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I settori più competitivi e

meno competitivi in Italia

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Armentano Francesca

Ierinò Ilaria

Murdocca Serena

Posca Giulia

Introduzione

Sempre più spesso, guardando la televisione o navigando su Internet capita di focalizzare l’attenzione su un concetto, frequentemente banalizzato, quello di competitività. Oggigiorno “essere competitivi” è diventato un nodo cruciale in innumerevoli attività, da quelle sportive a quelle di matrice essenzialmente economica. Concentrando la riflessione sull’impresa, ci si chiede in un simile contesto: cosa significa competitività? Seppur la domanda, di primo acchito, sembri trovare una facile risposta, vedremo che quest’ultima non è certamente immediata; il nostro lavoro si propone di rispondere a tale quesito e di delineare i fattori che nonostante la crisi rendono competitivi alcuni settori dell’economia italiana illustrando anche alcuni casi aziendali.

Inizialmente, non potevamo esimerci dal definire alcuni concetti di base fondamentali per la comprensione dell’argomento soffermandoci su alcuni fattori che influenzano il grado di competitività di un’impresa. Considerando l’Italia, è emerso che i suoi punti di forza risiedono nei macro-settori dell’ alimentare,dell’ abbigliamento e dell’ arredamento.

Il “Made in Italy” del settore lusso, del settore dell’arredamento e del settore dell’agro-alimentare non solo regge alla crisi ma sta anche facendo rilevare una forte crescita del fatturato delle imprese nel nostro Paese. I dati, evidenziando che il “Made in Italy” soprattutto nel settore del lusso è l'unico a non subire flessione nello scenario di crisi mondiale, certificano la validità di un modello di business basato sull'innovazione, sulla qualità e sull'export, tanto da incoraggiare l'iniziativa di rendere più efficienti le imprese traino dell'economia italiana, promotrici dell'eccellenza italiana nel mondo.

Per quanto riguarda l’arredo e i complementi d’arredo le aziende italiane producono una varietà di prodotti, nei quali sperimentano, promuovono e combinano in modo unico e sapiente, materiali diversi quali legno, metallo e cristallo, utilizzato in tutta la sua purezza ed eleganza, vetro di alta qualità e porcellane. In questo settore i fattori competitivi della produzione italiana sono indubbiamente l’innovativo e sofisticato design e l’altissima qualità del prodotto.

Altra eccellenza italiana è rappresentata dalle sue gastronomie, apprezzate perché derivanti da combinazioni di variètà e qualità delle produzioni, dal legame con il territorio, dalla garanzia di provenienza, da aspetti nutrizionali e, non meno importante, dalla crescente affermazione della “dieta mediterranea” a livello internazionale.

I beni prodotti in tali settori sono sicuramente oggetti di incomparabile bellezza e qualità che hanno reso celebre il “Made in Italy” in tutto il mondo, ma accanto a questi esistono anche settori i quali, non di certo favoriti dalla morsa della crisi che oramai si trascina da qualche anno, registrano una carenza di competitività.

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Il nostro obiettivo è andare ad individuare tali settori, ricercando quali sono i loro fattori di debolezza.

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1°paragrafo “La competitività: nozioni generali”

Prima di analizzare la competitività occorre soffermarsi sulla definizione di settore, considerando che non esistono delle metodologie universali per descriverlo, ma solo dei criteri adattabili a momenti e contesti differenti. Anche a livello pratico è difficile definire un settore poiché si possono utilizzare più parametri per lo stesso oggetto, ad esempio la tecnologia (il settore della tessitura) o la funzione d’uso (il settore del tessile per la casa). È però fondamentale riuscire a determinare e classificare il settore per poter formulare una valida strategia; cerchiamo quindi di ovviare utilizzando i criteri che sono riscontrabili in letteratura (Sinatra, 1986): le caratteristiche, della domanda,la somiglianza tecnica dei prodotti, i bisogni da soddisfare, una fase della catena del valore, il sistema competitivo allargato e le mappe cognitive degli attori chiave. Una volta determinati i confini di settore si determinano anche i concorrenti diretti ed indiretti, i clienti servibili, le regole del gioco da seguire, i riferimenti da utilizzare per la misurazione dei risultati e si riesce a capire su che obiettivi canalizzare l’attenzione strategica (Sinatra, 1986). Definire i confini di un settore è fondamentale anche per poter comprendere le «regole del gioco» della competizione in quel settore (Sinatra, 1986) e quindi per poterlo meglio affrontare.

Detto ciò, passiamo ora ad analizzare cosa sia la competitività e quali siano i suoi elementi essenziali. La competitività si configura come un insieme di strategie e politiche aziendali praticate dalle imprese. Essa è un indicatore che misura l’efficacia delle politiche aziendali; tale indicatore è influenzato anche da condizioni esterne (ad es. politiche governative) e può essere confrontato con i risultati conseguiti dalle concorrenti, sempre migliorabile rispetto a diversi standard. La competitività, intesa in senso economico, riguarda entità economiche ben definite, con riferimento a tre differenti livelli di analisi:

l’economia di un Paese o di un’area geografica più vasta (es. USA Vs UE); un settore o comparto (es. reparto); un’impresa o gruppo d’imprese.

Fra vari Paesi, vari settori e fra imprese esiste competizione determinata dalle strategie e capacità possedute dagli organi interni alle stesse; occorre considerare tale livello di competizione esistente fra le varie entità per poterne valutare il grado di competitività. Due sono i requisiti per poter valutare il grado di competitività di un’entità economica: la concorrenzialità e la parità di condizioni. Il primo fa riferimento alla conformazione del mercato: la concorrenzialità, e quindi la numerosità e la varietà dei sistemi da confrontare, risulta necessaria; sarebbe inutile valutare il grado di competitività in condizioni di oligopolio, in cui a competere sono in pochi. Inoltre, al momento di comparare il livello di competitività occorrono parità di condizioni fra le varie entità, e se queste mancano bisogna sopperire al divario e introdurre alcune misure di convergenza introdotte dall’UE al fine di colmare le differenze fra i vari Paesi.

