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Fake news e orizzonte degli eventi: le nuove competenze scolastiche nell’era dei social network Teoria e metodologia della valutazione e della programmazione scolastica: elementi di didattca (sigla MTV) Corsista Immacolata Riccio Matricola 00714A16

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Fake news e orizzonte degli eventi: le nuove competenze

scolastiche nell’era dei social network

Teoria e metodologia della valutazione e della programmazione scolastica:

elementi di didattca (sigla MTV)

Corsista Immacolata Riccio

Matricola 00714A16

INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1

I MEZZI D’ INFORMAZIONE: LE SFIDE E LE NUOVE COMPETENZE

1.1 I modelli della didattica e le nuove competenze

1.2. L’informazione e la verifica dei fatti : i nuovi compiti che la rete impone agli educatori

1.2 Il potere pervasivo dei media e i modelli culturali di cui è portatore

1.4. Le fake news e l’educazione civica digitale

CAPITOLO 2

LE STRATEGIE DI MANIPOLAZIONE DEI MEDIA

2.1 Il potere soporifero dei media

2.2 I nuovi media : tra “omologazione” culturale e nuove richieste di democrazia

2.3 Il consumo dell’informazione e la produzione orizzontale delle notizie nei new media

CAPITOLO 3

INFORMATION ORIENTEERING

3.1 Le notizie preconfezionate ad uso dei consumatori

3.2 Le strategie di controllo dell’opinione pubblica

3.3 Il fact-cheking e l’attività di controllo delle notizie

CAPITOLO 4

I LIMITI DELL’INFORMAZIONE GIORNALISTICA COME PIBBLICO SERVIZIO

4.1 Il filo di Arianna e il labirinto dell’informazione mediatica

4.2 Gli “stereotipi” : ostacolo ad una corretta comprensione della realtà

4. 3 La post-verità e l’irrilevanza del fatto

CAPITOLO 5

DEFINIZIONE E SELEZIONE DELLE COMPETENZE NELL’ERA

DELL’INFORMAZIONE GLOBALIZZATA

5.1 I nativi digitali e le loro competenze per il controllo dell’informazione

5.2 Governare il cambiamento

5.3. La qualità dell’informazione, le logiche del mercato e la difesa degli utenti

CONCLUSIONE

BIBLIOGRAFIA

SITOGRAFIA

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1 I MEZZI D’ INFORMAZIONE: LE SFIDE E LE NUOVE COMPETENZE

1.1 I modelli della didattica e le nuove competenze

E’ fondamentale in ogni intervento didattico la riflessione e la scelta degli obiettivi e le finalità da

raggiungere. Nell’insegnamento è opportuno individuare strategie per sviluppare negli alunni un

apprendimento “attivo”, “costruttivo”, “ collaborativo”, per accrescere in essi lo spirito critico ed

argomentativo, la capacità di mettere in discussione le opinioni normalmente accettate, di vagliare

l’attendibilità dei fatti e delle informazioni che ricevono, di allargare i confini della loro

conoscenza.

Alla base di ogni abilità argomentativa c’è la capacità di sostenere una propria tesi con

dimostrazioni, di persuadere e confutare discorsi, mettendone in discussione le premesse.

L’apprendimento “attivo” presuppone il coinvolgimento degli alunni nelle varie fasi del processo

educativo, ponendoli al centro dell’azione formativa; quello “costruttivo” fornisce agli studenti la

possibilità di migliorare le idee già conosciute per proporre nuove soluzioni ai problemi;

l’apprendimento “collaborativo”, di gruppo o intenzionale ha, infine, come scopo la motivazione,

stabilendo relazioni tra obiettivi cognitivi e aspettative personali ossia tese al raggiungimenti di uno

scopo. Si tratta, in buona sostanza, di progettare l’insegnamento basandosi non solo sugli

apprendimenti e i contenuti disciplinari ma anche su percorsi inerenti lo sviluppo di problematiche,

in virtù delle quali l’insegnamento diventi strumento di emancipazione dell’uomo.

Massimo Balducci nel saggio “I modelli della didattica” sostiene che il percorso è essenzialmente

quello di riflettere « sulla possibile opposizione tra cultura come strumento di emancipazione

dell’uomo e la degradazione del sapere a pura merce che irretisce l’uomo in dispositivi di

asservimento» 1 ( M.Balducci, I modelli della didattica, ed. Carocci 2015, p.15). Condividendo

tale affermazione, si tratta di capire bene da una parte qual è il ruolo che oggi gioca la cultura di

massa, i nuovi mezzi di informazione, la cultura di èlite o medium a stampa, nella formazione dei

giovani, e dall’altra quale ruolo ha ancora la scuola nel dare alle nuove generazioni gli strumenti

culturali per difendersi da nuove, possibili forme di asservimento e manipolazioni delle menti.

Massimo Balducci parla di modelli didattici ideali, da considerare come possibili forme di curriculi

e percorsi formativi per dare ai giovani una formazione di qualità. Egli suggerisce essenzialmente

due modelli di insegnamento nella società conoscitiva, il modello A e il modello B : il primo

imperniato sullo sviluppo di capacità analitiche , di sintesi e intuitive , ossia sullo sviluppo dei

processi cognitivi superiori degli studenti, sul rafforzamento dei loro talenti personali; il secondo

centrato sull’oggetto dell’apprendimento, sull’acquisizione di competenze di base, come saper

leggere, scrivere e far di conto, sui quali innestare gli apprendimenti successivi , come spirito critico

e autonomia intellettuale.

