1 Nord e Sud tra politica ed economia: il nodo delle ... · come una specializzazione della scienza...

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1 Palermo, 8-10 settembre 2011 XXV Convegno della Società Italiana di Scienza Politica Panel: Il Mezzogiorno nel sistema politico italiano. Claudio Riolo Dipartimento studi su Politica, Diritto e Società “Gaetano Mosca”– Università di Palermo Nord e Sud tra politica ed economia: il nodo delle classi dirigenti 1.Una premessa metodologica Questo breve paper non ha certo l‟ambizione di rispondere all‟interrogativo sulle ragioni della persistenza della “questione meridionale” nel sistema economico e politico dell‟Italia repubblicana, ma vorrebbe limitarsi a sottoporre alla discussione le linee essenziali di uno schema interpretativo del problema fondato sull‟interdipendenza tra fattori politici ed economici. Un approccio che s‟ispira, in senso lato, a quel vasto e variegato campo interdisciplinare di studi denominato political economy 1 , che studia appunto i condizionamenti economici della politica e i condizionamenti politici dell‟economia sia nella dimensione interna degli Stati che nella dimensione internazionale (Ferrera 1989). Ritengo, infatti, che tale approccio - pur senza addentrarmi, in questa sede, nel complesso dibattito epistemologico che si è sviluppato nell‟ambito delle scienze sociali 2 - consenta una proficua convergenza tra discipline e/o teorie diverse, sempre auspicabile nell‟ambito di scienze non deterministiche3 , ma assolutamente necessaria per comprendere - a centocinquant‟anni dall‟Unità e a più di sessanta dalla nascita della Repubblica - una questione così complessa e persistente. Con la consapevolezza che la difficoltà principale che incontrano gli studiosi (siano essi economisti, politologi, sociologi, storici o quant‟altro) che vogliano cimentarsi su questo terreno è costituita dalle più o meno limitate conoscenze extra-disciplinari di cui dispongono. Ciò consiglierebbe un maggiore ricorso alla formazione di gruppi interdisciplinari di ricerca o, almeno, nel caso di studi individuali, un maggior confronto interdisciplinare già in corso d‟opera, a cantiere ancora aperto. 1 La traduzione letterale sarebbe fuorviante, dato che l‟ambito disciplinare della “economia politicaè indicato, nei paesi anglosassoni, con il termine economics. Pertanto in Italia si ricorre a delle circonlocuzioni, basate sull‟accostamento dei due termini “politica ed economia” o “Stato e mercato”. Non a caso quest‟ultimo è il titolo della nota rivista italiana che, ormai da trent‟anni, esplora in chiave comparativa e interdisciplinare il rapporto tra economia e istituzioni. Negli Stati Uniti la political economy ha conquistato una relativa autonomia accademica, prevalentemente come una specializzazione della scienza politica, ma è presente anche nei corsi di economia e sociologia. Tuttavia il campo è caratterizzato da un crescente eclettismo programmatico di metodi e teorie(neo-mercantiliste, neo- classiche, neo-marxiste, neo-istituzionaliste, neo-pluraliste, neo-funzionaliste, neo-corporative, teorie dei regimi, della dipendenza, del sistema-mondo, ecc.) con scarse connessioni reciproche(Ferrera 1989, 456). 2 Per un‟utile panoramica di questo dibattito, oltre al saggio di Ferrera (cit.) - specificamente dedicato al contributo socio-politologico sul terreno della political economy e alla controversia con gli economisti ortodossi sulla pretesa superiorità scientifica del paradigma neo-classico (logico-deduttivo e metodologico-individualista) segnalo, da una prospettiva di policy, il vol. di Howlet e Ramesh (1995), in particolare per l‟utile e “parsimoniosa” classificazione dei principali tipi di approccio allo studio dei fenomeni politici e sociali (public choice, marxismo, neo-istituzionalismo, economia del benessere, pluralismo/corporativismo, statalismo) basata sui due criteri del metodo (deduttivo o induttivo) e dell‟oggetto dell‟analisi (individui, gruppi e istituzioni). 3 Com‟è noto – ma non è superfluo ricordarlo - nelle scienze sociali non vale la determinazione causalema la “indeterminazione causale”, cioè data la causa l‟effetto non è certo, pertanto non si può aspirare a “leggi universali” ma, al massimo, a “leggi probabilistiche”, law-like, “generalizzazioni provviste di potere esplicativo che colgono una regolarità” (Sartori 1991, 27).

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Palermo, 8-10 settembre 2011

XXV Convegno della Società Italiana di Scienza Politica

Panel: Il Mezzogiorno nel sistema politico italiano.

Claudio Riolo

Dipartimento studi su Politica, Diritto e Società “Gaetano Mosca”– Università di Palermo

Nord e Sud tra politica ed economia: il nodo delle classi dirigenti

1.Una premessa metodologica

Questo breve paper non ha certo l‟ambizione di rispondere all‟interrogativo sulle ragioni della

persistenza della “questione meridionale” nel sistema economico e politico dell‟Italia repubblicana,

ma vorrebbe limitarsi a sottoporre alla discussione le linee essenziali di uno schema interpretativo

del problema fondato sull‟interdipendenza tra fattori politici ed economici. Un approccio che

s‟ispira, in senso lato, a quel vasto e variegato campo interdisciplinare di studi denominato political

economy 1, che studia appunto i condizionamenti economici della politica e i condizionamenti

politici dell‟economia sia nella dimensione interna degli Stati che nella dimensione internazionale

(Ferrera 1989).

Ritengo, infatti, che tale approccio - pur senza addentrarmi, in questa sede, nel complesso dibattito

epistemologico che si è sviluppato nell‟ambito delle scienze sociali 2 - consenta una proficua

convergenza tra discipline e/o teorie diverse, sempre auspicabile nell‟ambito di scienze “non

deterministiche” 3, ma assolutamente necessaria per comprendere - a centocinquant‟anni dall‟Unità

e a più di sessanta dalla nascita della Repubblica - una questione così complessa e persistente. Con

la consapevolezza che la difficoltà principale che incontrano gli studiosi (siano essi economisti,

politologi, sociologi, storici o quant‟altro) che vogliano cimentarsi su questo terreno è costituita

dalle più o meno limitate conoscenze extra-disciplinari di cui dispongono. Ciò consiglierebbe un

maggiore ricorso alla formazione di gruppi interdisciplinari di ricerca o, almeno, nel caso di studi

individuali, un maggior confronto interdisciplinare già in corso d‟opera, a cantiere ancora aperto. 1 La traduzione letterale sarebbe fuorviante, dato che l‟ambito disciplinare della “economia politica” è indicato, nei

paesi anglosassoni, con il termine economics. Pertanto in Italia si ricorre a delle circonlocuzioni, basate

sull‟accostamento dei due termini “politica ed economia” o “Stato e mercato”. Non a caso quest‟ultimo è il titolo della

nota rivista italiana che, ormai da trent‟anni, esplora in chiave comparativa e interdisciplinare il rapporto tra economia e

istituzioni. Negli Stati Uniti la political economy ha conquistato una relativa autonomia accademica, prevalentemente

come una specializzazione della scienza politica, ma è presente anche nei corsi di economia e sociologia. Tuttavia il

campo è caratterizzato da un crescente “eclettismo programmatico di metodi e teorie” (neo-mercantiliste, neo-

classiche, neo-marxiste, neo-istituzionaliste, neo-pluraliste, neo-funzionaliste, neo-corporative, teorie dei regimi, della

dipendenza, del sistema-mondo, ecc.) “con scarse connessioni reciproche” (Ferrera 1989, 456).