Esistono diversi tipi di competitività:

La competitività di risultato viene resa esplicita attraverso alcuni indicatori di performance, quali ad es. i parametri del Global Competitiveness Report (per un Paese); il PIL, il reddito procapite che misurano il grado di concentrazione (più è basso, maggiore sarà la concorrenza fra le imprese). Profitto e creazione del valore si aggiungono agli altri indicatori e la competitività diventa così una finalità di superiorità rispetto ai concorrenti.

La competitività potenziale, invece, si basa su risorse, capacità, know-how (i cosiddetti fattori di competitività) che comprendono ad es. la capacità di promuovere R&S, di

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innovare, di creare partnership in grado di dar vita a differenziali positivi di competitività in un momento futuro. In questo caso costituisce un requisito per conseguire creazione di valore e di profitto: se un’impresa sviluppa all’interno le capacità imprenditoriali necessarie per sostenere la concorrenza nei mercati, sarà profittevole e creerà valore per gli stakeholder.

La competitività di processo punta a valorizzare i fattori di competitività con riferimento ad una serie di processi interni (gestione delle tecnologie, delle risorse umane, strategie aziendali ecc). In questo contesto rappresenta lo strumento con cui le imprese possono creare valore e profitto per la clientela; ma esistono dei casi in cui un’impresa è profittevole pur non essendo pienamente competitiva: ad es. un’impresa monopolista risulta indebolita nel momento in cui, l’apertura dei mercati a terzi, la espone ad elevati livelli di competizione.

Al di là delle differenze, la competitività in generale va inserita in un contesto spaziale e temporale. In relazione allo spazio, l’ambito di riferimento è quasi sempre il mercato; tuttavia riguarda un insieme ampio di risorse e si esplicita non solo fra settori e imprese nel mercato ma anche fra territori e Paesi, assumendo, così, carattere internazionale. In relazione al tempo, la competitività, in quanto successione di mutamenti che sollecitano continui adeguamenti, segue una logica:

attiva, quando l’impresa assume un comportamento anticipatorio rispetto ai mutamenti; reattiva, quando l’impresa si adatta ai cambiamenti; passiva, quando l’ inerzia dell’impresa ne riduce la sua competitività; proattiva, quando l’impresa domina il contesto competitivo, definendone i caratteri.

Concentrando la nostra attenzione sullo scenario italiano, è emerso che i suoi punti di forza risiedono nei macro-settori dell’alimentare, dell’abbigliamento e dell’ arredo-casa. E’ in questi ambiti di attività che emergono fattori vincenti come la creatività, l’innovazione, la qualità, il design e una spiccata “artigianalità industriale”.

Francesca Armentano 2° paragrafo “Il settore del lusso”

Il “Made in Italy” del settore del lusso, non solo regge alla crisi, ma sta anche facendo rilevare una forte crescita del fatturato delle imprese nel nostro Paese. I dati, evidenziando che il Made in Italy soprattutto in questo settore è l’unico a non subire flessione nello scenario di crisi mondiale, certificano la validità di un modello di business basato sull’innovazione, sulla qualità e sull’export.

I prodotti del lusso italiano sono oggetti di incompatibile bellezza, eleganza e creatività , motivo di orgoglio, nonché importantissima fonte di ricchezza per il nostro paese. Essi rappresentano l’espressione e il risultato di un’eredità culturale, artistica e storica che, pur affondando le sue radici nei secoli passati, continua a plasmare e a rendere unici i prodotti “Made in Italy”.

Una recente ricerca ha messo in luce quali sono le principali caratteristiche degli oggetti di lusso. Il primo requisito è quello della qualità eccellente che può derivare dall’impiego di materie prime ottime, nel caso di prodotti, o dalla professionalità e dall’esperienza riscontrata, nel caso dei servizi. La seconda caratteristica è il prezzo elevato che, a testimonianza della qualità elevata, è sinonimo di lusso. Anche il concetto di unicità, che si traduce nella difficoltà di reperimento, è

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individuato come una delle caratteristiche del lusso. Anche il legame con il passato è spesso identificato come una caratteristica del bene di lusso la cui produzione richiede spesso tempi lunghi, una lavorazione artigianale e un grande patrimonio di esperienza. Gran parte degli acquisti sono fatti con l’obiettivo della durata nel tempo: si presume che un bene prezioso, costoso, raro debba durare nel tempo attraversando generazioni. La quinta caratteristica dei beni di lusso è l’internazionalità che comporta la presenza dei brand di lusso quasi ovunque. Solo la marca che sa anticipare e tradurre a proprio vantaggio le mutate condizioni di mercato, o di contesto socio-culturale, può mantenere incisivo il proprio ruolo di fronte ai cambiamenti. La marca è un nome, un termine, un simbolo, un design o una combinazione di questi elementi che identifica i beni o i servizi di un venditore differenziandoli da quelli dei concorrenti. Nel mondo della moda una caratteristica fondamentale della marca è rappresentata dall’identità cioè dall’insieme dei codici stilistici e valori etici permanenti che caratterizzano in modo continuativo i prodotti dell’impresa. Infine, nell’ambito della moda ciò che si può ritenere davvero mutato è l’atteggiamento dei consumatori nei confronti delle marche. Il consumatore di oggi è autonomo e allo stesso tempo più attento, più esigente, si lascia condizionare meno e se deve acquistare sceglie in base ai gusti suoi personali. Nel settore del lusso si possono individuare due livelli distinti di lusso: inaccessibile (o anche detto “super lusso”) e accessibile. Il primo costituisce il livello più elevato e a questa categoria appartengono prodotti realizzati in pochissimi esemplari e dal prezzo elevatissimo; le aziende che vi operano sono per lo più imprese operanti nel campo dei gioielli. Alla seconda categoria appartengono prodotti che pur mantenendo caratteri di originalità hanno prezzi più contenuti, ad esempio, pelletteria, calzature, orologi. In questo segmento le strategie di comunicazione e di marketing sono rilevanti, a differenza invece, di quanto avviene per i prodotti di lusso inaccessibile che spesso vivono della loro stessa esclusività e per i quali politiche in tal senso sono molto ridotte. Al lusso accessibile appartengono, inoltre, i prodotti realizzati su larga scala, accessori facenti capo a marchi appartenenti alla stessa categoria ma venduti a prezzi più convenienti, ad esempio occhiali, profumi, cosmetici, ecc. Si tratta di oggetti destinati a consumatori molto sensibili alla marca ma che, non potendo o non volendo spendere cifre ingenti, sono comunque disposti a pagare un plus per avere un profumo o un accessorio di moda. In questo campo le politiche di marketing sono ancora più importanti nel creare un’immagine del prodotto diversa da quella dell’impresa concorrente visto che le differenze qualitative sono, per lo più, modeste. Secondo quando riportato dal rapporto del Centro studi Confindustria, Prometeia e Sace, l’export mondiale di beni di lusso crescerà entro il 2015 del 46% rispetto agli stessi dati dell’anno 2008, grazie anche ai nuovi Paesi emergenti, come la Russia, la Cina, il Vietnam, gli Emirati Arabi, Arabia Saudita, Kazakistan e Polonia, che danno ottime prospettive di una crescita ancora maggiore, dando al nostro Paese maggiori opportunità di sviluppo. Attualmente la quota di mercato italiana sull’export di beni di lusso accessibile in questi paesi è dell’11,6%; se restasse invariata, si prevede che nel 2015 l’export italiano di beni di lusso crescerà a 13 miliardi, 3,8 miliardi in più rispetto al 2008. Una quota importante di questo mercato è rappresentata dall’alta moda e dall’abbigliamento che detiene il 32%, subito dopo arrivano i gioielli e orologi (20%), scarpe, occhiali, accessori in pelle e in seta (19%), alimenti di lusso (3%), accessori per la casa (3%). Con il tempo all’interno delle società si manifesta l’esigenza di investire le ingenti disponibilità finanziarie a disposizione; le strategie adottate, a tal proposito, sono state di varia natura, tuttavia, riconducibili a due tipologie: la crescita interna e la crescita esterna. Alcune imprese hanno deciso di crescere attraverso un potenziamento interno dell’azienda e la via prescelta è stata quella di una diversificazione nell’ambito dello stesso marchio, tale scelta è meglio riconosciuta come strategia di brand extansion. L’altra via seguita, e non necessariamente una esclude l’altra, è stata quella della crescita esterna realizzata attraverso l’acquisizione di aziende, e marchi, già presenti

