dio del Volto ricorrono gli elementi fondamentali della densità simbolica della maschera in tutte le tradizioni.

L’occhio che vede tutto è il terzo occhio; mentre quello sinistro (la luna) vede il passato e quello destro (il sole) vede il futuro, esso è l’occhio frontale di Shiva e soprattutto, l’eterno – aiôn – in cui tutte le potenzialità sono contenute e raccolte.

Nell’ebraico e nell’arabo non c’è una voce verbale per designare il tempo presente. Il tempo presente compete solo a Dio, perché esso indica “potere”: «Io sono» lo può dire solo chi può effettivamente essere; l’uomo può dire «io ero» o questo o quello oppure «io sarò», ma non «io sono».

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5. Arcaicità della maschera

La maschera può venir costruita solo da chi conosce l’arte di cogliere l’essenziale e solo un’arte e una mente arcaica possono risalire all’essenziale e definirla. Per cogliere la maschera occorre una penetrante capacità di sintesi, perché bisogna riuscire a captare ciò che non muta e permane sotto ogni trasformazione.

Qual è il vero volto, quello giovane o quello carico di anni? Ce ne è uno nel quale gli innumeri volti di una lunga vita possono riassorbirsi e ricapitolarsi (7).? Qual è il volto della resurrezione e dell’immortalità? L’artista arcaico della maschera pensa metafisicamente che ogni volto è per sempre, purché sia – naturalmente – un volto vero ed esprima un daimon.

Se quel volto ha catturato il daimon, esso ha trasceso l’effimero ed è diventato perdurante memoria. Se il volto eterno è quello dell’estasi, la maschera è il volto estatico.

La maschera deve riuscire a trattenere ciò che tende a disperdersi e a sfuggire. Essa deve garantire dalla continua dispersione nel molteplice temporale della manifestazione e consentire di attraversare indenni la varietà dell’apparire che periodicamente si consuma.

La maschera stringe, fissa, protegge: portando in primo piano l’essenza, respinge in basso i lati deboli della soggettività, quelli dispersivi e caduchi.

Il volto che si definisce impenetrabile e impassibile come una maschera è sia quello marziale di chi domina i sentimenti, sia quello sacerdotale di chi se ne è staccato. Ma anche quando la maschera rappresenta in modo enfatico le forze negative e distruttive, di queste essa incarna soltanto la dimensione permanente.

In ogni caso, la maschera rappresenta il volto di chi è diventato altro da quello che era, conquistando grazie ad essa un sé essenziale. Per questo motivo, la maschera vuol essere il volto capace sia di esprimere sia di conservare l’invisibile, in altri termini, il volto simbolico che resiste alla frammentazione e alla dispersione.

Una forma acuta e dolorosa della dispersione è quella della morte e la maschera ne affronta il problema cercando di trattenere quella fra le anime che viene ritenuta errante. Essa interviene per impedire che il soffio vitale o “doppio” (8). abbandoni bruscamente il corpo. Per l’uomo arcaico, non si muore mai all’improvviso, ovvero non si muore in un solo momento definito, perché la morte è un processo di congedi, soste e ritorni per gradi successivi. Pertanto, la maschera si può mettere sul viso del defunto per trattenervi il “doppio” e regolarne l’uscita.

Dei dell’origine e dei della morte abitano nello stesso mondo, dal quale – facendo indossare la loro maschera a un sostituto degno – possono essere via via richiamati; l’attore mascherato evoca lo spirito e la potenza vitale del trapassato che nella sua nuova – anzi, nella sua vera ed antica – veste garantisce la continuità e la partecipazione con la sede della vita.

La prima maschera di cui abbiamo notizia è forse quella di uno sciamano mascherato da cervo che danza in mezzo a un branco, raffigurato nella parete della grotta di Trois Frères (Frobenius, op. cit., pp. 104-106) (9)..

Maschere di animali e di volti umani con animali sono peraltro ben noti presso i popoli a prevalente cultura di caccia. Queste maschere appaiono, evidentemente, a condizione che la potenza e gli dei della potenza siano gli animali: anima – animale(10)..

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L’animale è ritenuto trovarsi in uno speciale rapporto diretto con la vita. Esso porta con sé la vita direttamente e senza cicli di mediazione temporali come, ad esempio, una pianta alimentare. Il dramma della caccia sembra pertanto inserire in una speciale solidarietà con le forze vitali. Del resto, quello della caccia non è soltanto un espediente per procurarsi il nutrimento ma piuttosto un mestiere iniziatico che richiama un quadro metafisico in cui il cacciatore si identifica con l’animale.