2 Per un‟utile panoramica di questo dibattito, oltre al saggio di Ferrera (cit.) - specificamente dedicato al contributo

socio-politologico sul terreno della political economy e alla controversia con gli economisti ortodossi sulla pretesa

superiorità scientifica del paradigma neo-classico (logico-deduttivo e metodologico-individualista) – segnalo, da una

prospettiva di policy, il vol. di Howlet e Ramesh (1995), in particolare per l‟utile e “parsimoniosa” classificazione dei

principali tipi di approccio allo studio dei fenomeni politici e sociali (public choice, marxismo, neo-istituzionalismo,

economia del benessere, pluralismo/corporativismo, statalismo) basata sui due criteri del metodo (deduttivo o

induttivo) e dell‟oggetto dell‟analisi (individui, gruppi e istituzioni).

3 Com‟è noto – ma non è superfluo ricordarlo - nelle scienze sociali non vale la “determinazione causale” ma la

“indeterminazione causale”, cioè data la causa l‟effetto non è certo, pertanto non si può aspirare a “leggi universali” ma,

al massimo, a “leggi probabilistiche”, law-like, “generalizzazioni provviste di potere esplicativo che colgono una

regolarità” (Sartori 1991, 27).

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Per quanto mi riguarda, cercherò di attenuare il problema sottoponendo questa traccia e poi, via via,

gli sviluppi della ricerca al massimo confronto intra e inter-disciplinare, a partire non casualmente

dalla presente occasione, per avvalermi delle critiche e dei suggerimenti degli altri studiosi

interessati al tema. Ma, sopratutto, ritengo che bisognerebbe cercare di non ripartire da zero, di

tenere conto della grande mole di ricerca empirica e di riflessione teorica accumulata sulla

questione nel corso di sei decenni. Affermazione, forse, non così scontata come potrebbe a prima

vista sembrare, se è vero – e qui anticipo una delle ipotesi conclusive del paper – che la cosiddetta

“grande svolta” degli anni Novanta, sia sul piano concreto del policy change ( fine dell‟intervento

straordinario, aiuti europei, politiche di sviluppo locale e “nuova programmazione”), sia nel

parallelo confronto intellettuale (al “neo-meridionalismo” del secondo dopoguerra, fautore dello

sviluppo dall‟alto e dell‟intervento straordinario, subentra un nuovo filone di studi – che definirei,

credo appropriatamente, “post-meridionalista” - che contesta la visione del “Mezzogiorno” come

realtà omogenea e indifferenziata e sostiene un modello di sviluppo endogeno/dal basso) abbia

contribuito, nella comprensibile ansia di discontinuità con gli aspetti più deteriori del passato, al

rigetto totale delle precedenti esperienze ed elaborazioni teoriche, meritevoli invece, sia pur cum

grano salis, di una più attenta riconsiderazione, esponendo la “svolta” al rischio di errori, opposti e

speculari, nella comprensione “unidirezionale” delle cause del problema meridionale e,

conseguentemente, nel modo di affrontarlo.4

4 Michele Salvati (2009, 265) , attribuisce giustamente il merito di aver “contribuito a preparare intellettualmente la

grande svolta „verso il basso‟ e verso la società e la politica sulla quale la nuova strategia per il Mezzogiorno si

impernia” ad alcuni economisti e sociologi di indubbio valore come Bagnasco, Becattini, Brusco, Trigilia, e Viesti,

oltre che, naturalmente, a Fabrizio Barca, che ne è stato anche uno dei protagonisti operativi. E , in particolare, ritiene

che “forse è in Sviluppo senza autonomia di Carlo Trigilia che la svolta di cui stiamo parlando trova la sua

giustificazione più esplicita”. Non c‟è dubbio che il filone di studi sullo “sviluppo locale” (gli studiosi citati, in gran

parte, si raccolgono intorno all‟omonima rivista, pubblicata nel 1994 sull‟onda degli incontri annuali di Artimino e,

ancor prima, della riflessione sui “distretti industriali”) abbia influito sulla “svolta”, anche se distinguerei i primi tre

(Bagnasco, Becattini e Brusco) - la cui riflessione non parte dal problema meridionale ma ha certamente delle ricadute

significative su di esso – da Barca, Trigilia e Viesti, che, ai fini del mio ragionamento, iscriverei a pieno titolo tra i più

rappresentativi esponenti del post-meridionalismo. Tuttavia, ritengo, che l‟altra gamba della svolta post-meridionalistica

sia rappresentata dal gruppo di storici e scienziati sociali che hanno dato vita alla rivista Meridiana, (nata nel 1987 , in

stretta connessione con l‟Istituto meridionale di storia e scienze sociali, diretta da Piero Bevilacqua e poi da Salvatore

Lupo e Maurizio Franzini) che si è caratterizzata, fin dall‟inizio, per la critica di alcuni luoghi comuni della tradizione

meridionalistica (la visione di un Sud uniformemente arretrato, immobile ed estraneo ai processi di modernizzazione)

ed ha già accumulato un importante patrimonio di ricerche storiche e sociali ( non solo) sul Mezzogiorno

contemporaneo. La convergenza tra questi due filoni di studi – che non sono, certamente, rappresentabili come

omogenei, né tra di loro né al loro interno – segna appunto una radicale cesura non solo con il meridionalismo

precedente, ma con il meridionalismo tout court, come raccontano due protagonisti di quella svolta culturale:

“Quando, agli inizi del 1986 decidemmo con un gruppo di altri amici di dar vita all‟Istituto meridionale di storia e scienze sociali, e a

una rivista che ne fosse l‟organo, „Meridiana‟, l‟intento era proprio di sottrarre il Mezzogiorno alle spire del pensiero unico,

autodeclinantesi sotto la categoria del „vero meridionalismo‟ … Noi, invece, non avevamo l‟ambizione di essere dei „veri

meridionalisti‟. Veramente, non volevamo essere nemmeno dei „meridionalisti‟. Volevamo semplicemente studiare il Mezzogiorno

„come un qualunque pezzo di mondo‟ “(Cersosimo e Donzelli 2000, VII-VIII).