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sul mercato; in questo caso si è trattato di una strategia di diversificazione multibrand con conseguente gestione di un determinato portafoglio di marchi. Esempi concreti di aziende italiane di successo a livello internazionale sono Gucci e Prada che hanno saputo trasformare e contestualizzare la moda made in Italy in base alle nazioni i cui mercati si erano prefissate di raggiungere e di Luxottica che addirittura non solo ha internazionalizzato la sua presenza ma, facendolo, è riuscita a compiere una integrazione verticale coprendo tutta la filiera di produzione.

CASO GUCCI

Nel 1921, Guccio Gucci fonda un’azienda specializzata in prodotti in pelle e un piccolo negozio di articoli da viaggio a Firenze, sua città natale. Nel giro di pochi anni, il marchio raggiunge un tale successo da attirare una clientela internazionale sofisticata che ne apprezza le collezioni di borse, bauli, guanti, scarpe e cinture ispirate al mondo equestre. Di fronte alla carenza di materiali, negli anni difficili della dittatura fascista, Gucci si afferma come sinonimo di creatività e intraprendenza eccezionali. Con l’apertura delle boutique di Milano e New York, Gucci comincia ad affermarsi a livello globale, come simbolo del lusso contemporaneo. Guccio Gucci muore nel 1953, lasciando ai figli Aldo, Vasco, Ugo e Rodolfo l'attività paterna, i quali lanciano prodotti amatissimi dalle figure simbolo del periodo affermandosi per il suo design senza tempo. Gucci continua la sua espansione all’estero, con l’apertura di boutique a Londra, Palm Beach, Parigi e Beverly Hills. Verso la metà degli anni 60, la maison adotta il logo ormai leggendario della doppia “G” intrecciata. Nel 1970 Gucci prosegue il cammino dell’espansione globale, nel rispetto delle aspirazioni di Aldo, puntando all’Estremo Oriente: vengono aperte boutique a Tokyo e Hong Kong. La società amplia e diversifica la produzione, investendo nella ricerca di nuovi materiali di lusso e approcci innovativi al design che non mettano in discussione l’altissimo livello di qualità e manualità che contraddistingue il marchio. La federazione della stampa economica europea la nomina “Azienda europea dell’anno 1998” per la performance economica e finanziaria, la visione strategica e la qualità della gestione. Nel 1999, Gucci stringe un’alleanza strategica con Pinault-Printemps-Redoute e si trasforma da azienda mono-marca a gruppo multi-marca, aumentando la propria notorietà internazionale. Il sondaggio Nielsen Company 2007 nomina il marchio fiorentino il più desiderato tra quelli del settore del lusso; Frida Giannini, precedentemente Direttore Creativo per gli accessori, viene nominata unico Direttore Creativo per tutte le categorie di prodotto. Esplorando la ricchissima tradizione di Gucci e la sua incomparabile artigianalità, Frida Giannini ridefinisce la visione del marchio, coniugando passato e presente, storia e modernità. Oggi Gucci è sinonimo di artigianalità italiana, qualità eccellente ed eccezionale bellezza.

CASO PRADA

Prada Spa è una delle case di moda che fanno vanto al settore dell’abbigliamento italiano in tutto il mondo. La vita del prestigioso brand comincia nel lontano 1913, a Milano, per merito del mitico fondatore Mario Prada.

