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L’Informazione 1 L Informazione Dicembre 2010 DIRETTORE LUCIANO MIRONE Distribuzione gratuita Periodico di attualità, varietà, sport e costume Feste, presepi, novene e ciaramelle... è Natale A un certo punto a Maletto cala la nebbia. Le case ri- schiarate dai lampioni si in- travedono appena, nell’aria si avverte l’aroma acre del fumo che esce dai camini. (Segue nelle pagg. 12 e 13) foto Francesco Mirone

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1 un certo punto a Maletto cala la nebbia. Le case ri- schiarate dai lampioni si in- travedono appena, nell’aria si avverte l’aroma acre del fumo che esce dai camini. (Segue nelle pagg. 12 e 13) DIRETTORE LUCIANO MIRONE Dicembre 2010 foto Francesco Mirone L’Informazione Dicembre 2010 Distribuzione gratuita

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Dicembre 2010 L’Informazione 1

L’InformazioneDicembre 2010 DIRETTORE LUCIANO MIRONE Distribuzione gratuita

P e r i o d i c o d i a t t u a l i t à , v a r i e t à , s p o r t e c o s t u m e

Feste, presepi, novenee ciaramelle... è Natale

A un certo punto a Maletto cala la nebbia. Le case ri-

schiarate dai lampioni si in-travedono appena, nell’aria si avverte l’aroma acre del fumo che esce dai camini.

(Segue nelle pagg. 12 e 13)

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IL FALLIMENTO DELLA POLITICAPer capire il fallimento di una classe politica, basta fare un “giro

turistico” per le nostre città – non tutte fortunatamente – e mettere insieme le varie scene che si presentano sotto i no-stri occhi. Il nostro “giro turistico” non può che iniziare da Catania, la città europea che detiene tutti i record negativi che si possa-no immaginare in merito a qualità della vita, criminali-tà minorile, bisogno di case, alfabetizzazione, traffico, di-spersione scolastica, impianti sportivi, strutture scolastiche, uso del casco sui motorini… A questo, negli ultimi anni, si sono aggiunti nuovi feno-meni che hanno contribuito oggettivamente a peggiorare il quadro desolante dell’ex “Milano del Sud”: quartieri rimasti al buio per mesi inte-ri, strade con voragini pauro-se, un Comune sull’orlo del dissesto finanziario, eccetera

eccetera eccetera. L’elenco è talmente lungo che un artico-lo di giornale non basterebbe. Basta fare un giro.

Poi spostatevi a Paternò e il quadro – sebbene con elementi diversi

– non cambia di molto per quanto riguarda scuole, stra-de, periferie, zona industriale, aree a verde, impianti sporti-vi, reddito pro capite, e anche in questo caso eccetera ecce-tera eccetera. Ma nell’ex “cit-tà delle arance rosse” (un’altra “ex” anche questa) c’è un ul-teriore elemento “decorativo” che contribuisce ad abbellire il paesaggio: la spazzatura, che in certi periodi dell’anno arri-va quasi al primo piano. Non che a Catania di spazzatura non ce ne sia, ma ancora il

capoluogo, sebbene afflitto da un problema endemico, non ha raggiunto i livelli sublimi di Paternò – comune che, al contrario del capoluogo, fa parte dell’Ato, altra preziosa “perla” partorita da una politi-ca seriamente pensosa dell’av-venire dei siciliani – dove lo scorso anno la Patrona sfilò in processione circondata da due ali di immondizia. A questo bisogna aggiungere la com-pleta “desertificazione” del centro storico, sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista commerciale. Provate a fare una passeggiata in un giorno qualsiasi in via Vitto-rio Emanuele o ai “Quattro Canti”, le zone nevralgiche dove, fino a un paio di anni fa, i paternesi facevano la pas-

seggiata o lo shopping. Oggi è una pena. Per oltre due anni queste zone sono state sbar-rate e considerate “off limits” per dei banali lavori. Con la conseguenza devastante che i cittadini hanno cambiato abi-tudini: un po’ come gli uccelli o i pesci migratori che, se il loro habitat viene modificato, cambiano rotta.

E dove sono emigrati i paternesi? Nella “città del tempo ritrovato”,

Etnapolis, la città virtuale che, con i suoi negozi, i suoi cinema, i suoi parrucchieri, le sue passeggiate, i suoi teatri, i suoi impianti sportivi ha so-stituito la città vera.

Terza tappa: Belpasso. Anche qui montagne di spazzatura per di-

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IL FALLIMENTO DELLA POLITICAL’Editoriale

versi periodi dell’anno, anche qui un panorama desolante socialmente, commercial-mente e, da un paio di anni, visivamente con quei capan-noni orrendi nelle aree agri-cole di pregio, ubicati soprat-tutto all’ingresso della citta-dina. Ormai anche a Belpas-so non si dice più “Vado in piazza”, ma “Vado al centro commerciale”. Ormai anche a Belpasso certe manifesta-zioni, un tempo considerate un “fiore all’occhiello”, non hanno come epicentro il cen-tro abitato ma il centro com-merciale. Ormai anche Bel-passo può essere considerato “ex” di qualcosa. Esempio? La Marcialonga, un tempo chiamata Belpasso-Etna (con quell’esercito festante e pit-toresco di partecipanti), oggi

