16 Cronache Domenica25febbraio2007 TIPIITALIANI · quotidianamente vengono sop-pressi nella clinica...

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STEFANO LORENZETTO Lavventura umana del pro- fessor Franco Castelli è sta- ta segnata dal vizio di vive- re, trasmesso per via cromosomi- ca anche ai figli. Monica, nata nel 1963, insegnante di educazione fi- sica, in otto anni di matrimonio gli ha dato cinque nipoti, adesso è ar- rivata a sette – la prima ha 17 anni ed è già andata a studiare come il padre negli Stati Uniti, l’ultimo ne ha appena due – tutti belli, tutti biondi, tanto che dopo averli visti in fotografia mi sono rammaricato di non essere un regista: avrei scritturato all’istante l’intera fami- glia per un remake di Tutti insie- me appassionatamente. Carlo, ar- chitetto, nato nel 1971, di bambini ne ha cinque, il primo di 8 anni, l’ultimo venuto al mondo quattro mesi fa. Solo Matteo, che è del 1961, anche lui architetto, non s’è ancora deciso a farne, forse per- ché è troppo impegnato col Centro aiuto vita a salvare i sei o sette che quotidianamente vengono sop- pressi nella clinica Mangiagalli di Milano, la prima in Italia per nu- mero di aborti, oltre 1.700 l’anno. Castelli, 73 anni, non dovrebbe nemmeno essere vivo. Nel 1965 eb- be un incidente stradale. Rimase per due settimane privo di cono- scenza, senza dare alcun segno di vita, a parte qualche modesto se- gnale di attività elettrica riscontra- to in due elettroencefalogrammi. Non era in «morte cerebrale», né avrebbe potuto esserlo, perché questa convenzione sarebbe stata introdotta per legge, e secondo al- tri parametri, soltanto dieci anni più tardi. Giaceva – così riporta la cartella clinica – in coma decortica- to e decerebrato. «Non c’era un medico che scommettesse sulle sue possibilità di ripresa, mi face- vano capire che il cervello aveva subìto danni irreparabili, al massi- mo potevo sperare di riportarmi a casa un ciocco, un vegetale, privo di capacità co- gnitive, da accudire in tutto e per tutto per il resto dei suoi gior- ni», ricorda Marilina Liva, sua moglie da 46 anni, architetto d’interni che ora fa la nonna e la casalinga. Non è andata così, e il caso dell’ingegne- re docente universita- rio risvegliatosi dal coma con le sue facol- tà mentali ancora in- tatte, capace di ricor- dare la metrologia elettrica e i metodi per le analisi armoni- che delle grandezze elettriche deformate, che gli erano valsi i premi Lorenzo Ferra- ris e Angelo Barbage- lata, fa più scalpore oggi che allora, per- ché è oggi che si pro- getta di staccare la spina a coloro che versano nello stato in cui si venne a trovare Castelli. «Pare che io sia diventato un ca- so quasi unico al mondo», ride con i suoi grandi occhi azzurri, che non hanno perso il magnetismo del ritratto fattogli a sei mesi di vi- ta dal padre Carlo, pittore. «Mi hanno portato come esempio a un congresso medico internazionale a Parigi. Lo so per certo giacché ai lavori era presente il professor Carlo Piana, traumatologo, zio di mia moglie. Di solito, dal coma de- corticato e decerebrato si ripren- dono solo i bambini. Ma un uomo di 31 anni... Era quella la mia età al momento del patatrac». Ha fatto di più che riprendersi, il professor Castelli. Uscito dal coma che sembrava irreversibile, ha ge- nerato Carlo, l’ultimo dei suoi figli. È tornato a insegnare nel diparti- mento di elettrotecnica del Politec- nico di Milano, dov’era entrato nel 1961 e dove ha tenuto la cattedra per trent’anni, fino al 2004. Già in pensione, se lo sono ripreso come professore a contratto per fargli te- nere il corso un’ultima volta. In che modo cadde in coma? «Era il 14 novembre 1965, una do- menica. Con mia moglie stavo an- dando alla messa delle 10.30 a Santa Maria delle Grazie. Erava- mo in ritardo, perciò correvo. In piazza Giovane Italia non ho rispet- tato una precedenza. Dall’altra parte sopraggiungeva a più di 80 chilometri orari un’auto molto più robusta della mia Fiat 500. Nell’ur- to