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SegreteriaRosanna Gandolfi

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Associato all’USPIUnione StampaPeriodica Italiana

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RICERCHE STORICHE R. Gandolfi, I pittori socialisti reggiani tra Otto e Novecento ……… 7M. del Bue, Il dopoguerra nella stampa socialista reggiana ……… 41a. PetRucci, Notizie su Nilde Jotti e sull'Istituto magistrale “Principessa di Napoli” ………………… 53e. caMuRani, Giovanni Rossi e il “caso” Torricella nella corrispondenza di Ugo Rabbeno: una utopia laica …………………………………… 57c. coRGhi, Incontro a Montevideo con una intellettuale anarchica … 75G. BoccolaRi, Il socialismo massimalista a Reggio Emilia (1914-1924)tra “unitari”, “defensionisti” e “terzinternazionalisti” …………… 83

MATERIALIc. deMaRia, La biografia di Camillo Prampolini. Progetto di ricerca 103R. testi, Le Case del Popolo tra XIX e XX secolo: Camillo Prampolini e Massenzatico ……………………………………………………… 107

SCHEDAl. taMaGnini, Il fanta-Zavattini. I fumetti fantascientifici di Cesare Zavattini ………………………… 117

MEMORIAR. BeRtani, L’onomastica longobarda ed antica sassone (interpretazione assolutamente inedita) ……………………………………………… 123

NOTE E RASSEGNEa. PetRucci, Michail Vasil'evič Peetrasevsky e il suo circolo ……… 133a feRRaBoschi, Recensioni …………………………………………… 137

L’ALMANACCORASSEGNA DI STUDI STORICI E DI RICERCHE

SULLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

a. XXVIII, n. 53Giugno 2009

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RICERCASTORICA

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L’ALMANACCO, n. 53 2009

Pittori socialisti reggianitra Ottocento e Novecento

Rosanna Gandolfi

Questo breve saggio è dedicato a mio padre, Ivanno Gandolfi, che si appassionò per diversi anni, con curiosità ed entusiasmo, alla pitturae per tutta la vita, con dedizione e coerenza, al socialismo

Il contesto politico e sociale

Dopo l’Unità d’Italia la situazione politica, a livello nazionale, era piuttosto arida e poco organizzata. A Reggio e provincia, “nel 1860-70-80 non si

ebbero mai dei veri partiti organizzati, anche tra le forze che avevano ormai raggiunto un maggior grado di evidenza; [erano presenti per lo più] gruppi di potere o semplici gruppi di orientamento o di opinione: (…) un gruppo libe-rale e alcuni gruppi repubblicani e mazziniani”.1 Solo in seguito iniziarono a formarsi anche “gruppi di ispirazione socialista, dapprima di scuola interna-zionalista e romagnola (anarchica), poi di scuola mantovana (di derivazione mazziniana che si innestarono nel filone marxista) e infine di scuola autoctona che, pur mantenendo puntuali richiami al marxismo, [fu] una delle basi più salde del socialismo umanitario e riformista italiano”. 2 A livello sociale, nelle campagne di tutta la nazione, si viveva in un misto di “debolezza, disperazione, emigrazione”.3 Nella seconda metà dell’800 vi era in Italia “un debito pubblico di 14 miliardi e le più gravi tasse del mondo; [vi era mancanza] d’acqua, di case, di strade, di scuole, di tutto; (…) i contadini [morivano] ogni anno a migliaia di

1 S. Chesi, Ultimo ’800 a Reggio Emilia, Reggio Emilia, Editrice A.G.E., 1971, p. 152 G. Varini, Storia di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Moderna Editrice, 1968, p. 1943 A. Zavaroni, Tutti gli uomini di Camillo, Questione sociale e movimento cooperativo nel

reggiano dal 1880 al 1914, Reggio Emilia, Tecnostampa Edizioni, 1987, p. 9

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pellagra e i lavoratori, in genere, [emigravano] a centinaia di migliaia, cacciati dalla fame”.4 Reggio Emilia, a quell’epoca, era poco più di un borgo circondato di campi, dove numerosi abitanti del capoluogo “vivevano di una combinazione di carità, piccoli furti e frodi”.5 Nel 1870 la provincia aveva un’altissima percentuale di analfabetismo, pari all’81,9% della popolazione residente. Le difficili condizio-ni di vita in cui viveva la maggior parte dei cittadini era aggravata dalle scarse condizioni igieniche e dalle gravi carenze alimentari che portavano alla diffu-sione di pellagra, colera e vaiolo. Per combattere la povertà e per migliorare la qualità della vita, soprattutto dei contadini, che rappresentavano lo strato più debole e sfruttato della popolazione, tra il 1873 e il 1874, nella frazione reggia-na di Rivalta e a Casoni di Luzzara, vennero fondate le prime società cooperati-ve di consumo e risparmio; contemporaneamente, videro la luce anche le prime società di mutuo soccorso nel capoluogo e a Rolo, Boretto, Campagnola e Povi-glio. In quegli anni, iniziò a diffondersi nella provincia reggiana un socialismo umanitario che si rifaceva ad utopie anarchiche e a sogni internazionalisti. Si dovette attendere però una decina d’anni prima che un gruppo di anarco-co-munisti, che aderiva ad un socialismo di stampo più positivista, facesse uscire nel 1882 il settimanale Lo Scamiciato, attraverso il quale “il movimento ope-raio reggiano [trovò] per la prima volta una voce che [diede] espressione alle proprie rivendicazioni ed una guida che l’accompagnerà nelle battaglie alla conquista dell’emancipazione”.6 In quel periodo iniziò le pubblicazioni anche il quotidiano Reggio Nova, che oltre a sostenere la lotta allo sfruttamento del proletariato da parte dei proprietari terrieri e dei commercianti, promuoveva la cooperazione ed era favorevole alla partecipazione della donne alla vita politica e associativa della città. A quegli anni risalgono inoltre le prime lotte salariali: “alle agitazioni dei braccianti nella primavera dell’85 [seguì] un grande sciope-ro dei muratori a Reggio e in molte altre località a nord della via Emilia”.7 Nel 1886 uscì il primo numero del settimanale La Giustizia, fondato e diretto da Camillo Prampolini, giovane avvocato proveniente da famiglia conservatrice e cattolica che, dopo un’iniziale adesione al socialismo rivoluzionario, abbracciò in maniera convinta e definitiva posizioni più moderate e riformiste. Proprio “La Giustizia (...) segnò un nuovo passo avanti sulla via della diffusione del so-

4 C. Prampolini, Maledetta Africa!, in: R. Barazzoni, N. Ruini, Camillo Prampolini. Scritti e discorsi (1° vol.), Ed. Cassa di Risparmio di Reggio Emilia, 1981

5 S. Chesi, Ultimo ’800 a Reggio Emilia, Reggio Emilia, Editrice A.G.E., 1971, p. 106 M. Festanti, Camillo Prampolini e gli “scamiciati” nella rievocazione di Mario Pilo, in

“L’Almanacco”, n. 31, Reggio Emilia, Istituto Storico P. Marani, 2001, p. 57 G. Varini, Storia di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Moderna Editrice, 1968, p. 194

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cialismo. Prampolini capì che bisognava rompere la dura crosta della diffidenza contadina (…); andò quindi coi suoi compagni nelle borgate e nelle frazioni a tenere conferenze e propaganda spicciola, a distribuire volantini in italiano e dialetto”.8 I primi socialisti si trovarono a fronteggiare “l’enorme influenza del clero delle campagne, un clero oltretutto particolarmente conservatore e com-battivo che, alleato sempre dei moderati, non [tralasciava] di schierarsi a fianco degli agrari e della forza pubblica contro i contadini”.9 Per contrastare gli attacchi del clero i socialisti seguirono due principali diret-tive: l’utilizzo della satira e la graduale sostituzione di una nuova “religione socialista” alla vecchia religione tradizionale. Prampolini stesso, nel suo modo di fare politica, proponeva “un ingenuo e fiducioso messianesimo: il sociali-smo [veniva presentato come] l’unica strada per realizzare il regno di Dio”.10 Prampolini comprese che il sentimento religioso non faceva solo parte di una “secolare tradizione contadina”,11 ma scaturiva anche “da un’aspirazione di trascendenza e di identità che non si [poteva] né si [doveva] spegnere, ma si [poteva] e si [doveva] incanalare a nuovi sbocchi umani e morali”.12 Da questa idea nacquero i toni profetici con cui egli parlava alle masse, che gli valsero l’appellativo di “apostolo del socialismo”, e la famosa Predica di Natale che venne pubblicata negli anni successivi sulla Giustizia, nella quale Prampolini scrisse:

“Questo, o lavoratori, questo era il pensiero e questa fu la predicazione di Cristo. Un odio profondo per tutte le ingiustizie, per tutte le iniquità, un desiderio ardente di uguaglianza, di fratellanza, di pace e di benessere fra gli uomini; un bisogno irresisti-bile di lottare, di combattere per realizzare questo desiderio – ecco l'anima, l'essenza, la parte vera, santa del cristianesimo. (…) Sì, voi sarete con noi, voi lotterete tutti al nostro fianco, perché noi socialisti siamo oggi i soli e veri continuatori della grande rivoluzione sociale iniziata da Cristo”.13

A Reggio Emilia il socialismo assunse così il carattere di “una nuova religione

8 G. Badini, L. Serra, Storia di Reggio, Reggio Emilia, Ediarte, 1985, p. 2389 A. Secchi, Aspetti del socialismo emiliano attraverso il giornale “La Giustizia” (1900-

1904), tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, anno 1975-1976, p. 12610 S. Chesi, Ultimo ’800 a Reggio Emilia, Reggio Emilia, Editrice A.G.E., 1971, p. 12711 S. Carretti, Prampolini tra pacifismo e riformismo, in Prampolini e il socialismo riformi-

sta, Atti del Convegno di Reggio Emilia, ottobre 1978, vol. II, p. 13712 G. Zibordi, Saggio sulla storia del movimento operaio in Italia – Camillo Prampolini e

i lavoratori reggiani, Bari, 1930, p. 7113 C. Prampolini, La predica di Natale, pubblicata sul giornale “La Giustizia” di Reggio E.

del 24-25 dicembre 1897

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in grado di affratellare tutti gli uomini”, facendosi “interprete delle aspirazioni e dei bisogni delle masse rurali non solo a livello economico, con la rivendi-cazione di condizioni di vita migliori, ma a livello etico e culturale”.14 Intan-to, a livello nazionale, nel 1892, nacque ufficialmente a Genova il Partito dei Lavoratori Italiani (come venne inizialmente denominato il partito socialista). Esso poteva allora contare “su solo quattro aree forti in tutta Italia: il milanese, l’Emilia, la Romagna e la Sicilia”.15 Nel 1893 si svolse proprio a Reggio Emilia il I° congresso ufficiale del partito dopo la sua fondazione e fu proprio in occa-sione di questa assise nazionale che si realizzò la definizione di una “effettiva identità politico-partitica in senso dichiaratamente socialista”.16 Negli anni suc-cessivi si scatenò una grave crisi economica che provocò ovunque, compresa la provincia reggiana, una pesante carestia, cui si aggiunse, tra il 1897 e il 1898, un inverno particolarmente rigido. Forse fu anche a seguito di queste difficoltà che gravarono sulle fasce più deboli della popolazione, che l’anno successi-vo, nel 1899, i socialisti reggiani conquistarono il Comune e “cacciarono dal Consiglio comunale i rappresentanti dei padroni”.17 Da quel momento in poi il socialismo reggiano acquisì sempre maggior peso anche a livello nazionale, non solo grazie all’ispirata azione di Camillo Prampolini e a figure importanti che si susseguirono in quegli anni nel ruolo di sindaco della città capoluogo (l’avvocato Alberto Borciani, il pittore Gaetano Chierici, il ragioniere Luigi Roversi), ma anche a seguito dell’efficace azione organizzativa di uomini come Vegnanini, Zibordi, Storchi, Bellelli, Soglia e tanti altri che si dedicarono con grande impegno e generosità allo sviluppo del movimento operaio. Nei primi anni del Novecento, a Reggio Emilia vennero municipalizzati diversi servizi: l’acqua, la luce, il gas, le farmacie, il dazio, il macello. Vennero inoltre create l’Università Popolare e la Biblioteca Popolare e venne fondata la Camera del Lavoro “con propositi di un maggior coordinamento delle forze economiche cooperative reggiane”18 alla quale aderirono 30 cooperative di consumo con 3.224 soci e 44 cooperative del lavoro con 3.800 soci (fra queste le principali erano la Cooperativa muratori con 890 soci, la Cooperativa birocciai con 92, la

14 A. Secchi, Aspetti del socialismo emiliano attraverso il giornale “La Giustizia” (1900-1904), tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, anno 1975-1976, pp-135-138

15 N. Odescalchi, Adelmo Sichel, un sindaco socialista di fine Ottocento, in “L’Almanac-co”, n. 1, Istituto Storico P. Marani, Reggio Emilia, 1982, p. 34

16 M. Ridolfi, Il congresso di Reggio Emilia (1893). Identità, memoria e tradizioni nella storia del Psi, in “L’Almanacco”, n. 31, Istituto Storico “P. Marani”, Reggio Emilia, 2001, p. 33

17 A. Balletti, Storia di Reggio nell’Emilia narrata ai giovani, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 1997, p. 199

18 S. Chesi, Ultimo ’800 a Reggio Emilia, Reggio Emilia, Editrice A.G.E., 1971, p. 34

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Società braccianti con 920).19 In quegli anni vi fu un grande fermento di inizia-tive da parte dei socialisti che crearono nuovi punti di riferimento e di incontro per i cittadini, individuabili nelle cooperative, nelle scuole elettorali, nelle se-zioni di partito e nella stessa Camera del Lavoro locale.20 L’esperienza coope-rativa di Reggio Emilia rappresentava un’eccezione all’interno del movimento socialista italiano, che a livello ufficiale avallò in quegli anni la posizione critica del marxismo verso le cooperative, viste allora come uno strumento che portava all’imborghesimento del proletariato e che impediva agli operai di impegnarsi nelle lotte rivoluzionarie.21 Nel reggiano, invece, esse venivano considerate “un mezzo di redenzione economica e morale dei lavoratori”.22 Il crescente potere della cooperazione, unitamente alla politica di municipalizzazione dei più im-portanti servizi locali, provocò la forte reazione della destra politica provinciale che nel giro di pochi anni conquistò il potere. Nel 1904 i socialisti subirono una sconfitta elettorale così pesante da “creare una frattura all’interno del movimen-to operaio, frattura che provocò l’apertura al Fascismo all’inizio degli anni Ven-ti”.23 La vittoria della destra portò all’elezione quale sindaco di Reggio Emilia dell’avvocato Giusto Fulloni, che rappresentava l’Associazione per il Pubbli-co Bene (soprannominata sarcasticamente dai socialisti la “Grande Armata”), composta principalmente da imprenditori, commercianti ed esercenti. Sempre nel 1904, arrivò a Reggio il giornalista Giovanni Zibordi che divenne il nuovo direttore della Giustizia, al posto di Camillo Prampolini. Zibordi, nell’assumere l’incarico, definì Reggio “il principale laboratorio di vita socialista”.24 Nel 1906 il sindaco Fulloni si dimise e nuovo sindaco divenne, il 22 dicembre 1907, il ragioniere socialista Luigi Roversi. Nello stesso anno, una ricerca condotta dal francese De Saint-Cyr dimostrò, in base al numero dei soci delle cooperative messi in rapporto alla popolazione locale, che “il nuovo pensiero del socialismo italiano, la cooperazione, [si manifestò] a Reggio Emilia con maggiore intensità che in ogni altro centro”.25 Nel 1912 si tenne a Reggio un altro importante congresso del partito socialista, il XIII°, durante il quale ebbero il sopravvento le idee rivoluzionarie di Benito Mussolini che portarono all’espulsione dal partito dei riformisti cosiddetti “di

19 dati tratti dal giornale “La Giustizia” di Reggio Emilia del 21 settembre 190220 cfr con A. Secchi, Aspetti del socialismo emiliano attraverso il giornale “La Giustizia”

(1900-1904), tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, anno 1975-1976, p. 17321 cfr con P. Colliva, Camillo Prampolini e i lavoratori reggiani, Roma, 1958, p. 5122 articolo pubblicato sul giornale “La Giustizia” di Reggio Emilia l’8 febbraio 190323 A. Zavaroni, Tutti gli uomini di Camillo. Questione sociale e movimento cooperativo nel

reggiano dal 1880 al 1914, Reggio Emilia, Tecnostampa Edizioni, 1987, p. 13724 G. Badini, L. Serra, Storia di Reggio, Reggio Emilia, Ediarte, 1985, p. 24825 Ch. De Saint-Cry, La Haute-Italie: politique et sociale, Paris, 1908, p. 30

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destra”. A partire dal 1915 seguirono i durissimi anni della Prima Guerra Mon-diale, alla fine della quale anche nella provincia di Reggio si presentarono gra-vissimi problemi che affondavano le loro radici nel conflitto appena terminato o che da esso erano stati acuiti. Agli inizi degli anni Venti la mappa politica reg-giana era ancora caratterizzata da una forte presenza del partito socialista, che era radicato nel territorio con ben 140 sezioni e più di 10.000 iscritti. In quegli anni “le lotte interne del socialismo reggiano si fecero ogni giorno più aspre”.26 L’11 novembre del 1920 si costituì in città il primo fascio e nel 1921 i fascisti conquistarono il potere a Reggio e provincia, potere che si consolidò ulterior-mente nelle elezioni amministrative del maggio 1924. Nel 1925 Prampolini e Zibordi, che avevano subito un agguato da parte dei fascisti, si rifugiarono a Milano. Altri socialisti riformisti si trasferirono a Bologna o espatriarono verso la Francia. Nel 1929 scoppiò una gravissima crisi economica mondiale dalla quale derivarono forti tensioni all’interno dei singoli Stati e a livello interna-zionale, tensioni che poi sfociarono nella Seconda Guerra Mondiale. Seguì un periodo di enormi sacrifici anche per Reggio e provincia. Di fronte a tali gravi difficoltà la città seppe reagire con coraggio e dignità, rendendosi spesso pro-tagonista di atti di grande eroismo, in particolar modo dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Per questo motivo “al capoluogo reggiano, in rappresentanza dell’intera provincia, venne attribuita la medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, che fu consegnata ai suoi amministratori il 25 aprile 1950 personal-mente dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi”.27 Questo, a grandi linee, fu il contesto in cui si trovarono a vivere e ad operare i pittori reggiani che decisero, a cavallo tra il XIX e i XX secolo, di aderire all’ideale socialista rappresentato, nella loro città, soprattutto dal socialismo moderato, riformista e legalitario di Camillo Prampolini.

La pittura reggiana dell’epoca

Si parla solitamente di “pittura reggiana dell'Ottocento” in riferimento al perio-do che parte dal Neoclassicismo di Prospero Minghetti e arriva fino al Simboli-smo di Cirillo Manicardi e Lazzaro Pasini. Si utilizza invece il termine “pittori reggiani dell'Ottocento” per designare gli artisti che sono nati nel XIX secolo, ma che hanno realizzato buona parte delle loro opere nella prima metà del XX secolo. A Reggio Emilia l’arte pittorica nell’Ottocento era decisamente in ritar-

26 G. Varini, Storia di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Moderna Editrice, 1968, p. 20027 G. Badini, L. Serra, Storia di Reggio, Reggio Emilia, Ediarte, 1985, p. 287

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do rispetto ai grandi centri italiani ed europei, soprattutto per quanto riguarda l'evoluzione delle arti figurative. Il primo pittore ad introdurre delle innovazioni dal punto di vista stilistico fu Prospero Minghetti (1786-1853), il quale si staccò dalla pittura scenografica tradizionale del ’700, proponendo le idee e la poetica del Neoclassicismo, da lui conosciuto grazie ai viaggi di studio compiuti tra il 1807 e il 1818, che lo portarono dapprima a Bologna, poi a Firenze e a Roma.28 Alla scuola di Prospero Minghetti si formarono quegli artisti che rappresenta-rono l'ossatura portante dell'800 reggiano: Cosmo Cosmi (1802-1867), Luigi Casali Bassi (1805-1887), Carlo Zatti (1809-1899), Giovanni Fontanesi (1813-1875), Alfonso Chierici (1816-1873), Antonio Fontanesi (1818-1882) Dome-nico Pellizzi (1818-1874), Paolo Ferretti (1822-1904), Alessandro Prampolini (1823-1865), Gaetano Chierici (1838-1920), Alfonso Beccaluva (1839-1871) e tanti altri. Furono proprio questi allievi a tenere alta la ricerca artistica negli anni Trenta e Quaranta, in particolare Alfonso Chierici e Giovanni Fontanesi, che condivisero un lungo periodo di permanenza a Roma, dove ebbero modo di frequentare lo studio del fiammingo Verstappen. Alcuni di questi artisti, ap-profittando di borse di studio e pensioni elargite dalla comunità reggiana e da istituzioni benefiche (quali il Legato Sanguinetti e l'Istituto Ferrari-Bonini), poterono soggiornare in città d'arte, in particolare Firenze e Roma, nelle quali appresero nuovi indirizzi artistici ed importanti acquisizioni didattiche che poi riportarono nella loro città natale. A quell’epoca “il rapporto tra istituzioni e artisti si [strinse] in modi naturali nel momento in cui il problema della formazione dei giovani nelle discipline artistiche [venne] sentito come esigenza collettiva attorno a cui si [coagulava] l’impegno congiunto dell’autorità scolastica, del governo ducale, del potere lo-cale, a suggerire alla figura dell’artista – almeno in città piccole come Reggio Emilia nel secolo scorso – un ruolo riconosciuto e una pubblica utilità”.29 Stu-diarono a Roma anche Alessandro Prampolini, Alfonso Beccaluva e Gaetano Chierici (nipote di Alfonso). Quest’ultimo fu considerato da subito un grande talento e divenne famoso nel mondo grazie soprattutto ai preziosi quadri del suo terzo periodo, quello del realismo ironico e bonario, nelle cui scenette di vita domestica traspare la ricerca della felicità tra le cose semplici del quotidiano. Negli ultimi due decenni dell’Ottocento si sviluppò “l’attenzione per il vero [in un periodo in cui] le classi subalterne si [organizzavano rivendicando] il loro

28 Cfr. E. Farioli, La pittura dell’ottocento a Reggio Emilia, in: M. Mussini (a cura di), La galleria Antonio Fontanesi nei Musei Civici di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 1998, p. 142

29 Ibidem, p. 141

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diritto a migliori condizioni di lavoro e di vita, e la parte più avanzata degli intellettuali [accolse], in parte o del tutto, le loro aspirazioni”.30 A Reggio Emilia, fu preziosa la presenza della Regia Scuola di Disegno per Operai, attorno alla quale gravitarono “artisti ed intellettuali democratici che unirono alla loro attività ufficiale di pittori o insegnanti la collaborazione, per lo più anonima, alle testate repubblicane e radicali reggiane”.31 Gaetano Chierici, che dal 1882 divenne insegnante proprio all’interno della locale Scuola di Dise-gno, pubblicò suoi disegni con scritte e note all’interno della Cronaca, un foglio reggiano repubblicano-democratico, anticlericale e schierato a fianco dei primi socialisti che, pur non essendo ancora ufficialmente nato il partito, si presenta-rono alle elezioni del 1884. Il giornale vide avvicendarsi diversi illustratori di grande valore, molti dei quali diplomatisi proprio alla Reale Scuola di Disegno per Operai di Reggio e accomunati dalla fede democratica e socialista. Alcuni erano stati allievi dello stesso Chierici, come Lazzaro Pasini (1861-1949) e Cirillo Manicardi (1856-1925). Pasini, attratto dalla pittura di macchiaioli, divi-sionisti e impressionisti, seguì strade che lo portarono prima a Firenze poi a Mi-lano, dove si stabilì definitivamente. Manicardi fu il successore di Chierici nella Scuola di Disegno per Operai ed ebbe per allievi quei pittori, come Augusto Mussini (1870-1918), Romeo Costetti (1871-1957), Giovanni Costetti (1874-1949) e Ottorino Davoli (1888-1945), che con la loro arte contrassegnarono il passaggio dalla pittura reggiana dell’800 a quella del ’900. Altro allievo di Chierici dalla forte personalità fu Giuseppe Tirelli (1859-1931), che, come il suo fraterno amico Manicardi, completò la formazione artistica a Firenze, dove conobbe e amò l'impressionismo, prima di dedicarsi completa-mente alla pratica divisionista che utilizzò per raffigurare soprattutto la campa-gna reggiana, suo soggetto preferito. Ottorino Davoli studiò, invece, a Milano e quando tornò a Reggio Emilia, divenne il successore di Cirillo Manicardi alla guida della locale Scuola d'Arte. In questo ampio panorama di artisti, ve ne furono diversi che si sentirono vicini al socialismo prampoliniano; di questi, al-cuni vi aderirono apertamente, dedicandosi alla politica in maniera attiva, come per esempio Gaetano Chierici, Cirillo Manicardi, Augusto Mussini e Anselmo Govi. Questi pittori si distinsero, oltre che per l’impegno sociale e politico, anche per il loro essere persone umili, votate ad un’esistenza semplice e mori-

30 G. Ginex, Aspetti del verismo sociale e di grafica politica nella stampa democratica e socialista reggiana (1883-1913), in Gli anni delLa Giustizia. Movimento operaio e società a Reggio Emilia (1886-1925), Reggio Emilia, Tipolitografia Emiliana, 1987, p. 211

31 Ibidem, p. 212

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gerata, di stampo quasi contadino; e “forse per questo modo, questa eticità nel condurre la vita essi scelsero una precisa militanza politica, commossi seguaci, quasi tutti, del socialismo; [e furono] iscritti (…) al partito di un’antica e mode-rata ragione anziché a quello della rivolta”.32

I principali pittori socialisti reggiani tra Otto e Novecento

Tra i pittori reggiani che vissero e operarono tra fine Ottocento e prima metà del Novecento ve ne furono diversi che aderirono al socialismo. Tra loro vi fu chi si impegnò direttamente in politica, (come Gaetano Chierici, che fu eletto consigliere comunale nel 1899 e ricoprì anche la carica di sindaco di Reggio tra il 1900 e il 1902, e Augusto Mussini, anch’egli eletto consigliere per il Partito Socialista, nel 1896) e chi si avvicinò alle tematiche care al socialismo indiret-tamente, tramite l’impegno espresso attraverso la propria opera pittorica (come fece soprattutto Lazzaro Pasini). Di seguito vengono riportate le principali note biografiche dei pittori per i quali è stato possibile trovare un riscontro certo del loro attivismo politico o, quanto meno, delle loro manifeste simpatie verso la causa socialista.

Gaetano Chierici (1838-1920) – Nacque il 1° luglio 1838 a Villa Mancasale, una frazione di Reggio Emilia, da Luigi e Anna Cattini. Tra il 1852 e il 1857 frequentò prima la Scuola di Belle Arti di Reggio, vivendo da vicino le vicende artistiche di Prospero Minghetti e dello zio Alfonso Chierici, quindi l’Acca-demia d’Arte di Modena. Dopo un breve soggiorno a Bologna, ottenne una borsa di studio dalla Fondazione Ferrari Bonini e si trasferì a Firenze, dove rimase alcuni anni. Nel capoluogo toscano il pittore non giunse solo: in un paese della montagna modenese aveva conosciuto una giovane di appena sedici anni, Maria Mazzieri, “bellissima, non colta ma dotata di notevole intelligenza e sensibilità”33, con la quale si sposò ed ebbe nove figli, nonostante la prematura morte della donna a soli 35 anni. Chierici divenne socio di numerose Accade-mie (Modena, Firenze, Urbino, Milano, Parma, Ferrara) e vinse medaglie d’oro e riconoscimenti in varie esposizioni italiane e straniere, tra cui quelle di Vien-na, Liverpool e Parigi. Nel 1866 realizzò il suo sogno di tornare ad abitare a Reggio: acquistò per sé e la sua famiglia un’ampia e tranquilla casa nella piazza

32 G. Berti, T. Storchi, N. Squarza, Mostra di Anselmo Govi, Reggio Emilia, Tipolitografia Emiliana, 1980, p.19

33 G. Morselli, La pittura di Gaetano Chierici (1838-1920), Reggio Emilia, Tipolitografia Emiliana, 1964

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di S. Maria Maddalena (l’attuale piazza Antonio Fontanesi). Verso la fine degli anni Sessanta “si specializzò nell’esecuzione di scene di genere, pervase da un verismo intimista e da una piacevole vena aneddotica riferita alla sfera familia-re che faceva dei bambini e delle bestiole domestiche i protagonisti indiscussi dei suoi dipinti. Le scene di gustosa allegria domestica si [svolgevano] quasi esclusivamente in interni, che l’artista [descrisse] in modo minuzioso, ricolle-gandosi alla tradizione realista olandese. Attraverso la descrizione di ambienti di grande povertà ma caratterizzati da una forte dignità, denunciava inoltre le difficoltà in cui versava una gran parte della popolazione, in sintonia con la sua adesione al socialismo”.34 Nel 1873 fu nominato da Vittorio Emanuele II “Ca-valiere dell’ordine della Corona d’Italia”; tra il 1875 e il 1881 prese parte alle mostre internazionali di Bruxelles, Anversa, Liverpool, Vienna, Monaco, Parigi e Londra, riscuotendo un grande successo. Rispetto alla sua pittura, da taluni ammirata e da altri criticata, Chierici diceva: “ma io non ho voluto che parlare all’anima della gente semplice, esprimendo i sentimenti naturali, per mezzo di scene, quali nelle famiglie accadono quotidianamente”.35 Il 14 dicembre 1882, Chierici succedette a Romualdo Belloli alla guida della Scuola di Belle Arti, che venne poi trasformata in Regia Scuola di Disegno per gli Operai. Sotto la sua guida crebbero artisti importanti quali Cirillo Manicar-di, Augusto Mussini, Rina Ferrari, Ottorino Davoli, Lazzaro Pasini, Riccardo Secchi, Giovanni e Romeo Costetti, Enrico Prampolini. La fortunata carriera di ricercato artista internazionale e l’attività di pittore impegnato nell’esecu-zione di numerose opere non sottrassero Chierici a un forte impegno civile e culturale. Oltre ad interessarsi personalmente alla costituzione di una Pinaco-teca pubblica, che proprio grazie al suo contributo venne alloggiata presso la Scuola d’Arte al Palazzo di San Francesco, fu sempre attento a fornire sostegno e massima assistenza alla formazione dei suoi giovani studenti. In quegli anni divenne, inoltre, intimo amico di Camillo Prampolini, di Luigi Roversi e di altri esponenti della sinistra reggiana. Nel 1889 chiese al Ministero un congedo di tre mesi per recarsi in Africa, dove intendeva effettuare la colonizzazione agri-cola dell’Eritrea e la costruzione di una “Nuova Reggio”. Partì insieme ad altri quattro concittadini: suo nipote Goffredo Chierici, il capitano Vincenzo Ferrari, il medico Giovanni Bandieri, l’ingegnere Angelo Spallanzani. La spedizione non ebbe esito positivo: Gaetano Chierici si ruppe quasi subito una gamba in seguito ad un incidente a cavallo; le coltivazioni che i suoi compagni d’avven-

34 M. Mussini, M. Festanti (a cura di), La raccolta Monducci. Nuove acquisizioni della Fondazione Manodori, Reggio Emilia, 2008, pp. 40-41

35 Articolo di G. Zibordi pubblicato sul giornale “Avanti!” l’8 febbraio 1920

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ture riuscirono comunque ad impiantare vennero devastate dalle cavallette e dalle piogge improvvise; gradualmente tutti i componenti della spedizione si ammalarono e il dottor Bandieri morì tra le braccia del nipote di Chierici. Si chiuse così, tragicamente, la missione. Al rientro dall’Africa, “l’adesione al socialismo prampoliniano spinse il Chie-rici ad impegnarsi direttamente nell’attività politica [tanto che], nel 1891, il suo nome [figurava] tra i candidati della lista di minoranza radical-democrati-ca”.36 Alle elezioni amministrative nel 1893 il partito socialista si presentò per la prima volta con una lista ed un programma autonomi. Gaetano Chierici era il candidato socialista per il Consiglio Provinciale nel mandamento Reggio-città. Con le elezioni amministrative del 3 dicembre 1899 i socialisti conquistarono per la prima volta il Comune di Reggio. Tra i consiglieri c’era anche Gaeta-no Chierici, il quale, nella seduta del 7 dicembre 1900, venne nominato – a larghissimo suffragio – sindaco di Reggio. Sostituì il dimissionario avvocato Alberto Borciani, che nel frattempo era stato eletto deputato. Egli portò avanti, contestualmente all’impegno politico, anche l’attività pittorica, trasmettendo attraverso le sue opere “il senso della storia, nel momento in cui si penetra la coscienza di un orizzonte culturale, di una sensibilità collettiva, di un’avvertita necessità di documentare se stessi nello spessore dello spazio tempo”.37 Chie-rici si dimostrò sempre artista molto umile, come si evince dalla lettera inviata il 10 marzo 1899 al critico d’arte Gutierez Diaz, che lo aveva interpellato per scrivere un articolo su di lui:

“… egregio signore io temo che nonostante la sua ben nota competenza e il suo illu-minato intelletto di critico d’arte, la pochezza della mia arte renderà ben difficile il suo compito. (…) A Firenze, nei primi passi della mia carriera (…) mi chiamavano ‘il quadraio’, volendo con ciò dire che la mia pittura era esclusivamente lavoro materiale di pennello o, come dicevano, di groppa. Di questo epiteto, nonostante si volesse di-spregiativo, io me ne tenevo onorato perché, dopo tutto, per me che ero ben lontano dal presumermi artista, era una patente di lavoratore della quale mi compiacevo per-ché lavoratore lo ero davvero come lo sono tuttora a dispetto delle sessanta primavere che porto sulle spalle.”38

In quegli anni la vita politica era attraversata da accese battaglie politiche e

36 Gaetano Chierici. Pittore, Mostra documentaria 8 marzo/19 aprile 1986, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia

37 E. Monducci (a cura di), Gaetano Chierici (1838-1920). Mostra antologica, Reggio Emilia, Tipolitografia Emiliana, 1986, p. 47

38 G. Morselli, La pittura di Gaetano Chierici (1838-1920), Reggio Emilia, Tipolitografia Emiliana, 1964

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spesso l’aula consiliare del Comune di Reggio risuonava di vivaci dibattiti che ancor oggi conservano in gran parte la loro attualità e che avevano per tema l’organizzazione dei servizi farmaceutici, lo sviluppo dell’edilizia scolastica, la pubblica beneficenza, l’assunzione di personale, i sussidi ai corsi serali per adulti e altri temi riguardanti i servizi pubblici da offrire ai cittadini. È appunto su questi argomenti che nell’estate del 1901 si manifestò un profondo contra-sto fra l’Amministrazione comunale, retta da Chierici, e la Giunta Provinciale Amministrativa, a causa delle modifiche apportata da quest’ultima al bilancio preventivo. Nella seduta del 9 luglio la maggioranza socialista, dopo un am-pio dibattito, decise di dimettersi in segno di protesta e, l’indomani, il Sindaco Chierici inviò al Prefetto una lettera in cui rassegnava le dimissioni. Quando, quattro mesi dopo, il Consiglio Comunale, sotto la presidenza del consigliere anziano avvocato Alessandro Cocchi, si riunì nuovamente per procedere al-l’elezione del Sindaco, Chierici riportò l’unanimità dei suffragi: 31 voti su 32. Riconfermato, conservò la carica per un altro anno, finché il 7 novembre 1902, chiese di esserne dispensato per “imperiose ragioni professionali”.39 Il 6 dicem-bre, dopo infruttuose insistenze, il Consiglio comunale ratificò le dimissioni. Il giornale satirico Cirano di Bergerac commentò la notizia “con un disegno ca-ricaturale che raffigurava il nuovo sindaco, Luigi Roversi, mentre si innalzava su un pallone aerostatico gonfiato dai principali esponenti socialisti, mentre il Chierici, con il pallone sgonfio, cadeva a terra”.40 Successivamente egli riprese il ruolo di direttore della Scuola di Disegno. Le linee guida della sua didattica “mirante a collegare la scuola con le istituzioni museali (…) si rivelarono di una sorprendente modernità (…) e si collegavano con la statura del politico, stimato ed apprezzato per le sue idee socialiste che lo portarono fra l’altro ad istituire un corso serale di disegno per operai ed artigiani, che non potevano frequentare di giorno”.41

Negli anni della Grande Guerra, il fisico vigoroso del pittore venne minato da un male inesorabile, la paralisi progressiva, che per quasi un ventennio rese sempre più penoso il suo procedere verso la fine. Nonostante i problemi di sa-lute, la sua autorità era tale che non gli venne permesso di invecchiare in pace. La Scuola d’Arte gli chiese di continuare a fare il direttore, anche se le effettive funzioni vennero in realtà svolte da Cirillo Manicardi. Alla Giunta comuna-

39 Gaetano Chierici. Pittore, Mostra documentaria 8 marzo/19 aprile 1986, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia

40 Ibidem41 A. Marzi, Gaetano Chierici: un pittore alla guida di Reggio. Radiografia di un direttore

e di un politico, in “L’Almanacco”, n. 16, Reggio Emilia, Istituto Storico P. Marani, 1990, p. 19

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le, che all’indomani delle sue dimissioni da Sindaco cercò di farlo recedere dai suoi propositi, assicurò di continuare “a portare nell’ambito del Consiglio comunale il [suo] tributo di cittadino e di compagno”.42 Immobilizzato su una poltrona, divenne però ben presto incapace di sostenere anche solo la matita che aveva sempre maneggiato con magistrale destrezza. La morte lo raggiunse il 16 gennaio 1920, nella sua casa posta in quella piazza che lui stesso, mentre era sindaco, aveva voluto fosse intitolata al pittore reggiano Antonio Fontanesi. Nei suoi ultimi istanti di vita Chierici fu assistito da alcuni intimi, tra cui l’ono-revole Camillo Prampolini e il professore Naborre Campanini. Il Comune assunse a proprio carico le onoranze funebri, facendo in modo che la salma fosse collocata nella tomba degli uomini illustri nel Cimitero suburbano. Il Ministero dell’Istruzione decretò l’intitolazione a suo nome della Scuola di Disegno. A Chierici venne inoltre tributata grande stima anche da parte dagli avversari politici per la sua rettitudine di amministratore, come testimoniato da un significativo e cavalleresco riconoscimento pubblicato sul quotidiano del Partito Popolare, L’Era Nuova, il 18 gennaio 1920:

“Come sindaco di Reggio si fece amare specialmente dagli umili, dai dimenticati cui prodigò se stesso nelle forme che le sue idee e le sue convinzioni gli suggerivano. Ma il Chierici, sebbene socialista, fu anche a capo dell’Amministrazione del Tempio della Ghiara, e ricordiamo con compiacenza che Egli, quale presidente durante le indimen-ticabili feste centenarie, diede tutto il suo zelo di cittadino, tutto il suo amore per l’arte a che il Tempio, dedicato alla Madre di Dio, ritornasse al suo antico splendore e fosse degno monumento della fede degli antichi avi…”43

E così volle ricordarlo sull’Avanti! Giovanni Zibordi:

“[Chierici] fu un ottimista, che sentì ed amò il popolo, che ne immortalò i semplici affetti e le scene famigliari nelle sue tele, che ne comprese e ne divise le speranze e le lotte, militando da quando sorse il nostro Partito, e fino alla morte, nelle nostre file, e tenendone degnamente e fermamente incarichi ed uffici; (…) trasse dalla vita della povera gente campagnola la inspirazione di pitture stupende di naturalezza, di espres-sione, e di una minima filosofia; (…) il suo nome resta legato soprattutto a questi quadretti di realtà intime, in cui espresse la poesia degli uomini e delle cose piccole ed umili, infondendovi la grandezza e la nobiltà del suo spirito sereno e profondamente umano; (…) E il popolo lo amava,. lo sentiva suo, lo ricordava sindaco socialista dei

42 A. Marzi, Gaetano Chierici: un pittore alla guida di Reggio. Radiografia di un direttore e di un politico, in “L’Almanacco”, n. 16, Reggio E., Istituto P. Marani, 1990, p. 20

43 G. Morselli, La pittura di Gaetano Chierici (19838-1920), Reggio Emilia, Tipolitografia Emiliana, 1964

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primi tempi del conquistato Comune, candidato politico nel 1892, combattente saldo ed energico e fiero quando occorreva. Giacché, contrariamente a ciò che potrebbe credersi guardando la sua arte, inspirata ai diseredati, ma ottimista, egli non fu solo un socialista umanitario, ma fu partecipe consapevole e fermo delle nostre lotte, coope-ratore fervente fin dai primordi, (…) amministratore saggio, avveduto, appassionato, operoso”.44

Pier Giacinto Terrachini (1853-1935)45 – Nacque il 14 settembre 1853 a Rio Saliceto, in provincia di Reggio Emilia, da Tommaso e Flora Brunetti. Dal 1869 al 1872 frequentò il Reale Istituto Tecnico di Reggio Emilia, ottenendo la qualifica professionale di perito-geometra, anche se in seguito fu conosciuto soprattutto come ingegnere o architetto. Terrachini fu un esponente dell’archi-tettura Liberty reggiana e realizzò imponenti edifici, soprattutto nei paesi della provincia (in particolar modo a Correggio e Rio Saliceto). Ottimo disegnatore, fu un progettista instancabile, a tal punto che molte delle sue opere non furono mai realizzate, rimanendo sulla carta a testimonianza del suo estro compositivo che lo qualifica come uno dei personaggi più importanti e interessanti della storia dell’architettura reggiana tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento,Quando non era impegnato a produrre progetti per l’architettura, Terrachini si dilettava a disegnare volti e busti di donna, oltre che a produrre simpatiche ca-ricature di chiara connotazione socialista ed anticlericale. Dalla sua matita usci-rono anche disegni di mobili, cancelli, decorazioni, inferriate. Il suo linguaggio progettuale era fantasioso, originale, eclettico. Contemporaneamente all’attivi-tà professionale egli si impegnò anche a livello politico. Nel 1874 venne eletto consigliere comunale a Rio Saliceto e nel 1878 assunse la carica di assessore. Nel 1881 fece parte del comitato promotore della locale Società Operaia di Mu-tuo Soccorso. Si sposò nel 1862 con la contessa Maria Teresa Malaguzzi Valeri, la quale lasciò la città di Reggio, dove aveva vissuto fino ad allora, per essergli al fianco a Rio Saliceto. Dalla loro unione nacquero quattro figli: Bruno, Arnaldo, Bruto e Flora. La forte originalità creativa di Pier Giacinto fu trasmessa ai figli Bruno (che però

44 articolo pubblicato sul giornale “Avanti!” l’8 febbraio 192045 P. G. Terrachini, pur essendo noto soprattutto come architetto più che come disegnatore-

pittore, viene qui brevemente ricordato sia in quanto padre dello scultore-caricaturista Bruto Terrachini, di cui si tratterà in seguito, sia quale primo sindaco socialista di Rio Saliceto, piccolo centro della bassa reggiana; le notizie biografiche su Terrachini sono tratte dal volume: Pier Giacinto e Bruto Terrachini, Assessorato alla Cultura del Comu-ne di Correggio (RE), 2000

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morì giovane) e Bruto, che divenne un abile scultore-caricaturista. Dal 1883 al 1889, prima di trasferirsi con la famiglia a Correggio, Terrachini ricoprì la carica di sindaco di Rio Saliceto. Il 1° gennaio 1890 venne eletto membro ef-fettivo della Giunta Provinciale Amministrativa di Reggio Emilia. Dal 1909 al 1910 divenne nuovamente sindaco di Rio Saliceto, in quest’occasione quale candidato dal partito socialista. Morì il 3 agosto 1935, all’età di 82 anni, a San Martino di Correggio.

