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18 CRONACHE il Giornale Domenica 26 ottobre 2008 I l Fenomeno Transgenera- zionale piace ai figli, ai genito- ri, ai nonni, ai bi- snonni. Quando si mette al pianoforte e suona L’orologio de- gli dei, Aria, Panic, le musiche che sono fil- trate da quel rovo di ricci in cui ha nascosto la testa, gli «alleviani» - è così che si chiamano fra di loro - trattengono il respiro, molti piangono. Qualcosa d’incom- prensibile, mai visto prima, a parte Mozart. Lo fermano per strada, gli strappano autografi, lo accarezzano, lo baciano. Giovanni Allevi non prova neppure a sottrarsi, anzi si dona come un agnello sacrificale. Ho visto una signora dal piglio severo, sedicente seguace di uno sciamano della Mongolia, afferrargli con forza le mani per infondergli le energie cosmiche del Tudup emneer, che non so cosa sia ma deve far benone, perché alla fine gli ha urlato: «Non avere paura, Giovanni! Non morirai!». In un liceo di Ascoli Piceno, la sua città natale, una studentessa gli ha fatto firmare l’etichetta di una bottiglia vuota su cui aveva scritto: «Con- tiene aria che è stata attraversata dalle note di Giovanni Allevi». A un concerto una ragazzina l’ha costretto a schioccarle un bacio sulla guan- cia, poi ha applicato sulla pelle un pezzo di nastro adesivo, l’ha strappato e l’ha esibito al- la folla adorante: «Ho il Dna di Giovanni Alle- vi!». Persino i 12 apostoli dell’omonimo premio let- terario veronese ispirato da Orio Vergani, con- segnato pochi giorni fa a Giovanni Minoli per il libro Opus Dei, si sono trovati d’accordo - dopo 30 edizioni che avevano iscritto nell’al- bo d’oro nomi come Gianni Brera, Egisto Cor- radi, Giovanni Mosca, Claudio Magris, Enzo Bettiza, Paolo Mieli - nell’istituire un «Ricono- scimento all’arte» di questo trentanovenne. Come abbia fatto a conquistare i 12 giurati re- frattari alle mode, fra i quali ieri spiccavano Indro Montanelli, Enzo Biagi e Cesare Marchi, oggi Ferruccio De Bortoli, Sergio Romano e Vittorio Zucconi, rimane un mistero. La trap- pola emotiva dev’essere ben congegnata se c’è cascato financo Giorgio Napolitano, classe 1925: al Teatro delle Muse di Ancona, dopo aver ascoltato l’Inno delle Marche composto da Allevi, il capo dello Stato ha infranto il ceri- moniale ed è scattato in piedi per andare a stringere la mano al maestro, «e io per allungar- gli la mia mi sono dovuto inginocchiare sul palco davanti al presidente». Ma non fu sempre così per questo musicista, diploma- to in pianoforte e in compo- sizione col massimo dei voti e laureato con lode in filoso- fia, che si definisce «cespu- glio pensatore». La memoria torna al 9 aprile 1991, gior- no del suo ventiduesimo compleanno: «Napoli, pri- mo concerto lontano da ca- sa. Trasferta in treno, da so- lo. Smoking comprato per l’occasione. Entro in sala e conto: cinque persone. Una signora del pubblico, dolcis- sima, cerca di mettermi a mio agio: “Se crede, può an- che non suonare, fa lo stesso”. Riesco solo a balbettare: ma no, già che ci siamo... Alla battu- ta 22 della Sarabanda di Bach entra un coppia elegantissima. Lui dice a lei: “Ma non c’è nessu- no!”. Girano i tacchi e se ne vanno, sento il rumore della porta a vetri che sbatte. Vorrei morire. Mi aggrappo alle note. Alla fine parte l’applauso. Sono cinque ma è fortissimo, non finisce più. Cinque: il mio pubblico. Provo una commozione violenta. Me li bacio uno per uno con lo sguardo. Il concerto era gratis. Ave- vo speso tutti i soldi per il viaggio. Passai la notte in smoking nella sala d’aspetto della sta- zione, fra barboni e prostitute». Quindici anni dopo, ancora a Napoli, Audito- rium Scarlatti, prima tappa italiana del No con- cept tour. Neppure