sia io che mia moglie fummo sca- raventati sull’asfalto. Volammo fuori entrambi dalla portiera del lato guida». Dove vi portarono? «Al Policlinico di via Dezza. Due ore dopo il ricovero cominciai a vo- mitare e a sbavare. Caddi paraliz- zato. Fui trasferito d’urgenza in neurochirurgia e di qui in sala ope- ratoria. Il professor Nicola mi ten- ne sulla barella con cui ero arriva- to, per non perdere tempo». Fece quello che dovrebbe essere fatto di routine negli ospedali en- tro 120 minuti dal trauma: aprire la scatola cranica e decomprime- re il cervello, invece di rassegnar- si al sopraggiungere della «mor- te cerebrale». Spesso basta l’aspi- razione di pochi centimetri cubi- ci di liquido emorragico per impe- dire la compromissione dei cen- tri che presiedono ai cinque sen- si, ai movimenti e al linguaggio. «Infatti il professor Nicola, per guadagnare minuti preziosi, evitò persino di farmi mettere dagli in- fermieri il camice operatorio, mi lasciò addosso gli abiti che avevo. Eseguì la craniotomia senza nep- pure radermi i capelli. Mi suturò le vene parietale e temporale di de- stra che versavano sangue. Spera- va che riprendessi conoscenza. In- vece no. Finii in rianimazione. Mi praticarono la tracheotomia e mi attaccarono al respiratore automa- tico. Allora ce n’erano solo due, di respiratori. Mi chiedo sempre che cosa sarebbe accaduto se quel giorno non ve ne fosse stato nean- che uno a disposizione». Fu fortunato. «Di più: privilegiato. In rianimazio- ne era di turno la compianta pro- fessoressa Maria Luisa Bozza Mar- rubini, al sesto mese di gravidan- za, che l’indomani avrebbe comin- ciato il suo periodo di astensione obbligatoria dal lavoro. Era la fi- glia del professor Gino Bozza, ret- tore del Politecnico. Suo padre le ordinò: “Maria Luisa, sta’ lì e assistilo. È un mio assistente che pro- mette bene”. Non si mosse più dal mio ca- pezzale». Un angelo custode. «Il professor Ma- spes avrebbe voluto sottopormi a una ca- rotidografia, iniet- tandomi un mezzo di contrasto per stu- diare la situazione del circolo cerebra- le. Lei lo scongiurò di soprassedere e ot- tenne di lasciarmi immobile per altri tre giorni. Al terzo giorno, la dottoressa ebbe un’emorragia e svenne. Sembrava che dovesse perdere il bambino. Anni do- po la morte della mo- glie, il marito, il pro- fessor Marrubini, medico legale, mi ha confessato: “Lo vede? La dedizione di Maria Luisa per lei, giovane padre in co- ma, qualche cosa ci ha lasciato: questo ragazzo, nostro figlio”». E lei migliorò? «Al terzo giorno, dopo che per qua- si due settimane i medici ogni mat- tina avevano ricopiato sulla cartel- la clinica sempre la stessa formu- la, “Paziente come già descritto in precedenza”, diedi il primo segno di vita, un sussulto mentre l’infer- miere mi faceva un’iniezione». Crede di ricordare qualcosa del suo coma? «Vidi mia mamma che recitava il Padre nostro ai piedi del letto nella stanza dov’ero ricoverato. Il fatto è che non posso averlo visto, per- ché ero in stato d’incoscienza e con gli occhi chiusi». Non la seguo. Si spieghi meglio. «Una nostra amica lavorava nel- l’Opera Cardinal Ferrari, dove so- no custodite le reliquie del beato Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921. Sicco- me solo un miracolo poteva salvar- mi, offrì a mia madre di portare in ospedale il corporale appartenuto al cardinale. È un panno quadrato di lino bianco, sul quale durante la messa il celebrante depone il cali- ce e l’ostia. Me lo appoggiarono sul petto, recitando la preghiera. Ri- cordo che vidi il loro segno di croce e il trespolo della flebo e pensai: è domenica, mi portano la comunio- ne. Allora cercai d’associarmi, “Pa- dre nostro che sei nei cieli”, ma mi sentivo sacchi di paglia bagnata nella bocca e la lingua spaccata. Al “sia fatta la tua volontà” mi dissi: ecco, Franco, anche se fossi arriva- to al termine del tuo cammino, que- sto Dio che hai appena chiamato papà ti darà una vita ancora migliore. Mi assalì