E’ inutile affermare che questi due modelli devono essere integrati, coordinati, per evitare possibili

squilibri, estremizzazioni o enfatizzazioni unilaterali. L’obiettivo deve essere una sorta di

conciliazione dell’ottica “culturocentrica” (modello B) , con quella “puerocentrica” (modello A).

E’ opportuno evitare l’accentuazione unilaterale della dimensione didattica basata sul prodotto

dell’insegnamento, ossia risultati in termini di conoscenze essenziali e abilità di base, a scapito

della dimensione del processo formativo, che implica lo sviluppo delle capacità di analisi, sintesi,

intuitive e critiche o di autonomia intellettuale. 2 (M.Balducci, I modelli della didattica, pp.21-28).

J. Dewey sostiene a ragione che «per essere genuinamente pensanti dobbiamo non accettare un’idea

o asserire positivamente una credenza, finché non siano trovate fondate ragioni per giustificarla». 3(

J.Dewey, Come pensiamo, La Nuova Italia,Firenze, 1961, cap.I, p.77) La scuola in passato ha

sempre avuto l’ambizione di produrre menti pensanti ed anche oggi non deve derogare a questo suo

compito fondamentale.

Una delle finalità dell’insegnamento è sviluppare negli alunni il pensiero riflessivo, esso fa nascere

nuove idee e dà la possibilità di riconoscere i propri errori e di porvi rimedio. Accrescere lo

sviluppo di capacità di analisi, sintesi, intuitive, lo spirito critico e l’autonomia intellettuale,

collegandole ai contenuti disciplinari, pone sullo stesso piano e dà pari valenza sia alla dimensione

del prodotto formativo che del processo formativo, integrando cultura umanistica e scientifica,

sviluppando negli studenti abilità in campo sociale, civico e favorendo la loro responsabilità e la

partecipazione circa i problemi della società in cui sono immessi.

Nell’ambito della tematica che più direttamente è inerente alla nostra trattazione e che riguarda

problematiche legate alle nuove fonti di informazione mediatica in rete, la didattica, in sostanza,

ha il compito di fornire competenze agli alunni per un esame obiettivo delle fonti di informazione,

qualunque esse siano, ai fini di scelte consapevoli e ponderate.

Sottoporre un pubblico giovanile ad un fooding di notizie ed immagini false, ad un’ alluvione di

notizie non vere per manipolarne il consenso, costituisce senza dubbio un rischio per l’educazione

e la loro crescita intellettiva, oltre che per la società in generale.

Sviluppare capacità argomentative, dare agli studenti l’opportunità di confrontarsi con molteplici

punti di vista, vagliare criticamente le proprie teorie e quelle degli altri è, invece, uno degli obiettivi

primari della formazione.

Lorella Giannandrea, nel testo “Valutazione come formazione” sostiene che la capacità di riflettere

è una componente importante nello studio e nell’apprendimento, richiede tempo ed autocontrollo,

«senza una adeguata riflessione, le conoscenze memorizzate rischiano di rimanere fredde, vuote,

astratte, non utilizzabili» e non si può riflettere correttamente se si è continuamente esposti ad una

qualità dell’informazione spesso scadente, non adeguata allo sviluppo delle conoscenze, irrelata

dalla visione d’insieme dei fenomeni. 4 (Lorella Giannandrea, Valutazione come formazione,

percorsi e riflessioni sulla valutazione scolastica, Ed.Università Macerata, 2010)

1.2. L’informazione e la verifica dei fatti : i nuovi compiti che la rete impone agli educatori

La società richiede oggi risposte sempre più complesse a problemi complessi, l’insegnamento deve,

pertanto, adeguarsi e mettere gli studenti a confronto soprattutto con problemi reali, sviluppando le

loro capacità di far fronte in modo efficace alle sfide che il mondo pone, con soluzioni non banali e

non semplicistiche .5 (ivi p.78)

Questa visione aderisce ad un approccio costruttivistico, secondo il quale l’apprendimento si basa

sul metodo della scoperta degli studenti, che in modo autonomo acquisiscono conoscenze partendo

da problemi reali. Gli alunni, in altre parole, devono essere direttamente responsabili

dell'apprendimento, alimentare la propria autostima e perfezionare la conoscenza di sé, raccontando

le proprie esperienze, i propri valori, base autentica dell'imparare.

Una didattica costruttivista dà all’alunno anche competenze meta cognitive, poiché fornisce la

possibilità di riflettere sulle proprie capacità di apprendimento, i comportamenti e le proprie

competenze e promuove atteggiamenti autovalutativi . Il gruppo diventa l’ambiente in cui si

costruisce la conoscenza e la figura dell'insegnante riveste anche il ruolo dell'osservatore e del

facilitatore.

Nel rapporto mondo-conoscenza ad esempio K. Popper parla di tre Mondi: il Mondo 1 è quello

delle cose, degli oggetti fisici e dei fatti naturali; il Mondo 2 è quello delle esperienze del soggetto,

dei pensieri e dei sentimenti soggettivi; il Mondo 3 è quello delle teorie che sono oggettive e reali

anch’esse. Il Mondo 3 « è la storia delle nostre idee: non solo una storia della loro scoperta, ma

anche la storia di come le abbiamo inventate, come le abbiamo create e come esse abbiano reagito

su di noi, e come noi abbiamo reagito a questi prodotti della nostra stessa opera.

Questo modo di considerare il Mondo 3 ci permette di inserirlo nell’ambito di una teoria

evoluzionistica che riguarda l’uomo come animale». 6 (N. Abbagnano, Protagonisti e testi della

filosofia, Paravia, 2007, p.822) Il Mondo 3 è il mondo delle idee condivise, ed è proprio partendo da

questa affermazione che possiamo ribadire l’importanza dei mezzi di informazione per dirigere e

costruire le idee.