un biglietto invenduto. Al- la fine del concerto una signora si fa largo tra centinaia di ragazzi: «Maestro, voi siete sem- pre così bravo! Solo che l’altra volta eravamo in cinque a sentirvi...». Senza quei cinque non sarebbe mai arrivato ai 50.000 di piazza del Duomo a Milano. Senza quei cinque que- st’estate non avrebbe registrato 25 tutto esauri- to nelle città italiane dove ha presentato Evolu- tion, il suo sesto Cd. Senza quei cinque non avrebbe già fatto quattro tournée in Cina e nel- l’agosto scorso non lo avrebbero chiamato nel- la Città Proibita di Pechino a tenere il concerto delle Olimpiadi accompagnato dalla China philharmonic orchestra. Senza quei cinque non avrebbe già venduto 70.000 copie di Evo- lution, e prim’ancora 150.000 di Joy, 90.000 di No concept, 80.000 di Allevilive, record impen- sabili per un pianista. Senza quei cinque non avrebbe suonato per ben tre volte, so- lo posti in piedi, al Blue Note di New York dov’erano di ca- sa Duke Ellington, Ella Fitz- gerald, Mile Davis. Senza quei cinque non sarebbe in partenza per il Giappone, dove si esibirà il 4 novembre a Nagoya, il 6 a Yokohama e il 9 a Tokyo. Senza quei cin- que Allevi non avrebbe mai scritto La musica in testa,9 edizioni, 60.000 copie ven- dute, e In viaggio con la Stre- ga, che uscirà sempre da Riz- zoli il 26 novembre. Luca Goldoni dice che lei suona come parla e parla come suona. «Ha ragione. C’è un istinto musicale anche nel mio linguaggio. Sembra semplicità, invece è complessità risolta. La sublimazione dell’im- perfetto. Basta con la perfezione! Non se ne può più». Non ha paura che questo successo travolgen- te finisca? «È la mia ansia perenne, il mio lato oscuro. Quattro giorni la settimana mi chiudo in me stesso e non penso ad altro. Io so soltanto com- porre e suonare. Se il pubblico mi abbandona, non ho poltrone a cui aggrapparmi, perché mi sono sempre tenuto lontano da logiche di po- tere. E di gente in giro che spera nella mia fine ce n’è parecchia, non creda». Di chi sta parlando? «Sul mondo accademico ho avuto un impatto devastante. Come l’Islam sulla civiltà occiden- tale. Mi considerano il risultato di un’esplosio- ne di follia collettiva. Per loro sono un finto umile che s’approfitta dell’ignoranza delle pla- tee». Faccia qualche nome. «Enrico Girardi del Corriere della Sera sostie- ne che rappresento il peggio della musica ita- liana d’oggi, che sono un bluff come composi- tore e un pessimo pianista. Luca Francesconi, direttore del settore musica della Biennale, ha dichiarato che la mia è finta musica classica, che arrangio il già noto solo per vendere». Invece che musica è? «Musica classica contemporanea. Il fatto che sia molto amata non contrasta con le sue origi- ni cólte. Non ho mai usato la contaminazione, non ho arrangiato Bach per la sigla di Quark, nei mie brani non ci sono note di batteria, bas- si elettrici o chitarre distorte. Evolution l’ho realizzato con un’orchestra sinfonica, i Virtuo- si italiani». Fedele alle origini familiari. «Sì, mio padre Nazareno è clarinettista, mia ma- dre Fiorella cantante lirica, ma entrambi han- no dovuto adattarsi a fare gli insegnanti. È il dramma di migliaia di musicisti. I miei genito- ri non volevano che suonassi. A 4 anni ho tro- vato la chiave del pianoforte di casa, un Beck- stein, e a 6 ho cominciato ad ascoltare in loro assenza la Turandot, tutti i pomeriggi». Come ha esordito? «Nel 1991 sono partito per la naia: Car a Orvie- to, poi nella banda dell’esercito alla Cecchi- gnola di Roma. Mi hanno messo alla maggiori- tà. Davo da mangiare a Bemolle, il gatto del comandante della caserma, e pulivo l’ufficio del direttore della banda. Lì dentro c’era un pianoforte. Il tenente colonnello s’accorse