Non troverei una definizione migliore del “post-meridionalismo”, concetto che utilizzo non certo per dare un‟etichetta

ed ingabbiare un campo molto vario ed articolato al proprio interno, ma semplicemente per sottolineare la radicalità di

quella svolta rispetto alla tradizione precedente.

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Di questo rischio sono consapevole da tempo, se già più di quindici anni fa, commentando uno dei

testi più rappresentativi della svolta “post-meridionalistica” , l‟importante libro di Carlo Trigilia

(1992) sugli “effetti perversi” delle tradizionali politiche per il Mezzogiorno , scrivevo che

“Il concetto di effetto perverso … è stato fruttuosamente applicato da Trigilia alle politiche

meridionalistiche, individuando gli ostacoli non economici allo sviluppo proprio nella forte dipendenza dalla

politica e dai suoi intrecci con la criminalità di un contesto sociale e culturale plasmato dall'intervento

pubblico. Sulla base di questa analisi, l'autore critica l'idea, prevalente nel meridionalismo del dopoguerra,

che i vincoli allo sviluppo del Sud siano soprattutto di tipo economico e vadano cercati nei condizionamenti

esercitati dagli interessi del Nord sulle politiche dello Stato.

A noi sembra che il lavoro di Trigilia possa utilmente integrare e correggere una lettura schematica ed

economicistica della questione meridionale, a condizione di non cadere nell'errore speculare di un'analisi

meramente politicista. E' necessario, invece, utilizzare l'intreccio tra politica ed economia come chiave

interpretativa adeguata per una comprensione organica del problema (Riolo 1995, 71)”.

Ma quella mia preoccupazione trova, oggi, un‟autorevole conferma, particolarmente significativa

in quanto proviene da un altro dei principali protagonisti di quella svolta, Gianfranco Viesti (2011,

89), quando afferma che:

“… non dobbiamo guardare all‟economia come causa prima e principale di comportamenti e situazioni. La

politica, il capitale sociale contano; e molto. Eppure si ha come l‟impressione che l‟inversione del nesso

causale si sia spinta un pò troppo, e che i fattori sociali e politici stiano divenendo quasi l‟unica spiegazione

degli esiti economici. … Ma personalmente resto più convinto da spiegazioni più ricche, nelle quali sia i

fattori socio-politici, sia quelli economici, sia quelli storico-geografici giocano tutti ruoli importanti”.

E‟ proprio questo il punto: per comprendere le ragioni della lunga persistenza del problema

meridionale è necessario ricorrere ad un modello esplicativo complesso, che rifugga da qualsiasi

forma di determinismo unidirezionale (sia esso economico, socio-politico o culturale)5, ma sia

fondato sull‟intreccio e l‟interdipendenza di fattori socio-politici ed economici, senza dimenticare i

condizionamenti di “lunga durata” del contesto storico-geografico e culturale.

Ho trovato, in tal senso, molto convincente, il modello di spiegazione utilizzato da Michele Salvati

(2003) per proporre un‟interpretazione dello sviluppo economico italiano dal dopoguerra ad oggi.

Dunque ad esso mi riferirò, provando ad adattarlo ai fini del mio ragionamento.

1.1.Modello esplicativo e periodizzazione

Mi sembra che lo schema semplificato (Fig.1) proposto da Salvati - nel quale mi sono limitato ad

aggiungere le due voci relative al Mezzogiorno (le politiche e il divario) – consenta di arrivare a

quelle “spiegazioni più ricche” invocate da Viesti. Nell’explanans sono raccolti tre tipi di variabili

indipendenti:

a) quelle socio-politiche (quanto contano le variabili di politics, ad es. le differenze tra governi di

destra e di sinistra, sulle politiche economiche e sui loro esiti;6 o quanto incidono i rapporti di forza

sociali e l‟intermediazione degli interessi sul governo dell‟economia);

b) quelle internazionali (i crescenti “vincoli” che restringono i margini di manovra dei governi

nazionali sulle politiche sociali, fiscali o industriali);

5 V. Howlet e Ramesh (cit.), per una sintetica rassegna dell’evoluzione del dibattito tra gli studiosi di policy sulle

determinanti (economiche, politiche e ideologiche) delle politiche pubbliche.

6 V. , ad es., la recente ricerca di Franco Cazzola (2010) sulle esperienze di governo delle sinistre , dal dopoguerra ad

oggi, in tredici paesi europei.

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c) le risorse e le variabili profonde (che si riferiscono ai condizionamenti storici e geografici, ai fattori

istituzionali e culturali di lungo periodo, alla controversa teoria della path dependence).7

Nell‟explanandum sono comprese le variabili dipendenti, relative allo sviluppo economico italiano

e al problema del Mezzogiorno, e le frecce di ritorno stanno a indicare, in una prospettiva

diacronica, una retroazione in grado di incidere nel tempo sulle variabili indipendenti (così come,

all‟interno dell‟explanandum, gli esiti avranno un impatto di ritorno sulle politiche che,

volontariamente o involontariamente, li hanno generati).

Fig. 1 – Fonte: adattamento da Salvati (2003,401)

7 La teoria della dipendenza dello sviluppo dai punti di partenza, dai diversi percorsi storici, rinvia, appunto, alla

dotazione originaria di risorse materiali, culturali e istituzionali per spiegare le cause “ultime” dello sviluppo o del

sottosviluppo. Uno dei principali esponenti della “nuova storia economica” americana, Douglass C. North (1990, 23;

2005), ha posto le istituzioni – intese come “le regole del gioco di una società o, più formalmente, i vincoli che gli

uomini hanno definito per disciplinare i loro rapporti” – al centro della teoria sullo sviluppo economico. Questa teoria di

North fu criticata per il suo “anglo-centrismo”. Ma, ancor più controverse, le tesi di Putnam (1993), che fa risalire la

carenza di senso civico nel Mezzogiorno all‟eredità delle specifiche istituzioni medievali. V., per tutte, le critiche di

Lupo (2008) sia sul piano del metodo che sul concetto di “capitale sociale”.

Explanans

(a) Variabili socio-politiche

(b) Variabili internazionali

(c) Risorse e variabili profonde

Explanandum

Politica e politica economica

Politiche per il Mezzogiorno

Esiti economici

(crescita, inflazione, indebitamento

pubblico, ecc.)

Divario tra Sud e Centro-Nord

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Il modello consente, dunque, di tenere conto di tutte le variabili causali senza stabilire, almeno

pregiudizialmente, un ordine gerarchico tra di esse. Ciò non implica, ovviamente, che le ricerche

parziali non siano utili, o che i singoli studiosi non possano attribuire, in base alle proprie

competenze e agli obiettivi della ricerca, una maggiore attenzione all‟uno o all‟altro dei fattori

considerati. Ma, al contrario, la consapevolezza della parzialità potrebbe favorire una maggiore

convergenza tra approcci teorici e disciplinari diversi.