Cirillo Manicardi (1856-1925) – Nacque il 9 dicembre a Villa Massenzati-co da Biagio “modesto ma stimato cascinaio”46 e da Margherita Bertani. Nel 1873 Manicardi si iscrisse alla Scuola di Disegno diretta dall’incisore Romual-do Belloli. In quello stesso anno produsse un’opera dal titolo Il lavoratore che rappresentava una “dichiarazione di amicizia dell’artista diciassettenne per i lavoratori veri, quelli che non entravano nelle accademie d’arte, con i loro corpi miseri e consunti, segnati dalla fame”.47 Diplomatosi a Reggio nel 1876, iniziò nello stesso anno a frequentare, presso l’Istituto delle Belle Arti di Modena, il Corso Speciale di Figura. Nel 1878 espose a Reggio alcuni lavori, quindi andò a Firenze per perfezionarsi e lì rimase fino al 1882, grazie ad un sussidio ottenuto dall’Istituto Ferrari Bonini. Nel 1884 presentò all’Esposizione Nazionale di To-rino il dipinto Così va il mondo, che ottenne un notevole successo. Il quadro venne poi donato, in segno di riconoscenza per il sostegno ricevu-to, all’Istituto Ferrari Bonini che concesse al pittore un sussidio straordinario, utilizzato da Manicardi per recarsi, nel 1887, a Parigi, dove frequentò l’Acca-demia delle Belle Arti. Nella capitale francese si fermò tre mesi, poi rientrò a Reggio dove ricevette onori e attestazioni accademiche. Una fase realmente nuova nella cultura artistica di Manicardi si inaugurò soltanto dopo il rientro definitivo a Reggio e “in parallelo con la militanza nelle file socialiste accanto a Camillo Prampolini, il cui programma politico, anziché con la lotta violenta, prevedeva un progressivo cambiamento delle condizioni del proletariato attra-verso la diffusione della cultura e la partecipazione ad imprese economiche cooperative. (…) Nell’ideologia del socialismo prampoliniana, a cui Manicardi aderiva, (…) doveva essere lo spirito di solidarietà e fratellanza propri della predicazione evangelica ad ispirare l’azione per promuovere la trasformazione delle condizioni materiali e morali delle classi popolari”.48 In un periodo in cui

46 A. Davoli, Cirillo Manicardi. Pittore reggiano dell’ultimo ’800, Reggio E., Stabilimento Tipografico Adorni, 1938, p. 7

47 Cirillo Manicardi - Soffiate su quei fuochi amici.., Reggio Emilia, Camera del Lavoro Territoriale CGIL – Coop Nordemilia, Centro Stampa, 1989, p. 7

48 M. Mussini (a cura di), Cirillo Manicardi. Un artista fin du siècle, Reggio Emilia, Edi-zioni Diabasis, 1993, p. 21

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“il socialismo voleva significare solo legittima elevazione morale e materiale del popolo, e non già intransigente lotta di classe per sovvertire ordini ed isti-tuzioni, anche Manicardi fu socialista. L’origine campagnola e modesta e certo più il suo spirito aperto all’amore fraterno, furono le cause che lo legarono per molti anni al partito”.49

Partendo dalla pittura di genere di Gaetano Chierici, che riproduceva gli aspetti affettivi ed intimi della vita quotidiana delle persone più povere ed umili, Ciril-lo Manicardi approdò, agli inizi degli anni Ottanta, ad opere “di intensa parteci-pazione alle vicende degli umili e dei sofferenti e a soluzioni stilistiche di ferma restituzione della realtà, in cui non era possibile non cogliere il rapporto con la situazione politica reggiana, che [vide] proprio in [quegli] anni l’affermazione degli ideali socialisti tramite l’attività della carismatica figura di Camillo Pram-polini”.50 Rispetto all’illustre precedente di Chierici, Manicardi introdusse nella sua arte notevoli differenze che segnarono il passaggio dalla pittura di genere alla pittura sociale. Innanzitutto “la scelta dei soggetti [mostrava] il tentativo di cogliere i momenti salienti non solo della vita privata e affettiva dei personaggi, ma anche quelli più direttamente legati alla pratica del loro lavoro; (…) lo sfor-zo [era] insomma quello di offrire uno spaccato della vita contadina delle nostre campagne tra Otto e Novecento in cui Manicardi [riusciva] a cogliere – tra visioni di gioie dolori e fatiche – il più profondo significato di consapevolezza e orgoglio della propria dignità di uomini”.51 Il primo guadagno realizzato da Manicardi con la sua arte, vendendo una scultura in gesso ad un inglese, “fu la sommetta – elevata in quei tempi – di trecento lire in oro, che Cirillo, il quale cominciava a seguire le predicazioni di Camillo Prampolini, passò integralmen-te alla cassa della Cooperativa di Consumo di Massenzatico”.52

Nel 1888 partecipò all’Esposizione di Torino con il quadro Il povero fiore, che narrava “il dramma di una povera giovane che – sebbene condannata da un male che non perdona – [era] costretta dalla necessità ad un lavoro opprimente”.53

49 A. Davoli, Cirillo Manicardi. Pittore reggiano dell’ultimo ’800, Reggio E., Stabilimento Tipografico Adorni, 1938, p. 12

50 M. Mussini (a cura di), Cirillo Manicardi. Un artista fin du siècle, Reggio Emilia, Edi-zioni Diabasis, 1993, p. 51

51 Cirillo Manicardi (1856-1925), guida alla mostra 18 dicembre 1993-23 gennaio 1994, Reggio Emilia

52 Testimonianza dei figli di Cirillo Manicardi contenuta in: Cirillo Manicardi - Soffiate su quei fuochi amici…, Reggio Emilia, Camera del Lavoro Territoriale CGIL – Coop Nordemilia, Centro Stampa, 1989, p. 23

53 A. Davoli, Cirillo Manicardi. Pittore reggiano dell’ultimo ’800, Reggio E., Stabilimento Tipografico Adorni, 1938, p. 55

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In quello stesso anno, la Reale Accademia di Belle Arti di Modena nominò Manicardi Accademico Corrispondente “in attestato di meritata stima: già suo distinto alunno, seppe coll’attività e coll’ingegno crearsi un posto onorevole nel campo dell’arte”.54 Nel 1889, fu il turno della Reale Accademia di Belle Arti di Bologna che conferì al pittore reggiano il Diploma di Accademia d’onore. Nel-lo stesso anno egli iniziò ad insegnare presso la Scuola di Disegno per Operai di Reggio Emilia e sposò “la signorina Zeffira Zaniboni, pure di Massenzatico, che egli aveva conosciuta fin dai tempi della giovinezza nei periodi che trascor-reva in famiglia”.55 Con Zeffira, che morì dopo soli cinque anni di matrimonio, concepì due figlie, Lea e Margherita. Nel 1891 Manicardi iniziò ad insegna-re presso la Scuola di Disegno per Operai di Reggio. Nel 1900, a distanza di sei anni dalla morte della moglie, Manicardi sposò in seconde nozze Ada Livi (figlia di Carlo Livi, Direttore del locale Manicomio di San Lazzaro, nonché professore presso la Regia Università di Modena), dalla quale ebbe un figlio. Sempre in quell’anno, in qualità di Presidente della Cooperativa di consumo di Massenzatico, aprì una riunione di cooperatori con un discorso sull’origine e la finalità della cooperazione di consumo in rapporto al movimento operaio:

“Grazie, adunque, cooperatori e compagni che da diversi punti del nostro comune, accogliendo l’invito fattovi, accorreste a discutere qui dei bisogni urgenti della Coo-perativa di consumo. (…) Quando circa 20 anni or sono i pochissimi compagni di Massenzatico istituirono questa società che ora ci ospita trovarono sulla via seminata di difficoltà un intoppo inaspettato, che a muoverlo interamente ci si affaticarono degli anni. Allora si diffidava della cooperazione, si considerava un’arma esclusivamente borghese e si diceva che noi avremmo fatto fiasco e che, ad ogni modo, anche se fossimo riusciti nella nostra impresa, avremmo sciupata la nostra energia in un lavoro inutile pel proletariato. (…) E chi disingannò questi scettici (…) fu la Cooperativa stessa che colla eloquente lezione dei fatti dimostrò la propria utilità non materiale soltanto, ma soprattutto morale.(…) [Gli scettici] poterono vedere le vere cause delle miserie della classe lavoratrice: essi intesero quale era la grande debolezza di questa classe che pure è così forte di numero: intesero che ai lavoratori occorre innanzitutto di istruirsi, occorrono cognizioni, senza le quali il contadino, l’operaio non sarebbero mai riusciti a rompere la catena secolare che li tiene servi e disprezzati. Essi capirono che per essere uomini atti a combattere e vincere la lunga, dolorosa battaglia del-l’emancipazione del proletariato è indispensabile sapere amministrare meglio della classe che ora detiene il potere.”56

54 M. Mussini (a cura di), Cirillo Manicardi. Un artista fin du siècle, Reggio Emilia, Edi-zioni Diabasis, 1993

55 A. Davoli, Cirillo Manicardi. Pittore reggiano dell’ultimo ’800, Reggio E., Stabilimento Tipografico Adorni, 1938, p. 10

56 Discorso tenuto il 26 dicembre 1900, edito da Camera del Lavoro Territoriale CGIL e da Coop Nordemilia, Reggio Emilia, 1989, pp. 15-18

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Nel corso degli anni Novanta, Manicardi “si dedicò prevalentemente alla pro-duzione ritrattistica e a quella di impegno sociale in raffigurazioni del lavoro e del mondo contadino”.57 Fino al 1908 fu direttore della Società Cooperativa Pittori di Reggio. In quello stesso anno, in occasione della ricorrenza del Primo Maggio, inviò a Luigi Roversi, sindaco socialista di Reggio, un piccolo dipinto, accompagnandolo a queste parole: “Caro Luigi, da tempo e lo sai, mi provavo a farti il ritratto (…) Disgraziatamente per la mancanza del modello – che non ha mai tempo – non ci sono riuscito. Ripiego mandandoti un quadretto che dipinsi giovine pittore e neofita socialista. Rappresenta con sincera tecnica il mondo operajo nostro all’alba della predica socialista. Ora quei piccoli operai del truciolo sono padri e madri socialisti e ti sarà motivo di gioja il pensiero che a radunarli hai tu con tante cure fortemente contribuito.”58

Nel 1910 Manicardi progettò la decorazione esterna del Palazzo del Monte di Pietà. L’originale e potente ideazione figurativa scelta dal pittore – uno scheletro che simboleggiava il mostro-usura che schiacciava l’uomo bisognoso di denaro – non venne apprezzata in città a causa del soggetto troppo macabro e forse anche per l’invidia di alcuni nemici dell’artista. A causa delle feroci critiche e delle aspre polemiche che si scatenarono in città il progetto fu completamente abbandonato. Nonostante questo increscioso episodio, nel 1911 Manicardi suc-cedette a Gaetano Chierici alla Direzione della Scuola di Disegno per Operai di Reggio Emilia. Nel 1913 rifiutò, invece, la carica di Sindaco della Coopera-tiva Pittori, alla quale era stato eletto dall’Assemblea. Anche in occasione dei lavori assegnatigli per la ristrutturazione del palazzo della Cassa di Risparmio di Reggio, così com’era avvenuto per la decorazione del Palazzo del Monte di Pietà, voci fortemente critiche si levarono dai giornali locali, fomentando una polemica che si fece sempre più scomposta. L’attacco proveniva soprattutto da anonimi che scrivevano su giornali di parte politica avversa. Solo La Giustizia, il giornale socialista, difese l’operato di Manicardi. Nonostante gli innumerevo-li attacchi subiti dall’artista, nel 1926 il palazzo della Cassa di Risparmio venne finalmente inaugurato e nel 1920 furono presentati al pubblico i dodici pannelli decorativi sul tema del lavoro che dovevano decorarne il Salone. Nel 1921, a pochi giorni dall’incendio degli uffici e della tipografia della Giu-stizia da parte dei fascisti, Manicardi aderì alla sottoscrizione per la riapertura del giornale, inviando cinquanta lire “per protestare contro tutte le violenze e in

57 M. Mussini, M. Festanti (a cura di), La raccolta Monducci. Nuove acquisizioni della Fondazione Manodori, Reggio Emilia, 2008, p. 90

58 Cirillo Manicardi (1856-1925), guida alla mostra 18 dicembre 1993-23 gennaio 1994, Reggio Emilia

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omaggio alla forza e all’equilibrio intellettuale di Camillo Prampolini”.59 Nel 1923 si manifestarono per la prima volta i sintomi della malattia che afflisse gli ultimi due anni di vita del pittore. Manicardi, a quell’epoca, giunse alla conclusione che “diverse ideologie spinte al parossismo avrebbero portato il socialismo al fallimento della propria missione ed allora, con leale franchezza, si ritirò”.60 Scrisse a Prampolini: “Caro Camillo, ieri ho finalmente mandato a Milano la disdetta del mio abbonamento a Giustizia… Ora resterò fuori dal nu-mero dei tuoi abbonati, ma vicino a te sempre, perché nel mondo della politica non sarò mai con altri.”61 Cirillo Manicardi morì a Reggio Emilia il 27 maggio 1925.

Giuseppe Tirelli (1859-1931) – Nacque il 10 febbraio 1859, da Gaetano, agri-coltore, e Luigia Maramotti a Villa Massenzatico, dove nacque anche Cirillo Manicardi, di cui fu amico e col quale condivise il medesimo itinerario di for-mazione artistica. Dal 1872 al 1878 studiò alla Scuola di Disegno di Reggio, diretta in quegli anni da Gaetano Chierici, dove ebbe come insegnanti, oltre allo stesso Chierici, importanti artisti quali Domenico Pellizzi, Giovanni Fontanesi e Romualdo Belloli. Con queste premesse sembrava quasi scontato che Tirelli dovesse tener viva la corrente verista, così proficua in quello scorcio di fine secolo. Lui, che era di estrazione contadina e subalterna, “poteva essere ancora meglio l’interprete di quella pittura di genere, venata di un cauto e moderato socialismo, che la committenza borghese richiedeva con insistenza, anche per mettersi al riparo dal sospetto di evidente chiusura nei confronti delle classi sottoposte”.62 Egli si allontanò, invece, progressivamente da quella tradizione, preferendo approfondire la pittura paesaggistica, alla quale legò la sua arte, considerando la natura quale “forza propulsiva dell’essere”.63 Operò spesso e volentieri en plein air, producendo una miriade di opere dedicate soprattutto alla campagna reggiana.Nel biennio 1880-1881 frequentò l’Istituto Modenese di Belle Arti, poi, grazie ad una borsa di studio concessagli dall’Istituto Ferrari-Bonini, tra il 1890 e il

59 M. Mussini (a cura di), Cirillo Manicardi. Un artista fin du siècle, Reggio Emilia, Edi-zioni Diabasis, 1993

60 A. Davoli, Cirillo Manicardi. Pittore reggiano dell’ultimo ’800, Reggio E., Stabilimento Tipografico Adorni, 1938, p. 12

61 M. Mussini (a cura di), Cirillo Manicardi. Un artista fin du siècle, Reggio Emilia, Edi-zioni Diabasis, 1993

62 U. Nobili, La pittura di Giuseppe Tirelli, in E. Monducci (a cura di), Catalogo della mostra di Giuseppe Tirelli (1859-1931), Reggio Emilia, 1983

63 Ibidem

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1891, ebbe modo di completare gli studi a Firenze, presso la locale Accademia d’Arte. Nel corso della sua vita, che lo portò ad essere “uno dei più sensibili e partecipati interpreti della campagna reggiana”,64 Tirelli si impegnò anche attivamente nella sua città a favore dei più deboli; lo fece accettando l’incarico di insegnante di disegno presso il manicomio di San Lazzaro e, dal 1921, per i ragazzi dell’annessa Colonia-Scuola “Antonio Marro”. Essendo di animo estre-mamente sensibile e schivo, si costruì un proprio mondo artistico e poetico assai ristretto che gli impedì di essere conosciuto ed apprezzato in maniera adeguata dai suoi contemporanei. Egli colpiva sopratutto per “l’innocenza, la freschezza morale nella correttezza col prossimo, nel compiacimento per la confidenza di cui lo [onoravano] sia Camillo Prampolini sia gli esponenti della buona società reggiana, nel suo socialismo idealizzato che gli [faceva] desiderare uno stato di natura in cui il rispetto umano [convivesse] pienamente con la libertà di essere se stessi”.65 Nel campo della pittura Tirelli continuò la sua esperienza di pittore agreste, tecnicamente vicino alla lezione dei macchiaioli e degli impressionisti, poi, successivamente, all’esperienza divisionista. Nel 1908 partecipò all’Esposizio-ne Permanente di Reggio, dove un suo quadro, dal titolo Lo scolaro, venne premiato. Nel 1910 eseguì nove grandi tele per il decoro architettonico della rinnovata sala dei banchetti dell’Hotel Posta. Nel 1922 partecipò alla prima mostra della Famiglia Artistica Reggiana con otto quadri dal titolo Campagna nostrana e due Natura morta. Nel 1929 decise di porre fine alla sua lunga car-riera di insegnante, richiedendo, dopo oltre quarantasei anni di insegnamento, il collocamento a riposo, in virtù sia dell’età ormai avanzata, sia delle malferme condizioni di salute. Esaminando la sua domanda, la Commissione Ammini-strativa del Manicomio San Lazzaro pose in evidenza “lo zelo con cui assolse ai propri doveri, di che sono ultima e più vistosa prova gli ottimi risultati ottenuti nel disegno e nella pittura dagli alunni della Colonia-Scuola ‘Antonio Marro’, onde questa va specialmente famosa anche fuori Reggio”.66 Nel 1930, quando ormai si stava manifestando in tutta la sua gravità una grave patologia agli oc-chi, partecipò alla Biennale di Venezia con due quadri dal titolo Casa rustica e Campagna reggiana. Tirelli fu a tal punto innamorato della pittura che “quando

64 M. Mussini, M. Festanti (a cura di), La raccolta Monducci. Nuove acquisizioni della Fondazione Manodori, Reggio Emilia, 2008, p. 110

65 U. Nobili, La pittura di Giuseppe Tirelli, in E. Monducci (a cura di), Catalogo della mostra di Giuseppe Tirelli (1859-1931), Reggio Emilia, 1983

66 G. A. Rossi, Quarantasei anni di insegnamento, in E. Monducci (a cura di), Catalogo della mostra di Giuseppe Tirelli (1859-1931), Reggio Emilia, 1983-1983

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la scienza medica gli negò ogni speranza per la vista declinante preferì il suici-dio all’abbandono dei pennelli”.67 Morì il 25 ottobre del 1931.

Lazzaro Pasini (1861-1949) – Nacque il 28 settembre 1861 a Reggio Emilia, da Prospero e da Giuseppina Magnani. Sua madre morì quando lui aveva solo due anni. La sua prima passione fu la musica, tanto che a nove anni chiese al padre di fargli studiare il violino. Essendo però di umili origini e non essendoci a Reggio una scuola popolare di musica, Pasini rinunciò, salvo poi iscriversi, all’età di tredici anni, al locale Istituto d’Arte dove “sotto la sapiente guida di Romualdo Belloli, incisore e disegnatore profondo, [compì] in tre anni il corso di figura ottenendo i premi Sanguinetti e Levi”.68 Dopo il diploma cominciò a lavorare presso le maestranze degli Artigianelli quale operaio incisore su pietre litografiche. Passarono tre anni, quando finalmente riuscì a vincere il concorso per la Borsa di Studio Sanguinetti e si trasferì a Firenze, dove si iscrisse al-l’Accademia, ottenendo quasi subito un premio di 120 lire destinato all’alunno migliore. A Firenze frequentò per tre anni lo studio del pittore Fattori, che lo influenzò notevolmente. Il 9 giugno 1883, il pittore scrisse da Firenze all’amico Cirillo Manicardi: “è da un pezzo che ho un’idea, un quadro, è una cosa che vidi dal vero un anno fa e mi fece tanta impressione che scrissi il bozzetto subito; sarebbe la madre morta di parto, una cosa straordinariamente bella e difficile, però a Reggio voglio tentare di farla perché la sento”.69 E fu proprio in occasione di una vacanza trascorsa nella sua città natale che Pasini, sotto l’attenta guida di Gaetano Chierici, rea-lizzò in sette mesi la sua difficile opera, cui diede il titolo In soffitta. L’opera rappresentava “una descrizione minuziosa del povero interno della stanza con-tadina; (…) avvertita alle semplici esigenze della pittura sociale la rappresenta-zione della scena familiare, [era] inseribile nel clima di partecipazione umani-taria e di denuncia dei problemi sociali ben vivi in città in [quegli] anni Ottanta, caratterizzati dal forte impegno politico e morale di Camillo Prampolini”.70 Il quadro venne inviato all’Esposizione Nazionale di Torino del 1884, dove otten-ne un successo travolgente sia di pubblico che di critica. Con quel dipinto, “che rappresentava una chiara presa di posizione contro la piaga della mortalità per parto nelle campagne, Pasini [superò] la pittura di genere puntando a una pittura

67 G. Badini, C. Rabotti, Pittori reggiani 1751-1930, Reggio Emilia, Tipolitografia Emi-liana, 1982, p.149

68 Lazzaro Pasini (1861-1949), Reggio Emilia, Galleria d’Arte Città di Reggio, 199369 M. Mussini, La Galleria Fontanesi nei musei di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Edizioni

Diabasis, 1998, p.18370 Ibidem

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di impegno sociale, intesa come strumento di riflessione sulla condizione delle classi più povere e disagiate”.71 La maggior parte dei critici si espresse in termi-ni entusiastici. Sul giornale Secolo, di Milano, un critico d’arte scrisse:

“Uno dei quadri davanti ai quali il pubblico si affolla, quadro che alcuni vogliono sia il migliore dell’Esposizione, è quello di Lazzaro Pasini di Reggio Emilia, che porta il titolo In soffitta; (…) Pasini era ieri un giovane povero e ignoto a tutti: oggi la mag-gioranza del pubblico lo saluta forte pittore di grandi speranze… il pubblico guarda, si sofferma pensoso, si commuove. (…) Non c’è socialista o filantropo che abbia saputo con maggior eloquenza ritrarre un episodio della vita del povero. Anche lo spensierato che, lieto della fortuna trae la vita fra facili gioie, è colpito da questa evidenza di dolo-re: il sorriso si spegne sulle sue labbra e il ricordo dei piaceri costosi deve risvegliarsi nel suo animo come un rimorso. (…) Il Pasini è figlio di poverissimi genitori. Il padre è un giardiniere di Reggio Emilia che lo mandò alle prime scuole elementari poi lo mise all’Istituto Artigianelli per cavarne un buon operaio. Ma la sua attitudine al dise-gno fu presto notata e si consigliò al padre di farne fuori un pittore”. 72

Successivamente, il quadro fu acquistato dal barone Franchetti che poi lo donò, nel 1921, alla Galleria Fontanesi di Reggio Emilia. Nell’arte di Pasini si ritro-vano molte delle atmosfere tipicamente ottocentesche così care a Chierici, “in-timamente intrise di suggestioni romantiche, sempre però attente alla riprodu-zione del vero, nella consapevolezza che la pittura dovesse divenire strumento di riflessione sulle classi più povere e disagiate. (…) Pasini [rimase] soprattutto un artista del suo tempo e ciò lo si comprende guardando le opere, nella imme-diata percezione di un verismo mutuato dalla sua esperienza socialista, e [fu] in questa atmosfera, [che realizzò] il suo programma estetico”.73 Rispetto alla produzione artistica di quel primo periodo, l’artista scrisse: “talvolta volli met-tere a nudo dolorosi problemi di carattere sociale auspicandone in cuor mio la soluzione ideale”.74 Nel 1886 si trasferì a Milano, dove dipinse il quadro Tristi notizie che ben figurò all’Esposizione di Brera del 1887 e venne poi acquistato dalla Società Protettrice di Belle Arti. Nello stesso anno dipinse il quadro E domani? di cui un critico scrisse: “in una povera stanza, di notte, sedute pres-so ad una tavola dove arde un lume e vedesi un bicchiere con poca acqua e i rimasugli di un miserabile cibo, stanno una povera donna e la sua bimba, che

71 M. Mussini, M. Festanti (a cura di), La raccolta Monducci. Nuove acquisizioni della Fondazione Manodori, Reggio Emilia, 2008, p. 98

72 articolo pubblicato sul giornale “Secolo” di Milano il 7 giugno 188473 U. Nobili, G. Soliani, N. Squarza, Lazzaro Pasini (1861/1949), Reggio Emilia, Tipo-

grafia Emiliana, 1985, p. 974 Mostra individuale del pittor Lazzaro Pasini, Milano, Consorzio Tipolitografico Edito-

riale, 1927, p. 4

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si è addormentata appoggiando la testa sul braccio destro della misera madre, nel cui sguardo angosciato si scorge purtroppo il pensiero del desolato doma-ni”.75 Con questo quadro Pasini vinse poi il premio all’Esposizione di Torino del 1895, ottenendo la votazione unanime da parte della giuria. Del 1894 è un altro quadro molto riuscito dal titolo Senza lavoro che, sul giornale Cronaca dell’Esposizione di Belle Arti di Milano, un critico così commentò: “Lazzaro Pasini, il pittore di In soffitta, di Tristi notizie, di Soccorso, prosegue nei sogget-ti che egli profondamente sente. Da lui questa volta abbiamo una tela di propor-zioni notevoli: Senza lavoro. È un quadro che si fissa subito, senza sforzo, nella mente in tutti i particolari suoi. I camini dell’officine sono spenti e gli operai escono scorati”.76 Con il passare degli anni il suo stile si allontanò dal verismo sociale, che aveva contraddistinto la prima parte della sua produzione, avvicinandosi all’esperien-za dei divisionisti, dei macchiaioli e degli impressionisti. Pasini rimase però sempre capace di “rendere palpabili i momenti quotidiani (…) e figure umane nelle quali il pittore condensa – come i più sensibili pittori del suo tempo, in sintonia con un tipo di pittura ispirata a solidarietà umana e sociale – una com-mossa vicinanza al mondo degli umili e degli afflitti”.77 I suoi successi conti-nuarono ad essere numerosi: espose ad Anversa, Londra, Leningrado, in diverse Biennali veneziane, a Roma, più volte a Brera e Torino. Negli ultimi anni di attività si riavvicinò alla sua prima maniera pittorica, ritenendo comunque che “la tecnica [è solo] il mezzo per dar vita all’opera d’arte [ed] essa viene sugge-rita istintivamente all’artista a seconda del soggetto da trattare”.78 Pasini morì a Milano il 29 aprile 1949.

Augusto Mussini (1870-1918) – Nacque a Reggio Emilia l’8 gennaio 1870, da Angelo e da Beatrice Cobianchi. Ricevette i primi insegnamenti presso il locale Seminario, poi frequentò il Real Ginnasio, quindi si iscrisse alla Regia Scuola di Disegno per Operai, diretta da Gaetano Chierici. Nel 1888 il giovane pittore presentò domanda al concorso per il legato Sanguinetti per ottenere una borsa di studio, ma non riuscì ad ottenerlo. Nel 1890 iniziò a decorare, insieme a Cirillo Manicardi, la villa di Francesco Bagnoli a Jano, un paese sulle colline

75 articolo pubblicato sul giornale “La Festa dell’Arte di Firenze” il 27 dicembre 188676 articolo pubblicato sul giornale “Cronaca dell’Esposizione di Belle Arti” di Milano nel

189477 U. Nobili, G. Soliani, N. Squarza, Lazzaro Pasini (1861/1949), Reggio Emilia, Tipogra-

fia Emiliana, 1985, p. 3378 Mostra individuale del pittor Lazzaro Pasini, Milano, Consorzio Tipolitografico Edito-

riale, 1927, p. 3

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di Reggio Emilia. In quegli anni giovanili partecipò anche alla fondazione della Cooperativa Pittori della sua città, di cui diventò in seguito il direttore artistico. Per celebrare la nascita della Cooperativa eseguì il dipinto Gruppo di compo-nenti la Cooperativa pittori, “intensa pagina di vita sociale, che immortala con fine e realistica resa psicologica la ferma e orgogliosa partecipazione a un even-to di matura consapevolezza politica e civile”.79 Mussini aderì a quella pittura sociale che si sviluppò a Reggio Emilia a partire dagli anni Ottanta e che lui stesso in seguito così definì: “s’innalza ben altrimenti della semplice arte di ge-nere e della retorica arte storica, come quella che rappresenta la storia palpitante e psicologica dell’attuale società, e come tale è destinata a rimanere documento interessantissimo non solo della storia dell’arte, ma sebbene dell’umanità”.80 Una sua opera intitolata Povera mamma!, esposta nella vetrina della cartoleria Ferrari, attirò l’attenzione e le lodi del cronista d’arte del Reggianello, quoti-diano reggiano di ambito cattolico, con il quale, nel 1891, Mussini iniziò una collaborazione. Nello stesso anno, ricevette il sussidio dell’Istituto Ferrari Bo-nini per recarsi a Roma a perfezionare le sue qualità pittoriche. A Roma egli frequentò la Scuola libera del nudo e l’Accademia di Francia. Nel 1893 ottenne una borsa di studio dall’Amministrazione provinciale di Reggio Emilia e vinse il concorso per il legato Sanguinetti, ottenendo una pensione annua di lire 60 per la durata di un quadriennio che gli consentì di soggiornare a Firenze, dove frequentò la Scuola del nudo dell’Accademia. Nel 1896 presentò a Modena un Autoritratto. Nel medesimo anno venne eletto consigliere comunale per il partito socialista. Partecipò quindi a Firenze alle manifestazioni contro Crispi e venne arrestato. Nel 1897 si recò a Venezia per la II° Biennale internazionale d’arte. Nel 1898 partecipò all’Esposizione di Torino, unico reggiano insieme a Cirillo Manicardi, presentando un altro Autoritratto. Nel 1901 si dimise da consigliere comunale, spiegando così il suo gesto: “Io mi dimisi da consigliere comunale socialista (…) per un’ordinanza di partito che obbligava i consiglieri a votare in Consiglio magari contro la volontà per disci-plina di partito”.81 Sempre nel 1901 partecipò alla IV° Esposizione Internazio-nale d’arte di Venezia con l’opera Il sangue che suscitò interesse e discussione tra i critici. Nel 1902 si stabilì a Firenze, presso lo studio del pittore Libero An-dreotti, e iniziò a dirigere la Società Ceramica Fiorentina del cavalier Herma-nin, con la quale partecipò all’Esposizione torinese delle arti decorative. Nella

79 M. Mussini (a cura di), Cirillo Manicardi. Un artista fin du siècle, Reggio Emilia, Ed. Diabasis, 1993, p. 55

80 articolo pubblicato sul giornale “Il Reggianello” di Reggio Emilia il 9 agosto 189181 articolo pubblicato sul giornale “La Giustizia” di Reggio Emilia il 9 dicembre 1913

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sua città natale effettuò, in quel periodo, le decorazioni a tempera della chiesa di San Nicolò. Nel 1903 espose alla Biennale di Venezia, nella sala emiliana, il dipinto Ritratto della madre; sempre in quel periodo ottenne dalla Cassa di Ri-sparmio di Reggio Emilia un sussidio di L. 3.000 che gli consentì di continuare a dedicarsi al perfezionamento della sua arte senza avere preoccupazioni di tipo economico. Per Mussini si stava avvicinando però un periodo di profonda crisi che lo portò a dipingere un quadro dal titolo Il vinto, eseguito a Firenze. Que-sto inquietante e significativo quadro venne collegato, dal suo stesso autore, al celebre Il sangue. Essi rappresentavano “una riuscita allegoria dei suoi tentativi iniziali di affermazione e di ambizione, che lo avevano fatto sentire vincente, quasi un super-uomo, e del senso di fallimento subentrato successivamente, che lo aveva gettato a terra, sconfitto, a testa in giù, confuso con un paesaggio mag-matico e irreale”.82 Tra il 25 settembre e il 2 ottobre 1903, Mussini abbandonò Firenze dopo essere stato sfidato a duello da un altro pittore reggiano, Giovanni Costetti, presente anch’egli nella città toscana in quello stesso periodo per mo-tivi di studio. Il conflitto tra i due nacque a seguito della comune passione per la pittrice Beatrice Ancillotti e proprio per evitare che le cose volgessero al peg-gio, Mussini fuggì prima in Austria, poi a Gorizia, quindi al convento di Trieste dove un frate cappuccino lo indirizzò al convento di Ascoli Piceno, presso il Padre superiore Serafino Gavasci. Le intenzioni di Mussini erano quelle di di-ventare frate alla ricerca di quella pace interiore e di quelle verità assolute che fino a quel momento gli erano sfuggite. Padre Gavasci, intuita la natura irre-quieta ed insofferente dell’artista, lo dissuase dal prendere i voti e gli consigliò invece di entrare nell’Ordine dei Cappuccini quale terziario, con la possibilità di non rispettare alcuna regola convittuale e di lasciare in qualunque momento il convento per tornare alla vita mondana. Mussini accettò la proposta ed iniziò a decorare la Chiesa annessa al Convento dei Padri Cappuccini di Ascoli con un grande dipinto murale rappresentante La vocazione di San Serafino. Il 25 gennaio 1904 Augusto assunse il nome di Fra’ Paolo, in omaggio al pittore Paolo Uccello. Il primo periodo ad Ascoli fu connotato da perfetto isolamento e lavoro frenetico: “rifiutava colloqui e visite di amici, corrispondenza e letture di giornali, memore del suo passato, voleva ora leggere solo in fondo alla sua anima redenta da una fallace illusione”.83

Nel 1905 Mussini partecipò all’Esposizione internazionale d’arte di Venezia con l’opera La testa di Cristo. Nel 1908 rimase vittima di un atto teppistico an-ticlericale e venne preso a sassate mentre attraversava una piazza dove si era te-nuto un congresso socialista. Nel 1910 tornò a Reggio in occasione della morte

82 E. Farioli, Augusto Mussini. Fra’ Paolo (1870-1918), Reggio Emilia, 198783 articolo pubblicato sul giornale “L’Italia francescana”, 1929, p. 188

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di suo padre e, durante il soggiorno, visitò il suo primo maestro Gaetano Chie-rici. L’anno successivo fu presente all’Esposizione internazionale d’arte sacra di Parigi. In quel periodo Mussini cadde preda di crisi nervose che ogni cinque o sei mesi gli inducevano un profondo stato di prostrazione e abbattimento. Nel 1912 soggiornò a lungo a Trieste, poi tornò ad Ascoli, entrando in polemica con l’appena istituito movimento di riforma “pro arte cristiana”. Dopo che l’autorità ecclesiastica gli raccomandò di non concedere più interviste ai giornali locali, decise di lasciare il convento e di abbandonare la tonaca. Trascorso un breve periodo a Genova, in casa del maestro Cicognani, partì per Buenos Aires il 23 dicembre di quello stesso anno. Nel 1914, sulle pagine del giornale La Patria degli Italiani inneggiò al futu-rismo e all’arte nuova. Nel luglio dello stesso anno rientrò in Italia, trovando rifugio presso l’eremo di Camaldoli. Da lì, nel 1915, criticò duramente i so-cialisti reggiani che avevano manifestato contro Cesare Battisti, durante la sua visita a Reggio per perorare la causa dell’irredentismo: “La guerra deprecata da costoro fatalmente ci sarà imposta da ineluttabili ragioni di vita e di morte per la nazione. La Patria, prima dell’individuo, ha il diritto sacro alla vita”.84 Sempre nel 1915, il 23 agosto, Mussini ricevette una lettera da Gaetano Chierici, in cui il suo maestro scriveva:

“…col vostro ingegno vedeste chiaro quale era la strada che doveva prendere chi aveva l’animo forte di cittadino per combattere col popolo per ideali di giustizia e di benessere per tutti. Foste anarchico perché a voi sembrò doverlo essere; poscia trovandovi in un elemento eccessivamente troppo turbolento, come lo costituivano quei nostri concittadini che lo componevano, faceste un passo in ritirata e militaste nel nostro partito socialista dal quale foste tenuto in gran conto per la elevatezza della vostra mente, per la sincerità del carattere, accoppiato alla vostra rettitudine. Foste consigliere comunale, e il vostro intervento nella pubblica amministrazione vi rese da essi più stimato e più caro. Ma l’arte ed altre cure personali non vi concessero di dare il vostro tempo alla vita pubblica come sarebbe stato vostro desiderio”.85

Nella successiva lettera di risposta a Chierici, datata 23 agosto 1915, Mussini chiarì la sua nuova posizione nei confronti del Socialismo:

“Sono convinto che dal socialismo niun altra cosa di buono si possa trarre all’infuori dei principi che gli vengono dalla due volte millenaria influenza… cristiana! tutto il bagaglio pseudoscientifico nonché tedesco, ha naufragato ridicolmente nel militari-smo prussiano, e nella più ridicola ubbia dei socialisti ufficiali d’Italia, di essere più

84 articolo pubblicato su “Il giornale di Reggio” l’8 marzo 191585 R. Marmiroli, E. Piceni, Mostra di Fra’ Paolo da Ascoli (Augusto Mussini), Reggio

Emilia, 1959, pp.18-19

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scientificamente… tedeschi dei loro prototipi! (…) Cristiano e Francescano, non sono clericale, perché imparai a detestare la politica dei preti rossi stando con essi, così detesto per la stessa ragione quella dei preti neri”.86

Negli ultimi mesi del 1915 si trasferì nuovamente al convento di Ascoli, dove ricevette però continui inviti e pressioni da parte di Camilla, una giovane don-na da lui conosciuta a Genova, affinché si recasse da lei a Firenze. Dopo aver provato inutilmente a resistere alla tentazione, abbandonò ancora una volta il convento e partì per Firenze, deciso a sposare la donna. A seguito di una confes-sione della fidanzata su certi suoi trascorsi sentimentali cambiò idea, rientrò ad Ascoli e quindi, nel 1916, si trasferì a Roma. Nella capitale riprese la sua opera pittorica, dipingendo la pala d’altare e due quadri per la chiesa dei Cappuccini di Ascoli. Tra le amicizie di quel periodo ci fu anche quella con il principe Carlo di Torlonia, a cui l’artista dedicò un ritratto. Il 3 novembre 1918 Mussini “[morì]di spagnola e in miseria all’Ospedale Fate Bene Fratelli di Roma”.87 Colpito dalla prematura scomparsa dell’amico, il principe di Torlonia provvide alla traslazione della salma del pittore a Reggio Emilia, sua città natale, e dispo-se l’erezione di un monumento nel principale cimitero cittadino su disegno di Giulio Ferrari (allora direttore del Museo Industriale di Roma).La vita di Augusto Mussini fu sicuramente tribolata e “costellata di stranezze, di un fervore di iniziative, di una incoerenza da lasciare sbalorditi; (…) passò dalla politica attiva di fede socialista al saio cappuccino, dalla pittura sacra di tipo tradizionale ad una ammirazione pubblica per i primi futuristi, dalle crisi mistiche agli amori più sconvolgenti, dalla preghiera alle più ardenti polemiche giornalistiche, dai ritiri spirituali negli eremi ad avventurosi viaggi in Sudame-rica”.88 Per questo la sua biografia può essere considerata senza dubbio “una delle più tormentate e affascinanti fra quelle dei protagonisti della scena artisti-ca reggiana a cavallo tra Otto e Novecento”.89 Rimane comunque la sua opera di grande qualità e la passione sincera che sperimentò nell’aderire agli ideali so-cialisti, prima, e a quelli cristiani, dopo. Ideali in fondo non troppo contradditori tra loro, essendo legati dalla volontà di costruire un mondo più giusto, pacifico e civile, basato sull'uguaglianza e la fratellanza di tutti gli uomini.