parte da Etnapolis e “tran-sita” da Belpasso ppi cum-minazioni. I carri di Santa Lucia – simboli dell’identità belpassese – dopo l’apertura ufficiale che si effettua, come da tradizione, in piazza Um-berto la sera del 12 dicembre, successivamente dove vengo-no aperti? A Etnapolis! Che, a nostro modesto avviso, es-sendo per definizione un luo-go “commerciale”, non pos-siede l’anima culturale di una città con le sue tradizioni, la sua storia, i suoi personaggi, le sue opere d’arte. Cosa si è fatto per invertire la rotta? Cosa si è fatto per convoglia-re, non diciamo troppo, ma l’1 per cento del flusso di vi-sitatori che affolla Etnapolis (appena 4 chilometri da Bel-passo e Paternò)? Nulla. Ep-pure basterebbe valorizzare l’esistente, le nostre tipicità, la nostra cultura, le nostre tradizioni, i nostri prodot-ti per vincere questa scom-messa. Si è fatto esattamente l’opposto. Non sappiamo se per incapacità o per un calco-lo ben preciso. Così facendo si crea un solco, un’abitudi-ne che col tempo rischia di consolidarsi anche nella testa della gente.

Ultima chicca della serie: un bellissi-mo cortometraggio

(“Vecchio palmento”) rea-lizzato da Gianni De Luca e Nunzio Sambataro (due fra gli artisti più interessanti che Belpasso abbia prodotto ne-gli ultimi decenni), girato in un palmento del paese con un cast di attori interamen-te locali. Si immagina che – dopo il successo tributato questa estate al Taormina FilmFest – il “corto” venisse presentato al Teatro comu-nale “Nino Martoglio” o in un palmento della zona, ma-gari in collaborazione con l’Università, magari con una pubblicità degna dell’even-to, magari per fare un’opera-zione di recupero della me-moria. E invece dove viene proiettato? Naturalmente a Etnapolis. Perché? Perché il Comune non ha avuto quei pochi spiccioli per stampare i manifesti o per patrocinare la manifestazione. Dunque, un’Amministrazione muni-cipale che dovrebbe essere orgogliosa di appoggiare iniziative del genere, che dovrebbe fare di tutto per patrocinarle, si permette di snobbarle per farle presen-tare altrove. Chi scrive non ama particolarmente i centri commerciali, ma non inten-de demonizzarli. Ormai fan-no parte del mercato globale e quindi ci si deve convive-

re. Ma sono diventati trop-pi, stanno crescendo come funghi, stanno diventando invadenti. E ci stanno facen-do male. E noi siamo troppo abbagliati dalle loro luci fan-tasmagoriche per rendercene conto. Di fronte a un feno-meno così evidente, i politi-ci devono fare la loro parte senza consentire pericolose invasioni di campo.

Non è possibile che i Consigli e le Giun-te comunali, tradi-

zionalmente lente quando devono decidere sul Bene Comune delle loro città, diventino improvvisamen-te efficienti quando devono decidere un cambio di desti-nazione d’uso o devono ul-timare certe opere pubbliche perché deve essere inaugu-rato il centro commerciale. Se i nostri uomini politici rendono le nostre città invi-vibili con la spazzatura, con la cementificazione selvag-gia, con lavori che durano un’eternità, con il boicot-taggio della cultura, con uno sperpero pauroso di danaro pubblico, se non fanno nul-la per rendere accoglienti i centri storici e le periferie, se non portano turisti, se fanno di tutto per dirottare i cittadini altrove, hanno fal-lito in pieno ed è giunto il momento che ne traggano le conseguenze.

TRE CITTÀ, TRE DISASTRI:

CATANIA, PATERNÒ, BELPASSOdi Luciano Mirone

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LA CRISI NERAze e articoli da regalo: “A parte la crisi economica che c’è dappertutto, ho perso ol-tre il 90 per cento della clien-tela. Il problema è che dopo i lavori hanno fatto l’isola pe-donale. Questo poteva anda-re bene dopo quattro-cinque mesi di interruzione, ma non dopo due anni”.Rosario Lizzio, “Saro Liz-zio Abbigliamento”: “Negli ultimi anni abbiamo registra-to un calo del 60 per cento. Questo è dovuto ai lavori fatti qui davanti, la realizza-zione delle rete fognaria, del collettore e della pavimen-tazione. Il problema è che l’Amministrazione comunale non ha avuto la capacità di programmare queste opere: si faceva un lavoro. Come Con-fcommercio proponiamo la riapertura almeno nei giorni

feriali e l’isola pedonale il sa-bato e la domenica”.Giuseppe Fasone, “Coco-nuda” abbigliamento: “La crisi c’è e si vede, soprattutto da quando hanno chiuso la strada. Siamo in queste con-dizioni da tre anni. Ho perso più del 70 per cento. I clien-ti si sono spostati. Prima che chiudessero la strada riusciva-mo a fronteggiare il ciclone Etnapolis, ora assolutamente no. Ci sentiamo abbandona-ti”. Anonima. Titolare di un ne-gozio di abbigliamento: “La situazione è critica, il mio ne-gozio ha perso il 40 per cento di clienti”. Rosario Librizzi, titolare di “R.L. Cosmetici”: “L’Am-ministrazione sta facendo in modo che le persone si al-lontanino sempre più perché mancano i servizi, soprattut-to i parcheggi. C’è un sistema che non va. La gente non vie-ne perché non sa dove posteg-giare”.Il titolare di “Sciacca Mode”: “La crisi? Si tagghia cco cuteddu. Ed è dovuta all’Amministrazione comu-nale. Abbiamo un 75 per cen-to di gente anziana, e il 35 per cento di ragazzi che si recano ad Etnapolis. L’isola pedona-le non ti riporta automatica-mente la gente nelle strade. È come quando si costruisce una casa cominciando dal tet-to e non dalle fondamenta”.