In una intervista rilasciata poco prima di morire per la Enciclopedia Multimediale delle Scienze

filosofiche, Popper si sofferma sull’influenza che il mezzo televisivo esercita sui comportamenti,

sulle idee e sulla interpretazione degli eventi.

Le stesse considerazioni potrebbero essere correlate ai nuovi media in rete ed all’enorme potere

mediatico, alla forza pervasiva e persuasiva esercitata da essi sull’utenza.

Ogni notizia apparentemente obiettiva è sempre in qualche modo orientata, come diceva Popper, ed

è sempre una rappresentazione particolare della realtà o di un fatto. Bisogna abituare gli studenti a

questa verità: non c’è una informazione senza una certa tendenza, ogni informazione “è di

tendenza” ed è orientata in una direzione o in un’altra.

Non esiste, pertanto, una osservazione “neutra” degli eventi, da cui scaturirebbero asserzioni

assolutamente vere, infatti, nell’osservazione dei fatti la mente non è una tabula rasa. A ciò si

aggiunge il fatto che, come afferma Popper , il principio della “verificabilità” delle teorie non

basta per affermare con assoluta certezza una teoria, poiché miliardi di conferme non rendono certo

una interpretazione di un fatto, mentre una sola osservazione base sarebbe in grado di confutarla e

“falsificarla” (principio della falsificabilità ). Una teoria è vera solo se resiste ai tentativi di

ritenerla falsa. E’ chiaro che anche nel campo della informazione vagliare le fonti, metterle a

confronto, avere competenze analitiche ed argomentative è oltremodo indispensabile per operare

scelte consapevoli e costruire i nostri pensieri.

Ogni argomentazione ed interpretazione di un fatto, presuppone una individuazione di un problema,

l’identificazione di coloro che lo trattano, poi di tutti coloro che come antagonisti confutano o

accettano le interpretazioni date, infine la propria sintesi , ossia il nostro il ragionamento e la

nostra tesi sulle varie argomentazioni. Questo è un approccio metodologico che la scuola deve

trasmettere agli studenti per “addestrarli” a pensare in modo corretto: lo sviluppo di capacità

argomentative negli alunni è uno dei punti cardini della progettazione educativa.

1.3 Il potere pervasivo dei media e i modelli culturali di cui è portatore

I mezzi di informazione, tra le principali agenzie di socializzazione per i giovani, hanno un ruolo

crescente nella società contemporanea, sono portatori di ideologie, mentalità, valori, modelli

culturali. Popper sostiene la necessità di limitarne il potere di condizionamento e si riferisce in

particolare modo al mezzo televisivo, poiché i programmi televisivi sono spesso generatori di

violenza o poco significativi dal punto di vista dei contenuti e della conoscenza dei fatti.

Informazione ed educazione sono la medesima cosa, termini correlati e il discrimine è tra diversi

tipi di informazione-educazione, vale a dire che la differenza è nei contenuti, nella contrapposizione

tra due poli dell’educazione : legge o violenza, giustizia o ingiustizia, vita o morte ecc. Il vero

liberalismo è per il filosofo viennese “controllare” ogni potere, compreso quello dei media e

sostiene che la migliore forma di controllo del potere risiederebbe nell’ “autocontrollo”.

Dal momento che nessuna informazione è imparziale, dal momento che si cerca di imporre

costantemente un punto di vista, che ogni informazione “è di tendenza” ed è orientata in una certa

direzione, è enormemente rischioso un uso del potere mediatico per imporre contenuti negativi

oppure mentire nelle parole e nelle immagini.

In una intervista del 1994 riportata da R. Parascandolo, Popper sostiene molto chiaramente queste

sue posizioni in rapporto ai mezzi di informazione tradizionale , in primis la televisione, ma da essa

possiamo partire per affrontare le nuove sfide e i nuovi compiti che la rete e internet ci impongono

come educatori:

« distinguere tra “educare” ed “informare” non è soltanto falso ma decisamente disonesto, non c’è

informazione che non esprima una certa tendenza e ciò si vede nella scelta dei contenuti, quando si

deve scegliere su che cosa la gente dovrà essere informata. Per fare questo bisogna aver già

stabilito in anticipo cosa si pensa dei fatti, decidere circa il loro interesse ed il loro significato.

Questo basta a dimostrare che non esiste informazione che non sia di “tendenza”. Bisogna

scegliere ed il nostro intendimento determina la nostra scelta.. Così per esempio si può chiedere a

qualsiasi professionista della televisione di far parlare una persona frontalmente o di farla parlare

di profilo: c’è una bella differenza, tutto è il risultato di una scelta. Dire che esiste della pura

informazione come semplice trasmissione di fatti è falso; i mezzi di informazione tentano

continuamente di imporre un proprio punto di vista al telespettatore e ciò non si può impedire.