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Il 1978 segna una tappa importante per il marchio; spetta a Miuccia Prada, nipote di Mario, portare avanti l'azienda appena ereditata, facendola conoscere a livello internazionale e ampliare una produzione che fino a quel momento era stata dedicata esclusivamente al mercato del cuoio.Prada, ormai prossimo a diventare il brand fashion italiano più grande al mondo con i suoi 3,3 miliardi di ricavi (+29%), appena sotto Gucci (3,6 miliardi nel 2012). Un exploit in continua ascesa di anno in anno trainato soprattutto dal massiccio piano di opening che ha portato il gruppo a inaugurare 78 nuovi store e allargare il proprio network retail a 461 vetrine, con un balzo del canale monomarca del 36%. Da sempre Prada si è impegnata nella ricerca dei materiali e nell’innovazione di prodotto, il primo grande successo arrivò proprio grazie alla creatività nell'uso innovativo dei materiali, che le fece lanciare nel 1985 una linea semplice e moderna di borse di un nero lucido realizzate con il nylon dei paracadute. Negli anni comunque non ha mai smesso di innovare, cercando di differenziarsi dalle altre case di moda proponendo sempre uno stile ricercato e all’avanguardia pur mantenendo l’essenzialità delle forme alla ricerca di un sapiente mix di retrò e avanguardia. Due le lezioni importanti da cogliere da questo gigante del lusso Made in Italy:

diviene sempre più cruciale, alla luce dell’economia globalizzata in cui viviamo, aprirsi a nuove realtà e a culture diverse della nostra in uno scambio reciproco

importante usare la creatività per rielaborare i valori da cui si parte, mantenendo quanto di buono il passato ci lascia ma guardando costantemente al nuovo e al futuro.

CASO LUXOTTICA

Luxottica è leader nel design, nella produzione e distribuzione di occhiali di fascia alta, di lusso e sportivi. Grazie alla crescita realizzata in tutti i trimestri dell’anno, il fatturato netto dell’intero 2011 ha superato i 6,2 miliardi di Euro, ossia il livello più alto della storia di Luxottica, rispetto ai 5,8 miliardi di Euro del 2010. Con la solida crescita generata nel corso del 2011, il fatturato si è attestato a oltre 6,2 miliardi di euro con un utile netto di oltre 452 milioni di Euro, una solida presenza globale e oltre 65.000 dipendenti. Fondato nel 1961 da Leonardo Del Vecchio, il Gruppo è oggi una grande realtà che alla produzione di montature da vista, occhiali da sole e lenti, affianca un’estesa rete distributiva Wholesale e Retail. Il design, lo sviluppo e la realizzazione dei prodotti avvengono in sei stabilimenti produttivi in Italia, in due, interamente controllati, in Cina e in un impianto dedicato alla produzione di occhiali da sole sportivi negli Stati Uniti. Nel 2011 sono stati prodotti circa 64,5 milioni di pezzi. Noti in tutto il mondo, i prodotti di Luxottica si contraddistinguono per il design eccellente e l’elevata qualità. Il portafoglio marchi è forte e ben bilanciato: tra i marchi propri figurano infatti Ray-Ban, uno dei marchi di occhiali da sole più conosciuti a livello mondiale, Oakley, Vogue, Persol, Oliver Peoples, Arnette e REVO, mentre i marchi in licenza includono Bulgari, Burberry, Chanel, Coach, Dolce & Gabbana, Donna Karan, Polo Ralph Lauren, Paul Smith, Prada, Stella McCartney, Tiffany, Tory Burch, Versace e, dal 2013, Armani. La distribuzione wholesale tocca 139 paesi e 5 continenti e oltre 40 filiali commerciali, che consentono una presenza diretta nei mercati più importanti. L’esposizione ai mercati emergenti è in continua crescita. Nel 2011 il 46,3% del fatturato del Gruppo è stato generato dalla vendita di occhiali da vista e il 53,7% dalla vendita di occhiali da sole, con circa 1.400 modelli differenti.

Serena Murdocca8

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3° paragrafo “ Il settore dell’arredo- casa”

I prodotti dell'Arredo-casa che, come noto, rappresentano una delle "4 A" dell'eccellenza manifatturiera italiana, continuano ad essere oggi tra i più esportati dal nostro Paese, nonostante la concorrenza asiatica sia divenuta particolarmente aggressiva nell'ultimo decennio. Secondo l'Osservatorio Gea-Fondazione Edison, l'Italia si colloca nei primi tre posti al mondo tra i Paesi esportatori in tutti i 17 prodotti in cui è suddiviso statisticamente il settore mobili e lampade. E nel 2011 i mobili hanno contribuito alla bilancia commerciale italiana con l'estero con un surplus di 6,3 miliardi di euro. Sono soprattutto il design e la progettazione a giocare un ruolo fondamentale come fattore competitivo. Il successo attuale ha radici profonde. Il design italiano è nato negli anni 30 attorno alle grandi forniture di arredamento per le navi da crociera prima che per la produzione di beni di consumo. La capacità di operare in maniera flessibile, utilizzando tecnologie artigianali organizzate in maniera industriale, confrontandosi con designer, arredatori, stilisti o architetti di interni, ha contribuito alla nascita di quella particolare attitudine della piccola e media industria italiana a operare adattandosi a una committenza raffinata e a rispondere a esigenze funzionali diverse: dalle cabine ai ristoranti, dalle sale per lo spettacolo agli uffici di comando. È su questa base che si è sviluppata in Italia la produzione del contract , un settore di forniture per uffici, alberghi, teatri, ristoranti, che rappresenta oggi uno dei settori trainanti della nostra industria dell'arredamento. Rispetto alla definizione classica delle relazioni lineari tra progettista e committenza, il sistema del design italiano potrebbe sembrare dispersivo, ma deve essere apprezzato confrontandolo con le rigidità che in altri Paesi la produzione di beni di consumo ha incontrato con l'avvento dell'economia post-industriale, con il frazionamento dei mercati, nel confronto con la concorrenza globalizzata e con la necessità (che da questa deriva) di elaborare continue strategie di innovazione. Non è un caso, infatti, che negli ultimi decenni tutti i maggiori designer del mondo abbiano lavorato con industrie italiane: Ron Arad per Driade e Kartell; i fratelli Campana per Edra; Philippe Stark per Kartell, Flos e Alessi; Zaha Hadid per Serralunga, Cassina e B&B; Karim Rashid per Foscarini, solo per citarne alcuni. Nell'ultimo decennio il processo di internazionalizzazione si è consolidato. Gli effetti della globalizzazione si stanno quindi manifestando anche all'interno di questo delicato settore tecnico-culturale, con evidenti vantaggi di mercato ma anche con il pericolo (che già oggi si manifesta) che si possano trasferire settori importanti dei cicli manuali in Paesi produttivamente più favorevoli (come la Cina). Ma l'Italia ha un'arma segreta, ineguagliata: la sinergia tra industria e artigianato. La collaborazione vincente tra produzione e progettazione passa attraverso i centri prototipi, una sorta di laboratori artigianali interni alle industrie e integrati direttamente nel ciclo industriale. L'Italia è oggi l'unico paese europeo in cui è presente una consolidata tradizione di alto artigianato legato al design, al contrario di altri Paesi dove o è scomparso del tutto, o è rimasto legato alla produzione degli stili storici, o si è integrato passivamente nei cicli industriali, perdendo la propria caratteristica legata alla perfezione manuale e alla piccola serie. In questo contesto di collaborazione tra design e piccole e medie industrie, si è sviluppata una specifica tradizione italiana legata alla realizzazione di produzioni di piccole serie e di serie numerate. Queste tipologie produttive si sono intrecciate, a partire dagli anni 80, con il mercato delle gallerie di design e con il fenomeno del collezionismo internazionale e corrispondono oggi a una particolare strategia industriale volta a affrontare il frazionamento dei mercati, al fine di limitare i rischi della produzione di grandi numeri. Pionieri di