La periodizzazione (Fig. 2) che Salvati propone, per interpretare lo sviluppo economico italiano dal

dopoguerra ad oggi, discende direttamente dal modello di spiegazione, e tiene conto delle variabili

indipendenti socio-politiche (su cui è centrato il fuoco dell‟analisi) e di quelle internazionali (che

rappresentano un vincolo oggettivo per l‟economia italiana), mentre “congela” le variabili di lunga

durata che non hanno valenza periodizzante nel breve-medio periodo. Individua così quattro

sottoperiodi dello sviluppo economico mondiale dal dopoguerra ad oggi (al 2003, data di

pubblicazione dell‟articolo): 1943-48 (ricostruzione postbellica e primi fondamenti del nuovo

ordine internazionale ad egemonia Usa); 1949-69 (boom postbellico e compromesso keynesiano);

1970-79 (inflazione e turbolenza economica, crisi petrolifera, inconvertibilità del dollaro e crollo

del sistema di Bretton Woods – transizione dal keynesismo al neoliberismo);1980- ad oggi

(monetarismo, tasso di crescita dimezzato, instabilità ciclica, crescita della disoccupazione e della

precarietà del lavoro, riduzione quota redditi da lavoro dipendente sul reddito complessivo).

In corrispondenza di questi quattro periodi, scadenzati dalle variabili internazionali, lo sviluppo

economico italiano è suddiviso in modo più articolato, tenendo anche conto delle variabili socio-

politiche: dopo la ricostruzione del 1943-48, il ventennio successivo è suddiviso in due sottoperiodi,

1949-63 (anni di grande crescita) e 1964-69 (continua a crescere il reddito ma ristagnano gli

investimenti, nasce il centro-sinistra ma si rivela inadeguato ad assecondare il processo di

modernizzazione); il decennio 1970-79 (caratterizzato dalla grande inflazione e dal ciclo sociale e

politico che si apre con l‟autunno caldo e si chiude con la fine dei governi di solidarietà nazionale);

il trentennio successivo , infine, è suddiviso in tre sottoperiodi, 1980-92 (grande debito pubblico,

pentapartito incapace di prevenire la crisi finanziaria e valutaria, mani pulite), 1993-98 (crisi

politica e risanamento macroeconomico, sblocco del sistema politico, ingresso nell‟Euro), 1999 ad

oggi (grande declino?).

Contesto internazionale Sviluppo economico italiano

1943-48 – ricostruzione; nuovo ordine

internazionale ad egemonia Usa; ripristino del

potenziale produttivo prebellico

1943-48 – fine della guerra e ricostruzione

1949-69 – boom postbellico e compromesso

keynesiano

1949-63 – la grande crescita

1964-69 – crescita del reddito ma ristagno

investimenti; centro-sinistra

1970-79 – inflazione e turbolenza economica;

transizione dal regime keynesiano al

neoliberismo

1970-79 – la grande inflazione; ciclo sociale e

politico dall‟autunno caldo ai governi di

solidarietà

1980-2007 – monetarismo; tasso medio annuo

di crescita dimezzato; maggiore instabilità

ciclica e minore inflazione; crescita

disoccupazione e precarietà del lavoro;

riduzione quota redditi da lavoro dipendente sul

reddito complessivo

1980-92 – il grande debito; pentapartito

incapace di prevenire crisi finanziaria e

valutaria; mani pulite

1993-98 – crisi politica e risanamento

macroeconomico; ingresso nell‟euro

1999-2007 - Il grande declino? Fig. 2 – Fonte: adattamento da Salvati (2003)

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Avrei dovuto inserire nel prospetto una terza colonna sul ruolo effettivamente svolto dal

Mezzogiorno, sul piano economico e socio-politico, nelle diverse fasi dello sviluppo economico

italiano, alla luce degli esiti delle politiche per il Sud. Ma nei limiti di questo paper preferisco

soffermarmi su un decennio che, ai fini del mio ragionamento, ritengo cruciale, non solo come

grande occasione mancata di sviluppo – e non c‟è dubbio che un contesto interno e internazionale

così favorevole allo sviluppo non si è più ripetuto -, ma perché la via imboccata allora ha

condizionato l‟intero percorso successivo e spiega, a mio parere, il nocciolo duro contro cui si sono

infrante le, pur diverse, politiche tentate fino ad oggi.

2. Gli anni Cinquanta: un decennio cruciale8

2.1.Il modello di sviluppo economico italiano degli anni cinquanta

La "lunga crescita" dell'economia italiana dal 1948 al 19639 si basava su un modello politico-

economico caratterizzato da una larga offerta di lavoro, dalla debolezza sindacale e politica della

classe operaia10

, e da una crescita della produttività tendenzialmente superiore a quella dei salari.

Ciò consentiva, in quegli anni di generale ripresa economica internazionale, una crescita della

competitività e delle esportazioni, un tendenziale equilibrio della bilancia dei pagamenti, un alto

margine di profitto e un conseguente stimolo all'investimento e all'autofinanziamento delle imprese,

un'espansione della base industriale e dei consumi.

In particolare è possibile individuare, nell'arco degli anni Cinquanta, due fasi: quella della “crescita

interna”, dal '52 al '58, e quella del “miracolo economico”, dal '58 al '63. Nella prima lo sviluppo

era centrato sulle componenti interne della domanda, cioè sugli investimenti in edilizia residenziale,

opere pubbliche, agricoltura e industria. L'incremento dell'occupazione era dovuto principalmente al

terziario e al settore delle costruzioni, mentre l'occupazione agricola diminuiva moderatamente. La

dinamica delle migrazioni interne, bassa rispetto ai movimenti migratori verso l'estero, conferma

che in quegli anni la domanda di lavoro nell'industria del Nord non era molto sostenuta.

Nella seconda fase, invece, con l'ingresso, nel '57, dell'Italia nel M.E.C., le forze trainanti della

crescita diventavano le esportazioni. Il tasso di crescita del prodotto interno lordo, della produzione

industriale e degli investimenti raggiungeva i massimi storici dello sviluppo economico italiano; il

forte incremento degli investimenti era dovuto principalmente al settore manifatturiero (macchinari

e impianti); crescevano in modo consistente i consumi privati e si arrivava al saldo attivo della

bilancia dei pagamenti. Infine, l'occupazione industriale e le migrazioni al Nord e in Europa

aumentavano fino al punto da rovesciare, nei primi anni Sessanta, il tradizionale eccesso dell'offerta

sulla domanda di lavoro, cambiando i precedenti rapporti di forza tra imprese e sindacati.