l’angoscia del- l’esame di coscien- za. Ragionai: che co- sa ho fatto di sbaglia- to perché io debba essere sostituito da un altro uomo come marito e come padre dei miei bambini? Di- fetti ne contai tanti, ma motivi sufficienti per morire non ne trovammo né io né Lui. E infatti Lui mi ha lasciato qua». Vide e pensò tutto questo? Com’è pos- sibile? «È quello che mi ha obiettato sino alla fi- ne mia madre: “Ma chi te lo ha racconta- to, Franco? Tu eri con gli occhi sempre chiusi, in coma, non puoi avermi vista mentre pregavo”. Sarà stata una perce- zione extrasensoriale. Ho letto di una trentenne cieca che ha subìto un intervento chirurgico al cuore. Per un inconveniente tecnico s’è in- terrotta la circolazione extracorpo- rea. Lei ha visto tutto e al risveglio dall’anestesia ha raccontato ai me- dici ciò che era accaduto. Nessuno può dire che cosa avvenga nel pas- saggio dalla vita alla morte o dalla morte alla vita». Come furono le settimane dopo essere uscito dal coma? «Avevo lo stesso sguardo delle gal- line. Ero ritornato bambino: dove- vo imparare di nuovo a mangiare, parlare, camminare. C’impiegavo un’eternità per deglutire un bocco- ne. Ero un pacchetto: “Fa’ questo, fa’ quest’altro”. Veniva a trovarmi un collega del Politecnico e mi rac- contava che fino al 26 ottobre, due settimane prima dell’incidente, ero stato al National bureau of standards di Washington, con un contratto di ricerca del Cnr, e il bel- lo è che io lo rammentavo perfetta- mente. Fu considerato un grande successo quando scrissi: “Castel- li”. I medici si davano di gomito: “Incredibile, lo ha scritto giusto, con due elle!”». Riconosceva i suoi figli? «Mi portarono Matteo e Monica a fine gennaio. Avevano 4 e 2 anni. Io mi rivedo in poltrona, mia mo- glie giura che invece ero a letto, però vestito. Le loro voci squillanti mi ferivano come frecce. Matteo disse: “Mamma, questo non mi sembra il mio papà”. Monica si mi- se a urlare. Pensai: non puoi pre- tendere di fare le cose che facevi prima, adesso devi trovare un nuo- vo modo d’essere marito e padre». Invece tornò all’insegnamento. «A luglio ero pronto per l’esame di libera docenza. Mi respinsero la domanda: “Deve dimostrare la sua idoneità con una nuova produ- zione scientifica”. La dimostrai. “Era un bell’ingegnere, ma ades- so...”, bisbigliavano i colleghi. Mi proibirono di andare al Politecni- co di sabato, quando non c’era la sorveglianza, per paura che combi- nassi qualche disastro. È stata du- ra. Però mi hanno voluto tutti be- ne, hanno pazientato. In un’azien- da privata m’avrebbero dato il benservito e mandato in pensione. Nel 1971 ho vinto il concorso. Nel- lo stesso anno è nato il mio ultimo- genito, Carlo, a nove mesi dalla morte di mio padre. Proprio come si legge in Qoèlet: “Una generazio- ne va, una generazione viene”». Che cosa pensa della «morte cere- brale»? «Conosciamo appena il 10% delle funzioni del cervello. Quindi è as- surda una legge che identifica il momento della morte con la cessa- zione irreversibile di funzioni di cui si sa poco o nulla. Mi sembra una nozione che risponde a un ap- proccio utilitaristico, finalizzato ai trapianti d’organo, più che a un at- teggiamento di precauzione. In du- bio pro vita. Meglio astenersi, quando c’è la presunzione che l’in- dividuo possa essere vivo. Cerchia- mo le cure, invece d’imporre la morte d’ufficio per questi pazien- ti». La convince il testamento biologi- co propugnato con inserzioni sui giornali dalla Fondazione Umber- to Veronesi per il progresso delle scienze? «Non lo farei mai. Ogni uomo è un caso a sé. Come posso prefigurare ciò che mi accadrà al momento di tirare le cuoia? Saranno le perso- ne care a decidere che cosa è me- glio per me. Perché togliere al Pa- dreterno la possibilità d’allungare la mano?». Al Padreterno lei ci crede, altri no. «Il cervello umano è costituito da 200 miliardi di neuroni, qualcosa di molto simile alla Via Lattea, con- nessi fra loro da un milione di mi- liardi di