1) Don Abbondio · Renzo, ricercato dalla legge, possa metterlo nei guai. Tenta inutilmente di...

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1 1) Don Abbondio È il curato del paesino di Renzo e Lucia, colui che all'inizio della vicenda dovrebbe celebrare il matrimonio dei due promessi: è il primo personaggio del romanzo a entrare in scena, all'inizio del cap. I, e in seguito all'incontro coi bravi l'autore ci fornisce una dettagliata descrizione della sua psicologia e del suo carattere. Manzoni finge che l'anonimo abbia omesso nel manoscritto di dire il suo casato, ma è comunque presentato come un uomo di circa sessant'anni (I), dai capelli bianchi e con "due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo", che incorniciano una "faccia bruna e rugosa" (VIII). Non è assolutamente un uomo molto coraggioso e dimostra anzi in numerose occasioni la sua viltà e la sua codardia, che sono all'origine anche della scelta di farsi prete: non dettata da una sincera vocazione, ma dal desiderio di sfuggire i pericoli della vita ed entrare in una classe agiata e dotata di un certo prestigio, che offre una discreta protezione in tempi in cui regna la violenza e la legge non dà alcuna garanzia agli uomini quieti. Il curato svolge dunque il suo ministero tenendosi fuori da ogni contrasto, mantenendo la neutralità in qualunque controversia o litigio, non contrastando mai i potenti (esemplare è la sua sottomissione a don Rodrigo, che pure odia) e mostrandosi in ogni occasione come un debole, cosa di cui approfittano un po' tutti. Costretto a ingoiare molti bocconi amari, non esita a sfogare un po' del fiele che ha in corpo prendendosela con coloro da cui sa di non aver nulla da temere, manifestando anche in tal modo il suo carattere pusillanime. È accudito da un'attempata domestica, Perpetua, donna decisa ed energica che spesso gli rimprovera la sua debolezza e lo esorta a comportarsi con maggior determinazione, quasi sempre senza successo. Si diletta a leggere libri senza un interesse preciso e si fa prestare da un curato suo vicino dei volumi, che però legge senza capire gran che: celeberrima è la frase "Carneade" Chi era costui?" che apre il cap. VIII e che è passata in proverbio a indicare col nome

Transcript of 1) Don Abbondio · Renzo, ricercato dalla legge, possa metterlo nei guai. Tenta inutilmente di...

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1) Don Abbondio

È il curato del paesino di Renzo e Lucia, colui che all'inizio della vicenda

dovrebbe celebrare il matrimonio dei due promessi: è il primo personaggio del

romanzo a entrare in scena, all'inizio del cap. I, e in seguito all'incontro coi

bravi l'autore ci fornisce una dettagliata descrizione della sua psicologia e del suo carattere. Manzoni finge che l'anonimo abbia omesso nel manoscritto di

dire il suo casato, ma è comunque presentato come un uomo di circa

sessant'anni (I), dai capelli bianchi e con "due folti sopraccigli, due folti baffi,

un folto pizzo", che incorniciano una "faccia bruna e rugosa" (VIII). Non è

assolutamente un uomo molto coraggioso e dimostra anzi in numerose

occasioni la sua viltà e la sua codardia, che sono all'origine anche della scelta di

farsi prete: non dettata da una sincera vocazione, ma dal desiderio di sfuggire i pericoli della vita ed entrare in una classe agiata e dotata di un certo prestigio,

che offre una discreta protezione in tempi in cui regna la violenza e la legge

non dà alcuna garanzia agli uomini quieti. Il curato svolge dunque il suo

ministero tenendosi fuori da ogni contrasto, mantenendo la neutralità in

qualunque controversia o litigio, non contrastando mai i potenti (esemplare è la

sua sottomissione a don Rodrigo, che pure odia) e mostrandosi in ogni occasione come un debole, cosa di cui approfittano un po' tutti. Costretto a

ingoiare molti bocconi amari, non esita a sfogare un po' del fiele che ha in corpo prendendosela con coloro da cui sa di non aver nulla da temere,

manifestando anche in tal modo il suo carattere pusillanime. È accudito da

un'attempata domestica, Perpetua, donna decisa ed energica che spesso gli

rimprovera la sua debolezza e lo esorta a comportarsi con maggior determinazione, quasi sempre senza successo. Si diletta a leggere libri senza

un interesse preciso e si fa prestare da un curato suo vicino dei volumi, che

però legge senza capire gran che: celeberrima è la frase "Carneade" Chi era

costui?" che apre il cap. VIII e che è passata in proverbio a indicare col nome

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del filosofo del II sec. a.C. un illustre sconosciuto (ciò indica anche la relativa

ignoranza del personaggio).

Don Abbondio è comunque una figura fondamentalmente positiva,

sinceramente affezionato a Renzo e Lucia, anche se la sua paura e la sua

debolezza lo spingono a comportarsi in modo scorretto e a farsi complice delle

prepotenze altrui, al di là delle sue stesse intenzioni. Il suo nome rimanda a

sant'Abbondio, patrono di Como, e suggerisce il carattere di un uomo che ama

il quieto vivere. È indubbiamente uno dei personaggi comici del romanzo,

protagonista di molti episodi che mescolano dramma e farsa (l'incontro con i bravi, il colloquio con Renzo, il "matrimonio a sorpresa", il viaggio in

compagnia dell'innominato...). Per approfondire: L. Pirandello, L'umorismo in

don Abbondio; A. Spranzi, L'immoralità di don Abbondio.

Questi i capitoli del romanzo in cui compare:

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Cap. I

Cap. II

Cap. VIII

Cap. XI

Cap. XXIII

Cap. XXIV

Cap. XXV

Torna dalla passeggiata serale e incontra i bravi, che lo

minacciano affinché non celebri il matrimonio fra Renzo e Lucia e

fanno il nome di don Rodrigo. Torna a casa e rivela tutto a Perpetua, pressato dalle sue insistenze. La donna gli consiglia di

informare con una lettera il cardinal Borromeo. Il curato rifiuta e va a letto, dopo aver intimato a Perpetua di non dire nulla a

nessuno.

Dopo una notte agitata e trascorsa a pensare al da farsi, al mattino riceve Renzo e lo convince a rimandare le nozze

accampando pretesti burocratici. Poco dopo è nuovamente

affrontato da Renzo che lo costringe a rivelare il nome di don

Rodrigo. Dopo che il giovane è andato via, il curato accusa

Perpetua di aver parlato, quindi si mette a letto con la febbre.

Sta leggendo nel suo studio, a tarda sera, quando riceve la visita di Tonio e Gervaso. Tonio gli restituisce le venticinque lire di

debito, poi il curato gli rende la collana della moglie avuta in garanzia e si accinge a compilare una ricevuta. In quel momento

si presentano Renzo e Lucia per il "matrimonio a sorpresa", ma lui

riesce a impedire alla giovane di pronunciare la formula di rito gettandole addosso il tappeto che copre il tavolo. In seguito si

chiude in un'altra stanza e grida aiuto da una finestra, al che il sagrestano Ambrogio suona le campane. All'accorrere dei paesani,

si affaccia da una finestra dicendo che alcuni imprecisati malviventi si sono introdotti in casa sua e che ora se ne sono

andati, quindi invita tutti a tornare alle proprie case.

Tenta inutilmente di impedire a Perpetua di rivelare dettagli circa lo stratagemma attuato dai due promessi la notte precedente.

Si trova al paese vicino al castello dell'innominato, per rendere

omaggio al cardinal Borromeo in visita pastorale: dopo la

conversione del bandito è chiamato dal cardinale, che lo incarica di

recarsi al castello con l'innominato e la moglie del sarto per liberare Lucia. Accetta a malincuore la missione, pur tentando di

schermirsi con scuse poco credibili, poi si mette in viaggio pieno di paure e non credendo fino in fondo alla conversione

dell'innominato. Giunge infine al castello, dissimulando grande deferenza per il bandito.

Cerca di consolare Lucia, invitandola a lasciare subito il castello.

Torna al villaggio vicino insieme all'innominato, quindi torna

subito al suo paese adducendo come scusa degli affari improrogabili. Durante il tragitto incrocia il baroccio che sta

portando Agnese da Lucia e dà alla donna veloci ragguagli sulla

liberazione della ragazza. Tenta di imporle il silenzio sul mancato

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Cap. XXVI

Cap. XXIX

Cap. XXX

Cap. XXXIII

Cap. XXXVII

Cap.

XXXVIII

matrimonio se dovesse incontrare il cardinal Borromeo, ma la donna tronca a mezzo il discorso. Il curato torna al paese.

Riceve la visita pastorale del cardinal Borromeo in paese, con

timore per i possibili rimproveri da parte del superiore. Fornisce al cardinale informazioni su Renzo, che definisce un giovane

impulsivo e collerico, ma incline al bene. È poi chiamato di nuovo

dal cardinale, che gli chiede conto del mancato matrimonio e lo

rimprovera per non aver adempiuto ai suoi doveri.

Subisce altri rimproveri dal cardinal Borromeo, che gli rammenta che avrebbe potuto informarlo con una lettera (i "pareri di

Perpetua"). Alla fine del colloquio prova del sincero pentimento, anche se la paura per la propria vita gli impedisce un completo

ravvedimento.

Lascia il paese per sfuggire ai lanzichenecchi e si reca insieme ad

Agnese e Perpetua al castello dell'innominato. È ospite, assieme

alle due donne, del sarto e della sua famiglia.

Trova rifugio assieme ad Agnese e Perpetua nel castello

dell'innominato, dove rimane per meno di un mese. Tornato al paese, trova la sua casa devastata dai lanzichenecchi. Litigi e

discussioni senza fine con Perpetua, che lo accusa di viltà perché

non si fa restituire dai compaesani gli oggetti che gli hanno

rubato.

Incontra Renzo appena questi è tornato al suo paese, in cerca di

notizie su Lucia. Appare emaciato e smagrito (in seguito dirà al

giovane di aver avuto la peste) ed è timoroso che la presenza di

Renzo, ricercato dalla legge, possa metterlo nei guai. Tenta

inutilmente di convincere Renzo ad andarsene. Lo informa del

fatto che Lucia è a Milano, Agnese è da suoi parenti a Pasturo, don

Rodrigo ha lasciato il suo palazzo. Gli elenca le molte vittime della peste, tra cui Perpetua. Dopo l'ennesimo rifiuto da parte di Renzo

di andarsene, si allontana borbottando qualcosa tra i denti.

Dopo il ritorno di Renzo da Milano, cerca di evitarlo per non sentire parlare del matrimonio.

Dopo il ritorno in paese di Lucia, riceve la visita di Renzo che

sollecita la celebrazione delle nozze, ma lui accampa nuovi

pretesti. Riceve poi la visita di Agnese, Lucia e della mercantessa, che rinnovano l'invito suscitando nuove scuse. Apprende da Renzo

e dal sagrestano Ambrogio della morte di don Rodrigo e dell'arrivo

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in paese del marchese suo erede, al che si lascia andare a uno sfogo contro il defunto oppressore. Si dice subito disposto a

celebrare le nozze e intrattiene gli ospiti con mille chiacchiere. Riceve la visita del marchese e gli propone, quale risarcimento per

le traversie passate da Renzo e Lucia a causa di don Rodrigo, di acquistare le loro terre a un alto prezzo e di far revocare il bando

contro il giovane. Celebra il matrimonio e il giorno dopo

accompagna gli sposi al palazzo del marchese, dove pranza col nobile. Si separa dagli sposi e da Agnese in partenza per il

Bergamasco, non senza commozione.

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2) Agnese

È la madre di Lucia, un'anziana vedova che vive con l'unica figlia in una casa

posta in fondo al paese: di lei non c'è una descrizione fisica, ma è presentata

come una donna avanti negli anni, molto attaccata a Lucia per quale "si

sarebbe... buttata nel fuoco", così come è sinceramente affezionata a Renzo

che considera quasi come un secondo figlio. Viene introdotta alla fine del cap. II, quando Renzo informa Lucia del fatto che le nozze sono andate a monte, e

in seguito viene descritta come una donna alquanto energica, dalla pronta risposta salace e alquanto incline al pettegolezzo (in questo non molto diversa

da Perpetua). Rispetto a Lucia dimostra più spirito d'iniziativa, poiché è lei a

consigliare a Renzo di rivolgersi all'Azzecca-garbugli (III), poi propone lo

stratagemma del "matrimonio a sorpresa" (VI) e in seguito invita don Abbondio e Perpetua a rifugiarsi nel castello dell'innominato per sfuggire ai

lanzichenecchi (XXIX). È piuttosto economa e alquanto attaccata al denaro, se

non proprio avara, come si vede quando rimprovera Lucia di aver dato troppe noci a fra Galdino (III) e nella cura che dimostra nel custodire il denaro avuto

in dono dall'innominato. A differenza dei due promessi sposi non si ammala di peste (ci viene detto nel cap. XXXVII) e, dopo il matrimonio, si trasferisce con

Renzo e Lucia nel Bergamasco, dove vive con loro ancora vari anni. Del

defunto marito e padre di Lucia non viene mai fatta parola e, curiosamente, il fatto che Agnese sia vedova viene menzionato solo nel cap. XXXVII, quando la

donna torna al paese e trova la casa quasi intatta dopo il periodo della peste (il

narratore osserva che "questa volta, trattandosi d’una povera vedova e d’una

povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli").

Questi i capitoli in cui compare:

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Cap. II

Cap. III

Cap. IV

Cap. V

Cap. VI

Cap. VII

Cap. VIII

Cap. IX

È con Lucia la mattina delle nozze, quando Renzo viene a

informare la fidanzata del fatto che il matrimonio è andato a

monte.