Esiste la crisi economica a Paternò, soprattutto nei negozi? Qual è la

causa? Quali sono i rimedi? Lo abbiamo chiesto ai titolari di alcuni esercizi commerciali ubicati in via Vittorio Ema-nuele, cuore del centro sto-rico. Anonima, titolare di un ne-gozio di articoli da regalo: “Conviene chiudere. La via Vittorio Emanuele è mor-ta, non si può lavorare più. Hanno chiuso la strada per due anni per lavori in corso e poi hanno istituito l’isola pedonale. La gente non viene più, va ad Etnapolis dove può posteggiare comodamente la macchina. Prima la situazio-ne era diversa. Il rimedio? La riapertura al traffico”. Maria Concetta Fichera, “Beautiful regal”, liste noz-

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Paternò

di Barbara Contrafatto

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IL SIMETO DEL FUTURO

disposizione idee e compe-tenze di alto livello. È quello che sta succedendo a Paternò, ad Adrano (rispettivamente con le associazioni Vivisime-to e col Comitato civico sa-lute e ambiente), ma anche a Biancavilla e a Santa Maria di Licodia – comuni attraversati dal fiume– dove un’idea del genere non parte dalla classe politica, ma da una Società civile che sente sempre più il bisogno di vivere in città e territori a dimensione uma-na. I protagonisti sono per-sone impegnate da sempre nel sociale, Graziella Ligre-sti, Chiara Longo, Salvatore Maurici, Luigi Puglisi, Paolo Guarnaccia, ma anche da per-sone che scoprono l’impegno

Ripensare lo sviluppo di una città e di un territorio attraverso

la valorizzazione di un fiume e delle sue risorse naturali, l’acqua, l’agricoltura, i beni culturali e ambientali, il tu-rismo, la gestione dei rifiuti, l’energia. Una ipotesi di svi-luppo che vede il fiume Sime-to come punto di riferimento di molti cittadini desiderosi di progettare un nuovo mo-dello economico. Non solo con l’entusiasmo e la buona volontà, ma con il supporto dell’Università di Catania (specificamente i docenti del dipartimento di Architettura e Urbanistica Filippo Grava-gno, Laura Saja, Giusy Pap-palardo) che sta mettendo a

Paternò

da realizzare nel breve e nel medio termine”. Nel breve termine: c’è una villetta ab-bandonata ad Adrano? Ebbe-ne: i cittadini e i ragazzi delle scuole la “adottano”, la cura-no e la fanno “rivivere”. Ades-so è un “Orto della pace” con piante, fiori ed essenze tipica-mente mediterranee. C’è un tratto di fiume nei pressi di Ponte Barca ridotto a disca-rica? Viene “rinaturalizzato” e riconsegnato alla fruizione di tutti. Nel lungo termine: c’è un progetto che si chia-ma “Patto per il Simeto”. È un “Contratto di Fiume” che dovrebbe impegnare collet-tivamente “le istituzioni, gli operatori pubblici e privati per mettere in atto interventi di salvaguardia e promozione del territorio in maniera am-piamente partecipata”. Non solo i cittadini, ma anche i li-velli politici e produttivi della zona. L’esperienza da seguire con attenzione è quella del fiume Pànaro, nei pressi di Modena, dove si sta portando avanti un’iniziativa dal gran-de senso evocativo: “Atelier dei Paesaggi Mediterranei”. Quattro parole che spiegano tutto.

civile per la prima volta. Tutti attorno a un fiume diventato elemento unificante in grado di coinvolgere le nostre città per un cambiamento radica-le, un punto di partenza “per far rivivere la Valle del Sime-to” attraverso la “Mappatura di comunità”, un progetto basato sulla memoria stori-ca – gli aneddoti, gli episodi, le leggende di cui le persone anziane sono depositarie – ma anche attraverso le idee e le proposte che ogni citta-dino dai dieci ai novant’anni può avanzare. Ecco allora che “Pianificare insieme si può” diventa un evento articolato in tre giornate “in cui tutti i contributi raccolti si trasfor-mano in un sistema di azioni

La valorizzazione del Simeto come progetto alternativo di sviluppo. Paternò, Adrano, Biancavilla e Santa Maria di Licodia impegnati nell’iniziativa

di Angelo Conti

foto Francesco Mirone

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Chi era santa Barba-ra? Perché fu marti-rizzata? È vero che

qualche studioso ne mette in dubbio l’esistenza? Perché è diventata patrona di Paternò? A rispondere a queste doman-de è il prof. Vincenzo Fallica, autorevole studioso di Storia patria: “Esaminando le fonti più importanti – Giovanni Damasceno, Pietro di Argo, Ansemio di Corfù – trovia-mo delle lodi della santa, ma non abbiamo né la città né il luogo di nascita né la data del martirio. In realtà, al di là del-le fonti, se il culto è stato tra-

mandato in modo così forte, è chiaro che non poteva essere inventato. Dagli storici, Bar-bara viene descritta come una fanciulla bellissima e di grandi virtù morali e spirituali, che rinuncia agli dei pagani per venerare il suo Dio. Nella tor-re dove fu rinchiusa dal padre, alle due finestre esistenti, ne fece aggiungere una terza per rappresentare la Santissima tri-nità. Fu questo il motivo per il quale fu portata al cospetto di Marciano, il governatore della Vitinia (regione dell’Asia Mi-nore, l’attuale Turchia, dove è collocata Nicomedia, la pre-