che lo suonavo di nascosto fra una spolverata e l’altra ed ebbe l’idea un po’ folle di farmi diventare il solista della banda. Andai in tour- née nei teatri per i restanti sei mesi della leva. Suonavo la Rapsodia in blu di Gershwin e il Concerto di Varsavia di Addinsell». E poi i primi successi con Jovanotti. «Secondo lui dovevo sentirmi come un calcia- tore convocato nella nazionale. Quando deci- si di andarmene per la mia strada, ci rimase male». Più sentito? «Mi manda qualche Sms. Solo saluti. Congratu- lazioni mai». Ha sempre avuto i capelli come l’omino dei lampostyl Presbitero? «No, li ho sempre avuti cortissimi. Me li sono fatti crescere dal giorno del trasferimento a Mi- lano, dieci anni fa». Usa qualcosa per incrementare la matassa? «Oddio, ma devo proprio dirlo? Non è pubblici- tà?». Che c’entra? Allora anche dire che lei ha inciso sei Cd e scritto due libri è pubblicità. «Guardi, ho provato di tutto. Alla fine mi sono fermato al balsamo Hydra-ricci della Garnier. Rende il riccio definito». Perché si stabilì a Milano? «Volevo diventare pianista e compositore. Mangiare era tempo sottratto allo studio, quindi per un anno ho versa- to una scatoletta di tonno so- pra gli spaghetti appena sco- lati, il piatto più rapido, nien- t’altro, un fatto di pura so- pravvivenza. Mi mantenevo con le supplenze di educa- zione musicale o come inse- gnante di sostegno degli alunni dislessici nelle scuo- le dell’hinterland, Barona, Parco Lambro, Linate. Distri- buivo volantini sui Navigli. E poi facevo il cameriere nei catering». Per avvicinare Riccardo Muti. «Anche. Accadde il 7 dicembre del 2000, alla cena di gala della Scala. Mi feci assegnare al tavolo dove il maestro sedeva con la famiglia e altri ospiti. Volevo consegnargli 13 dita, il mio Cd, ma avevo il problema di dove nasconder- lo. Ginevra mi prestò il suo grembiule, che ave- va una bella tasca sul davanti. Servivo i vini in guanti bianchi. Il cuore mi scoppiava. Alla fine presi coraggio e gli porsi il disco. Muti ne fu più divertito che sorpreso. Si alzò in piedi, mi strinse la mano. “Pensate, è un pianista, ha inciso questo Cd e s’è travestito da cameriere per incontrarmi!”, si rivolse ai commensali. Poi a me: “Le risponderò sicuramente”. Quan- do più tardi tornai per sparecchiare, trovai il disco abbandonato sulla poltroncina». Che tristezza. «E invece l’anno scorso chi ti vedo in prima fila ad ascoltarmi al Teatro Sociale di Piangipane, a Ravenna? Riccardo Muti! Abbiamo mangiato insieme i cappelletti. Alla fine mi ha chiesto di fargli avere le mie partiture d’orchestra. “Sta- volta non le dimenticheremo sulla sedia”, mi ha sorriso la moglie Cristina». Gliele ha spedite? «Non ancora. La riverenza mi blocca. Ci ho messo otto anni a capirlo: nella vita artistica non sono ammessi salti. La strada resta quella tracciata dal direttore del conservatorio Giu- seppe Verdi di Milano, che mi sibilò: “Se fossi uno dei miei predecessori, come Ildebrando Pizzetti, la caccerei!”. Mi bocciava alle audizio- ni libere, salvo poi ricevermi in ufficio per esternarmi la sua ammirazione: “Lei oggi ha suonato qualcosa di... di... di geniale, ecco, a metà strada fra la musica classica e il jazz”. Co- me ho osato saltare la trafila tradizionale? Pri- ma vinci il premio Busoni, poi entri nel giro delle agenzie che ti ordinano che cosa devi eseguire, infine il pubblico va nei teatri a senti- re quello che ha vinto il Busoni. Il guaio è che l’anno dopo il premio lo assegnano a un altro e tu sei tagliato fuori. Ho preferito suonare la musica composta da me. Chopin, il mio idolo, Ravel, Liszt, Debussy facevano lo stesso». Però non pretendevano una torta al cioccola- to nel contratto... «Devo sempre mangiarne almeno