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questa strategia imprenditoriale sono state Azucena e Gavina, ma durante gli anni 80 molte importanti imprese hanno affiancato al loro marchio principale una collezione di prodotti più sperimentali destinati a cataloghi di complementi di arredo, a cominciare da Artemide con la sua collaborazione (esterna) con Memphis, a Cassina con Braccio di ferro e Zanotta con Zabro. La piccola serie e la serie numerata giungono poi a fungere da imprese pilota realizzando offerte avanzate che indicano alla produzione di grande serie nuovi percorsi merceologici e nuovi territori dell'immaginario, ma rispondendo anche alle necessità specifiche di piccoli mercati specializzati. Si possono ricordare casi tra loro opposti di piccole serie numerate, come Edra per alcune sedute dei fratelli Campana. La produzione di grande serie di prodotti di design in Italia è dunque costituita da oggetti che sono spesso il risultato di storie diverse e appartengono a differenti categorie merceologiche. Nel settore dell'arredamento queste storie diverse sono il risultato di molti fattori. Talvolta, il successo popolare premia un prodotto destinato inizialmente a una produzione limitata (come il City di Antonio Citterio per B&B, il Maralunga di Vico Magistretti per Cassina, lo sgabello Bombo di Giovannoni per Magis, le lampade Tizio di Richard Sapper per Artemide, prodotti in centinaia di migliaia di pezzi). Non sempre è il risultato di importanti investimenti in ricerca tecnica o di una approfondita analisi di mercato, ma spesso è frutto di intuizioni geniali di singoli designer. Ideazioni non programmate dunque per la grande serie, ma destinate quasi ai fuori serie: due categorie che nel design italiano sono sempre state molto vicine e spesso si sono scambiate di ruolo. In altre situazioni il successo commerciale è stato il risultato di geniali intuizioni strategiche come nel caso (primo in Europa) di Alessi che si è spostata dalla strumentazione domestica al regalo. Esemplare in questo senso la produzione Alessi di oggetti "animisti" di Stefano Giovannoni. Successi internazionali che confermano quanto il design sia la vera arma vincente del made in italy.

CASO ALESSI

In ottant’anni di storia (venne, infatti, fondata da Giovanni Alessi, un abile tornitore di metalli, ultimo di una lunga generazione di artigiani, nel 1921 a Omegna, paese sul lago d’Orta nelle Prealpi novaresi) la Alessi è diventata di diritto icona del design italiano nel mondo. Fulcro di questo successo l’aver saputo investire, mescolando da sempre il mondo dell’arte e quello dell’industria, sui nuovi talenti provenienti da ogni angolo del Pianeta. In otto decenni di vita l’azienda piemontese ha, infatti, messo a punto un catalogo di oggetti di una tale ricchezza e complessità che probabilmente non ha eguali nella storia del design italiano: oltre tremila articoli progettati da più di 500 designer. Un vero laboratorio della creatività che continua a sviluppare incessantemente nuovi progetti e sperimentare un range ampissimo di materiali: metalli, plastiche, legno, cristallo, porcellana e così via. La Alessi SpA occupa oggi circa 500 persone e la produzione del core business (cioè gli oggetti prodotti mediante stampaggio a freddo dei metalli) viene tuttora realizzata nello stabilimento di Crusinallo di Omegna con circa 7.500 pezzi prodotti al giorno. L’esportazione, che rappresenta i due terzi del fatturato, avviene in circa sessanta Paesi. L ’azienda, pur avvalendosi delle macchine e dell’alta tecnologia industriale, ha voluto preservare il valore aggiunto rappresentato dal lavoro artigianale, che svolge ancora un ruolo fondamentale all’interno del processo produttivo.

Ilaria Ierinò10

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4° paragrafo “Il settore agro-alimentare”