86 R. Marmiroli, E. Piceni, Mostra di Fra’ Paolo da Ascoli (Augusto Mussini), Reggio Emilia, 1959, p. 23

87 G. Grasselli, I due Mussini. Tormento e pace di un nostro pittore, articolo pubblicato sul giornale “Reggio Democratica” di Reggio Emilia il 18 dicembre 1947

88 G. Badini, C. Rabotti, Pittori reggiani 1751-1930, Reggio Emilia, Tipolitografia Emi-liana, 1982, p.131

89 M. Mussini, M. Festanti (a cura di), La raccolta Monducci. Nuove acquisizioni della Fondazione Manodori, Reggio Emilia, 2008, p. 96

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Bruto Terrachini (1891-1972) – Figlio del già citato Pier Giacinto e della con-tessa reggiana Maria Teresa Malaguzzi Valeri, nacque il 10 agosto 1891 a Rio Saliceto, in provincia di Reggio Emilia. Terrachini visse la maggior parte della sua vita nella vicina Correggio, dove si trasferì con la famiglia nel 1902. Da ragazzo frequentò la Scuola d’Arte “Gaetano Chierici” di Reggio, dove le sue grandi doti artistiche emersero precocemente, destando l’interesse di maestri d’arte come Cirillo Manicardi e Anselmo Govi. Il giovane artista era però di animo avventuroso e non possedeva la pazienza e la disciplina necessarie per coltivare e perfezionare il suo notevole talento. Egli fu prevalentemente un au-todidatta, sia in relazione alla formazione culturale che in relazione al suo arti-colato percorso artigianale ed artistico. Divenne “modellatore estroso e fecondo di ornati in cotto e cemento, ma soprattutto caricaturista eccezionale”;90 era “capace di rendere in modo ironico e talvolta anche grottesco, mai grossolano e volgare, la fisionomia e la psicologia delle sue vittime”.91 Fin da giovanissimo collaborò con il padre, l’architetto Pier Giacinto, dimo-strando una precoce e notevole dimestichezza con la creta e il cemento nel-l’ornato di piccole e grandi dimensioni. Fu artista eclettico, non solo per la varietà dei soggetti riprodotti, ma anche per la diversità delle tecniche utilizza-te. Realizzò numerosi lavori a Reggio Emilia, ma soprattutto in provincia, in particolare a Correggio e Rio Saliceto. Partecipò alla Prima Guerra Mondiale al termine della quale gli venne conferita la Croce di Cavaliere di Vittorio Veneto, il cui assegno costituiva, insieme alla pensione e a qualche vendita delle sue terracotte, che però preferiva regalare, una delle poche risorse economiche su cui poteva contare. La sua inquietudine esistenziale lo portò a girovagare mol-tissimo sia in Italia, che in Europa ed in Africa. Sopravvisse a pericoli e malattie di ogni tipo; si adattò a fare i lavori più disparati, arrangiandosi sempre. Ad un certo punto, però, smise di girare e si stabilì nella casa di famiglia, a Correggio. Si sposò tardi, a 47 anni, con Artemisia Accorsi, dopo un fidanzamento durato per ben trent’anni. Terrachini, fin da giovane, frequentò regolarmente le osterie dove amava bere soprattutto il buon vino e la grappa forte. Le sue statuine non le dava volentieri a tutti, tanto che a volte andavano da lui persone con molti soldi che andavano via a mani vuote, mentre ad altre dava per poco o niente o in cambio di favori. In paese era inoltre famoso perché portava sempre una cravatta rossa “di socialista ’d Prampulein”.92

90 G. Tamagnini, Bruto Terrachini, in Bruto Terrachini. La vita è bella, Correggio (RE), Circolo Artistico Antonio Allegri, Tipolitografia F.G.T., 1984, p. 5

91 Pier Giacinto e Bruto Terrachini, edito dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Correggio nel 2000, p. 22

92 F. Ori, Socialésta ‘d Parmpulein, in Bruto Terrachini. La vita è bella, Correggio (RE), Circolo Artistico Antonio Allegri, Tipolitografia F.G.T., 1984, p. 21

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Terrachini amava burlarsi di tutti e forse anche per questo non era molto amato dai correggesi, che non solo tendevano ad evitarlo, ma non ne apprezzavano nemmeno adeguatamente l’attività artistica. Quando la moglie Artemisia si am-malò, le rimase accanto amorevolmente sia durante i numerosi ricoveri che negli ultimi anni di vita. Quando infine ella morì lui rimase solo ad accudire la sorella Flora, anch’essa gravemente malata e cieca, verso la quale mostrò l’identica amorevole dedizione avuta nei confronti della moglie. Una volta scomparsa anche la sorella, nel 1965, la sua solitudine aumentò. Egli si mise allora a frequentare le osterie sempre più assiduamente e l’incremento del bere, alla lunga, arrivò a comprometterne irreparabilmente la salute. Essendo però un artista instancabile lavorò con notevole intensità fino agli ultimi anni della sua vita. Nel 1972 subì un primo ricovero di quaranta giorni a Villa Marchi, a Reggio, a seguito di un’improvvisa crisi. Nonostante le sue condizioni fossero piuttosto gravi, trovò sempre la forza di prendersi gioco bonariamente del pros-simo e alle suore che lo assistevano si divertiva a raccontare che lui, “figlio di un socialista prampoliniano, non venne mai battezzato [e fu] cresciuto col pane intinto nel vino”.93 Inoltre, una volta superata la fase più critica della malattia, si divertì a realizzare piccoli ritratti degli infermieri della struttura sanitaria con la creta che il pittore Gastone Tamagnini, suo amico, gli portava. Dopo un breve periodo trascorso a casa in discreta salute, venne poi ricoverato preso l’ospedale San Sebastiano di Correggio, nel reparto cronici, dove “povero e dimenticato da tutti si spense il 5 febbraio 1972”.94 Venne sepolto a Rio Saliceto, accanto alla madre, come da sue volontà, in quanto diceva “là è sola e io voglio andare a tenerle quella compagnia che così poco le ho fatto in vita”.95

Anselmo Govi (1893-1953) – Nacque il 25 agosto 1893 a Reggio Emilia, da Primo e da Renata Leporelli. La sua famiglia era piuttosto povera e lui visse i primi anni della sua vita in condizioni molto umili. Appena terminate le scuole elementari trovò lavoro presso la locale Cooperativa Pittori e Decoratori in qua-lità di garzone. Anche in un ruolo così modesto riuscì a mettere in luce la sua predisposizione artistica. Nel 1905, per sviluppare le sue potenzialità pittoriche, iniziò a frequentare la Scuola di Disegno per Operai di Reggio. Studiando sotto l’esperta guida del direttore Cirillo Manicardi non tardò a mettersi in luce, a tal

93 C. Bono, L. Melli, L’orto delle crete, in Bruto Terrachini. La vita è bella, Correggio (RE), Circolo Artistico Antonio Allegri, Tipolitografia F.G.T., 1984, p.17

94 Pier Giacinto e Bruto Terrachini, edito dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Correggio nel 2000, p. 20

95 G. Tamagnini, Bruto Terrachini, in Bruto Terrachini. La vita è bella, Correggio (RE), Circolo Artistico Antonio Allegri, Tipolitografia F.G.T., 1984, p. 11

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punto che già nel corso del primo anno vinse due premi, nel Corso di Geometria e nel Corso di Ornato. Nel 1910 partecipò alla realizzazione del soffitto dello scalone della Cassa di Risparmio di Reggio Emilia, offrendo un’ulteriore dimo-strazione delle sue qualità e possibilità artistiche. Nel 1911 Govi, su consiglio sia di Luigi Belpoliti, Presidente della Cooperativa Pittori, che del professor Cirillo Manicardi, si iscrisse alla Reale Accademia di Belle Arti di Milano. Dal 1914 al 1916 frequentò il Terzo Corso della Sezione di Decorazione Murale presso la Società Umanitaria di Milano, dove conquistò una Medaglia d’Argen-to per le sue abilità. Riuscì a vivere a Milano, in quegli anni, grazie ad un dop-pio contributo elargitogli dalla Cooperativa Pittori e dall’Istituto Ferrari Bonini. Nel 1915 venne quindi assunto, grazie alle sue eccellenti qualità di disegnatore, come assistente del prof. Quarantelli, alla Sezione Decorazione della Società Umanitaria di Milano. Nel 1916 ricevette un attestato di stima da parte del pittore reggiano Lazzaro Pasini, affinché gli venisse assegnato il sussidio del Legato Sanguinetti. Dal 1917 al 1921 vinse numerosi premi, sempre nell’am-bito dei suoi studi milanesi. In quegli anni egli alternava gli studi a Milano con la pratica, quale giovane apprendista, a Reggio presso la Cooperativa Pittori. Dopo una breve parentesi di ferma nell’esercito, Govi trovò il modo “di parte-cipare, con tutto il fervore e il generoso impegno dell’età, alle prime vittoriose lotte socialiste”96. Nel 1922 vinse il concorso per il Cartellone dell’Esposizione Agricola Industriale di Reggio Emilia, facendosi così conoscere dai suoi con-cittadini e ponendosi all’attenzione degli esperti. Il 22 settembre 1923 si sposò con Maria Lodesani.L’ideale cui il pittore reggiano aderì “di un’arte inserita profondamente nella vita comunitaria, lontana dal virtuosismo individuale e borghese di un’espres-sione fine a se stessa, agì indifferentemente su due opposte correnti artistiche che in seguito, in nome del socialismo o del fascismo, fondarono particolari momenti di civiltà pittorica del ’900”.97 Anselmo Govi rimase sempre uomo di sinistra e fondò la sua arte su un’estetica legata a un socialismo di tipo ideale che affondava le radici nelle utopie ottocentesche di stampo umanitario. Oc-corre ricordare che quando egli iniziò a dipingere non esisteva ancora in Italia una precisa cultura di classe e tutta l’iconografia socialista si serviva, in quegli anni, dello stile Liberty (stile che per altro si prestava a militare agevolmen-te sotto ogni bandiera). Il fatto di appartenere ad un particolare schieramento politico progressista non significava necessariamente avere un identico atteg-

96 Anselmo Govi. Pittore, a cura dell’Ente Provinciale del Turismo di Reggio E., 1953, p. 7

97 G. Berti, T. Storchi, N. Squarza, Mostra di Anselmo Govi, Reggio Emilia, Tipolitografia Emiliana, 1980, p.19

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giamento anche nei confronti dell’arte pittorica. Govi rimase infatti sempre an-corato a una certa tradizione classica e accademica, vivendo contestualmente il condizionamento di un’epoca in cui “idealismo e materialismo, razionalismo e irrazionalismo, azione e contemplazione, socialismo e misticismo potevano contrapporsi violentemente”.98

Dopo l’avvento del fascismo, essendogli preclusa la possibilità di impegnarsi in maniera attiva alla politica, dedicò tutto se stesso al lavoro e alla famiglia. Dal 1926 divenne Direttore Artistico e Consulente Tecnico della Società (già Cooperativa) dei Pittori Decoratori di Reggio Emilia e, insieme con il Presiden-te Arnoldo Casini, si prodigò per salvare l’azienda dai molteplici problemi cau-sati dal difficile periodo storico e politico che stava prendendo piede. Sempre in quell’anno si impegnò nel decoro del soffitto dello scalone di Palazzo Ancini, ispirandosi per la realizzazione dell’opera al grande pittore Gian Battista Tie-polo. Del 1927-1928 sono invece la cupola del Teatro Ariosto, che rappresenta scene dell'Orlando Furioso, e la decorazione del catino e della cupola della Chiesa di S. Pietro, sempre nella sua città natale. Govi eseguì anche importanti opere a Bologna, tra cui il soffitto del Credi-to Fondiario, i pannelli e festoni dello scalone del Convalescenziario di Villa Mazzacorati e il grande soffitto nel Salone di ballo del Circolo Ufficiali. Al-tri lavori li eseguì a Lugo, a Fontanaluccia (Mantova), a Ferrara e nella pro-vincia di Reggio (nella Chiesa della Madonna dell’Olmo di Montecchio, a S. Bernardino di Novellara, a Divago, a Fellegara di Scandiano). A Liberazione avvenuta, quando i partiti politici riacquistarono il loro ruolo, Govi riprese i contatti con i compagni socialisti per portare avanti le lotte interrotte. Per le sue abilità e competenze, nonché per il suo contegno sempre pacato e sereno, venne chiamato a far parte di diverse Commissioni e, nel 1946, divenne Con-sigliere Comunale per il Partito Socialista Democratico. In quegli anni parte-cipò, inoltre, alla fondazione di varie associazioni di carattere culturale, tra cui l’Associazione Reggiana Spettacoli, la Famiglia Artistica e l’Unione Reggiana Artisti. Successivamente una malattia renale cominciò a minare la sua salute. Ciò nonostante continuò a prodigarsi nell’attività pittorica, sorretto da una salda forza di volontà. A quest’ultimo periodo risalgono due tra i lavori più complessi dell’artista reggiano: l’intera decorazione della Chiesa di S. Teresa di Reggio Emilia e quella del grande Salone del Circolo dei Negozianti di Ferrara. Dopo dodici anni di sofferenze, Anselmo Govi morì, a causa della nefrite, il 2 maggio 1953, poco prima di compiere sessant’anni. Nella seduta del Consiglio Comunale del 22 maggio 1953, il Sindaco e i rap-

98 F. Solmi, Adolfo De Carolis: la sintesi immaginaria: gli affreschi del Salone del Pode-stà, Bologna, 1979, p. 5

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presentanti dei vari partiti ne commemorano la figura di uomo, di artista e di politico, sottolineando “l’encomiabile rettitudine e la saggia obiettività con cui aveva saputo adempiere al proprio ufficio, meritando la considerazione degli avversari”.99 Il suo amico d’infanzia, Renato Marmiroli, pochi giorni dopo la morte di Govi, scrisse: “Fu un buono, un generoso, un galantuomo, un’anima eletta di artista, un poeta della vita, che egli intendeva come un dovere verso se stesso e verso la società. Non conobbe rancori, non odi, non gelosie. Indulse sempre, comprese sempre, perdonò sempre. (…) Discepolo di quella seconda generazione che [visse] vicino a Camillo Prampolini, ne custodì la fede, che mantenne intatta e luminosa come un faro per tutta l’esistenza”.100

Conclusioni

Vi fu un periodo, a Reggio Emilia, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, in cui la sensibilità artistica e l’impegno politico a favore delle classi sociali più povere e deboli si intrecciarono. Ciò avvenne – e non fu di certo un caso – nella terra in cui Camillo Prampolini diffuse in maniera estremamente convincente ed efficace le idee del socialismo, combattendo le più aspre battaglie contro le ingiustizie e contro lo sfruttamento dei lavoratori, in primo luogo i conta-dini, per il riscatto economico e morale delle classi sociali più svantaggiate. Fu grazie a questo movimento socialista di ispirazione umanitaria e riformista che numerosi artisti sentirono una naturale vicinanza e talvolta manifestarono aperta adesione nei confronti del nascente Partito Socialista che andava allora sviluppandosi a partire dal nord Italia, in particolar modo in Lombardia, in Li-guria e in Emilia. Gli amici più intimi di Prampolini subirono l’influenza della sua forte persona-lità e del suo modo di fare politica. Così fu certamente per il pittore Gaetano Chierici, che poi trasmise a sua volta questa impostazione anche agli allievi più brillanti. In alcuni casi, l’impegno degli artisti reggiani arrivò a coinvolgerli di-rettamente nell’attività politica, come accadde, oltre che a Chierici, anche a Pier Giacinto Terrachini, Cirillo Manicardi, Augusto Mussini e Anselmo Govi. In al-tri, l’ideale socialista fece soprattutto da sfondo all’esistenza e alla produzione artistica, come nel caso di Lazzaro Pasini, Giuseppe Tirelli e Bruto Terrachini, i quali manifestarono sempre sensibilità e vicinanza rispetto alla condizione degli umili e dei disagiati. Per tutti questi artisti l’adesione al socialismo rappre-

99 Anselmo Govi. Pittore, a cura dell’Ente Provinciale del Turismo di Reggio E., 1953, p. 8100 articolo pubblicato sul giornale “Gazzetta di Reggio” di Reggio Emilia il 4 maggio

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sentò un forte desiderio di giustizia e fu connotata da sincera fiducia nella sua “capacità di trasformare la società e i rapporti tra le classi guidando i lavoratori nel processo, lento e doloroso, del loro affrancamento e nella conquista legale di ordinamenti giusti ed umani, ispirati ai principi di uguaglianza”.101

101 S. Carretti, Prampolini tra pacifismo e riformismo, in Prampolini e il socialismo rifor-mista, Atti del Convegno di Reggio Emilia, ottobre 1978, vol. II, p. 140

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L’ALMANACCO, n. 53 2009

Il dopoguerra reggianonella stampa socialista

Mauro del Bue

Intervento dell’autore al Convegno Il giornalismo reggiano dopo la Liberazione (1945-1951). In ricordo di Giorgio Morelli “Il Solitario”, promosso da ISTORECO, ANPI, ALPI-APC che si è tenuto venerdì 6 giugno 2008 presso la Sala del Tricolore (Municipio di Reggio Emilia), con il patrocinio di: Comune di Reggio Emilia, As-sessorato alla Cultura; Provincia di Reggio Emilia; Associazione Provinciale Stampa Reggiana “G.Bedeschi”.

Ho in serbo per l’uditorio una sorpresa, dedicata ad Otello Montanari, no-stro illustre e polemico ospite, che svelerò più tardi, lasciandovi così in

“trepidante” attesa. Devo dire, che contrariamente all’interessante relazione di Roberto Scardova, così poco propensa all’autocritica, strumento del resto tipico dalla tradizione comunista, io racconterò la storia socialista osservandola anche con la lente impietosa della critica. Cercherò di comporre, con questa mia rela-zione, un mosaico di temi trattati dai giornali socialisti nel periodo che va dal 1945 al 1951, diffondendomi su qualche argomento di particolare significato locale.La ripresa de “La Giustizia”, (il nome rimanda a un sentimento nobile, più che non ad un dogma tetragono come quello de “La verità”, organo dei comuni-sti reggiani) avviene il 13 maggio 1945. Suo direttore responsabile è Alberto Simonini e il giornale è quasi interamente dedicato a Camillo Prampolini. La scelta vuole cogliere così un tema fondamentale della rinascita del giornale, ma anche del partito socialista. Quello del rapporto con la sua tradizione. Già nel febbraio 1944 un appello per la ricostituzione del partito era stato pubblicato sull’“Avanti!” clandestino, sempre indicando in Prampolini il punto di riferi-mento ideale. Tale appello avveniva a seguito dei due incontri di Barco, svolti nell’estate del 1943, il secondo durante il periodo badogliano, che avevano ra-dunato personalità del vecchio partito socialista prefascista quali Arturo Bellel-li, Giovanni Rinaldi, Nino e Gino Prandi (al secondo vi partecipò anche Alberto Simonini). L’appello-manifesto, steso dallo stesso Alberto Simonini era intriso di etica prampolinana e di non violenza. Ma mancava un esplicito accenno alla

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lotta armata e per questo venne fatto oggetto di critiche anche dagli elementi più combattivi del partito.Questo è un punto molto importante per comprendere le scelta dei socialisti. Val la pena ricordare la posizione tenuta da Alberto Simonini e da Giacomo Lari, i due socialisti che parteciparono alla prima riunione del Cln che si svolse il 28 settembre nella canonica di San Francesco. Costoro proposero di battersi contro il nazi-fascismo col metodo non violento, fatto di scioperi, diserzioni, resistenza passiva. La testimonianza di questa posizione assunta da Simonini e Lari mi è stata resa da don Prospero Simonelli che in quella riunione rappresen-tava la Chiesa reggiana e che si stupì. Essa è contenuta anche nel volume sugli atti del Cln reggiano pubblicato dall’Istituto storico della Resistenza nel 1967, come mi ha ricordato l’attento Antonio Zambonelli.

L’etica prampoliniana si manifestava addirittura più forte dell’etica cattolica a proposito della non violenza. C’era una certa dose di dogmatismo e la doman-da: “Cosa ne potrebbe pensare il vecchio Camillo Prampolini della guerra al nazifascismo?” era davvero una domanda senza molto senso. Poteva apparire però anche più incomprensibile se Prampolini non fosse stato vissuto come un santo e il suo verbo come un vangelo, Reggio come la Palestina del socialismo e il Crostolo, come “un nuovo Giordano” e, come scrisse Umberto Terracini in una lettera inviata allo storico Giorgio Boccolari, il Reggiano rappresentava l’“Arca Santa” del riformismo.Gli storici hanno poi indagato anche sulle posizioni che alla fine del sua vita Prampolini (morì nel luglio del 1930) manifestò a proposito del fascismo. Ci sono due atti, già peraltro pubblicati e più volte citati. Il primo è una lettera ad Alberto Simonini, scritta da Prampolini nel 1925 e che viene pubblicata intera-mente proprio sul primo numero de “La Giustizia”, quello del 13 maggio 1945. Si esprime il concetto, in essa, che “il metodo democratico ebbe sempre per presupposto l’esistenza della legalità. Dove questo presupposto manchi le vie della legalità sono chiuse e le aspirazioni alle quali è negata la libertà di vivere e di espandersi verranno fatalmente a sboccare nelle vie dell’azione rivoltosa”. Esiste poi una testimonianza di Francesco Bellentani, un socialista reggiano che visse a Genova per molti anni, e che nel 1928 incontrò Camillo Prampolini nel corso di una sua vacanza in Liguria. Secondo la testimonianza di Bellentani, Prampolini confidò che “il socialismo tradizionale predicato e praticato per un trentennio tra i lavoratori italiani, fedele propulsore di una trasformazione rivo-luzionaria delle società capitalistica conseguita attraverso il metodo gradualista e legalitario dovrà ricorrere al nuovo metodo di lotta insurrezionale impostogli dalla reazione liberticida del regime nero”.Le valutazioni di Prampolini, non potevano riguardare la guerra al nazifasci-smo, ma solo la natura del regime fascista alla fine degli anni venti e il naturale

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superamento del tradizionale metodo legalitario. La nuova situazione di guerra tra le nazioni (e con la Germania che ci aveva invaso dopo l’armistizio dell’8 settembre) e di potenziale guerra civile, accen-tuava ulteriormente la necessità dell’opzione insurrezionale, peraltro condivisa addirittura dal rappresentante delle Chiesa cattolica alla prima seduta del Cln di Reggio Emilia.Simonini e Lari furono subito sconfessati dal partito e fu Giusepe Romita ad incaricare ufficialmente l’ingegner Camillo Ferrari, allora ispettore viaggiante per il Partito socialista nell’Alta Italia (e poi primo presidente della Provincia) di contrastare efficacemente il legalitarismo che una interpretazione parziale del pensiero prampoliniano aveva riproposto. D’altronde sulle posizioni del Partito socialista a proposito di lotta armata non ci possono essere equivoci.L’“Avanti!” clandestino è schierato apertamente a favore della lotta armata. “Il Partigiano”, giornale socialista, al primo numero si autodefinì organo della Re-sistenza. E numerosi e autorevoli furono i socialisti anche a Reggio impegnati nelle formazioni partigiane.Ne cito alcuni. Uno di costoro è Risveglio Bertani (Camillo), esponente del Cln della montagna e membro del Comitato militare. Con lui anche Viterbo Cocconcelli (Paris). Si deve a Risveglio Bertani, nel febbraio del 1945, sempre nel nome di Prampolini, la pubblicazione del numero unico de “La Montagna socialista”. Poi Augusto Berti (Monti) comandante di tutte le forze armate par-tigiane nel reggiano, inspiegabilmente dimenticato anche dall’Istituto storico della Resistenza e opportunamente ricordato da un saggio di Giorgio Boccolari su “L’Almanacco” del dicembre 1988 (numero 13). Boccolari cita il fatto che nella primavera del 1946 Monti partecipò in qualità di invitato al congresso na-zionale di Firenze del Psiup e verso la fine dello stesso anno gli venne affidata la presidenza, assieme a Gino Prandi e ad Arturo Bellelli, del congresso provincia-le socialista prima della scissione di Palazzo Barberini. In quel congresso egli venne nominato membro del Comitato direttivo in rappresentanza dei reduci e dei partigiani. All’indomani della scissione di Palazzo Barberini, Augusto Berti assumeva addirittura la segreteria del nuovo Psli, che poi diverrà Psdi a segui-to dell’unificazione con il gruppo di Giuseppe Romita nel 1952. E intervenne su “La Giustizia” polemizzando coi socialisti del Psi che avevano fondato “Il Socialista reggiano” nel gennaio del 1947. Il capo di tutte le formazioni parti-giane reggiane era dunque un socialista. Ma forse, per la sua scelta di passare coi vituperati “piselli”, fu dimenticato dagli storici e dalle celebrazioni. Tanto che egli morì in solitudine il 25 agosto del 1988 a 92 anni, e a Reggio, tranne “L’Almanacco”, nessuno lo ha ricordato e adeguatamente celebrato.Il rapporto tra tradizione e lotta armata anima i primi passi dell’ultima fase bel-lica, sostituito poi dal rapporto tra tradizione prampoliniana e unità coi comuni-

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sti, questione, quest’ultima, figlia proprio degli anni della lotta antifascista. Se Togliatti, nel settembre del 1946, cercò di conciliare il mito del comunismo con le grandi figure (le definì maestri) del riformismo padano, quali appunto quella di Prampolini, a maggior ragione il Psi, che allora si chiamava Psiup (ed era il risultato della unificazione del vecchio Psi con il movimento di Unità proletaria di Lelio Basso) si poneva questo problema in una realtà particolare come quella di Reggio.“La Giustizia” dunque scelse come fondamentale sua piattaforma la rivisita-zione della vecchia tradizione prampolinana, adeguandola però alla nuova si-tuazione post fascista. Dopo Prampolini, nei numeri seguenti, sono ricordati Giuseppe Soglia (il direttore delle scuole comunali di Reggio, venuto dalla Ro-magna e poi divenuto deputato nello stesso collegio della provincia di Rovigo in cui poi lo diventerà Giacomo Matteotti e credo senza passare dallo strumento oggi così decantato delle “primarie”), Antonio Piccinini (che venne ucciso dai fascisti poco prima delle elezioni politiche del 1924, alle quali era candidato del Psi massimalista e che risulterà eletto post mortem) e Giacomo Matteotti (che denuncerà in Parlamento le irregolarità di quelle stesse elezioni e verrà subito dopo assassinato). Per ricordare quest’ultimo venne indetta una confe-renza all’Ariosto con discorsi di Arturo Bellelli (che divenne, nell’immediato dopoguerra, presidente della Federazione delle cooperative di Reggio e che era stato eletto deputato con le elezioni del 1919), Alberto Simonini (che si propo-neva come successore di Prampolini e del partito reggiano era già divenuto il leader, ma che fino al 1921 era stato massimalista e avversario di Prampolini) e Attilio Gombia (il comunista guastallese, incarcerato e torturato, dotato d’un fascino oratorio senza eguali e della vita del quale si sta occupando Giannetto Magnanini con un suo studio). Poi viene ricordata la morte sul campo di Gio-vanni Rinaldi, vice sindaco di Reggio, colpito da un malore, e poi deceduto, mentre teneva una conferenza proprio in quei giorni al Circolo Zibordi, mentre nel luglio del 1945 venne dato ampio spazio alla commemorazione (erano mor-ti entrambi lo stesso giorno, il 30 luglio, l’uno del 1930 e l’altro del 1943) di Camillo Prampolini e Giovanni Zibordi. Attenzione, però, si esaltavano le loro figure di dirigenti riformisti, ma senza attualizzare il riformismo. Scrive Alberto Simonini su “La Giustizia” il 24 febbraio del 1946, in pieno dibattito precon-gressuale proprio sui temi dell’autonomia e del rapporto coi comunisti: “Di fronte ad una situazione eminentemente rivoluzionaria come l’attuale chiedere ad un partito come il socialista di tornare alla politica riformista ci sembra come il voler condurre la storia a ritroso”. E stiamo citando l’esponente che forse più d’ogni altro dirigente socialista era orientato a ricollegare il socialismo pre-fa-scista con l’attualità.Su “Reggio democratica” del 9 giugno 1945 lo stesso Simonini aveva del resto osservato che “il patto d’unità d’azione tra i nostri due partiti (Pci e Psiup) era

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l’inevitabile conclusione dell’orientamento della forza motrice dei partiti stessi: la massa del lavoro”.Oltre alla rivalutazione dei grandi maestri del socialismo reggiano, in primis Camillo Prampolini, “La Giustizia”, concede il suo spazio al dibattito politico e in particolare ai diversi congressi del Psiup reggiano dal 1945 e alla scissione di Palazzo Barberini del gennaio del 1947. Sono quattro i congressi in un anno e mezzo (luglio 1945, dicembre 1946). Pensando ai partiti attuali che i con-gressi non li fanno mai, viene spontaneo un forte rimpianto per la democrazia politica di allora. A meno di non considerare il congresso, non come momento di vita democratica, ma come vecchia politica. E in quanto tale da riporre in un museo.Il primo congresso del Psiup reggiano viene svolto a caldo, nel luglio del 1945, solo per adunare le forze, per esprimere “il plauso a Gino Prandi per avere mantenuto il segreto sulle persone e l’organizzazione del partito a Reggio, no-nostante le torture subite” e la condanna a morte poi sventata, “a Ivano Curti che prese il posto di Prandi dopo il suo arresto”, e per i temi riorganizzativi. Solo dopo il Consiglio nazionale del Psiup del luglio del 1945 prese piede il discorso sulla fusione tra socialisti e comunisti. A Reggio si fece un secondo congresso per discutere dell’argomento. Il dibattito sul fusionismo (Basso e la sua idea del partito nuovo) anima così il secondo congresso socialista reggiano dell’autunno del 1945. La federazione di Reggio, nonostante la presenza a Reggio del segretario Lelio Basso, a stra-grande maggioranza si oppone al fusionismo votando la mozione firmata da Simonini, Tirelli, Prandi e Simonazzi, che ottiene l’89% dei voti dei delegati, mentre l’altro di Valli, Curti, Camillo Ferrrari, favorevole alla fusione, ottiene solo il 10,75%. Da ricordare la frase di Fulvio Simonazzi, rivolta al segretario nazionale Lelio Basso, tutto impegnato a dimostrare la scientificità del sociali-smo: “Compagno Basso, per noi il socialismo è anche poesia”.Occorre precisare la diversa natura del partito nazionale rispetto a quello reg-giano. Mentre il Psiup a livello nazionale era il momento di congiunzione di diverse componenti politiche, non solo quella di Lelio Basso, che non era di ori-gini socialiste e che s’orientava decisamente verso la costruzione di un partito unico e nuovo tra socialisti e comunisti, vi erano anche componenti che s’erano aggregate provenendo dal Centro interno antifascista di Rodolfo Morandi, poi coloro che erano rimasti a lungo in esilio e solo di recente erano ritornati a Roma (in primis Pietro Nenni, che aveva subito il fascino, com’egli ricordò più volte, di quell’unità tra socialisti e comunisti che s’era creata nel 1934 in Francia e che aveva determinato il successo del Fronte popolare, ma anche Giuseppe Saragat, che pure aveva firmato e difendeva il patto d’unità d’azione) e vi erano i vecchi socialisti prefascisti (da D’Aragona, a Modigliani), quelli più orientati al con-tinuismo e alla ricerca di una via autonoma. A Reggio la componente presso-

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chè unica era quella del partito prefascista, cui si aggiungevano alcuni giovani che avevano combattuto durante la Resistenza. A Reggio non era stata presente un’autonoma formazione di partigiani socialisti, le cosiddette Brigate Mateotti, al contrario delle Garibaldine, composte prevalentemente di comunisti, e delle Fiamme Verdi composte da cattolici e liberaldemocratici. I socialisti avevano generalmente militato nelle formazioni garibaldine assieme ai comunisti. Ma in pochi erano quei giovani che, contrariamente a quanti avevano poi scelto la militanza nel Pci, avevano optato per la scelta socialista a seguito della battaglia partigiana. Anche perché, come mi confidò un vecchio dirigente socialista, i giovani venivano orientati dagli stessi dirigenti di sezione socialista a iscriversi al Pci. L’adesione al Psiup non poteva così a Reggio divenire di massa. Era riservata, quasi a numero chiuso, a coloro che socialisti erano stati anche prima del fascismo e decisamente rifiutata (al contrario di quanto avveniva nel Pci) a coloro che s’erano compromessi, anche parzialmente, col regime fascista. Da qui una maggiore propensione al carattere autonomo e non subalterno del partito nei confronti dei comunisti, carattere quest’ultimo che era più diffuso in coloro che non provenivano dalla tradizione socialista prefascista.“La Giustizia” dà ampio spazio, poi, al dibattito in vista del primo Congresso socialista nazionale del dopoguerra, convocato a Firenze per la primavera del 1946, anticipato dal terzo congresso provinciale del Psiup reggiano. L’assise provinciale assicura ancora alla mozione autonomista di Simonini una larga maggioranza (77,28%, contro il 22,72% della sinistra), inferiore però rispetto alla larghissima maggioranza che aveva contrastato la tendenza fusionista al secondo Congresso provinciale. E così pure si diffonde sulla campagna per le elezioni comunali che nel marzo del 1946 assegnano, come era largamente previsto, la maggioranza alla sinistra, ma largamente egemonizzata dal Pci, che supera il 40% dei voti, mentre il Psiup sopravanza la Dc, col suo 25%. Questo dato reggiano è in controtendenza rispetto a quello nazionale, così come si re-gistra alle elezioni del 2 giugno per la Costituente. Il Psiup ottiene più voti del Pci, e questo non era francamente prevedibile, dopo la fase della Resistenza e l’idea che i comunisti si erano fatta, dell’inevitabile declino politico del vecchio Partito socialista, legato a filo doppio al Pci dal patto d’unità d’azione e dal-l’obiettivo di una futura fusione. Non era ancora giunto, per il Pci, il momento di assumere l’eredità della guida della sinistra italiana. L’appuntamento era solo rinviato di due anni. Una delle ragioni di un voto così consistente attribuito ai socialisti dall’elettorato italiano stava certamente nell’ancora attuale effetto di trascinamento del vecchio partito, ma esistevano altre ragioni più attuali. Una di queste è costituita dalla più accentuata e convinta adesione alla tendenza repub-blicana che Pietro Nenni, al contrario di Togliatti, che dalla svolta di Salerno in poi non aveva mai prospettato la discriminante repubblicana come questione dirimente per comporre un’alleanza di governo, aveva dato alla sua politica, li-

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nea che aveva trionfato in occasione del voto sul referendum monarchia-repub-blica, tenuto contestualmente alle elezioni delle nuova Assemblea costituente. Un altro motivo di interesse verso il Psiup era determinato proprio dall’esito del Congresso di Firenze. A Firenze la sinistra interna venne messa clamorosamen-te in minoranza e alla guida del partito, grazie a un’intesa tra Pertini e Saragat, venne chiamato Ivan Matteo Lombardo, un nome praticamente sconosciuto, che peraltro era rimasto ai margini fino ad allora dal dibattito politico del parti-to, essendo da poco rientrato dall’America.Come aveva celebrato la vittoria delle sinistre nel Comune di Reggio, “La Giu-stizia” festeggia la vittoria socialista alla Costituente del 2 giugno. Nell’agosto del 1946 il giornale socialista reggiano attribuisce ampio spazio all’assassinio di Umberto Farri, sindaco socialista di Casalgrande, colpito da tre sicari nella sua casa il 27 del mese (Farri morirà a causa delle ferite il gior-no dopo). Al delitto “La Giustizia” dedica la prima pagina del 1° settembre 1946 Oltre all’articolo di fondo, vi compaiono i telegrammi di condoglianze di Pietro Nenni, Riccardo Lombardi, del prefetto Potito Chieffo, ma anche di Ar-rigo Nizzoli, il segretario comunista che si dimostrerà essere stato coinvolto in quelle tragiche pagine di violenza politica. L’articolo di fondo Ancora sangue riprende la catena di delitti commessi in quei mesi. E vengono ricordati i delitti di Mirotti, Ferioli, Pessina. L’articolista, che non si firma, ma è facile cogliere tra le righe la paternità del direttore del giornale Alberto Simonini, avanza una polemica verso le autorità locali. Egli scrive: “L’assassinio di Don Pessina è del 18 giugno. E’ da due mesi che il vescovo va dicendo di conoscere la trama del delitto. L’autorità giudiziaria avrebbe dovuto secondo la legge, convocare presso di sé il vescovo e interrogarlo e procedere eventualmente contro di lui se l’avesse ritenuto reticente (…) In questura si parla di scogli contro cui la navi-cella della giustizia naufraga. Dove siamo?”. E poi, ecco la sorpresa dedicata a Otello Montanari, un’anticipazione del suo slogan del 1990, un’inedita antici-pazione di “soli” 44 anni: “L’autorità ha il dovere di stabilire la quiete pubbli-ca”, scrive l’articolista, “e chi sa parli. Se non parla è reticente o complice. E si proceda contro di lui”.Il primo “Chi sa parli”, lanciato da “La Giustizia, non ebbe certo più fortuna del secondo, lanciato proprio da Otello. Anzi, a parlare, a proposito di Farri, non ci pensò nessuno e quello del sindaco di Casalgrande resta tuttora un delitto impunito, nonostante molti indizi rinviassero, come per il delitto di Ferdinando Ferioli, avvenuto poco prima a Sassuolo, alla banda di Castellarano, che venne poi processata e ritenuta colpevole del delitto del possidente liberale.Intanto il Psiup marciava a passi lunghi verso la scissione. Il Congresso, convo-cato a mò di rivincita della sinistra interna dopo la sconfitta di Firenze, era ben visto dai comunisti che, anche a seguito dell’imprevista sconfitta del Pci alle elezioni del 2 giugno, osteggiavano la nuova maggioranza autonomista, anche

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con pesanti dosi di infiltrazioni interne (il fenomeno del tesseramento interno al Psiup orchestrato da dirigenti comunisti è certificato da Gianni Corbi e Antonio Gambino in libri e interviste). Il Congresso provinciale si svolge nelle giornate del 29-30 dicembre del 1946 e tra i leader della sinistra compare anche il giova-ne Dino Felisetti, oltre ai più anziani Ivano Curti, Gino Prandi, Camillo Ferrari. Alberto Simonini ottiene, con la mozione autonomista, il 52,5%, Curti, con la mozione della sinistra, il 34,6%, e c’è anche una mozione unitaria di Riccardo Rinaldi che consegue il 12,38%. “La Giustizia”, intanto, si trasforma in organo di corrente e Simonini aderisce naturalmente anche in questo congresso alla mozione presentata dal gruppo di “Critica Sociale”, che si ispirava alle posizio-ni di Giuseppe Saragat, così come Modigliani, Paolo Treves e D’Aragona che Simonini frequentava anche di più. Ma la scissione di Palazzo Barberini, più che la paternità del gruppo di “Critica sociale”, porta quella della corrente di “Iniziativa socialista”. Quest’ultimo era un gruppo giovane, che contestava i governi ciellenisti e proponeva un’opzione politica più a sinistra, anche se non filo comunista. Tra costoro è bene ricordare personalità quali quelle di Bonfantini, Libertini e Zagari. E con costoro anche la Federazione giovanile socialista di Livio Maitan e del futuro ministro Rino Formica, collocata su posizioni trozkiste. Con “Iniziativa socialista” e con la Federazione giovanile si alleò Giuseppe Saragat che la scissione la voleva dav-vero. Il gruppo di “Critica sociale”, costituito dai vecchi socialisti, tentennò e tra loro anche Alberto Simonini, che al congresso di Roma del gennaio del 1947 tentò di svolgere un ruolo di mediazione. Simonini fu al centro di tutto. Parlò con gli scissionisti e con la maggioranza che aveva intanto riconquistato il partito. Parlò con Pertini proponendogli anche a nome della minoranza di assumere la guida del partito, poi con Morandi, perché anche la sua segreteria poteva andare bene e con Nenni perchè rivolgesse un appello all’unità. L’unica cosa che anche Simonini riteneva improponibile era la segreteria Basso, che invece alla fine prevalse. E così, come in tutti i congressi che annunciano una divisione, la divisione ci fu. E anche Simonini si rassegnò e decise di seguire Saragat e i giovani di Iniziativa.A questo punto a Reggio si iniziò una trattativa per decidere la separazione dei beni dei due partiti (il Psli aveva assunto questo nome dopo che il Psiup, un attimo prima che gli scissionisti avessero deciso di prendersi il vecchio nome del partito, era tornato a chiamarsi Psi). Per il nuovo Psli la delegazione era composta da Giuseppe Amadei, che succederà a Simonini alla Camera dopo la sua morte, avvenuta nel luglio del 1960, ed Egisto Lui, sindaco di Reggiolo, che nel 1946 fu ferito gravemente dinnanzi a casa da sicari comunisti e che si salvò miracolosamente al contrario di quanto avvenne a Umberto Farri; per il Psi la delegazione era composta da Gino Prandi e Ivano Curti. Alla fine il Psli si aggiudica la testata de “La Giustizia” e gli altri beni (la sede della federazione e

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una vecchia automobile) vengono assegnati al Psi. “La Giustizia” riprende dun-que le pubblicazioni come organo della federazione del Psli e Renato Marmiroli è il suo nuovo direttore responsabile.Il 26 gennaio del 1947 viene pubblicato il primo numero de “Il Socialista reg-giano”, organo della Federazione provinciale del Psi. Direttore responsabile è Gino Prandi, mentre Pietro Marani, all’epoca vice sindaco di Reggio e poi senatore con le elezioni del ‘48, il giovane Venerio Cattani, che poi lascerà Reggio per Roma, diverrà deputato e sottosegretario, e Italo Bonini, avvocato di prestigio, in gioventù rivoluzionario, sono membri della redazione, chiamata Comitato direttivo. Vi compaiono inchieste, un po’ sovietiche, su “Le Reggia-ne”, la condizione dei ferrovieri, la cooperazione, la giornata del contadino, la carta della donna lavoratrice.Iniziano naturalmente le polemiche tra i due giornali socialisti: “La Giustizia” e “Il Socialista reggiano”. Per i secondi i seguaci di Simonini sono i piselli e per i primi i nenniani sono i carciofi, perché perdevano un petalo alla volta. Particolare veemenza polemica venne riservata alle contestazioni organizzate a un comizio di Simonini a Guastalla. Vi erano stati fischi, urla, e ne era nata una violenta gazzarra. “Il Socialista reggiano” e l’“Avanti!” davano a Simonini la colpa di avere provocato con il suo infuocato comizio la reazione dei presenti, “La Giustizia” e lo stesso Simonini ritenevano invece che i due partiti (Pci e Psi) a Reggio non conoscessero “gli elementi fondamentali della democrazia”. Largo spazio viene riservato da “Il Socialista reggiano” alla venuta a Reggio di Pietro Nenni, nel marzo del 1947 (era la seconda volta, la prima fu in occasione delle elezioni del 2 giugno 1946, poi tornerà nel 1950 alla festa provinciale dell’“Avanti”, nel 1955 a quella nazionale e nel 1959 per celebrare il centenario della nascita di Prampolini). Particolare curioso: Nenni venne ospitato nella casa di Avandino Salsi e non in un albergo cittadino. “Il Socialista”, finalmente, concede nel maggio del 1947 una pagina dedicata a Camillo Prampolini, poi commemorato a Villa Massenzatico e, il 25 maggio, pubblica una pagina dedi-cata al Congresso provinciale i cui lavori vengono resi noti nel numero del 1° giugno, congresso che si svolge alla presenza di Lelio Basso e Giusto Tolloy, aperto dalla relazione del segretario provinciale del Psi Gino Prandi cui succe-derà Pietro Marani. Nell’estate del 1947, dopo la crisi del governo di unità nazionale, la polemica tra i due periodici socialisti si accentua. L’organo del Psi alza un fuco di fila contro De Gasperi e il suo governo, ma anche contro gli scissionisti e a novem-bre pubblica due pagine sull’anniversario della rivoluzione d’ottobre. Intanto il direttore era divenuto Riccardo Rinaldi, redattore Bruno Pregreffi e direttore responsabile Gino Prandi. Il 14 dicembre anche “Il Socialista reggiano” lancia la parola d’ordine del “Fronte democratico e popolare”. E al congresso del Psi che si svolge nello stesso mese emergono solo alcune perplessità rispetto alla