Ascolta con Renzo il racconto di Lucia circa le molestie subìte da

parte di don Rodrigo. Consiglia a Renzo di recarsi dall'Azzecca-garbugli, poi riceve la visita di fra Galdino che le racconta il

"miracolo delle noci". Rimprovera Lucia dell'elemosina troppo generosa fatta al cercatore. Tornato Renzo, lo accusa di non

essersi spiegato con l'avvocato.

Accoglie padre Cristoforo, giunto a casa da lei e Lucia di buon mattino.

Racconta a padre Cristoforo quanto è accaduto, poi lei e Lucia

vengono consolate dal frate.

Propone a Renzo e Lucia lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" e in seguito ha un'idea su come distrarre Perpetua per

entrare in casa di don Abbondio. Quando giunge padre Cristoforo, intima a Lucia di non dirgli nulla.

Manifesta dubbi circa l'invito di padre Cristoforo a confidare nella

Provvidenza, poi cerca di calmare Renzo che manifesta propositi violenti contro don Rodrigo; alla fine si accorda con Renzo per lo

stratagemma del "matrimonio a sorpresa". Il giorno seguente parla ancora con Renzo, poi manda Menico al convento per

parlare con padre Cristoforo. In seguito riceve il Griso travestito

da mendicante ed è infastidita da altre figure di passanti (sono le

spie mandate dal Griso stesso). A sera si reca con Lucia, Renzo, Tonio e Gervaso a casa di don Abbondio e si prepara a distrarre

Perpetua.

Distrae Perpetua con chiacchiere relative ai suoi matrimoni andati

a monte in gioventù, dando a modo a Renzo, Lucia, Tonio e

Gervaso di entrare in casa di don Abbondio e attuare lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" (tossisce forte per dar

loro il segnale). Porta Perpetua un po' distante dalla casa, per impedirle di vedere l'uscio, poi cerca di trattenerla per non farla

tornare indietro. Si rammarica di non aver concertato con i due

promessi un segnale per sapere se la cosa è andata a buon fine.

Trattiene ancora Perpetua quando si sente il grido di aiuto di don

Abbondio, poi lo scampanio e infine l'urlo di Menico. Si unisce a

Renzo e Lucia che si allontanano dalla casa, poi arriva Menico. Si reca coi due promessi al convento di Pescarenico, dove padre

Cristoforo li informa dei piani di don Rodrigo e suggerisce loro di

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Cap. X

Cap. XVIII

Cap. XXIV

Cap. XXV

Cap. XXVI

Cap.

XXVII

Cap. XXIX

lasciare il paese. Sale sulla barca che li porta sulla sponda opposta del lago.

Giunge a Monza insieme a Renzo e Lucia, poi, dopo la partenza

del giovane per Milano, lei e la figlia si rivolgono al padre guardiano dei cappuccini. Viene presentata a Gertrude, che

accoglie lei e Lucia nel suo convento.

Rassicura Lucia circa le stranezze di Gertrude, spiegandole che i

nobili sono tutti un po' matti. Viene alloggiata con la figlia nel

monastero, dove le due svolgono le mansioni della figlia della fattoressa.

È preoccupata alla notizia che Renzo è ricercato dalla giustizia in

seguito al tumulto di S. Martino, anche se poi si consola sapendolo

al sicuro nel Bergamasco. In ansia per il fatto di non ricevere più

notizie da padre Cristoforo, decide di tornare a casa facendosi

accompagnare dal pesciaiolo di Pescarenico, sicura che Lucia è ben

protetta nel convento di Monza.

Mentre si trova in paese, viene informata della liberazione di Lucia

dal castello dell'innominato e sale sul baroccio che la porta al villaggio dove si trova la figlia. Durante il tragitto incrocia don

Abbondio, di ritorno al paese, che le dà veloci ragguagli sulla

liberazione di Lucia e tenta di imporle il silenzio sul mancato

matrimonio se dovesse incontrare il cardinal Borromeo (la donna tronca a mezzo il discorso e prosegue il viaggio). Giunge alla casa

del sarto e riabbraccia Lucia. Ha parole di dura condanna verso don Rodrigo. Incontra il cardinale e gli rivela le mancanze di don

Abbondio, poi gli racconta le vicende di Renzo.

È ospite assieme a Lucia nella casa del sarto e della moglie. Si

reca con la figlia alla villa di donna Prassede, che propone di

ospitare Lucia a Milano e consegna poi loro una lettera per il cardinal Borromeo. Torna al paese insieme alla figlia e consegna

al cardinale la lettera. Viene festeggiata da molte amiche e amici del villaggio.

Si separa momentaneamente da Lucia, che si trasferisce nella villa

di donna Prassede vicino al paese del sarto. Viene chiamata dal cardinal Borromeo, il quale le consegna cento scudi d'oro da parte

dell'innominato come risarcimento per il male compiuto. Nasconde il denaro sotto il pagliericcio, fantasticando su cosa potranno fare

lei e la figlia con tutto quell'oro. Va a trovare Lucia da donna Prassede e le comunica quanto avvenuto: Lucia le rivela a sua

volta il voto, che lascia la madre costernata. Accetta di informare

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Cap. XXX

Cap. XXXIII

Cap.

XXXVII

Cap.

XXXVIII

Renzo per lettera e di inviargli la metà del denaro. Passano molti

giorni, tuttavia, senza che la donna riesca a rintracciare il giovane

nel Bergamasco.

Riceve finalmente una lettera da parte di Renzo, che si fa leggere da un suo parente di Maggianico e dalla quale apprende le

circostanze della latitanza del giovane. Gli manda la metà del

denaro ricevuto dall'innominato e lo informa per lettera del voto di Lucia. Prosegue in modo stentato questa sorta di corrispondenza

con Renzo.

Lascia il paese per sfuggire ai lanzichenecchi e si reca insieme a

don Abbondio e Perpetua al castello dell'innominato. È ospite,

assieme al curato e alla donna, del sarto e della sua famiglia.

Si rifugia assieme a don Abbondio e Perpetua al castello dell'innominato, dove rimane per meno di un mese. Prima di

ripartire, riceve in regalo dall'innominato un corredo di biancheria e del denaro. Tornata al paese, trova la sua casa devastata dai

lanzichenecchi ma può dire di essere "caduta in piedi" grazie al

denaro ricevuto.

Don Abbondio informa Renzo che si trova a Pasturo, da certi suoi

parenti, per sfuggire alla peste.

Viene raggiunta a Pasturo da Renzo, che la informa che Lucia è

viva e sta bene, e che il voto è stato sciolto da padre Cristoforo.

Dopo qualche giorno torna insieme a Renzo al paese, trovando

incredibilmente la sua casa intatta. Aspetta insieme a Renzo il ritorno della figlia da Milano.

Accoglie Lucia, tornata in paese con la mercantessa. Si reca

insieme alla figlia e alla mercantessa da don Abbondio, nel

tentativo di indurlo a celebrare le nozze, ma il curato accampa nuovi pretesti. Apprende da Renzo la notizia della morte di don

Rodrigo e dell'arrivo in paese del marchese suo erede. Dopo il matrimonio si reca al palazzotto del marchese, dove gli vende le

sue terre a un alto prezzo. Si trasferisce con Renzo e la figlia nel Bergamasco, stabilendosi nel paese di Bortolo. Si trasferisce poi

con Renzo e Lucia in un nuovo paese, dove il genero ha acquistato un filatoio. Accudisce amorevolmente i molti figli avuti dalla

coppia.

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3) Padre Cristoforo

È uno dei frati cappuccini del convento di Pescarenico, padre confessore di

Lucia e impegnato ad aiutare i due promessi contro i soprusi di don Rodrigo,

non sempre con successo: è descritto come un uomo di circa sessant'anni, con

una lunga barba bianca e un aspetto che reca i segni dell'astinenza e delle

privazioni monastiche, anche se conserva qualcosa della passata dignità e

fierezza. Viene introdotto nel cap. III, quando Lucia spiega di avergli

raccontato in confessione delle molestie di don Rodrigo, e in seguito la giovane

chiederà a fra Galdino di avvertire il padre di raggiungere lei e la madre prima

possibile. Il personaggio compare direttamente nel cap. IV, attraverso un lungo flashback che racconta la vita precedente di Cristoforo e le circostanze

che lo indussero a farsi frate: si chiamava Lodovico ed era figlio di un ricco mercante ritiratosi dagli affari, che viveva come un nobile e aveva allevato il

figlio con modi signorili (il cognome del personaggio e la città non sono

menzionati dall'anonimo, secondo la finzione dell'autore). Il giovane Lodovico,

non accettato dagli aristocratici della sua città, era in cattivi rapporti con loro e

a poco a poco era divenuto un difensore di deboli e oppressi, circondandosi di sgherri e bravacci coi quali compiva talvolta azioni inclini alla violenza. In

seguito a un duello nato per futili motivi cavallereschi con un nobile noto per la sua prepotenza, Lodovico aveva ucciso il suo avversario ed era rimasto ferito

egli stesso (nello scontro era morto un suo fedele servitore di nome Cristoforo); portato dalla folla in un convento di cappuccini per salvarlo dalla

giustizia e dalla vendetta dei parenti del morto, Lodovico aveva maturato la decisione di farsi frate e aveva poi chiesto perdono al fratello dell'ucciso,

scegliendo come nome quello di Cristoforo per espiare la morte del servitore da lui indirettamente provocata (il nome significa, etimologicamente, "portatore di

Cristo"). Tutto questo spiega il fatto che fra Cristoforo conservi qualcosa

dell'antico orgoglio nobiliare, nonché la sua abitudine a trattare coi potenti e

l'indubbio prestigio che gode fra la gente del paese e delle terre vicine a Pescarenico; il rimorso che prova ancora per l'omicidio commesso lo induce a

respingere ogni ipotesi di violenza e a rimproverare aspramente Renzo, ogni qual volta il giovane manifesta propositi vendicativi nei confronti di don

Rodrigo.

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È dunque con la carità e la fiducia nella Provvidenza che padre Cristoforo tenta

di aiutare i due promessi: affronta don Rodrigo nel suo palazzo (V-VI) e tenta dapprima di farlo recedere dai suoi piani con parole diplomatiche, quindi lo

attacca con empito oratorio accusandolo delle sue malefatte (il signorotto arriva a proporre che Lucia venga a palazzo e si metta sotto la sua

"protezione"). In seguito, dopo la "notte degli imbrogli" e il fallito tentativo da parte di Rodrigo di rapire Lucia (VIII), consiglia ai due promessi di lasciare il

paese e indirizza Renzo a Milano, dove dovrà rivolgersi a un suo confratello del

convento di Porta Orientale, mentre Agnese e Lucia andranno a Monza e

verranno accolte nel convento dove vive Gertrude, a cui sono presentate da un altro padre cappuccino. Entrambi andranno incontro a varie vicissitudini, in

quanto Renzo verrà coinvolto nei tumulti del giorno di S. Martino e dovrà

fuggire nel Bergamasco (XII ss.), mentre Lucia sarà rapita dai bravi

dell'innominato grazie proprio alla complicità di Gertrude, amante di Egidio

(XX). Nel frattempo don Rodrigo ottiene, grazie all'intervento del conte zio, che

Cristoforo sia trasferito a Rimini, dove il frate si recherà in ossequio al voto di

obbedienza, e da qui si porterà a Milano dopo lo scoppio della peste, per

accudire gli ammalati nel lazzaretto: in questo luogo di sofferenza ritroverà

Renzo che è in cerca di Lucia (XXXV ss.) e alla fine scioglierà il voto di castità

che Lucia aveva pronunciato la notte in cui era prigioniera al castello

dell'innominato. La notizia della sua morte a causa della peste verrà data a

Lucia dagli altri cappuccini del lazzaretto (XXXVII). Curiosamente, nel Fermo e Lucia era dapprima indicato col nome di padre

Galdino (I, 3-4), poi il nome mutava in Cristoforo da Cremona (I, 4) e ciò

avvalora l'ipotesi in base alla quale Manzoni si sarebbe ispirato alla figura storica di Cristoforo Picenardi, padre cappuccino originario di Cremona e

vissuto agli inizi del XVII secolo, dalla giovinezza alquanto turbolenta (come il

Lodovico manzoniano) e che prestò la sua opera di assistenza ai malati nel

lazzaretto di Milano, dove morì anch'egli di peste. Il nome di Galdino nella

redazione definitiva sarà invece attribuito al laico cercatore delle noci, che nel

Fermo si chiamava fra Canziano (e compariva in quell'unico episodio).

Questi i capitoli in cui compare:

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Cap. III

Cap. IV

Cap. V

Cap. VI

Cap. VII

Cap. VIII

Lucia spiega di avergli raccontato in confessione delle molestie di don

Rodrigo. La giovane chiede a fra Galdino di farlo venire al più presto

da loro.

Si reca di buon mattino alla casa di Agnese e Lucia. Con un lungo flashback, ci vengono narrate le sue origini: Lodovico, figlio di un

mercante, uccide in duello un nobile e in seguito decide di farsi frate, ricevendo tuttavia il perdono del fratello dell'ucciso e, in pegno

dell'avvenuta riconciliazione un pezzo di pane che conserva. Alla fine del capitolo giunge alla casa delle due donne.