Nella metafora arcaica colui che sembra l’animale è l’animale, di modo che la cattura del sembiante garantisce l’accesso all’essenza. Così, quando gli dei si presentano sotto le specie di animali, è da animali che ci si maschera e sono gli animali ad essere imitati (11)..

6. Riconoscere la maschera

Per indossare la maschera si impone che l’uomo sappia affrontare la prova di porsi come mediatore tra il visibile e l’invisibile. A tal fine, è necessario passare sostanzialmente attraverso due gradi.

Dato che la maschera è un daimon, bisogna criticare il mascheramento moderno e rovesciarlo. Il primo passaggio consiste, perciò, nello smascheramento. In questa prima fase, deve entrare in crisi la rigidità estrinseca, ovvero la rigidità dell’estrinseco, diventa necessario imparare a vedere e ad essere visti; bisogna imparare a farsi e vedere e riconoscere.

Si tratta di un percorso arduo e rischioso, che comporta il superamento di una prova angosciosa, quale è quella del raggiungimento della capacità di accettare la crisi delle proprie apparenze attuali.

Un mito che racconta e illustra questo passaggio è imperniato sulla figura del Socrate platonico. Nel Simposio e nel Fedone, Socrate rappresenta una maschera che dischiude la visione di una realtà più densa di significato oltre le apparenze. Egli fa questo attraverso l’ironia e l’eros. Egli viene paragonato al Sileno che ci mostra nel distacco ironico una dimensione più vera oltre il visibile; ed insieme figura come colui che, attraverso l’eros per il visibile stesso, trova la strada per quella dimensione trascendente.

Il secondo passaggio consiste nella scoperta del proprio daimon. Bisogna imparare a riconoscerlo e, una volta riconosciutolo, essere preparati ad evocarlo e ad assumerlo come proprio centro di forza. Il daimon sta a guardia della porta stretta per l’aldilà ed è necessario saperlo affrontare per ridurlo ad alleato.

Solo allora la maschera, da estrinseca rigidità nichilista, potrà tornare ad essere simbolo di una capacità mediatrice di vita. Essa cesserà di convogliare la presenza di un dio maligno, signore di una creazione negativa antagonista, di nani, mostri e larve; e rappresenterà il gesto riproduttore dell’armonia e della bellezza. Sarà un simbolo usato al positivo, in un gioco creativo e in una danza fondatrice.

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Odisseo e le sirene - Rappresentazione su ceramica (475 a.C.)

Un alto centro di forza direttivo e ispiratore potrà manifestarsi ed esprimersi nel modo con il quale l’uomo costruirà ed orienterà la sua vita. Il senso generale della vita sarà dovuto alla presenza di un essere che appartiene al mondo degli dei; la continuità e l’unità sensata della vita degli uomini saranno segno della presenza di un daimon.

Già da prima l’uomo non è estraneo al mondo popolato da dei e demoni: così uno di essi abita in lui e in lui si fa tradizione e destino concreti. êthos anthrôpô daimôn, dice Eraclito (fr. 119).

Vuol dire tutto ciò che l’uomo sia una marionetta degli dei? L’uomo non può scegliere il proprio daimon perché lo stesso scegliere e lo stesso decidere si determinano in una situazione culturale e all’interno di un modo di vita che, dal canto loro, sono sorti per la presenza e l’influsso del daimon. In verità il destino dell’uomo è di essere maschera di un dio, quale che sia la maschera e quale che sia il destino.

Dunque, l’uomo non può essere padrone di sé, almeno non in senso antropocentrico. Quello che viene riconosciuto e adottato come il proprio destino preesisteva, quale precondizione della scelta, nel mondo invisibile delle potenzialità. C’è un mito a conclusione della Repubblica di Platone (12). nel quale le anime scelgono via via secondo un turno tutte le vite che da sempre sono disponibili, e le prime non scelgono necessariamente le migliori per il fatto di essere le prime.

Il daimon che aiuta a decidere coincide alla fin fine con il destino stesso, il quale riporta nolenti o volenti, in un mondo che c’era da sempre. Si tratta di un daimon che riporta gli uomini nella loro tradizione, quella che da sempre era nel loro orizzonte e che da sempre li aspettava.

êthos anthrôpô daimôn: incarnarsi in una tradizione concreta è il destino dell’uomo.