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lista unica e non già rispetto all’alleanza del Fronte, perplessità che, a sorpresa, emersero anche nelle posizioni del segretario nazionale Lelio Basso.Al congresso nazionale del Psi del febbraio 1948 la maggioranza votò a favore della lista unica del Fronte (esplicitamente contrario il gruppo che faceva capo a Giuseppe Romita), ma vi fu unanimità per il Fronte democratico e popolare. Di quel congresso fece un resoconto il giovane Dino Felisetti con un fondo sul giornale del partito reggiano. Col congresso di Napoli del Psli, del febbraio 1948, Alberto Simonini è segre-tario nazionale. “La Giustizia” non dà un risalto assoluto all’evento. Invece il periodico del Psli si diffonde sulla cosiddetta unità socialista con Ivan Matteo Lombardo, Ignazio Silone ed altri, che erano intanto usciti dal Psi dopo la scelta del Fronte e avevano fondato l’Unione dei socialisti..Il 19 marzo 1948 “La Giustizia” titola a tutta pagina “18 aprile: democrazia socialista o dittatura”, poi ancora “Contro tutte le dittature e per il socialismo”, fino alla soddisfazione per la vittoria elettorale delle forze democratiche e il successo della lista di Unità socialista, frutto dell’intesa tra Pslie il gruppo di Lombardo e Silone (7% alla Camera, 7,1% al Senato). D’altro canto il 28 marzo, in occasione del congresso del Fronte reggiano, uni-co congresso del nuovo organismo politico-elettorale “Il Socialista reggiano” titolò: “Tutti i sinceri democratici nel Fronte per un’Italia migliore, il 4 aprile sfornò invece lo slogan: “Il Fronte vuole conquistare una vera democrazia”. Intanto Pietro Marani era stato candidato al Senato e Ivano Curti alla Camera, mentre Dino Felisetti aveva dovuto rinunciare a entrare in lista. Le elezioni del 18 aprile, oltre a una secca sconfitta del Fronte, segnò, nel Fronte, la più cocente sconfitta dei socialisti. A Reggio, in linea con quel che avveniva in tutt’Italia, a Ivano Curti vennero a mancare le preferenze concordate e l’esponente socialista non venne eletto alla Camera. In Italia la forza del Psi in Parlamento calò dal 20% al 10%.Dopo la batosta “Il Socialista” titolò La lotta continua e il rifugio venne ancora individuato nella tradizione e in particolare nell’89esimo genetliaco di Camillo Prampolini. Col congresso del giugno 1948, si forma a Genova, località non scelta a caso, essendo il luogo in cui il partito venne fondato nel lontano 1892, la nuova maggioranza con accenti autonomisti. La nuova maggioranza elesse Alberto Iacometti segretario e Riccardo Lombardi direttore dell’“Avanti”, men-tre Sandro Pertini si rifiutò di comporre una maggioranza che comprendesse an-che Romita e con un discorso a sorpresa sconfessò la sua stessa mozione (era il leader della corrente di Riscossa socialista cui aderivano Lombardi e Jacometti) e si schierò a favore di una stretta alleanza coi comunisti. La ripresa dell’ini-ziativa autonoma consente tuttavia a Reggio l’organizzazione della prima sagra socialista della montagna che si svolse a Castelnovo ne' Monti alla presenza del segretario nazionale Alberto Jacometti e del senatore Pietro Marani, presentati

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da Arturo Piccinini, che aveva intanto assunto la segreteria dopo che la corrente di “Riscossa socialista” aveva vinto anche il congresso di Reggio Emilia. Intan-to a dirigere “Il Socialista” il direttore Riccardo Rinaldi viene affiancato da un gruppo redazionale comprendente Filippo Ampola, Renzo Barazzoni, Dino Fe-lisetti, Pietro Marani (per la Sinistra), Giacomo Lari (per la corrente di Romita) e Gino Prandi (per Riscossa socialista).La nuova maggioranza, relativamente autonomista, ebbe vita breve nel Psi. Nenni, Basso, Morandi si ripresero il partito col congresso di Firenze dell’anno dopo e anche Romita e i suoi lasceranno il partito e confluiranno, dopo l’unifi-cazione col Psli, nel nuovo Psdi.“Il Socialista reggiano”, negli anni che vanno dal 1949 al 1951, tenta di conci-liare la tradizione prampoliniana (il partito si presenta col volto di Prampolini alle elezioni comunali del 1951 ottenendo circa il 18% dei voti, mentre il Pci perderà diversi punti percentuali) con il comunismo sovietico. D’altra parte “La Giustizia” era intenta a conciliare il governo De Gasperi con il socialismo democratico.Nel settembre del 1950 “Il Socialista reggiano” dà ampio spazio alla prima festa dell’“Avanti!” (nel 1949 si era svolta la seconda sagra della montagna a Castelnovo ne' Monti) che si tiene in piazza della Vittoria con Pietro Nenni al comizio conclusivo. Davvero incisivo l’intervento di Nenni che viene pubblica-to integralmente sul giornale e che affronta e intreccia la questione della guerra in Corea (ma il prefetto gli aveva tassativamente vietato di parlarne) con la lotta dei lavoratori delle Officine Reggiane.Sono i due temi che dominano nelle diversi edizioni de “Il Socialista reggiano” nel biennio 1950-51, assieme ai cosiddetti eccidi proletari (tra tutti quello di Modena del gennaio 1950), mentre il caso Magnani-Cucchi, viene quasi di-menticato. Il 1951 si apre col Congresso del Psi del gennaio, il più conformista e cominfor-mista della sua storia, mentre nel Pci esplode il caso Magnani.“La Giustizia” titola a proposito della separazione di Valdo Magnani e di Aldo Cucchi dal Pci Fuori del romanzo e, pur col dovuto rispetto, coglie una con-traddizione nella posizione di entrambi in quanto schierati contro il governo De Gasperi. Non si può essere, a giudizio del giornale del Psli, in buona sostanza, contro la politica estera dell’Urss se non si è anche a favore del patto atlantico e del governo italiano. Lo stesso giornale sottolinea, peraltro, il valore dell’af-fermazione della difesa del suolo patrio anche dalla Russia, che in particolare Magnani aveva fatto nelle conclusioni della sua relazione al congresso comuni-sta e che gli erano valse la scomunica immediata. Bren (Renzo Barazzoni) scrive invece su “Il Socialista” un articolo dal titolo: E se fossimo aggrediti dalla Russia?. E risponde “Perché mai la Russia dovrebbe invaderci? Ci dicano una buona volta che l’avidità dei cittadini sovietici non è

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soddisfatta né dal caviale né dalla vodka ma anela agli spaghetti e al lambru-sco”. La notizia, però, che i cittadini sovietici mangiassero caviale è davvero alquanto ardita. Alle elezioni comunali del 1951 il Psi si presenta col simbolo raffigurante l’effi-gie di Camillo Prampolini, ancora il rifugio nel momento di difficoltà. Difficile però conciliare Prampolini col mito dell’Urss. Forse nel 1951 finisce il dopo-guerra e si apre una fase nuova. Dal 1952-53 inizia il dialogo coi cattolici e si intravedono i primi tentativi di spostamento a sinistra, chiamata nella termino-logia del politichese d’allora “Operazione Nenni”, poi, col Congresso di Torino del 1955, il dialogo diventerà tra Psi e Dc, e a Venezia nel 1957, dopo il XX Congresso del Pcus e l’invasione dell’Ungheria dell’anno prima, si annuncerà la nuova politica dell’autonomia e della riunificazione socialista. Due grandi eventi politici, l’avvio della politica del centro-sinistra e quella dell’unificazio-ne socialista, che segneranno non solo la cronaca dei nostri modesti periodici locali, ma la storia dell’Italia intera.

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Notizie su Nilde Iottie sull'istituto magistrale “Principessa di Napoli”

Antonio Petrucci

Nilde Iotti (1920-1999), è stata un personaggio di primo piano nella vita politica italiana. Membro dell’Assemblea Costituente - e della così detta

“Commissione dei 75” - a soli ventisei anni, nel 1946; eletta alla Camera dei Deputati nel 1948, e poi ininterrottamente rieletta nel 1953, nel 1958, nel 1963 ecc. fino alla nomina a Presidente della Camera nel 1979, - carica tenuta per tre legislature fino al 1992.Le nostre note mirano a illustrare un periodo poco noto della vita della Iotti, trascurato nelle sue biografie, quello dell’Istituto magistrale.

Leonilde Iotti era nata a Villa Mancasale (Reggio Emilia) il 10 aprile 1920 da Egidio e da Albertina Vezzani. Le condizioni familiari non sono floride: il pa-dre è ferroviere, ma viene licenziato e posto in pensione; la madre è casalinga, anche se disposta a ogni umile lavoro pur di arrotondare le entrate; una condi-zione ai limiti della povertà, non dissimile, del resto, da quella di tante ragazze e di tanti ragazzi reggiani all’inizio degli anni Trenta; una condizione che rende l’Istituto magistrale quasi una strada obbligata.Nilde si iscrive all’Istituto “Principessa di Napoli” di Reggio Emilia a undici anni nel 1931. Stando alla Riforma Gentile (1923), l’Istituto magistrale, che ha preso il posto della scuola normale, prevede un corso inferiore (oggi scuola media) e un corso superiore: per complessivi sette anni (4+3). E’ un sistema blindato, che termina con l’idoneità all’insegnamento nella scuola elementare – o col fallimento. Ha il vantaggio di durare un anno in meno del liceo e di dare un diploma abilitante alla professione di insegnante elementare. Se si è bravi, o fortunati, a diciassette anni si è già maestri, a diciotto anni si è già al lavoro. La Iotti percorrerà tutto il corso, fino al 1938.Nel 1931, in tutto l’Istituto ci sono 225 allievi (161 femmine, 64 maschi) e 16 docenti fra corso inferiore, corso superiore e insegnamenti facoltativi (pianofor-te e violino). In segreteria c’è una sola persona. Bisognerebbe, però, aggiungere alla somma anche 35 bambini in età pre-scolare, che frequentano il giardino

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d’infanzia annesso all’Istituto, e la loro insegnante. Come si vede, stando ai numeri di oggi, si tratta di una piccola comunità scolastica, con classi però incredibilmente numerose. Nella classe I del corso inferiore, ad es., - quella della Iotti - risultano iscritti 43 allievi (13 maschi e 30 femmine)… ma, nella classe III del corso superiore gli allievi sono 12 (3 maschi e 9 femmine), il che fa pensare ad una aumentata domanda nei riguardi della scuola, ma anche ad una selezione durissima. Fra gli allievi della classe I spicca, fra i compagni di Leonilde Iotti, anche il nome di Ugo Bellocchi, il futuro grande giornalista, che le sarà compagno di studi e amico per tutto il corso e fino alla Università. Mentre l’anno dopo, in seconda, si aggiungerà alla classe un allievo ripetente, ma destinato, - dopo una tormentata carriera scolastica, - a diventare un grande pedagogista: si tratta di Loris Malaguzzi.I docenti del corso inferiore sono: la prof.ssa Lea Rossi, che insegna italiano, latino, storia e geografia, e che lascerà un segno profondo e un ricordo indele-bile nella mente di Ugo Bellocchi; M. Maddalena Martini, che è “straordinaria di materie letterarie” e probabilmente insegna nella classe seconda; Erminia Deotto, che insegna lingua francese; don Dante Pederzoli e don Guido Iori che sono incaricati di religione. La dott.ssa Gaetana Urbani, che risulta supplente di matematica e fisica nel corso superiore, certamente insegna anche matematica al corso inferiore. In segreteria c’è la rag. Maria Manodori. E’ preside dell’Isti-tuto, nel 1931, Laura Marani Argnani.

“L’anno scolastico 1931-32 ha inizio con una cerimonia intima; gli alunni e parenti sono riuniti dal Capo d’Istituto nella sala più vasta del locale. La Preside saluta i giovani che per la prima volta entrano nell’Istituto e quelli che vi torna-no dopo il riposo delle vacanze estive, esprimendo a tutti la sua viva speranza che gli uni e gli altri portino nella scuola il massimo buon volere, la disciplina dell’anima, la visione chiara dei doveri che si accingono a compiere. Chiede a tutti l’iscrizione alle istituzioni giovanili del Regime, non potendo ammet-tersi che un allievo maestro non senta la suprema bellezza della Rivoluzione fascista, e non voglia mettere fin d’ora tutte le sue forze a servizio del Duce, pel bene della patria.” (da “Cronaca dell’anno scolastico”, Annuario dell’anno scolastico 1931-32, pubblicato nel 1933. La sottolineatura è nostra.)Poi il 28 ottobre: “La scolaresca al completo e tutti i Professori partecipano alla solenne commemorazione della Marcia su Roma.” Il 23 dicembre: “La scolaresca del Corso Superiore colla Preside rende omaggio alla salma di Ar-naldo Mussolini nel suo passaggio dalla Stazione di Reggio.” Il 9 giugno: “Le scolaresche di tutte le classi assistono nel Tempio della Madonna della Ghiara ad un solenne Te Deum per ringraziare Iddio di avere ancora una volta salvata la preziosissima vita del Duce.” (ibidem)

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NILDE IOTTI E LE SCUOLE MAGISTRALI

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Le idee di Laura Marani, preside dell’Istituto Magistrale di Reggio Emilia dal 1924 e presidente dei Fasci femminili dal 1929, emergono con chiarezza da un suo scritto La donna nel Fascismo, traboccante di ingenua fede verso il Duce – scritto sempre interamente con le maiuscole, DUCE – e definito “tanto gran-de, tanto saggio, tanto buono”. Quanto alla donna fascista, è “tutta compresa dei suoi doveri di sposa e di madre, pur ricordando di essere italiana, di dover crescere i figli all’onore e alla grandezza della Patria”. E poiché la grandezza della Patria si identifica per la Marani col Fascismo e con l’obbedienza al Duce, occorre che la donna fascista creda ciecamente nel Fascismo e nel Duce. Laura Marani rappresenta, anzi incarna, più di chiunque altri in quel momento, il punto concreto in cui l’ideologia del fascismo non solo investe la scuola, ma si fa propaganda capillare attraverso la scuola. Ed è indubbio che tale situazione esercitasse una forte pressione sulle studentesse dell’Istituto Magistrale “Prin-cipessa di Napoli”. Ma la retorica della preside, e l’ingenua esaltazione su cui era costruita, non sfuggiva del tutto agli allievi… E del resto, fuori dalla scuola, a Reggio Emilia l’antifascismo si respirava in vari ambienti, non solo fra i co-munisti, ma anche fra i cattolici.

Nel 1935 (la Iotti aveva finito di frequentare la classe IV del Corso inferiore e si era iscritta al I anno del Corso Superiore) qualcosa cambiò, perché quell’anno la preside Laura Marani Argnani andò in pensione – e con lei andò in pensione anche la famosa e temuta prof.ssa Clelia Fano. Nel 1935-36 arrivò il nuovo preside, Alfonso Potolicchio, uomo del Sud (proveniva da Napoli), studioso di letteratura, certamente non un fascista fanatico come la Marani – e forse l’at-mosfera della scuola cambiò. Inoltre, nel corso superiore, insegnavano almeno due docenti che facevano parte dell’antifascismo cattolico di Reggio Emilia: e cioè Lina Cecchini, che insegnava filosofia e pedagogia e militava nell’Azione Cattolica, e don Guido Iori, che insegnava religione. (All’antifascismo cattolico reggiano apparteneva anche Valdo Magnani, cugino della Iotti, più grande di lei di otto anni, che approderà al comunismo). Però, proprio in quel periodo, cioè nel settembre del 1935, Egidio Iotti, il padre di Nilde, morì. E’ probabile che Nilde, rimasta sola con la madre, abbia intensificato lo studio e “fatto di volata” gli anni che le rimanevano per diventare maestra. Nel marzo 1937, Potolicchio ottenne il trasferimento e fu sostituito, per i mesi che restavano alla conclusione dell’anno, da Nazzareno Maestrini. A ottobre del 1937, con il nuovo anno scolastico, arrivò il preside Ferruccio Pardo. Pardo era ebreo e – come abbiamo ricordato in altre occasioni – nel novembre del 1938 dovette lasciare il suo posto per via delle leggi razziali. Ciò però avvenne dopo che Nilde Iotti, Ugo Bellocchi e i loro compagni avevano preso il diploma e lasciato la scuola.

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In data 15 giugno 1938 alle ore 16.30 si svolge il Consiglio di classe per lo scrutinio della cl. III superiore A. Tutti gli alunni vengono ammessi a sostenere l’esame di abilitazione magistrale. La riunione è presieduta dal preside Ferruc-cio Pardo e verbalizzata dalla prof.ssa Lina Cecchini. Vediamo chi sono gli altri insegnanti: M. Antonietta Amati insegna italiano e storia; don Gaetano Razzoli latino; Lina Cecchini filosofia e pedagogia; Anna Conti scienze naturali; Cesare Curti agraria; Nazzareno Maestrini disegno; Nella Spagnolo musica e canto; Margherita Bussola matematica e Carlo Canevazzi, probabilmente, educazione fisica.Nilde Iotti prende l’abilitazione magistrale nel giugno del 1938. Spicca su tutti i voti il nove in latino, seguito dall’otto in italiano e storia; queste, dunque, le materie predilette; poi sette in filosofia, matematica, musica, educazione fisica; sei nelle rimanenti materie, scienze naturali, agraria e disegno. Tutto sommato, considerati i tempi, una bella maturità. Il diploma viene consegnato il 3 dicem-bre 1938 e ritirato dall’amico Ugo Bellocchi.

A questo punto, sembrerebbe che il destino della maestra Leonilde Iotti sia segnato: l’insegnamento in una scuola elementare nella provincia di Reggio Emilia. Ma una borsa di studio, messa a disposizione dalle ferrovie dello Stato, sovverte le carte e rilancia la sorte. La Iotti si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università Cattolica (e vi si iscrive anche il compagno di classe Ugo Bel-locchi). Nel 1940, quando scoppia la guerra, sono iscritti al secondo anno. Nel 1942 prendono la laurea: Bellocchi si dedica al giornalismo, la Iotti incomincia subito a insegnare - prima nella scuola media poi all’Istituto tecnico industriale. Nel 1943 però nasce la Repubblica di Salò, col ritorno - sotto la protezione te-desca - di Mussolini e del peggior fascismo. Sarà la Resistenza, sarà la lotta al fasci-nazismo che, a questo punto, deciderà del futuro.

Le notizie sono tratte da documenti inediti (registri, verbali ecc.) conservati nell’Archivio storico dell’Istituto “Matilde di Canossa”.

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Giovanni Rossi e il “caso” Torricellanella corrispondenza di Ugo Rabbeno: un'utopia laica

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Giovanni Rossi era ben noto ad Andrea Costa al quale, riluttante, aveva strappato la prefazione ad una delle tante riedizioni del suo utopico “Co-

mune Socialista”1. Altrettanto era conosciuto da Filippo Turati e Gnocchi-Viani per il progetto globale di colonizzazione delle terre incolte del Sud, guardato con scetticismo e con bonaria diffidenza dai vertici socialisti, ai quali Rossi si era rivolto già dal 18752.Gli esperimenti comunistici e comunitari- da non confondersi con quelli stori-camente accertati etnici o consuetudinari3-, tentati da utopisti laici e riformatori

1 Da Gavardo, tra Salò e Brescia il 22 marzo 1884 Cardias [Giovanni Rossi] su carta inte-stata “Dal campo alla stalla” scriveva ad Andrea Costa: “…quando avrai un pò di libertà spero ti metterai a farmi quel capolavoro che sarà la prefazione”, tuttavia Costa delude in parte Rossi, non condividendo le eccessive attese verso lo spontaneismo volontari-stico, v.: Un Comune socialista. Bozzetto semi-veridico, libro di lettura, Milano, Bigna-mi, 1878, p. 95; l’ultima edizione: Un Comune socialista, Livorno, Tip.Favillini, 1891, p.137. Una edizione intermedia si aprì con la prefazione di Andrea Costa: Un Comune socialista, con prefazione di Andrea Costa, Brescia, Tip. Operaia, 1884, pp. VIII-72; la corrispondenza di Giovanni Rossi con Andrea Costa, ora in Fondo Archivistico “Carte Costa”, Biblioteca Comunale di Imola.

2 Giovanni Rossi (nato a Pisa nel 1856), medico e proprietario terriero, sull’esempio di Fourier e di Cabet si interessò a vari progetti di colonizzazione in Italia, suggerendoli nel programma socialista, con interventi giornalistici sulla “Rivista Italiana del Socia-lismo” di Lugo, nel 1886, diretta da Lanzoni, e con una intensa corrispondenza con Filippo Turati ed il confronto favorevole con Leonida Bissolati, che sottoscrisse quote della sua Associazione. Tentò esperimenti pratici di colonie comunistiche per la coltiva-zione di terre nel Montello, in Toscana, poi a Cremona ed infine nel Parmense. Nel 1917 ancora scrisse di comunismo anarchico.

3 Sugli esperimenti comunistici nella storia si v. Salvatore Cognetti de Martiis, Socia-lismo antico, Indagini, Torino, Fratelli Bocca, 1889, pp. XXIV-632; e Alfred Sudre, Histoire du Communisme, Bruxelles, 1849 e Milano, Turati, 1849; la prima traduzione

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religiosi, con la costituzione di società ugualitarie per la coltivazione della terra nelle Colonie di oltre Oceano, erano assai numerosi e vari, non sempre fortu-nati, ma tali da dar ragione agli scettici con il passaggio dall’utopia all’accer-tamento4.Lo stesso Giovanni Rossi aveva realizzato la colonia “Cecilia” in Sud America5 con esito incerto e da Reggio Emilia, Gaetano Chierici si era posto a capo di una Comunità in Africa6, con esito altrettanto negativo.

italiana: Storia del Comunismo o confutazione istorica delle utopie socialiste, Livorno, Tip. Vannini [Borgo a Mozzano], 1851, p. 352. Le suggestioni sono tutte nel dialogo cinquecentesco di Anton Francesco Doni tra il savio ed il pazzo in cui descrive tutto un sistema di vita sociale razionale, tanto perfetto però che i sacerdoti ne devono garantire il controllo; v.: Utopisti e riformatori del cinquecento, a cura di Carlo Curcio, Bologna, Zanichelli, 1941, pp. XXIII-212. Dall’utopia alla storia, il controllo non viene meno e passa al partito nel socialismo sperimentale di Rossi. Ma ormai si era giunti allo spar-tiacque tra l’utopia comunista egualitaria ed il comunismo anti-borghese da conseguire per via rivoluzionaria e non solo per via razionale, anche se Rossi, distingue tra evolu-zione nei mezzi e rivoluzione nei fini per esorcizzare la violenza implicita nella seman-tica “rivoluzione”, così da non scoraggiare i filantropi, chiamati a raccolta per sostenere le sperimentazioni del comunitarismo agrario che via via propone.

4 Dalla società comunistica di Diodoro Siculo a Lipari alle Zadrughe albanesi, su base etnico-familistica, alle comunità monastiche, gli esempi nella storia non mancano, ma sempre nella difficile coniugazione della uguaglianza dei beni materiali, con l’ugua-glianza dei valori e la gerarchia del potere interno, con cui Marx, Engels e Lassalle fa-ranno definitivamente i conti, con il cosiddetto comunismo “scientifico” esteso a tutta la società e non più solo ad una porzione di essa,v.: Carlo Curcio, Comunismo [alla voce], in: Enciclopedia filosofica, Venezia, Istituto per la Collaborazione Culturale, 1957, vol. I, pp. 1127-1135.

5 Cardias [Giovanni Rossi] scrive a Costa il 21 gennaio 1891: “Qualche prefettura mette difficoltà insormontabili ad alcune famiglie socialiste che vorrebbero raggiungere la Co-lonia Cecilia fondata nel Paranà (Brasile)”. Prosegue Rossi: “Mi pare che lo spirito della legge e delle circolari sull’emigrazione sia di proteggere i lavoratori contro possibili e facili speculazioni. Ora è noto che la nostra impresa non è una speculazione”. Perciò, conclude Rossi: “Vorrei che tu mi ottenessi dal Ministro degli Interni una circolare alle Prefetture raccomandante che non si facciano difficoltà agli emigranti per la Colonia socialista Cecilia del Brasile, quando si presentino con una mia dichirazione”, Fondo Archivistico “Carte Costa”, Biblioteca Comunale di Imola, cit.;v: Cecilia, Comunità anarchica sperimentale. Un episodio d’amore nella Colonia “Cecilia”, Livorno, A cura del Giornale “Sempre Avanti!”, 1893, p. 80

6 La colonia reggiana in Africa con Gaetano Chierici fu sperimentata nel 1889. Anche il fratello di Camillo Prampolini, Giovanni, operò nel Gran Chaco Centrale, nella Colonia di Monte Lindo nel 1891, come direttore agrario, v.: Renato Marmiroli, L’avventura salgariana d’un reggiano nel Gran Chaco, Reggio Emilia, Bizzocchi, 1965, p. 11.

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L’incontro, tuttavia, di due volontà, generose e cercanti, di Giovanni Rossi e di Giuseppe Mori7, diede l’avvio nell’autunno 1887- mentre dilagavano le manifestazioni agrarie nella bassa padana - ad un breve ed intenso processo di aggregazione rurale - a cavallo del Po -, a Cittadella nel Cremonese, benedetto dal socialista Leonida Bissolati8, ed a Torricella di Sissa, nel Parmense, con il benevolo appoggio di un banchiere, Weill-Schott, e la congiunta adesione dei radicali Ernesto Nathan, Gian Lorenzo Basetti, Ettore Sacchi e dell’onnipresen-te Carlo Ramussi, direttore del Secolo di Milano.Determinato e incalzante, Giovanni Rossi, scriveva ad Andrea Costa: “Da dieci anni vivo solo per questo progetto, e non l’abbandono. Ho fiducia nelle piccole forze chiamate per uno scopo pratico e sollecito. Promoverò la costituzione di una società, raccoglierò i mezzi per fondare almeno una modesta fattoria. Sono tenace, e a mia volta ti dico: Vedrai! Se credi che la colonia debba assomigliare alle ultroceaniche o ad un convento di trappisti, no!, deve essere un centro di vita moderna. Per il partito nostro deve essere un’officina, una scuola, un asi-lo, una banca. Per raccogliere più facilmente i mezzi potremo dargli carattere filantropico. Persisto nel mio proposito, e non dispero, di averti un giorno a collaborare”.9

Cooperazione e socialismo, sono ancora due distinte risposte alle problematiche sociali. Non tutti i socialisti, compresi nell’attivismo delle Leghe di resistenza, si rapportano con la filosofia collaborazionista che la cultura cooperativistica comporta. Non hanno ancora verificato tutte le potenzialità che le strutture coo-perative nel consumo, produzione e lavoro, nella trasformazione agro-alimenta-re possono apportare al movimento socialista. Ne sarà un esempio il Congresso Internazionale cooperativo di Cremona del 1907 salutato con molta tiepidezza dai socialisti cremonesi, che lo vedono come parto dei radicali e liberali mini-steriali alla Sacchi, Luzzatti, Orlando e Cocco Ortu, ma viene salutato dai socia-listi di Reggio Emilia, prampoliniani, con l’apoteosi dell’inaugurazione della

7 Il dr. Giuseppe Mori, nato verso il 1840 a Stagno Lombardo, vi scomparve il 2 aprile 1905. Deputato nella XIV e XV Legislatura, sedette tra i mazziniani. L’esperimento cui prestò i propri terreni e la propria opera fallì dopo due anni; v.: Statuto Organico della Associa-zione Agricola Cooperativa di Cittadella in Comune di Stagno Lombardo, approvato nell’Ass.Generale dell’11 novembre 1887, Cremona, Tipografia Sociale, 1887, p. 23.

8 Leonida Bissolati-Bergamaschi, dopo: I contadini nel Circondario Cremonese, Cremo-na, Tipografia Sociale, 1886, p. 45, aveva scritto sull’esperienza di Stagno Lombardo in: Le affittanze collettive in Italia. Inchiesta condotta dalla Federazione Italiana dei Consorzi Agrari, Piacenza, 1906, p. 27

9 Fondo Archivistico “Carte Costa”, Biblioteca Comunale di Imola, n. 317, 373, 389, 562, 1136, 4488-4493; v.: Nazario Galassi, Vita di Andrea Costa, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 651, v. in particolare pp. 368, 373

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prima ferrovia cooperativa, monumento emblematico all’orgoglio realizzatore della cooperazione “globale”, immaginata “integrale” dai leaders reggiani del movimento, soprattutto Vergnanini, che trova il proprio cantore in Meuccio Ruini, un decennio più tardi. In questo clima si realizza l’11 novembre 1887 a Cittadella di Stagno Lombar-do, nella provincia di Cremona il sogno di Rossi, che l’anno seguente vuole ripetere a Torricella di Sissa nella provincia di Parma.Le due località non sono scelte a caso, ma oggetto di lunga attenzione delle sensibili antenne del radicalismo lombardo e parmense, strettamente vicino ma concorrente con i socialisti, legati ad una matrice comune garibaldina, più che mazziniana,volontaristica, cooperativa e mutualistica Il tiepido interesse di Turati e di Costa, è coperto dall’entusiasmo con cui Leo-nida Bissolati10 accoglie l’iniziativa, scrivendone nel dicembre 1887 sul pe-riodico di Angelo Ghisleri, “Cuore Critica”, con appassionata partecipazione. Emigrazione, scioperi, pellagra, analfabetismo, scarsa socialità, retribuzioni al di sotto del minimo di sopravvivenza: un reddito di un famiglia di contadini di nove persone, di cui cinque lavorino in quelle campagne, percepisce 950 lire all’anno. La risposta non è la piccola proprietà spezzettata, ma l’associazioni-smo con lo sviluppo della socialità e solidarietà, come già il mutuo soccorso e le leghe di resistenza hanno messo in atto.Dando credito all’esperienza di imprenditore di Giuseppe Mori, Bissolati ritie-ne che con una conduzione da lui garantita, con il terreno messo a disposizione ed i capitali di gestione anticipati, si possa intraprendere questo esperimento di autogestione che, purtroppo, il suo animatore il Cardias-Giovanni Rossi, su “Cuore Critica”, riassumerà in alcune conclusive osservazioni finali: “Erano 135 persone, delle quali 101 associate, intelligenti, ma imbevute ancora di pre-giudizi, avverse istintivamente al progresso scientifico dell’agricoltura; erano buone, ma l’antica lotta per l’esistenza, l’abitudine degli interessi organizzati per famiglia, il possesso di qualche peculio, ha messo anche in loro quella me-dia di egoismo gretto e miope che troviamo dappertutto nella nostra generazio-ne, e che è uno degli scogli maggiori contro cui si urta e si spezza la navicella della propaganda socialista”.Perdita di interesse nel lavoro, rigetto delle gerarchie aziendali pure democrati-camente elette, calo della produttività: l’accertamento è sconsolante, ma l’intui-zione di Bissolati alla lunga è vincente. Contro le perplessità iniziali di Turati e di altri socialisti verso la cooperazione, perché non corente ed anzi contrapposta con l’obiettivo fideistico della “collettivizzazione”, si introduce l’elemento vo-lontaristico, l’individualità educata a cooperare, la responsabilità come etica di

10 Ugoberto Alfassio Grimaldi-Gherardo Bozzetti, Bissolati, il “Compagno Mussolini” lo fece espellere dal partito, Milano, Rizzoli, 1983, p. 304, passim

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partecipazione, che non vuole la palingenesi sociale, il meglio, ma si accontenta del bene, qui ed ora, delle riforme possibili. Anche l’esperimento comunistico di Cittadella e Torricella fa parte di questa storia. Non sono in contraddizione tra loro socialismo, cooperativismo, comu-nismo. Sono momenti sinallagmatici di fronte alla crescita impetuosa, caotica, di quantità sociali ed altrettali qualità del vivere sociale che cercano risposte, sperimentano soluzioni, contraddicono attese, ma si muovono. Nel quadro della democrazia liberale che si sta consolidando, rinnovando classi dirigenti, metodi di selezione sociale, allargamento della base attiva della popolazione, nei dove-ri e pure nei diritti, la coesistenza e la concorrenza di realtà sociali, economiche, religiose, culturali, diverse e spesso contrapposte, è la cultura stessa vivificante della crescita della nostra civiltà. Quando una di queste forme, diventi totaliz-zante, allora sì, che s’inceppa il dinamismo sociale sino a che, per forza stessa endogena, non esploda nelle proprie contraddizioni e si dispieghi in coerenza con il modello generale della liberal-democrazia. Né meccanicismo, né deter-minismo: la chiave di comprensione è solo storica. Il socialismo sperato di Ugo Rabbeno, la sua attesa politica non militante, il metodo scientifico paradigmatico per aggirare le trappole dell’ingaggio parti-giano, lo rendono un emblematico testimone della sua età, a sua volta paradig-matico per scandagliare l’auroralità dei miti che infiammano la fine del secolo. Nell’intensità di un breve vissuto, si succedono le suggestioni che lo coinvolgo-no, gli fanno cavalcare la storia: l’evoluzionismo darwinista, il cooperativismo, l’elisione fondiaria, il socialismo scientifico. Non è vissuto a sufficienza per farci sapere se, all’appuntamento con la nuo-va Italia Giolittiana, si sarebbe trovato al fianco del volontarismo socialista di Bissolati, al bene della coperazione e del sindacato, o al meglio, dell’intransi-gentismo che ha assunto, dopo aver abbandonato anche Turati, via via i volti di Mussolini, Lazzari e Bombacci.La micro-vicenda di Cittadella e Torricella contiene in nuce tutti gli elementi per anticipare questa scelta. Rabbeno è informato minutamente delle attività e pro-spettive dell’esperimento e ne coglie tutti gli aspetti nel suo vasto e dettagliato repertorio sulla cooperazione - libro classico del movimento - senza escludere, dando conto delle speranze, possibili esiti negativi dell’esperimento.11

Al paragrafo 143 della propria poderosa summa sulle società di produzione in Italia, Rabbeno, dopo di aver definito singolare “l’esperimento in corso a Citta-della”, lo riassume nei suoi termini storici.

11 Ugo Rabbeno, Le società cooperative di produzione, contributo allo studio della que-stione operaia, Opera premiata dal R. Istituto Lombardo di Scienze Lettere ed Arti, Milano, F.lli Dumolard, 1889, pp. XIX-531, v. in particolare pp. 297-298

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“Una associazione di 17 famiglie di contadini, che nulla possedevano, assunse in affitto un podere di 113 ettari e ne imprese la coltivazione. Il progetto pri-mitivo era quello di farne una colonia comunista: ma le esigenze della pratica la traformarono in una semplice associazione cooperativa, in cui anzi parte dei lavori (parte della coltivazione a granoturco, dell’allevamento dei bachi, dei majali, delle galline, e la cultura degli ortaggi) è lasciata a ciascuna famiglia per conto suo. Il resto della coltivazione si fa per conto sociale ed i soci hanno una retribuzione fissa preventiva, varia secondo le funzioni, e partecipano, in proporzione di questa, al 50% degli utili; mentre il resto è dedicato al riscatto del capitale mobile, fornito da principio dal Mori [dall’ex-deputato Giuseppe Mori che fornì la terra e tutti i capitali occorrenti]”.Messa in luce la natura di vera associazione cooperativa per la coltura della ter-ra, il numero dei soci e l’estensione del terreno, la direzione democratica della coltura affidata alla assemblea generale delle famiglie, cui partecipano anche le donne, Rabbeno si duole che la forma sia cooperativistica anziché socialista, con la consueta attenzione a rifiutare il bene per apettare il meglio, sollevando due posibili eccezioni sugli esiti dell’iniziativa: il condizionamento ambientale in una regione infeudata alla grande proprietà e la “rozzezza” degli elementi che la animano [ovviamente i contadini].Anche un esempio di vita in comune deciso da alcuni nuclei famigliari, non in-coraggia Rabbeno ad un giudizio positivo; premesso l’interesse dell’esperimen-to, “non sappiamo – aggiunge – se durerà, né ad ogni modo ci sembra davvero esempio imitabile”. Con il fervore di apostolo laico, che non “sdegnò di prende-re la zappa e la vanga e di farsi contadino”, Giovanni Rossi- incurante dei dubbi di Rabbeno-, intende imitare l’esempio e sull’altra sponda del Po, in provincia di Parma, a Sissa opera per costituire un’altra colonia, quella di Torricella. In due lettere successive, Rossi informa Rabbeno, sulle sue iniziative, sulle pro-spettive e sui mezzi per farvi fronte, fornendo, l’elenco dei sottoscrittori delle quote ed il progetto finanziario redatto da Ernesto Nathan, con il sostegno di Ettore Sacchi, radicale, e di Leonida Bissolati, socialista. Ad essi si aggiungono altre personalità del mondo liberale-radicale, con solida-rietà di Loggia, che contribuiscono a descrivere legami ed iterazioni di inizia-tive anche atipiche, ma con forte connotazione sociale.Di Parma, oltre ai Basetti, Atanasio e Gian Lorenzo, vi è il prof. Pellegrino Strobel, membro della Associazione Democratica Progressista di Parma e so-stenitore della candidatura democratica di Clemente Asperti nel Collegio12. Sil-

12 Pellegrino Strobel, nato a Milano il 22 agosto 1821 e scomparso a Vignale di Traver-setolo il 9 giugno 1895, fu docente dal 1859 di Scienze naturali nell’ateneo Parmense.

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vano Lemmi13 da Firenze e Luigi Ferrari14 da Rimini, ma entrambi radicati a Roma, portano la solidarietà personale e dei propri ambienti legati a Nathan della Gran Loggia d’Italia. Da Roma ancora interviene Baldassarre Odescal-chi15 e da Bordighera il religioso protestante Clarence Bickwell16. Da Genova Sampierdarena, aderisce Emanuele De Asarta, dell’illustre famiglia di origini spagnole, tra i sostenitori del movimento cooperativo nel Golfo, di ambiente legato al banchiere Weill-Schott.Né mancano solidarietà cremonesi, oltre il gruppo Bissolati, negli ambienti più vicini alla cooperazione da Giuseppe Bollori a Giuseppe Garibotti.17

Con L. Pigorini, G. Chierici e B. Gastaldi fu il fondatore della paletnologia italiana, con particolare attenzione alla cultura delle “terremare”.

13 Silvano Lemmi, nacque a Ginevra il 1° novembre 1857. Si occupò delle attività econo-mico-finanziarie della famiglia ed introdusse la fabbricazione delle sigarette in Italia a Firenze con le “Macedonia”, dopo un viaggio in Oriente. Tesoriere dalla Gran Loggia d’Italia con Nathan. Animatore del blocco liberale-radicale che nell’89 portò sindaco a Firenze il Guicciardini, anticipando l’analogo risultato di Roma con la candidatura a Sindaco dello stesso Nathan, un decennio più tardi.

14 Luigi Ferrari, figlio del Conte Sallustio e di Teresa Rasponi, nacque a Rimini il 3 aprile 1849 e si dedicò alla politica con forte tensione sociale sia a Rimini che a Roma. Radicale aderì al Patto di Roma nel Congresso Democratico del maggio 1890, avvicinandosi sem-pre più a Giolitti ed al liberalismo costituzionale, andando al Governo col primo Giolitti nel 1893. Venne ucciso in una lite con un gruppo di giovani il 10 giugno 1895 a Rimini.

15 Baldassarre Odescalchi, principe, Grande di Spagna, (Roma, 22 giugno 1844 – Civita-vecchia, 5 settembre 1909), consegnò a Vittorio Emanuele i risultati del Referendum; in Parlamento sedette tra la sinistra liberale, con Rattazzi, contro Crispi, legato agli ambienti delle “Democrazia” dopo il Patto di Roma.

16 Clarence Bicknell: “Un infelice non ricorreva mai a lui senza ottenere un soccorso ef-ficace e duraturo, che non aveva mai il colore d’elemosina”, così Issel, ricordato nello scritto monografico di Enzo Bernardini, Clarence Bicknell, Edward e Margaret Berry, Bordighera, Istituto Internazionale di Studi Liguri, 1972, p. 20. Al centro della comunità inglese di Bordighera; aveva trasformato la proprio villa, ove ora ha sede l’Istituto, nel primo Museo della Liguria Occidentale; già religioso, naturalista, dotato di ampi mezzi. Nato il 27 ottobre 1842 presso Londra, laureato in matematica a Cambridge, a 36 anni si era trasferito in Liguria, dopo lunghi giri per il mondo, eleggendola per sua nuova dimora.

17 Giuseppe Garibotti (nato a Cremona il 28 agosto 1865), operaista, radicale e, quindi, parlamentare socialista nella XXV e XXVI Legislatura; per la sua azione cooperativi-stica, v: Storia del Movimento Cooperativo in Italia, 1886-1986, Torino, Einaudi, 1987, pp. 893, in particolare nel saggio di Renato Zangheri. In particolare in argomento scris-se: La colonizzazione dell’agro romano e le cooperative agricole. Memoria presentata alla Federazione delle Cooperative della Provincia di Reggio Emilia, Cremona, Tipo-grafia Sociale, 1891, p. 59

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A queste solidarietà “esterne” si aggiungeva una non solita disponibilità am-bientale, ancora più pronunciata a Sissa di quanto non fosse nel cremonese. Già dal 5 agosto 1883 si era costituito il Circolo Democratico Istruttivo di tendenza radicale, tenuto a battesimo dal salsese Bernini, dal parmense Basetti, ma con una forte caratterizzazione locale, data dall’opera di proselitismo, incisiva an-che se non continua di Luigi Musini, di Zibello, orientato ormai al socialismo, con forte radicamento borghigiano.18 Clemente Chiari presiedeva il Circolo ed il successivo 8 settembre 1883 dava vita, con intenti decisamente elettoralistici, alla costituzione del Circolo Eletto-rale Democratico. Una affollata riunione popolare il 6 aprile 1885 raccoglieva i “caporioni” radicali non solo della zona, ma di vaste rappresentanze della Lombardia, con la sola discussione se tale manifestazione fosse da svolgersi a Sissa o Torricella. In questa occasione viene redatto dalla Sotto Prefettura di Borgo san Donni-no, con la collaborazione dei Carabinieri, l’elenco dei principali promotori dell’agitazione agraria nel territorio dei Comuni di Borgo, e cioè a Riolo di Soragna, S. Secondo, Zibello, Roccabianca, Busseto, Mezzani. Tra le decine di nomi citati, figura il solo veterinario di Sissa, Arcade Guareschi, ma dimorante a Mezzani.19

Le agitazioni agrarie sensibilizzano il territorio e al fronte radicale che si riorga-nizza, si aggiunge il nuovo fronte, in via di definizione, ma dilagante ed agguer-rito del socialismo contadino, che Luigi Musini aveva, secondo in Italia, dopo Andrea Costa, portato in Parlamento.Il 14 maggio 1885 con 56 aderenti, viene meglio definito il Circolo Istruttivo democratico che si richiama all’“irredentismo” di Guglielmo Oberdan con la presenza di professionisti, agricoltori, ma soprattutto artigiani. E’ un irredenti-smo di impronta garibaldina ed azionista, con connotazione repubblicana, cui si aggiunge - se non proprio si oppone - la nuova organizzazione tutta di contadini

18 Luigi Musini (Fidenza 1840 - Parma 21 febbraio 1903), volontario garibaldino nel ’66, a Villa Glori coi Cairoli, con Garibaldi in Francia nel 1870, medico condotto a Sissa, secondo parlamentare socialista dopo Costa, fu anche volontario esule in America.