Ascolta da Agnese e Lucia il resoconto dell'accaduto, quindi le consola e riflette sul da farsi. Giunto Renzo, lo rimprovera e lo esorta a non

farsi giustizia da sé. Va al palazzo di don Rodrigo per affrontare il

signorotto e viene accolto al banchetto, durante il quale c'è una

disputa cavalleresca. Chiamato a fare da arbitro, risponde che

secondo lui non dovrebbero essersi sfide né duelli, suscitando l'ilarità

del conte Attilio. Assiste in silenzio alle altre chiacchiere dei

commensali, finché il padrone di casa si apparta con lui in un'altra

sala.

Parla con don Rodrigo al suo palazzo, tentando dapprima di farlo recedere dai suoi propositi in modo diplomatico, poi esplodendo di

rabbia e accusando apertamente il signorotto, che lo caccia in malo modo. Prima di uscire, viene avvicinato da un anziano servitore che

ha informazioni da rivelargli e gli promette di raggiungerlo l'indomani al convento. Alla fine il frate giunge alla casa di Agnese e Lucia.

Riferisce a Renzo, Agnese e Lucia l'infelice esito del suo colloquio con

don Rodrigo ed esorta nondimeno a confidare nella Provvidenza, del

cui intervento afferma di avere già prova. Dice che il giorno seguente

non potrà venire in paese e prega Renzo di raggiungerlo al convento,

dove lui dovrà attendere il servitore di don Rodrigo, oppure di

mandare lì una persona fidata. Se ne va e si affretta a tornare al

convento prima di notte. Benché non venga narrato, ci viene fatto

capire che il servitore di don Rodrigo lo informa del suo piano per rapire Lucia e che lui in seguito esorta Menico a dare l'avviso ai suoi

protetti.

Attende a tarda sera al convento l'arrivo di Renzo, Agnese e Lucia, rallegrandosi di vederli tutti e tre sani e salvi. Li fa entrare nel

monastero, discutendo col laico sagrestano fra Fazio che trova irregolare la presenza delle due donne (lo mette a tacere con la frase

Omnia munda mundis, "tutto è puro per i puri"). Informa i tre dei

piani di don Rodrigo, dunque suggerisce loro di lasciare il paese e di

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Cap. XVIII

Cap. XIX

Cap. XXXV

Cap. XXXVI

Cap.

XXXVII

rifugiarsi altrove (le due donne a Monza, Renzo a Milano). Consegna loro delle lettere da presentare a frati cappuccini una volta giunti a

destinazione e prende in consegna le chiavi delle rispettive abitazioni.

Dà loro indicazioni su come raggiungere un barcaiolo che li porterà al

di là del lago e un barocciaio che li accompagnerà a Monza con un

calesse. Si congeda dai tre con commozione e confidando nella Provvidenza divina.

Apprende con preoccupazione che Renzo è ricercato dalla giustizia in

seguito al tumulto di S. Martino, quindi scrive al padre Bonaventura

per avere ragguagli (il cappuccino non saprà dirgli nulla). Accerta che

Renzo è al sicuro nel Bergamasco e informa Agnese e Lucia tramite un

pesciaiolo di Pescarenico. È costretto a lasciare il convento per le

trame del conte zio.

Viene chiamato dal padre guardiano del convento di Pescarenico, che lo informa dell'ordine da parte del padre provinciale di partire subito

alla volta di Rimini. È rammaricato all'idea di lasciare i suoi protetti,

ma confida nell'aiuto di Dio e accetta il comando con serena

ubbidienza, chinando la testa di fronte al superiore. Raccoglie le sue cose, incluso il "pane del perdono" avuto dal fratello dell'uomo ucciso,

e lascia il convento.

Ritrova Renzo al lazzaretto di Milano, durante la peste, quando il

giovane vi si è introdotto in cerca di Lucia: viene spiegato che il frate,

rimasto sino allora a Rimini, allo scoppio dell'epidemia ha chiesto di

essere mandato a curare gli appestati e la richiesta è stata accolta,

anche per la sopravvenuta morte del conte zio. Apprende da Renzo

delle traversie del giovane e di Lucia, rammaricandosi di aver mandato la giovane a Monza. Suggerisce a Renzo di cercare la

ragazza nella processione dei guariti e in alternativa di accedere al

quartiere delle donne. Rimprovera aspramente Renzo quando esprime propositi di vendetta verso don Rodrigo e poi gli mostra il nobile

agonizzante, chiedendogli di pregare per lui. Si separa da Renzo.

È raggiunto da Renzo mentre assiste un moribondo, quindi è

informato da lui che Lucia è viva e guarita, ma anche dell'impedimento

del voto, che per il giovane non vale. Afferma di dover parlare con

Lucia, quindi chiede a Renzo di accompagnarlo da lei, non prima di essere andato a sincerarsi delle condizioni di don Rodrigo. Raggiunge

Lucia e le chiede del voto, che poi scioglie in quanto la promessa è

nulla. Si congeda dai due promessi, consegnando loro il "pane del perdono" dicendo di mostrarlo ai figli che avranno e di allevarli nella

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4) L'innominato

È il potente bandito cui si rivolge don Rodrigo perché faccia rapire Lucia dal

convento di Monza in cui è rifugiata, cosa che l'uomo ottiene grazie all'aiuto di

Egidio, suo complice e amante della monaca Gertrude: in seguito a una crisi di

coscienza e all'incontro decisivo col cardinal Borromeo giunge a un clamoroso

pentimento, decidendo così di liberare la ragazza prigioniera nel suo castello e

di mandare a monte i piani del signorotto, che dovrà successivamente lasciare

il paese e andare a Milano. L'autore non fa mai il suo nome e infatti lo indica

sempre col termine "innominato", dichiarando di non aver trovato documenti

dell'epoca che lo citino in maniera esplicita, tuttavia la sua figura è chiaramente

ispirata al personaggio storico di Francesco Bernardino Visconti, noto bandito

vissuto tra XVI e XVII secolo e passato alla storia per la sua vita turbolenta e criminosa, salvo poi convertirsi ad opera proprio del cardinal Federigo. Manzoni

conferma tale identificazione in una lettera a Cesare Cantù, dove allude al

feudatario di Brignano Ghiaradadda come al personaggio del romanzo (in esso

finzione e realtà sono abilmente mescolati, tratto comune a tutte le figure

storiche che appaiono nelle vicende). Viene introdotto a partire dal cap. XVIII, quando don Rodrigo accarezza l'idea

di rivolgersi a lui per tentare il rapimento di Lucia dal convento della "Signora" (obiettivo troppo al di fuori della sua portata), mentre la sua storia passata e

un dettagliato ritratto del personaggio vengono riportati dall'autore nella seconda parte del cap. XIX, quando il signorotto parte alla volta del suo

castello. Come personaggio vero e proprio entra in scena nel cap. XX, allorché

accetta da don Rodrigo l'incarico di far rapire Lucia, anche se ci viene mostrato

già preda di rimorsi e rimpianti sulla sua vita scellerata che preludono al

pentimento e alla conversione dei capp. seguenti. Viene descritto come un

uomo di alta statura, bruno, calvo, con pochi capelli ormai bianchi e il volto

rugoso che dimostra più dei suoi sessant'anni, anche se il suo contegno e

l'atteggiamento risoluto testimoniano una vigoria fisica e un'energia che

sarebbero straordinari in un giovane. L'autore lo presenta come un bandito feroce e spietato, che accetta incarichi sanguinosi da mandanti anche

prestigiosi e che per questo è circondato da una fama sinistra che incute

16

terrore in tutti quelli che hanno a che fare con lui: i vari signori e tirannelli

locali che vivono nel territorio che controlla (una zona a cavallo del confine tra

Milanese e Bergamasco, dove è situato il suo castello e dove vive circondato da

bravi) devono scendere a patti con l'innominato e diventare suoi amici, dal momento che i pochi che hanno cercato di opporsi sono stati uccisi o costretti

ad andarsene. Spesso l'uomo accetta di aiutare degli oppressi vittime delle prepotenze dei nobili, il che lo rende esecutore di quella giustizia che lo Stato

corrotto e inefficiente non è in grado di assicurare ai deboli; la sua figura

acquista dunque una sorta di imponenza tragica e di grandiosa malvagità che

lo rendono uno dei personaggi più interessanti del romanzo, specie se

accostato a don Rodrigo che, al suo confronto, appare come un individuo ben

più modesto e mediocre, anche perché l'innominato si compiace della sua

reputazione famigerata e si propone come un nemico pubblico delle leggi e di

ogni autorità costituita, mentre il signorotto ricerca continuamente l'appoggio

della giustizia e degli amici potenti, mostrando in più di un caso il timore delle

conseguenze delle sue malefatte (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo).

L'intervento dell'innominato nelle vicende del romanzo è del resto decisivo,

poiché con la liberazione di Lucia i disegni di don Rodrigo vanno a monte e il

bene inizia a prevalere sul male, mentre la sua clamorosa conversione diventa

un esempio della misericordia divina che è anche tra le pagine più celebri del

romanzo, nonché una vicenda umana di caduta e redenzione simile a quella di

altri personaggi manzoniani, soprattutto padre Cristoforo (convertitosi

anch'egli dopo essersi macchiato di un omicidio e dopo una giovinezza inquieta in parte simile a quella del bandito). In seguito alla conversione l'innominato

tiene con sé solo i bravi che accettano la sua nuova vita, mentre egli va in giro

senz'armi e si propone come un difensore di deboli e oppressi, non però con i

metodi della violenza usati in passato; gli antichi nemici rinunciano a vendicare

i torti subìti per rispetto e perché ancora intimoriti da lui, mentre la pubblica

autorità non prende nei suoi riguardi alcun provvedimento, specie perché le sue

parentele altolocate ora gli valgono una protezione prima solo accennata. Egli

mantiene una corrispondenza col cardinal Borromeo, l'artefice in qualche modo del suo ravvedimento, e fa avere per il suo tramite cento scudi d'oro ad

Agnese come risarcimento per il male fatto alla figlia, che la donna accetta e di

cui manda la metà a Renzo che nel frattempo si è nascosto nel Bergamasco; in

occasione poi della calata dei lanzichenecchi (capp. XXIX-XXX) il suo castello offre un sicuro rifugio alle popolazioni che hanno dovuto lasciare le loro case

per evitare i saccheggi, tra cui anche don Abbondio, Perpetua e Agnese, che si

trattengono presso di lui poco meno di un mese. In seguito non viene più

nominato e ignoriamo dunque in quali circostanze sia avvenuta la sua morte.

Il personaggio era protagonista già del Fermo e Lucia, in cui però era chiamato

Conte del Sagrato e dove la sua storia si arricchiva di particolari macabri come

quello, celebre, dell'omicidio di un uomo sul sagrato di una chiesa (fatto che

17

dava ragione del suo nome, cfr. il testo): il suo colloquio con don Rodrigo era

descritto in modo stucchevole e con molti termini spagnoleggianti usati dal

signorotto (cfr. il brano Il Conte del Sagrato e don Rodrigo), mentre nei

Promessi sposi il colloquio tra i due è riassunto in un sintetico discorso

indiretto, inoltre durante la descrizione del suo pentimento e del suo tormento

interiore era inserito il ricordo di un incontro avvenuto, da adolescente, col giovane Federigo Borromeo, che risultava alquanto forzato e di sapore fin

troppo "agiografico" (infatti esso è stato eliminato dalla versione definitiva del

romanzo). Nella prima redazione, inoltre, la sua morte per la peste veniva

ricordata nel capitolo conclusivo del romanzo, mentre nelle successive edizioni non se ne fa cenno (cfr. il brano Il finale della storia).

Questi i capitoli in cui compare:

18

Cap.

XVIII

Cap. XIX

Cap. XX

Cap. XXI

Cap.

XXII

Cap. XXIII

Cap.

XXIV

Viene citato in modo allusivo come un personaggio sinistro a cui don

Rodrigo medita di rivolgersi per riuscire nella sua impresa, anche se il signorotto ha molti dubbi a coinvolgere un uomo tanto temuto e

pericoloso.

Viene narrata la sua vita passata e ne viene fatto il ritratto, come di

un bandito potente e spietato che si fa esecutore di delitti su mandato altrui e vive in un castello posto al confine tra Milanese e Bergamasco:

costretto in gioventù a lasciare lo Stato, vi era poi rientrato in spregio

della legge e aveva iniziato una nera trama di omicidi e assassini, circondandosi di una fama sinistra. Don Rodrigo, accompagnato dal

Griso e da quattro bravi, si reca al suo castello.

Riceve la visita di don Rodrigo che gli chiede aiuto per rapire Lucia e

accetta, benché assalito da molti dubbi. Incarica il Nibbio di recarsi a

Monza per contattare Egidio e, poco tempo dopo, riceve le istruzioni

su come organizzare il rapimento. Dà ordine al Nibbio di compiere il

rapimento, quindi attende con crescente inquietudine l'arrivo di Lucia al castello. Ordina alla vecchia serva di accogliere la giovane e di

portarla nella sua stanza, facendole coraggio.

Attende l'arrivo della carrozza con Lucia, quindi si apparta col Nibbio che gli fa il suo rapporto: il bravo dice che Lucia gli ha fatto

compassione, il che induce il bandito a voler vedere la prigioniera. Va

nella stanza dove è custodita dalla vecchia e Lucia lo supplica di

liberarla, al che lui, toccato, dice solo "domattina". Tornato nella sua

stanza, trascorre una terribile notte insonne in cui è preda dei rimorsi

e della disperazione, sfiorando anche l'idea del suicidio; verso l'alba,

sente uno scampanio e vede da una finestra i fedeli che accorrono a

frotte dal cardinal Borromeo, per cui è preso dalla curiosità di saperne

di più e incarica un bravo di informarsi in proposito.