Il sistema agro-alimentare è costituito dall’insieme di settori che contribuiscono direttamente alla produzione, trasformazione ed elaborazione dei propri prodotti in generi alimentari. Nel corso degli ultimi anni il sistema agroalimentare mondiale ha dimostrato una buona capacità di sviluppo inteso come creazione e redistribuzione di ricchezza e creazione di occupazione. Per quanto riguarda il sistema agroalimentare italiano, è possibile osservare che nel 2011, l’export italiano di prodotti agroalimentari è cresciuto dell’8,5% , trainato soprattutto dalla domanda extra-Ue, e del 5,1% medio annuo nel periodo 2001-2011, più di quanto registrato dall’intero export italiano (+2,9%). Il valore delle esportazioni di prodotti agroalimentari italiani nel 2012 ha raggiunto un record storico con un valore di 31,8 miliardi di euro. Questo è quanto emerge da un’analisi della Coldiretti sulla base dei dati Istat relativi al commercio estero nel 2012 che confermano il ruolo trainante svolto da cibi e bevande Made in Italy sul mercato estero dove la crescita complessiva di prodotti agricoli, alimentari e bevande è stata del 5,4%. La maggior parte delle esportazioni interessa i Paesi dell’Unione europea per un valore stimato di oltre 23,3 miliardi di euro (+3%), ma il Made in Italy cresce anche negli Stati Uniti con 2,6 miliardi (+10%) e nei mercati asiatici dove si è avuto l’incremento maggiore, +21% (2,5 miliardi), secondo i dati relativi ai primi dieci mesi dell’anno. I prodotti agro-alimentari nazionali sono diventati un tratto distintivo della cultura italiana all’estero, rappresentando uno dei fattori di successo e di identificazione del Made in Italy. I prodotti tipici del made in Italy maggiormente esportati sono: vini e spumanti, che costituiscono il 22% del made in Italy agroalimentare,frutta fresca e secca,preparazioni di ortaggi, legumi e frutta,pasta,formaggi e latticini,olio d’oliva. Anche nel 2012 il prodotto più esportato si conferma il vino, con 4,5 miliardi (+7%) davanti all’ortofrutta fresca (3,9 miliardi di euro), che resta sostanzialmente stabile così come l’olio (1,2 miliardi). Aumenta invece la pasta, che rappresenta una voce importante del Made in Italy sulle tavole straniere con 2,1 miliardi (+7%). L’apprezzamento di questi prodotti deriva da elementi come la varietà e la qualità delle produzioni, dal legame con il territorio, dalla garanzia di provenienza, da aspetti nutrizionali e, non meno importante, dalla crescente affermazione della “dieta mediterranea” a livello internazionale. Questi fattori sono i tratti distintivi di una strategia di distinzione e di competitività basata sulla qualità, una scelta quasi “obbligata” del sistema agro-alimentare nazionale, caratterizzato da una struttura che difficilmente potrebbe permettere strategie alternative basate sulla crescita della produttività e/o sulla riduzione dei costi di produzione. È necessario evidenziare come tra i principali prodotti esportati, il gruppo dei prodotti trasformati Made in Italy concentra quasi la metà del valore totale delle esportazioni del settore, confermando come la riconoscibilità e la qualità della produzione nazionale siano degli aspetti cruciali su cui è basata la competitività del sistema agro-alimentare nazionale. La valorizzazione del variegato patrimonio agro-alimentare nazionale sui mercati esteri passa anche attraverso strategie di valorizzazione collettive, come la certificazione europea della tipicità, ovvero le Denominazioni di origine protetta (DOP) e le Indicazioni geografiche protette (IGP). L’Italia da questo punto di vista detiene la leadership europea, con 172 marchi riconosciuti, seguita dalla Francia, con 157 prodotti, e dalla Spagna (115 prodotti). Un terzo dei prodotti DOP e IGP italiani appartiene alla categoria merceologica di ortofrutta e cereali, seguita dai grassi e oli d’oliva (22,2%), formaggi (19,9%), prodotti a base di carne (17%) e altri (8,2%). L’Italia è uno dei principali esportatori mondiali di vino, se si considera che nel 2011 detenne una quota di mercato del 19,4% in valore, preceduta solo dalla Francia, ed è il primo esportatore in volume con il 23,5% delle esportazioni complessive. In gran parte, quindi, la specializzazione agricola italiana si concentra su prodotti che con l’internazionalizzazione delle economie e l’aumento degli scambi mondiali sono sempre più soggetti alla concorrenza estera (si

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pensi ai paesi del bacino del Mediterraneo per la frutta e gli agrumi).Il valore della produzione delle colture per le quali il nostro paese mostra una specializzazione ha avuto negli ultimi cinque anni una performance in alcuni casi positiva, in altri negativa (per ortaggi, uva e olio di oliva), ma sempre peggiore rispetto alla media europea. Sul lungo periodo, la produzione dell’industria alimentare italiana ha tuttavia mostrato una dinamica positiva, con un tasso di crescita medio annuo dal 2001 al 2011 dello 0,7%, rispetto al -1,8% segnato in parallelo dell’intero settore manifatturiero.

Ilaria Ierinò 5°Settori industriali italiani a confronto

Dopo esserci occupati delle nostre eccellenze, guardiamo ora l’economia italiana più da vicino, andando ad evidenziare come questa è andata mutando nel quadro delle esportazioni ed importazioni.L’industria italiana, penalizzata dalla domanda interna, ha subito nel 2012 una caduta del fatturatorispetto al 2011 pari al -5,3% a prezzi costanti. I livelli produttivi sono tornati, quindi, sui minimi del 2009,lasciando alcuni settori, come i produttori di beni durevoli e quelli più legati all’evoluzione dellecostruzioni, con un forte eccesso di capacità produttiva .

Il fatturato deflazionato nei diversi settori nel 2012( var. %)

Le esportazioni hanno evidenziato, tuttavia, la costante capacità delle imprese italiane di cogliere leopportunità presenti sui mercati internazionali. Favoriti in questa fase i settori più integrati nelle retiproduttive internazionali (farmaceutica e largo consumo) e attivi su un elevato numero di mercati(elettrotecnica e meccanica). Positiva e superiore alla media sarà anche l’evoluzione delleesportazioni di alimentare e bevande, le cui imprese stanno accrescendo velocemente la propriaproiezione internazionale per ovviare al prolungato deterioramento dei consumi interni .

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Evoluzione delle esportazioni a prezzi costanti per settore nel 2012 (va.%)

Secondo Prometeia, associazione che elabora previsioni sull'economia italiana ed internazionale, l’uscita dalla recessione sarà graduale e condizionata dal necessario processo di aggiustamento dei conti pubblici italiani. Nel prossimo biennio, l’industria italiana sperimenterà quindi un moderato recupero dei livelli produttivi (+1,4% nella media del biennio), più intenso nel 2014 (+2,3%) quando potrà beneficiare di migliori condizioni di domanda, sia in Italia che sui mercati esteri .