collegamenti. E tutto que- sto si sarebbe autocreato per ca- so? Un milione di miliardi di colle- gamenti, tutti al posto giusto, non si realizzano e non si organizzano per caso. La formazione casuale del sistema nervoso centrale del- l’uomo non è improbabile: è impos- sibile». L’ex ministro Veronesi ha dichia- rato: «La medicina spesso espro- pria il diritto alla morte. Macchi- ne complesse tengono in vita per- sone senza coscienza per settima- ne, mesi, anni. Questa è una vera violenza alla natura». Lei è vivo perché è stata violentata la natu- ra. «Grazie per questa violenza, gra- zie di cuore». In casi come quelli di Piergiorgio Welby e Giovanni Nuvoli, malati senza speranza che soffrono, a quali regole si atterrebbe? «Nel 1956, pochi mesi prima di mo- rire, il poeta Giovanni Papini pub- blicò sul Corriere della Sera un ar- ticolo intitolato “La felicità dell’in- felice”. L’ho messo da parte: “Mi stupiscono, talvolta, coloro che si stupiscono della mia calma nello stato miserando al quale mi ha ri- dotto la malattia. Ho perduto l’uso delle gambe, delle braccia, delle mani e sono di- venuto quasi cieco e quasi muto. Non pos- so dunque cammina- re né stringere la ma- no di un amico né scrivere neppure il mio nome; non posso più leggere e mi rie- sce quasi impossibile conversare e dettare. Ma non bisogna tene- re in picciol conto quello che mi è rima- sto ed è molto ed è il meglio. Ho salvato, sia pure a prezzo di quotidiane guerre, la fede, l’intelligenza, la memoria, l’immagi- nazione, la fantasia, la passione di medita- re e di ragionare e quella luce interiore che si chiama intui- zione o ispirazione. Ho salvato anche l’af- fetto dei famigliari, l’amicizia de- gli amici, la facoltà di amare”». Veronesi sostiene «il valore del- l’eutanasia come richiesta volon- taria e cosciente di porre fine alla propria esistenza». Che c’è di ma- le nello staccare la spina? «Ho pregato in stato di coma, ed ero considerato un rottame. C’è qualcosa, dentro di noi, che non è riconducibile alla capacità di comu- nicare con l’esterno. La vita non è mia, non è l’orologio che mi sono comprato. L’ho avuta in dono per farne dono agli altri. Anche se Dio non c’entrasse nulla, e io invece credo che c’entri, l’avrei pur sem- pre ricevuta in dono dai miei geni- tori. Lei butterebbe via la cosa più preziosa che le hanno lasciato in eredità suo padre e sua madre?». (364. Continua) [email protected]t , , TIPI ITALIANI Oggi mi staccherebbero la spina Il medico non si rassegnò alla «morte cerebrale»: mi aprì il cranio senza neppure radermi. Dopo un trauma, infatti, il cervello va ossigenato entro due ore. Sono tornato a insegnare all’università e ho fatto il terzo figlio L’encefalo ha 200 miliardi di neuroni Un prodigio simile non si organizza per caso. In dubio pro vita: anziché pensare ai trapianti, curino i pazienti Il testamento biologico? Non lo farei mai. La risposta alle vicende Welby e Nuvoli l’ha data Papini nel 1956 «In coma decorticato e decerebrato vedevo e sentivo ciò che accadeva» FRANCO CASTELLI I medici dissero alla moglie che al massimo si sarebbe riportata a casa un vegetale Al risveglio ricordava i metodi per le analisi armoniche delle grandezze elettriche deformate. «Ora mi citano nei congressi...» «ERO TORNATO BAMBINO» Il professor Franco Castelli nella sua casa di Milano. Uscito dal coma, ha tenuto per 30 anni la cattedra di elettrotecnica al Politecnico. «Ero tornato bambino: ho dovuto imparare a mangiare, parlare, camminare. Però mi ricordavo che ero stato ricercatore del Cnr al National bureau of standards di Washington» Il professor Franco Castelli, 73 anni, a sei mesi di età nel ritratto che gli fece suo padre Carlo, pittore. «Il terzo figlio l’ho chiamato Carlo: nacque 9 mesi dopo la morte di papà» Castelli a 31 anni, poco prima dell’incidente stradale che gli causò il coma, con i figlioletti Matteo e Monica. «Li rividi dopo mesi e non mi riconobbero» 16 Cronache il Giornale Domenica 25 febbraio 2007