In sintesi, lo sviluppo economico italiano degli anni Cinquanta era caratterizzato da una rapida

crescita e da una profonda trasformazione strutturale. Il forte sviluppo dell'industria manifatturiera

trasformava l'economia agricola del paese in economia industriale; si passava da un sistema chiuso

agli scambi con l'estero ad una “economia aperta”, cioè ad una sensibile integrazione economica e

commerciale con i paesi industrializzati dell'Occidente; si trasformava anche la struttura degli

insediamenti urbani, con una concentrazione sempre più elevata della popolazione nelle grandi città.

Ma, accanto a questi aspetti “fisiologici” dello sviluppo industriale, vi erano alcune gravi

distorsioni: un progressivo dualismo della struttura produttiva tra grandi imprese tecnologicamente

8 Questo paragrafo è tratto da Riolo (1995).

9 Questa periodizzazione, e l'ulteriore suddivisione in tre sottoperiodi ('47-'52, '52-'58, '58-'63), tratta da un libro

precedente di Salvati (1984), non contraddice quella della Fig.2, ma è solo più articolata.

10 Nel 1947 le sinistre furono estromesse dal governo. Nel 1948, dopo la sconfitta del Fronte Popolare alle elezioni

politiche del 18 aprile e dopo l'attentato a Togliatti, vi fu la scissione dalla Cgil della componente cristiana.

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avanzate e piccole imprese arretrate e scarsamente efficienti; uno sviluppo sproporzionato dei

consumi privati di generi non di prima necessità (motorizzazione privata, elettrodomestici,

televisori), rispetto ai consumi pubblici prioritari (abitazioni, sanità, istruzione); il permanere di un

profondo divario nello sviluppo tra Nord e Sud del paese.

Aspetti “fisiologici” e “patologici” rappresentavano, però, le facce di una stessa medaglia, poiché

“… se i due gruppi di fenomeni si trovano accomunati nell'economia italiana, ciò non è dovuto a circostanze

fortuite, ma all'operare di un meccanismo unitario, che ha prodotto al tempo stesso il veloce sviluppo

industriale e gli squilibri che abbiamo ricordati” (Graziani 1972, 33).

2.2. Le politiche meridionalistiche tra economia e politica

Gli squilibri e i dualismi dell'economia italiana, e tra questi principalmente la “questione

meridionale”, non erano, dunque, solo il risultato spontaneo del naturale sviluppo del mercato e

degli investimenti privati, ma anche l'effetto perverso (Trigilia 1992) di quelle politiche d'intervento

dello Stato nel Mezzogiorno che si proponevano, almeno nelle intenzioni, di correggere tali

squilibri. Se, infatti, come sottolinea Salvati (1984), il ruolo keynesiano dell'intervento pubblico

nell'economia è stato parte integrante del modello di sviluppo degli anni cinquanta, le politiche

meridionalistiche non potevano non essere condizionate dalle esigenze delle diverse fasi di sviluppo

del capitalismo italiano (D'Antonio, 1976).

Il primo ciclo dell'intervento statale aveva inizio nel 1950 con le leggi di riforma agraria11

e con

l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno12

. La riforma fondiaria, nata sull'onda del movimento

per l'occupazione delle terre e di imponenti scioperi bracciantili, puntava ad una riduzione del peso

della grande proprietà assenteista per trasformare l'agricoltura delle zone più arretrate e alla

creazione di una classe di piccoli proprietari: il risultato era l'esproprio effettivo di circa

ottocentomila ettari e la nascita di una vasta rete di aziende contadine. Sebbene la riforma

comportasse una consistente riduzione del latifondo e della rendita fondiaria e consentisse l'avvio di

una modernizzazione dell'agricoltura nella Valle Padana, in Maremma e in alcune zone costiere del

Sud, tuttavia nella gran parte delle zone interne del Mezzogiorno i risultati erano assolutamente

inadeguati. In particolare, la polverizzazione dei terreni, la carenza di assistenza tecnica, creditizia e

di servizi sociali non attenuavano le condizioni di miseria e d'insicurezza delle popolazioni, che,

dopo alcuni anni, erano costrette ad abbandonare le campagne e ad emigrare nel Nord

industrializzato o all'estero. D'altra parte, non bisogna sottovalutare l'effetto congiunturale di

tamponamento della grave situazione occupazionale delle regioni del Sud13

, né il fatto che gli anni

cinquanta registravano, in termini di produzione lorda vendibile, una notevole crescita

dell'agricoltura italiana, con un ruolo attivo del comparto meridionale14

.

11

I primi provvedimenti riguardavano la Calabria (legge Sila, 12/5/50), poi con la "legge stralcio" (21/10/50) e con

successivo decreto governativo la riforma veniva estesa al Delta padano, alla Maremma toscana, al bacino del Fucino,

ad alcune zone della Campania e della Puglia, al bacino Flumendosa e ad altre zone della Sardegna. Nello stesso anno

veniva emanata una legge della Regione Siciliana (27/12/50) con caratteristiche particolari. 12

Legge 10/8/50, n.646 .

13 Graziani (1972, p.59) scrive che:

“...lo scopo primo della Riforma, tenendo conto del carico demografico del Mezzogiorno e delle scarse prospettive di

industrializzazione, era quello di assicurare la piena occupazione delle forze lavorative. La creazione di una rete di aziende familiari

risolve questo problema, eliminando, almeno nelle zone in cui veniva pienamente attuata, il lavoro salariato, e riconducendo ogni

prestazione di lavoro nell'ambito dell'azienda familiare. In tal modo, il costo marginale del lavoro per ogni azienda veniva

praticamente reso uguale a zero, il che permetteva di ottenere l'occupazione integrale del lavoro disponibile e di massimizzare il

prodotto. Al tempo stesso, poiché nell'ambito familiare il reddito viene distribuito di norma con criteri ugualitari, si evitava che il

reddito del lavoratore agricolo cadesse a zero, anche se cadeva a zero la produttività marginale del lavoro”.

14

Del Monte e Giannola (1978) sostengono la tesi dell'esistenza, in quegli anni, di un surplus agricolo e di una bilancia

alimentare positiva per il Mezzogiorno, che diventava, dunque, esportatore netto di beni alimentari ed importatore netto

di prodotti industriali.

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Gli obiettivi della Cassa per il Mezzogiorno erano complementari a quelli della riforma agraria: un

intervento straordinario in opere pubbliche e infrastrutture per creare un ambiente favorevole al

sorgere successivo dell'industria, per elevare il reddito e l'occupazione e per allargare il mercato

locale. Nei fatti gli investimenti straordinari, che avrebbero dovuto essere aggiuntivi, diventavano

ben presto sostitutivi di quelli ordinari e si concentravano prevalentemente in infrastrutture agricole

e in opere civili. L'intervento straordinario era, con l'eccezione della spesa in agricoltura, limitato,

generico e dispersivo, e quindi non finalizzato ad una politica di “preindustrializzazione” , che

pertanto rimaneva sul piano di una enunciazione di principio. La spesa pubblica aveva, invece,

l'effetto di tamponare la disoccupazione, di garantire una relativa crescita del reddito - comunque

inferiore a quella del resto del paese - e un ampliamento del mercato interno, a vantaggio dei beni di

consumo e di produzione del Nord (Castronovo, 1975).