Perciò la distinzione tra “educare” ed “informare” non regge. Ma questa distinzione non è

semplicemente falsa, essa risponde ad un preciso obiettivo, permette di dire che si possano

comunicare soltanto i fatti e non i fatti come vorremmo che voi li vedeste. Questo è falso. D’altra

parte si parla di una educazione come di una imposizione necessaria, l’insegnante impone il suo

punto di vista all’allievo. L’educatore è gravato da una grande responsabilità, mentre colui che

informa, il “puro” informatore, pare che non ne abbia alcuna. Ma questa differenza non esiste:

l’informatore responsabile è anche educatore, ma se siete informatori irresponsabili voi state

trasgredendo alle regole del gioco. La televisione ha una grande responsabilità, la maggioranza

dei protagonisti credo non si renda conto a pieno di questa responsabilità, non sia capace di

valutare l’ampiezza del suo potere. La televisione ha un immenso potere educativo e questo potere

può far pendere la bilancia dal lato della vita o della morte, della legge o della violenza. E’

evidente che si tratta di cose terribili. Lei mi dice che io difendo, contro l’idea liberale, il fatto che

le persone debbano essere educate e non informate. Questo ideale sedicente liberale è stato

inventato ad hoc, per non rivedere e trasformare il mondo dell’informazione, è un’idea inventata

soltanto e proprio per questo, non è stata mai veramente un’idea liberale. Il liberalismo classico

sotto tutte le sue forme, ha sempre accordato una grande importanza all’educazione e una

importanza ancora più grande alla responsabilità».7 ( R. Parascandolo, Contro la televisione, K.

Popper, 1994)

Popper afferma ancora che:

« tutte le correnti del liberalismo classico, hanno insistito sulla necessità di controllare il potere e

il miglior mezzo è quello dell’autocontrollo, un certo autocontrollo ci deve essere in ogni caso.

Ogni potere, soprattutto un potere gigantesco come quello della televisione deve essere controllato.

La proposta è questa: fondare una istituzione come quella che esiste per i medici.

I medici si controllano attraverso un Ordine( ben inteso il Parlamento ha un potere superiore a

quello dei medici).

Sul modello di quello dei medici si potrebbe creare un Istituto per la televisione . La mia proposta è

che tutti voi che siete qui, siate registrati provvisoriamente come membri dell’Istituto della

televisione. In seguito dovreste partecipare ad una serie di corsi per sensibilizzarvi ai pericoli a

cui la televisione espone i bambini, gli adulti e l’insieme della nostra civiltà .

Molti di voi scoprirebbero problemi ignorati dalla professione e sarebbero indotti a considerare in

maniera nuova la società e il loro ruolo all’interno della società. Ritengo che inoltre in un secondo

tempo, dovreste sostenere un esame per vedere se vi siete impadroniti dei principi fondamentali .

Superato l’esame dovreste prestare giuramento come i medici.

Dovreste promettere di tenere sempre presente quei pericoli e di agire di conseguenza, in modo

responsabile. E’ soltanto allora che potreste entrare come membro permanente nell’Istituto per la

televisione, non mantenendo quella promessa, perdereste la vostra licenza.[….] Naturalmente

dovrebbe essere possibile fare appello ad un’istanza di giudizio superiore, ma se questa

confermasse che avete agito irresponsabilmente, perdereste il diritto a lavorare in televisione. Ben

inteso queste istituzioni dovrebbero essere elette a maggioranza da voi stessi e la misura

disciplinare, che potrebbe togliervi la licenza, dovrebbe provenire da una Corte in cui vi fossero

dei professionisti come voi a detenere il più alto potere.

Bisogna stabilire delle regole, quanto poi al modo in cui quelle regole debbano essere formulate e

modificate, ciò dovrebbe nascere dall’esperienza concreta e dovrebbe pertanto essere oggetto di

discussone». 8 ibidem

E’ innegabile la grande responsabilità di ogni educatore, ed è pertanto necessario difendere il diritto

delle nuove generazioni ad essere informate correttamente. Anzi è fondamentale in ogni intervento

educativo dare ai giovani le competenze e le abilità necessarie per discernere una corretta

informazione da una informazione tendenziosa, distorta, che altera in modo deliberato la verità e

realtà dei fatti.

Il ruolo degli educatori deve essere, a nostro avviso, non tanto quella di presiedere al controllo del

potere dell’informazione o di dar vita ad una nuova “elite del sapere” la quale, più o meno

responsabilmente, si assuma l’onere di una diffusione corretta dell’informazione, dell’educazione

e della conoscenza. Il compito, lo ribadiamo, è soprattutto quello di approntare strumenti educativi

e una programmazione didattica in grado di dotare gli studenti di nuove competenze e abilità, tali

da permettere loro di valutare la qualità e la veridicità di ogni informazione. D’altronde i rischi,

cui accenna il filosofo viennese e ai quali l’informazione espone la nostra civiltà , sembrano

permanere e mostrarsi con una intensità e ampiezza ancora maggiore se rapportata al secolo scorso,

dal momento che viviamo in una società della informazione telematica, pervasiva e globalizzata.

Il pubblico in generale, e soprattutto quello giovanile, è costantemente sottoposto ad un fooding di

notizie o immagini false, che mentono o alterano i fatti, vanificando ciò che dovrebbe essere la

funzione dell’informazione, quella di accrescere la conoscenza, promuovere idee nuove,

promuovere forme di partecipazione democratica, consolidare la civiltà.

La domanda che oggi potremmo formulare è in che modo poter utilizzare ai fini della conoscenza e

dell’educazione quell’enorme potenzialità espressa dai social network e della rete in generale, come

fruirne bene ed in modo proficuo, come prevenire e curare ogni forma di distorsione e

manipolazione del mezzo, come difendersi da informazioni non vere.

Per l’impostazione di un metodo scientifico di apprendimento, adatto a vagliare le informazione e

sviluppare il sapere, potremmo ancora una volta far ricorso al filosofo Popper.

Egli ci offre spunti significativi in tal senso, poiché ci suggerisce di partire da un problema reale,

tentare di risolverlo, mettere a confronto varie teorie, imparare da errori che emergono da ogni

discussione critica, proporre qualche nuova teoria. Un metodo scientifico di apprendimento si basa

su un procedimento per congetture ovvero per ipotesi, confutazioni, prova ed errore.