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7. Odisseo

Ormai giunto alla spiaggia di Itaca, quando deve prepararsi ad affrontare la rischiosa prova del combattimento finale, Odisseo deve farsi straniero e spogliarsi di quanto gli è fino ad allora appartenuto (13).. Affinché sia reintegrato in casa sua e possa riacquistare i suoi beni e la sua sposa e, in breve, affinché rivesta il destino che gli appartiene, Odisseo deve deporre la sua figura consueta. Da guerriero terribile e da kshatriya, re splendido e forte, a quel punto egli diviene un mendicante debole e vecchio, la larva e il contrario di se stesso.

La sua maschera abituale, il suo ethos, deve essere cambiata e un’altra deve indossarne, come se egli debba superare la prova di riuscire ad essere davvero quel “nessuno” con cui si nomina.

Del resto, il destino di ogni uomo sta già racchiuso proprio nel suo nome secondo le tradizioni arcaiche.

Inoltre, il tornare povero contiene un significato ancora più primitivo perché equivale alla riconquista di una condizione originaria e vivere di elemosina equivale a vivere di ciò che la natura spontaneamente fornisce in uno stato primordiale. La regressione alla povertà costituisce un tipico passaggio necessario alla preparazione di una nuova nascita, quasi una morte rituale dalla quale potrà rinascere l’uomo vero realizzato e integrale. La prova di Odisseo non si riduce a una banale gara, ma assume il valore di una situazione archetipica ineluttabile: la lotta contro il male per diventare se stessi.

Dietro il suo mascheramento, che in ultima analisi consiste nella perdita del mascheramento e della condizione abituali, c’è la potenza di un dio. Quando la sua figura attuale sarà stata accantonata, gli resterà comunque il dono della divinità che lo sostiene e gli promette la realizzazione definitiva e integrale, come una natura originale che non gli si può togliere. Succede allora che

«...con una verga lo toccò Atena;e gli avvizzì la bella pelle sulle agili membra,i biondi capelli fece sparire dal capo, una pelleda vecchio antico gli fece attorno alle membra,rese cisposi gli occhi prima bellissimi;e un lucido cencio gli buttò addosso e una tunicastracciati, sporchi, neri d’orrido fumo;sopra gli vestì una gran pelle di rapida cerva,spelata...»

(Od. XIII, vv. 429-437, trad. R. Calzecchi Onesti).

Questa umiliante trasformazione equivale a una morte rituale, indispensabile per la bellezza e la vittoria. In primo luogo, Odisseo deve rendersi irriconoscibile dalle forze malefiche: quando avrà già trafitto la gola di Antinoo, i suoi nemici ancora non si renderanno conto di chi veramente egli sia e crederanno solo che abbia sbagliato la mira come si conviene ad un mendicante.

Ma nella saga omerica riusciamo a vedere anche un altro messaggio, ben più importante. Il travestimento di Odisseo non dipende da qualcosa di estrinseco e di indipendente, non consiste

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in un oggetto fisso e rigido che egli sovrapponga a se stesso; al contrario, esso si compenetra nella persona e nella mente dell’eroe e per questo può divenire uno strumento di accrescimento e di conquista di un livello più alto. La forza di quel travestimento (del resto Odisseo è l’eroe dei travestimenti) sta nel fatto che esso fa tutt’uno con una dote naturale, quale l’astuzia e l’intelligenza. In questo caso l’intelligenza si presenta non solo come capacità di riconoscere e penetrare gli altri, ma anche come capacità di impedire che gli altri lo riconoscano e penetrino. Per il cacciatore arcaico in ciò risiede la vera intelligenza, simile a quella delle fiere che insegue, e che ad esse rende simili e fa partecipare della loro forza divina; «...come leone che torna dall’aver divorato un bue selvatico» (Od. XXII, 402).

Anche qui, e in modo particolarmente esaltante, il travestimento realizza la presenza di un dio. La natura profonda del travestimento e della trasformazione che protegge e prepara Odisseo risiede nell’intelligenza e nell’astuzia, e in queste qualità non c’è niente di materialistico e di volgare, al contrario in esse splende il favore e la potenza magica di una divinità che rende simili a una forza invincibile della natura.

L’inclinazione alla dissimulazione e al mascheramento di Odisseo rivela, comunque, una struttura polimorfa ed infera incacellabile nel fondo di questo eroe. D’altro canto, tutto ciò si deve intravvedere già nel suo stesso nome, dato il rapporto che il pensiero arcaico instaura tra nomen e imago: il senza nome è un senza figura; nessun nome, nessuna figura.

All’ “inizio” egli è quasi un fantasma. Conseguentemente, Odisseo viene attratto dall’immortalità offertagli da dee meravigliosamente e permanentemente giovani e soggiorna a lungo presso di loro. Ma il suo vero destino lo porta a rivolgersi con nostalgia a colei che tesse di giorno e disfa di notte (14)..