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STEFANO LORENZETTO

L’avventura umana del pro-fessorFrancoCastelli è sta-ta segnata dal vizio di vive-

re, trasmesso per via cromosomi-ca anche ai figli. Monica, nata nel1963, insegnante di educazione fi-sica, in otto anni di matrimonio gliha dato cinque nipoti, adesso è ar-rivata a sette – la prima ha 17 annied è già andata a studiare come ilpadre negli Stati Uniti, l’ultimo neha appena due – tutti belli, tuttibiondi, tanto che dopo averli vistiin fotografiami sono rammaricatodi non essere un regista: avreiscritturatoall’istante l’intera fami-glia per un remake di Tutti insie-me appassionatamente. Carlo, ar-chitetto, nato nel 1971, di bambinine ha cinque, il primo di 8 anni,l’ultimo venuto al mondo quattromesi fa. Solo Matteo, che è del1961, anche lui architetto, non s’èancora deciso a farne, forse per-ché è troppo impegnato col Centroaiuto vita a salvare i sei o sette chequotidianamente vengono sop-pressi nella clinica Mangiagalli diMilano, la prima in Italia per nu-mero di aborti, oltre 1.700 l’anno.Castelli, 73 anni, non dovrebbe

nemmenoesserevivo.Nel1965eb-be un incidente stradale. Rimaseper due settimane privo di cono-scenza, senza dare alcun segno divita, a parte qualche modesto se-gnaledi attività elettrica riscontra-to in due elettroencefalogrammi.Non era in «morte cerebrale», néavrebbe potuto esserlo, perchéquesta convenzione sarebbe stataintrodotta per legge, e secondo al-tri parametri, soltanto dieci annipiù tardi. Giaceva – così riporta lacartellaclinica– in comadecortica-to e decerebrato. «Non c’era unmedico che scommettesse sullesue possibilità di ripresa, mi face-vano capire che il cervello avevasubìto danni irreparabili, almassi-mo potevo sperare diriportarmi a casa unciocco, un vegetale,privo di capacità co-gnitive, da accudirein tutto eper tutto peril resto dei suoi gior-ni», ricorda MarilinaLiva, sua moglie da46 anni, architettod’interni che ora fa lanonna e la casalinga.Non è andata così,

e il caso dell’ingegne-redocenteuniversita-rio risvegliatosi dalcomacon le sue facol-tà mentali ancora in-tatte, capace di ricor-dare la metrologiaelettrica e i metodiper le analisi armoni-che delle grandezzeelettriche deformate,che gli erano valsi ipremiLorenzoFerra-ris eAngeloBarbage-lata, fa più scalporeoggi che allora, per-ché è oggi che si pro-getta di staccare la spina a coloroche versano nello stato in cui sivenne a trovare Castelli.«Pare che io sia diventato un ca-

so quasi unico almondo», ride coni suoi grandi occhi azzurri, chenon hanno perso il magnetismodel ritratto fattogli a sei mesi di vi-ta dal padre Carlo, pittore. «Mihanno portato come esempio a uncongresso medico internazionalea Parigi. Lo so per certo giacché ailavori era presente il professorCarlo Piana, traumatologo, zio dimiamoglie. Di solito, dal coma de-corticato e decerebrato si ripren-dono solo i bambini. Ma un uomodi 31 anni... Era quella la mia etàal momento del patatrac».Ha fatto di più che riprendersi, il

professor Castelli. Uscito dal comache sembrava irreversibile, ha ge-nerato Carlo, l’ultimo dei suoi figli.

È tornato a insegnare nel diparti-mentodi elettrotecnicadel Politec-nico di Milano, dov’era entrato nel1961 e dove ha tenuto la cattedraper trent’anni, fino al 2004. Già inpensione, se lo sono ripreso comeprofessorea contrattoper fargli te-nere il corso un’ultima volta.In chemodo cadde in coma?«Era il 14 novembre1965, unado-menica. Con mia moglie stavo an-dando alla messa delle 10.30 aSanta Maria delle Grazie. Erava-mo in ritardo, perciò correvo. InpiazzaGiovane Italianonhorispet-tato una precedenza. Dall’altraparte sopraggiungeva a più di 80chilometri orari un’auto molto piùrobustadellamiaFiat 500.Nell’ur-to sia io chemiamoglie fummosca-raventati sull’asfalto. Volammofuori entrambi dalla portiera dellato guida».Dove vi portarono?