Ogni ipotesi deve essere sottoposta al vaglio di una eventuale “falsificazione”. L’impostazione

didattica per lo sviluppo delle competenze argomentative degli alunni può avvalersi di tale metodo.

Lo sviluppo di tali competenze significa mettere gli alunni in condizione di verificare in modo

razionale qualsiasi tipo di informazione e di operare delle scelte tra fonti ed informazioni attendibili

e fonti inattendibili.

La competenza è sempre legata ad un compito e ad uno specifico contesto, permette di mettere in

moto le proprie risorse interne sia cognitive che affettive e di coniugarle con quelle che provengono

dall’esterno. In sintesi, le competenze che lo studente deve acquisire per essere in grado di valutare

l’attendibilità di una informazione sono:

a) competenze chiavi in madrelingua

b) padroneggiare gli strumenti espressivi ed argomentativi, indispensabili per gestire la

comunicazione in vari contesti

c) capacità di mettere in discussioni le opinioni accettate, sottoponendole al vaglio di una

possibile ed eventuale falsificazione

d) competenze civiche

e) capacità di sostenere una propria tesi con dimostrazioni ed argomentazioni

Nell’ambito più specifico delle fonti d’informazione in rete, è necessario sviluppare negli alunni:

a) la capacità di vagliare le fonti di informazioni e di individuare quelle accreditate

b) di evitare quelle fonti in cui i titoli delle informazioni siano altisonanti o di contenuto

esagerato, spesso portatore di notizie false

c) distinguere siti autentici da siti non autentici ma che ricalchino con cambiamenti minimi

gli URL di siti accreditati

d) capacità di consultare la sezione “Informazioni” di organizzazioni non conosciute per

valutare la fonte da cui proviene una notizia

e) abilità di controllare la formattazione e l’impaginazione dei testi, verificando eventuali

errori di battitura, spesso presenti in siti di notizie false

f) capacità di individuare immagini e video ritoccati. Talvolta le immagini potrebbero

essere autentiche ma messe in contesti diversi

g) capacità di individuare date errate di avvenimenti

h) capacità di cogliere all’interno di una notizia riferimenti ad esperti di cui non viene citato

il nome, cosa che potrebbe indicare la falsità dell’informazione riportata

i) abilità nel controllare se uno stesso avvenimento viene riportato da molte fonti

attendibili oppure da nessun’ altra fonte, nel primo caso la notizia ho più probabilità di

essere vera

j) condividere le notizie online solo se non ci sono dubbi sulla loro veridicità

Appare evidente che per discernere l’attendibilità o inattendibilità delle fonti e delle notizie in rete

occorrono nuovi tipi di competenze ed abilità da innestare su quelle tradizionali, è necessario fare

riferimento ad un sapere e ad abilità oltre che teorico anche pratico.

Ad esempio, per analizzare immagini e rilevarne le possibili alterazioni, si adoperano strumenti

software indispensabili del tipo Adobe Photoshop, che permettono di spingere l’immagine fino al

singolo pixel per scoprirne le eventuali incongruenze.

Anche nei filmati ci possono essere alterazioni di sincronismo audio e/o video che lasciano

intravedere manipolazioni effettuate a livello di post produzione. L’alterazione in taluni filmati è

possibile sentirla e vederla ed anche in questo caso si utilizzano software del tipo Movie Maker per

analizzare sequenze di fotogrammi contenuti nel filmato e i file audio che lo accompagnano.

Strumenti di tal genere possono essere fruiti dagli utenti nell’approccio a qualsiasi informazione in

rete per verificarne l’attendibilità. E’ di alcuni mesi fa un articolo della “Stampa” in cui si parla di

una iniziativa presentata al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia che ha come scopo la

diffusione di un decalogo su come individuare le false notizie.

1.4. Le fake news e l’educazione civica digitale

E’ recente l’iniziativa che, in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia,

Facebook ha adottato per limitare la diffusione delle bufale in rete: per tre giorni, in 14 Paesi il

Social Network ha mostrato una guida per individuare le fake news e per non condividerle.

Facebook non guadagnerebbe dalle notizie false, sostiene Campbell Brown, responsabile News

partnership del social network, «a guadagnarci sarebbero quelli che le pubblicano, attraverso la

pubblicità». Secondo quanto afferma Brown le fake news non verrebbero quasi mai pubblicate per

questioni di opinioni o di politica, nella maggior parte dei casi gli articoli conterrebbero quasi

soltanto annunci pubblicitari, perché è lì che si guadagnerebbe . Obiettivo dell’iniziativa di

Facebook , pertanto, è quello di « ridurre la circolazione delle fake news, renderle meno visibili,

dunque non farle comparire nel news feed di ciascuno di noi e non censurarle, “perché non

possiamo essere noi a decidere cosa è vero e cosa è falso». 9

(http://www.lastampa.it/2017/04/06/tecnologia/idee/da-facebook-un-decalogo-per-riconoscere-le-

notizie-false).