Odisseo è sospinto a non rinunciare alla condizione di partenza che ne fa un “nessuno” ed un fantasma; però questa dimensione umbratile gli conferisce spessore e plasticità. Il fondo oscuro e mortale che gli appartiene intrinsecamente rende la sua vita più ricca e complessa della indifferenziata e informe giovinezza eterna offerta da Calypso.

Egli ritroverà la realizzazione integrale del proprio ethos con Penelope al termine dei viaggi, di quelli reali e di quelli narrati (gli effettivi e i raccontati si sono sempre intrecciati e sovrapposti in un’unica esperienza estatica). Solamente con Penelope vita vissuta e vita raccontata svelano di aver sempre avuto lo stesso centro, come una trama e un ordito compongono lo stesso tessuto.

Non è sostenibile che Odisseo cerchi la morte diversamente da quello che vuole Gilgamesh, perché la sua figura richiama e reinterpreta direttamente quest’eroe. Anche il greco come il sumero ricerca l’immortalità: e sarà colei che tesse a conferirgliela. Un’immortalità diversa da quella offerta dalle varie Circe, Sirene, Calypso, dietro le quali egli riconosce il profilarsi di altrettanti gradi dello stesso itinerario iniziatico e che ad una ad una decifra come prove da superare. In definitiva, le decifra ognuna come una diversa modalità dell'aggressione della folla dei morti, di quell’inafferrabile pericolo cioè dietro il quale – allorché si affaccia sulla soglia degli inferi – si camuffa il volto della Signora dell’altro mondo che impietrisce.

L’avvicinamento alla vera vita l’eroe Odisseo lo guadagna nelle due ultime tappe del nostos, nascendo ignudo “prima” con Nausicaa («tu mi hai salvato», «ricordati di me, perché a me per prima devi la vita»), ed “infine” con la grande tessitrice.

In un lungo viaggio iniziatico, che appare come una ampia nekyia a più tappe e gradi, che prende le mosse dalla discesa verso la oltremondana cittadella di Troia, l’eroe combatte così contro tutti i demoni che lo vogliono trattenere, per riuscire a raggiungere il suo autentico

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daimon.

NOTE

1) Il serpente designa simbolicamente non solo l’oceano, ma anche il corso del sole.

2) Richiamiamo qui una annotazione, degna di approfondimenti ulteriori, a proposito di Dionysos, per il quale è ben nota e documentata la identificazione proprio con il Minotauro, assai spesso raffigurato nella sopracitata posizione della corsa con il ginocchio levato (Copa dell’ Acropoli, di Epitteto, V sec., Atene). Una precisa traccia di questi nessi simbolici risuona nettamente nell’Antigone di Sofocle, laddove in quello che è uno splendido inno al dio ricorre «O tu che guidi il coro degli astri» (v. 1147: chorag’ astrôn).

3) C’è una metafisica del volto da cui prende avvio il paradigma dell’icona. Peraltro si tratta della stessa intuizione che sta alla base della speculazione sull’ “Imâm”, o volto di Dio, della gnosi islamica.

4) Gli individui animali sono particolarmente simili gli uni agli altri e ripetono spontaneamente il modello identico; essi sono il modello vivente.

5) La maschera bifronte è un topos fortemente arcaico, il quale sviluppa ed esplicita la natura ambivalente della stessa maschera con un volto solo.Un esempio di testa africana bifronte davvero impressionante proviene dagli Ekoi della regione del fiume Cross, nell'interno della Guinea, (cfr. Frank Willett, African Art, London 1971, tr. it., Torino 1978, p. 63).

6) Il radicale *i sta alla base dello stesso nome di Janus.

7) Una qualche eco di questa esigenza filtra persino in certe fotografie “arcaiche” delle nostre campagne di quando ancora non erano state raggiunte dalla modernizzazione. Quei ritratti si facevano una volta nella vita, in prossimità di occasioni uniche e culminanti (spesso quelle che i tedeschi chiamano Hochzeit).

8) Il cosiddetto “soffio delle ossa”, secondo la tradizione cinese, ma anche ebraica. Gli è analogo il Ka egizio e il “corpo sottile” indù. Ritorna altresì nell’anima vagante di sogno siberiana e africana, sorta di alter ego depositario della vita, mobile e volante.

9) Ma anche M. Eliade, Histoire des croyances et des idées religieuses, vol. I, Paris 1975, tr. it., Storia delle credenze e delle idee religiose, Firenze 1979, p. 29.