una fetta in camerino prima di andare sul palco. È una coc- cola per vincere la paura». Non è il suo unico tic. «No, è vero. Riservo un giorno della settimana ad attività speciali, tipo telefonare senza moti- vo a nominativi presi a caso dalla rubrica del cellulare, persone che rimangono sbalordite perché non ho nulla di pratico da dirgli. Oppu- re annuso tutto ciò che incontro e alla sera sti- lo una classifica dell’olfatto». Ha registrato «Joy» senza averlo mai suonato prima, se non nella sua testa. Indro Montanel- li faceva lo stesso con i propri articoli: se li recitava mentalmente passeggiando nei giar- dini di via Palestro, poi andava al giornale e li metteva su carta. «Quando la musica mi assale, non vedo più le persone, non riconosco le strade di Milano». Non teme di sprofondare nella pazzia, come il suo collega David Helfgott, protagonista del film «Shine»? «Il mio amico David è venuto l’anno scorso in Italia. Una delle prime cose che ha chiesto è stata: “Dov’è Allevi?”. Sono andato a sentirlo al Blue Note di Milano. Alla fine del concerto mi ha chiamato sul palco e mi ha abbracciato. Non si staccava più. “Your music, your mu- sic”, la tua musica, continuava a ripetere. Guar- dandolo, ho visto la fine che farò». Soffre ancora di attacchi di panico? «Sì, ma la loro intensità puntiforme è diminui- ta. Adesso durano un intero pomeriggio e non ho bisogno dell’ambulanza, la cui sirena mi ha ispirato il brano Panic nella corsa verso l’ospe- dale. Li considero forze ataviche, cosmiche, che mi trapassano. Non li respingo più. Li ac- cetto e li benedico. Arrivano quando la ragio- ne pretende di capire chi sono, cosa sto facen- do, dove sto andando». E la sua musica? Quella da dove arriva, se l’è mai chiesto? «È un mistero, un’entità immateriale che entra nelle nostre vite. Per umiltà non voglio pensa- re che arrivi da Dio. Non mi considero né un tramite con la divinità né un ideale di comportamento. Non capi- sco niente, non sono nien- te». Panico da Borsa mai? «Non so neppure quanti sol- di ho sul conto corrente. Vi- vo in un bilocale sui Navigli, non ho l’auto, mi piace usare metrò e tram. Mi sento vici- no all’umanità dispersa e get- tata nell’esistenza di cui par- la Heidegger». Quanto denaro ha con sé? (Fruga nelle tasche e tira fuo- ri un brandello di menù, sul quale ha scritto a matita «Dodici apostoli» e un pentagramma). «Ho solo questo, un ap- punto che ho annotato ieri sera durante la ce- na in mio onore. È un procedimento matemati- co per trasformare le parole in melodia. A ogni lettera corrisponde una nota. Lo usava anche Bach». Paga tanto di assicurazione per le mani? «Il mio staff ha provato a telefonare ai Lloyd’s per sottoscrivere una polizza, ma da Londra hanno risposto che farei bene ad assicurarmi il cervello». A chi deve di più? «A mia moglie Nada. Ha creduto in me. È diffici- le trovare una persona che crede in ciò che fai». (426. Continua) [email protected] Ha già venduto 400mila Cd. Fa il tutto esaurito dagli Usa al Giappone Merito del gatto Bemolle e di un anno di pranzi solo con tonno in scatola Ora arriva il nuovo libro Molti sperano nella mia rovina. Sulle accademie ho lo stesso impatto dell’Islam sull’Occidente David Helfgott, il genio del film «Shine», ha voluto abbracciarmi. Lì ho visto la fine che farò di Stefano Lorenzetto tipi italiani ANSIA DA SUCCESSO GIOVANNI ALLEVI ATTACCHI DI PANICO CESPUGLIO PENSATORE Giovanni Allevi firma autografi. «Per umiltà non voglio pensare che la musica arrivi da Dio» [Sartori/Fotoland] Il pianista idolo dei giovani esordì con 5 spettatori «Scrivo la musica sui menù» Si travestì da cameriere per avvicinare Riccardo Muti I Lloyd’s di Londra: più che le mani le assicuriamo il cervello