Per ridurre la diffusione di notizie false si chiede aiuto per lo più agli stessi soggetti che fruiscono

delle informazioni, si fa affidamento sul loro senso civico, sul loro diritto ad essere informati. Tra le

strategie si fa riferimento al controllo dell’URL del sito, alla verifica delle fonti e alla ricerca su

altre segnalazione sul tema. Appare evidente che introdurre nuove abilità e competenze è un

compito da affidare alla formazione e alla progettazione educativa:

«Rafforzare l’alfabetizzazione mediatica è una priorità globale, e noi dobbiamo fare la nostra parte

per aiutare le persone a capire come prendere decisioni e su quali fonti poter fare affidamento. Le

notizie false sono contrarie alla nostra missione di connettere le persone attraverso storie

significative”, precisa Adam Mosseri, Vicepresidente News Feed di Facebook. Sull’educazione

puntano anche la Svezia, che dal prossimo anno inserirà l’educazione civica digitale nei

programmi delle elementari, mentre si segnala in Italia il tour nelle scuole della Commissione

diritti Internet della Camera, per raccontare ai ragazzi come battere fake news e manifestazioni di

odio in rete» 10 ibidem 

 

Possiamo dedurre da quanto affermato, che se non c’è la possibilità di eliminare del tutto ed in

modo definitivo le false notizie (nella storia della diffusione delle informazioni non è inusuale il

fatto di dover spesso smentire o confutare argomentazioni infondate), possiamo almeno limitare la

diffusione di fake news.  Facebook si affida a organismi esterni di verifica delle notizie, delega loro

la valutazione di esse e «mette a disposizione dei professionisti dell’informazione un potente

strumento di analisi dei social network acquisito lo scorso anno il CrowdTangle». 11 ibidem

CAPITOLO 2

LE STRATEGIE DI MANIPOLAZIONE DEI MEDIA

2.1 Il potere soporifero dei media

Un utile riferimento sulle strategie adoperate nei media per alterare e manipolare l’informazione

soprattutto per fini politici e, non specificatamente economici, è lo studio del filosofo e linguista

Noam Chomsky. Il filosofo fa riflettere sul potere “ipnotizzante” di alcuni media, in particolare di

quelli tradizionali come il mezzo televisivo, ma partendo dalle sue osservazioni possiamo

approntare strumenti di indagine sui nuovi media e programmare per gli studenti nuove skills per

difendersi dalla manipolazione mediatica in generale. Chomsky parla del potere “anestetizzante”

della televisione davanti alla quale un individuo è isolato e dalla quale recepisce in modo acritico

un sapere semplificato, illusorio, poco significativo.

Ne Il potere dei media Chomsky si sofferma sul potere pervasivo del mezzo televisivo e mediatico

della carta stampata in ambito soprattutto politico, dove la strategia adoperata per manipolare il

consenso è quella di fissare una distinzione tra un “noi” ed un “loro”, questi ultimi trattati come una

sorta di “cani sciolti”, elementi di disturbo, nemici da isolare politicamente.

Un metodo scientifico questo di cui sopra, strategia di gestione del potere che Chomsky intravede

fin dal 1930 negli Usa per bloccare e controllare l’avanzata degli scioperi di lavoratori in

Pennsylvania a Johnstown. Tra grandi imprese, governo e media si verificherebbe, secondo quanto

afferma Chomsky, un continuo interscambio di personalità, continui contatti ed interferenze che

rendono alquanto difficile una piena autonomia dell’informazione. Per il linguista sia che si

reputino “liberal” oppure “conservatori”, i media sono aziende che vendono un prodotto al mercato

della pubblicità, dove si muovono ingenti capitali.

Il prodotto che i media vendono è il pubblico di lettori per quanto concerne la carta stampata, e

l’audience per quanto riguarda il mezzo televisivo.

Non stupisce, pertanto, che l’immagine del mondo che i media presentano rifletta l’interesse e i

valori ristretti dei venditori del prodotto e degli acquirenti:

Sia che si definiscano “liberal” o “conservatori” i principali media sono grandi aziende, possedute

da società ancor più grandi. Come altre imprese vendono un prodotto ad un mercato. Il mercato è

quello della pubblicità, cioè di un altro giro di affari. Il prodotto è l’audience. I media più

importanti, quelli che stabiliscono le priorità a cui gli altri devono adattarsi, vantano un prodotto

in più: quello di un pubblico relativamente privilegiato.

Abbiamo quindi delle grandi imprese che vendono un pubblico piuttosto benestante e privilegiato

ad altre imprese. Non stupisce che l’immagine del mondo che esse presentano rifletta gli interessi e

i valori ristretti dei venditori, degli acquirenti e del prodotto». 12 (N.Chomsky, I media,

www.tmcrew.org/archiviochomsky/ziosam)

E ancora:

«Altri fattori intervengono a rafforzare questa stortura: i manager culturali condividono interessi e

legami di classe con i loro omologhi nello stato, nel mondo degli affari e negli altri settori

privilegiati, infatti tra le grandi imprese, il governo e i media, si verifica un continuo interscambio

di personalità ai più alti livelli. La facilità di accesso alle massime autorità dello stato è

fondamentale per poter conservare una posizione competitiva, le “soffiate” o le “indiscrezioni” per

esempio, sono spesso invenzioni o distorsioni fabbricate dalle autorità con la collaborazione dei

media, che fanno finta di non conoscerne l’origine. In cambio le autorità dello stato esigono

cooperazione e sottomissione» 13 (ibidem)

Nel corso della storia non mancano esempi in cui l’informazione nel giro di poco tempo sia riuscita

a trasformare l’opinione pubblica su questioni importanti, affiancando un potere politico che non

riusciva a controllare o ad incanalare il consenso. Non rare sono le volte in cui, anche negli anni più

recenti, una popolazione pacifista si è trasformata in popolo fanatico favorevole alla guerra,

affiancando il potere politico in scelte di politica militare.