Decide di recarsi dal cardinal Borromeo e, dopo aver fatto visita alla

stanza in cui si trova Lucia, lascia il castello. Giunto in paese, va alla casa del curato e qui si rivolge al cappellano crocifero, per chiedere

udienza dal cardinale.

Ha un drammatico confronto col cardinal Borromeo, nel corso del quale prende coscienza del male commesso e si pente,

abbandonandosi a un pianto disperato. È consolato dal cardinale e gli

rivela il rapimento di Lucia, dicendosi pronto a liberarla. Si reca in

seguito al suo castello in compagnia di don Abbondio, presente fra i parroci in visita al cardinale e a cui il prelato ha affidato il compito di

19

Cap.

XXVI

Cap. XXIX

Cap. XXX

consolare Lucia, e della moglie del sarto del paese. Giunge al castello con la piccola comitiva.

Libera Lucia, chiedendole perdono per il male commesso. Torna al

vicino paese insieme a don Abbondio e alle due donne, poi raggiunge il cardinal Borromeo alla fine delle funzioni. Pranza col prelato e si

intrattiene con lui in un lungo colloquio. Torna al suo castello e

comunica ai bravi l'avvenuta conversione, intimando a tutti quelli che non condividono la sua scelta di andarsene. Va nella sua stanza e

prega, quindi si mette a letto e dorme profondamente.

Fa avere ad Agnese, tramite il cardinal Borromeo, cento scudi d'oro come risarcimento del male compiuto a Lucia e fa sapere alla donna

con una lettera che potrà recarsi al suo castello in caso di necessità.

Viene descritta la sua vita dopo la conversione: tutto dedito a fare del bene al prossimo, ha messo al bando ogni forma di violenza e gira

disarmato, ricevendo l'ammirazione degli umili e dei potenti, compresi gli antichi complici. All'arrivo dei lanzichenecchi ha trasformato il suo

castello in un rifugio sicuro per tutti coloro che vogliono cercarvi ricovero.

Accoglie al suo castello don Abbondio, Agnese e Perpetua, giunti lì dal

paese in cerca di rifugio dai lanzichenecchi. Vigila incessantemente

affinché la vita nella fortezza non sia turbata da incidenti ed esce

sovente in perlustrazione al comando di un drappello di armati.

Giunge in soccorso di un paesetto preso d'assalto dai mercenari, mettendoli in fuga. Prima della partenza di Agnese, le regala un

corredo di biancheria e del denaro, quindi le chiede di ringraziare Lucia per le preghiere che la giovane certamente rivolge a Dio per la sua

anima.

20

5) Lucia Mondella

È la protagonista femminile della vicenda, la promessa sposa di Renzo che

subisce le molestie di don Rodrigo e le cui nozze vengono impedite dal

signorotto: compare per la prima volta alla fine del cap. II, quando Renzo la raggiunge e la informa del mancato matrimonio, dopo aver costretto don

Abbondio a parlare circa le minacce ricevute dai bravi. È una giovane di circa

vent'anni, unica figlia di una vedova (Agnese) con la quale vive in una casa

posta in fondo al paese: ha lunghi capelli bruni ed è dotata di una bellezza

modesta, che non giustifica una passione morbosa da parte di don Rodrigo (il quale infatti ha deciso di sedurla per una sciocca scommessa col cugino Attilio)

e che spiegherà la delusione dei nuovi compaesani quando i due sposi si

trasferiranno nel Bergamasco, alla fine del romanzo. Viene descritta come una ragazza molto pia e devota, ma anche assai timida e pudica sino all'eccesso,

tanto che si imbarazza e arrossisce nelle più diverse occasioni: passiva e

alquanto priva di spirito di iniziativa, viene trascinata nel tentativo di

"matrimonio a sorpresa" dalle minacce di Renzo, che promette in caso contrario di fare una pazzia; in seguito, quando si trova prigioniera nel castello

dell'innominato, pronuncia il voto di castità che costituirà un grave ostacolo al

ricongiungimento dei due promessi e che verrà sciolto alla fine del romanzo da

padre Cristoforo. Quest'ultimo è il confessore di Lucia e la giovane ripone nel

frate cappuccino una grande fiducia, tanto che inizialmente rivela solo a lui di

essere stata importunata da don Rodrigo. Lucia è il personaggio che forse più di

ogni altro ha fede nella Provvidenza divina e anche per questo sembra

incapace di serbare ogni minimo rancore, persino nei confronti del suo odioso

persecutore (è dunque un personaggio statico, a differenza di Renzo che

compie un percorso di maturazione all'interno della vicenda). È anche il

personaggio che interagisce con figure di potenti, quali Gertrude, l'innominato, il cardinal Borromeo, don Ferrante e donna Prassede. Il suo nome allude al

candore della persona, nonché alla martire siracusana che preferì farsi accecare

piuttosto che darsi alla prostituzione, così come il cognome (Mondella) rimanda

21

alla sua purezza e castità. Curiosamente, nel Fermo e Lucia era dapprima

indicata col nome di Lucia Zarella (I, 1), quando i bravi intimavano a don Abbondio di non celebrare le nozze, poi la giovane viene chiamata Mondella

come nella redazione definitiva (II, 8).

Per approfondire: G. Bàrberi Squarotti, Il conte Attilio; A. Moravia, Renzo e

Lucia; V. Spinazzola, La reticenza di Manzoni verso l'amore. Questi i capitoli del romanzo in cui compare:

22

Cap. II

Cap. III

Cap. IV

Cap. V

Cap. VI

Cap. VII

Cap. VIII

Cap. IX

Cap. X

Mentre si prepara per le nozze, a casa sua, viene avvertita dalla

fanciulla Bettina che Renzo è tornato e le vuole parlare. Il giovane

le rivela che don Rodrigo ha mandato a monte le nozze e la cosa la sconvolge. Rifiuta di dare subito spiegazioni a Renzo e manda via

le donne, adducendo come scusa una malattia del curato.

Racconta a Renzo e Agnese delle molestie subìte da don Rodrigo e

della scommessa tra lui e il conte Attilio. Dà a fra Galdino una gran

quantità di noci per la questua, quindi gli chiede di far venire da

loro padre Cristoforo prima possibile. Esorta Renzo a non nutrire

propositi vendicativi verso Don Rodrigo.

Accoglie padre Cristoforo giunto a casa da lei e Agnese, di buon

mattino.

Scoppia a piangere quando padre Cristoforo le chiede cosa sia accaduto, mentre Agnese spiega ogni cosa al frate. Viene consolata

dal cappuccino, poi è sollevata quando Renzo recede dai suoi

propositi vendicativi verso don Rodrigo.

Si mostra incerta ed esitante quando Agnese propone lo stratagemma del "matrimonio" a sorpresa e obietta che la cosa non

è stata consigliata da padre Cristoforo. La madre le impone di non

dire nulla al frate quando questi torna dal palazzotto di don

Rodrigo.

Dopo la partenza di padre Cristoforo esorta a confidare nella Provvidenza e a rinunciare al sotterfugio del "matrimonio" a

sorpresa, ma poi (quando Renzo minaccia di uccidere don Rodrigo)

promette di andare dal curato. Il giorno dopo è molto inquieta per

la visita del Griso travestito da accattone e delle altre spie dei bravi. La sera, pur riluttante e impaurita, segue tutti gli altri fino

alla casa di don Abbondio.

Si introduce insieme a Renzo, Tonio e Gervaso in casa di don Abbondio e tenta senza successo il "matrimonio a sorpresa" (la

giovane non fa in tempo a pronunciare la formula di rito, poiché il

curato le getta addosso il tappeto che copre lo scrittoio e le

impedisce di parlare). In seguito si allontana dalla casa insieme a Renzo e ad Agnese, mentre in seguito all'arrivo di Menico i tre

vanno al convento di Pescarenico. Qui padre Cristoforo rivela i piani

di don Rodrigo e suggerisce loro di lasciare il paese, perciò sale poi

sulla barca che li trasporta sulla sponda opposta del lago. Dice tra

sé addio al luogo natio, in una pagina famosa che chiude il capitolo.

23

Cap. XVIII

Cap. XX

Cap. XXI

Cap. XXII

Cap. XXIV

Cap.

XXV

Cap.

XXVI

Giunge a Monza insieme a Renzo e Agnese, poi, dopo la partenza del promesso sposo per Milano, lei e la madre si rivolgono al padre

guardiano dei cappuccini. Viene presentata a Gertrude, che accoglie lei e Agnese nel suo convento. La monaca le rivolge

domande insistenti e un po' morbose sulla sua vicenda, che la mettono in imbarazzo.

Parla in privato con Gertrude, che la mette in imbarazzo con molte

domande circa don Rodrigo e Renzo. In seguito è rassicurata da

Agnese circa le stranezze della "Signora", poiché secondo la madre

i nobili sono tutti un po' matti. Viene alloggiata con la madre nel monastero, dove le due svolgono le mansioni della figlia della

fattoressa.

È sconvolta dalla notizia che Renzo è ricercato dalla giustizia in

seguito al tumulto di S. Martino, anche se poi si consola sapendolo al sicuro nel Bergamasco. Stringe un rapporto di relativa

confidenza con Gertrude, anche se non le rivela nulla di Renzo e

prova vergogna a parlare del suo amore per lui. È preoccupata

all'idea che Agnese, in ansia per non aver più notizie da padre

Cristoforo, torni a casa, poi però si rassicura pensando che il

convento le offrirà un rifugio sicuro.

Viene incaricata da Gertrude di uscire dal convento per recare un'ambasciata segreta al padre guardiano del convento dei

cappuccini (in realtà è un inganno per consentire il suo rapimento).

Pur titubante, accetta il compito e lascia il chiostro, venendo poi

catturata dal Nibbio e altri bravi dell'innominato, che la trasportano in carrozza sino al castello del bandito. Durante il tragitto piange e

si dispera, pregando a lungo inutilmente i suoi rapitori di liberarla.

Giunge al castello dell'innominato e viene condotta dalla vecchia nella sua stanza, dove si rannicchia a terra in un angolo. Riceve la

visita dell'innominato e lo supplica di liberarla, ispirandogli compassione. Rimasta sola con la vecchia, rifiuta sia di mangiare

che di mettersi a letto e trascorre una notte in gran parte insonne,

tormentata da dubbi e angosce. Poco prima dell'alba si rivolge in preghiera alla Madonna e le chiede di farla tornare dalla madre in

cambio del voto di verginità, dopodiché si addormenta stremata.

Mentre dorme, l'innominato si reca nella stanza e parla con la

vecchia dicendole di non disturbarla e di lasciarla dormire in pace.

Si sveglia ed è confortata in modo goffo dalla vecchia. Arrivano don

Abbondio e la moglie del sarto, che la confortano e le dicono che

24

Cap. XXVII

Cap.

XXXVI

Cap. XXXVII

Cap.

XXXVIII

l'innominato vuole liberarla. Dà il suo perdono al bandito e lascia il

castello insieme alla donna, che le rivela il nome del suo rapitore.

Arriva alla casa del sarto e pranza insieme alla famigliola. Riabbraccia la madre Agnese, giunta su un baroccio dal suo paese,

e le racconta ogni cosa. Induce la madre a non provare odio per don Rodrigo. Riceve la visita del cardinal Borromeo e gli confessa

del "matrimonio a sorpresa".

È ospite assieme alla madre Agnese nella casa del sarto e della moglie. Si reca con la madre alla villa di donna Prassede, che

propone di ospitarla a Milano, dove sarà al sicuro dalle minacce di

don Rodrigo. Torna al paese insieme alla madre e viene festeggiata

da molte amiche e amici del villaggio.

Si trasferisce nella villa di donna Prassede, nella villa vicino al paese del sarto. Riceve qui la visita di Agnese, che la informa dei

cento scudi donati dall'innominato: la giovane rivela alla madre il voto pronunciato e le chiede di comunicare la cosa a Renzo con

una lettera, inviandogli anche la metà del denaro. Lascia la madre e

si prepara a seguire donna Prassede a Milano.

È in casa di donna Prassede, a Milano, dove apprende da Agnese

che Renzo è in salvo ed è stato informato del voto, per cui cerca di

dimenticarlo. Viene assillata da donna Prassede, che vuole ad ogni costo farle dimenticare Renzo descrivendolo come un delinquente,

al che la ragazza lo difende e dimostra di esserne ancora innamorata.

Si trova nella capanna del lazzaretto di Milano insieme alla mercantessa, quando vede arrivare Renzo. Ha con lui un

drammatico confronto in cui resiste disperatamente alle sue

preghiere di ignorare il voto di verginità fatto alla Madonna. Quando

Renzo esce, si abbandona al pianto e spiega ogni cosa alla

mercantessa. Renzo torna con padre Cristoforo, al quale spiega del

voto. Il frate scioglie la promessa e le dice che può sposare Renzo.

Si congeda dal religioso, dopo che questi ha benedetto lei e il suo promesso e ha donato loro il "pane del perdono".

Lascia il lazzaretto insieme alla mercantessa e trascorre in casa di

quest'ultima la quarantena. Viene a sapere dalla vedova che

Gertrude, accusata di orribili delitti, è stata imprigionata per ordine

del cardinal Borromeo. Apprende della morte per la peste di padre

Cristoforo e dei suoi antichi padroni, donna Prassede e don

Ferrante. Si prepara a tornare in paese.