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18 CRONACHE il Giornale Domenica 26 ottobre 2008

I l FenomenoTransgenera-zionale piace aifigli, ai genito-ri,ainonni,aibi-

snonni. Quando simette al pianoforte esuona L’orologio de-gli dei, Aria, Panic, lemusiche che sono fil-trate da quel rovo di

ricci incuihanascosto la testa,gli «alleviani» -ècosì che si chiamano fradi loro - trattengono ilrespiro, molti piangono. Qualcosa d’incom-prensibile,mai vistoprima, a parteMozart. Lofermanoper strada,gli strappanoautografi, loaccarezzano, lo baciano. Giovanni Allevi nonprova neppure a sottrarsi, anzi si dona comeun agnello sacrificale. Ho visto una signoradal piglio severo, sedicente seguace di unosciamanodellaMongolia,afferrargliconforzale mani per infondergli le energie cosmichedel Tudup emneer, che non so cosa sia madeve far benone, perché alla fine gli ha urlato:«Non avere paura, Giovanni! Non morirai!». Inun liceo di Ascoli Piceno, la sua città natale,una studentessa gli ha fatto firmare l’etichettadiunabottigliavuotasucuiavevascritto: «Con-tiene aria che è stata attraversata dalle note diGiovanniAllevi». Aunconcertouna ragazzinal’hacostrettoaschioccarleunbaciosullaguan-cia, poi ha applicato sulla pelle un pezzo dinastro adesivo, l’ha strappato e l’ha esibito al-la folla adorante: «Ho il Dna di Giovanni Alle-vi!».Persinoi12apostolidell’omonimopremiolet-terarioveronese ispiratodaOrioVergani, con-segnato pochi giorni fa a Giovanni Minoli peril libro Opus Dei, si sono trovati d’accordo -dopo 30 edizioni che avevano iscritto nell’al-bod’oro nomi come GianniBrera, EgistoCor-radi, Giovanni Mosca, Claudio Magris, EnzoBettiza, Paolo Mieli - nell’istituire un «Ricono-scimento all’arte» di questo trentanovenne.Come abbia fatto a conquistare i 12 giurati re-frattari alle mode, fra i quali ieri spiccavanoIndroMontanelli, EnzoBiagi eCesareMarchi,oggi Ferruccio De Bortoli, Sergio Romano eVittorio Zucconi, rimane un mistero. La trap-pola emotiva dev’essere ben congegnata sec’ècascato financoGiorgioNapolitano, classe1925: al Teatro delle Muse di Ancona, dopoaver ascoltato l’Inno delle Marche compostodaAllevi, il capodello Stato ha infranto il ceri-moniale ed è scattato in piedi per andare astringerelamanoalmaestro, «e ioperallungar-gli la mia mi sono dovuto inginocchiare sulpalco davanti al presidente».Ma non fu sempre così perquesto musicista, diploma-to in pianoforte e in compo-sizione col massimo dei votie laureato con lode in filoso-fia, che si definisce «cespu-gliopensatore». Lamemoriatorna al 9 aprile 1991, gior-no del suo ventiduesimocompleanno: «Napoli, pri-mo concerto lontano da ca-sa. Trasferta in treno, da so-lo. Smoking comprato perl’occasione. Entro in sala econto: cinque persone. Unasignoradelpubblico,dolcis-sima, cerca di mettermi amio agio: “Se crede, può an-che non suonare, fa lo stesso”. Riesco solo abalbettare:mano,giàchecisiamo...Allabattu-ta22dellaSarabandadiBachentrauncoppiaelegantissima.Luidicea lei: “Manonc’ènessu-no!”. Girano i tacchi e se ne vanno, sento ilrumore della porta a vetri che sbatte. Vorreimorire. Mi aggrappo alle note. Alla fine partel’applauso. Sono cinque ma è fortissimo, nonfinisce più. Cinque: il mio pubblico. Provounacommozioneviolenta.Me libaciounoperunoconlosguardo. Ilconcertoeragratis.Ave-vo speso tutti i soldi per il viaggio. Passai lanotte in smokingnella sala d’aspettodella sta-zione, fra barboni e prostitute».Quindici anni dopo, ancora a Napoli, Audito-riumScarlatti,primatappa italianadelNocon-cept tour. Neppureunbiglietto invenduto.Al-