Tre anni dopo l'istituzione della Cassa, nel 1953, con una legge sul credito industriale per il

Mezzogiorno, che costituiva e riordinava gli istituti speciali per il credito agevolato alle piccole e

medie industrie15

, si tentava di orientare l'intervento pubblico anche verso una politica di

industrializzazione. Ma ciò non modificava, perlomeno fino al 1957, l'indirizzo fondamentale, che

rimaneva, teoricamente, quello della "preindustrializzazione", e che, praticamente, faceva molto

poco per creare un ambiente adatto all'industria16

.

Il passaggio dalla politica di “preindustrializzazione” a quella di “industrializzazione” cominciava,

dunque, con il secondo ciclo dell'intervento statale, dopo il 1957, e veniva sancito dalla legge di

proroga della Cassa per il Mezzogiorno17

. Questa legge, infatti, prevedeva - oltre ad una serie di

agevolazioni fiscali e finanziarie, fra cui anche dei contributi a fondo perduto del 20% sulle spese

d'impianto di piccole e medie industrie - la costituzione di consorzi fra enti locali per attrezzare e

gestire, con il sostegno della Cassa, delle apposite “zone industriali”, e vincolava gli enti e le

aziende a partecipazione statale a localizzare al Sud il 60% dei nuovi impianti industriali e il 40%

degli investimenti totali. Tale impostazione si affermava progressivamente negli anni successivi e

veniva sviluppata nelle Relazioni del Presidente del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno18

del

1960 e del 1961, che sancivano ufficialmente il fallimento del primo ciclo delle politiche

meridionalistiche e teorizzavano la nuova linea dei “poli di sviluppo”.

L'effetto pratico di questa svolta consisteva nell'insediamento al Sud di grandi complessi

siderurgici, chimici e petrolchimici, appartenenti a gruppi monopolistici privati e al settore

pubblico, che sfruttavano le materie prime e l'ampia disponibilità di forza lavoro, usufruivano degli

incentivi (teoricamente destinati alle piccole e medie imprese), ma non producevano gli attesi effetti

propulsivi e d'innesco di un autonomo meccanismo di sviluppo. Anzi, i deboli benefici indotti nelle

poche aree industrializzate, sul piano del reddito e dell'occupazione, erano vanificati dai

contraccolpi disgregativi, causati da quel tipo di insediamenti industriali, sul tessuto socio-

economico e ambientale preesistente (Parlato et al. 1960; Hitten,Marchioni 1970).

15

La legge 2/4/53, n.298, dotava, con la partecipazione della Cassa, l'Istituto per lo Sviluppo Economico dell'Italia

Meridionale (ISVEIMER), l'Istituto Regionale per il Finanziamento alle Industrie in Sicilia (IRFIS) e il Credito

Industriale Sardo (CIS) di fondi per il finanziamento agevolato delle piccole e medie industrie. 16

Castronovo (1975, p.397) sottolinea che:

“E' vero che dopo il 1953 la gamma degli „incentivi‟ venne estesa anche alle attività industriali, artigianali e manifatturiere. Ma per

molti anni ancora sia la logica del piano degli interventi nel Mezzogiorno, basato sull'azione combinata del moltiplicatore della spesa

pubblica aggiuntiva e della dilatazione delle „economie esterne‟, sia i criteri di impostazione della politica meridionalistica intesi a

suscitare investimenti „indotti‟ da parte dei privati, ma senza precisi obiettivi circa i tassi di sviluppo del reddito e dell‟occupazione,

non subirono sostanziali mutamenti d'indirizzo”.

17

Legge 29/7/57, n.634. Bisogna tuttavia sottolineare che, nonostante il passaggio dalla “preindustrializzazione” alla

“industrializzazione”, gli stanziamenti della Cassa per l'agricoltura, le opere pubbliche e le infrastrutture rimanevano,

fino al 1965, superiori a quelli per l'industria (Graziani, 1972). 18

Il Comitato, istituito con la legge 18/3/59 n.101, (soppresso nel 1971), aveva lo scopo di coordinare gli interventi

ordinari e straordinari nel Mezzogiorno, e l'obbligo di presentare al Parlamento una Relazione annuale sull'attività

svolta. Nel '60 e nel '61 il Presidente era G. Pastore.

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Appare dunque chiara, a questo punto, la corrispondenza tra i primi due cicli dell'intervento statale

nel Mezzogiorno e le due fasi dello sviluppo descritte nel paragrafo precedente. In particolare, nella

prima parte degli anni cinquanta, nella fase della “crescita interna”, mentre la grande industria del

Nord, impegnata in uno sforzo di ammodernamento più che di espansione, non era in grado di

assorbire grandi quantità di lavoro, la riforma agraria e l'intervento della Cassa congelavano nelle

campagne, nelle opere pubbliche e nei settori tradizionali le forze di lavoro di cui i settori industriali

moderni avrebbero avuto bisogno in seguito. Riforma e Cassa concorrevano, inoltre, ad un

allargamento del mercato interno e ad una modernizzazione dell'agricoltura, assegnando ad alcune

zone del Meridione un ruolo non secondario nello sviluppo produttivo del settore.

Sul piano politico-sociale la parziale redistribuzione delle terre povere e marginali frenava la carica

eversiva delle lotte contadine e bracciantili, mentre la spesa pubblica alimentava la graduale

formazione, in sostituzione del blocco agrario in crisi19

, di una nuova classe dirigente parassitaria e

clientelare. Cominciava, cioè, a formarsi un blocco sociale relativamente ampio, composto da ceti

medio-alti (blocco edilizio, imprenditoria speculativa, nuovo personale politico-amministrativo,

neoprofessionisti e grossi commercianti) cementati in un inestricabile intreccio economico-politico

dalle occasioni e dai redditi improduttivi creati dai flussi di denaro pubblico; un blocco parassitario

in grado di garantire, a un tempo, un ampio mercato di consumi moderni e la stabilità politica e

sociale. Un ceto locale politicamente trasformista e subalterno agli equilibri del sistema di potere

nazionale, rispetto al quale godeva sì di una relativa autonomia ma solo nella misura in cui

esercitava un potere di ricatto nel quadro di un rapporto di scambio centro-periferia tra risorse

pubbliche e consenso elettorale20

.