Torna in paese con la mercantessa e viene accolta da Agnese e

25

Renzo. Si reca insieme alla madre e alla mercantessa da don Abbondio, nel tentativo di indurlo a celebrare le nozze, ma il curato

accampa nuovi pretesti. Apprende da Renzo la notizia della morte di don Rodrigo e dell'arrivo in paese del marchese suo erede.

Sposa Renzo e poi si reca al palazzotto del marchese, dove la madre gli vende le sue terre a un alto prezzo. Si trasferisce con

Renzo e la madre nel Bergamasco, stabilendosi nel paese di

Bortolo: qui i compaesani riservano commenti poco lusinghieri alla sua modesta bellezza. Si trasferisce con Renzo e la madre in un

nuovo paese, dove lo sposo ha acquistato un filatoio. Gli affari vanno bene e lei e Renzo hanno molti figli (alla primogenita viene

dato nome Maria). Elabora insieme a Renzo "il sugo di tutta la storia".

26

6) Perpetua

È la domestica di don Abbondio, ovvero una donna di mezza età che, avendo

passati i quarant'anni (età stabilita dai Sinodi come quella minima per vivere in

casa di un sacerdote) ed essendo rimasta nubile, accudisce il curato

alloggiando nella sua abitazione: il suo nome proprio è poi diventato, per

antonomasia, il nome comune che sino agli anni Cinquanta del XX secolo ha designato la domestica del sacerdote. Compare nel cap. I, quando il curato

torna a casa in seguito all'incontro coi bravi, ed è descritta come una donna

decisa ed energica, alquanto incline al pettegolezzo (è il motivo per cui don

Abbondio è inizialmente restio a rivelarle il ricatto subìto) e dalla battuta

salace, per cui rimprovera spesso al curato la sua debolezza e viltà. Ha un

carattere spigoloso e sfoga di frequente il suo malumore con il padrone, del

quale subisce peraltro "il brontolìo e le fantasticaggini" e con cui ha comunque

un rapporto basato su una sorta di ruvido affetto ricambiato (sicuramente è il

personaggio che meglio conosce il carattere e l'indole di don Abbondio). È un

personaggio di secondaria importanza, protagonista soprattutto di duetti

comici con il curato, anche se ha un ruolo decisivo nella vicenda in quanto è lei

a far capire a Renzo la verità sul matrimonio rimandato (II); la sua indole

ciarliera verrà poi sfruttata da Agnese, che la distrarrà la notte del "matrimonio

a sorpresa" (VIII) con chiacchiere riguardanti il fatto che è rimasta zitella. La

sua morte a causa della peste è rivelata dal curato a Renzo (XXXIII).

Curiosamente, nel Fermo e Lucia era inizialmente chiamata Vittoria (I, 1), per poi diventare Perpetua (I, 6) come nella versione definitiva.

Questi i capitoli in cui compare:

27

Cap. I

Cap. II

Cap. VII

Cap. VIII

Cap. XI

Cap.

XXIX

Cap. XXX

Cap. XXXIII

Accoglie don Abbondio di ritorno dalla passeggiata e reduce

dall'incontro coi bravi. Induce il curato a rivelarle tutto e gli consiglia di informare con una lettera il cardinal Borromeo. Promette a don

Abbondio di mantenere il segreto.

Durante un colloquio con Renzo, si lascia sfuggire inavvertitamente

che la causa del matrimonio rimandato è un "prepotente". In seguito

giura e spergiura con don Abbondio di non aver parlato. Informa la gente del paese che il curato ha la febbre.

Si affaccia da una finestra della casa di don Abbondio, quando a tarda

sera bussa Tonio. Lo rimprovera per l'ora inopportuna, poi gli dice di

aspettare mentre lei andrà dal curato a chiedergli se può riceverlo.

Informa don Abbondio dell'arrivo di Tonio, quindi risponde in modo

stizzito alla domanda del curato se si sia accertata della sua identità.

Uscendo di casa incontra Agnese, che la distrae con chiacchiere e

pettegolezzi relativi ai suoi matrimoni andati a monte in gioventù.

Tenta poi di tornare indietro a chiudere l'uscio, trattenuta da Agnese

con altre chiacchiere, finché non si sente il grido di don Abbondio e,

subito dopo, lo scampanio. Torna alla casa da cui vede uscire prima

Tonio e Gervaso, poi Renzo e Lucia che accusa con parole

minacciose. Raggiunge don Abbondio che, in seguito, la rimprovera per averlo lasciato solo durante il "matrimonio a sorpresa".

Nonostante le raccomandazioni di don Abbondio perché non parli,

rivela a molti in paese il tentativo di "matrimonio a sorpesa" tentato

da Renzo e Lucia la notte precedente.

Lascia il paese per sfuggire ai lanzichenecchi e si reca insieme a don

Abbondio e Agnese al castello dell'innominato. È ospite, assieme al

curato e alla donna, del sarto e della sua famiglia.

Si rifugia assieme a don Abbondio e Agnese nel castello dell'innominato, dove rimane meno di un mese. Tornata al paese,

trova la casa di don Abbondio devastata dai lanzichenecchi e viene accusata dal curato di non aver nascosto bene il denaro. Scopre

grazie a chiacchiere coi vicini che molti oggetti sono stati rubati da compaesani e spinge don Abbondio a farseli restituire, senza

successo.

Don Abbondio informa Renzo che è morta di peste.

7) Renzo Tramaglino

28

È il protagonista maschile della vicenda, il promesso sposo di Lucia le cui nozze

vengono mandate a monte da don Rodrigo: è descritto come un giovane di

circa vent'anni, orfano di entrambi i genitori dall'adolescenza e il cui nome

completo è Lorenzo. Esercita la professione di filatore di seta ed è un artigiano

assai abile, cosicché il lavoro non gli manca nonostante le difficoltà del mercato

(ciò anche grazie alla penuria di operai, emigrati in gran numero nel Veneto);

possiede un piccolo podere che sfrutta e lavora egli stesso quando il filatoio è

inattivo, per cui si trova in una condizione economica agiata pur non essendo

ricco. Compare per la prima volta nel cap. II, quando si reca dal curato la

mattina del matrimonio per concertare le nozze: è presentato subito come un

giovane onesto e di buona indole, ma piuttosto facile alla collera e impulsivo,

con un'aria "di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti"; infatti

porta sempre con sé un pugnale e se ne servirà indirettamente per minacciare

don Abbondio e costringerlo a rivelare la verità sul conto di don Rodrigo. In

seguito progetterà addirittura di assassinare il signorotto, ma abbandonerà

subito questi pensieri delittuosi al pensiero di Lucia e dei principi religiosi

(anche nel cap. XIII parlerà in difesa del vicario di provvisione, che i rivoltosi

vogliono linciare). Il suo carattere irascibile e irruento gli causerà spesso dei

guai, specie durante la sommossa a Milano il giorno di S. Martino quando, per

ingenuità e leggerezza, verrà scambiato per uno dei capi della rivolta e sfuggirà

per miracolo all'arresto; dimostra comunque in più di una circostanza un

notevole coraggio, sia durante i disordini citati della sommossa (in cui si adopera per aiutare Ferrer a condurre via il vicario), sia quando torna nel

ducato di Milano nonostante la cattura, al tempo della peste (a Milano si

introduce nel lazzaretto e in seguito si fingerà un monatto, cosa che gli

consentirà di trovare Lucia). È semi-analfabeta, in quanto sa leggere con

difficoltà ma è incapace di scrivere, cosa che gli impedirà di diventare factotum

alla fabbrica del Bergamasco dove trova lavoro dopo la sua fuga dal Milanese

29

(anche per questo conserva una certa diffidenza per la parola scritta, specie

per le gride che non gli hanno minimamente assicurato la giustizia). Rispetto a

Lucia si può considerare un personaggio dinamico, in quanto le vicende del

romanzo costituiscono per lui un percorso di "formazione" al termine del quale

sarà più saggio e maturo (è lui stesso a trarre questa morale nelle pagine

conclusive dell'opera). Nel Fermo e Lucia il suo personaggio aveva il nome di Fermo Spolino, mentre il nome Lorenzo era attribuito al sagrestano di don

Abbondio, poi chiamato Ambrogio. Per approfondire: A. Moravia, Renzo e Lucia; P. P. Pasolini, Renzo proiezione

nostalgica di Manzoni; E. Raimondi, Renzo eroe cercatore. Questi i capitoli del romanzo in cui compare:

30

Cap. II

Cap. III

Cap. V

Cap. VI

Cap. VII

Cap. VIII

Cap. IX

Cap. XI

Si reca da don Abbondio la mattina del matrimonio, ma il curato lo

convince a rimandare le nozze. Estorce da Perpetua alcune ammissioni, quindi costringe il curato a fare il nome di don

Rodrigo. Mentre torna a casa di Lucia progetta di uccidere il signorotto, ma poi rinuncia ai propositi delittuosi. Rivela tutto a

Lucia chiedendole spiegazioni sull'accaduto.

Dopo il racconto di Lucia è colto dall'ira e minaccia di vendicarsi di

don Rodrigo. Segue il consiglio di Agnese e si reca a Lecco, per

rivolgersi all'avvocato Azzecca-garbugli, ma questi cade in un equivoco e lo scambia per un bravo; dopo lo scioglimento

dell'equivoco il giovane viene cacciato in malo modo. Torna a casa di Lucia e riferisce l'esito infelice del colloquio, venendo accusato

da Agnese di non essersi saputo spiegare. Torna a casa propria sconsolato.

Giunge a casa di Agnese e Lucia, dove è già arrivato padre

Cristoforo e parla con lui. Manifesta il desiderio di farsi giustizia da

sé, per cui il frate lo rimprovera e lo esorta a confidare nell'aiuto di

Dio. Promette di non fare pazzie, tranquillizzando Lucia.

Accoglie con entusiasmo la proposta di Agnese riguardo al

"matrimonio a sorpresa" e poi si reca a casa dell'amico Tonio, invitandolo all'osteria. Propone a Tonio di fargli da testimone,

quindi l'amico accetta e propone a sua volta il fratello Gervaso come secondo testimone. Torna a casa di Lucia e Agnese, iniziando

a discutere con la ragazza che è restia a ricorrere al sotterfugio.

Dopo la visita di padre Cristoforo minaccia di uccidere don Rodrigo,

finché Lucia, spaventata, accetta di partecipare al "matrimonio a

sorpresa" (il giovane forse accentua ad arte la sua collera). Il

giorno dopo rifiuta di andare dal frate come lui gli aveva chiesto e

a sera va con Tonio e Gervaso all'osteria, dove ci sono i bravi inviati dal Griso. Raggiunge le due donne e tutti insieme vanno a

casa di don Abbondio.

Si introduce insieme a Lucia, Tonio e Gervaso in casa di don Abbondio e poi tenta, senza successo, il "matrimonio a sorpresa" (il

giovane riesce a pronunciare la formula di rito, ma non così Lucia).

In seguito cerca invano di calmare il curato, quindi si allontana

dalla casa insieme a Lucia e Agnese. Dopo l'arrivo di Menico si reca con le due donne al convento di Pescarenico, dove padre Cristoforo

li informa dei piani di don Rodrigo e suggerisce loro di lasciare il paese. Sale con le due donne sulla barca che li porta sull'altra

sponda del lago.

31

Cap. XII

Cap. XIII

Cap. XIV

Cap. XV

Cap. XVI

Cap.

XVII

Cap. XXVI

Cap. XXVII

Giunge a Monza insieme ad Agnese e Lucia, quindi si separa da loro e riparte alla volta di Milano.

Arriva a Milano il giorno di S. Martino, quando è iniziato il tumulto

per il pane. Entra in città e trova per terra farina e pagnotte,

raccogliendone alcune. Giunge al convento di Porta Orientale e chiede del padre Bonaventura cui lo ha indirizzato padre Cristoforo,

ma gli viene risposto che è assente ed è invitato ad attenderlo in

chiesa. Il giovane decide di andare a vedere più da vicino la

sommossa.

Assiste all'assalto al forno delle Grucce, senza tuttavia prendere

parte alla sommossa. Fa osservazioni circa l'inutilità di distruggere i

forni. Segue i rivoltosi quando vanno alla casa del vicario di

Provvisione.

Assiste all'assalto alla casa del vicario di Provvisione, quindi manifesta orrore al proposito della folla di uccidere l'uomo. Quando

arriva Ferrer in carrozza, si adopera per far scansare la folla e aiutarlo a raggiungere la casa. Assiste al salvataggio del vicario,

convinto che Ferrer gli sia debitore.

Arringa la folla in tumulto con un improvvisato discorso, attirando

l'attenzione di un poliziotto travestito. Costui si offre di condurlo in un'osteria, col reale proposito di portarlo in prigione, ma poi Renzo

entra nell'osteria della Luna Piena. Qui il giovane si ubriaca e finisce per rivelare il proprio nome al poliziotto, che poi se ne va.

Perde totalmente la lucidità e diventa lo zimbello degli avventori

della locanda.

Viene portato dall'oste a dormire, ormai completamente ubriaco. Il

mattino dopo è svegliato dal notaio criminale, venuto ad arrestarlo

con due birri: portato in strada, attira l'attenzione della folla che lo

libera. Si dà alla fuga, approfittando della confusione.

Si allontana dalla folla, riuscendo a lasciare Milano passando per

Porta Orientale. Inizia a camminare verso l'Adda, intenzionato a passare nel Bergamasco. Si ferma in un'osteria, dove chiede

indicazioni a una vecchia. Si rimette in marcia e giunge all'osteria di Gorgonzola, dove un mercante di Milano racconta del tumulto e

parla della sua fuga. Esce dall'osteria e riprende il cammino.