IL MARTIRIO DI BARBARAsunta città di Barbara)”.In quale periodo si presume sia avvenuto il martirio?“Ci sono diverse fonti: la pri-ma parla del 243 dopo Cristo e lo colloca nel periodo di Diocleziano, Decio e Valeria-no, l’epoca più terribile delle persecuzioni cristiane da par-te degli imperatori romani. Un’altra parla del 302. E’ pro-prio questa incongruenza di date che porta qualcuno a ri-tenere che la santa non sia re-almente esistita. Questo però, a mio giudizio, non implica la non esistenza. In ogni caso, troviamo il culto della santa a

partire dal IV o V Secolo: que-sto vuol dire che il nome già allora è molto diffuso, soprat-tutto nelle città della Grecia, della Turchia, e della Russia (tutte Nazioni di religione greco-ortodossa) dove Barbara già da allora viene festeggiata il 4 dicembre”. Perché santa Barbara sareb-be stata martirizzata?“Perché il cristianesimo infran-geva i principi fondamentali dell’impero romano fondato sulla schiavitù. Barbara davan-ti a Marciano che la interroga, più volte dice: ‘Io sono cristia-na, credo nella Trinità’. C’è un

Paternò eSanta Barbara VINCENZO

FALLICA RICOSTRUISCE

LA STORIA DELLA SANTA

di Norma Viscusi

foto Giuseppe Barbagiovanni

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IL MARTIRIO DI BARBARA

dialogo drammatico fra lei e il padre ricostruito da Pietro di Argo: ‘Perché vuoi morire per un Dio che non hai mai visto?’. ‘Quel Dio che tu non vedi è il mio Dio, creatore dell’universo”. È un periodo in cui una infinità di cristiani viene martirizzata. Fu con-dannata da Marciano a subire il taglio delle mammelle. Dice

la leggenda che un angelo fer-mò la mano del boia e salvò le mammelle della fanciulla. Successivamente fu condan-nata al taglio della testa, per il quale si offrì il padre, che fu colpito da un fulmine prima di compiere il gesto. Ecco per-ché la tradizione pone santa Barbara come protettrice dai

fulmini”. Perché il culto fu esportato in Sicilia? “Durante le crociate i cavalieri teutonici portavano in Europa (soprattutto in Sicilia) le reli-quie dei santi. In epoca me-dievale, a Paternò portarono i resti di questa giovinetta mar-tirizzata nell’Asia Minore. Fu-rono sistemate nella chiesa di San Nicolò dei Lombardi. Nel 1378 furono trasferite nella chiesa dell’Itria. Nel 1576, in seguito ad una terribile pestilenza che colpì la città, le reliquie furono portate in processione: il 5 agosto dello stesso anno la peste finì. Que-sto evento è documentato. Da quel momento santa Barbara diventa la compatrona della città assieme a san Vincenzo, ma poi nell’anima popolare ne prende il sopravvento per i tanti miracoli che nel corso dei secoli le sono stati attribuiti”.

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ed io morrò. Ma ti annuncio che la pace sarà restituita alla chiesa di Cristo. Diocleziano e Massimiano passeranno ma il cristianesimo continuerà a dif-fondersi’. Poco meno di dieci anni dopo, Costantino procla-ma il cristianesimo come reli-gione di Stato”. Come fu martirizzata Lucia?“Le fonti greche fanno riferi-mento alla decapitazione (che secondo il codice romano era riservato ai nobili), le fonti la-tine fanno riferimento ad un colpo alla gola”. E allora perché si parla degli

UNA FANCIULLA DI NOME LUCIAChi era Santa Lucia?

“Gli atti greci e suc-cessivamente quelli

romani ci tramandano la sto-ria di questa fanciulla di nobile famiglia vissuta a Siracusa”.Gianni De Luca, cultore di Storia Patria e presidente del-la fondazione Carri di Santa Lucia, racconta la storia della patrona di Belpasso e le origini del culto.“Si presuppone che il padre si chiamasse Lucio e la madre Eutichia e lei, Lucia, abbraccia la fede del cristianesimo fin da giovanissima età. Allora a Sira-cusa (intorno al 60 dopo Cri-sto) era passato San Paolo che aveva fondato un primo nucleo di cristiani. Santa Lucia vive presumibilmente intorno al 280 dopo Cristo. E’ un perio-do in cui i cristiani subiscono delle persecuzioni: con l’editto di Nicodemia, l’autorità roma-na inizia l’ultima grande perse-cuzione che sfocia nel 304 (13 dicembre), quando Lucia, sot-to Diocleziano, patisce il mar-tirio durante il quale proferisce queste parole profetiche al suo carnefice: ‘Colpisci Pascasio,

LA STORIA DELLA

PATRONA DI BELPASSO

RACCONTATA DA GIANNI

DE LUCAdi Giuseppe Russo

occhi?“Si tratta di un accostamen-to che deriva dal nome, Lu-cia, luce degli occhi. Siccome all’inizio del Medioevo gli artisti raffigurano l’immagine degli occhi della Santa dentro il bacile, si pensa che le siano state estirpate le pupille”.Ne parlava anche l’insigne professore belpassese Giu-seppe Sambataro. “Autore di una bellissima po-esia che per la sua musicalità è assolutamente intraducibile in italiano. Quantu è bedda sta Santuzza ca ni manna Sirausa.