La crescita dei settori 2013-14 (var. % media annua a prezzi costanti)

I settori produttori di beni di consumo (Elettrodomestici, Mobili, Farmaceutica, Sistema Moda, Alimentare e Bevande), insieme ai produttori di beni destinati all’edilizia, continueranno a risentire della debolezza della domanda italiana e dei paesi europei, mostrando una ripresa più lenta. All’interno di questi settori, le imprese con una maggiore proiezione verso i paesi extra Ue e con un forte posizionamento in termini di qualità e contenuto innovativo dei prodotti potranno comunque godere, come già negli ultimi anni, di condizioni di mercato più favorevoli.Migliori prospettive di crescita saranno presenti nella meccanica, nell’elettronica, nei prodotti in metallo e nell’elettrotecnica, che beneficeranno di una lenta ripresa del ciclo degli investimenti destinati a sostenere

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la competitività del tessuto produttivo italiano (dall’ICT ai macchinari più innovativi) e, soprattutto, dell’elevata competitività di molti prodotti italiani sui mercati internazionali.Accanto a ciò c’è da dire che la recessione penalizza anche i conti delle imprese italiane. L’analisi di un ampio campione di bilanci relativi al 2011 evidenzia un peggioramento dei risultati aziendali, diffuso a tutte le classi dimensionali. I margini operativi lordi (in percentuale del fatturato) sono calati in tutti i settori, a eccezione dell’elettronica, del sistema moda e degli elettrodomestici, dove la forte ristrutturazione e selezione delle imprese negli ultimi anni ha portato a un miglioramento dei risultati medi.

La variazione dei margini operativi lordi nel 2011

Le imprese italiane, per sostenere il fatturato e le vendite estere, hanno attuato politiche di prezzo molto caute, accusando la forte volatilità dei costi delle materie prime e il prolungarsi di condizioni di debolezza della domanda. Proprio l’evoluzione positiva del fatturato ha, peraltro, consentito lo scorso anno di limitare la caduta del ROI (Return On Investment).In un contesto reso ancora più ancora più fragile dalle crescenti pressioni competitive, la forte contrazione del fatturato attestata per il 2012 ha ampliato il numero di imprese in difficoltà e accelerato il processo di selezione avviatosi negli ultimi anni.Maggiormente critica appare la situazione nei settori colpiti dalla contrazione della domanda interna edeuropea, come i già menzionati produttori di beni durevoli per la casa e i comparti legati in generale allecostruzioni, che saranno probabilmente caratterizzati da una riduzione della base produttiva nazionale.Pur in un periodo di forti difficoltà per l’industria italiana, non sono mancate, in tutti i settori manifatturieri, imprese capaci di raggiungere ottimi risultati, sia in termini di fatturato che di redditività. In particolare, da un’analisi condotta sempre da Prometeia, emerge un 10% di imprese che nel triennio 2009-11 sono state in grado di accrescere il fatturato a tassi particolarmente sostenuti (superiori al 35%), mantenendo un ottimo profilo finanziario (margini operativi lordi superiori di cinque volte agli oneri finanziari).Alcune strategie sono denominatore comune per queste imprese eccellenti. Si tratta di azioni volte arafforzare la capacità innovativa, l’efficienza organizzativa e produttiva, senza trascurare l’impattoambientale e l’attenzione al capitale umano. La dimensione e l’appartenenza ai diversi settori non precludono a priori il raggiungimento di risultati di eccellenza. Tuttavia, le aziende di maggiori dimensioni sono state in grado di gestire meglio delle piccole e piccolissime imprese i processi di internazionalizzazione commerciale e produttiva, evidenziando come tale strategia possa rivelarsi costosa e rischiosa se non supportata da adeguate dimensioni aziendali.Da questi esempi occorre ripartire per ridisegnare un’industria in grado di mantenere competitività e profittabilità nel difficile contesto economico dei prossimi anni.

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I settori meno competitivi

Alla luce di quanto emerso dalle statistiche appena esposte il settore delle costruzioni è tra quelli che ha registrato una variazione negativa circa l’evoluzione delle esportazioni. A conferma di ciò l’indice Istat della produzione totale nel settore delle costruzioni mostra una riduzione complessiva, dal 2007 al 2011, del 17,6% che si accentua ulteriormente nei primi mesi del 2012. Questo settore in forte crisi è penalizzato dalla drastica flessione della domanda immobiliare e dai sempre minori investimenti. Tutti gli indicatori settoriali disponibili danno evidenza della gravità della situazione del mercato con intensità di cadute simili a quelle registrate nel 2009 e cioè nella fase iniziale della crisi. Anche l’indagine condotta nell’ottobre scorso dall’Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili) presso le imprese associate conferma il progressivo deterioramento del quadro settoriale con una netta prevalenza dei giudizi negativi: il 73,7% delle aziende valuta bassa la consistenza del proprio portafoglio ordini contro il 24,3% che ne riscontra la normalità e il residuo 1,9% che la ritiene elevata. La consistenza degli ordinativi risulta in netto declino rispetto alle indagini effettuate nell’ottobre 2011 e nell’aprile 2012: la percentuale di imprese che dichiara insoddisfacente il proprio portafoglio ordini sale dal 63,4% al 67,5%, per collocarsi ad ottobre 2012 sul 73,7%. Anche le valutazioni per il 2013 sono tutt'altro che favorevoli: solo il 13,4% delle imprese ritiene che nel 2013 miglioreranno le prospettive di acquisizione di nuovi lavori, mentre per il 55,6% le attese sono orientate verso un peggioramento. Nel 2012 gli investimenti in costruzioni secondo l'Ance, registrano una flessione del 7,6% in termini reali che risulta più sostenuta di quella rilevata nel 2011 (-5,3%) e peggiorativa rispetto alla stima rilasciata nel giugno scorso (-6,0%).La crisi in atto ha già prodotto un ridimensionamento degli investimenti in costruzioni, nettamente superiore rispetto a quello determinato dalla crisi degli anni novanta. In cinque anni (2008-2012), in Italia il settore delle costruzioni ha perso oltre un quarto degli investimenti (-27,1% in termini reali). La crisi precedente aveva, invece, prodotto in un periodo più lungo, ovvero sette anni (1992-1998), una caduta degli investimenti in costruzioni di minore entità (-11,4%). Nel 2013, secondo l'Ance, proseguirà la fase di caduta con una riduzione degli investimenti in costruzioni del 3,8% in termini reali rispetto al 2012. In sei anni, dal 2008 al 2013, il settore avrà perso circa il 30% degli investimenti collocandosi sui livelli di attività più bassi degli ultimi 40 anni. Soffrono tutti i comparti: dalla produzione di nuove abitazioni, che in sei anni avrà perso il 54,2%, all’edilizia non residenziale privata, che segna una riduzione del 31,6%, alle opere pubbliche, che registrano una caduta del 42,9%. In quest’ultimo comparto il calo produttivo è in atto dal 2005 e complessivamente la flessione raggiunge il 49,5%. Solo il comparto della riqualificazione degli immobili residenziali mostra una tenuta dei livelli produttivi (+12,6%). Lo scenario formulato dall’Ance per il 2013 a giugno scorso rifletteva le aspettative di una interruzione della tendenza negativa che aveva caratterizzato l’evoluzione della produzione settoriale dal 2008 al 2012.