Ripensa alle insulse chiacchiere del mercante all'osteria e, in un soliloquio, difende le sue ragioni. Si addentra nella boscaglia in

cerca dell'Adda, finendo per smarrirsi e cadendo preda di angosce

32

Cap.

XXXIII

Cap.

XXXIV

Cap. XXXV

Cap. XXXVI

interiori. Trova il fiume e decide di pernottare in un capanno abbandonato. Il mattino dopo attraversa il fiume sulla barca di un

pescatore, poi si avvia verso il paese del cugino Bortolo. Raggiunge il cugino, che lo accoglie calorosamente e gli promette aiuto e

lavoro.

Viene avvisato da Bortolo che la giustizia della Repubblica Veneta è

sulle sue tracce, così è costretto a trasferirsi in un filatoio vicino

dove viene assunto da un conoscente del cugino, anch'egli di

origine milanese. Assume la falsa identità di Antonio Rivolta e,

anche per questo, non può essere rintracciato da Agnese.

Riesce finalmente a dare sue notizie ad Agnese, informandola della sua fuga e del fatto che deve restare nascosto. Riceve a sua volta

una risposta da Agnese, che gli manda cinquanta scudi d'oro (la

metà della somma ricevuta dall'innominato) e lo informa del voto di

Lucia: va su tutte le furie e risponde che non intende rassegnarsi

né toccare il denaro, certo del fatto che il voto sia nullo. La

corrispondenza prosegue in modo stentato.

Viene detto attraverso un flashback del suo ritorno al filatoio di

Bortolo, dopo l'inizio delle ostilità tra la Spagna e Venezia. Medita di

arruolarsi per la questione del voto, ma il cugino lo dissuade. Si ammala di peste e guarisce, quindi decide di tornare nel Milanese

per avere notizie di Lucia. Torna al suo paese e qui incontra Tonio, che non lo riconosce (l'uomo, ammalato di peste, ha la mente

annebbiata). Incontra don Abbondio, che lo informa del fatto che

Lucia è a Milano, Agnese è da suoi parenti a Pasturo, don Rodrigo

ha lasciato il suo palazzo. Il curato cerca di convincerlo ad

andarsene in quanto ricercato dalla legge, ma il giovane non gli dà

retta. Il curato gli elenca le molte vittime della peste, tra cui Perpetua. Va nella sua vigna e la trova in stato di penoso

abbandono, come la sua casa. Viene ospitato per la notte da un

vecchio amico d'infanzia, che gli dà preziose indicazioni sul nome

del casato di don Ferrante. Il giorno dopo riparte alla volta di

Milano, dove giunge il mattino dopo presso Porta Nuova.

Entra a Milano e si imbatte in un passante, che lo scambia per un untore. Dona i pani a una donna sequestrata in casa. Attraversa la

città appestata e assiste allo squallore e alla miseria dell'epidemia.

Assiste al commovente episodio della madre di Cecilia. Raggiunge

la casa di don Ferrante e apprende che Lucia, ammalata di peste, è

al lazzaretto. Viene nuovamente scambiato per un untore e rischia

33

Cap. XXXVII

Cap.

XXXVIII

il linciaggio della folla, da cui si salva saltando su un carro di

cadaveri dove è accolto dai monatti. Questi lo portano al lazzaretto,

dove il giovane si allontana e si prepara a entrare nel recinto, dopo

aver visto le miserie che già si raccolgono all'esterno.

Entra nel lazzaretto e inizia a cercare Lucia. Vede il recinto con i bambini orfani allattati da balie e capre. Ritrova padre Cristoforo e

gli racconta cosa è successo a lui e a Lucia. Il frate gli suggerisce di

cercare Lucia nella processione dei guariti e gli spiega come

entrare nel quartiere delle donne. Il giovane manifesta propositi di

vendetta verso don Rodrigo e il frate lo rimprovera duramente, poi gli mostra il signorotto agonizzante in una capanna. Prega per la

salvezza del suo persecutore, poi si separa dal frate e va verso la

cappella.

Assiste alla predica di padre Felice e alla processione dei guariti, senza trovare Lucia. Prega inginocchiato nella cappella, poi si

introduce nel quartiere delle donne. Trova a terra il campanello di un monatto e se lo attacca al piede, per avere libero accesso.

Riceve ordini da un commissario e pensa di toglierselo, ma nel farlo sente la voce di Lucia proveniente da una capanna. Entra e trova la

giovane in compagnia della mercantessa. Ha con la giovane un dialogo drammatico in cui cerca invano di farla desistere dal

proposito del voto. La lascia e torna da padre Cristoforo, cui spiega tutto. Accompagna il frate da Lucia e assiste mentre il religioso

scioglie il voto. Riceve la benedizione del cappuccino e il "pane del perdono" in dono da lui. Si congeda da padre Cristoforo e lascia il

lazzaretto.

Lascia il lazzaretto e torna al suo paese sotto un violento

temporale. Viene nuovamente ospitato dall'amico e va poi da Agnese a Pasturo, informandola di ogni cosa. Si reca ancora nel

Bergamasco da Bortolo, avendo ormai deciso di trasferirsi lì con

Lucia. Riporta Agnese a casa sua al paese e aspetta insieme a lei il ritorno di Lucia.

Accoglie Lucia al suo ritorno in paese con la mercantessa. Chiede a

don Abbondio di celebrare il matrimonio, ma il curato accampa

nuovi pretesti. Porta al curato la notizia della morte di don Rodrigo e dell'arrivo in paese del marchese suo erede. Sposa Lucia e poi si

reca al palazzotto del marchese, dove gli vende le sue terre a un alto prezzo. Si trasferisce con Lucia e Agnese nel Bergamasco,

stabilendosi nel paese di Bortolo: qui non si trova bene, per via di certe critiche che i compaesani riservano alla modesta bellezza

della sposa. Acquista un filatoio in società con Bortolo e si

trasferisce lì con la famiglia. Gli affari vanno bene e lui e Lucia

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hanno molti figli (alla primogenita viene dato nome Maria). Vuole che i figli imparino a leggere e a scrivere. Elabora insieme a Lucia

"il sugo di tutta la storia".

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8) Don Rodrigo

F. Gonin, Don Rodrigo

È il signorotto del paese di Renzo e Lucia, un aristocratico che vive di rendita e

abita in un palazzotto situato a metà strada tra il paese stesso e Pescarenico:

personaggio malvagio del romanzo, si incapriccia di Lucia e decide di sedurla in

seguito a una scommessa fatta col cugino Attilio, per poi intestardirsi in questo infame proposito al fine di non sfigurare di fronte agli amici nobili e, quindi, per

ragioni di puntiglio cavalleresco. A questo scopo manda due bravi a minacciare

il curato don Abbondio perché non celebri il matrimonio fra i due promessi

(cap. I), e in seguito tenta senza successo di far rapire la ragazza dalla sua

casa (VIII); si rivolgerà poi all'innominato per ritentare l'impresa quando la

giovane è protetta nel convento di Gertrude, a Monza, ma l'inattesa

conversione del bandito manderà a monte i suoi progetti criminosi (XX ss.).

Riesce a far allontanare padre Cristoforo da Pescarenico tramite l'intervento del conte zio, che esercita indebite pressioni politiche sul padre provinciale dei

cappuccini, e in seguito allo scandalo suscitato dalla conversione dell'innominato lascia il paese per trasferirsi a Milano, dove si ammala di peste

e viene ricoverato al lazzaretto. Qui morirà, lasciandoci nel dubbio se si sia

ravveduto o meno dei peccati commessi (ottiene comunque il perdono di Renzo, cui il nobile agonizzante viene mostrato da padre Cristoforo).

Viene presentato come un uomo relativamente giovane, con meno di

quarant'anni (ci viene detto nel cap. VI, quando è presentato il servitore che

informerà padre Cristoforo del progettato rapimento di Lucia) e di lui non c'è

una vera e propria descrizione fisica; appartiene a una famiglia di antico

blasone, come dimostra l'appartenenza ad essa del conte zio, membro del Consiglio Segreto e politico influente, anche se il nome del casato non viene

mai fatto. Non sappiamo molto del suo passato, salvo il fatto che il padre era

uomo di tempra ben diversa e Rodrigo, rimasto erede del suo patrimonio, si è

dimostrato figlio degenere. Alla fine della vicenda verrà introdotto il suo erede,

un marchese che entra in possesso di tutti i suoi beni e che, su suggerimento

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di don Abbondio, acquisterà le terre di Renzo e Agnese a un prezzo molto alto,

per risarcirli dei danni subìti e consentir loro di trasferirsi nel Bergamasco; in

seguito fa anche in modo che la cattura che pesa su Renzo venga annullata, dimostrando quindi di essere un galantuomo ben diverso dal suo defunto

parente.

Don Rodrigo è ovviamente un malvagio, ma mediocre e di mezza tacca, come

più volte è evidenziato nel romanzo: la sua persecuzione ai danni di Lucia non

nasce da un'ossessione amorosa, ma è più un atto di prepotenza sessuale di un

nobile su una povera contadina, oltretutto a causa di una sciocca scommessa

fatta col cugino; egli è il rappresentante di quella aristocrazia oziosa e

improduttiva che Manzoni critica spesso e che esercita soprusi sui deboli più

per passatempo che per crudeltà gratuita. Compare per la prima volta

direttamente solo nel cap. V, dopo che il suo nome è stato più volte evocato e

sempre associato a un'aura di terrore, mentre alla sua apparizione il

personaggio risulterà assai deludente. Don Rodrigo si mostra timoroso della

giustizia e delle leggi, il che lo porta a cercare l'appoggio e la complicità di

importanti magistrati come il podestà di Lecco, o di legali come il dottor

Azzecca-garbugli, mentre nutre un sincero terrore per tutto ciò che riguarda la

religione e l'aldilà, come è evidente nel colloquio con padre Cristoforo nel cap.

VI (la frase "Verrà un giorno..." pronunciata dal cappuccino col dito puntato

scatena la sua ira e tale gesto ricorrerà nel sogno del cap. XXXIII, quando il

nobile si scoprirà ammalato di peste). La piccolezza morale del personaggio è

sottolineata nella scena del cap. XI, quando il signorotto attende con

impazienza il ritorno dei bravi inviati a rapire Lucia e pensa tra sé alle possibili

conseguenze di quell'atto scellerato (soprattutto, pensa alla protezione che

l'amico podestà e il nome della famiglia potranno assicurargli) e la sua

grettezza emergerà poi nel confronto con l'innominato, personaggio che

dimostra una notevole statura morale tanto nella malvagità quanto nel

successivo ravvedimento (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo uomo

senza originalità e grandezza).

Nel Fermo e Lucia la fine del personaggio era decisamente diversa, poiché

Rodrigo (moribondo per la peste e in preda al delirio) balzava su un cavallo dopo aver visto Lucia e lo spronava al galoppo, cadendo rovinosamente e

morendo così sicuramente in disgrazia (nei Promessi Sposi, invece, la notizia

della sua morte giunge al paese solo nel cap. XXXVIII; si veda il brano La

morte di don Rodrigo).

Questi i capitoli in cui compare:

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Cap. III

Cap. V

Cap. VI

Cap. VII

Cap. XI

Cap.

XVIII

Cap. XIX

Cap. XX

Cap.

Lucia racconta di averlo incontrato per strada, in compagnia del conte Attilio, e del fatto che il nobile l'ha molestata con chiacchiere

volgari. Riferisce di averlo sentito parlare di una "scommessa" con l'altro signore.

Riceve la visita di padre Cristoforo nel suo palazzo, dove sta

pranzando con altri convitati. Si comporta in modo volgare

ricordando al frate il suo passato e coinvolgendolo nella disputa

cavalleresca tra Attilio e il podestà. Alla fine si alza da tavola e si

apparta col frate in una sala.

Parla con padre Cristoforo nel suo palazzo, dapprima eludendo i

suoi tentativi di farlo rinsavire e poi proponendo in modo provocatorio che Lucia venga a mettersi sotto la sua protezione. Il

frate lo accusa apertamente e il nobile lo caccia in malo modo.

Dopo il colloquio con padre Cristoforo cammina su e giù per la sala

del palazzo, osservando i ritratti alle pareti degli antenati, poi esce

per una passeggiata (nel corso di essa entra in una casa di tolleranza). A sera cena col conte Attilio, che lo punzecchia

riguardo alla scommessa e lui ribatte che S. Martino, ovvero il

termine fissato, non è ancora passato. Risponde alle altre

canzonature del cugino raddoppiando la posta e senza rivelare altri dettagli sui suoi piani. Il giorno dopo chiama il Griso e gli ordina di

rapire Lucia.

Attende con impazienza il ritorno del Griso e dei bravi inviati a rapire Lucia, poi apprende dal suo sgherro i dettagli circa il

fallimento dell'impresa. Ordina al Griso di raccogliere informazioni sull'accaduto, poi il giorno dopo informa il conte Attilio della cosa

ed è rassicurato da lui circa il fatto che non ci saranno

conseguenze. Apprende dal Griso che Renzo e Lucia sono fuggiti a

Pescarenico e, in seguito, che la giovane è a Monza e il suo

promesso sposo a Milano. Manda il Griso a Monza per raccogliere

ulteriori dettagli e pensa come far sì che Renzo sia accusato di

qualche reato e bandito dallo Stato.