Belpasso e Santa Lucia

Teni in manu ‘a scudidduzza unni ridunu l’occhi sò. E’ vi-stuta d’aranatu, russu comu ‘u Mungibeddu, lu sanguzzu l’ha pittatu ca lu boia ci tirò. Faccio notare il grande lirismo di un verso: quannu arriduno l’occhi sò”. Dunque non ci fu il martirio degli occhi.“Santa Lucia che si estrae gli occhi e li offre al suo carnefice è pura leggenda. Però si è vo-luta accostare Lucia alla luce divina, che illumina il cammi-no e i passi del peccatore che lei cerca di convertire. Infatti Dante nella Divina commedia parla di Lucia quando si sof-ferma sulla candida rosa”.Che rapporti c’erano fra Santa Lucia e Sant’Agata?“Le nostre nonne accomuna-vano le tre sante vergini locali, Agata, Lucia e Barbara, dicen-do che erano cugine. Non è vero per una discordanza di date e di origini. Però negli atti si parla del viaggio che Lucia fece presso la tomba di Sant’Agata per chiedere la gua-rigione della madre. Non c’è alcuna parentela fra loro, ma

Un momento della festa di Santa Lucia a Belpasso. Nella pagina accanto: la festa nei primi decenni del Novecento

foto Francesco Mirone

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UNA FANCIULLA DI NOME LUCIAsi tratta di immagini di eroine cristiane che, assieme a Santa Rosalia di Palermo, rappresen-tano simboli positivi da pro-porre come esempio di virtù”.

Quando inizia il culto di Santa Lucia?“Nell’Ottocento l’archeologo siracusano Paolo Orsi scopre nelle catacombe della sua cit-tà una iscrizione sulla tomba di una certa Euschia: ‘Morta il giorno della festa di Santa Lucia della quale nessuna lode

può raccontare le meraviglie e la gloria”.Santa Lucia come diventa patrona di Belpasso?“Ufficialmente nel dicembre del 1636, l’anno in cui Mal-passo ottiene l’autonomia co-munale da Paternò. Entrambe facevano parte di un unico ter-ritorio (chiamato Stato) dove insistevano queste due comu-nità. Era una convivenza mal sopportata. Dopo l’autono-mia, Malpasso scelse ‘ad accla-mazione popolare’ Santa Lu-cia. Soprattutto nel convento dei Carmelitani esisteva molta devozione, presente anche nel ceto aristocratico”.Qual è l’origine dei carri al-

legorici?“Nascono alla fine dell’800, quando la festa ha già 200 anni di storia. Si partiva dalle piaz-ze dei quartieri con un corpo musicale, con le palme, e tutto il popolo inneggiante faceva in suo ingresso, accompagna-to da un disparo pirotecnico, nel piano del Duomo dove si eseguivano le cantate. Un anno un mastro del quartiere Purgatorio pensò di allestire una rappresentazione allego-rica in cartapesta raffigurante la famosa scena di Santa Lucia tirata dai buoi. Da allora ogni quartiere approntò delle scene sulla vita della Santa. Fino ad arrivare alla costruzione del carro, un rito dinamico che interrompe il rito statico della festa”. Le origini della Tredicina.“Sono antiche e vanno ricerca-te nell’antica Malpasso, quan-do il ceto dominante (agricol-tori) che partivano ‘ccu scuru e tornavano ‘ccu scuro e vole-vano partecipare alla prepara-zione alla festa. Ecco che nasce la messa alle 5 del mattino per dare la possibilità a chi lavora-va in campagna di partecipare

in un momento di preghiera molto intenso”.Le reliquie.“A Belpasso ne possediamo 4: una falange, un metacarpo ed alcuni pezzetti del braccio, ed un lembo della veste che rico-priva il corpo di Santa Lucia”.La campana della Chiesa Madre perché è così impor-tante?“E’ la campana più grande del-la Sicilia e tra le prime d’Italia. Ha un peso che oscilla fra gli 8mila e i 9mila chili. Un detto popolare dice che pesa ‘centu cantara, ‘nchilu e na pisa, cu non ci cridi mi scinni e mi pisa’. Il cantàro è una unità di misura araba che varia da luo-go a luogo. Nella nostra zona dovrebbe essere attestato fra gli 80 e i 90 chili. Il campanone fu fuso a Belpasso nel 1815: contribuirono tutti gli abi-tanti donando oro, argento e rame. Nella scritta della coro-na leggiamo che sorge al posto della magnifica campana che c’era a Malpasso. Ha un suo-no magnifico ed è un simbolo straordinario del passato, del presente e del futuro di questa comunità”.

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Bronte

te, quella dei contadini e dei coltivatori diretti, è riuscita a vivere con dignità economica perfino nel periodo in cui in Sicilia la fame si tagliava col coltello. Seduto al banchetto (‘a vanghitta) della sua bottega della Seconda Retta Levante, don Paolo, a dispetto dell’età, continua a riparare scarpe

“ppu piaciri di travagghiari”. Anche perché con le pensioni basse che percepiscono gli ar-tigiani, continuare a lavorare è un rimedio per migliorare la propria condizione. Ma in realtà, don Paolo fa un lavoro che ama. Lo vedi attorniato da una marea di mocassini, di stivali e di vari tipi di calzature

tini sparsi in tutto il paese. Un esponente di quella categoria dei mastri che nel 1863 fon-dò il Circolo Operai e qualche anno dopo, da una costola di questo, la Banca Operaia (poi Banca popolare di Belpasso), colonne portanti di una co-munità che, grazie anche ad un’altra categoria lungimiran-

Don Paolo Sambata-ro, classe 1923 – 88 anni il prossimo 27

febbraio – è uno degli ultimi calzolai presenti a Belpasso, un sopravvissuto di quella “borghesia artigiana” che nella cittadina di Martoglio – nei primi decenni del Novecento – annoverava più di 60 ciabat-