la fine del concerto una signora si fa largo tracentinaia di ragazzi: «Maestro, voi siete sem-pre così bravo! Solo che l’altra volta eravamoin cinque a sentirvi...». Senza quei cinque nonsarebbe mai arrivato ai 50.000 di piazza delDuomo a Milano. Senza quei cinque que-st’estatenonavrebberegistrato25tuttoesauri-tonellecittà italianedovehapresentatoEvolu-tion, il suo sesto Cd. Senza quei cinque nonavrebbegià fattoquattro tournéeinCinaenel-l’agostoscorsononloavrebberochiamatonel-laCittàProibitadiPechinoa tenere il concertodelle Olimpiadi accompagnato dalla Chinaphilharmonic orchestra. Senza quei cinquenon avrebbe già venduto 70.000 copie di Evo-lution, eprim’ancora 150.000di Joy, 90.000diNoconcept,80.000diAllevilive, recordimpen-

sabili per un pianista. Senzaquei cinque non avrebbesuonatoperbentrevolte,so-loposti inpiedi, alBlueNotediNewYorkdov’eranodica-sa Duke Ellington, Ella Fitz-gerald, Mile Davis. Senzaquei cinque non sarebbe inpartenza per il Giappone,dovesi esibirà il 4novembrea Nagoya, il 6 a Yokohama eil 9 a Tokyo. Senza quei cin-que Allevi non avrebbe maiscritto La musica in testa, 9edizioni, 60.000 copie ven-dute,e InviaggioconlaStre-ga, cheusciràsempredaRiz-zoli il 26 novembre.

Luca Goldoni dice che lei suona come parla eparla come suona.

«Ha ragione. C’è un istinto musicale anche nelmio linguaggio. Sembra semplicità, invece ècomplessità risolta. La sublimazione dell’im-perfetto. Basta con la perfezione! Non se nepuò più».

Non ha paura che questo successo travolgen-te finisca?

«È la mia ansia perenne, il mio lato oscuro.Quattro giorni la settimana mi chiudo in mestessoenonpensoadaltro. Iososoltantocom-porreesuonare. Se il pubblicomiabbandona,nonhopoltroneacuiaggrapparmi,perchémisono sempre tenuto lontano da logiche di po-tere. E di gente in giro che speranella mia finece n’è parecchia, non creda».

Di chi sta parlando?«Sul mondo accademico ho avuto un impattodevastante.Comel’Islamsullaciviltàocciden-tale.Miconsiderano il risultatodiun’esplosio-ne di follia collettiva. Per loro sono un fintoumileches’approfittadell’ignoranzadellepla-tee».

Faccia qualche nome.«Enrico Girardi del Corriere della Sera sostie-ne che rappresento il peggio della musica ita-lianad’oggi, che sonounbluff comecomposi-tore e un pessimo pianista. Luca Francesconi,direttoredel settoremusicadellaBiennale, hadichiarato che la mia è finta musica classica,che arrangio il già noto solo per vendere».

Invece che musica è?«Musica classica contemporanea. Il fatto chesiamoltoamatanoncontrasta con le sueorigi-ni cólte. Non ho mai usato la contaminazione,non ho arrangiato Bach per la sigla di Quark,neimiebraninonci sononotedi batteria, bas-si elettrici o chitarre distorte. Evolution l’horealizzatoconun’orchestrasinfonica, iVirtuo-si italiani».

Fedele alle origini familiari.«Sì,miopadreNazarenoèclarinettista,miama-dre Fiorella cantante lirica, ma entrambi han-no dovuto adattarsi a fare gli insegnanti. È ildrammadi migliaia di musicisti. I miei genito-ri non volevano che suonassi. A 4 anni ho tro-vato la chiave del pianoforte di casa, un Beck-stein, e a 6 ho cominciato ad ascoltare in loroassenza la Turandot, tutti i pomeriggi».

Come ha esordito?«Nel 1991 sonopartitoper la naia:Car aOrvie-to, poi nella banda dell’esercito alla Cecchi-gnoladiRoma.Mihannomessoallamaggiori-tà. Davo da mangiare a Bemolle, il gatto delcomandante della caserma, e pulivo l’ufficiodel direttore della banda. Lì dentro c’era unpianoforte. Il tenente colonnello s’accorseche lo suonavo di nascosto fra una spolveratae l’altra ed ebbe l’idea un po’ folle di farmidiventare il solista della banda. Andai in tour-née nei teatri per i restanti sei mesi della leva.Suonavo la Rapsodia in blu di Gershwin e ilConcerto di Varsavia di Addinsell».