19 Archivio di Stato di Parma, Fondo Prefettura: “Ordine Pubblico”, pacco 170: Prospetto concernente le associazioni politiche, 3° trimestre 1883, ff.2; Statuto e riunione del Cir-colo democratico istruttivo di Sissa, 19 settembre 1883 e 3 aprile 1885, ff. 1+1; Circolo Elettorale Democratico di Sissa, 23 settembre 1883, ff.4; Elenco dei Principali pro-motori dell’agitazione agraria nel territorio dei Comuni nel Circondario di Borgo San Donnino e Parma, 6 aprile 1885, ff.2; Società dei lavoratori nella frazione di Torricella di Sissa, 12 maggio 1885, ff.4; Società dei lavoratori nella frazione di Graminazzo, 20 maggio 1889, ff.4.

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di indirizzo non ancora, ma orientato al socialismo. Il 12 maggio dello stes-so anno si costituisce, infatti, la Società dei lavoratori di Sissa, presieduta dal contadino Luigi Soldi cui fa seguito il 20 maggio la costituzione della Società dei lavoratori di Graminazzo di Sissa, presieduta dall’altro contadino, Celeste Notari.20

Sul fronte democratico, l’interesse nazionale all’esperimento mantovano, si manifestava già nel giugno 1888: il “Messaggero” di Roma dedicava un’am-pia corrispondenza all’iniziativa, che il radicale organo cremonese di Sacchi, “Il Democratico”, riprendeva il 7/8 luglio successivo21 enfatizzando l’episodio, con vena poetica: “Gabriele Rosa scrisse una volta che il collettivismo agrario è un idillio, per dire che è un’utopia; gli idilli scomparvero con l’accademia, ma le utopie si realizzano oggi con l’associazione”.Alcuni accenni di sociologia agraria e di tecnica dell’organizzazione, danno corpo all’idillio, ma fanno aumentare i dubbi sull’esperimento, per l’eccesso di ottimismo sulla naturalità dei ruoli e sulla loro intercambiabilità anche in una società non complessa di poche decine di persone. “Nella prima assemblea ge-nerale fu eletta dai soci una comissione tecnica di quattro scelti tra loro; questa commissione si riunisce ogni sera per decidere sui lavori da eseguirsi il giorno dopo; e siccome i componenti la commissione hanno lavorato tutto il giorno insieme agli altri soci, parlando preferibilmente dei lavori in corso, così la sera, riunendosi per decidere, non fanno che interpretare i desideri generali, e si può dire che la direzione, in sostanza, è esercitata da tutti. La mattina, il presidente della commissione assegna a ciascuno il lavoro da eseguire, ed i gruppi partono volenterosamente per i diversi punti della fattoria”. Purtroppo, tra prescrizione ed accertamento, corre il rischio di una dislessia operativa che contraddice le aspettative: confondendo in sostanza e volenterosamente.Il parere contemporaneo di Leonida Bissolati, a favore dell’iniziativa, è viziato dal credere nelle proprie aspettative ed un parere contrario successivo di Felice Guarneri è basato sull’esperienza.Bissolati, nell’Inchiesta della Federazione dei Consorzi Agrari, a proposito del-le affittanze collettive cita quella di Cittadella, riportandola nella sostanza di un’affittanza collettiva, più che di un esperimento collettivista di gestione agra-ria; Guarneri mette in relazione l’intero capitale d’esercizio ed il fondo stesso

20 Archivio di Stato di Parma. Fondo Prefettura: “Ordine Pubblico”, pacco 177: Riunione a Sissa, 3 aprile 1885, f.1; Conferenza pubblica in Torricella di Sissa, 8 aprile 1889, ff.1. Vedi pacco 183: Elenco Nominativo del Circolo Istruttivo Democratico Guglielmo Oberdan in Sissa, 14 maggio 1885, ff.2

21 La colonia sociale di Cittadella, in “Il Democratico” (Cremona), a.1, n.16, 17-8 luglio 1888, p.2

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messi a disposizione, con anche la propria opera di amministratore del tutto gratuita, dal Mori, il concedente dei terreni all’Associazione, con l’esito finale negativo in breve tempo, due anni, dell’esperimento. “L’affittanza collettiva era stata dunque – avverte Guarneri – creata precisamente in quelle condizioni di eccezione che non possono esistere per la collettività. Perciò l’entusiasmo che l’on. Bissolati, dimostra per questa iniziativa (audace, per il tempo in cui fu tentata), dal punto di vista economico, e in quanto se ne voglia trarre argomento a favore delle affittanze collettive, va temperato”.22

Affittanze collettive e organizzazione dei braccianti. I due temi trovano Ugo Rabbeno in piena sintonia, più di quanto non sia stato con la sperimentazione delle colonie agricole di Rossi. Soprattutto nell’organizzazione dei braccianti, inspirata da Andrea Costa nel ravennate, Rabbeno individua i caratteri propri della cooperazione di produzione e lavoro, di cui condivide l’organicità sociale, l’omogeneità degli aderenti, la pratica coerente con la progressiva capacità di autogestione delle associazioni, i fini nel campo dei lavori pubblici e dei pubbli-ci appalti, dove il peso della mano d’opera fa aggio sull’impegno finanziario.23

Si afferma il bene che il riformismo liberale ed il socialismo riformista cerche-ranno nel quindicennio giolittiano, e si spengono le luci sul meglio che l’uto-pismo radicale ed “illuminato” cercava nelle Colonie, una risposta non solo di riscatto sociale, ma di fondazione dell’uomo nuovo razionale, una utopia laica, appunto.

22 Felice Guarneri, La questione agraria nel Cremonese. I. Conduttori di fondi e conta-dini, Cremona, Tipografia degli “Interessi Cremonesi”, 1915, pp.132-133. Sulla forma-zione culturale e politica di Bissolati v.; Fernando Manzotti, La giovinezza di Leonida Bissolati ricostruita su documenti inediti, in “Nuova Rivista Storica” (Città di Castello), a.41, fasc.1, 1957, p.24, anche in estratto: Città di Castello, Albrighi e Segati, 1957, p. 24; cfr.: Leonida Bissolati, Scritti giovanili raccolti e ordinati da Ghisleri e Groppali, Milano, Treves, 1921, pp.XVI-224; Ivanoe Bonomi, Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia, Roma, Il Sestante 1945, pp. XXIII-255; Raffaele Colapietra, Leonida Bissolati, Milano, Feltrinelli, 1958, p.316; recente l’opera collettiva: Leonida Bissolati, un riformista nell’Italia liberale, a cura di Maurizio Degl'Innocenti, Manduria, Lacaita, 2008, pp.131, in particolare sul sodalizio cremonese e su “Cittadella” v. pp. 63-64.

23 La lettera di Rabbeno a Costa in: Fondo Archivistico “Carte Costa”, n 622, Biblioteca Comunale di Imola, cit.; pubblicata parzialmente in: Nazario Galassi, Vita di Andrea Costa, Milano, 1989, cit., p. 373.

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1.Giovanni Rossi a Ugo Rabbeno

(Stagno Lombardo-Cremona, 12 agosto 1888)

Comune di Stagno Lombardo – Cremona, 12 agosto 1888Gentilissimo signor Professore,Le faccende in corso, e specialmente il raccolto delle patate, mi hanno impedito di rispondere fino ad ora alla gradita sua cartolina del 31 u.s. Voglia scusare il ritardo, ed accetti ora, i maggiori miei ringraziamenti per il libro prestato e per l’opuscolo regalatomi. Mandi pure il questionario su Cittadella, ed io procurerò di risponderle chiaramente; ma non sarebbe meglio venisse lei? certi dettagli, certe mezze tinte, certi lineamenti e certe funzionalità non si può sorprenderle che con un sopra luogo.E’ vero che nell’organizzazione di Cittadella i contadini hanno modificato i miei piani comunistici, ma non mi pare esatta la sua affermazione “la colonia non solo non ha nulla di socialista ecc.”. Ritengo abbia invece di socialista la organizzazione del la-voro libero e collettivo in quasi tutte le operazioni culturali. I salariati dell’agricoltura lombarda che diventano associati non solo in rapporto all’usufruimento dei benefici, ma anche riguardo al tecnicismo della direzione, dell’esecuzione e del controllo re-ciproco: ecco un fatto sociale prima increduto – ed io so la catastrofe pronosticata i primi giorni da i vicini e da qualche socio nostro – e per noi sufficientissimo ad inco-raggiare e legittimare la presa di possesso, rivoluzionaria, del terreno. Di fatto la solita obiezione ragionevole – la incapacità sociale ad usufruirlo collettivamente – non ci sarebbe più. So anch’io che certe nostre vecchie comunità domestiche, sul tipo della zadruga slava, sono più comunistiche di Cittadella, ma là c’è il vincolo della parentela prossima e, specialmente, c’è la forza della consuetudine.Per “più integrale cooperazione” a Cittadella intendo la cooperazione non solo degli interessi, ma anche dei sentimenti. Tutti i cespiti di produzione e tutte le operazio-ni agrarie entreranno nell’orbita della collettività. Alle anticipazioni ed ai dividendi sarà sostituita la gratuita distribuzione delle derrate; ai giovanetti faremo fare corsi di studi agricoli generali e speciali presso le diverse scuole italiane; la colonia si pro-porrà come scopo non tanto il proprio benessere, quanto la rivoluzione sociale, a ciò tendendo come esempio, come centro di agitazione, come sussidiatrice e refugio dei combattenti.Le dico francamente (perché quel che dico, lo dico sempre francamente) che credo riuscirà Cittadella a realizzare una eletta forma comunista, non per totale trasforma-zione degli elementi attuali, ma per innesto di nuovi.Gli ostacoli che la propaganda socialista incontra nell’animo di questi contadini, sono precisamente gli stessi che incontra la propaganda cooperativa: incredulità, sfiducia di se stessi, pessimismo, apatia, egoismo malinteso e gretto, ecc. ecc.La superficie totale è di ettari 113, dei quali caseggio, palude, lago ecc. ettari 5. A cultura 108.Credo anch’io che non si troveranno molti Mori; ma non ce n’ è gran bisogno, perché tanto a tanto Lei che è economista, saprà che legalmente e esclusivamente la classe lavoratrice non può assorbire il capitale; e siccome lei l’ha fatto, se lo piglia e tutti pari. Ma perché si decida a questo, oltre la nozione di giustizia, mi pare che occorra la sicurezza di potere arrivare ad una organizzazione migliore; a dare questa sicurezza

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varranno gli esempi; e trattandosi di esempi appena, anche se i Mori saranno pochi, dovremmo riuscire ugualmente.Per loro cooperatori, queste sono utopie o frenesie; loro rappresentano il socialismo pacifico, come Fourier lo rappresentò così splendidamente, per i suoi tempi. Faranno un buco nell’acqua, come lo fece Fourier. Per amore di quieto vivere, per repulsione artistica (dirò così) della violenza, loro rinnegano la giustizia, che è il diritto di tutti al capitale da tutti prodotto; e consentono si perpetui così uno stato di violenza legale, che in un giorno fa più vittime di quante ne ha fatte la rivoluzione francese. Del resto, cooperatori e socialisti siamo buoni amici, e dobbiamo covare a gara l’uovo coopera-tivo. Ne nascerà la bianca colomba della evoluzione economica o il grigio sparviero della rivoluzione sociale? Chi lo sa?!Vedrà che sto lavorando intorno ad un sunto storico sul “Socialismo pratico in Italia”1. Inteso il socialismo in senso lato, ha fatti da indicarmi? Gliene sarei gratissimo. Mi promise di scrivermi a lungo. Mantiene?Suo aff.mo

Giovanni Rossi

1. [Miscellanea Rabbeno, allegata al n. 1065] Orig. autogr.; 1 f. su carta intestata: “Asso-ciazione Agricola Cooperativa di Cittadella- Comune di Stagno Lombardo-Cremona”.

2.Giovanni Rossi a Ugo Rabbeno

(Stagno Lombardo-Cremona, 4 marzo 1889 )

Stagno Lombardo, 4 marzo 1889Egregio sig. prof. Ugo Rabbeno – PerugiaLe rimando finalmente l’interessante volume da Lei scritto, e La ringrazio tanto. Nel-l’ultima mia Le dissi che qui a Cittadella si sarebbe fatto anche un esperimento di convivenza comunistica; questo esperimento è in corso dall’11 nov. scorso e riguarda 16 persone appartenenti a cinque famiglie diverse, che non hanno tra loro alcun rap-porto di parentela. Le relazioni si mantengono finora perfettamente amichevoli, con piena soddisfazione di tutti i comunisti, che hanno aumentato il loro benessere, senza aver sacrificata parte alcuna della loro libertà. So anch’io che il numero delle perso-ne ed il tempo da che dura la prova è troppo limitato per potere tirare conclusioni; ma anche l’affermazione che il comunismo è una impossibilità naturale, mi sembra arrischiata. Pare che, anche in fatto di orientamento sociale, gli uomini possano fare quello che vogliono.In pratica, io non sono esclusivista: cooperazione, socialismo, comunismo sono per me fasi evolutive diverse che si adattano alle diverse età umane, e sarebbe lungo il dire perché ed in qual modo dobbiamo percorrere inversamente la strada che l’umanità ha fatto partendo nella sua infanzia dal comunismo, per traversare il collettivismo e giun-gere al particolarismo più o meno rozzamente cooperativo. Facciamo quello che si può secondo i nuclei di popolazionme che abbiamo sottomano; e specialmente vedia-mo alla prova, cosa è possibile e cosa è buono. Ora si raccolgono i mezzi per fondare una colonia sociale a Torricella Parmense, dove la popolazione presenta condizioni

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morali straordinariamente favorevoli.1 Forse qui sarà possibile una schietta forma socialista che è cooperazione integrale meno il capitale individuale. E siccome il più comprende il meno, la riuscita di Torricella messa insieme alla riuscita di Cittadella potrà persuadere i capitalisti che nelle imprese agricole cooperative possono trovare un investimento sicuro e fruttuoso.Allora i capitali affluiranno spontaneamente, e le associazioni di questo genere potranno moltiplicarsi e diffondersi, con grande vantag-gio degli agricoltori e dell’agricoltura. Ma finchè i fatti incoraggianti non sono suffi-cientemente numerosi e sufficientemente conosciuti, non si può sperare nel capitale di speculazione, e bisogna rivolgersi a quello di filantropia. E questo facciamo con la sottoscrizione della quale le mando copia.Spero che vorrà procurare anche Lei, nella cerchia delle Sue conoscenze, appoggio alla nostra iniziativa, tanto più che si tratta di un sicuro e, forse, vantaggioso colloca-mento di capitale. La riuscita degli appelli al pubblico a mezzo della stampa è assai problematica; in ogni modo vorremmo ricorrervi solo dopo avere esauriti i tentativi nella cerchia delle conoscenze personali. Vedrà che avendo ben cominciato, quasi siamo alla metà dell’opera, mentre sono in circolazione ancora una trentina di copie dell’Atto che le mando. Vi sono da aggiungere le adesioni dell’avv. Costantino Man-tovani di Pavia, di Romussi del Secolo, della Società Coop di Consumo e Operaio Universale di Sampierdarena, ma non so ancora quante sono le azioni rispettivamente sottoscritte.Se Ella ha influenza in qualche società operaia o coop., dovrebbe far capire loro che togliendo una parte dei loro capitali disponibili dalle banche per affidarli alla Colonia di Torricella, levano armi di sfruttamento agli speculatori e provvedono strumenti di redenzione ai fratelli contadini, facendo della solidarietà qualche cosa più che una parola. Da parte nostra, alle azioni delle società operaie si potrebbe assegnare l’inte-resse legale.In ogni modo, mi raccomando perché non getti queste carte in un dimenticatoio, ma le adoperi per aiutare la nostra iniziativa, e spero vorrà darmi sollecitamente notizia dei resultati che saprà ottenere.SalutandoLa distintamente, mi conf.mo suo obb.mo

Giovanni Rossi

2. [Miscellanea Rabbeno, allegata al n. 1141] Orig. autogr.; 1 f. su carta intestata: “Asso-ciazione Agricola Cooperativa di Cittadella – Comune di Stagno Lombardo – Cremona”; senza busta.

1. Come a Stagno Lombardo l’ambiente era stato preparato dal Circolo Elettorale Democratico di influenza radicale, vicino ad Ettore Sacchi, altrettanto il Circolo De-mocratico Istruttivo, radicale di Sissa, vicino ai radicali, ma anche ai socialisti, dove era viva l’influenza di Luigi Musini, nelle sue alterne vicende di deputato e di esule volontario, aveva reso permeabile l’ambiente alla propaganda ed all’azione non solo cooperativistica, ma collettivista. Per tutti gli anni ottanta si erano succedute iniziati-ve associative, soprattutto di contadini, con una spinta sociale ben oltre il mutualismo consueto, che non erano sfuggite a Rossi; v.: Circolo Elettorale Democratico, Statuto, Cremona, Tip. Sociale, 1885, pp.16; per l’associazionismo sociale a Sissa e nei co-

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muni viciniori ampia documentazione inedita in : Archivio Provinciale dello Stato di Parma, Archivio di Gabinetto, inv. 66: “Ordine Pubblico”, pacco 165 (1887 e 1888); pacco 170 (1888); pacco 177 (1898); pacco 183 (1890). In particolare si osserva, nella composizione sociale dei rispettivi direttivi, la diversa estrazione dei rappre-sentanti: artigianato e piccolo commercio per l’associazione radicale, contadini per le altre. Il Circolo Democratico Istruttivo, infatti al presidente Clemente Chiari, unisce il vice Pio Doninotti, caffettiere, Pietro Lettieri, proprietario, Ferdinando Bocchia, sarto, Giuseppe Reggi, falegname, Virginio Gualazzini, negoziante, tutti consiglieri, di Sissa, con 150 soci di cui 65 operai , 35 esercenti professioni, 23 possidenti, 27 nullatenenti, che non si esercitano al poligono, e, quindi, non sono sovversivi, come annota il verbalizzante della Prefettura. Altrettanto di estrazione “borghese” i dirigenti del Circolo Elettorale, presieduto dallo stesso Clemente Chiari con segretario Anto-nio Rossi. La Società dei lavoratori nella frazione di Torricella di Sissa, ha 90 soci, ed è presie-duta da Luigi Soldi, contadino, come contadini sono il segretario Costante Bertinelli ed i consiglieri Zeffiro Artusi ed Evangelista Pecchini, solo un falegname: Cristoforo Mezzadi, tutti di Sissa.“Non hanno divisa, non hanno armi, non si esercitano al tiro a segno”: sono rassicuranti i rilievi fatti dai verbalizzatori dell’appunto prefettizio. Altrettanto radicati nel territorio i 45 soci della Società dei lavoratori nella frazione di Graminazzo di Sissa, presieduti dal contadino Celeste Notari e con consiglieri altri contadini: Edoardo Paglierini, Ferdinando Perrini e Pietro Guareschi; calzolai sono Giovanni Belloccio e Vincenzo Cuppini; sarto, il vice presidente Lanfranco Piccinini.Dell’8 agosto 1889, infine, la Società Morale di Coltaro di Sissa con 25 soci, tutti contadini, così come i propri rappresentanti: il presidente Bernardo Donzelli; i con-siglieri Cesare Morini, Angelo Mantovani ed il segretario Angelo Carboni. Anche a Gramignazzo e Coltaro: “non sono ordinati militarmente, perciò non hanno divisa, non hanno armi di sorta, non si esercitano al tiro a segno” rassicura l’appunto prefet-tizio sull’“0rdine pubblico”.

3.Per la costituzione di una Colonia Agricola Sociale

a Torricella di Sissa in provincia di Parma (Memoria, 4 marzo 1889)

L’11 novembre 1887, per iniziativa di Giuseppe Mori , si costituiva tra sedici famiglie di contadini, fino allora salariati sul suo podere Cittadella in Comune di Stagno Lom-bardo, un’associazione agricola cooperativa di produzione, che ha dato i più soddi-sfacienti resultati compatibili con lo stato di civiltà e con le attitudini di socievolezza dei contadini lombardi. Consapevoli essi stessi del grado di queste loro attitudini, i cooperatori di Cittadella si sono proposti uno schema di organizzazione che, lontano ancora dall’ideale più elevato di completa solidariertà, pur rappresenta una condizio-ne sociale molto superiore al servilismo passivo ed incosciente del salariato, come al particolarismo gretto ed impotente del piccolo affittuario e del mezzadro. A Cittadella i contadini partecipano direttamente col consiglio e col voto alla direzione dei lavori, quasi tutti eseguiti in modo e per interesse collettivo.

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Questo primo resultato incoraggia a sperare, non solo che l’Associazione di Cittadella abbia a progredire, mano mano che con l’esercizio si svolgeranno le facoltà intellet-tuali dei soci, ma che più splendidi resultati si potranno ottenere, quando la coopera-zione agricola si organizzi tra contadini spregiudicati.Un nucleo di popolazione moralmente rinnovata si trova nel paese di Torricella in Co-mune di Sissa, provincia di Parma. La grande maggioranza dei contadini di Torricella, comprese le donne, ha fatte sue da cinque anni le idee emancipatrici, e per difenderle ha subito eroicamente la prova di fuoco dei sacrifici più dolorosi, ed ha preferito soffrire gli sfratti ed il diniego di lavoro, come ha preferito respingere le blandizie e le offerte, piuttosto che rinnegare o mercanteggiare quel nobile ideale di libertà e di fratellanza umana, che ormai ha sollevato i loro cuori ed ha purificato i loro costumi.Di fronte alle persecuzioni padronali delle quali quella popolazione è vittima, può sembrare doveroso alle persone buone sorreggere quel forte paese, prima che il tarlo assiduo e fatale della miseria lo sfasci moralmente; agli studiosi di cose sociali può sembrare opportuno mettere le spiccate attitudini di socievolezza, colà rivelatesi, in giusta equazione con le forme e con la sostanza della vita civile; i patrioti potranno veder in questa iniziativa di colonizzazione interna, il primo segno di un movimento da contrapporre alla disperata emigrazione dei contadini.Per l’una o per l’altra, o per tutte queste considerazioni, diamo una promessa di ade-sione al progetto di costituire una società anonima per azioni, allo scopo di comperare un fondo esistente in Torricella e chiamato “Il Palazzo”, oppure un altro parimenti adattato. Divenuti comproprietari di questo terreno, tratteremo con la Unione lavora-trice, che ha il maggior numero di aderenti in Torricella, per affidargliene la coltiva-zione sociale nei modi da convenirsi.Il signor ingegnere Landriani di Soresina, l’agricoltore Ansoldi di Cittadella ed il Rossi segretario dell’Associazione di Cittadella hanno già visitato il possedimento “Palazzo”, riconoscendo che il suo acquisto, pel prezzo ora domandato, costituisce già in condizioni ordinarie un buon affare, tenuto conto dei miglioramenti di cui quel terreno è suscettibile.Il preventivo stabilito è il seguente:Prezzo d’acquisto £. 100.000Dotazione di bestiame, attrezzi, ecc. 30.000Restauri e bonificamenti 10.000 Anticipazioni ai lavoratori 10.000

A coprire questo capitale di £. 150 mila, saranno emesse 300 azioni da £. 500 ciascu-na, che ora promettiamo sottoscrivere, subordinando l’impegno definitivo alla rego-lare costituzione della società, da farsi appena siano sottoscritte tutte le azioni, ed in base ad uno statuto che dovrà essere approvato da ciascuno di noi.Facciamo appello alle persone agiate e buone, perché concorrano ad aiutare così uma-namente gli animosi contadini di Torricella, ed a mostrare su quel lembo di libera terra le armonie sociali dell’avvenire.Raccomandazione: Rimandare sollecitamente questo documento sottoscritto, all’in-dirizzo: “Giuseppe Mori – Stagno Lombardo”

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Nome Indirizzo N.° delle azioni

Il banchiere signor Weill-Schott ha promessosottoscrivere dalla 250° alla 300° azione 50

Emanuele De Asarta Via Peschiera 6-Genova 50

Giuseppe Mori Stagno Lombardo 10

Pizzamiglio – Bissolati Cremona 1

Giuseppe Boldori Cremona 1

Giuseppe Garibotti Cremona 1

Ernesto Nathan Roma 2

Giovanni Viani Moscoline 2

Baldassarre Odescalchi Roma 2

Sabatino Rosselli Livorno 2

Prof. Pellegrino Strobel Parma 1

Clarence Bickwell Bordighera 1

Luigi Ferrari Roma 1

Silvano Lemmi Firenze 2

Lorenzo Basetti Roma 1

Ettore Sacchi Cremona 1

3. [Miscellanea Rabbeno, allegata al n. 1199] Orig. autogr.; 4 ff. su carta bianca; senza busta.

4.Schema di piano finanziario proposto dal sig. Ernesto Nathan

(Allegato B, 4 marzo 1889)

I sottoscrittori delle azioni si costituiranno in Società Anonima, che acquisterà il fon-do in nome proprio e l’affitterà all’Unione lavoratrice, uniformandosi al modo segui-to con successo dal sig. Giuseppe Mori per l’affitto del suo podere “Cittadella”.La Società anonima, inoltre, somministrerà i fondi per l’acquisto delle scorte vive e delle scorte morte e per le necessarie anticipazioni ai lavoratori.Un rappresentante della Società anonima sarà cassiere.Il canone di affitto sarà calcolato in modo da assegnare agli azionisti il 3 oppure il 4% del capitale impiegato.Rimborsate le anticipazioni ai lavoratori, gli interessi del capitale circolante, il canone di affitto, prima di repartire l’eccedenza fra l’Unione lavoratrice e la Società anonima, ne sarà prelevata la metà per costituire un fondo di ammortamento, mediante il quale

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l’Unione suddetta rimoborserà alla Società il capitale anticipato, sorteggiando il nu-mero di azioni equivalente alla quota prelevata.Fino al rimborso, le scorte vive e morte saranno proprietà della Società Anonima.

4. [Miscellanea Rabbeno; allegata al n. 1199] Orig. autogr.; 1 f. su carta intestata: “Asso-ciazione Agricola Cooperativa di Cittadella – Comune di Stagno Lombardo-Cremona”, Allegato B.

5.Atto di Costituzione dell’“Unione Lavoratrice

per la colonizzazione sociale in Italia “ (Allegato A, 11 dicembre 1888)

I sottoscritti contadini operai e professionisti si raccolgono in Associazione sotto il nome di “Unione Lavoratrice per la Colonizzazione sociale in Italia”,allo scopo di- Colonizzare i terreni dei quali potranno disporre, organizzandovi socialmente la

proprietà il lavoro e la convivenza.- L’Unione lavoratrice ha sede provvisoriamente in Cittadella, comune di Stagno

Lombardo, provincia di Cremona, e per un anno da oggi è rappresentata dal socio Giovanni Rossi, che ne fa gli interessi.

- Presso la sede della Società, e per un anno da oggi, funziona da cassiere il sig. Giu-seppe Mori, proprietario di Cittadella.

- A raggiungere il suo scopo, l’Unione lavoratrice utilizzerà il concorso finanziario di quanti vogliono operare a vantaggio della classe lavoratrice e per lo studio spe-rimentale del problema civile. Confida anche nelle Associazioni Popolari - special-mente in quelle di Mutuo Soccorso ed in quelle cooperative, con le quali tratterà per l’accettazione di orfani dei loro soci nelle colonie dell’Unione.

- Il profitto netto delle operazioni sociali sarà destinato ad aumentare il numero dei coloni, ed a far conoscere la bontà delle forme sociali che meglio riusciranno alla prova della pratica attuazione.

- Le successive deliberazioni sociali determineranno più particolarmente i modi di essere e di agire dell’Unione Lavoratrice per la Colonizzazione sociale in Italia.

11 dicembre 1888

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6. [Miscellanea Rabbeno, allegato al n. 1199] Foglio volante a stampa senza indicazione di tipografia con l’elenco degli aderenti all’Associazione.

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L’ALMANACCO, n. 53 2009

Incontro a Montevideocon una intellettuale anarchica

Corrado Corghi

Ero partito da Roma il 18 settembre 1967 con il giornalista De Sanctis e con Mario Primicerio, collaboratore di La Pira (sarà eletto sindaco di Firenze),

per raggiungere La Paz col compito di vagliare la situazione politica boliviana e operare per la liberazione del giovane intellettuale francese Regis Debray, come ci era stato chiesto di fare dal comitato di Parigi e da quello italiano presieduto da Moravia. Era il periodo del processo istituito dai militari a Camiri, cioè nel luogo di detenzione del prigioniero, ed era l’ultima fase della guerriglia del Che. Il nostro impegno permetterà di portare a Roma e a Parigi informazioni che saranno utili per raggiungere, dopo altri miei viaggi a La Paz e a Camiri, la liberazione (v. “Note di cultura” – n. 35 gennaio 1968 – Firenze il mio Diario di due viaggi in America latina). Dopo una sosta a Buenos Aires, il 17 ottobre raggiunsi Montevideo per un incontro col presidente della DC uruguayana, il deputato Juan Pablo Terra, mentre infittivano arresti di politici e di sindaca-listi. Era ovunque in azione la guerriglia dei Tupamaros che aveva ottenuto un riscontro nella Conferenza Tricontinentale svoltasi all’Avana nel gennaio dell’anno precedente, pur nel contrasto cino-sovietico. Proprio sui risultati di quella Conferenza il governo dell’Uruguay aveva minacciato di rompere le re-lazioni diplomatiche con l’URSS. A Montevideo mi era stato presentato Carlos Nunez, del settimanale “Marcha” e Hector Borrat, direttore di “Vispera”, vidi il presidente del Banco del Lavoro, Domenico Pellegrini, che era stato coman-dante della “brigata nera speciale” e ministro della finanza nel governo musso-liniano di Salò.All’inizio del novembre 1975, come presidente del Collegio Sindacale dell’In-ter Press Service feci un nuovo viaggio in America Latina per visitare le sedi dell’IPSS e incontrare i giornalisti. In Perù, dopo il colpo di Stato dell’ottobre 1968 il governo militare rivoluzionario era presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado che a causa della crisi economica era stato sostituito nell’agosto del 1975 dal generale Francisco Morales Bermudez. Questi militari rivoluzionari si ispiravano ai valori socialisti, umanisti, libertari e cristiani, ma si autocon-

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servava la struttura capitalista e si rafforzava la destra civile. A Lima avevo in-contrato molti personaggi politici e fra questi il fondatore dell’APRA (Alleanza Popolare Rivoluzionaria Americana) Haja de la Torre, il presidente della DC Cornejo Chavez, il Segretario generale della CGTP Espinoza, l’ex presidente della repubblica boliviana in esilio Paz Estensoro, che mi ricordò il suo rifugio alla Nunziatura diretta da mons. Pignedoli dopo la sua caduta per un golpe, il segretario generale del Partito Comunista, Del Prado.A Buenos Aires avevo incontrato altri politici e fra questi Campora, che era sta-to eletto presidente della Nazione nel 1973 per aprire la strada a Peron col suo ritorno alla Casa Rosada, ma in quell’anno per la morte del leader era subentra-ta la moglie Isabella alla presidenza. Era nell’aria un golpe militare, come era avvenuto nel 1973 in Cile, con l’assassinio del presidente Allende e l’avvento del generale Pinochet. Con l’inizio dell’azione pubblica dei Montoneros nel 1970, la violenza militare e dei gruppi armati a loro paralleli era andata aumen-tando. Riuscii ad incontrare alcuni giovani che militavano fra i Montoneros e che provenivano dall’ala sinistra della DC argentina.Nelle prime ore di una solare domenica del 30 novembre attraversai La Plata e raggiunsi Montevideo in compagnia del professor Oberdan Caletti, direttore della Camera Argentina de Publicaciones, il quale mi aveva suggerito un incon-tro col professor Rodolfo Mondolfo che aveva compiuto 98 anni. Considerai un dovere conoscere lo storico del pensiero moderno e delle dottrine politiche-so-ciali, ma anche un doveroso omaggio ad un intellettuale ebraico che le nefande leggi razziali avevano costretto all’esilio.

L’Uruguay: da Garibaldi Libertador ai Tupamaros

Dopo il mio primo viaggio avevo cancellata la definizione di Uruguay come Svizzera americana. Questo paese si era costituito in nazione nel 1853 dopo la lotta contro gli spagnoli sotto la guida di Gervasio Artigas (1811), poi contro i portoghesi che intendevano annetterlo al Brasile (1821), infine vincendo un lungo conflitto con l’Argentina, che fu nello stesso tempo guerra civile e che vide Garibaldi assumere il comando della flotta uruguayana e della “legione italiana” a difesa del pesante assedio di Montevideo. L’Uruguay nacque sulle ceneri delle Provincie Unite di Rio della Plata, come stato cuscinetto secondo gli interessi inglesi. Due partiti, il Colorado e il Nazionale, o Blanco, rappre-sentano da sempre il primo gli interessi delle oligarchie industriali, commerciali e della classe media, il secondo gli agricoltori e i gauchos. Con paternalismo autoritario e dirigismo statale i governi coniugarono tendenze sociali col liberi-smo e il laicismo (presidenza Batlle all’inizio del ‘900). Dopo la prima guerra mondiale si produsse l’interruzione istituzionale, con la presidenza di Gabriel

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Terra, e l’attuazione della Ley de Lemas del 1941, che non permetteva ai partiti minori (socialista, comunista, democristiano) di raggiungere il potere riservato al Colorado o al Blanco. Nel 1962 ci fu un tentativo di strategia frontista fra comunisti e socialisti, e dieci anni dopo sorse il Frente Amplio con i due partiti precedenti, il democristiano e vari gruppi di sinistra che ottenne il 20%. La lotta dei Tupamaros era iniziata nel 1963, sotto la guida di Raul Sendic, costituendo il Movimento di Liberazione Nazionale mentre si acutizzava la crisi sociale. L’anno successivo alla mia prima visita in Uruguay la presidenza di Jorge Pa-checo Areco acutizzò la repressione con la sospensione delle garanzie indivi-duali. Nel 1971 la presidenza di Juan Bordaberry applicò lo stato di guerra con l’ausilio dei militari tentati dal riformismo dei militari peruviani. Nella prima sessione del Tribunale Russel riunito a Roma fra marzo e aprile 1974, per la presidenza di Lelio Basso, vennero prese in esame le violenze in Uruguay e le sue vittime dell’imperalismo.

Mondolfo e Luce Fabbri

Con lo sguardo alla storia e al presente, mi avviai all’incontro col professor Mondolfo attorno al quale si trovavano alcuni italiani emigrati e fra questi Al-berti e Luce Fabbri storica e militante dell’anarchia. Fu profonda l’impressione che ebbi del venerando intellettuale che mi accolse in atto di amicizia e mi in-terpellò sui motivi del mio viaggio nel continente, in particolare volle conoscere come riviveva nelle nuove generazioni di Reggio la figura di Prampolini.Rodolfo Mondolfo che per la Fabbri “fu quasi un secondo padre” (come af-fermò nell’intervista di Cristina Valenti pubblicata nella rivista anarchica “A” n. 247 – 1995 edita a Milano) morirà l’anno seguente a Buenos Aires dopo un esilio di quasi quarant’anni. Luce Fabbri, in quell’ambiente di libri e di quadri, mi apparve una donna piene di interessi culturali e politici, riservata nei giudizi e con un profondo senso di realismo. Come scrive Margareth Rago (“Rivista storica dell’anarchia”, anno 7, n. 2 – 2000): “la principale arma di Luce è la parola, soprattutto quella scritta”. Le sue pubblicazioni riguardano la costruzio-ne del progetto anarchico nella difesa della libertà, ma anche l’educazione, la linguistica, la storia dell’emigrazione italiana, del fascismo, della rivoluzione spagnola, la poesia. (Gianpiero Landi dell’Archivio Borghi mi ha donato una raccolta di poesie della Fabbri, Propinqua Libertas, da lui curata). Di nascita romana, laureata all’Università di Bologna, Luce fu sempre discepola del pa-dre Luigi, militante anarchico stretto collaboratore di Malatesta, in tempi di persecuzione e nelle vicende che portarono all’affermazione del fascismo, da lei giudicata “controrivoluzione preventiva”. Nel 1928 riuscì a raggiungere i genitori rifugiati a Parigi e poi con un imbarco clandestino, la famiglia Fabbri

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(tranne il fratello Vero che rimase a Roma) raggiunse Montevideo. Fu subito attiva in Uruguay e in Argentina collaborando col padre Luigi per la rivista “Studi sociali” fino al 1936 e poi dopo che egli morì, assumendone la direzione fino al 1945, quando in Italia, nel clima di libertà, ripresero le pubblicazioni anarchiche e particolarmente “Umanità Nova”. Fu oppositrice di ogni forma di settarismo, collaborando anche con socialisti e repubblicani nel periodico “Socialismo y Libertad”, come resistenza al fascismo e alle sue diramazioni in America Latina, contro la dittatura di Terra in Uruguay, il franchismo e le dittature militari. Animò il movimento libertario in Uruguay e in Argentina con lo sviluppo di gruppi mentre erano in atto in Argentina violente persecuzioni contro i socialisti e gli anarchici.

Luigi Fabbri nella storia dell’anarchismo

Il padre di Luce, Luigi, nel primo Novecento aveva intrecciato la dottrina anar-chica col positivismo ed avviato un confronto col socialismo marxista e col sindacalismo rivoluzionario. Rifiutò l’ideologia dell’automaticità dell’avvento del socialismo anarchico, perché questo doveva essere frutto della presa di co-scienza di un futuro senza Stati e senza Chiese, con lunghe e difficili lotte in una strategia libertaria con pratica rivoluzionaria. Fu nettamente per l’astensio-nismo elettorale e definì gli anarchici, socialisti non legalitari, opponendosi ad ogni azione individualista e terroristica. Convinto che la libertà non aveva senso se non acquisiva la solidarietà, sostenne libere forme di aggregazione e fu un promotore nel 1919 dell’Unione Anarchica Italiana come associazione flessi-bile. Ritenne legittimo l’inserimento nelle Camere del Lavoro per uno stretto contatto con l’organizzazione operaia e per sospingerla all’opposizione al ri-formismo. Antimilitarista, fu contro ogni guerra, come pure contro la dittatura del proletariato e quindi all’esperienza bolscevica. A Milano collaborò col gior-nale ideato da Malatesta “Umanità Nova”, dove vennero pubblicati interventi rilevanti di Berneri. L’impegno culturale-politico di Fabbri è testimoniato da numerose pubblicazioni in un ampio spettro di interessi che vanno dal rapporto Chiesa – Stato, a Carlo Pisacane, alla scuola, al misticismo nelle rivoluzioni, ai problemi ideologici del marxismo e dell’anarchia, ai Patti Lateranensi.Luigi Fabbri si evidenzia nella storia dell’anarchia dopo quel 1892 quando al congresso di Genova, i socialisti si separarono dagli anarchici, fondando il loro partito. Era stata la Toscana, dal 1865, il centro del socialismo anarchico sia ideologico che organizzativo, mentre la centralità socialista si era via via spo-stata nel Nord e particolarmente a Milano con Turati e i riformisti in Emilia Romagna con Costa e Prampolini. Più tardi, sull’onda dei giudizi sulla guerra libica, l’“Unità” di Salvemini offrirà ascendenze positiviste al socialismo, dive-

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nendo un foglio interlocutore con “Critica sociale”. La separazione tra socialisti e anarchici era venuta anche su piano internazionale nel 1896, a Londra, nel congresso operaio-socialista che si concluse con la Marsigliese dei socialisti e la Carmagnola degli anarchici, e la sconfitta della proposta di conciliazione posta in atto da Malatesta. Con la repressione crispina (1894 – 96) il centro dell’anarchismo italiano si trasferì a Londra e a Lugano, animato da Gori e da Malatesta in linea antiterroristica. Fabbri si trovò di fronte ai detrattori del-l’organizzazione anarchica, cioè gli anarchici individualisti, refrattari ad ogni forma di organizzazione, tendenti al frazionamento e ad atti terroristici. Fabbri si pose fra coloro che con scritti e interventi difesero il movimento, particolar-mente quando avvenne l’attrazione comunista dopo la “rivoluzione d’ottobre”. Il Fabbri, come la figlia, fu attratto dalla non violenza come l’aveva proposta Leone Tolstoj (1828-1910): l’azione terroristica è vista come contraria alla rea-lizzazione dell’anarchia e alla preparazione delle coscienze all’internazionali-smo. A differenza di Tolstoj i Fabbri non acquisirono il pensiero libertario dal cristianesimo evangelico, col rifiuto di ogni dogmatismo e di ogni sistema di proprietà, con la resistenza passiva. Ma essi ebbero dal testamento di Bakunin (morì l’anno precedente alla nascita a Fabriano di Luigi Fabbri) l’idea di libertà unita alla solidarietà, la lotta contro l’oppressione statale per la liberazione dal capitalismo e da un socialismo nella versione statalistica, e il rifiuto di ogni autorità Umana e divina. Come Malatesta (1853 -1932) non credevano all’evo-luzione del sistema anarchico e all’automatismo dell’avvento del Socialismo libertario: l’anarchia doveva essere frutto della presa di coscienza di un futuro senza stati e senza chiese. Seguendo Malatesta i Fabbri furono per l’astensioni-smo elettorale e contro il tatticismo di Merlino (1856 – 1930), e allo spontanei-smo opposero il volontarismo anarchico.