Altro caso di settore poco competitivo riguarda il settore dell’elettrodomestico. L’elettrodomestico, con i suoi 130 mila addetti, è il settore manifatturiero più importante d'Italia dopo l’automotive, ma rischia di scomparire. Secondo i dati dell’Osservatorio strategico Ceced Italia 2012 (l'associazione che riunisce oltre 100 produttori di elettrodomestici) solo in Italia dai 30 milioni di pezzi del 2002, la produzione di frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, forni e piani cottura è crollata a 15 milioni. La crisi ha costretto le famiglie a una drastica riduzione degli acquisti di elettrodomestici. In 4 anni la domanda finale è infatti crollata di quasi il 15%. E il calo dei volumi è stato costante e continuo: secondo i dati Fiom nel settore della refrigerazione si è passati dai 10 milioni di pezzi del 2002 ai 3 milioni del 2011; per le lavatrici dagli 8,6 milioni di pezzi del 2007 ai 4,5 milioni nel 2011. Dimezzati anche i volumi delle lavastoviglie: erano 3 milioni nel 2007, sono diventate 1,5 milioni nel 2011. Minore il calo registrato per piani cottura e forni: da 9,5 milioni a 7,5. Il trend negativo è determinato anche da un costo del lavoro sempre più alto. Secondo i dati del Ceced all’inizio degli anni 2000 il costo medio orario del lavoro nei Paesi competitori era inferiore del 20% di quello italiano. Ma allora l’elevata efficienza di fabbrica, le maggiori competenze e la qualità dei prodotti consentivano di compensare questo deficit. Oggi il costo medio per ora lavorata dei concorrenti è inferiore al 50% di quello italiano. Inoltre i Paesi in via di sviluppo hanno ridotto il gap di competenze organizzative e industriali nei confronti delle imprese italiane. In questa situazione, la produzione in Italia su larga scala è diventata economicamente non sostenibile per questo molte imprese hanno deciso di delocalizzare. Se 10 anni fa in

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Lombardia si poteva parlare di più poli dell’elettrodomestico, oggi sono quelli di Whirlpool e Candy gli unici superstiti. Ma per entrambi i brand la retrocessione è iniziata da tempo. Candy ha perso pezzi anno dopo anno: prima la chiusura dello stabilimento Zerowatt di Nese in provincia di Bergamo, della Gasfire (piani cottura) che da Erba è stata portata in Turchia. Una sofferenza che ha dimensioni transnazionali: nel 2008 erano 7.989 i dipendenti a livello globale, oggi sono 5.678, di cui 1.048 occupati negli stabilimenti italiani (erano 1.656 nel 2008).

Posca Giulia

Conclusioni16

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Giunti al termine del nostro elaborato è emerso che i settori produttori di beni di consumo, insieme ai produttori di beni destinati all’edilizia, oltre ad essere tra quelli che registrano una variazione percentuale negativa circa l’evoluzione delle esportazioni, continueranno a risentire della debolezza della domanda italiana e dei Paesi europei, mostrando una ripresa più lenta.

Nonostante la crisi che ha colpito tutti i settori, l’Italia come sistema Paese presenta dei deficit che se non corretti non faranno che aumentare tale situazione di stallo. Infatti, la performance italiana continua ad essere compromessa da alcune debolezze strutturali della sua economia quali:

Mercato del lavoro : alcuni dei punti deboli del sistema italiano sono la poca flessibilità nella determinazione dei salari, la complessità delle pratiche di assunzione e licenziamento e il leggero legame tra salari e produttività; inoltre, la scarsa partecipazione femminile alla forza lavoro non giova a tale situazione.

Istituzioni : è lo stato più preoccupante; corruzione, presenza di criminalità organizzata e mancanza di indipendenza del sistema giudiziario riducono la sicurezza degli investitori, scoraggiando l’avvio di nuove attività.

Infrastrutture : il punteggio relativo alla qualità di strade, porti e trasporto aereo non permette al nostri Paese di superare la metà classifica della qualità generale delle infrastrutture. Solo il settore ferroviario sembra salvarsi, così come la qualità delle linee telefoniche e della fornitura elettrica.

Mercato del credito : la stretta del credito che ha colpito anche l’Italia è sottolineata dalla difficoltà di accesso ai prestiti.

Accanto a questi problemi che potrebbero essere risolti( o quanto meno attutiti) tramite interventi statali, anche le imprese, dal canto loro, possono cercare di accrescere la propria competitività puntando su innovazione tecnologica, valorizzazione dei servizi del territorio ed internazionalizzazione delle imprese: sono queste in sintesi le linee direttrici, tra loro strettamente interrelate, di sviluppo sostenibile del modello economico italiano, lungo le quali gli strumenti di intervento pubblico possono e devono fornire uno specifico valore aggiunto in termini di indirizzo, sinergie e servizi.

In conclusione, il “Made in Italy” può ancora rappresentare un vantaggio competitivo, ma solo se ci si crede veramente e se si investe nei veri valori delle eccellenze Italiane, mantenendo un occhio di riguardo anche ad alcuni valori etici come la dignità dei lavoratori, tipico valore calpestato in alcuni Paesi emergenti. Se invece il popolo degli imprenditori Italiani intende fregiarsi del “Made in Italy” senza lavorare nella direzione di rafforzare il brand, allora il marchio perde valore per tutti.

I mezzi per recuperare la competitività esistono e non sono una chimera; facendo leva maggiormente sull’innovazione e sull’ internazionalizzazione possiamo tornare ad essere dei vincitori!

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brevetti, operatori con vendite all’estero e

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