«Al Policlinico di via Dezza. Dueoredopo il ricovero cominciai a vo-mitare e a sbavare. Caddi paraliz-zato. Fui trasferito d’urgenza inneurochirurgia edi qui in sala ope-ratoria. Il professor Nicola mi ten-ne sulla barella con cui ero arriva-to, per non perdere tempo».Fece quello che dovrebbe esserefatto di routine negli ospedali en-tro 120minuti dal trauma: aprirela scatola cranica e decomprime-re il cervello, invecedi rassegnar-si al sopraggiungere della «mor-tecerebrale». Spessobasta l’aspi-razione di pochi centimetri cubi-ci di liquidoemorragicoper impe-dire la compromissione dei cen-tri che presiedono ai cinque sen-si, ai movimenti e al linguaggio.«Infatti il professor Nicola, perguadagnare minuti preziosi, evitòpersino di farmi mettere dagli in-

fermieri il camice operatorio, milasciò addosso gli abiti che avevo.Eseguì la craniotomia senza nep-pure radermi i capelli.Mi suturò levene parietale e temporale di de-stra che versavano sangue. Spera-va che riprendessi conoscenza. In-vece no. Finii in rianimazione. Mipraticarono la tracheotomia e miattaccaronoal respiratoreautoma-tico. Allora ce n’erano solo due, direspiratori. Mi chiedo sempre checosa sarebbe accaduto se quelgiorno non ve ne fosse stato nean-che uno a disposizione».Fu fortunato.«Dipiù: privilegiato. In rianimazio-ne era di turno la compianta pro-fessoressaMariaLuisaBozzaMar-rubini, al sesto mese di gravidan-za, che l’indomani avrebbe comin-ciato il suo periodo di astensioneobbligatoria dal lavoro. Era la fi-glia del professor Gino Bozza, ret-

tore del Politecnico.Suo padre le ordinò:“Maria Luisa, sta’ lìe assistilo. È un mioassistente che pro-mette bene”. Non simossepiùdalmioca-pezzale».Un angelo custode.«Il professor Ma-spes avrebbe volutosottopormi auna ca-rotidografia, iniet-tandomi un mezzodi contrasto per stu-diare la situazionedel circolo cerebra-le. Lei lo scongiuròdi soprassederee ot-tenne di lasciarmiimmobile per altritre giorni. Al terzogiorno, la dottoressaebbe un’emorragiae svenne. Sembravache dovesse perdereil bambino. Anni do-po lamortedellamo-glie, il marito, il pro-fessor Marrubini,

medico legale, mi ha confessato:“Lo vede? La dedizione di MariaLuisa per lei, giovane padre in co-ma, qualche cosa ci ha lasciato:questo ragazzo, nostro figlio”».E lei migliorò?«Al terzogiorno, dopocheperqua-si due settimane imedici ognimat-tinaavevano ricopiato sulla cartel-la clinica sempre la stessa formu-la, “Paziente come già descritto inprecedenza”, diedi il primo segnodi vita, un sussulto mentre l’infer-mieremi faceva un’iniezione».Crede di ricordare qualcosa delsuo coma?«Vidi mia mamma che recitava ilPadrenostro ai piedi del letto nellastanza dov’ero ricoverato. Il fattoè che non posso averlo visto, per-ché ero in stato d’incoscienza econ gli occhi chiusi».Non la seguo. Si spieghi meglio.