E poi i primi successi con Jovanotti.«Secondo lui dovevo sentirmi come un calcia-tore convocato nella nazionale. Quando deci-si di andarmene per la mia strada, ci rimasemale».

Più sentito?«MimandaqualcheSms.Solosaluti.Congratu-lazioni mai».

Ha sempre avuto i capelli come l’omino deilampostyl Presbitero?

«No, li ho sempre avuti cortissimi. Me li sonofatticresceredalgiornodel trasferimentoaMi-lano, dieci anni fa».

Usa qualcosa per incrementare la matassa?«Oddio,madevopropriodirlo?Nonèpubblici-tà?».

Che c’entra? Allora anche dire che lei ha incisosei Cd e scritto due libri è pubblicità.

«Guardi, ho provato di tutto. Alla fine mi sonofermato al balsamo Hydra-ricci della Garnier.Rende il riccio definito».

Perché si stabilì a Milano?«Volevodiventare pianista ecompositore. Mangiare eratempo sottratto allo studio,quindiperunannohoversa-tounascatolettadi tonnoso-pragli spaghettiappenasco-lati, ilpiattopiùrapido,nien-t’altro, un fatto di pura so-pravvivenza. Mi mantenevocon le supplenze di educa-zionemusicale o come inse-gnante di sostegno deglialunni dislessici nelle scuo-le dell’hinterland, Barona,ParcoLambro,Linate.Distri-buivo volantini sui Navigli.Epoi facevo il cameriere neicatering».

Per avvicinare Riccardo Muti.«Anche. Accadde il 7 dicembre del 2000, allacena di gala della Scala. Mi feci assegnare altavolodove ilmaestro sedevacon la famigliaealtriospiti.Volevoconsegnargli13dita, ilmioCd, ma avevo il problema di dove nasconder-lo.Ginevramiprestòil suogrembiule,cheave-va una bella tasca sul davanti. Servivo i vini inguantibianchi. Il cuoremiscoppiava.Alla finepresi coraggio e gli porsi il disco. Muti ne fupiù divertito che sorpreso. Si alzò in piedi, mistrinse la mano. “Pensate, è un pianista, hainciso questo Cd e s’è travestito da cameriereper incontrarmi!”, si rivolse ai commensali.Poi ame: “Le risponderò sicuramente”.Quan-do più tardi tornai per sparecchiare, trovai ildisco abbandonato sulla poltroncina».

Che tristezza.«E invece l’annoscorso chi ti vedo inprima filaad ascoltarmi al Teatro Sociale di Piangipane,aRavenna?RiccardoMuti!Abbiamomangiatoinsieme i cappelletti. Alla finemi ha chiesto difargli avere le mie partiture d’orchestra. “Sta-volta non le dimenticheremo sulla sedia”, miha sorriso la moglie Cristina».

Gliele ha spedite?«Non ancora. La riverenza mi blocca. Ci homesso otto anni a capirlo: nella vita artisticanon sono ammessi salti. La strada resta quellatracciata dal direttore del conservatorio Giu-seppe Verdi di Milano, che mi sibilò: “Se fossiuno dei miei predecessori, come IldebrandoPizzetti, lacaccerei!”.Mibocciavaalleaudizio-ni libere, salvo poi ricevermi in ufficio peresternarmi la sua ammirazione: “Lei oggi hasuonato qualcosa di... di... di geniale, ecco, ametà strada fra lamusica classica e il jazz”. Co-me ho osato saltare la trafila tradizionale? Pri-ma vinci il premio Busoni, poi entri nel girodelle agenzie che ti ordinano che cosa devieseguire, infine ilpubblicovanei teatriasenti-re quello che ha vinto il Busoni. Il guaio è chel’annodopoilpremio loassegnanoaunaltroetu sei tagliato fuori. Ho preferito suonare lamusica composta da me. Chopin, il mio idolo,Ravel, Liszt, Debussy facevano lo stesso».

Però non pretendevano una torta al cioccola-to nel contratto...

«Devo sempre mangiarne almeno una fetta incamerinoprimadiandaresulpalco.Èunacoc-cola per vincere la paura».