UNO DEGLI ULTIMI

ESPONENTI DI QUELLA

“BORGHESIA ARTIGIANA”

CHE A BELPASSO HA FATTO LA

STORIAdi Luciano MironeDON PAOLO IL CALZOLAIO

foto Francesco Mirone

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ramidduzza, u megghiu ma-stru di ddi tempi, bravissimu, quannu faceva scarpi c’era ‘u silenziu. Unu bravu era maca-ri don Janu Chiantello e Ninu Cisina, e macari Pidazzu d’’u quarteri di Sant’Antoni. Pirchì vidi, na vota i scarpi non sulu si riparavunu, ma si facevunu. A 16 anni fici i primi scarpi d’a me vita, a me mamma, bonamma, ca mancu ‘u preju c’aveva… ‘Nto me mastru si facevunu stivali di prima, con pelle e suola: vineva macari ‘u maresciallu d’’i carrabbineri ca si faceva fari i stivalini ‘ppi so figghi fimmini. Poi ‘u me mastru partiu ppi carrabbi-nieri e iù a vint’anni mi rapì a putìa, sempri cca, unni nascì. Addoppu partì ppa secunna guerra mundiali, nel ’43 mi mannaru a Como, a Ventimi-glia e in Francia, sei mesi. Fici tri dumanni: calzolaio, musi-ca e palluni. Mi mannaru nta

che lavora con quegli arnesi che usa da almeno sessant’an-ni, il martello, i chiodi, le suole, le forme di legno, la fo-dera, la cera, ‘a machinista per tagliare la pelle, la tenaglia, il mastice, prezioso sostituto della colla. Racconta la sua vita con quel dialetto che, nella bocca della gente semplice, diventa poesia, e noi riportiamo fedelmente ogni parola, senza alterarne il senso, la forma, il contenuto. “Ncuminciai a fari ‘u scapparu all’età di sett’anni. Fu me patri ca mi mannau ‘o mastru. ‘O mastru e a scola. E appoi ma-cari a scola di musica e a jucari ‘o palluni. U me primu ma-stru fu ‘Ntoni Proietto: tannu era carusu e ni furrìai tanti di mastri, don Carmelu Raciti, Marchisi ca poi partìu ‘ppa Merica, don Lucianu Spampi-natu dettu Caddarizza, e don Luciano Schillaci detto Cia-

calzoleria militare. C’erano tanti siciliani, tri quarti eranu inalfabeti. Iù aveva a quinta elementari ma sapevi leggiri e scriviri, a dui me colleghi cci scriveva i littri. Poi mi man-naru a Chieti: era l’8 settem-bri. Dda matina ntisimu ‘u cumunicatu ‘a radiu. C’era ‘u cumannanti ca diceva: ‘Guar-dati che da questo momento i vostri amici saranno i vostri nemici’. C’erano ‘nmunzeddu di tedeschi… E cchi succes-si? Treni chini di italiani tutti mitragliati, tutti morti. Ma comu? Finu a ieri eramu alle-ati e ora semu nimici? Allura scappamu a pedi, ppi vintidui jorna, di Chieti finu a Map-passu. ‘O paisi ripigghiai a ju-cari ‘o palluni assemi a Cianu Chisari e ‘a sa frati Razieddu, Salvinu Aseru, Pippinu e San-tu Caserta (i megghiu ‘i tut-ti), Turi buffa Campicianu ca faceva ‘u purteri, Affiu Bellia

‘u vavveri, Turi Banda. Iù ju-cava ‘ccu Belpassu e faceva ‘u medianu, tannu arrivamu fina ‘nta Promozioni. Jucaumu a Jaci, a San Gregoriu, a San Giuvanni a Punta, ad Adranu, a Bronti, a Biancavilla, a Pa-ternù unni succideva sempri a corpa. A Nicolosi na vota fici ‘mbellissimu gol, ma i mediani stanu sempri arredi e di tannu non signai cchiù. Eranu i tempi du grandi To-rinu e di Valentino Mazzola, m’arriordu a stragi di Superga, quannu l’apparecchiu cascau subbra a collina e s’ammazza-ru tutti e iù a collira ca appi, na cosa brutta. Versu vintidui anni timminai di jucari. Di ddu mumentu travagghiu e basta. Ora ca sugnu vecchiu staiu ‘nta putìa sulu di mati-na. Mi sentu bbonu, mi piaci travagghiari, aju a casa china di scarpi e sugnu cuntentu ac-cussì”.

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Il Natale

’U CIARAMIDDARUdel centro storico, arriviamo alla Matrice che domina l’in-tera vallata. Bussiamo ad una porta. Entriamo. E nel sog-

giorno riscaldato dalla stufa a legna troviamo uno dei più bravi suonatori di ciaramella dell’intera Sicilia, Antonino Caserta, 70 anni, un paio di lenti spesse che coprono degli occhi “rimasti ‘o scuru da una decina di anni”, nel senso che non vedono più, ma di cui il ciaramellaro parla con un di-sincanto socratico da lasciare a bocca aperta. A lui ogni anno gran parte degli ottanta ciara-mellari di Maletto si rivolgono per accordare lo strumento. A lui si rivolgono per avere con-sigli. “Vede l’orologio che ho al polso?”. Lo mostra e pigia un bottone. Una voce femmi-nile dice: sono le ventuno e quindici. “Siccome non posso più vedere le lancette, ad in-dicarmi l’orario è la voce della signorina che c’è qui dentro”. Ride, ironizza, scherza, come se avesse appreso pienamente

mo in cima al paese lo sentia-mo più chiaro, più percettibi-le, più intenso, fino a quando, attraverso le stradine lastricate