Alla fine degli anni cinquanta, dopo l'ingresso nel MEC, nella fase del “miracolo economico”, si

apriva nel serbatoio meridionale la valvola dell'emigrazione, che - grazie alla larga disponibilità di

forza lavoro a basso costo proveniente dal Sud - consentiva la forte competitività dell'industria

settentrionale nei mercati internazionali ed il boom delle esportazioni. Contemporaneamente si

avviava un processo di relativa industrializzazione del Mezzogiorno, subordinata alle esigenze

esterne dei grandi gruppi industriali del Nord: la necessità di concorrenza/integrazione a livello

internazionale; la spinta al decentramento dovuta all'inizio di fenomeni di saturazione delle aree

industriali; e, soprattutto, la possibilità di realizzazione di sovrapprofitti garantiti dal sostegno

statale. In particolare su quest‟ultimo ultimo terreno, si realizzava, nei fatti, un compromesso tra la

grande industria, privata e di stato, e i gruppi sociali e politici che controllavano la spesa pubblica:

“In queste circostanze, il parassitismo e l'impiego inefficiente delle risorse umane e materiali del

Mezzogiorno diventano un aspetto complementare e non contraddittorio rispetto alla presenza di grandi

impianti industriali nelle regioni meridionali” (D'Antonio 1973, p.239).

19

La riforma fondiaria dava il colpo di grazia ai vecchi ceti agrari, ma la crisi del blocco agrario era cominciata ben

prima. Villari (1977) ne fa risalire l'inizio al periodo fascista, in particolare agli anni che seguirono la depressione del

1930. 20

Riguardo alle pratiche messe in atto (non solo al Sud) dalla Democrazia Cristiana per stabilizzare il consenso, Salvati

(1984, 39-40) afferma che:

“E' infatti attraverso di esse che si giunse a quell'estensione e occupazione dello Stato... Solo tre esempi, tra i più importanti. Il primo

riguarda l'occupazione e lo sviluppo di un'istituzione che era stata centrale nella politica agraria del fascismo - la Federazione

nazionale dei consorzi agrari - da parte della democristiana Associazione dei coltivatori diretti. I poteri della Federconsorzi, e i

vantaggi che essa conferiva ai contadini, fecero sì che la Democrazia Cristiana conquistasse e mantenesse uno stabile predominio

sulle campagne. Nell'industria, fu la Democrazia Cristiana a profittare delle battaglie delle sinistre, ostili allo smantellamento e alla

privatizzazione dell'industria di Stato: l'IRI e poi l'ENI divennero così centri di potere di cui il partito di maggioranza giunse a

detenere il controllo quasi esclusivo; divennero anche due tra le principali aree di tensione e di compromesso con la grande industria

privata. Dal punto di vista del consenso politico, ancor più efficaci furono le pratiche di intervento nel Mezzogiorno: insieme con la

riforma agraria, esse condussero a una vera e propria modificazione storica del potere dominante in quelle regioni, attraverso la quale

il personale politico-amministrativo incaricato dell'intervento largamente prevalse sul tradizionale ceto degli agrari”.

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In conclusione, le due fasi della politica meridionalistica degli anni cinquanta, quella dell'intervento

in agricoltura e infrastrutture e quella degli incentivi per l'industrializzazione, invece di avviare uno

sviluppo più equilibrato del Paese e una diffusione territoriale dell'industria, venivano piegate agli

interessi, diversi ma convergenti, delle classi dirigenti del Nord e di un ceto politico nazionale che,

in larga parte, si reggeva sulle risorse consensuali del Mezzogiorno.

3.Alcune ipotesi conclusive

Dunque, l‟ipotesi principale – già anticipata nel titolo del paper – è che il principale nodo irrisolto

del problema meridionale riguardi la natura delle classi dirigenti. Ma, poiché spesso i due termini

vengono confusi, è preliminare chiarire che tale concetto non si identifica con quello, più ristretto,

di ceto politico (o classe politica), che può essere considerato come quella parte della classe

dirigente che ha funzioni strettamente politiche, o, per dirla con Guido Dorso (1955), una sorta di

“sottosezione specializzata” delle classi dirigenti. Ciò per dire che il ricambio del ceto politico non

implica il rinnovamento della classe dirigente, obiettivo certamente più difficile, poiché la

formazione di nuove élites politico-burocratiche, economiche e culturali non può che essere il

risultato di lunghi e complessi processi di trasformazione della società, dell‟economia e delle

istituzioni. Ma non esistono scorciatoie.

Pur lasciando agli storici il problema di datare l‟inizio della crisi del blocco agrario, ci sembra

ragionevole ritenere che è nel corso degli anni cinquanta che si forma e comincia a consolidarsi nel

Mezzogiorno non solo una nuova classe dirigente, ma un intero blocco sociale “politico-

dipendente”, che si alimenta, direttamente o indirettamente, intorno ai flussi di spesa pubblica. E ciò

avviene – è bene ricordarlo - con la complicità di quella stessa classe dirigente del Nord che –

mentre si batteva aspramente contro la possibilità che decollasse nel Sud un diverso modello di

industrializzazione e di sviluppo rispetto a quello che si stava affermando nel Nord del Paese21

-

trovava evidentemente delle compensazioni sostanziose nelle mediazioni esercitate da un ceto

politico nazional-meridionale. Dunque sarebbe lecito domandarsi, con tutta la prudenza e il

realismo necessario nell‟uso di ragionamenti “controfattuali” (Salvati 2003), se, nella straordinaria

contingenza internazionale e interna degli anni della lunga crescita, avessimo avuto una diversa

classe dirigente al Nord, come sarebbe andata nel Mezzogiorno?

Ma il punto del nostro ragionamento non è tanto l‟interrogativo “controfattuale” sull‟occasione

mancata, quanto quello “fattuale” sulle conseguenze di lungo periodo dei processi che si sono

consolidati in quel decennio cruciale. L‟ipotesi più ragionevole è che tale “equilibrio perverso”

abbia retto tra alti e bassi – puntualmente scanditi al Sud da periodiche rivolte popolari e ondate di

voto di protesta nei momenti più acuti di crisi economica – per circa quarant‟anni, e si sia

temporaneamente rotto quando, sull‟onda del dissesto statale, della rivolta leghista e di

“tangentopoli”, quel sistema di potere è crollato. In effetti, nel ‟92, la fine ufficiale dell‟intervento

straordinario, sotto l‟incalzare delle proteste leghiste e di una minaccia di referendum abrogativo,

sancisce la marginalizzazione del Mezzogiorno nell‟agenda politica del Paese, intesa sia nella sua

21

Mi riferisco all‟emblematico conflitto tra Confindustria e Sicindustria nella seconda metà degli anni ‟50, che si

concluse nel ‟58 con l‟espulsione del Presidente degli industriali siciliani, La Cavera. Ma estremamente significativa è

la polemica sui “doppioni industriali” svolta al Convegno del Cepes, che nel 1955 portò a Palermo il gotha della grande

impresa e della finanza italiana (Riolo 1995).