L’appoggio dei media e del mondo degli affari è decisivo, ad esempio, per l’affermazione di una

linea politica favorevole ad un intervento militare. La prima operazione propagandistica di un

governo moderno in tal senso « fu quella di Woodrow Wilson eletto presidente degli Stati Uniti nel

1916 nel pieno del primo conflitto mondiale. Wilson istituì una Commissione governativa per la

propaganda, la Commissione Creel, e fece in modo che gli Stati Uniti entrassero in guerra. 14

(N.Chomsky, Atti di aggressione e controllo, capitolo 3, ed Marco Tropea) .

Molte notizie, che fecero nascere nell’opinione pubblica un fanatismo ad oltranza contro i tedeschi,

erano quelle che oggi chiameremmo fake news, fatti completamente inventati, che indirizzarono il

pensiero perfino dei cittadini statunitensi più intelligenti e più disincantati. Una lezione che altri

capi di stato in seguito hanno appreso e di cui ancora si discute. E’ il caso della notizia delle armi

di distruzione di massa, cioè armi nucleari o chimiche di cui secondo il Pentagono il

dittatore Saddam Hussein sarebbe stato in possesso ma mai rinvenute. Anche l’assunto che Saddam

avesse avuto legami con Al Qaeda nella preparazione dell’11 settembre non è mai stato provato,

così come il dogma secondo il quale i paesi Occidentali esportino la democrazia nei paesi con un

sistema socio politico diverso. Perfino « la risoluzione 1441, votata a novembre 2003 dal Consiglio

di sicurezza dell’Onu, non senza accese discussioni al suo interno, faceva riferimento a “ispezioni

per il disarmo in Iraq”.  Quattro mesi dopo, uno dei capi degli ispettori dichiarò nel rapporto

all’Onu che “non ci sono prove di programmi di armamenti segreti dell’Iraq”. Ma, anche senza

l’avallo ufficiale delle Nazioni Unite, l’operazione Iraqi Freedom era già in pieno svolgimento». 15

( Il Fatto quotidiano, Saddam e le armi di distruzione di massa. Otto anni di sangue in Iraq,10

ottobre 2011).

Il risultato di questa guerra è stato quanto mai disastroso e terribile dal punto di vista politico ,

economico ed umanitario, il numero di morti incalcolabile. Nel maggio 2008, Linda

Bilmes e Joseph Stiglitz hanno calcolato, dichiarato al Washington Post e pubblicato in un libro che

la guerra in Iraq «sarebbe costata al popolo americano tremila miliardi di dollari». 16 (Linda

Bilmes, Joseph Stiglitz. The Three Trillion Dollar War: The True Cost of the Iraq Conflict. W. W.

Norton & Company. First edition. February 17, 2008). Il ruolo dei media tradizionali, in primis la

televisione, in queste vicende di carattere internazionale è stato pervasivo ed importantissimo, un

ruolo che anche uno scrittore come P. P. Pasolini riconosceva alla televisione come medium di

massa.

2.2 I nuovi media : tra “omologazione” culturale e nuove richieste di democrazia

In una nota intervista televisiva rilasciata ad Enzo Biagi nel 1971 P.P.Pasolini si soffermava sul

potere mistificante, reazionario, conservatore e antidemocratico della televisione di stato, egli

affermava:

« la televisione è un medium di massa e un medium di massa non può che mercificarci e

alienarci… non posso dire tutto quello che voglio, no,  perché sarei accusato di vilipendio, di

vilipendio del codice fascista italiano. In realtà io non posso dire tutto. E poi, a parte ciò, di fronte

all'ingenuità e alla sprovvedutezza di certi ascoltatori io stesso non vorrei dire certe cose. Quindi,

mi autocensuro. Ma non è tanto questo, è il medium di massa in sé.

Dal momento in cui qualcuno ci ascolta dal video ha verso di noi un rapporto da inferiore a

superiore che è un rapporto spaventosamente antidemocratico [……].Alcuni spettatori che

culturalmente per privilegio sociale ci sono alla pari, prendono queste parole e le fanno loro, ma in

genere le parole che cadono dal video cadono sempre dall'alto, anche le più democratiche, anche

le più vere, le più sincere.

Io non parlo di noi in questo momento alla televisione, parlo della tv in sé come mezzo di

comunicazione di massa. Ammettiamo che questa sera ci sia con noi anche una persona umile, un

analfabeta, interrogato dall'intervistatore.

La cosa vista dal video acquista sempre un'aria autoritaria, fatalmente, perché viene data come da

una cattedra. Il parlare dal video è parlare sempre ex cattedra, anche quando questo è mascherato

da democraticità» 17 P.P.Pasolini, Intervista di Enzo Biagi, Programma televisivo Terza B, anno

1971

Negli anni che vanno dal 1973 al 1975 P.P.Pasolini usa lo spazio di un giornale come “Il Corriere

della sera” per analizzare ancora una volta la società di massa dopo gli anni del boom economico

e la seconda rivoluzione industriale degli anni Sessanta. Assume una posizione dura nei confronti

del presente mostrando l’altra faccia della modernità, quella repressiva, barbara e omologante.