A un certo punto a Ma-letto cala la nebbia. Le case rischiarate dai

lampioni si intravedono appe-na, nell’aria si avverte l’aroma acre del fumo che esce dai camini. Tutto sembra sospe-so su queste montagne dove la tradizione della ciaramella ha radici molto antiche. E il suono che improvvisamente si propaga nell’aria aumenta l’atmosfera un po’ antica e un po’ contadina che nei paesi più a valle si è quasi persa del tutto. Il suono è quello di una ciaramella, lontano, flebile, aspro, e al tempo stesso dolce. Seguiamo questo esile filo di musica e man mano che salia-

A MALETTO ESISTE L’ANTICA TRADIZIONE DEI CIARAMELLARI.

ANTONINO CASERTA È UNO DI QUESTI. LA

SUA STORIAdi Luciano Mirone

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vo chiamato a suonare anche nelle abitazioni. I paternesi erano era molto bravi e ospi-tali, a dicembre nelle famiglie c’era un’atmosfera di festa gra-zie alla raccolta delle arance. Suonavo per nove giorni con-secutivi, ventiquattro ore su ventiquattro. Si guadagnava bene. Feci questa vita per ben quarantadue anni. Un decen-nio fa un problema agli occhi causò una progressiva perdita della vista. Ma non mi persi d’animo. Restai a casa e conti-nuai a suonare per gli amici”. Il suo orecchio straordinario –ma anche il suo carisma- gli ha consentito di diventare il punto di riferimento di molti ciaramellari del paese. “Ogni anno, in questo periodo, ven-gono da me per provare. Que-sto è uno strumento tintu, nel senso che non tiene gli accor-di, basta un piccolo sbalzo di temperatura per farli saltare.

la lezione del poeta spagnolo Calderon de la Barca, secondo il quale “la vida es sueno”, la vita è sogno, anche se in que-sto caso sogno e suono sono praticamente la stessa cosa. E’ sorprendente questo modo di scherzare con la vita, questo modo di interpretare i segni del destino. “Nel periodo del-la novena pigio spesso questo bottone. Voglio sapere che ora è. Poi dico: a quest’ora ero da Caio, a quest’altra da Tizio. Penso ai momenti esaltanti del passato, quando andavo a suonare fuori paese”. Lo dice senza retorica, senza tri-stezza, con un sorriso che più che uscire dalle labbra sem-bra sprigionarsi dall’anima. “Cominciai a Catania all’età di dodici anni. Subito dopo scoprii Paternò e me ne inna-morai. Una volta, nel periodo natalizio, c’era l’usanza di al-lestire gli altarini. Ed io veni-

Per intonarlo è necessaria la cera d’api, dosarla nei punti giusti, toccare col coltello le sampugne, introdurre il filo di canapa nelle canne e farlo vi-brare col fiato. Basta un nien-te per sbagliare”. Fa una pausa e poi, colto da una improvvisa ispirazione, dice a sua mo-glie: “Va piglia ‘a ciaramella”. “Quali haia pigliari”. “Chilla ‘e Rometta”. Antonino Ca-serta possiede quattordici ciaramelle, provengono da Rometta superiore, un paesi-no delle montagne messinesi dove esisteva un artigiano che le costruiva, il signor Mento, morto all’età di cento anni. La moglie torna e il ciaramellaro intona una melodia. “Imparai da mio padre, il quale aveva imparato da suo padre, che probabilmente aveva appreso l’arte dai suoi avi”. Grazie a questa tradizione trasmessa di generazione in generazione,

Caserta è depositario dell’an-tico e prezioso repertorio dei ciaramellari di Maletto. “Una volta eravamo ottocento. Ad ottobre si levava mano dal la-voro (quasi sempre dalla terra), si rispolverava lo strumento, si provavano gli accordi, si ac-cennavano le prime melodie. Poi si partiva con la littorina, Catania, Paternò, Gravina, Augusta, Siracusa, e si tornava dopo Natale. Una vita sacri-ficata ma anche bella, che ti dava la possibilità di mettere da parte delle buone somme. I miei tre figli hanno voluto imparare lo strumento, ed ora anche mio nipote, la cosa mi riempie di gioia”. Signor Ca-serta, secondo lei fra trent’an-ni la tradizione durerà ancora? Fa una pausa: “Ho paura di no, ma spero di sì”. Poi tocca l’orologio, la “signorina” dice che sono le ventidue e quaran-tacinque. Lui sorride.

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L’ARTE SPECIALE DI LIVIOesporre i suoi quadri. Le stan-ze, i corridoi, il bagno, la scala, l’ingresso portano i suoi segni. Perfino le porte e il pavimen-to. Non c’è parete che non contenga i suoi “figli”, assieme ad una miriade di oggetti an-tichi, grammofoni, radio, sca-tole di latta, cassepanche, ar-madi, comodini restaurati da lui. “Le mie opere”, dice, “non sono concepite per essere ven-dute. Se capita lo faccio, ma il fine non è quello”. E poi pe-