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dimensione istituzionale che in quella sistemica (dibattito pubblico). La coincidenza con la crisi

della “prima Repubblica” non è casuale, mutano gli equilibri sociali e politici nel Paese, cresce il

peso dei politici settentrionali nel governo e nei vertici dei partiti, in controtendenza al tradizionale

peso dei politici meridionali nei governi e nella Dc (Becchi 1995).

Ma, allora, cosa è avvenuto nel Mezzogiorno nell‟ultimo ventennio, durante la lunga transizione

italiana? L‟ipotesi è – dato che il ricambio del ceto politico non poteva comportare un rinnovamento

automatico delle classi dirigenti locali – che queste, rimaste orfane dei vecchi referenti politici, si

siano ben presto adeguate al nuovo “bipolarismo imperfetto”, mimetizzandosi trasformisticamente

nelle nuove aggregazioni politiche, sia di centro-destra che di centro-sinistra, con l‟obiettivo di

conservare - almeno parzialmente in un quadro caratterizzato da crescente scarsità di risorse

pubbliche - i vecchi privilegi. Il polo di centro-destra – innovativo mix tra populismo mediatico

berlusconiano e macchina politica democristiana - ha naturalmente attratto il grosso delle

tradizionali reti clientelari e parassitarie, che hanno continuato ad alimentarsi grazie al controllo di

vecchi e nuovi filoni di spesa pubblica (spesa ordinaria, opere pubbliche, fondi europei), esercitando

all‟occorrenza la minaccia di un ribaltamento di alleanze. Ma anche il centro-sinistra, che negli

ultimi due decenni si è alternato al governo centrale e ai governi delle regioni meridionali, non è

sembrato immune dal pericolo di essere preso d‟assalto da coloro che sono adusi da sempre a saltare

sul carro dei vincitori.

Oggi, di fronte alla crisi e allo sfaldamento del blocco di centro-destra, sembra che il ceto politico

locale stia reagendo, ancora una volta, in modo trasformistico, in nome della riscoperta, sempre più

inconsistente e strumentale, di una diffusa vocazione “autonomistica” e “meridionalistica”. E così

assistiamo ad una nuova frammentazione dell‟offerta politica locale e alla nascita di formazioni

politiche più o meno “sudiste”. Al di là delle diverse strategie di alleanze in cui si collocano è

difficile scorgere delle differenze significative tra queste formazioni che, pur in concorrenza tra

loro, sembrano espressione dello stesso blocco di interessi parassitari e delle stesse modalità di

acquisizione clientelare del consenso. Le varie leghe del Sud sembrano predisporsi a contrattare, nel

quadro dei nuovi equilibri che potrebbero scaturire dalla crisi del regime berlusconiano, un

ennesimo scambio centro-periferia tra risorse e consenso, sia pure in un quadro caratterizzato, tra

crisi economica e prospettiva federalista, da una crescente scarsità di risorse pubbliche disponibili.

Ma, com‟è noto agli studiosi del fenomeno, la manipolazione della scarsità è per la macchina

clientelare una leva altrettanto potente della distribuzione della ricchezza (Chubb 1982). D‟altra

parte il fondato allarme per un federalismo squilibrato e di segno “nordista” viene già abilmente

utilizzato come incentivo ad una mobilitazione “meridionalistica”, in funzione di contrappeso

rispetto alla crescente (?) influenza della Lega Nord. Ma, naturalmente, qui mi fermo. Sono troppe

le incognite, sia riguardo alla gravità della crisi economica, sia riguardo al riassestamento del

sistema politico nel più o meno imminente scenario post-berlusconiano, per prevedere l‟evoluzione

o l‟involuzione dei rapporti Nord-Sud.

Vorrei, a questo punto, brevemente concludere ponendo alcuni interrogativi agli studiosi, talvolta

amici e colleghi, a cui questo paper è principalmente rivolto. Se l‟ipotesi che scaturisce da questa

traccia d‟analisi è fondata, potrebbe darsi che il principale, non certo l‟unico, ostacolo che spiega il

“sostanziale” fallimento delle diverse politiche per il Mezzogiorno, di quelle del primo

quarantennio dell‟Italia repubblicana e di quelle dell‟ultimo ventennio, sia dovuto all‟impatto che

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entrambe hanno avuto con lo stesso nodo strutturale: la natura “politico-dipendendente” delle classi

dirigenti meridionali? Non posso qui – sarebbe stato necessario dedicarvi un altro paper - entrare

nel merito del ricco e stimolante dibattito tra sostenitori e critici delle politiche di sviluppo locale

avviate negli anni novanta (Barca 2006; Cassano 2009; La Spina 2007; Meridiana 2008; Rossi

2005; Viesti 2009; Trigilia 2005; Tulumello 2008). Anch‟io, pur se molto meno autorevolmente di

Salvati, dichiaro la mia propensione – anche alla luce dei miei studi sul “caso siciliano” degli anni

‟50 – per un‟idea di sviluppo equilibrato, governato dal basso, territorialmente diffuso e in grado di

valorizzare le risorse locali, ma, a maggior ragione, non posso non rilevare come questo modello sia

particolarmente esposto all‟impatto con il nodo strutturale di cui sopra. E, d‟altra parte, pur

condividendo in pieno l‟analisi critica dell‟intervento straordinario, e dei suoi “effetti perversi”, non

penso che l‟intervento pubblico e le eventuali risorse aggiuntive (che in realtà sono quasi sempre

state sostitutive) avrebbero avuto necessariamente effetti controproducenti, senza le responsabilità,

diverse ma convergenti, delle classi dirigenti del Nord e del Sud.

Sui molti meriti e sui limiti del “post-meridionalismo” rinvio a quanto già detto nel primo

paragrafo. Comprendo il senso dell‟appello di Carlo Trigilia (2008) a “non tornare al

Mezzogiorno”, e, se sta ad indicare l‟esigenza di non ripetere, oggi, in modo speculare, l‟errore fatto

negli anni della “svolta”, per non correre il rischio di perdere gli aspetti positivi di un‟esperienza

non di successo, potrei anche condividerlo. Ma ritengo infelice la contro-retorica che, da molti

anni, in nome della legittima esigenza di combattere gli stereotipi sul Sud, nega l‟esistenza stessa

della “questione meridionale”. Temo, infatti, che ciò possa involontariamente contribuire, così

come avvenne nei primi anni ‟90, a derubricare il Mezzogiorno, nell‟agenda politica e nel dibattito

pubblico, da “questione nazionale” a mero problema di sviluppo di “aree sottoutilizzate”.

Mi domando, quindi, in conclusione, se non sia possibile aprire, dopo il “neo-meridionalismo” e il

“post-meridionalismo”, una terza fase, in cui sia possibile far convergere tutte le risorse intellettuali

in un confronto costruttivo sui nodi irrisolti del problema.

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