Una donna militante

Luce Fabbri sostenne con gli scritti e con l’azione l’organizzazione sociale dal basso, il libero associarsi in cooperative di abitazione, di formazione scolastica, opponendosi alla “centralizzazione”, che offre un ordine apparente, al capita-lismo e alle multinazionali considerati “veri Stati invisibili”. Per questa donna anarchica il socialismo libertario, federalista, autogestito doveva essere l’utopia del futuro che si realizza nelle comunità, nelle cooperative, nelle iniziative di gruppo, utilizzando il progresso tecnologico, la democrazia diretta con delega revocabile.La ricerca interdisciplinare della Fabbri richiedeva l’uso critico della ragione in una continua riflessione teorica e storica. Per lei la cultura fu libertà e pertanto si impegnò allo sviluppo teorico dell’anarchia che, a differenza del marxismo,

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non aveva molti intellettuali dediti ad esso. L’anarchia, per questa militante, è un cammino da seguire e non un punto di arrivo, quel che interessa è il presente in vista della libertà. Poiché anche la storia è libertà, per la Fabbri è necessario analizzare criticamente le cristallizzazioni che imprigionano gli avvenimenti.Gianpiero Landi, dell’Archivio Borghi, pubblicò sulla rivista anarchica numero 7, nell’ottobre 1981, una intervista con Luce Fabbri nella quale ricorda come il padre Luigi, nel periodo parigino quando il dogmatismo comunista esercitava una grande fascino nel mondo antifascista, guardasse con speciale attenzione a Giustizia e Libertà, socialista con talune posizioni quasi libertarie. Proprio sul concetto liberale, Luigi Fabbri interpretò la Rivoluzione Francese e vide il suo rapporto nel processo risorgimentale (a differenza della tendenza giacobina). Sulla rivoluzione spagnola, la Fabbri parla di “compromessi che si compio-no sotto l’impero delle circostanze come fu l’ingresso nel governo di alcuni anarchici: gli anarchici hanno sperimentato a spese loro la non creatività del potere”. In riferimento alla violenza, la Fabbri ne coglie l’autoritarismo perché anche quando la violenza è ribellione, come in America Latina, degenera facil-mente in autorità. Quanto meno violenta è la rivoluzione, tanto meno autoritario sarà il suo sbocco. Anche se la Fabbri non negava in forma assoluta la violen-za, comunque la riteneva moralmente negativa. Per lei la strada anarchica era quella del sacrificio piuttosto che della forza, della non violenza, della tolleran-za, e l’utilizzazione delle libertà democratiche per attuare iniziative anarchiche anticapitalistiche.Il suo ultimo impegno all’estero fu a Barcellona nel 1993, dove ricevette mani-festazioni di riconoscenza, e la sua ultima pubblicazione nel 1996 fu la biogra-fia del padre dove storicizzava l’esperienza libertaria della fine del ventesimo secolo in Italia e in America Latina. Tre mesi prima della morte rilasciò l’ultima intervista (in Rivista anarchica, n. 266 – ottobre 2000), confermando il giudizio negativo sulla sinistra quando essa perde le caratteristiche originarie avvici-nandosi al potere. “E’ sufficiente l’odore del potere per corrompere”. Sul tema dell’esercizio del voto la Fabbri distingue fra la non candidatura di anarchici e la convenienza a volte che una “votazione riesca”. Il rifiuto del voto non deve essere pregiudiziale. Proprio per la concezione dell’uomo come essere sociale e del linguaggio che lega gli uni agli altri, la Fabbri non ritiene comprensibili gli anarchici individualisti, come non comprensibile una discussione con av-versari se non si riconosce in loro la buona fede. Il mutamento della struttura sociale e il venir meno del proletariato come classe maggioritaria non sospinge più all’insurrezione, ma ai piccoli passi, alle vittorie circostanziali, allo speri-mentalismo. Concluse l’intervista con Hiroshima, cioè con la morte atomica come censura tra presente e passato, auspicando che il movimento comprenda il cambiamento della problematica posta ora dalla globalizzazione capitalista e pertanto adegui gli strumenti operativi con una concezione differente della

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rivoluzione sociale.La conversazione con Luce Fabbri, in quella mattina domenicale, iniziò con una sua domanda se a Reggio era ricordato l’anarchico Torquato Gobbi che era morto suicida a Montevideo dodici anni prima. Sapevo della sua nascita a Pieve Rossa, del suo antimilitarismo e antifascismo e l’influenza che ebbe sul giovane Berneri, portandolo nel movimento anarchico, ma non avevo avuto segnalazioni di puntuale ricordo nel reggiano. Luce non aveva dimenticato la sua sofferta vita di militante e la sua collaborazione col padre. Mi chiese inoltre se avevo conosciuto anarchici in America Latina, risposi positivamente ma in incontri casuali. La informai che la mia attenzione sul fenomeno anarchico era datato dalla mia fanciullezza quando in famiglia si parlava di Sacco e Vanzetti (1927), dal periodo della mia laurea all’Università Cattolica quando ebbi fra le mani Anarchie et personisme del Mounier (ediz. Seuil – 1937 – Parigi), più tardi Il socialismo anarchico in Italia del Santarelli (ediz. Feltrinelli 1959) e del Daniel Guerin il Ne' Dio ne' padroni (edz. Jaca Book 1971). La informai che un ricordo a Reggio resiste ed è quello di Camillo Berneri che in questa città aveva vissuto l’adolescenza e la prima giovinezza con la madre, e aveva avuto i suoi primi rapporti politici nella Federazione giovanile socialista con la pre-senza determinante di Camillo Prampolini. Un carissimo amico fu l’anarchico Carlo Doglio, docente di sociologia del territorio all’Università di Bologna, collaboratore di Adriano Olivetti e degli architetti razionalisti. La Fabbri, senza nascondere che anni luce passavano fra lei e una persona che aveva lungamente militato nella democrazia cristiana e che era credente, pose la conversazione su un piano di parità umana permettendo di intessere un sereno e piacevole dialogo sui temi latino-americani che erano ben presenti in ambedue. Non na-scosi talune mie diverse valutazioni, ma anche convergenze sul richiamo alla tolleranza, al valore fondamentale del messaggio gandiano e alle norme morali dell’azione politica.Rientrando a Buenos Aires avrei voluto conoscere, come mi aveva suggerito Luce, la Federacion Libertaria Argentina ma il tempo non era tranquillo non solo per gli anarchici. Mi proposi di rivedere la Fabbri in un mio ritorno nel continente, ma ciò non fu mai possibile. Resta un ricordo sereno di una donna in continua ricerca con grande libertà interiore. Morì 25 anni dopo il nostro incon-tro e per la prima volta nel mondo una donna anarchica venne commemorata nel parlamento dell’Uruguay.

OPERE DI LUCE FABBRI1 – I canti dell’attesa poesia, ed. Bertani, 1932 2 – Camisas Negras, Buenos Aires 19353 – 19 de Julio, Montevideo 19374 – La poesia di Leopardi, Montevideo 1933

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CORRADO CORGHI

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5 – Nicolas Maquiavelo, El Principe, Montevideo 19936 – La Divina Comedia, Montevideo 19947 – Storia di un uomo libero, Luigi Fabbri, Pisa 19968 – Una strada concreta verso l’utopia, Chieti 19989 – La libertad entro la historia y la utopia, Barcellona 199810 – Propinqua libertas, poesia a cura di G. Landi, Pisa 2005

Oltre ad opuscoli e articoli su “Rivista Storica dell’Anarchismo”, su “Studi Sociali”, su “Rivoluzione Libertaria”, su “Socialismo e Libertà” e sulla rivista “Garibaldi”, interviste e reportage.

NOTA

Nel 1920 venne posto in atto il Patto di alleanza anarchica con la costituzione dell’Unione Anarchica Italiana. Nel 1945 venne costituita la Federazione Anarchica Italiana e ripresa la testata di UMANITA’ NOVA, fondata da Malatesta con la collaborazione di Fabbri. Nel 1951 avvenne la scissione della FAI da parte dei Gruppi di azione popolare, poi Fe-derazione Comunista Libertari Italiani sciolta nel 1957. Negli anni ’60 vi fu scissione con la costituzione dei Gruppi di iniziativa anarchica che discordavano con la FAI su alcuni punti del patto associativo del 1965. Questi gruppi vennero aggregati ai circoli anarchici di lingua italiana in USA.

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L’ALMANACCO, n. 53 2009

1. La figura di Antonio Piccinini ad ottantacinque anni dal suo assassinio

Il 28 febbraio 1924, a Reggio Emilia, veniva assassinato da sicari fascisti il se-gretario provinciale del PSI (all’epoca massimalista) Antonio Piccinini.1 Non

aveva ancora compiuto quarant’anni.2 Era candidato alle elezioni che si sareb-bero svolte il 4 aprile successivo. L’assassinio destò un grande scalpore e non soltanto a livello locale.3 La Direzione nazionale del suo Partito decise di far riversare sul suo nome le preferenze degli elettori socialisti e, in conseguenza di ciò, Piccinini risultò eletto deputato, come si scrisse allora, “post mortem”. L’efferato delitto venne successivamente denunciato, assieme alle intimidazio-ni e alla brutale furia devastatrice fascista che aveva caratterizzato quella torna-ta elettorale, da Giacomo Matteotti. La storica requisitoria del leader del PSU – Partito socialista unitario (riformista) – venne pronunciata alla Camera il 30 maggio di quello stesso anno. Pochi giorni dopo sarà anch’egli assassinato da killer mussoliniani.

2. Il massimalismo

Piccinini apparteneva a quella corrente socialista - che venne chiamata massi-malista -, le cui origini furono precedenti alla attribuzione del nome col quale

1 Sulla figura di Piccinini mi permetto di rinviare a G. BoccolaRi, Antonio Piccinini, un socialista massimalista nella "provincia cooperativa" , in “L'Almanacco”, a. 22., n. 42, giugno 2004, pp.107-146

2 Era nato a Reggio Emilia il 26 agosto 18843 L’assassinio del candidato massimalista reggiano era lo specchio delle modalità anti-

istituzionali attraverso cui il fascismo - che si stava tragicamente affermando attraverso illegalità, violenze e distruzioni soprattutto dirette contro le conquiste e le organizzazio-ni politiche ed economiche del mondo del lavoro – si apprestava a dirigere il Paese.

Il socialismo massimalista a Reggio Emilia (1914-1924) tra “unitari”, “defensionisti” e “terzinternazionalisti”.

Giorgio Boccolari

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passò alla storia; nel senso che una corrente di sinistra non più fondata sul tradizionale socialismo riformista (classista) di ascendenza positivistica, evolu-zionistica e scientista, era sorta assai prima dell’inizio della guerra del 1915-’18 col nome di frazione “rivoluzionaria intransigente”. Il termine massimalista lo adottò più tardi. Entrò nel linguaggio politico italiano – come ha giustamente osservato Gaetano Arfè – con la rivoluzione russa, a causa di una traduzione approssimativa e poco fedele dal punto di vista lessicale della parola "bolsce-vichi".4 Il termine in russo equivale pressappoco al nostro “maggioritari”, ma in Italia esso risentì delle suggestioni di una espressione tratta dal gergo del-la tradizione socialista italiana, quella del “programma massimo” socialista, il programma dei rivoluzionari, che veniva contrapposto al cosiddetto “pro-gramma minimo”, dei riformisti.5 Questa distinzione tra programma minimo e massimo risaliva a quel “Programma di Erfurt” del partito socialdemocratico tedesco (1891), che divenne in seguito un modello per tutti i partiti socialisti. In esso erano state poste le basi teoriche del programma marxista del Partito che prevedevano, da un lato (programma massimo), la conquista del potere politico da parte del proletariato, dall’altro (programma minimo) i fini immediati da perseguire: il suffragio universale la democratizzazione dello Stato, la giornata lavorativa di 8 ore, le assicurazioni sociali, la libertà di organizzazione, ecc.6 In Italia il rapporto programma massimo / programma minimo aveva cominciato ad affiorare già dal Congresso nazionale di Bologna del 1897. Successivamen-te, il Programma minimo era stato definito in un documento che recava le firme di Turati, Treves e Sambucco al 6° Congresso nazionale di Roma svoltosi dall’8 all’11 settembre 1900; in esso si determinò “una frattura fra l’ala riformista favorevole alla collaborazione con le altre forze democratiche e l’ala estremista (che mirava al Programma massimo, Ndr), guidata da Arturo Labriola”. 7

Dunque, in Italia, anche sulla base di queste distinzioni, i socialisti di sinistra che dal 1917 divennero nella loro stragrande maggioranza filo-russi, si chiama-rono per analogia “massimalisti”.8

4 Cfr. G. aRfè, Prefazione, in: E. Giovannini, L’Italia massimalista. Socialismo e lotta so-ciale e politica nel primo dopoguerra italiano, Roma, Ediesse, 2001, p. 7

5 Cfr. la voce “Masssimalismo” in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Mat-teucci, G. Pasquino, Torino, UTET, 2004, pp. 628-629

6 A. Maiello, Sindacati in Europa: storia, modelli, culture a confronto, Soveria Mannelli, Rubbettino, [2002], p. 199

7 Cfr. A. landolfi, Storia del PSI. Cento anni di socialismo in Italia da da Filippo Turati a Bettino Craxi, Milano, SugarCo, 1990, pp. 29-30

8 Ibidem

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2.1 Antonio Piccinini e la frazione massimalista a Reggio Emilia

Il leader dei massimalisti reggiani era Piccinini. Nato a Reggio Emilia da mo-desta famiglia il 14 agosto del 1884, attorno al 1904 si era trasferito a Genova dove aveva lavorato in tipografia per più di tre anni. Rientrato a Reggio, aveva continuato l'attività tipografica e parallelamente iniziato l’attività sindacale nel-la Federazione del Libro. Nel 1914 era entrato a far parte della “Cooperativa lavoranti tipografi” di via Gazzata, la stessa che stampava i due giornali del PSI reggiano, il quotidiano “La Giustizia” fondato nel 1904, diretta da Giovan-ni Zibordi, e il periodico “La Giustizia” domenicale, la Giustizietta, come la chiamavano i reggiani, che sarà diretta fin dal 1886 da Camillo Prampolini. Il suo impegno sindacale nel settore tipografico, iniziato in anni lontani, diminuì d'intensità, parallelamente al crescere dell'impegno politico che fu contestuale all'iscrizione al Partito socialista avvenuta poco prima del 1914. Proprio il 1914 rappresentò un momento cruciale per il suo sempre crescente impegno nel PSI e l’avvio dell’attività propagandistica (comizi) e giornalistica: in dieci anni si compirà il suo destino politico e, tragicamente, quello umano. La vicenda storica e politica del tipografo massimalista fu infatti doppiamente emblematica. Da un lato, principalmente grazie alla sua indefessa attività, si determinò un’evoluzione politica interna al PSI provinciale come riflesso delle posizioni del Partito a livello nazionale. Attraverso di essa la frazione massi-malista riuscirà a conquistare la maggioranza nella federazione considerata una delle roccaforti del socialismo riformista. Dall’altro la sua vicenda personale si coniuga con quella più generale del massimalismo reggiano (e nazionale). Così lo sviluppo, dapprima impetuoso, frenato poi dal manifestarsi violento delle squadracce nere, della barbarie e dell’illegalismo fascista ed infine il negativo epilogo politico del massimalismo socialista, si rifletteva a livello locale nella tragica e violenta fine che gli toccò in sorte.

Piccinini si collocava nell’alveo dell’intransigenza classista, poi ripresa su basi ideologicamente rinnovate dall’ordinovismo gramsciano. Egli restava – come si diceva allora – nella vecchia Casa Socialista, nonostante i contrasti, che nel-l’immediato dopoguerra s’erano acuiti insanabilmente con il socialismo rifor-mista dei padri storici del Partito. Dopo la Grande guerra, infatti, anche nel PSI reggiano, accanto alla tradizionale corrente riformista “prampoliniana”, s’era costituita e andava sempre più rafforzandosi, grazie al lavoro politico del-l’operaio tipografo, una corrente massimalista che alla vigilia del congresso nazionale di Livorno (gennaio 1921) si articolava nella componente “comunista unitaria” o “massimalista”, il cui massimo esponente nella federazione reggia-na era lo stesso Piccinini, e in quella “comunista pura”, l’ala radicale che al congresso diede vita alla scissione costituendo il PCd’I. Ma ancor prima della

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guerra, fin dal 1914 Piccinini si era trovato in netto dissenso con il socialismo delle “vecchie barbe riformiste” opponendosi alla ideologia che era sottesa alla costruzione della fitta rete organizzativa ordita dal ceto dei leaders della federa-zione – Prampolini, Zibordi, Vergnanini, Bellelli, Soglia, ecc. –, quell’articolato intreccio economico-politico proletario che aveva fatto di Reggio l’“arca santa del riformismo”.9

2.2 La genesi della frazione massimalista a livello nazionale e i successi del massimalismo reggiano

Era stata soprattutto la guerra e, contemporaneamente, la vittoriosa rivoluzione dei bolscevichi russi contro il dominio zarista a determinare il punto di svolta nella geografia politica delle componenti interne al PSI. Così, la Conferenza nazionale socialista del 25-27 febbraio 1917 tenutasi a Roma aveva sancito in qualche modo la costituzione ufficiale della corrente massimalista, confusa fino a quel momento con quella intransigente.10 Orientamento confermato al 15° congresso nazionale di Roma (1-5 settembre 1918)11 che sancì la sconfitta dei riformisti. L’affermazione netta della corrente di sinistra sarà raggiunta l’anno successivo al Congresso nazionale di Bologna (5-8 ottobre 1919)12 con l’assunzione de-finitiva del nome “massimalista” e l’altrettanto definitivo ripudio del termine “intransigente”.13 In effetti nel ’19 si era aperta una crisi politica e sociale che in breve avrebbe condotto alla liquidazione dello stato liberale post-unitario. Per le tensioni – e in primis le agitazioni operaie – indotte dalla guerra, sul piano sociale l’Italia era assai più simile agli stati sconfitti che a quelli vincitori.In sede locale, al Congresso provinciale socialista di fine giugno 1919, l’op-posizione critica al riformismo prampoliniano prevalente aveva consentito a Piccinini e alla frazione massimalista di battere clamorosamente gli stessi rifor-misti. Così un modesto operaio tipografo poté diventare segretario, sebbene per

9 L'affermazione in una lettera datata 30 dicembre 1976 di Umberto Terracini a Giorgio Boccolari, depositata presso l'Archivio Storico dell'Istituto per la storia del movimento operaio e socialista "P.Marani" di Reggio Emilia.

10 Cfr. Storia d’Italia. Cronologia, 1815-1990, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1991, p. 344 (Compact)

11 Ibidem, p. 35212 Ibidem, p. 36513 Cfr. la voce “Masssimalismo” in Dizionario di politica, cit., p. 629

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un brevissimo torno di tempo, di quella federazione socialista che era composta da maestri, professori e avvocati, in una provincia che, come è già stato rile-vato, era “riformista per eccellenza”. La conquista della maggioranza da parte dei massimalisti era la dimostrazione che il complesso e strutturato reticolo organizzativo, quasi un kombinat politico-sindacale-cooperativo, costruito dai riformisti reggiani fin dalla fine dell’Ottocento, cominciava a dimostrarsi inade-guato alla nuova realtà emersa nel dopoguerra. Piccinini era un ottimo propagandista ed un efficace oratore. Nei comizi i pro-letari lo ascoltavano con grande attenzione. In quanto operaio lo consideravano uno di loro. E lui li faceva riflettere su concetti sostanzialmente opposti a quelli dei riformisti. Il socialismo – egli affermava – non sarebbe arrivato per naturale evoluzione della società, ma soltanto combattendo una battaglia dura e rischio-sa contro una classe dirigente sempre più tesa a difendere i propri privilegi.

2.3 Il primo convegno provinciale della frazione massimalista (4 gennaio 1920)

L’occasione per esprimere organicamente la sua posizione critica nei confronti del socialismo riformista prampoliniano gli si offrì esemplarmente nel corso del primo convegno provinciale dei socialisti massimalisti che si tenne il 4 gennaio 1920. Indetta in previsione del congresso provinciale del PSI che era stato fissato per la metà di quello stesso mese, nell’assise massimalista locale Piccinini aveva puntato l’indice contro il tatticismo economicistica del leghismo sindacale e del cooperativismo fini a se stessi e contro il mito amministrativo, tutti elementi i quali, avendo a suo parere, come traguardo immediato i miglioramenti mate-riali, rischiavano d’intorpidire le coscienze e la combattività dei lavoratori. Per lui l’obiettivo vero era la conquista del potere politico, la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, la trasformazione dello Stato da capitalista a socialista. Sul piano teorico la sua critica al riformismo era implacabile. Il riformismo socialista – a Reggio il “prampolinismo” – con la sua pratica subordinazione al “giolittismo” veniva sottoposto polemicamente ad un vero e proprio fuoco di fila di contestazioni politiche. Utilizzando in parte argomentazioni che si rifacevano alla tradizionale propaganda prampoliniana, attraverso una parabola evangelica egli affermava che l’etica del riformismo apparentava il socialista al povero che si accontenta delle “briciole che cad[o]no dalla tavola del ricco Epulone”. Invece, precisava Piccinini, “noi vogliamo il tutto”, e, riecheggiando il “Programma massimo”, aggiungeva: noi non intendiamo scendere a patti con la borghesia ma vogliamo conquistare il potere, poiché, sosteneva, il socialismo non deve essere considerato soltanto sotto un profilo economico e istituzionale,

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non deve essere volto alla semplice razionalizzazione dell’economia capitalisti-ca – come a suo dire appariva dall’interpretazione che gli era attribuita da molti riformisti –, al contrario egli lo intendeva “materiato e sorretto di una grande idealità”, poiché “è l’ideale che entusiasma i giovani e le folle al socialismo e non la miserevole questione utilitaristica”.14 Insofferente alle “riformette”, ai “pannicelli caldi”, nel primo dopoguerra, egli, contrario alle scissioni, avrebbe voluto che le forze socialiste mutassero l’atteggiamento tradizionalmente infor-mato alle concezioni evoluzionistiche ottocentesche e si volgessero al “soviet-tismo” comunista, sia pure sotto la guida del Partito socialista italiano e non di un comitato politico (il PCd’I) che agiva in nome e per conto dei bolscevichi e che obbediva alle logiche interne alla Russia comunista. Anche la frazione massimalista reggiana, non molto dissimilmente da quella nazionale, voleva dunque entrare in Parlamento, ma a differenza dei riformisti, per abbatterlo e per trasformare lo Stato in senso socialista. In sostanza il massimalismo riflette-va una fase di passaggio tra il socialismo delle origini e la nuova fase di lotta del movimento operaio e contadino caratterizzata dal successo della rivoluzione in Russia.

2.4 I limiti del massimalismo riflessi dal contraddittorio iter politico di Picci-nini

Questa dura ed intransigente linea politica, espressa a tamburo battente senza che si cercasse di creare i presupposti per una sua concreta applicazione, si rive-lò un limite invalicabile per Piccinini. Il tipografo massimalista non fu, infatti, anche per carattere e costituzione fisica, né un audace rivoluzionario, né un cieco bastiancontrario come taluni vollero dipingerlo: perseguì certo una poli-tica intransigente e rivoluzionaria, ma cercò sempre di rifuggire dal settarismo nel perseguire i propri obiettivi, come dimostrano i suoi rapporti affettuosi coi leaders riformisti locali considerati ormai “vecchi” e superati, perchè ancorati ai convincimenti della loro generazione, quella che diede origine al movimento socialista, ma pur sempre visti come “i padri del Partito” da trattare con rispetto e devozione seppure contestando i loro arcaismi. Anche da questo atteggiamen-to, che rifletteva i limiti del massimalismo, si crearono i prodromi per la nascita alla sua sinistra, da un lato di una corrente comunista e dall’altro di un orienta-mento massimalista di sinistra (la frazione terzinternazionalista), più realistica-mente proteso verso il raggiungimento degli obiettivi che propugnava.

14 Cfr. “La Giustizia”, quot., 6 genn. 1920

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Sebbene i socialisti riformisti, grazie all’impegno indefesso di un prampolinia-no “di ritorno” come Amilcare Storchi15, nel ’20 fossero poi riusciti a riacquisi-re una risicata maggioranza, quell’exploit, compiuto nella provincia riformista per eccellenza proiettò Piccinini ai vertici nazionali del Partito (nel frattempo conquistati dalla frazione massimalista), tanto che venne convocato a Roma dalla Direzione del PSI e incaricato di riorganizzare il movimento socialista nella provincia di Benevento, dove andò per ottanta giorni ottenendo risultati rilevanti.16 Qualcosa di importante nel vecchio socialismo riformista prampoliniano si era rotto. La maggioranza riformista poteva contare sui ceti urbanizzati della pic-cola borghesia, degli artigiani e degli operai inseriti nelle organizzazioni eco-nomiche proletarie (leghe e soprattutto cooperative). Ma già nella periferia, per non dire della provincia, si respirava aria di fronda.

2.5 Verso il terzinternazionalismo. Con Piccinini in esilio a Parma, la sinistra massimalista reggiana si riorganizza

Mentre il fascismo prendeva sempre più corposamente piede e il movimen-to operaio si divideva, di fatto favorendone l’affermazione, la situazione per i dirigenti operai si faceva sempre più difficile. Dopo l’esilio coatto imposto a molti antifascisti e gli attentati del 1921 a Prampolini e Zibordi, Piccinini subì nel 1922 un bando fascista a causa del quale dovette emigrare a Parma. Da qui intrattenne rapporti con gli antifascisti reggiani esiliati, coi dirigenti sociali-sti milanesi e nello specifico col nascente “Comitato di Difesa Socialista” che – come si vedrà – sarà creato da Nenni per battere i tentativi serratiani di fon-dere il PSI col PCd’I.17 Assieme a Nenni, Piccinini sarà poi arrestato a Bologna il 31 dicembre 1923 18 mentre si cercava di organizzare la campagna elettorale

15 Cfr. G. BoccolaRi, La cooperazione e il contributo di Amilcare Storchi, in: Sette gior-nate di cooperazione: come crescere senza perdere l'anima, S. l., s. n., stampa 2007, v. 1: Il centenario della Casa del popolo di Correggio, Ricerca economica e giuridica, Cooperazione realtà locale e globale, Cooperazione e donne, pp. 211-212

16 Lo stesso Piccinini riassunse sul quotidiano “La Giustizia” per i compagni socialisti reg-giani, il “diario” del suo soggiorno nel Beneventano, in due lunghi articoli comparsi il 16 e 17 dicembre 1920 sotto il titolo generale: Ottanta giorni in provincia di Benevento. Note ed appunti di un viaggio di propaganda.

17 Cfr. G. BoccolaRi-G. deGani, Antonio Piccinini. La vita e l’azione politica. Socialismo massimalista a Reggio Emilia 1914-1924, Reggio Emilia, Tipolito Tecnocoop, [1980], pp. 100-101

18 Cfr. “La Giustizia”, sett., 6 gennaio 1924

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dell’aprile successivo e gli veniva prospettata quella candidatura che accettò poi per disciplina di partito pur sapendo a quali conseguenze sarebbe andato incontro.19

L’assenza del leader, in esilio nel capoluogo parmense – Piccinini era un co-stante punto di riferimento per la frazione massimalista della provincia di Reg-gio Emilia – i suoi frequenti viaggi a Milano dove – come è stato notato – erano concentrati molti antifascisti reggiani, il clima politico sempre più cupo che si respirava nel capoluogo reggiano, fece prendere maggiore coscienza dell’acu-tezza dei problemi ai massimalisti locali, specie ai più giovani.20 Tra la fine del 1921 e il ’23 andrà pertanto determinandosi un dissenso o meglio una ra-dicalizzazione delle posizioni all’interno del PSI massimalistico che sfocerà in una corrente vera e propria. La rivoluzione russa e gli slogan che la accla-mavano, come “Ag vòl Lenin”, avevano fatto breccia nel movimento giova-nile dei socialisti di sinistra. Anche l’impianto organizzativo sostanzialmente ottocentesco del vecchio PSI appariva a molti di loro (e non esclusivamente ai giovani) troppo macchinoso ed arcaico. Sarà da questi malumori e da questo bisogno incontrovertibile di trovare uno sbocco operativo all’inerzia con cui si accettavano le violenze e le distruzioni operate dai fascisti che si determinerà una aggregazione che guardava alla terza internazionale e, nel contesto locale, stringeva rapporti unitari coi neo-comunisti.

3. I massimalisti e la nascita della frazione terzinternazionalista

I tragici frangenti in cui si svolgeva la lotta politica nell’Italia dei primi anni Venti non hanno consentito di svolgere un accurato esame dei tanti rivolgimenti che si verificavano nel movimento operaio nazionale e locale. Solo Tommaso Detti e pochi altri studiosi hanno avuto la pazienza di avventurarvisi. Anche nel PSI massimalista, dopo la nascita del PCd’I, si creò ben presto una corrente che avrebbe voluto sostanziare l’adesione alla Terza Internazionale attraver-so la fusione col neonato Partito comunista. Il punto di partenza da cui prese spunto questo coeso nucleo di massimalisti di sinistra per dar vita alla scissione della loro corrente, fu una considerazione di carattere storico-politico, e cioè l’adesione alla terza internazionale che il PSI aveva proclamato, sia pure “alla

19 Per questo egli sarà il simbolo di un’esistenza messa al servizio del Partito e dell’Idea. Piccinini non si curò del rischio personale e non indulse a considerazioni di comodo verso se stesso, atteggiamento che gli sarà fatale, appunto, il 28 febbraio del 1924. Cfr. “Avanti!”, 2-3 marzo 1924

20 Cfr. URSUS (pseud. di M. Bonaccioli), Quando comandavano il manganello e il pugna-le, in “Reggio Democratica”, 25 ottobre 1945

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garibaldina”, nel suo convulso congresso nazionale di Bologna del 1919.21 Così il 9 ottobre del 1921, nel corso di una riunione dell’ala sinistra del PSI – cui era intervenuta l’onnipresente Clara Zetkin del Partito comunista unificato te-desco, in rappresentanza del Comitato Esecutivo dell’Internazionale comunista –, una parte della frazione massimalista del PSI nazionale (il Partito all’epoca aveva ancora al suo interno i riformisti) alla vigilia del Congresso di Milano si costituiva in frazione terzinternazionalista.22 Della nascita della frazione, che si denominò “Gruppo massimalista per la III Internazionale”, diede notizia l’ “Avanti!” del 12 ottobre ’21 comunicando che del Comitato Esecutivo di cor-rente facevano parte Costantino Lazzari, Fabrizio Maffi, Ezio Riboldi, Giulio Trevisani e Abigaille Zanetta con Fermo Corbetta segretario.23 L’obiettivo dei “terzini”, così furono più brevemente definiti, era quello di condurre il PSI al-l'unificazione con coloro i quali avevano già compiuto a Livorno una scelta netta fondando il partito comunista.

3.1 Le difficoltà della fusione tra i “terzini” ed i neo-comunisti italiani

Ma più che l’opposizione dei comunisti russi, i quali avevano posto precise con-dizioni per la confluenza che gli scissionisti del PCd’I avevano accettato, erano i compagni del partito comunista italiano, in questa prima fase, compresi Terra-cini e Gennari – oltre a Bordiga che si era espresso apertamente e radicalmen-te contro l’ingresso del PSI nell’Internazionale – ad opporsi all’ipotesi di una fusione tra PSI e PCd’I. D’altronde le contraddizioni in campo socialista, dopo l’assise di Milano (Congresso naz. PSI, 10-15 ottobre 1921),24 coi riformisti rimasti nel Partito, erano talmente evidenti che all’interno della neonata corren-te “terzinternazionalista”, ben presto deflagrarono. In conseguenza di ciò essa si sciolse. La causa va ricercata in primis nell’immaturità politica che l’aveva caratterizzata fin dalla nascita. Ma l’esigenza di un fronte terzinternazionalista, al di là della crisi di crescita era fortemente sentito tanto che essa si ricostituì

21 Nell’assise bolognese la vicenda ebbe il seguente svolgimento: «Intervenne Serrati e disse: “Poiché diverse frazioni concordano in un punto: Adesione alla Terza Interna-zionale, propongo che su questo argomento – ove non vi siano opposizioni – si voti per acclamazione”». E così avvenne, nel tumulto generale. (Cfr. Il Partito Socialista italia-no nei suoi congressi, v. 3.: 1917-1926, a cura di f. Pedone, Milano, Edizioni Avanti!, 1963, p. 77)

22 Cfr. T. detti, Serrati e la formazione del partito comunista italiano. Storia della frazio-ne terzinternazionalista 1921-1924, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 105.

23 Ibidem, p.11024 Cfr. Il Partito socialista italiano suoi congressi, cit., pp. 169-214

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poco dopo, precisamente il 28 gennaio 1922. Si trattava di rivolgimenti che toccavano soprattutto i vertici. In periferia, alla base, stante l’assalto fascista e i rigurgiti reazionari che ne derivavano, i riflessi erano assai poco verificabili. In effetti, anche a Reggio Emilia, erano prevalentemente i giovani che aderivano alle correnti rivoluzionarie (il PCd’I e la frazione terzinternazionalista), un po’ perché giovani e dunque assai più istintivi ed impazienti, un po’ perché essen-do appunto giovani erano poco noti alla forza pubblica ed alle “camice nere”, mentre più in generale nel PSI la militanza era ormai ridotta ai minimi termini. Nel 1922 il movimento socialista reggiano era pertanto sconcertato e disperso e Piccinini, con il giovane Campioli, Marzi, Tamagnini, Tagliavini e altri, non aveva più solidi punti di riferimento.

3.2 Lenin convince Serrati e i massimalisti del PSI ad entrare nella sezione italiana dell’Internazionale comunista. Nenni reagisce fondando il Comitato di difesa socialista

Vale la pena di ricordare, per gli sviluppi che ne derivarono al movimento ope-raio italiano, le implicazioni del viaggio del massimalista Serrati a Mosca. Era, all’epoca, direttore dell’“Avanti!”, carica che nella geografia politica interna al PSI, valeva assai più di quella di segretario nazionale. Questo perché dal gior-nale si dettava la linea del Partito agli aderenti (socialisti) e la si confrontava nel Paese con quella delle altre forze politiche. Convinto, dopo il Congresso di Roma (1-4 ottobre 1922) e la conseguente scis-sione dell’ala riformista che andò a costituire il PSU (Partito Socialista uni-tario)25, dell’ormai avvenuta liberazione dell’anima rivoluzionaria del PSI, accompagnato da una delegazione della Direzione, Serrati si era recato nella capitale del Paese dei Soviet, nel novembre di quello stesso anno, al IV Con-gresso dell’Internazionale comunista. La discussione tendente a far entrare il PSI nell’Internazionale fu lunga e tribolata. Interverrà lo stesso Lenin a cercare di convincere Serrati che con l’espulsione dei riformisti erano venute a cadere le ragioni politiche di una separazione dai comunisti e di una esclusione del vecchio partito socialista dall’Internazionale comunista. Il Komintern, ignoran-do anche le ritrosie dei comunisti italiani (che ancora si opponevano), decise, in virtù della propria supremazia politica (superando dunque, per l’autorità di cui era investito, le divisioni e i malumori delle due parti), la fusione tra il PSI e il PCd’I. Convinto pertanto al grande passo dallo stesso Lenin, da Mosca Serrati

25 I riformisti si scissero e fondarono il PSU - Partito Socialista Unitario -, che annoverò tra gli altri Turati, Treves, Prampolini, D’Aragona, Matteotti, ecc. (Ibidem, pp. 215-249)

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scrisse per il suo giornale una serie di articoli inneggianti al metodo bolscevi-co e apologetici su Lenin e la rivoluzione russa. Inviò anche i documenti che stabilivano le modalità della fusione (i famosi “14 punti”). Fu a questo punto che scattò la reazione nenniana. L’ex repubblicano romagnolo che all’epoca si trovava a Parigi come inviato speciale del quotidiano socialista, rientrato pre-cipitosamente in patria fece seguire agli articoli filo-russi di Serrati una serie di articoli di commento, contrari ad una fusione immediata. L’iniziativa nenniana suscitò una vasta eco nel PSI e sarà proprio su queste posizioni che nascerà – il 14 gennaio 1923 – quel “Comitato di Difesa Socialista” cui – come notammo – aderirà lo stesso Piccinini. Esso si proponeva di mantenere in vita il nome e l’organizzazione del vecchio partito. I massimalisti che aderiranno a questa ‘tendenza’ saranno chiamati “defensionisti”. Si trattava di una vera e propria “frazione” che conquisterà la maggioranza (in contrapposizione ai fusionisti della corrente terzinternazionalista), al Congresso nazionale socialista di Mila-no dell’aprile successivo. L’iniziativa di Nenni si configurò così come un abile colpo di mano che contrastava con le regole che vigevano nel partito socialista – formalmente Nenni non era direttore del giornale e non avrebbe dovuto ap-propriarsene per ragioni di parte – e soprattutto strideva col fatto che egli – già ardente repubblicano – la definisse “un’azione in difesa delle tradizioni politi-che del ‘vecchio’ socialismo”.

3.3 La frazione terzinternazionalista rompe gli indugi anche a Reggio Emilia

La spaccatura all’interno del PSI massimalista e le reazioni contrarie alla fu-sione col PCd’I da parte dei “defensionisti” ridavano spazio di manovra ai fra-zionisti ”terzini” al cui interno, data l’urgenza di una decisione operativa, il 25 febbraio 1923 si creava una corrente schiettamente fusionista col nome di “Comitato nazionale unionista”.26 Anche a Reggio, i pochi massimalisti attivi erano sempre più delusi dalla scarsa chiarezza del PSI nenniano, peraltro in via di disgregazione non solo per le intime contraddizioni politiche, ma anche e soprattutto a causa delle non certo trascurabili, odiose persecuzioni fasciste.

26 Cfr. t. detti, Serrati e la formazione del partito comunista italiano. Storia della frazione terzinternazionalista 1921-1924, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 245.

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7. I “massimalisti di sinistra” reggiani tagliano i ponti con il PSI (massimali-sta “defensionista”) e aderiscono alla frazione terzinternazionalista

Mentre il leader dei massimalisti reggiani, Antonio Piccinini, dapprima costret-to all’esilio parmense, fu poi obbligato a vivere una vita politica stentata a causa della scelta di restare comunque in vista, un nutrito gruppo di suoi “compagni di fede” - seguendo un filo rosso manifestatosi tra i massimalisti già nel corso dell’importante assise nazionale socialista di Milano (Congresso PSI del 15-17 aprile 1923) - aveva ormai maturato l’idea di confluire ufficialmente nella cor-rente “terzinternazionalista” o “terzina” pur mantenendo, come accadeva un po’ ovunque, un atteggiamento più cauto e semi-clandestino.27

Obiettivo che si concretizzò nel corso della prima parte del 1923. Dopo una riu-nione interlocutoria che si era svolta proprio in quel periodo al Castello di Ros-sena (Canossa) sotto la sigla di copertura dei “Giovani escursionisti reggiani”28, i terzinternazionalisti della provincia guidati da Campioli, Tagliavini e altri, si erano costituiti ufficialmente in frazione.29 E attendevano un chiarimento gene-rale, che tardava ad arrivare, per dar corso ai loro propositi scissionistici.

3.4 La lotta contro i massimalisti “corporativi” e “incoerenti”

A livello nazionale, le diverse sincopate fasi di questo sofferto procedere al-l’interno dei partiti del movimento operaio si svolgevano sotto l’attenta sorve-glianza della polizia fascista che, ad esempio, fece in modo di ritardare il più possibile il ritorno di Serrati in Italia dal suo viaggio a Mosca, temendo come il fuoco la fusione dei due partiti operai.30 Nel frattempo, il 20 giugno 1923,

27 Ibidem, p. 493 n.28 A proposito della associazione dei “Giovani escursionisti reggiani” e della commistio-

ne fra sport e politica che ne conseguiva, è interessante notare come tra il luglio e il dicembre 1923 avesse visto la luce a Milano il periodico “Sport e proletariato”. Esso si rifaceva all’Internazionale sportiva rossa (costituitasi a margine del III Congresso dell’Internazionale comunista) che aveva sede a Lucerna (Cfr. t. detti, Serrati e la formazione, cit., pp. 413-414)

29 Cfr. c. caMPioli, Cronache di lotta, Parma, Guanda, 1964, pp. 45-46, cit. in a. feRRetti, Co-munisti a Reggio Emilia (1921-1943), Reggio Emilia, Ed. Libreria Rinascita, 1978, p. 83

30 Cfr. t. detti, Serrati e la formazione, cit., pp. 230-240 e il paragrafo che inizia a p. 241: L’arresto di Serrati; dalla fusione al blocco. Il fascismo cercherà in tutti i modi di fa-vorire gli antifusionisti specie dopo l’ondata di arresti del 1923 quando liberò Nenni in tempo utile per consentirgli di partecipare al congresso nazionale e trattenne Serrati per evitare che favorisse nel PSI il prevalere delle forze rivoluzionarie. (Ibidem, p. 243)

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in aperta rottura col segretario del PSI, Tito Oro Nobili, usciva a livello nazio-nale il periodico “Pagine Rosse” (sottotitolo: Rivista quindicinale di politica socialista e di volgarizzazione marxista), organo della frazione terzina.31 Nel numero del 25 luglio si leggeva che Luigi Tagliavini aveva unito la sua voce a quella di Ezio Ganassi, Ernesto Tamagnini, Luigi Marzi, Giovanni Secondi e Cesare Campioli – tutti reggiani – per protestare contro i provvedimenti che la Direzione del Partito stava per prendere a danno dei membri del Comitato di redazione del nuovo periodico: Serrati, Riboldi, Maffi, Malatesta e Buffoni.32 Tra gli aderenti alla Frazione terzina, oltre ai nominativi suindicati, veniva se-gnalata anche la sezione di Villa Argine (Cadelbosco Sopra).33 I terzini (tranne Tagliavini – trentaduenne e naturalmente già iscritto al Partito “adulto” – e po-chissimi altri), erano quasi tutti giovani della FIGS, come Cesare Campioli e Ivano Curti.34

3.5 L’anomala “scissura”: l’ingresso dei “terzini” nel PCd’I

Più in generale, l’abbandono del PSI da parte dei “terzini”, date anche le diffici-li condizioni politiche determinate dalla feroce repressione fascista, non avven-ne – come si avrà modo di notare – attraverso una scissione (o “scissura” come si scriveva all’epoca) di tipo tradizionale, ma alla spicciolata, o per gruppi, seguendo modalità che variavano da località a località, da regione a regione. Le condizioni per una fusione – sebbene con nuove modalità – erano ritenute infatti ormai prossime. 35

Già dall’inizio del 1924 a livello nazionale i comunisti avevano cominciato a considerare con favore l’accoglimento dei terzini nel Partito. Finalmente, nell’Esecutivo nazionale della frazione terzinternazionalista del 10-11 maggio 1924, i compagni che erano ancora titubanti o che reputavano utile la creazio-ne di un nuovo partito intermedio tra PSI e PCd’I furono messi in nettissima minoranza. In seguito le organizzazioni terzine e il loro giornale “Più Avanti!”, si espresse-ro pressoché unanimi per la fusione. Insomma, dalla tarda primavera del ‘24 la campagna per l’abbandono del PSI nenniano e l’ingresso nel PCd’I era aperta.