«Una nostra amica lavorava nel-l’Opera Cardinal Ferrari, dove so-no custodite le reliquie del beatoAndrea Carlo Ferrari, arcivescovodi Milano dal 1894 al 1921. Sicco-mesolounmiracolo poteva salvar-mi, offrì a mia madre di portare inospedale il corporale appartenutoal cardinale. È un panno quadratodi lino bianco, sul quale durante lamessa il celebrante depone il cali-ce e l’ostia.Me lo appoggiarono sulpetto, recitando la preghiera. Ri-cordo che vidi il loro segno di crocee il trespolo della flebo e pensai: èdomenica, mi portano la comunio-ne.Allora cercaid’associarmi, “Pa-dre nostro che sei nei cieli”, mamisentivo sacchi di paglia bagnatanella bocca e la lingua spaccata. Al“sia fatta la tua volontà” mi dissi:ecco,Franco, anchese fossi arriva-toal terminedel tuocammino,que-sto Dio che hai appena chiamatopapà ti darà una vitaancora migliore. Miassalì l’angoscia del-l’esame di coscien-za. Ragionai: che co-saho fattodi sbaglia-to perché io debbaessere sostituito daun altro uomo comemarito e come padredeimieibambini?Di-fetti ne contai tanti,ma motivi sufficientiper morire non netrovammo né io néLui. E infatti Lui miha lasciato qua».Vide e pensò tuttoquesto? Com’è pos-sibile?«È quello che mi haobiettato sino alla fi-ne mia madre: “Machi te lo ha racconta-to, Franco? Tu ericon gli occhi semprechiusi, in coma, nonpuoi avermi vistamentre pregavo”.Saràstataunaperce-zione extrasensoriale. Ho letto diuna trentenne cieca che ha subìtoun intervento chirurgico al cuore.Perun inconveniente tecnico s’è in-terrotta la circolazioneextracorpo-rea. Lei ha visto tutto e al risvegliodall’anestesiaha raccontatoaime-dici ciò che era accaduto. Nessunopuòdire che cosa avvenganel pas-saggio dalla vita alla morte o dallamorte alla vita».Come furono le settimane dopoessere uscito dal coma?«Avevo lo stesso sguardodelle gal-line. Ero ritornato bambino: dove-vo imparare di nuovo a mangiare,parlare, camminare. C’impiegavoun’eternitàperdeglutireunbocco-ne. Ero un pacchetto: “Fa’ questo,fa’ quest’altro”. Veniva a trovarmiun collega del Politecnico emi rac-contava che fino al 26 ottobre, duesettimane prima dell’incidente,

ero stato al National bureau ofstandards di Washington, con uncontrattodi ricercadel Cnr, e il bel-lo è che io lo rammentavoperfetta-mente. Fu considerato un grandesuccesso quando scrissi: “Castel-li”. I medici si davano di gomito:“Incredibile, lo ha scritto giusto,con due elle!”».Riconosceva i suoi figli?«Mi portarono Matteo e Monica afine gennaio. Avevano 4 e 2 anni.Io mi rivedo in poltrona, mia mo-glie giura che invece ero a letto,però vestito. Le loro voci squillantimi ferivano come frecce. Matteodisse: “Mamma, questo non misembra ilmiopapà”.Monica simi-se a urlare. Pensai: non puoi pre-tendere di fare le cose che faceviprima,adessodevi trovareunnuo-vomodo d’esseremarito e padre».Invece tornò all’insegnamento.«A luglio ero pronto per l’esame di

libera docenza. Mi respinsero ladomanda: “Deve dimostrare lasua idoneità conunanuovaprodu-zione scientifica”. La dimostrai.“Era un bell’ingegnere, ma ades-so...”, bisbigliavano i colleghi. Miproibirono di andare al Politecni-co di sabato, quando non c’era lasorveglianza,perpaurache combi-nassi qualche disastro. È stata du-ra. Però mi hanno voluto tutti be-ne, hanno pazientato. In un’azien-da privata m’avrebbero dato ilbenservito emandato in pensione.Nel 1971 ho vinto il concorso. Nel-lo stesso anno è nato il mio ultimo-genito, Carlo, a nove mesi dallamorte di mio padre. Proprio comesi legge in Qoèlet: “Una generazio-ne va, una generazione viene”».Checosapensadella«mortecere-brale»?«Conosciamo appena il 10% delle

funzioni del cervello. Quindi è as-surda una legge che identifica ilmomentodellamorte con la cessa-zione irreversibile di funzioni dicui si sa poco o nulla. Mi sembrauna nozione che risponde a un ap-proccio utilitaristico, finalizzato aitrapianti d’organo, più cheaunat-teggiamentodi precauzione. Indu-bio pro vita. Meglio astenersi,quandoc’è la presunzione che l’in-dividuopossa essere vivo. Cerchia-mo le cure, invece d’imporre lamorte d’ufficio per questi pazien-ti».Laconvince il testamentobiologi-co propugnato con inserzioni suigiornali dallaFondazioneUmber-to Veronesi per il progresso dellescienze?«Non lo farei mai. Ogni uomo è uncaso a sé. Come posso prefigurareciò che mi accadrà al momento ditirare le cuoia? Saranno le perso-ne care a decidere che cosa è me-glio per me. Perché togliere al Pa-dreterno la possibilità d’allungarelamano?».Al Padreterno lei ci crede, altrino.«Il cervello umano è costituito da200 miliardi di neuroni, qualcosadimolto simile allaViaLattea, con-nessi fra loro da un milione di mi-liardi di collegamenti. E tutto que-sto si sarebbe autocreato per ca-so? Unmilione di miliardi di colle-gamenti, tutti al posto giusto, nonsi realizzano e non si organizzanoper caso. La formazione casualedel sistema nervoso centrale del-l’uomononè improbabile: è impos-sibile».L’exministroVeronesi ha dichia-rato: «La medicina spesso espro-pria il diritto alla morte. Macchi-ne complesse tengono in vitaper-sonesenzacoscienzaper settima-ne, mesi, anni. Questa è una veraviolenza alla natura». Lei è vivoperché è stata violentata la natu-ra.«Grazie per questa violenza, gra-zie di cuore».In casi come quelli di PiergiorgioWelby e Giovanni Nuvoli, malatisenza speranza che soffrono, aquali regole si atterrebbe?«Nel1956,pochimesiprimadimo-rire, il poeta Giovanni Papini pub-blicò sul Corriere della Seraun ar-ticolo intitolato “La felicità dell’in-felice”. L’ho messo da parte: “Mistupiscono, talvolta, coloro che sistupiscono della mia calma nellostato miserando al quale mi ha ri-