Apprende con soddisfazione che Renzo è ricercato dalla giustizia in

seguito al tumulto di S. Martino e il Griso lo informa che Lucia è

nascosta nel convento di Gertrude a Monza. Sta per rinunciare

all'impresa a causa delle troppe difficoltà, ma il timore di essere

deriso dagli amici lo spinge a continuare. Viene informato da Attilio

che il conte zio farà trasferire padre Cristoforo da Pescarenico e

questo lo induce a chiedere l'aiuto dell'innominato.

38

XXV

Cap.

XXXIII

Cap. XXXV

Cap. XXXVIII

Parte alla volta del castello dell'innominato, a cavallo e in tenuta da caccia, scortato dal Griso e da quattro bravi.

Giunge al castello dell'innominato e parla da solo col bandito, cui

chiede aiuto per rapire Lucia dal convento di Monza. Riceve la risposta positiva dell'innominato e viene rapidamente congedato,

con la promessa di ricevere presto istruzioni su ciò che dovrà fare.

Riceve l'imprevista notizia della liberazione di Lucia in seguito alla

conversione dell'innominato, nonché del prossimo arrivo del

cardinal Borromeo in paese. Parte per Milano assieme al Griso e ad altri bravi, per non essere costretto a omaggiare il cardinale come

si aspetterebbe il conte zio.

Una sera, a Milano, durante l'epidemia di peste, torna a casa da una cena con amici e accusa i primi sintomi della malattia. Nella

notte fa un sogno angoscioso in cui rivede padre Cristoforo che punta contro di lui il dito, come nel cap. VI. Risvegliatosi, scopre di

avere la peste e prega il Griso di chiamare un medico compiacente che non denuncia i malati. Il Griso lo tradisce e lo consegna ai

monatti per derubarlo. I monatti lo portano privo di sensi al lazzaretto.

Al lazzaretto, padre Cristoforo lo mostra agonizzante e privo di

coscienza a Renzo, che prega per la salvezza della sua anima.

Renzo informa don Abbondio della sua morte e dell'arrivo in paese del marchese suo erede, fatto poi confermato dal sagrestano

Ambrogio.

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9) Federigo Borromeo

È il cardinale arcivescovo di Milano che raccoglie la confessione dell'innominato

e ne favorisce la clamorosa conversione, consentendo in tal modo la

liberazione di Lucia prigioniera nel castello del bandito e una positiva svolta

nella vicenda dei due promessi: la sua figura è dichiaratamente ispirata al

personaggio storico di Federigo Borromeo (1564-1631), il patriarca milanese cugino di S. Carlo e venerato nel XVII secolo come un santo egli stesso, di cui

Manzoni traccia una biografia nel cap. XXII che a molti interpreti è sembrata

una pagina di forte sapore agiografico (è innegabile che il romanziere ne offra

un ritratto positivo in cui prevalgono le luci, per quanto le ombre non vengano

del tutto sottaciute). Divenuto sacerdote nel 1580, il Borromeo fu creato

cardinale a Roma nel 1587 e usò i larghi proventi della sua casata per opere di

elemosina, fino a diventare arcivescovo di Milano dove, peraltro, poté recarsi

solo nel 1623 a causa dell'ostilità della Spagna. Difese il rito ambrosiano e

promosse la riforma del Conclave, mentre coltivò vari interessi culturali e

produsse molti scritti, nessuno dei quali significativo (la sua creazione più

importante fu la Biblioteca Ambrosiana, con l'annessa Pinacoteca). Durante la

peste del 1630 si segnalò per il suo zelo in favore dei malati, anche se credette

agli untori e promosse alcuni processi per stregoneria, fatti che contribuiscono

a macchiare almeno in parte la sua biografia (la sua figura è stata

recentemente oggetto di nuovi studi storici).

Il personaggio è introdotto per la prima volta nel cap. XXII, quando il cardinale

giunge in visita pastorale al paese presso il quale si trova il castello dell'innominato: il bandito, che ha trascorso una notte in preda alla

disperazione e ai rimorsi per il male commesso (Lucia è sua prigioniera dopo

che l'ha fatta rapire dal convento di Monza), sente uno scampanio e vede molti

paesani che corrono per vedere il prelato, al che è preso dal fortissimo

desiderio di incontrarlo. Si reca da solo a fargli visita e, dopo un intenso

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colloquio in cui emerge il sincero pentimento del bandito, quest'ultimo si

converte ed esprime il proponimento di liberare Lucia: il cardinale fa chiamare

don Abbondio, lì presente insieme a molti altri curati delle terre vicine, e lo

incarica di recarsi al castello in compagnia della moglie del sarto del paese per

portare via Lucia (XXIII). Nel frattempo dispone che Agnese venga condotta lì

e fa in modo che le due donne possano riabbracciarsi, per poi incontrarle e raccogliere sia le lagnanze di Agnese contro don Abbondio, sia la confessione di

Lucia circa il tentativo del "matrimonio a sorpresa", interessandosi anche alla

sorte di Renzo che, in seguito al tumulto di S. Martino, è ricercato dalla

giustizia (XXIV). In seguito si reca in visita al paese delle due donne poco

prima che queste rientrino (XXV) e in tale occasione rivolge i suoi rimproveri a

don Abbondio per la sua viltà, suscitando in lui un momentaneo pentimento

(XXV-XXVI). Dà un parere favorevole alla proposta avanzata da donna

Prassede e don Ferrante di ospitare Lucia nella loro casa a Milano, dove potrà

trovare protezione da don Rodrigo, infine riceve tramite il curato del paese

vicino al castello dell'innominato una lettera di quest'ultimo e cento scudi d'oro, che costituiscono una sorta di risarcimento ad Agnese e Lucia (il

cardinale consegna immediatamente il denaro alla madre della giovane). In seguito viene citato nel cap. XXVIII per sottolineare la sua opera

instancabile a favore degli affamati durante la terribile carestia del 1628-1629, e nei capp. XXXI-XXXII in cui si parla del suo impegno per la cura degli

ammalati in occasione dell'epidemia di peste del 1630: qui il romanziere non lesina elogi per l'assistenza caritatevole offerta dal prelato ai ricoverati nel

lazzaretto, anche profondendo parte delle sue rendite personali, ma non tace il fatto che il cardinale credette alle dicerie sugli untori, tanto da scrivere

un'operetta sulla peste (conservata nella Biblioteca Ambrosiana da lui fondata)

in cui la loro azione non veniva né confutata né confermata. È anche per questo

motivo che Borromeo si oppone inizialmente alla processione solenne con il

corpo di S. Carlo chiesta dalle autorità cittadine per placare il contagio, dal

momento che un simile concorso di folla darebbe troppe occasioni ai presunti

untori di spargere i loro veleni; alla fine acconsente alla cerimonia, che si

svolge l'11 giugno 1630 e che ha come unico risultato il propagarsi ancor più

rapido della pestilenza, col crescere dei decessi fin dal giorno seguente (la cosa

viene attribuita all'opera degli untori e non, com'è ovvio, alla concentrazione

della folla per le strade e al moltiplicarsi dei contatti). Il cardinale si spende

d'altra parte senza timori per il soccorso degli appestati e non esita, di quando

in quando, a visitarli personalmente al lazzaretto, mostrando un coraggio che è

testimoniato da tanti scritti di storici contemporanei: "Si cacciò insomma e

visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d'esserne

uscito illeso". Viene citato ancora nel cap. XXXVII, quando la mercantessa

informa Lucia che Gertrude è stata imprigionata in seguito ai suoi delitti proprio

per ordine del cardinal Federigo (il fatto corrisponde alla verità storica, poiché il

prelato scoprì la tresca della monaca di Monza e la fece internare in un

41

convento di Milano, dove questa si ravvide fino a morire in odore di santità).

Federigo Borromeo rappresenta nel romanzo l'unica eccezione fra tanti

personaggi potenti i quali, per malvagità, incuria o incompetenza, si macchiano

di gravi colpe, oltre ad essere praticamente l'unico esponente dell'alto clero a

comportarsi in modo schietto e a non compromettersi col potere politico e

aristocratico (è dunque una figura ben diversa dalla badessa del convento di

Monza che compiace i disegni perversi del principe padre di Gertrude, e del padre provinciale dei cappuccini che accetta di trasferire padre Cristoforo da

Pescarenico).

10) Gertrude, la monaca di Monza

È la monaca del convento di Monza dove si

rifugiano Agnese e Lucia in seguito alla fuga dal paese e al fallito tentativo di

rapire la giovane da parte di don Rodrigo: detta anche la "Signora", viene

introdotta nel cap. IX ed è presentata come la figlia di un ricco ed influente

principe di Milano, la quale grazie alle sue nobili origini gode di grande

prestigio e di una certa libertà all'interno del convento (è il padre guardiano del

convento dei cappuccini di Monza, cui le due donne si sono rivolte su

suggerimento di padre Cristoforo, a condurre Agnese e Lucia da lei e a

ottenere per loro la protezione della "Signora"). Il personaggio è chiaramente

ispirato alla figura storica di Marianna de Leyva (1575-1650), figlia di Martino

conte di Monza e costretta a farsi monaca dal padre contro la sua volontà:

entrata in convento tra le umiliate col nome di suor Virginia Maria (1591),

esercitò in seguito l'autorità feudale come contessa di Monza e fu perciò

chiamata la "Signora", mentre negli anni seguenti intrecciò una relazione con

Gian Paolo Osio (l'Egidio del romanzo), un giovane scapestrato già colpevole di

assassinio dal quale ebbe due figli (nel 1602 e 1603). Per tenere segreta la

relazione l'Osio si macchiò di tre nuovi delitti, ma venne arrestato e ciò permise

al cardinal Borromeo di scoprire la tresca, che fu confermata dalla stessa De

Leyva. L'Osio fu condannato a morte in contumacia (1608) e venne poi ucciso

in casa di un presunto amico che lo tradì, mentre la donna subì un processo

canonico (1607) e venne rinchiusa nella casa delle penitenti in Santa Valeria a

42

Milano, dove visse gli ultimi anni espiando le sue colpe e auto-infliggendosi

crudeli penitenze, fino a morire in odore di santità.

Manzoni modifica in parte la vicenda storica e la adatta alle esigenze narrative

del romanzo, anche se rivela fin dall'inizio la storicità del personaggio: la

Gertrude dei Promessi sposi è detta figlia di un gentiluomo milanese il cui

casato non è dichiarato in modo esplicito, anche se la città dove sorge il

convento è Monza (ciò in contrasto con la "circospezione" dell'anonimo, il quale

nella finzione indica il luogo con i consueti asterischi). È presentata come una

giovane di circa venticinque anni, dalla bellezza sfiorita e dal cui aspetto

traspare qualcosa di torbido e di morboso, unitamente al fatto che il suo abbigliamento non si conforma perfettamente alla regola monastica (la tonaca

è attillata in vita come un vestito laico e la donna porta i capelli neri ancora

lunghi sotto il velo, mentre dovrebbe in realtà averli corti). Il padre guardiano

dei cappuccini presenta Agnese e Lucia alla monaca (IX), la quale accetta di

ospitare nel convento la ragazza e la madre, che alloggeranno nella stanza

lasciata libera dalla figlia maritata della fattoressa e svolgeranno i servizi di cui

si occupava la ragazza; in seguito si apparta con Lucia e mostra una curiosità

morbosa per la sua vicenda, obbligandola a rivelare più precisi dettagli sulla

persecuzione subìta da don Rodrigo e sul suo rapporto con Renzo. L'eccessiva

libertà con cui Gertrude parla alla giovane suscita il suo stupore e Agnese, alla

quale Lucia confiderà in seguito la sua perplessità, concluderà col suo buon

senso di popolana che i nobili "hanno tutti un po' del matto" (X), invitando la

figlia a non dare troppo peso alla cosa.

La storia passata di Gertrude è narrata dall'autore con un ampio flashback, che

occupa gran parte dei capp. IX-X e descrive la sua vicenda come esemplare dei

soprusi che spesso nelle famiglie aristocratiche venivano esercitati sui membri

più deboli: il principe padre di Gertrude, nobile milanese e feudatario di Monza,

aveva deciso il destino della figlia prima ancora che nascesse, ovvero aveva stabilito che si facesse monaca per non intaccare il patrimonio di famiglia,

destinato interamente al primogenito. Dunque la piccola Gertrude viene educata fin da bambina inculcandole nella testa l'idea del chiostro (le vengono

regalate bambole vestite da monaca, viene spesso paragonata a una "madre

badessa"...), finché a sei anni viene mandata in convento per essere educata

come molte sue coetanee. All'inizio la ragazza è allettata all'idea di diventare

un giorno la madre superiora del monastero, ma nell'adolescenza inizia a

rendersi conto che non è quella la vita che si attende e, soprattutto, che

vorrebbe anche lei sposarsi e avere un'esistenza nel mondo come tutte le sue compagne. Decide allora di scrivere una lettera al padre, per comunicargli di

non voler dare il suo assenso alla monacazione, ma quando rientra a casa per trascorrere un periodo di un mese fuori dal convento (come prescritto dalla

43

regola canonica per le monacande), è accolta con freddezza da tutti i suoi

familiari e posta in una sorta di isolamento che ha il fine di forzarla ad accettare di prendere il velo. La giovane Gertrude un giorno scrive un biglietto

per un paggio verso cui nutre un'innocente passione, ma la carta viene

intercettata da una cameriera e finisce nelle mani del padre, il quale è abile nel

servirsi di questo "fallo" della ragazza per farla sentire terribilmente in colpa e

forzarla a dare il suo assenso, cosa che la poverina è indotta a fare per

debolezza, senso di colpa, sottomissione all'autorità del padre. Da quel

momento Gertrude è indotta in ogni modo dalla famiglia ad affrettare i passi

che la condurranno alla monacazione, supera il colloquio col vicario delle

monache che deve esaminarla per accertare la sincerità della sua vocazione e,

alla fine, prende il velo iniziando il suo noviziato nello stesso convento in cui

era stata educata, godendo di ampi privilegi e venendo trattata con rispetto e

considerazione come se fosse lei la badessa (carica che non può ancora

esercitare per la sua giovane età).