31 Ibidem, p. 304 32 Cfr. “Pagine Rosse”, a. I, n. 3, 25 luglio 1923, p. 433 Ivi, nn. 3 e 7, 1923 cit. in t. detti, Serrati e la formazione, cit., p. 391n. 34 Ivi, p. 41135 Cfr. T. detti, La frazione terzinternazionalista e la formazione del PCI, in “Studi stori-

ci”, a. 12., n. 3, luglio-settembre 1971, pp. 480-523

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Così, sempre sul piano nazionale, le varie componenti terzine presenti nelle diverse zone del Paese – poche migliaia, ma scarse erano all’epoca anche le forze della neonata formazione politica comunista – iniziarono l’emigrazione alla spicciolata (un esodo che per tanti motivi non fu certo indolore), dal PSI al partito di Gramsci e Togliatti. Le tempistiche e le modalità – è già stato osser-vato – ebbero connotazioni diverse da zona a zona rispecchiando gli atteggia-menti che di fronte al problema della fusione le diverse parti avevano assunto in passato. 36

3.6 La confluenza dei terzini nel PCd’I reggiano

La presa di posizione dei terzini ebbe naturalmente ripercussioni importanti an-che all’interno del PSI reggiano, peraltro scosso nel ’24 dal barbaro assassinio, operato dai fascisti il 28 febbraio, di Antonio Piccinini. La sua efferata uccisio-ne ebbe un effetto dispersivo sulle residue forze del PSI massimalista, che si divisero e in gran parte furono costrette a ritirarsi o ad “emigrare”: i militanti socialisti erano – come s’è già rilevato – “noti” ai fascisti, e pertanto soggetti alle loro ritorsioni, non di rado omicide. Non altrettanto accadrà ai militanti che avevano aderito, già dal 1923, alla frazione terzinternazionalista del Partito, l’unica rimasta in qualche misura organizzata e politicamente attiva. Proprio sulla base di un cliché che rispecchiava il quadro nazionale, all’inizio dell’estate del 1924, in un incontro al Monte delle tre croci nei pressi di San Ruf-fino di Scandiano svoltosi alla presenza dell’on. Domenico Marchioro, rappre-sentante della Direzione nazionale della frazione (terzina) e di Sante Vincenzi della Federazione comunista reggiana, Cesare Campioli, Luigi Tagliavini, Ade-rito Ferrari, Giuseppe Torelli, Fantini, Cugini, Incerti, la Tadini ed altri, in tutto una settantina di compagni socialisti terzinternazionalisti, assunsero la decisio-ne, ufficializzata in quell’incontro, di entrare nelle fila comuniste. L’ingresso di forze nuove andrà subito a rinvigorire di freschi militanti il gruppo dirigente del PCd’I reggiano che, dopo la riunione del Monte delle tre croci, risultò così composto tra gli altri da Vincenzi, Tagliavini, Pini, Zanti, Grisendi (T.) ed Egle Gualdi. Molti di loro, a cominciare dal sindacalista Tagliavini, vennero dunque quasi contemporaneamente cooptati nel Comitato Federale comunista.37 L’im-missione di forze sindacali di provenienza socialista, che forze che per la loro at-

36 Cfr. t. detti, La frazione terzinternazionalista e la formazione del PCI, in “Studi stori-ci”, a. 12., n. 3, luglio-settembre 1971, p. 493

37 Cfr. c. caMPioli, Cronache di lotta, Parma, 1965, pp. 45-46 in: a. feRRetti, Comunisti a Reggio Emilia (1921-1943), Reggio Emilia, Edizioni Rinascita, 1978, p. 79

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tività erano a stretto contatto coi lavoratori, contribuiva a vincere resistenze ed a popolarizzare una forza politica – il PCd’I – che ancora faticava a penetrare nei gangli sensibili del proletariato. La dispersione del massimalismo a Reggio fu causata in parte dall’efferato assassinio del leader locale che produsse terrore e sconcerto fra i suoi più stretti collaboratori ed in parte dal senso di isolamento politico dovuto allo sganciamento dal PSI dei massimalisti di sinistra (“terzi-ni”) che oltretutto avevano fatto campagna elettorale per i candidati comunisti, sganciamento che era pertanto iniziato assai prima della loro confluenza nel PCd’I. In pratica, nell’immediato, l’anomala scissione dei “terzinternazionalisti” con-tribuì ad indebolire ulteriormente le forze già fiaccate dal fascismo del movi-mento operaio reggiano.

4. Due note storiografiche

Sul massimalismo italiano pesa una condanna senz’appello che ha preso corpo nella polemica ideologica e politica dei primi anni del fascismo e che ha per-meato di sé tutta la storiografia italiana, in particolare quella – prevalente nel dopoguerra – di matrice marxista. La vicenda dei “terzini” è sempre stata assai poco considerata per non dire ignorata o acquisita dalla storiografia come parte della tradizione comunista. In realtà anche la storia della frazione terzinternazionalista è un brandello della tormentata storia del socialismo italiano e, nella fattispecie, di quella particolare dei socialisti massimalisti. Essa, anzi, in qualche misura rappresenta uno degli elementi distintivi della difformità del socialismo italiano rispetto a quello della stragrande maggioranza dei partiti socialisti europei. A far sì che la condanna del massimalismo non conoscesse revisioni in nessuno dei suoi capi d’imputazione, all’indomani della Liberazione – nel 1945 – si ado-perarono addirittura lo stesso PSIUP (così si chiamava il rinato partito sociali-sta) e, soprattutto, vigile e rigido, il Partito comunista. L’accusa rivolta dai due partiti della sinistra italiana al vecchio socialismo “massimalista” si sostanziava in questa affermazione: i massimalisti non ebbero la capacità o il coraggio di assumere comportamenti politici che conducessero alla rivoluzione; incerti nel cacciare i riformisti dal Partito, insofferenti ad accettare la disciplina della terza internazionale, cioè i dettami di Mosca, essi furono anche rigidamente contrari ad assumere impegni di governo accanto ai popolari ed ai liberali, impegni che, secondo alcuni, avrebbero potuto impedire l’avvento del fascismo. In realtà l’irrisione dei massimalisti ha costituito fino ad oggi una specie di condanna di tutto il vecchio socialismo pre-fascista (tanto che massimalismo e riformismo

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per anni ebbero identica connotazione negativa) – attraverso la quale – il parti-to socialista e il partito comunista dell’immediato post-liberazione (all’epoca, occorre ricordarlo, ambedue “stalinisti”), cercavano di presentarsi come nuovi interpreti delle esigenze del movimento operaio italiano, del tutto scevri dagli errori del passato.

Per un’esigenza di serietà e di chiarezza ormai imprescindibili, le definizioni di Massimalismo e di Riformismo – proprio perché si riferiscono a problematiche politiche ormai esclusivamente attinenti alla storiografia – dovrebbero essere abbandonate o rivisitate criticamente, eliminando dalle medesime le incrosta-zioni propagandistiche e strumentali con cui sono state usate dal dopoguerra ad oggi. Il giudizio sul massimalismo, che alla conclusione del secondo con-flitto mondiale trovava concordi per evidenti ragioni di opportunità, riformisti e comunisti, va dunque assolutamente contestualizzato pena la mistificazione della realtà. Il massimalismo è stata una reazione alla prassi di quel riformismo socialista che faceva da sfondo ed era in un certo senso funzionale alla politica giolittiana. I tempi non erano propizi ad un’azione a viso aperto contro uno stato autoritario borghese-aristocratico, anche perché la destra si stava armando in Italia e in Europa. Il socialismo massimalista (così come tutto il movimento operaio), subirà una sconfitta storica. La situazione politica generale ed intime contraddizioni irrisolte gli saranno fatali.

4.1 Il massimalismo e il riformismo oggi

Per il Centro-destra odierno, i termini comunismo e massimalismo, hanno tutti e due la stessa identica connotazione negativa. Per il centro-sinistra, invece, e particolarmente per il PD, l’identificazione del neonato Partito Democratico col socialismo viene considerata scandalosa e il vocabolo stesso, impronuncia-bile. Al contrario, la locuzione “riformismo” è tatticamente buona per tutti gli schieramenti. Il che l’ha deprivata della valenza originaria. Il riformismo, che è stata una caratteristica saliente del vecchio socialismo pre-fascista, è ormai un termine neutro ed anonimo, un paravento dietro cui si nascondono orientamenti diversi e contrapposti. Il riformismo: questo sì, è davvero, oggi, impronuncia-bile. La denigrazione del massimalismo scaduto a metafora obliqua e scandalosa di se stesso e la rivalutazione asettica del riformismo, assurto, dopo vergognosa mutazione genetica, a simbolo non solo di pallidi partiti affini del centro-sini-stra, ma anche delle più insidiose strategie populiste, antipopolari e antioperaie, si configura come una perdita della memoria storica in gran parte voluta dalla società mediatica prevalente per mescolare le carte della politica. Si tratta di

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un’operazione di segno moderato e in gran parte reazionario che si alimenta magnificamente nel marasma di ipocrisia, ignoranza e malafede che caratteriz-zano l’agone politico di questi nostri tempi.

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La biografia di Camillo PrampoliniProgetto di ricerca

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La scelta dell’approccio biografico e, più in generale, l’analisi degli «snodi» tra sfera pubblica e sfera privata sono sempre più ricorrenti nella storiogra-

fia italiana sull’età contemporanea, che ha visto, invece, attenuarsi, negli ultimi vent’anni, l’interesse a lungo prevalente per gli apparati politici e le organizza-zioni di massa.Una valida biografia deve essere, comunque, in grado di andare al di là dello stesso biografato, per aiutare a comprendere quali fossero il suo mondo e il suo tempo. Nella fattispecie, il “caso” di Camillo Prampolini si riferisce al princi-pale ispiratore e protagonista dell’esperienza socialista nell’area rurale padana tra Otto e Novecento (ancora utili, sotto questo aspetto, gli atti del convegno organizzato nel 1978 dall’Istituto socialista di studi storici), ma la sua figu-ra rivela sicuramente anche una solida statura nazionale ben evidenziata dalla trentennale attività parlamentare. Si delineano così i contorni di un interprete esemplare dei rapporti centro-periferia, nei decenni che vanno dalla crisi di fine secolo all’avvento del fascismo.Esistono tre biografie di Prampolini, firmate da Giovanni Zibordi (1930), Rena-to Marmiroli (1948) e Paolo Colliva (1958). Si tratta, nel complesso, di lavori utili, ma che appaiono ormai molto datati e che scontano, inevitabilmente, la limitatezza delle fonti sulle quali si basano. Del resto, è soprattutto negli ulti-mi anni che gli istituti culturali pubblici e privati hanno profuso un impegno crescente nell’ordinamento e nella valorizzazione delle fonti archivistiche e bibliografiche relative a singole personalità. Si è arricchita, di conseguenza, la letteratura specialistica sugli archivi e le biblioteche personali. Solo per fare qualche esempio, le fonti epistolari pubblicate nel 1966 da Mar-miroli (Socialisti, e non, controluce. L’epistolario di Camillo Prampolini, con un’introduzione, note e commenti) potrebbero oggi essere incrementate da nu-merose lettere presenti nei fondi Giovanni Zibordi, Amilcare Storchi e Meuc-cio Ruini, acquisiti e inventariati dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. Uscendo dalla dimensione locale, lettere di Prampolini sono presenti nei fondi

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Felice Anzi, Felice Cavallotti, Andrea Costa e Luigi Musini, conservati dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano. Attente ricerche documentarie dovranno essere condotte presso i numerosissimi archivi personali e le miscel-lanee della Fondazione di studi storici Filippo Turati di Firenze, mentre fuori dall’Italia alcune carte e foto di Camillo Prampolini sono rintracciabili presso l’International Institute of Social History di Amsterdam. Benché con esiti qualitativi diversi, i lavori di Zibordi, Marmiroli e Colliva si presentano, inoltre, come biografie “di parte”. In altre parole, si tratta di mono-grafie con le quali gli autori ripercorrevano, attraverso la figura di Prampolini, la storia del proprio partito e della propria tradizione politica, quando non di-rettamente la propria esperienza personale. Del resto, le tendenze pedagogiche di Zibordi e le forzature ideologiche di Colliva vennero rilevate dallo stesso Marmiroli, che naturalmente non poteva essere giudice del proprio lavoro. Al contrario, sono convinto oggi si presenti l’occasione per un saggio biografico che tenga ben distinte ricerca storica e appartenenze politiche, approfondendo piuttosto la ricerca sulle fonti archivistiche e bibliografiche (per queste ultime, il riferimento è principalmente a periodici, opuscoli, atti congressuali e parla-mentari).A livello preliminare, è possibile definire cinque temi principali che il nuovo saggio biografico dedicato a Prampolini dovrà affrontare: la formazione cultu-rale; il giornalismo politico e la propaganda nelle campagne; l’opera negli enti locali e nelle istituzioni del socialismo reggiano; l’attività parlamentare all’in-terno del gruppo socialista; l’«esilio in patria» e gli ultimi anni a Milano.Il primo capitolo del volume, dedicato alla formazione culturale, prenderà le mosse dall’ambiente familiare (conservatore e cattolico) in cui crebbe il giova-ne Prampolini, fino ad arrivare alla sua «conversione» e all’esplicita adesione al socialismo internazionalista, avvenuta al termine degli studi universitari, nei primi anni 80. Di grande importanza, in questa fase della ricerca, sarà ricostrui-re, per quanto possibile, gli studi di giurisprudenza compiuti presso l’ateneo di Bologna, l’ambiente culturale in cui essi si svolsero (l’Archivio storico del-l’Alma Mater può essere sicuro punto di riferimento in questo senso) e la con-sultazione della biblioteca personale di Prampolini, acquisita non molti anni fa dalla Biblioteca Panizzi e già valorizzata, almeno in parte, da lavori di Giorgio Boccolari e Renato Zangheri.Il secondo capitolo riguarderà la prima esperienza giornalistica dello “Scami-ciato”, foglio libertario che Prampolini promosse insieme ai superstiti del grup-po modenese-reggiano della Prima Internazionale (pagine importanti su questa vicenda ha già scritto Pier Carlo Masini), fino ad arrivare alla fondazione, nel 1886, de “La Giustizia”, attraverso la quale Prampolini agitò la parola d’ordine Alle urne! e definì il conseguente distacco dagli anarchici reggiani. È lungo gli anni 80 che Prampolini cominciò la sua opera pionieristica di «evangelismo

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socialista» nelle campagne emiliane: l’educazione politica e l’organizzazione economica degli strati popolari, la formazione di una folta schiera di fedeli col-laboratori. Oltre allo spoglio sistematico dei due periodici sopraindicati, saran-no utili le carte di prefettura e gli archivi giudiziari conservati presso l’Archivio di Stato di Reggio Emilia, mentre, all’Archivio centrale dello Stato, si consulte-ranno le carte della Direzione generale della pubblica sicurezza. L’esperienza pratica di propaganda e organizzazione costituì l’apporto princi-pale portato da Prampolini alla creazione del partito nazionale (il Partito dei lavoratori italiani, poi Partito socialista italiano) nato a Genova nel 1892 e riuni-tosi in congresso, proprio a Reggio Emilia, nel 1893. Come ha osservato Mauri-zio Degl’Innocenti, Reggio Emilia e la sua provincia rappresentarono il «punto nero» dell’Italia liberale: il laboratorio sperimentale del socialismo riformista e del programma amministrativo socialista.Nella parte centrale e più consistente del volume (suddivisa in alcuni capitoli), si intersecheranno gli aspetti legati alla costruzione istituzionale del modello socialista reggiano - definito efficacemente da Meuccio Ruini come «coopera-zione integrale» - con quelli relativi all’attività politica nazionale di Prampoli-ni, sia nelle assise di partito, sia soprattutto nel Parlamento (sarà opportuno, a questo proposito, consultare la biblioteca e l’archivio storico della Camera dei deputati, come risulta anche dal recente volume dedicato ai discorsi parlamen-tari, a cura di Franco Boiardi). Quasi sempre presente nell’amministrazione provinciale e nel consiglio comu-nale di Reggio Emilia, Prampolini ricoprì a più riprese altre cariche cittadine (ad esempio, la presidenza della Cassa di Risparmio), mentre affidava, nel 1901, la direzione della Camera del lavoro ad Antonio Vergnanini, uno dei suoi maggio-ri collaboratori. Il socialismo prampoliniano, come buona parte del riformismo socialista italiano, si espresse - prima di tutto - come pratica delle istituzioni locali. Di conseguenza, nella biografia verranno affrontati, ampiamente, i temi del governo della città e della modernizzazione dei servizi pubblici, inserendoli nel quadro della tensione tra “periferia” e “centro”: tra ruolo degli enti locali e intervento crescente del “centro” sul terreno legislativo e burocratico. Per il periodo che va dall’allargamento dell’elettorato amministrativo (1889) all’ascesa del fascismo, la ricerca procederà con grande attenzione al versante istituzionale, attraverso l’esame delle carte di prefettura e dei fondi dell’Archi-vio storico del Comune di Reggio Emilia (atti del consiglio comunale e delibe-razioni della giunta municipale), ora accolti presso il nuovo Polo archivistico del Comune di Reggio-Emilia, dove è consultabile anche una raccolta degli atti del consiglio provinciale. A livello storiografico, un’importante premessa è costituita dallo studio di Alberto Ferraboschi sul potere civico a Reggio Emilia nella seconda metà dell’800.La cesura della guerra mondiale (con il drastico allargamento della sfera di

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intervento dello Stato in campo economico e sociale), le spinte rivoluzionarie suscitate dal mito dell’Ottobre rosso e la violenza politica fascista scompagi-narono le file della sinistra italiana e sommersero di colpo la concezione evolu-zionistica, pluralista e decentrata del socialismo prampoliniano. Nel 1921-22, il PSI si spaccava e Prampolini fondava insieme a Turati, Matteotti, Treves e Mo-digliani il Partito socialista unitario. Nel 1925, il leader riformista era costretto a lasciare Reggio Emilia e a stabilirsi a Milano, dove moriva nel 1930. Agli ultimi anni di sofferto sradicamento dalla propria terra sarà dedicato il capitolo conclusivo della biografia.

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La riflessione che si è aperta sul pensiero e la prassi di una figura come quel-la di Camillo Prampolini “volta a misurarsi con la sfida di verificare se la

lezione della storia, correttamente indagata, abbia ancora un suo valore e una potenzialità intrinseca (e conseguentemente quali interpretazioni nuove si im-pongano in chiave di riattualizzazione politico-culturale)” spingono a proporre progetti di ricerca da inserire nel programma delle iniziative che ha avuto avvio con il Convegno internazionale a Reggio Emilia nello scorso dicembre, conclu-so con la presenza alla tavola rotonda di valenti studiosi e di Giuliano Amato, Presidente del Comitato Nazionale.E’ anche occasione per la valorizzazione dell’Associazione per gli studi e la cultura cooperativa “Camillo Prampolini” promossa da Legacoop che, con la partecipazione di tutte le maggiori cooperative della “Provincia cooperativa”, ha patrocinato con indubbio successo, dall’ottobre 2006 all’aprile 2007, le Sette giornate di Cooperazione – Come crescere senza perdere l’anima. Un progetto di ricerca può riguardare il tema Cooperazione e Socialismo: le Case del Popolo, senz’altro arduo ed esteso, ma da ricondurre fondamental-mente al periodo che corre dal 1890 al 1910.Partendo dalla vicenda della prima Casa del popolo italiana, inaugurata a Mas-senzatico (frazione rurale di Reggio Emilia) il 9 settembre 1893, durante il II Congresso nazionale del Partito Socialista dei Lavoratori, si intende ricostruire la storia del complesso sistema di socialità solidale cresciuto attorno al mo-vimento operaio e cooperativo tra XIX e XX secolo (fino all’instaurarsi del regime fascista), innanzitutto nella provincia reggiana, ma con intensi confronti sovralocali, con altre province padano-toscane, e con la realtà italiana in genere, ma più ampiamente con le esperienze pilota di altre realtà europee, innanzitutto quella belga del Vooruit (Avanti) a Gand e della Maison du Peuple a Bruxel-les, prevedendo anche incontri e ricerche in sedi culturali e archivi d’oltralpe, specie nell’archivio storico della Maison du Peuple “La Fraternelle” di Saint-Claude nell’Alto Giura francese.

Le Case del Popolo tra XIX e XX secolo:Camillo Prampolini e Massenzatico

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Quale luogo più naturale per l’avvio del progetto se non la Massenzatico di Prampolini, che conserva profonde testimonianze di memoria e di presenza cooperativa giunte tra alterne vicende, lungo tutto il Novecento, fino ai giorni d’oggi?“La Giustizia” nel corso del 1893 riporta notizie sul Congresso Internazionale di Zurigo (agosto 1893) e sul II Congresso Nazionale del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (settembre 1893).1

Vengono in evidenza i rapporti con il movimento operaio e la cooperazione europea.Nel pomeriggio di sabato 9 settembre 1893, alle cinque e mezzo, ha luogo in Massenzatico una serata in onore dei congressisti. S’inaugura il fabbricato della Cooperativa di Consumo (poi Casa del Popolo), eretto su disegno dell’Ing. Pier Giacinto Terrachini e nel quale ha lavorato anche il Prof. Cirillo Manicardi. 2

Intervengono diversi oratori (Enrico Ferri, Filippo Turati, Camillo Prampolini, Antonio Vergnanini) ed anche Émile Vandervelde parlando in francese. Vandervelde, oltre a rappresentare il partito operaio belga, ricopre un ruolo di primo piano nella seconda Internazionale socialista (1889-1914), come primo presidente del Bureau Internazionale socialista. E’ evidente la radice ed il collegamento culturale ed artistico, politico e sociale con la Maison du Peuple di Bruxelles sita in via della Baviera nella vecchia Sinagoga inaugurata il giorno di Natale del 1886. Abbandonate le osterie private e quelle create da organismi associativi degli stessi operai le organizzazioni socialiste belghe presero in affitto l’ex sinagoga trasformandola nella Maison du Peuple.3

I rapporti con il partito operaio e la cooperazione belga, da esplorare ed appro-fondire, trovano più tardi riscontro nella pubblicazione sulla “Giustizia” di un brano della conferenza di Edward Anseele, presentato come illustre e beneme-rito operaio socialista del Belgio. Il testo della conferenza (1900) si trova nel piccolo libro intitolato Cooperazione e Socialismo e pubblicato dalla Libreria Moderna di Genova nel 1902. La redazione della “Giustizia” consiglia tutte le Cooperative di consumo ad

1 “La Giustizia” – settimanale – Organo della Lega Socialista – Anno VIII del 13 agosto 1893; “La Giustizia”, Supplemento N. 161, del 6 settembre 1893.

2 l. aRBizzani, Storie di Case del Popolo: saggi documenti e immagini d'Emilia Roma-gna, cura di Luigi Arbizzani, Saveria Bologna, Lidia Testoni. Riflessioni e problemi d'oggi di Giorgio Triani. Presentazione di Alberto Jacometti e Enrico Menduni, Casa-lecchio di Reno (BO), Grafis Industrie Grafiche s.r.l., Edizioni d’arte, 1982

3 l. BeRtRand, Vers le passé, in “Le Peuple”, Organe quotidien de la démocratie socia-liste, Bruxelles, Edition speciale, a.V. 1899.

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acquistare questo libricino che costa soltanto 60 cent. per leggerlo, rileggerlo e commentarlo nelle assemblee dei soci, che dovrebbero essere convocate spesso per trattare appunto della cooperazione e formare dei veri cooperatori. Ricor-da alle Cooperative che esse finirebbero nel fallimento e s’imbastardirebbero (diventando altrettante inutili e dannose aziende bottegaie), se credessero di essere nate soltanto per vendere a buon mercato la farina, il lardo, l’olio, ecc. e dimenticassero che esse – come le Leghe di resistenza, le Camere del lavoro, i Circoli socialisti, ecc. – devono essere strumenti di quella profonda trasforma-zione sociale che deve condurre alla completa emancipazione la classe lavora-trice. Invita le Cooperative di consumo ad ispirarsi alle Cooperative socialiste del Belgio – che in pochi anni seppero giungere a procurare tanti vantaggi ai lavoratori, non solo con le vendite a buon mercato, ma istituendo scuole di lettura e di riunioni, servizi farmaceutici, casse di mutuo soccorso, pensioni per la vecchiaia, ecc. e sussidiando i lavoratori nei loro scioperi, sostenendo le campagne elettorali. A conoscerle e imitarle, per potere vantare anch’esse in pochi anni, mirabili successi.Edward Anseele sostiene che a fianco di ciascuna chiesa e in tutti i quartieri delle grandi città si dovrebbe innalzare una Casa del Popolo. A Gand, città di 165mila abitanti, vi sono cinque grandi locali destinati a Case del Popolo, co-struiti dal 1873 cioè in soli ventisette anni. Si otterrebbe un ammirabile risultato dallo loro diffusione, perché in queste Case del Popolo sarebbero eliminati tutti i vizi dei poveri, tutte le loro debolezze, tutte le cause della loro servitù e della loro miseria! Si combatterebbero l’ignoranza, l’egoismo, le vane paure, la viltà, il servilismo, la discordia, l’ubriachezza, cioè tutto quanto rende meno buoni i rapporti e le persone umane.4

Guy Vanschoenbeek, storico dell’AMSAB di Gand (Belgio), nell’opuscolo stampato nel 2002 in lingua francese dall’ Associazione La Fraternelle di Saint-Claude sostiene che Edward Anseele, cristiano democratico, è la personifica-zione di un socialismo “à la gantois”, dal cui seno ha eliminato il dibattito su “rivoluzione e riformismo”, alfine di consacrarsi ad un socialismo concreto, pratico, pragmatico, che avesse effetti sulla vita quotidiana dei lavoratori. Si è dedicato con ardore ad un migliore funzionamento della cooperazione, dei sin-dacati e delle società mutualistiche. Al cambio di secolo, queste organizzazioni funzionavano su base professionale. Gand era quasi l’unica città in Belgio dove i segretari dei sindacati e di altre organizzazioni erano pagati. Il “servizio” che le federazioni socialiste offrivano ai loro aderenti, ai lavoratori, si estendeva sistematicamente. Si sviluppavano delle assicurazioni contro le vicende della

4 “La Giustizia”, Organo settimanale dei Socialisti Emiliani, Anno XVI, N. 801, del 12 gennaio 1902.

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vita dei lavoratori quali malattia, disoccupazione e vecchiaia. Man mano che “il modello” si sviluppava, i nuovi membri accorrevano. Alla fine dell’anno 1895, il movimento fece un grande passo in avanti: alle elezioni comunali, il partito socialista si rivelò maggioritario (14 consiglieri su 39) e si pose candidato per la partecipazione al potere. Nello stesso periodo avvennero numerosi scioperi sostenuti con l’aiuto attivo del Vooruit, che ebbero per effetto l’iscrizione mas-siccia di nuovi membri, soprattutto presso i sindacati di matrice socialista (i sin-dacati cristiano-democratici e liberali ne ricavarono egualmente dei benefici). All’inizio del 1896, più di un terzo dei lavoratori di Gand era sindacalizzato, cifra poco comune a quell’epoca.5

Il numero monografico dell’“Almanacco” n. 52, uscito nel dicembre 2008, è dedicato all’importante figura e opera di Romeo Romei definito Il medico dei poveri e soprattutto L’uomo che ha portato la “Camera del lavoro” in campa-gna, quale modello di solidarietà bracciantile. 6 E diventa organizzatore politico e promotore dello sviluppo del movimento bracciantile padano, dedicando tutta l’esperienza acquisita nel fondare, ammi-nistrare e ispirare sodalizi di lavoratori in tutta la zona del mantovano e … nel clima politico determinato dall’uccisione del re Umberto, la forza degli eventi portarono in poche settimane al sorgere effettivo della Casa del Popolo a Vil-la Saviola, con l’occupazione da parte della popolazione, nell’ottobre 1900, del terreno, con l’occulto consenso del proprietario, il veterinario socialista del paese, che non sporse denuncia ma ne fece dono alla Società di mutuo soccorso e, grazie ad un grandioso impeto di lavoro volontario, erigendola in cinquanta giorni.7 Importante è la riscoperta del volume scritto da Romeo Romei e stampato a San Benedetto Po nel 1900, L’organizzazione proletaria campagnuola, con sottotitolo I nuovi orizzonti delle Società di M.S. campagnuole. Contributo al Vooruit delle campagne ormai praticamente introvabile ed ora trasferito in un esemplare CD.8

Come esemplari sono i due grandi principi che sono stati la guida per Romei e che enuncia:“il primo è che nelle istituzioni che il popolo si dà vi è insita una ragione intima e istintiva atta non solo ad unirne le forze e la coscienza politica, ma a conqui-

5 G. vanschoenBeek, Le monde du « Vooruit » de Gand (Belgique) et les coopérateurs de Saint-Claude (France), prefazione di Alain Mélo, Editions de La Fraternelle, 2002.

6 “L’Almanacco”, a. XXVII, n. 52, Dicembre 2008, Romeo Romei e il socialismo rurale, a cura di M. Fincardi e L. Gualtieri.

7 Id. M. fincaRdi, Un modello di solidarietà bracciantile, p. 42.8 Id. p. 41.

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starne anche la completa emancipazione;…perché il popolo ha la virtù di assimilare dalle idee e dalle teorie quel tanto, che può essere trasformato in applicazioni dirette e nella vita”.“L’altro principio è che pure dando il massimo valore all’organizzazione poli-tica…, tuttavia la base vera e solida del movimento campagnuolo … non è che l’organizzazione economica”. 9 Alcune cooperative di consumo (Pegognaga, S. Benedetto Po, Buscoldo) hanno sviluppato una forza immensa e possono servire da modello. La cooperativa di Pegognaga, con oltre 500 soci e un movimento annuale di circa 100 mila lire, ha fatto acquisto di un podere e di una casa del valore di circa 20.000 lire su cui sarà scritta la prima dizione gloriosa campagnola: Casa del Popolo. Superando e risolvendo il pericoloso e difficile problema delle vendite a credito che sono causa di tante crisi di cooperative.Affrontando soprattutto tre lacune: la forma per azioni, che non permette la co-struzione di un capitale collettivo, ma una somma di capitali individuali; la se-conda che i soci sono uniti dall’idea dell’utile immediato ed hanno messo a fon-damento cardine dell’istituzione la vendita al prezzo minimo di costo, e così la cooperativa vive grama e rachitica, pronti sempre a sfruttarla o ad abbandonarla il giorno che altri offra migliori vantaggi; infine lo spinoso controllo, fiscale e poliziesco, di mano governativa che impedisce l’accumulazione di capitali e interviene su tutti gli atti deliberativi anche quelli più normali e regolari.10

Alla figura e ruolo di Romei è dedicato un capitolo della ricerca storica sul mo-vimento cooperativo a Pegognaga di Alfredo Calendi e Vittorio Negrelli.11 Per Romei, oltre a guardare all’esperienza inglese che viene dai Probi Pionie-ri di Rochdale, ai successi dell’Unione cooperativa di Milano e dell’Alleanza cooperativa di Torino, più consono agli intenti proposti è l’esempio dei gran-diosi Vooruit Belgi; l’iniziatore è Anseele a Gand, che è partito da una panet-teria facendo pagare il pane non a prezzo minimo di costo, ma a un prezzo più mite di mercato, e concedendo al consumatore unicamente il dividendo di un centesimo ogni pane acquistato, mentre l’utile rimanente resta al Vooruit. Così

9 Ibidem R. RoMei, I nuovi orizzonti delle Società di M.S. campagnuole. Contributo al Vooruit delle campagne, CD., pp. 13-14.

10 Ibidem R. Romei, pp. 28-2911 a. calendi – v. neGRelli, Il Movimento Cooperativo a Pegognaga, dalle origini ai

giorni nostri, 2004 Edizioni Diabasis, Reggio Emilia della collana Comunità e Identità di Coop Consumatori Nordest; a p. 41 Cfr. libro di R. Salvadori La Repubblica socia-lista mantovana si scrive: Di cooperative di consumo ne esistono molte nella nostra provincia e se l’esito di alcune fu deplorevole ad altre arride la sorte, che sarà sempre più prospera se si arriverà a istituire grandi magazzini per la vendita all’ingrosso, depositi unici per la legna e carbone.

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è riuscito a creare nella Città di Gand un intreccio di istituzioni educative, di cooperazione, di produzione, che si sono poi moltiplicate in tante altre città del Belgio, formando un vero mondo distinto nel mondo borghese.12

E sul ruolo da affidare alla cooperazione e in maniera centrale al consumo, ri-tenendo che possa divenire il fulcro e la spina dorsale del cambiamento sociale ed economico delle campagne e non solo, vi è piena convergenza con le tesi di Antonio Vergnanini, esposte in modo compiuto nel suo progetto di “coopera-zione integrale”. Le cooperative di consumo si dimostrano pertanto atte ad assumere questo gran-de compito: di sorgere in ogni più remoto e piccolo centro e portare a diretto contatto dei consumatori i prodotti tutti necessari alla vita ed alla civiltà. Esse sono destinate a servire di freno e correttivo all’urbanesimo ed esercitare vera-mente una missione educatrice, invitando l’operaio a forme più civili di vita, ad esigenze di gusto più igieniche là dove ordinariamente si frappongono le barrie-re abitudinarie dei commercianti al dettaglio e degli speculatori privati.Le cooperative di consumo unite in grandi consorzi avranno una virtù di pere-quazione dei prezzi e delle qualità dei prodotti tra le varie zone.Ma evidentemente le cooperative di campagna non potranno compiere questa civile missione finchè resteranno isolate ed impossibilitate ad allargare il com-mercio a tutti gli articoli necessari alla vita.Prigioniere dei grossisti, dell’industria privata, dei monopoli e trust le coopera-tive di consumo, non hanno garanzie per le qualità dei prodotti che acquistano, né possono darle ai consumatori.Ma l’organizzazione cooperativa, anche con tutti i limiti che manifesta, con tut-ti i suoi pericoli e difetti, rappresenta un primo gradino verso forme più elevate di organizzazione e di disciplina delle energie umane.13 Vi è senz’altro grande convergenza con la scuola di Nimes, con Charles Gide, che sostiene che il consumo è il più universale di tutti i fatti economici: è il consumo che deve disciplinare la produzione e pertanto bisogna organizzare i consumatori.14 Anche per Gide non è restando isolati, incoerenti, e allo stato anarchico, che le nostre piccole associazioni cooperative potranno bastare a questa grande opera di difesa sociale e lottare efficacemente contro le grandi associazioni capitali-

12 Ibidem R. RoMei, p. 12013 a. veRGnanini, Comunicazione al VII Congresso dell’Alleanza Cooperativa Internazio-

nale, Cremona 23, 24, 25 Settembre1907 – Cooperazione Integrale (Notizie sulle coo-perative Reggiane) – pp. 15/17.

14 M. Ruini, Il Fatto Cooperativo in Italia, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1922 pp. 148/150.

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ste. Bisogna fare un piano di campagna, o piuttosto non c’è bisogno di farlo, è già fatto.

Esso comprende tre tappe successive:1) Raggruppare fra di loro le società – prelevare sui loro utili la maggior parte possi-bile per fondare dei grandi magazzini all’ingrosso e provvedere agli acquisti su larga scala – la prima tappa.2) Coi capitali così costituiti, mettersi all’opera per produrre direttamentetutto ciò che è necessario ai bisogni dei soci, creando forni,mulini, fabbriche di tessuti e abiti confezionati, fabbriche di calzature,di cappelli, di sapone, di biscotti, di carta – ecco la seconda tappa.3) Infine, in un avvenire più o meno lontano, acquistare delleterre e delle fattorie e produrre direttamente su queste terre il pane,il vino, l’olio, la carne, il latte, il burro, il legname, che costituisconola base del consumo – ecco l’ultima tappa.15

Charles Gide partecipa nel 1907 all’inaugurazione della ferrovia Reggio-Ciano e alla posa della prima pietra dello Stabilimento meccanico cooperativo nel vil-laggio Gardenia a Reggio Emilia; si promuovono grandi festeggiamenti, presie-duti dall’ex-ministro Luigi Luzzatti; intervengono dirigenti della cooperazione francese, belga, inglese, russa, provenienti dal Congresso dell’ACI di Cremona i quali si rivolgono ad oltre 30.000 lavoratori presenti, con tutti i vessilli delle loro organizzazioni.16

Sul Congresso dell’ACI “La Giustizia” dà notizia che i lavori si sono tenuti sotto la presidenza di Luigi Luzzatti e dell’inglese Henri Wolf, che fu anche a Reggio Emilia nel 1901 al Congresso operaio per la nascita della Camera del Lavoro con la triplice azione di Resistenza, Cooperazione e Previdenza, mentre Antonio Vergnanini è stato designato alla Vicepresidenza.Presenta in prima pagina, sotto il titolo I Re senza Corona, l’elenco delle 24 Persone più ricche del mondo che uniscono un patrimonio di 16.265 milioni di lire, che con un tasso al 5% producono una rendita di 813 milioni l’anno.Illuminante dei tempi è la polemica con “L’Italia Centrale”, organo definito por-tavoce dei bottegai, degli appaltatori, degli affaristi e che, riferendosi alla pre-senza di Luigi Luzzatti e di altri autorevoli esponenti, ritiene inconcepibile che uomini che sono vanto e sostegno della borghesia liberale si rechino a visitare ed ammirare le istituzioni e le opere create dai seguaci di Marx, per sovvertire

15 C. Gide, Il cooperativismo, Roma, Edizioni de «La Rivista della Cooperazione», 1953, p. 2., www.movimentocooperativo.it

16 M. Bonaccioli-a. RaGazzi, Resistenza-Cooperazione-Previdenza nella Provincia di Reggio-Emilia (1886-1925), Reggio Emilia, Cooperativa Lavoranti Tipografi, 1925, p. 105.

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gli attuali ordinamenti sociali. Di seguito l’accusa paradossale rivolta ai signori della Camera del Lavoro, che si proclamano socialisti sapendo di non esserlo e danno da intendere di creare il socialismo, sapendo invece di fare da puntello allo sviluppo della borghesia. “La Giustizia” risponde che “L’Italia Centrale” insiste nel qualificare come “borghese” il movimento operaio della nostra pro-vincia cadendo nel ridicolo e nella malafede. “L’Italia Centrale” appena quattro anni prima chiamava a raccolta per formare la Grande Armata, urlando che a Reggio e nei dintorni si era in piena rivoluzione e di fronte ad un vero sovver-timento economico e sociale. “La Giustizia” argomenta che la risposta è nella distinzione tra rivoluzione sociale e rivoluzione politica; è nella scelta compiuta da oltre venti anni di consigliare ai lavoratori l’associazione cooperativa, ispi-rata a quei criteri di cooperazione integrale esposti a Cremona dal bravissimo Vergnanini e continuando nella lotta per la conquista dei pubblici poteri. La ri-voluzione consiste nella formazione di un nuovo ordinamento sociale, dove alla selvaggia legge del mercato sarà sostituita l’organizzazione della solidarietà.17

All’Esposizione Internazionale Cooperativa di Gand (1924) – memorabile mo-stra della Cooperazione mondiale – il prof. Charles Gide, nel presiederla, così si esprime: “In una sala il Consorzio di Reggio-Emilia espone fieramente la vista pittoresca di una ferrovia: la Reggio-Ciano, che esso ha costruito e che esso esercita direttamente (con un Consiglio di amministrazione composto di operai) e che noi abbiamo ammirato con tanto maggiore interesse in quanto abbiamo avuto l’onore di assistere alla sua inaugurazione…”.

17 “La Giustizia”, Organo dei Socialisti di Reggio Emilia, Anno XXII, N. 1097 e 1098, del 22 e 29 settembre 1907.