dotto la malattia. Hoperduto l’uso dellegambe, delle braccia,delle mani e sono di-venuto quasi cieco equasi muto. Non pos-so dunque cammina-rené stringere lama-no di un amico néscrivere neppure ilmio nome; non possopiù leggere e mi rie-sce quasi impossibileconversare e dettare.Manonbisogna tene-re in picciol contoquello che mi è rima-sto ed è molto ed è ilmeglio. Ho salvato,sia pure a prezzo diquotidiane guerre, lafede, l’intelligenza, lamemoria, l’immagi-nazione, la fantasia,lapassionedimedita-re e di ragionare equella luce interioreche si chiama intui-zione o ispirazione.Ho salvatoanche l’af-

fetto dei famigliari, l’amicizia de-gli amici, la facoltà di amare”».Veronesi sostiene «il valore del-l’eutanasia come richiesta volon-taria e cosciente di porre fine allapropriaesistenza».Chec’èdima-le nello staccare la spina?«Ho pregato in stato di coma, edero considerato un rottame. C’èqualcosa, dentro di noi, che non èriconducibileallacapacitàdi comu-nicare con l’esterno. La vita non èmia, non è l’orologio che mi sonocomprato. L’ho avuta in dono perfarne dono agli altri. Anche se Dionon c’entrasse nulla, e io invececredo che c’entri, l’avrei pur sem-pre ricevuta in dono dai miei geni-tori. Lei butterebbe via la cosa piùpreziosa che le hanno lasciato ineredità suo padre e suamadre?».

(364. Continua)[email protected]

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TIPI ITALIANI

‘ ‘Oggi mi staccherebbero la spinaIl medico non si rassegnò alla «mortecerebrale»: mi aprì il cranio senzaneppure radermi. Dopo un trauma,infatti, il cervello va ossigenato entrodue ore. Sono tornato a insegnareall’università e ho fatto il terzo figlio

L’encefalo ha 200 miliardi di neuroniUn prodigio simile non si organizzaper caso. In dubio pro vita: anzichépensare ai trapianti, curino i pazientiIl testamento biologico? Non lo fareimai. La risposta alle vicende Welbye Nuvoli l’ha data Papini nel 1956

«In coma decorticato e decerebratovedevo e sentivo ciò che accadeva»

FRANCO CASTELLI

Imedici disseroallamoglie chealmassimosi sarebbe riportataa casaunvegetaleAl risveglio ricordava imetodi per leanalisiarmonichedelle grandezze elettrichedeformate. «Orami citanonei congressi...»

«ERO TORNATO BAMBINO»Il professor Franco Castelli

nella sua casa di Milano.Uscito dal coma, ha tenuto

per 30 anni la cattedradi elettrotecnica al

Politecnico. «Ero tornatobambino: ho dovuto

imparare a mangiare,parlare, camminare. Però

mi ricordavo che erostato ricercatore del Cnr

al National bureau ofstandards di Washington»

Il professorFranco Castelli,73 anni, a seimesi di età nelritratto che glifece suo padreCarlo, pittore.«Il terzo figliol’ho chiamatoCarlo: nacque9 mesi dopo lamorte di papà»

Castelli a 31anni, pocoprimadell’incidentestradale che glicausò il coma,con i figliolettiMatteo eMonica. «Lirividi dopo mesie non miriconobbero»

16 Cronache il Giornale � Domenica25 febbraio2007