Non è il suo unico tic.«No, è vero. Riservo un giorno della settimanaadattività speciali, tipo telefonare senzamoti-vo a nominativi presi a caso dalla rubrica delcellulare, persone che rimangono sbalorditeperchénonhonulladipraticodadirgli.Oppu-re annuso tutto ciò che incontro e alla sera sti-lo una classifica dell’olfatto».

Ha registrato «Joy» senza averlo mai suonatoprima, se non nella sua testa. Indro Montanel-li faceva lo stesso con i propri articoli: se lirecitava mentalmente passeggiando nei giar-dini di via Palestro, poi andava al giornale e limetteva su carta.

«Quando la musica mi assale, non vedo più lepersone, non riconosco le strade di Milano».

Non teme di sprofondare nella pazzia, come ilsuo collega David Helfgott, protagonista delfilm «Shine»?

«Il mio amico David è venuto l’anno scorso inItalia. Una delle prime cose che ha chiesto èstata: “Dov’èAllevi?”.SonoandatoasentirloalBlue Note di Milano. Alla fine del concerto miha chiamato sul palco e mi ha abbracciato.Non si staccava più. “Your music, your mu-sic”, la tuamusica,continuavaaripetere.Guar-dandolo, ho visto la fine che farò».

Soffre ancora di attacchi di panico?«Sì, ma la loro intensità puntiforme è diminui-ta.Adessoduranoun interopomeriggioenonhobisognodell’ambulanza, lacui sirenamihaispiratoilbranoPanicnellacorsaverso l’ospe-dale. Li considero forze ataviche, cosmiche,che mi trapassano. Non li respingo più. Li ac-cetto e li benedico. Arrivano quando la ragio-nepretende di capire chi sono, cosa sto facen-do, dove sto andando».

E la sua musica? Quella da dove arriva, se l’èmai chiesto?

«È un mistero, un’entità immateriale che entranellenostre vite. Per umiltà nonvoglio pensa-

re che arrivi da Dio. Non miconsidero né un tramite conla divinità né un ideale dicomportamento. Non capi-sco niente, non sono nien-te».

Panico da Borsa mai?«Non so neppure quanti sol-di ho sul conto corrente. Vi-vo in un bilocale sui Navigli,nonho l’auto,mipiaceusaremetrò e tram. Mi sento vici-noall’umanitàdispersaeget-tata nell’esistenza di cui par-la Heidegger».

Quanto denaro ha con sé?(Fruganelle tascheetirafuo-ri un brandellodi menù, sul

quale ha scritto a matita «Dodici apostoli» eun pentagramma). «Ho solo questo, un ap-punto che ho annotato ieri sera durante la ce-nainmioonore.Èunprocedimentomatemati-coper trasformare leparole inmelodia.Aognilettera corrisponde una nota. Lo usava ancheBach».

Paga tanto di assicurazione per le mani?«Il mio staff ha provato a telefonare ai Lloyd’sper sottoscrivere una polizza, ma da Londrahanno risposto che farei bene ad assicurarmiil cervello».

A chi deve di più?«AmiamoglieNada.Hacredutoinme.Èdiffici-le trovareunapersonachecrede inciòche fai».

(426. Continua)

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Ha già venduto 400milaCd. Fa il tutto esauritodagli Usa al Giappone

Merito del gatto Bemollee di un anno di pranzi

solo con tonno in scatolaOra arriva il nuovo libro

Molti sperano nella mia

rovina. Sulle accademie

ho lo stesso impatto

dell’Islam sull’Occidente

David Helfgott, il genio

del film «Shine», ha

voluto abbracciarmi. Lì

ho visto la fine che farò

di Stefano Lorenzetto

tipi italiani

ANSIA DA SUCCESSO

GIOVANNI ALLEVI

ATTACCHI DI PANICO

CESPUGLIO PENSATORE Giovanni Allevi firma autografi. «Per umiltà non voglio pensare che la musica arrivi da Dio» [Sartori/Fotoland]

Il pianista idolo dei giovaniesordì con 5 spettatori«Scrivo la musica sui menù»Si travestì da cameriere per avvicinare Riccardo MutiI Lloyd’s di Londra: più che le mani le assicuriamo il cervello