sca un episodio recente: “Vede quel quadro?”. Volgiamo lo sguardo verso la parete e ci soffermiamo su una delle ope-re alle quali Giuseppe è mag-giormente legato: “Lo dipinsi quando andai a vivere per un anno in Turchia, dove insegnai al liceo scientifico. C’è una ragazzina con un mandolino e, dietro di lei, un uomo che guarda. La ragazzina è esistita veramente. Era una bambina povera che, per mantenere il padre, suonava il mandolino nelle strade di Istanbul. Mi commossi e non potetti fare a meno di dipingerla”. Fa una pausa. “Quando esposi questo quadro, una persona voleva comprarlo. Chiesi: posso sape-re dove verrà collocato? ‘Non è cosa che la riguarda, lo metto dove mi pare’. Non lo ven-detti”. Poi Giuseppe mostra la crudeltà della guerra. Un carro trainato da un uomo che trasporta i morti, una scena di manzoniana memoria in cui i monatti trasportano i morti decimati dalla peste; un altro quadro che ricorda “Guerni-ca” di Picasso. I suoi personag-gi, pur mostrando sembianze mediterranee (o siciliane), appartengono al mondo. Per-sonaggi inclassificabili geogra-ficamente perché nell’arte non è la geografia a comandare ma la metafora, quella del pensie-ro e dei sentimenti. Se poi c’è anche l’impegno civile, allora possiamo dire che si tratta di un’arte speciale. L.M.

ben cinquemila opere conser-vate nella sua casa di Gravina, che questo artista catanese di 35 anni, definisce “i figli miei”. La sua abitazione si tro-va presso le Cantine Privitera, un’azienda produttrice di vino e di miele, che lui, docente di Belle arti presso le scuole medie, gestisce assieme alla moglie. Negli spazi della can-tina, qualche anno fa – dopo un lungo periodo di “incuba-zione artistica” – ha deciso di

C’è l’attentato alle torri gemelle, la guerra in Bosnia, la crocifis-

sione di Cristo, l’ultima cena con lo sfondo di un’Etna che erutta lava. Ci sono i segni di una umanità dolente che il pittore catanese Giuseppe Li-vio dipinge con qualsiasi cosa, acquerelli, olio, penna, mati-ta, carboncino, pastelli, chine, e su qualsiasi cosa, dalla carta da disegno alla carta del pane, perfino al lenzuolo. E ci sono i mille volti di questa umanità che sembrano vivere una vita loro, una vita fatta di solitudi-ne e di inquietudine, di dispe-razione e di aberrazione. Ep-pure dietro queste opere non c’è il vuoto. C’è il pensiero e lo stato d’animo di un pittore che prende spunto dall’attua-lità per elaborare dei messaggi che trasmette attraverso le sue opere. Ed ecco allora che la figura paciosa del Papa viene posta accanto ai bombarda-menti o accanto alla tragedia dell’11 settembre, come a voler rimarcare un contrasto vivo, netto, palpabile tra la realtà quotidiana e il mondo ovattato di una realtà “che – per dirla con le parole del pit-tore – non sempre interviene con decisione nei drammi che affliggono l’umanità”. Ci sono

UN’UMANITÀ INQUIETA E

DOLENTE CHEIL PITTORE

RIESCE A DIPINGERE

CON QUALSIASI MATERIALE

Il pittore Giuseppe Livio. A destra: una sua opera

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SCRIVI PELLET, LEGGI ENERGIA PULITAdi combustibile è entrato in crisi. Da quel momento, at-traverso vari studi di settore, abbiamo pensato di diversifi-care l’attività sostituendolo col pellet, un materiale dal basso contenuto di umidità, dall’alta capacità energetica e dal note-vole risparmio economico. La biomassa è un prodotto natu-rale, biologico, che viene pres-sata senza l’aggiunta di sostan-

za chimica o collante. Il pellet è una biomassa ottenuta grazie agli scarti di lavorazione delle industrie del legno: infatti non vengono tagliati alberi per produrlo. È molto durevole perché è secco e anche molto concentrato. Il materiale vie-ne importato dal Nord Italia e dall’estero: la nostra ditta lo fornisce a domicilio (il ser-vizio è gratuito) a numerose aziende della Sicilia e del resto d’Italia”. Perché – per fare un esempio – in un panificio o in una pizzeria conviene usare il pellet al posto della legna o dei gusci di mandorle? “Intanto per motivi economici, e poi per una migliore resa nella cot-tura della pasta. La legna, oltre a contenere prodotti come i diserbanti, contiene una buo-na percentuale di umidità. Il pellet è un prodotto sterilizza-to e a bassissimo contenuto di umidità. Meglio di così…”.

posta da varie forme legnose ricavate dal pioppo, dal fag-gio, dal castagno, dal rovere, miste al mais e a vari cereali. Esistono diversi tipi di pellet con diverse rese caloriche. La nostra azienda nasce 40 anni fa grazie a mio padre e a mio zio, che vendevano i gusci del-la frutta secca. Negli ultimi anni, a causa dell’importazio-ne dai Paesi esteri, questo tipo

È un settore nuovo e in grande espansione an-che in Sicilia, dopo il

boom degli ultimi anni re-gistrato nel Nord Italia e in Europa. Settore nuovo, paro-le nuove, termini nuovi che anche nell’Isola cominciano a suonare e a risuonare nel-le nostre orecchie: biomas-se, pellet… Di cosa si tratta? Semplicemente di pezzetti di legno – ricavati da scarti di lavorazione –, compressi in piccoli cilindri della lunghezza di 3 centimetri e del diametro che varia dai 6 agli 8 millime-tri. Materiale “economico ed ecologico” utilizzato nei pani-fici, nei ristoranti, nelle pizze-rie, nelle industrie, nelle case e negli uffici al posto della legna o delle bucce di mandorle. Costo: 20 centesimi al chilo.Maurizio Castro, 32 anni, im-prenditore del settore, spiega: “Il pellet è una biomassa com-

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