10) Affinché il rapporto con le potenze animali, il loro accoglimento e l’attivazione delle forze latenti che vi corrispondono possano segnare l’uscita dai limiti della condizione umana, occorre che si esercitino sotto la garanzia di una cultura di superiore spiritualità.La trasmutazione, ricercata dalle società segrete tradizionali di maschere, presuppone una durissima ascesi, senza la quale non si perviene al dominio della ritualità necessaria per mediare le spinte alla disintegrazione della personalità dovute all’aggressività del dio-animale antenato.Nell’ultimo paragrafo si vedrà come, a proposito di Odisseo, il contatto con forze non-umane, costituendo una minaccia devastante, possa essere sostenuto e trasvalutato solo per il contrappeso della presenza soccorrevole di una grande divinità dell’intelligenza e del sapere.

11) Nella stessa grecità ricorre frequentemente l’associazione di dei e animali.Pagina 98 di 99

Page 99: 2/Saggi di... · Web viewProviamo ora a vedere più da vicino di che cosa si tratti. 1. La grande guerra primordiale fra dei ed uomini La guerra di Troia ha avuto un prologo in cielo,

Uno spunto di grande interesse può essere tratto dalla tesi di Hegel sul profilo greco (cfr. Hegel Vorlesungen über die Aesthetik, tr. it., Estetica, Milano 1967, p. 814), la cui struttura simbolica consisterebbe nella subordinazione del naso e della bocca, organi tipici della bestia, ma pur presenti nell’uomo, alla fronte e agli occhi, sedi di funzioni nobili ed alte.

12) Il mito di Er, in Platone, Rep., X, 614A-621D.

13) Vedi l’interpretazione di Porfirio, allievo di Plotino, in De antro nympharum, ripresa anche da Titus Burckhardt, Il ritorno di Ulisse, in La maschera sacra e altri saggi, tr. it., Milano 1988, pp. 43 e ss.

14) Già K. Kerényi (Töchter der Sonne, Zürich 1944, tr. it., Figlie del Sole, Torino 1949, p. 73) aveva colto in Pênelopeia il convergere della simbologia della grande tessitrice e della figura dell’anatra selvatica che si affaccia nel suo nome – pênelops è la querquedula, la marzaiola delle nostre campagne –, cosicché in lei risulterebbe un’eco di una preomerica «grande dea dell'origine della vita e della morte».In effetti, molteplici elementi avvisano della presenza in Penelope della natura di una autentica signora della mâyâ, vero centro riposto di ogni possibile viaggio di riavvicinamento.Fra gli altri, richiamiamo l’attenzione sulla strana genealogia che la vuole madre, per un amore adulterino con Hermes, del grande Pan. In quella occasione il dio alato, per unirsi con lei avrebbe assunto la forma solare dell’ariete, cosicché i due corpi configurerebbero le parti complementari di una coppia cosmogonica, trattenendo in loro stessi peraltro l’ambivalenza chiara ed oscura del sole. La grande mobilità del complemento maschile di Penelope propone inoltre una sorta di controprova ulteriore della intercambiabilità tra Odisseo ed Hermes.La connessione simbolica con i valori solari sussiste anche attraverso il nome di anatra di questa “dea dell’origine”. La pênelops, una sorta di anitra selvatica, tipico uccello di passo che si presenta con il rinnovarsi della primavera, è la “marzaiola” simbolicamente associata al percorso del sole, come del resto accade ad altri migratori eccellenti.Nel suo viaggio post-mortem il Faraone-Sole si trasforma tra l’altro anche in oca selvaggia (cfr. M. Eliade, op. cit., p. 140).Ma il valore solare di talune specie avicole sembrerebbe altresì trovarsi impresso come un prestigioso sigillo nella conformazione della loro zampa, la quale stampa una particolare orma tripartita, accolta ad esempio presso i Bambara quale segno delle posizioni del sole nel movimento attorno alla terra (il «crocicchio a zampa di gallo», cfr. D. Zahan, La religione dell’Africa Nera, in H. Ch. Puech (a c. di), Histoire des Religions, Paris 1970, tr. it., Storia delle religioni, vol. 18/I, Bari 1978, p. 48.Un’erudita rassegna dei significati assunti dall’orma della gruiforme otarda, specie non migratrice, in varie dottrine tradizionali, è riferita da Jean Servier (cfr. L’homme et l’invisible, Paris 1964, p. 64 ss., tr. it., L’uomo e l’invisibile, Torino 1967), il quale la riconosce ripetuta come un archetipo geometrico guenoniano, dal vajra di Shiva alla maschera kanaga dei Dogon.

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