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L’ALMANACCO, n. 53 2009

Il fanta-Zavattini. I fumetti fantascientifici di Cesare ZavattiniConsiderazioni su un’attività poco nota

a vent’anni dalla morte del grande artista luzzarese 1

Luciano Tamagnini

Quando Zavattini era direttore editoriale della Mondadori (allora si chiamava A.P.I.) i suoi interessi erano tutti volti alla narrativa, a cui si dedicava con

uno stile che si destreggiava tra realismo ed umorismo (non a caso aveva avuto le mani in pasta in molti dei periodici umoristici dell’epoca, forse anche perché in quelle testate era più facile fare la fronda al regime fascista) e la narrativa per immagini rimaneva ai margini dei suoi interessi, anche se nel suo parco periodi-ci, su cui lanciare un occhio di tanto in tanto c’erano testate di grande importan-za (anche come fatturato) come Topolino o I Tre Porcellini. Tutto questo forse perché egli non aveva mai avuto la possibilità di farla propria, di scrivere per un mezzo che di lì a poco nella sua… versione in movimento, il cinema, lo avreb-be conquistato. Raccontare con un mezzo che privilegiava il disegno rispetto alla parola era una rivoluzione quasi… fantascientifica in una nazione che ha sempre fatto del solo uso della parola il simbolo della cultura. E quando il re-sponsabile del settore fumetti, Federico Pedrocchi, gli si fece sotto (i creatori di buone trame sia ieri che oggi scarseggiano sempre!) per ottenere che un duttile scrittore come lui si impegnasse anche nella stesura di soggetti per i fumetti (che poi avrebbe lui stesso sceneggiato), probabilmente batté proprio sul tasto della novità di quel mezzo espressivo, che si poneva a mezza via tra l’illustra-zione e il cinema e che era una magnifica pista di lancio per una scrittura nuova e originale. Non sappiamo quali siano state le parole che spinsero Zavattini ad inventare la indimenticabile saga di Saturno contro la Terra, ma certo debbo-no aver fatto leva proprio su questo concetto di modernità, di originalità di un mezzo che, pur parlando (in Italia) principalmente ai giovanissimi, poteva es-sere usato, piegato a qualsiasi messaggio. La lotta che i terrestri conducono per

1 Il saggio già è uscito in un’edizione fuori commercio: Cartoomix annual 2009: 16. salo-ne del fumetto, dei cartoons, del collezionismo e dei games, Milano, Fiera Milano Tech, (stampa 2009), pp. 24-25

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TAMAGNINI LUCIANO

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difendersi dall’invasione condotta dal malefico Rebo e dai suoi saturniani viene realizzata da G. Scolari che possedeva un segno dal sapore antico e strano, che lo poneva al di fuori della cerchia degli imitatori del fumetto americano allora in voga. E Zavattini all’interno di un mezzo all’avanguardia utilizza sapori di una fantascienza che oggi possiamo definire “avventurosa (perché tiene in poca considerazione gli elementi scientifici e punta veramente su quelli fantastici: basterebbe pensare a quando in uno degli episodi della saga, che si protrasse dal 1936 sino ai primi anni del dopoguerra, la terra viene spaccata in due per poi ricongiungersi senza che i disastri che avrebbero… cancellato l’umanità siano presi in seria considerazione!), sulla scia del Flash Gordon di Raymond, che però gli permette di portare avanti altri discorsi di tipo politico sociale che non si intravvedono negli altri fumetti dello stesso periodo. Basterebbe osservare la richiesta di superamento delle divisioni tra nazioni e la creazione di una sorta di Nazioni Unite della scienza per combattere il saturniano Rebo o la necessità di una lotta esplicitamente richiesta per difendersi dalla dittatura per far capire come fossero di rottura i fumetti di un uomo che sino a quel momento non ave-va mai preso in considerazione quel mezzo di comunicazione (e che considera-va ancora così poco da non chiedere che il suo nome venisse inserito tra quelli dei creatori delle opere). Anche nei fumetti successivi che appariranno sulle pagine di Topolino e di Paperino nel corso degli anni trenta e quaranta queste tematiche di tipo sociale, che erano già all’interno dei suoi racconti o romanzi in prosa, saranno sempre più evidenti. Con l’occhio sempre attento alle geniali intuizioni di chi il futuro lo masticava (ricordate in Zorro della metropoli gli schermi televisivi per sorvegliare gli operai che creavano una sorta di legame tra momenti ispiratori diversi come il Metropolis di Lang o il Tempi moderni di Chaplin con la sua catena di montaggio da incubo?) in altri ambiti narrativi, il suo impegno sociale dal punto di vista narrativo lo si rintraccia anche quando racconta storie di ambiente storico come in La Primula Rossa del Risorgimento realizzato da P. L. De Vita; temi come la lotta contro la dittatura o la necessità di creare una resistenza forte contro il potere emergono sistematicamente. E anche nelle storie che, non firmate, almeno come soggetto, possono essere attribuibili a lui, i temi fantascientifici fluiscono a livello di pelle sistematicamente: pensia-mo al supertecnologico vilain Will Sparrow e al suo geniale compare lo scien-ziato Reg Park, che si muovono tra aerei d’avanguardia (ma ricordiamo che gli aerei moderni in quegli anni, prima che il potenziale distruttivo dei velivoli fos-se testato durante la Guerra di Spagna, era quasi come le astronavi per i lettori odierni; e una storia come I Moschettieri dell’Aereoporto Z disegnata da Caesar era, a ben leggere, fantascienza pura) o con sommergibili degni del Nautilus, utilizzando invenzioni incredibili per sovvertire l’ordine costituito. Anche nel dopoguerra, quando scomparso Pedrocchi ed uscito Zavattini dalla Mondadori per trasferirsi presso la Rizzoli, è Mario Gentilini, il patron delle nuove testate

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I FUMETTI FANTASCIENTIFICI DI CESARE ZAVATTINI

con l’immarcescibile Topolino in testa, ma con anche nel carnet gli Albi d’Oro, che avevano ridato popolarità alle sue saghe dell’anteguerra, a chiedergli di ri-tuffarsi nel mondo dei fumetti, fornendo almeno un soggetto al mese per le sue pubblicazioni. Zavattini accettò con entusiasmo e creò alcune altre avventure fantastiche indimenticabili. Si parte con lo scienziato Bax che nell’avventura Un uomo contro il mondo e poi contro Il grande nemico disegnati ancora da Scolari, esorcizza il terrore nato dal fungo atomico di Hiroshima e Nagasaki creando brigate invisibili di partigiani della pace. E poi anche qua in lavori non accreditati si va nel futuro o nel passato con I conquistatori del tempo (sempre affidato al fido Scolari), con un espediente un po’ ripreso dalla cronosfera di Brick Bardford, per cercare di aiutare i popoli a conquistarsi una “tranquillità” che era difficilmente ipotizzabile sotto la cupa atmosfera della guerra fredda. L’unico momento in cui Zavattini rinuncia ai suoi messaggi intrisi di futuro è quando racconta ciò che conosce benissimo, cioè la vita paesana, che affronta La compagnia dei sette che venne affidata alla mano altrettanto reggiana di W. Molino o Marco Za (non a caso dal nome del figlio). Qui l’avventura si tinge non di grande impegno, ma assume i toni delicati del ricordo di un mondo e di un modo di vivere che forse così non c’era più già negli anni trenta!

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MEMORIA

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L'onomastica longobarda e antica sassone

Riccardo Bertani

Della presenza dei Longobardi in Italia non mancano certamente notizie, quelle che sono carenti però – forse perché tale popolo all’origine non co-

nosceva la scrittura –, sono le conoscenze che riguardano direttamente il carat-tere più intimo di questa selvaggia gente proveniente dal brumoso nord. Quindi per capire un poco quello che erano in realtà i Longobardi nella loro usuale vita quotidiana, ossia per intravedere ciò che sta oltre le eclatanti notizie storiche, non ci resta che esaminare a fondo i vari coloriti significati che sono alla base della loro originaria onomastica. Pur essendo consapevoli che non è sempre facile poter distinguere i veri nomi longobardi, da quelli appartenenti ad altri popoli germanici, in specie per quanto riguarda gli antichi Sassoni, essendo molti di questi aggregati ai Longobardi durante la loro calata in Italia.Dal lato semantico i nomi longobardi risultano in massima parte di forma com-posta, cioè costituiti da un prefisso, infisso (di congiunzione) e suffisso, dalla cui agglutinazione si ha il significato figurato e completo del nome. Vedi per esempio: Maginfrit (da magn: forza, vigore e frit: libertà), così avremo il signi-ficato di: Forte (solido) fautore della libertà, a sua volta il nome Hermengarda (da herma: parlante e gard: protezione), nella sua forma agglutinata dall’estroso significato di: colei che ha sagge parole, dal quale si può intravedere anche la visuale più larga di: colei che ti insegna a vivere, e di questi esempi potremmo sicuramente citarne altri.La frequente presenza di nomi composti da elementi zoomorfi quali per esempio arn (aquila), wulf (lupo), beren (orso), ecc., rivela a sua volta un’antica deriva-zione cultuale totemica dei Longobardi. Come gli arditi nomi femminili, dove spesso risuona l’eco di intrepide lotte, ci fanno capire che le donne longobarde vivevano in dimensioni diverse, di quelle paciose e casalinghe matrone romane.D’altro canto la mancanza di elementi nautici e marini nell’onomastica longo-barda, denuncia in modo eloquente che tale popolo a differenza dei Vichinghi, loro stretti parenti, non amavano di certo avventurarsi in mare. E ciò spiega perché essi, pur conquistando quasi tutta l’Italia, mai si azzardarono a sbarcare in Sicilia o sulle altre isole.

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Ma sicuramente gli elementi dominanti nell’onomastica longobarda sono quelli che riguardano le armi ed il valore dei guerrieri: tutte testimonianze queste che, rivelano in modo eloquente il carattere fortemente bellicoso di tali genti barba-re, sempre pronte a lanciarsi in furiose e sanguinarie lotte. La palese prova di ciò l’abbiamo nel constatare che quando i Longobardi abbandonarono il loro primitivo e rozzo credo pagano per abbracciare la fede cristiana, i primi santi che scelsero come loro protettore furono San Giorgio e San Michele, dato che questi erano muniti di spada.Quindi, concludendo, risulta evidente che i nomi longobardi ed antichi sassoni, pur essendo etimologicamente comprensibili (solo nei pochi esantemi presenti, si sono incontrate difficoltà di interpretazione), rivelano un genere esistenziale ormai quasi inconcepibile per il nostro modo di vivere odierno.

Adalgisa – nobile ostaggio (da adal = nobile e gisal = ostaggio)

Adelhard, vedi anche Adaloaldo – nobile vigoroso (da adal = nobile e hard = forte, vigoroso)

Adelinda – nobile saggia (dall’anti-co sassone adel = nobile e lind = saggio)

Adelpert (Adalberto), Adelperga (Adalberga) – di nobile casato (dall’antico sassone adel = nobile e berth = casato, famiglia)

Ademar (Ademaro) – di nobile mano (da adel = nobile e mar = mano)

Adhelm (Adelmo), vedi anche Adel-chi – nobile elmo (dall’antico sas-sone ad = nobile e helm = elmo)

Ado – nobile (da adal = nobile)Agabio – ligio al comando (da aga =

disciplina e bio = comando)Ageltrude (Geltrude) – protetta dal-

la lancia (dall’antico sassone geàn = proteggere e truth = lancia)

Aginulf, Agilulf – dominatore di lupi (da agi = dominare, castigare e ulf = lupo)

Agiprand – dominatore del fuoco (da agi = dominare e brand = fuoco)

Alberich (Alberico) – ricco elfo (da alf = silvano, elfo e rik = ricco)

Alboin, Albain – giovane elfo (da alf = elfo e boi = giovane)

Ald (Aldo) – vecchio, anziano (da ald = vecchio, anziano)

Aldegard – vecchia guardia (da ald = vecchio, anziano e gard = guardia)

Aldegarda – vecchia protettrice (da ald = vecchio, anziano e gard = protettrice)

Aldegonda – buona vecchia (da ald = vecchio, anziano e gona = buo-na, amorevole)

Alderich – vecchio ricco (da ald = vecchio e rik = ricco)

Aldwin – vecchio amico (da ald = vecchio, anziano e win = amico)

Alfrit (Alfredo) – il liberatore (da al = portatore e frid = libertà)

Alfus (Alfonso) – il volenteroso (da al = portare e fus = volontà)

Algemund – colui che dà protezio-ne (da geàn = proteggere e mund = dare, porgere)

Altebrand – anziano esperto di spa-de (dall’antico sassone ald = vec-chio, anziano e brand = spada)

Amalarich – gran seccatore (da ama

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= afflizione, noia e rik = ricco)Amelberga – buona nutrice (da

amma = nutrice e berg = vita, sus-sistenza)

Angelalmo – designato all’olmo (da ange = designare, affidare e alm = olmo) da notare che era una pianta sacra presso gli antichi Germani.

Ansberto – di stirpe protetta (da ans = cura, protezione e berth = casato, stirpe)

Ansehelm (Anselmo) – protetto dal-l’elmo (da ans = protezione, cura e helm = elmo)

Anserico – ricco protettore (dal sas-sone ans = cura, protezione e rik = ricco)

Ansfrit – difensore della libertà (da ans = proteggere e frit = libertà)

Ansprand – spada che difende (da ans = protezione e brand = spada)

Answald (Ansaldo) – vecchio pro-tettore (da ans = proteggere e ald = vecchio, anziano)

Arding – forte e valoroso (da hard = forte e ding = audacia)

Ariovisto – potente sapiente (da hard = forte, potente e vis = saggio, sa-piente)

Aripert – di potente stripe (da hard = forte, potente e berth = casato, stirpe)

Ariulf – forte lupo (da hard = forte, potente e ulf = lupo)

Arnefrit – libero come l’aquila (da arn = Aquila e frit = libertà)

Arnwald (Arnaldo) – potente come un’aquila (da arn = aquila e wald = potente)

Arnwulf – (potente come) l’aquila ed il lupo (da arn = aquila e wulf = lupo)

Astolf – lupo assalitore (da asa = bal-zo, assalto e wolf = lupo)

Astrid – dal linguaggio divino (da as = divino e trit = linguaggio)

Atalarich – deplorevole ricco (da atala = deplorato e rik = ricco)

Atto – il sensato (da atta = posato, sensato)

Audepert – di stirpe agiata (da aude = agiato e berth = casato, stirpe)

Audomaro, Audomar – grande ca-vallo, “Il glorioso” ? (da audar = grande e mar = cavallo o ara = gloria)

Austreberta – la casalinga (da haus = casa e bert = semplice, pura)

Austregisilo – garante della casa (da haus = casa e gisl = garante)

Austremonio – uomo di casa (da haus = casa, famiglia e man, mon = uomo)

Austricliniano – il casalingo rumo-roso (da haus = casa e klia = rumo-re, mormorio)

Balderico – straricco (da bald = sre-golato e rik = ricco)

Baldomero – impetuoso cavallo (da bald = sregolato, audace e mar = cavallo)

Baldwin (Baldovino) – impetuoso amico (da bald = sregolato, impe-tuoso e win = amico)

Berengario – orso urlante (da beren = orso e garg = urlo, grido)

Bernward – forte come un orso (da beren = orso e wald = potenza)

Bert, Berta – puro, splendente (da bert = puro, splendente)

Bertrada – illustre consigliera (da bert = puro, splendente e rad = consiglio)

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Bertwald (Bertoldo) – illustre e po-tente (da bert = puro, splendente e wald = potenza)

Bindo – fascia (da bind = fascia)Blancha – bianco (da blanch = bianco)Blitmondo – splendente mano (da

blik = luminoso, splendente e mond = mano)

Boiardo – potente nel tiro con l’ar-co (da bogi = arco e hard = forte, potente)

Brunechilde (Brunilde) – fanciulla bruna (da brun = scuro, bruno e child = fanciulla)

Burgondofara – inetto e villano (da bur = rozzo, villano e gunga = inetto)

Clodolfo – rozzo lupo (dal sassone clod = rozzo e wolf = lupo)

Dagoberto – splendente come l’alba (da dag = alba e bert = puro, splen-dente)

Eadweard – intrepido condottiero (dal sassone head = capo, colui che comanda e heart = intrepido)

Eberhart (Eberardo) – il forte e glorioso (da heder = onore, gloria e hart = forte, potente)

Ebrulfo – capo dei lupi (da eld = su-periore, maggiore e ulf = lupo)

Edelberga – di onorato casato (da heder = onore, gloria e berth = ca-sato, famiglia)

Edgardo – capo delle guardie (da eld = maggiore, superiore e gard = guardia)

Edilberto – il migliore (da eld = maggiore, superiore e bert = puro, splendente)

Edilburga – padrona del castello (da eld = maggiore, superiore e burg = castello)

Ediltruda – quella che comanda (da eld = maggiore, superiore e truda = comandare, imporre)

Edmondo – potente mano (da eld = maggiore, superiore e mond = mano)

Edoardo – il più forte (da eld = mag-giore, superiore e hart = forte, po-tente)

Edvino – forte vento (da eld = mag-giore, superiore e wind = vento)

Egberto – il bel possessore (da eiga = possessione e bert = puro, splen-dente)

Elstan – nobile pietra (da el = nobile e stan = pietra)

Elvino – fiamma vorticante (da eld = fiamma, fuoco e vin = vortice)

Ermelando – contadino, lavoratore della terra (da arbe = lavoro e land = terra)

Ermia – guerriero (da armes = armi)Erwin – amico dei guerrieri (da wer

= armi, guerrieri e win = amico)Etelvold – il rischioso (da etja = inci-

tare e vog = rischio, avventura)Ewald – il dominatore (da e, a = su,

sopra e vald = dominio)

Folco – il popolare (da folk = popo-lo)

Folkheri – saldo come il popolo (da folk = popolo e her = solido, saldo)

Gail – lieto, allegro (da gail = gaio, lieto)

Gairowald (Geraldo, Gherardo) – dominatore con la spada (sa garja = spade e wald = domino)

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Gamaleri – anziano (da gamaler = uomo anziano)

Garipald (Garibaldo) – audace con la spada (da garja = spade e bald = audace)

Geltrude (Gertrude) – imponente spada (da garja = spada e truda = imporre)

Gerhard (Geraldo, Gherardo) – potente di spada (da garja = spada e hart = forte, potente)

Germunt – svelto di spada (da garja = spada e mund = mano)

Gisa (Gisella) – indovina, maga (da gissa = indovinare)

Gisalpert, Giselperga – illustre in-dovino, indovina (da gissa = indo-vinare e bert = puro, splendente)

Gismund (Gismondo) – chiromante (da gissa = indovinare e mund = mano)

Gisulf – lupo mago (da gissa = indo-vinare e ulf = lupo)

Godard (Godardo) – forte in nome di Dio (da god = Dio e hart = forte, potente)

Godeberta – splendente grazie a Dio (da god = Dio e bert = puro, splen-dente)

Godefrit (Goffredo) - in pace con Dio (da god = Dio e frid = libertà, pace)

Godepert – devote a Dio, bello come Dio (da god = Dio e bert = puro, splendente)

Godescalch – cantore di Dio, cantare divino (da god = Dio e skalk = poeta)

Godiva – ardore di Dio, divino (da god = Dio e iv = ardore)

Gombert – uomo illustre (in sasso-ne) (da gumi = uomo e bert = puro, splendente)

Grasulf – lupo grigio (da gra = gri-gio e ulf = lupo)

Grimoald (Grimaldo) – vecchio selvaggio (da grim = selvaggio, barbaro e ald = vecchio)

Gualfardo – protettore severo (in sassone) (da gard = guardia, pro-tettore e hard = fermo, risoluto)

Gumpert – uomo illustre (da gumi = uomo e bert = puro, splendente)

Gundiperga, Gundeberga - illustre vecchio (da gun = vecchia e berta = pura, splendente)

Gundwald – il dominatore (da gumi = uomo e wald = dominio)

Guntard (Contardo) – uomo pu-gnace (da gumi = uomo e tar = pungente, veloce)

Haimo (Aimone) – il deriso, lo schermito (da haim = deridere)

Hairowald – forte vecchio (da hard = forte, saldo e ald = vecchio)

Haistulf, Astolf – lupo valoroso (da ast = valoroso e ulf = lupo)

Hansz (Ansano) – il casalingo (da haus = casa)

Hardwin (Arduino) – amico forte e valoroso (da hard = fermo, risoluto e win = amico)

Hariman (Ermanno) – uomo risolu-to (da hard = fermo, risoluto e man = uomo)

Hermelinda (Ermelinda) – di sagge parole (da herma = parlante e lind = saggia)

Hermengarda (Ermengarda) – co-lei che insegna (da herma = parlan-te e gard = protezione)

Hermetruda – colei che si difende con la lingua (da hild = battaglia e truth = lancia)

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Hildegard – colui che si difende in battaglia (da hild = battaglia e gard = protezione)

Hildeprand, Hildebrand – focoso in battaglia (da hild = battaglia e brand = fuoco, fiamma)

Hilderich (Ilderico) – valoroso in battaglia (da hild = battaglia e rik = ricco)

Hoswald (Osvaldo) – padrone di casa (dal sassone hos = casa e wald = dominio)

Hrodepert, Rodepert (Roberto) – di volgare stirpe (da hro = rude, volgare e berth = casato, stirpe)

Hrodowald (Rosvaldo) – rude do-minatore (da hro = rude, volgare e wald = domino)

Hrodulf (Rodolfo) – lupo feroce (da hro = rude, volgare e ulf = lupo)

Huguberht (Uberto) – di stirpe au-dace (da hug = audace, coraggioso e berth = casato, stirpe)

Humpert (Umberto) – cane di raz-za (da hund = cane e bert = puro, splendente)

Ildebrand – il focoso in battaglia (da hild = battaglia e brand = fiamma, fuoco)

Irma – deriva dal nome Irmin, epi-teto che gli antichi Sassoni davano al dio Odino, forse da Hiria, con il senso di colui che protegge, custo-disce.

Isnart, Isenhard – ghiaccio sgreto-lato, fuso (da is = ghiaccio e nart = sgretolato, fuso)

Klefi, Clefi – dal carattere chiuso (da klefi = chiuso)

Kunibert – il grande esperto (da

kun = abile, esperto e bert = puro, splendente)

Lampert (Lamberto) – lampada splendente (da lamp = lampada e bert = splendente)

Landoberht (Lamberto) – famoso nel proprio paese (da land = terra, paese e bert = puro, splendente)

Landulf (Landolfo) – lupo del luogo (da land = terra, paese e ulf = lupo)

Lanfranch (Lanfranco) – difensore del proprio paese (da land = terra, paese e frank = ardito, schietto)

Leonhard (Leonardo) – audace come un leone (da lejon = leone e hard = fermo, risoluto)

Liutgarda – protettrice gentile (da ljuf = gentile, amabile e gard = protezione)

Liutperga – di stirpe gentile (da ljuf = gentile, amabile e berth = stirpe, casato)

Liutpert – illustre e gentile (da ljuf = gentile, amabile e bert = puro, splendente)

Liutprand (Liprando) – fiamma gentile (da ljuf = gentile, amabile e bran = fiamma, fuoco)

Liutrit, Luitfred – dal gentile lin-guaggio (da ljuf = gentile, amabile e tritl = linguaggio)

Lutgard – che si difende con l’arco (da luta = arco e gard = protezione, difesa)

Maganhart (Mainardo) – valoroso e forte (da magn = forza, vigore e hard = fermo, risoluto)

Maginfrit (Manfredo) – solido fau-tore della libertà (da magn = forza, vigore e frit = libertà)

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Matilde – coraggiosa in battaglia (da mad = coraggio e hild = battaglia)

Nilde – guerriero (dal sassone hild = guerra, battaglia)

Odan (Oddone) – padrone, proprie-tario (da oddur = colui che sta in vetta)

Ollegario – colui che porta la coraz-za (da ol = corazza e gar = prote-zione)

Ombelina – il tonante (da oma = so-noro, squillante e belja = rombo, tuono)

Pandulf (Pandolfo) – simile al lupo (da wand = comportamento e ulf = lupo)

Radwulf (Radolfo) – lupo pauroso (da rad = pauroso, timido e ulf = lupo)

Raginald (Reginaldo) - vecchio consigliere (da radgi = consigliere e ald = anziano, vecchio)

Raginhart (Rainaldo, Rinaldo) – potente consigliere (da radgi = consigliere e hart = forte, potente)

Raginmund (Raimondo) – il con-sigliere (da radgi = consigliere e mund = porgere, dare)

Raginpert – illustre consigliere (da radgi = consigliere e bert = puro, splendente)

Ragintruda, Ragintrud – consi-gliera capa, capo consigliere (da radgi = consigliere e trud = capo, comandante)

Randwulf (Randolfo) – lupo randa-gio (da rand = errante, vagante e ulf = lupo)

Ranigunda – cagna randagia (da rand = errante, vagante e hunda = cagna)

Rodelinda – saggia consigliera (da råd = consigliere e lind = saggia, prudente)

Rodoald – rude vecchio (da hrod = rude, brutale e ald = vecchio)

Rodobald – eroe spietato (da hrod = rude, brutale e bald = prode, valo-roso)

Romilda – valorosa guerriera (da rom = buon e hild = guerra, batta-glia)

Romuald (Romualdo) – valente vecchio (da rom = buon e ald = vecchio, anziano)

Roslinda (Rosalinda) – la posata saggia (da ros = calma, serena e lind = saggia)

Roswitha – dallo sguardo sereno (da ros = calmo, sereno e wit = sguar-do)

Rotari – di stirpe vigorosa (da rot = radici, origini e har = forte, vigo-roso)

Rotilda – di stirpe guerriera (da rot = origine e hild = battaglia)

Rutfrid, Rotofrit – di stirpe libera (da rot = radice e har = forte, vi-goroso)

Sigifrit (Sigfrido) – fautore della li-bertà (da sig = fautore e frit = li-bertà)

Sigismund (Sigismondo) – mano lesta (da sig = fautore e mond = mano)

Sigmar, Sigemar – il colpitore (da sig = fautore e mar = contusione)

Sigprand – l’ardito (da sig = fautore e brand = ardore)

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RICCARDO BERTANI

Theudebald (Teobaldo) – fulgido eroe (da theo = fulgente e bald = prode)

Theudelinda (Teodolinda) – grande saggia (da theo = lucente, fulgente e lind = saggia)

Toaldo – il vecchio (da toa = tempo e ald = vecchio, antico)

Wald – il potente (da wald = potente)Walfrit (Gualfredo) – il liberatore

(da wald = potente e frit = libertà)Walpert, Waldipert (Valberto) – il

puro eroe (da wald = potente e bert = puro, semplice)

Walpurga – forte e potente (da wal = potente e burga = forte, robusto)

Walthari (Gualtiero) – dalla fluen-te capigliatura (da wal = potente e hari = capigliatura)

Warin – il difensore (da war = guar-diano, difensore)

Warinhari – potente difensore (da war = guardiano, protettore e hart = forte, potente)

Warmund (Varmondo) – il difenso-re (da war = guardian, difensore e mond, mund = mano)

Warnefrit, Warnefrid – difensore della libertà (da war = guardiano, protettore e frit = libertà)

Wilfrit (Vilfredo) – fautore della li-bertà (da wil = favorevole e frit = libertà)

Willibrordo – il benevolo (da will = volere, desiderare e brod = bene)

Winiperga – vera amica (da wina = amica e bert = pura, splendente)

Winnebald (Vunibaldo) – prode amico (dal sassone win = amico e bald = prode)

Wulfranno – lupo randagio (dal sas-sone wulf = lupo e rand = errante, randagio)

BibliografiaW. Bruckner, Die Sprache der Longobarden, 1895B. Sundovist, Deutsche und Niederlandische personenbeinamen in Schweden, 1957P. Parsteisson, Izlenzk Mannanöfn, 1961K. Hald, Personnavne i Danmark, 1971C. Tagliavini, Origine e storia dei nomi di persona, 1982A. Arecchi, Nomi Longobardi, 1998R. Bertani, Glossario Longobardo, 1999

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NOTE ERASSEGNE

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Michail Vasil’evič Petraševskij e il suo circolo

Antonio Petrucci

Nel 1849, e precisamente nella notte fra il 22 e il 23 aprile, a S. Pietroburgo, trentaquattro persone furono arrestate con l’accusa di avere fatto parte di

un circolo rivoluzionario coordinato da Michail Vasil’evič Petraševskij. Fra essi c’era il futuro grande scrittore Fëdor Michailovič Dostoevskij, allora appena ventisettenne. Diciannove congiurati (fra i quali Dostoevskij) vennero condan-nati a morte. Condotti davanti al plotone d’esecuzione, però, seppero di essere stati graziati dallo zar e condannati ai lavori forzati da scontarsi in Siberia: da lì a pochi giorni partirono, ognuno per la sua destinazione.Ciò che accadde dopo a Dostoevskij ce lo ha raccontato lui stesso nelle Me-morie di una casa di morti. Successivamente, nel 1854, lasciata la fortezza di Omsk, egli si stabilì a Semipalatinsk nell’Asia centrale; e qualche anno dopo poté rientrare a Pietroburgo dove riprese l’attività letteraria.1

Però poco si sa del circolo Petraševskij e poco si sa dello stesso Petraševskij.

E’ certo, prima di tutto, che l’episodio vada storicizzato, cioè contestualizzato nel periodo del biennio rivoluzionario 1848-49. L’ondata rivoluzionaria che, partendo da Palermo e da Parigi, aveva attraversato l’Europa occidentale, ave-va sicuramente messo in allarme la polizia dello zar Nicola I. La reazione e la repressione, del resto, non si fecero attendere. In particolare, Vienna schiacciò gli insorti dappertutto e, dove non ci riuscì, chiamò in aiuto Mosca, che non si fece pregare. Nell’agosto del 1849, i russi intervennero contro l’Ungheria che, dal settembre del 1848, teneva testa all’esercito austriaco.“L’“affare” Petraševskij è in realtà “montato” in modo del tutto artificioso, nell’atmosfera di aspra reazione che in Russia segue allo scatenarsi dei moti

1 v. ad es. G. Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Bruno Mondadori, Milano, 2002. Il libro com-prende un “Dizionario” con varie voci relative a Dostoevskij, ma solo poche righe sono dedicate a Petraševskij.

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del 1848 in tutta Europa. Bisogna trovare un capro espiatorio, bisogna dare pubblicamente una prova tangibile della coesione, della forza del regime zari-sta, dell’efficienza della polizia, della solidità dell’apparato governativo. Non importa che Petraševskij e i suoi compagni non abbiano nessuna intenzione di scendere in piazza, organizzare rivolte, rovesciare il governo: l’importante è far credere che questa intenzione ci sia stata, e far vedere che genere di punizione ne consegue”.2 Su questa linea si pone, del resto, anche Dostoevskij nel testo che gli fu chiesto di scrivere durante l’istruttoria.3

“E’ un uomo sempre indaffarato e che va di corsa, sempre occupato in qualche cosa. Legge molto; tiene in grande considerazione il sistema di Fourier, che ha studiato a fondo, e inoltre si occupa in particolare di problemi giuridici.” Dostoevskij non dimostra particolare stima o simpatia verso Petraševskij: lo de-finisce ripetutamente eccentrico e strano e finisce con lo sbottare in una battuta: “E’ ridicolo, non pericoloso!”. Tuttavia è probabile che Dostoevskij stia cercan-do di minimizzare l’importanza del loro rapporto. E, in genere, egli sembra sop-pesare bene le parole – nella speranza di salvare se stesso e gli altri congiurati – forse perfino Petraševskij. Ma non è mai tornato sull’argomento in momenti diversi e il fatto che successivamente abbia cambiato idea, diventando slavofilo o quasi, e abbia dato nei Demoni un’immagine molto critica dei rivoluzionari, non gli ha permesso di rivedere con serenità il suo giudizio su Petraševskij.

Secondo Wolf Giusti, che al Circolo ha dedicato un libro4, Petraševskij era una “figura notevole”: “Fin da giovane, egli si era sentito chiamato a servire l’uma-nità, ad operare per il “bene comune”: divenne infatti un instancabile divulga-tore di quei principi, di quelle dottrine che, secondo lui, facevano appello alla coscienza, alla ragione, alla giustizia.” Petraševskij, laureato in legge, aveva vivo il senso della legalità e dei diritti della persona e forse questo lo aveva spinto verso il socialismo. Nel sistema del Fourier vedeva la possibilità del riscatto dell’umanità dal bisogno e la promessa della felicità per tutti. Egli tentò perfino di realizzare una “casa comune” per i suoi contadini – sul modello dei falansteri - e non smise di credere nel Fourier nemmeno quando quegli stessi contadini appiccarono il fuoco alla casa…

Michail Vasil’evič Petraševskij venne arrestato, come gli altri, nella notte fra

2 F. Malcovati, Introduzione a Dostoevskij, Laterza, Roma-Bari, 1992.3 F.M. Dostoevskij, In difesa di me stesso, il melangolo, Genova, 1994.4 W. Giusti, I compagni di Dostoevskij rivoluzionario, Abete, Roma, 1976.

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il 22 e il 23 aprile 1849. Poiché era il principale imputato, è facile immaginare che tipo di pressione sia stata esercitata su di lui dalla commissione incaricata dell’istruttoria (e presieduta dal generale Rostovcev). Tuttavia, dice Giusti, du-rante gli interrogatori “non mostrò toni di pentimento.” Non sappiamo quanti anni trascorse ai lavori forzati. Petraševskij – pagato il suo debito – visse a Irkutsk in Siberia. Qui riprese la sua attività di avvocato. E non era cambiato. Il suo senso del diritto e l’insof-ferenza verso l’ingiustizia lo posero in urto con le autorità di Irktusk e dovette lasciare la cittadina. La cosa dovette ripetersi perché Giusti dice che “fu varie volte costretto a cambiar sede”. Anche lui chiese, come Dostoevskij, come gli altri, di poter ritornare a Pietroburgo, o almeno nella Russia europea, ma non gli fu concesso. Morì il 6 dicembre 1866 di un colpo apoplettico. Aveva solo quarantasei anni.

Nel libro di Wolf Giusti, I compagni di Dostoevskij rivoluzionario, si trovano i nomi di tanti altri personaggi, artisti e intellettuali dell’epoca. Ne ricordiamo uno solo, Nikolaj Aleksandrovič Spešnev. Uomo di grande fascino, sarebbe sta-to assunto da Dostoevskij come modello per Stavrogin nei Demoni. Spešnev, a differenza degli altri petraševcy, conosceva bene l’Europa, per avervi soggior-nato a lungo. Quasi certamente conosceva le idee di Marx e di Engels. Forse aveva conosciuto di persona Engels. Spešnev potrebbe rappresentare l’anello che lega i petraševcy ai nichilisti degli anni settanta e ottanta. Ma in realtà sap-piamo troppo poco di lui. Scontata la condanna ai lavori forzati, poté rientrare a Pietroburgo, dove si dedicò al giornalismo. Dopo l’abolizione della servitù del-la gleba (1861), fu giudice di pace. Coetaneo di Dostoevskij, morì nel 1882.

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Recensioni

Alberto Ferraboschi

Associazione nazionale carabinieri (a cura di), Carabiniere Domenico Bondi medaglia d’oro per la libertà, Collecchio, Abax, 2008

La presenza tra le file partigiane degli ex militari del Regio Esercito Italiano tende ad evidenziare il carattere composito e plurale della Guerra di Liberazione, la cui trama è sorretta dall’incrociarsi di percorsi individuali e collettivi che procedettero incalzati dalle contingenze della guerra e del crollo del regime fascista. Una testimonianza significativa di questa complessa e drammatica esperienza storica è offerta nel territorio reggiano dalla vicenda del carabiniere Domenico Bondi, una figura a cui l’Associazione Nazionale dei carabinieri della sezione di San Polo d’Enza e Canossa ha recentemente voluto dedicare un bel catalogo destinato a raccogliere le opere in mostra per le celebrazioni del centenario della nascita del militare. Il profilo biografico di Bondi è ricostruito da Gino Badini il quale nell’introduzione della pubblicazione ne delinea i passaggi fondamentali: nato nel 1908 a Morsiano di Villaminozzo, Bondi si arruolò nell’arma all’età di 19 anni, prestando servizio tra Roma, Reggio Emilia, Savio (Ravenna), Marzabotto (Bologna) e quindi Bologna. Al momento dell’armistizio dell’8 settembre Bondi passò col nome di battaglia “Fioravante” nelle formazioni partigiane che operavano nel bolognese, impegnandosi nel mantenere i collegamenti con il movimento della guerriglia partigiana che operava sull’Appennino nelle zone del bolognese e del modenese-reggiano. Spostatosi quindi nell’area di Villaminozzo nell’estate del 1944 il carabiniere reggiano svolse una significativa attività militare nella montagna reggiana prendendo parte anche a diversi combattimenti (tra cui il contrattacco alla puntata tedesca su Ligonchio, nel rastrellamento del 31 luglio 1944 e sul Monte Prampa nel gennaio del 1945). Catturato durante uno scontro armato con un reparto nazista il 12 gennaio 1945 nella zona di Secchio di Villaminozzo, Bondi venne tradotto nel carcere tristemente famoso della Leherstab für Bandenkämpfung (scuola di antiguerriglia) di Ciano, il centro

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di coordinamento del servizio informazioni nella lotta contro il partigianato e base di partenza per le forze nazi-fasciste che operavano soprattutto nella Valle dell’Enza. Imprigionato e sottoposto a sevizie e torture, il carabiniere non tradì i compagni e venne fucilato insieme ad altri cinque partigiani reggiani e modenesi il 26 gennaio 1945.

Giusto tributo al sacrificio del carabiniere reggiano insignito della medaglia d’oro al valor militare, la pubblicazione è arricchita da un pregevole apparato iconografico che, traendo spunto dalla vicenda di Domenico Bondi, propone un interessante excursus storico sull’arma dei carabinieri: dipinti, sculture, uniformi storiche, cartoline e copertine della Domenica del Corriere offrono un suggestivo percorso capace di rappresentare il duraturo ed intenso rapporto tra l’Arma e la società italiana.

* * *

L. M. Alfieri – P. Terranova, Un istituto nel cuore della città. 125 anni di vita dell’istituzione per i ciechi a Reggio Emilia, Reggio Emilia, Antiche Porte, 2008

Il volume di Laura Margherita Alfieri e Paola Terranova dedicato all’istituto per i ciechi “G. Garibaldi” di Reggio Emilia è molto più che una semplice storia interna di una prestigiosa e benemerita istituzione cittadina. In effetti, come sottolinea anche il presidente Sergio Govi nell’introduzione, la vicenda storica della struttura educativa evidenzia il filo rosso che lega la città all’istituto, espri-mendo l’intenso e profondo rapporto tra la comunità reggiana e quella che è sta-ta a lungo una delle principali scuole-convitto per ciechi dell’intera penisola. Lo studio si basa sul vasto materiale documentario dell’archivio storico del “Garibaldi” ed è articolato in tre diverse parti. La prima ripercorre la parabola dell’istituto dalla fondazione nel 1883 ad oggi tratteggiando le diverse fasi di vita della struttura educativa; la seconda raccoglie e documenta scelte ed av-venimenti che hanno condizionato o modificato l’esperienza del “Garibaldi” mentre la terza dà voce a testimonianze di ex alunni, insegnanti e assistenti che hanno incrociato il loro vissuto con l’istituto. Conclude il volume una ricca appendice iconografica e documentaria in grado di restituire con vivacità ed immediatezza la longeva storia dell’istituto “Garibaldi”. La pubblicazione abbraccia una vasta gamma di tematiche di cui naturalmente è qui impossibile restituire la poliedricità. Ma al lettore interessato soprattutto alla storia ottocentesca varrà la pena di segnalare se non altro due delle sugge-stioni che affiorano dalle pagine dedicate alla fase fondativa dell’istituto. L’apertura della scuola-convitto deriva dall’attività promozionale condotta

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a partire dal 1879 dal comitato reggiano della società “Niccolò Tommaseo”, composto da 32 soci espressione di quel milieu nobiliar-borghese che guidò la città nei primi decenni postunitari. Sorta dunque sulla scia del fervore asso-ciativo che contraddistinse la Reggio borghese del secondo Ottocento, la strut-tura collega la sua origine principalmente all’impegno socio-educativo di un autorevole esponente dell’influente comunità ebraica reggiana: Dante Soliani (1844-1914), non vedente e personalità di vasta cultura e dai molteplici interes-si che, insieme con il fratello Alfredo, negli anni sessanta del XIX secolo ebbe modo di curare la prassi musicale presso la sinagoga di Reggio. Soliani, dopo aver sperimentato personalmente il modello educativo francese in occasione di un soggiorno parigino, coadiuvato da Naborre Campanini costituì il primo centro educativo per ciechi reggiano sulla scorta delle idee della “Tommaseo”, l’associazione nata a Firenze nel 1876 per affrontare il problema dell’obbligo scolastico per i non vedenti. Peraltro, se le iniziative per la costituzione della scuola sono ascrivibili principalmente alla personalità di Dante Soliani, pre-sidente dell’istituto dal 1883-1884 nonché consigliere e docente fino al 1891, il ruolo determinante assunto dalla comunità ebraica locale nella nascita della scuola-convitto per ciechi trova conferma anche nel sostegno finanziario rivolto da alcuni dei principali esponenti della comunità israelitica reggiana ottocente-sca a favore dell’istituto: da Angelo Carmi (che con il testamento del 1884 elar-gì la notevolissima somma di 8.000 lire) alla marchesa Rabbeno – Namias (che donò un contributo di 100 lire) fino ai fratelli Levi (Ulderico ebbe uno stretto rapporto con la scuola a cui donò un costoso organo mentre Roberto lasciò nel 1889 un cospicuo legato). Questi elementi rappresentano una significativa conferma del significativo ap-porto della comunità israelitica reggiana alla creazione nel contesto locale di un tessuto associativo e filantropico di matrice laica imbevuto di quella cultura positivista che sul piano politico trovava i riferimenti principali all’interno degli ambienti radical-socialisti. In effetti, occorre ricordare che dalle file della co-munità ebraica reggiana uscirono alcune delle personalità di punta della cultura positivista locale, dal pubblicista Camillo Grassetti ai giuristi Aronne e Ugo Rabbeno ed a Clelia Fano, figura di primo piano del movimento di emancipa-zione femminile a Reggio, fino all’illustre psichiatra Gustavo Modena. Dunque, non è probabilmente un caso se nel 1889, su proposta del carducciano Naborre Campanini e durante il sindacato dell’avv. Carlo Morandi, esponente di spicco del progressismo trasformista, l’istituto reggiano per i ciechi venne intitolato al paladino della democrazia italiana ottocentesca: Giuseppe Garibaldi. Infatti, grazie alla conversione del contributo finanziario stanziato per l’erezione di un monumento all’“eroe dei due mondi” a favore di una istituzione benefica quale la struttura educativa per i ciechi nata appena qualche anno prima, l’impegno umanitario e filantropico di Garibaldi venne a incarnarsi nello spazio urbano

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cittadino in modo duraturo, sperimentando forme commemorative del tutto inedite all’interno della pur variegata mitologia garibaldina. In effetti, si è in presenza di un’originale esperienza intesa ad innestare direttamente la tradizio-ne garibaldina nell’ambito socio-educativo, rielaborando il mito garibaldino in chiave di riscatto civile e sociale secondo i canoni della tradizione della demo-crazia ottocentesca. Interessante testimonianza dello sviluppo del mito garibal-dino e delle sue trasformazioni nella società civile ottocentesca, l’intitolazione dell’istituto ciechi si inserisce dunque per molti aspetti nel solco dell’azione sociale ed educativa promossa dal variegato arcipelago radical-democratico reggiano in nome del «cavaliere dell’umanità». In conclusione si tratta di una monografia specialistica che potrà esser consul-tata utilmente anche da chi voglia addentrarsi nello studio del clima culturale e sociale della realtà locale del XIX secolo; infatti il volume, oltre a offrire spunti originali per l’analisi della morfologia del mito garibaldino e della sua evolu-zione, costituisce un interessante contributo per sviluppare la cruciale questione del nesso tra istruzione ed ideologia del progresso all’interno della società civi-le reggiana del tardo Ottocento.

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Finito di stampare nel mese di giugno 2009presso La Nuova Tipolito snc - Felina (RE)

Direttore responsabileNando Odescalchi

Autorizzazione n. 593 del Tribunale di Reggio Emilia del 12 aprile 1985