In seguito Gertrude diventa la maestra delle educande e sfoga su queste

ragazze il malanimo e l'insofferenza per il destino che le è stato imposto,

tiranneggiandole e diventando talvolta la loro confidente e la complice delle loro beffe; nei confronti delle altre monache prova un profondo astio, specie

per quelle che a suo tempo sono state complici del padre nel costringerla ad

accettare il velo. Gertrude vive in un quartiere isolato del chiostro e questo è

contiguo ad una casa laica, dove vive un giovane scapestrato di nome Egidio: questi un giorno osa rivolgere il discorso alla monaca e Gertrude risponde,

iniziando in seguito con lui una torbida relazione sessuale che l'autore riassume in modo molto sintetico, accennando per sommi capi anche alla sparizione di

una conversa che aveva scoperto il suo segreto e che, verosimilmente, è stata

assassinata da Egidio con la complicità di Gertrude (l'episodio era invece

narrato con abbondanza di particolari nel Fermo e Lucia: cfr. i brani Geltrude

ed Egidio, L'uccisione della suora). Quando Lucia e Agnese entrano nel

convento è trascorso circa un anno da questo avvenimento, e in seguito

Gertrude sembra affezionarsi sinceramente alla giovane e prendersi a cuore il

suo caso, offrendo dunque una protezione sicura dalla persecuzione di don Rodrigo. Il signorotto riesce tuttavia a scoprire il nascondiglio della ragazza

(XVIII) e in seguito chiede l'intervento dell'innominato (XX), il quale si rivolge

a sua volta proprio a Egidio che è suo compagno di scelleratezze: questi induce

Gertrude a fare uscire Lucia dal convento con un pretesto, affinché i bravi

dell'innominato possano rapirla e condurla al castello del potente bandito, e la

monaca obbedisce anche se la proposta le sembra spaventosa e l'idea di causare danni alla ragazza le riesce intollerabile. In seguito (XXXVII) Lucia

apprenderà dalla mercantessa più precisi dettagli sulla storia di Gertrude, in

particolare saprà che la donna è stata accusata di atroci delitti e rinchiusa su

ordine del cardinal Borromeo in un monastero a Milano, dove conduce una vita

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di volontari patimenti e sofferenze rispetto alla quale solo la morte potrebbe

essere peggiore.

Manzoni tratteggia una figura tragicamente solenne e fa di Gertrude uno dei

personaggi più affascinanti del romanzo, specie nel racconto dettagliato della

sua storia precedente la monacazione in cui dà prova di grande finezza e

introspezione psicologica, mentre nella vicenda della relazione con Egidio e del

delitto della conversa il racconto è decisamente più reticente, in accordo alla

poetica dell'autore che non vuole rappresentare il male in modo diretto o in

modi che possano risultare affascinanti e seducenti per il lettore (celeberrima,

sotto questo aspetto, la frase con cui è spiegato l'inizio della relazione con

Egidio: "Costui... un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose").

La vicenda di Gertrude è anche esemplare del male insito nel mondo del potere

e nella stessa condizione nobiliare, poiché l'imposizione del padre nasce da

motivi che riguardano il decoro aristocratico e la necessità di lasciare intatto il

patrimonio, mentre alla fine Gertrude è indotta ad accettare il velo pur di non

perdere quegli stessi privilegi nobiliari a cui è in fondo attaccata (il rifiuto

comporterebbe il ripudio da parte della famiglia e, dunque, l'ingresso in una

condizione sociale inferiore, per cui la giovane avrebbe la possibilità di sottrarsi

al suo destino ma vi si abbandona perché non ha la forza di ribellarsi alle

convenzioni della sua classe sociale).

11) Il dottor Azzecca-garbugli

È un avvocato che vive a Lecco ed è intimo amico di don Rodrigo, nonché suo

compagno di bagordi e complice delle sue prepotenze a cui trova spesso delle

scappatoie legali: è un personaggio secondario ed è descritto come un uomo

alto, magro, con la testa pelata, il naso rosso (ciò è dovuto probabilmente al

vizio del bere) e una voglia di lampone sulla guancia. Viene introdotto nel cap.

III, quando Agnese consiglia a Renzo di recarsi da lui per chiedere un parere

legale circa il sopruso subìto da parte di don Rodrigo, che ha minacciato don

Abbondio perché non celebrasse il matrimonio: la donna spiega al giovane che

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quello di "Azzecca-garbugli" è un soprannome (allude alla presunta capacità di

sbrogliare le questioni giudiziarie), mentre il vero nome dell'avvocato non viene mai fatto. Renzo si reca nel suo studio, descritto come un luogo

decadente che ispira un'impressione di trascuratezza, ed espone il suo caso, ma l'avvocato cade in un grossolano equivoco e scambia Renzo per un bravo,

spiegandogli poi come farà a tirarlo fuori dai guai (ovvero subornando

testimoni, minacciando le vittime e invocando la protezione dei potenti); in

questa occasione viene citata la grida datata 15 ottobre 1627 in cui sono previste pene per chi minaccia un curato, documento che diede a Manzoni

l'idea base per il romanzo. Quando Renzo fa il nome di don Rodrigo, l'avvocato va su tutte le furie e caccia via malamente il giovane, restituendogli i capponi

che aveva portato in dono e non volendo sentire ragioni. Renzo definirà poi il

legale "signor dottor delle cause perse" (cap. V), espressione divenuta in certo modo proverbiale a indicare un avvocaticchio di scarso valore.

Il personaggio ricompare nello stesso cap. V, fra i commensali che siedono alla

tavola di don Rodrigo nel suo palazzo, quando il padre Cristoforo si reca lì per

parlare al signorotto: l'avvocato è piuttosto brillo, col naso più rosso del solito,

e indossa il mantello nero che portavano gli uomini di legge; si schermisce in

modo goffo quando è chiamato in causa nella sciocca disputa cavalleresca che

oppone il conte Attilio e il podestà, e in seguito si produce in un brindisi

alquanto scomposto, elogiando la bontà del vino e la magnificenza del padrone

di casa in tempi di carestia. Nel cap. XI don Rodrigo medita di rivolgersi

all'Azzecca-garbugli per fare accusare Renzo di qualche reato, onde evitare che il giovane possa tornare dopo la fuga dal paese, mentre nel cap. XXV, dopo la

conversione dell'innominato e il fallimento dei piani di don Rodrigo, la gente del paese inizia ad additare l'avvocato e altri "cortigianelli suoi pari" come complici

del signorotto, per cui il dottore evita in seguito di uscire per un po'. La sua

morte viene menzionata nel cap. XXXVIII, col dire che la sua spoglia "era ed è

tuttavia a Canterelli", ovvero un cimitero vicino Lecco dove erano sepolte molte vittime della peste.

L'avvocato è presentato come un personaggio buffo e sgraziato, quasi un

carattere da commedia (e infatti il suo colloquio con Renzo nel cap. III è una

sorta di "commedia degli equivoci"), che rappresenta il decadimento e il

degrado della giustizia nel XVII secolo; è anche l'esempio di un vile cortigiano e

di un parassita che sfrutta don Rodrigo, mettendosi al servizio dei suoi propositi delittuosi.

12) Egidio

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È il giovane scapestrato che vive a Monza in una casa attigua al convento di

Gertrude, dedito a varie azioni criminali grazie anche all'appoggio di amici

potenti e che intreccia con la monaca una torbida relazione clandestina: viene introdotto nel cap. X, quando vede la giovane suora che passeggia in un cortile

interno del chiostro e, allettato anziché intimorito dalla malvagità dell'impresa,

ha il coraggio di rivolgerle il discorso. In seguito l'autore ci fa capire, in termini

molto reticenti, che i due uccidono una conversa che aveva scoperto la tresca amorosa e ne seppelliscono il corpo nel convento facendo credere che sia

fuggita attraverso una breccia nel muro dell'orto (il fatto era narrato con maggiori particolari, anche macabri, nel Fermo e Lucia: cfr. i brani Geltrude ed

Egidio, L'uccisione della suora). Nel cap. XX apprendiamo che Egidio è

compagno di scelleratezze dell'innominato, che si rivolge a lui per sapere come realizzare il rapimento di Lucia dopo che ha ricevuto l'infame incarico da don

Rodrigo: il giovinastro chiede a Gertrude di fare uscire con un pretesto la

giovane dal monastero e la monaca, pur riluttante e inorridita da tale richiesta, accetta di compiacerlo. Un suo sgherro segue Lucia dalla casa del suo padrone,

dopo che la giovane è uscita dal monastero, precedendola sulla via dove poi

finge di chiederle la strada per Monza per consentire ai bravi dell'innominato di

rapirla. In seguito Egidio non viene più nominato, neppure quando (nel cap.

XXVII) la mercantessa spiega a Lucia che i delitti di Gertrude sono stati

scoperti e che la monaca è stata imprigionata.

La sua figura è chiaramente ispirata a quella di Gian Paolo Osio (m. nel 1608),

giovane scellerato e assassino che ebbe una relazione con suor Virginia Maria de Leyva (la Gertrude del romanzo) e dalla quale ebbe due figli, prima di farla

complice di alcuni delitti: venne condannato a morte e riuscì a sfuggire alla

giustizia, per poi finire ucciso in casa di un amico in circostanze poco chiare. Nel romanzo ha un ruolo chiave ma poco sviluppato dal punto di vista

narrativo, dal momento che non pronuncia direttamente neppure una battuta e i suoi dialoghi con Gertrude vengono sommariamente riassunti dall'autore, in

coerenza col principio di evitare una rappresentazione troppo viva e realistica

delle vicende scabrose; non così era nel Fermo e Lucia, in cui la relazione tra

lui e la monaca veniva descritta con più ampi dettagli (anche riproducendo i

dialoghi dei due amanti) e la tresca vedeva coinvolte anche altre due suore

descritte come complici della relazione, nonché dell'assassinio di una terza

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suora che aveva scoperto il segreto e minacciava di rivelarlo (il delitto veniva

materialmente compiuto da una delle due, su ispirazione di Egidio). In seguito

Egidio convinceva Gertrude a far cadere Lucia nella trappola, promettendo di sbarazzarsi del cadavere della donna uccisa che lui aveva seppellito in una

cantina della sua casa, cosa che turbava oltremodo la "Signora" (il tutto era narrato con uno stile molto vicino al romanzo "nero" e d'appendice diffuso nella

letteratura europea del primo Ottocento).

13) Il Griso

È il capo dei bravi di don Rodrigo, al quale il signorotto affida incarichi delicati e

commissiona imprese rischiose, come quella di rapire Lucia nella prima parte

del romanzo: entra in scena nel cap. VII, quando si intrufola in casa di Lucia e Agnese travestito da mendicante per guardare in giro e curiosare, senza che

venga svelata la sua identità (in seguito l'autore spiegherà con un flashback che

l'uomo ha effettuato il "sopralluogo" in vista del tentativo di rapimento che si

svolgerà la sera stessa). Di lui non c'è una precisa descrizione fisica e del suo

passato ci viene spiegato che, dopo aver assassinato un uomo in pieno giorno,

si era messo sotto la protezione di don Rodrigo e aveva guadagnato l'impunità

grazie alle aderenze del nobile, per cui è diventato l'esecutore di tutte le

malefatte che gli vengono commissionate ("Griso" è certamente un

soprannome e in dialetto lombardo significa "grigio", con probabile allusione al carattere sinistro e tetro del personaggio). Viene presentato come uno dei

personaggi più odiosi del romanzo, pieno di untuoso servilismo nei confronti del

suo padrone e di una certa sicumera che però, alla prova dei fatti, non sempre

corrisponde alle sue reali capacità; infatti fallisce l'impresa di rapire Lucia la

"notte degli imbrogli" (VIII) e in seguito torna dal padrone con la coda tra le zampe (XI), venendo rimproverato per non aver mantenuto quanto aveva

promesso con tanta saccenteria. Reagisce con una certa titubanza all'ordine di don Rodrigo di recarsi a Monza per prendere informazioni circa il convento in

cui Lucia si è rifugiata, adducendo il motivo di una taglia che pende sulla sua

testa in quella città e attirandosi nuovi rimproveri del padrone, che lo definisce

un "can da pagliaio" (con allusione al suo poco coraggio); il bravo compie

comunque la sua missione e riferisce poi al nobile dettagli più precisi circa il

rifugio di Lucia (XVIII), mentre più avanti accompagna il padrone al castello

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dell'innominato (XIX-XX). Si accorge infine che don Rodrigo è ammalato di

peste (XXXIII) e promette di chiamare un medico per curarlo, mentre in realtà

si accorda con i monatti per far portare il padrone al lazzaretto e approfittare

della situazione per derubarlo: l'avidità lo spinge a prendere i vestiti di don

Rodrigo e a scuoterli per vedere se c'è del denaro, cosa che fa ammalare anche

lui di peste (il giorno dopo si sente male, è caricato dai monatti su un carro

dopo essere stato derubato a sua volta e qui muore prima di arrivare al

lazzaretto). Il modo assai sbrigativo con cui la sua figura esce di scena è

indicativo della bassezza morale e della piccolezza del personaggio, alla cui fine

l'autore dedica poche righe a metà del cap. XXXIII.