Uno dei temi su cui ruota la sua riflessione è quello della “ mutazione antropologica degli italiani”

asserviti alla unica logica dominante del mercato e alla quale i media tradizionali sembrano fare da

sponda , in una sorta di appiattimento e “genocidio culturale” che azzera le differenze. Lo strumento

di questa sorta di rivoluzione, che per certi aspetti è anche una involuzione culturale, un

asservimento alle logiche del potere economico e del mercato, sembra essere ravvisata nel

principale mezzo della comunicazione di massa che è la televisione. Essa appare la principale

artefice , se non l’unica, del conformismo di massa che all’insegna del consumo edonistico delirante

ha pervaso la società italiana con nuovi miti. Vittime di questo tripudio del nulla sembrano essere i

giovani , che Pasolini vede ormai deprivati di una propria identità culturale e di classe. La

centralizzazione dei modelli di vita si affermava in modo granitico sotto le vesti apparenti di una

finta democrazia dei media, che assecondava lo strisciante dispotismo della pura logica di mercato

o del potere politico e ideologico dominante:

« Ma mai un «modello di vita» ha potuto essere propagandato

con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo

o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da

realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il

linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-

mimico, il linguaggio del comportamento. Che viene dunque mimato

di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico-mimico e nel

linguaggio del comportamento nella realtà. Gli eroi della

propaganda televisiva - giovani su motociclette, ragazze accanto

a dentifrici - proliferano in milioni di eroi analoghi nella realtà.

Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva

rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia

edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace» 18

( P.P.Pasolini, Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione

antropologica in Italia, «Mondo», intervista a cura di Guido

Vergani, 11 luglio 1974)

In un articolo del 1973 dal titolo” Sfida ai dirigenti della televisione”, Pasolini ribadisce in modo

iterato il ruolo autoritario ed antidemocratico del mezzo televisivo e sembra preannunciare, per

alcuni tratti essenziali, l’intervista che sarà poi rilasciata da K. Popper nel 1993 sul potere della

televisione, riportata da R. Parascandolo. Lo lo scrittore italiano prende violentemente posizione

contro la televisione italiana, che ha permesso al nuovo potere della società dei consumi di

omologare ed apportare una sorta di “mutazione genetica” dell’italiano medio, imponendogli un

unico modello culturale, nonostante l’abbondante retorica democratica e perfino egualitaria.

L’autore accusa la televisione di aver realizzato una sorta di controllo centralizzato, che neppure “il

centralismo fascista” aveva portato a pieno compimento, il controllo della civiltà dei consumi e

della propria “ideologia”.

A tale modello non si sarebbero sottratte neppure le culture popolari particolari, come quella

contadina e operaia , che si erano mantenute fedeli ai loro antichi modelli anche nel ventennio

fascista. Alla religione, che secondo Pasolini, era formalmente l’unico modello culturale

omologante, la televisione avrebbe sostituito un modello unico voluto dalla nuova

industrializzazione: “l’uomo che consuma”. Gli italiani avrebbero accettato con entusiasmo questo

nuovo modello, imposto dalla televisione fin dagli anni Sessanta, basato sulla produzione, creatrice

di benessere per tutti. Quanto poi si sia realizzato tale modello è oggi più che mai discutibile. La

televisione è dunque vista come strumento di potere e potere essa stessa, un centro “elaboratore di

messaggi”, “autoritario e repressivo”:

«Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo

della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato

e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità

e concretezza. Ha imposto cioè — come dicevo — i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla

nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende

che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.

Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle

scienze umane. 

L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo,

infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che «omologava» gli italiani. Ora esso è

diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale «omologatore» che è l’edonismo di massa:

e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo.» 19

( P.P.Pasolini, Sfida ai dirigenti della televisione, Corriere della sera, 9/12/1973)

E ancora:

« Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti

e imposti dalla televisione.

Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende,

vanno ancora a messa la domenica: in macchina).

Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro

secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo

hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?

No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a

realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia

nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi[…..] . La responsabilità della televisione, in tutto

questo, è enorme. Non certo in quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere

essa stessa.

Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di

messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove

collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo

potere.

Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai

nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans

mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. I

l fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del

popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione

(specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per

sempre.  20 (ibidem)

Se per Pasolini la cultura di massa non è vera cultura ma “anticultura” , se come fenomeno storico

è irreversibile, tuttavia essa può essere analizzata , studiata, incanalata in una direzione pluralista,

in una direzione che lo scrittore definisce autenticamente “culturale” e che noi diremmo veramente

“democratica”.

Ancora oggi la massa enorme di immagini, cifre , dati di cui la televisione e i giornali ci inondano

in modo pervasivo, contengono molto spesso, anche su questioni di cruciale importanza,

informazioni ingannevoli , spesso non vere, le cui conseguenze in termini di scelta sono senz’altro

positive per chi le fa circolare, ma fuorvianti per la massa di utenti, poiché ne cambiano la

percezione con schemi e metodi subdoli.

Gli esempi degli ultimi cinquant’anni sono innumerevoli, potremmo ricordare, «la massa imponente

di immagini e cifre raccapriccianti che i giornali e le tv del mondo “civilizzato” hanno riversato su

di noi, tra il 16 marzo e il principio di giugno del 1999, a documentare una sorta di “massacro”

kosovaro ad opera delle milizie serbe. Così fu costruito post eventum il consenso di una guerra

intrapresa prima ancora che fossero investiti i Parlamenti, e ancora nei primi giorni del conflitto,

considerata - a giudicare dai sondaggi quotidianamente pubblicati- un’arbitraria aggressione.

Quelle cifre ed immagini hanno fatto un eccellente lavoro dal punto di vista di chi le aveva

commissionate. » 21( L. Canfora, Critica della retorica democratica, ed Laterza 2002, pp.73-74)

Ma a fronte di quelle cifre imponenti ecco i dati esaminati alcuni mesi dopo tra le pieghe

“invisibili” dell’informazione che lasciano capire le vere ragioni per cui si interveniva in guerra nel

Kosovo:

«a) 2 luglio1999 “USA Today”: “ Invece di 100.000 albanesi uccisi da milizie serbe, fonti ufficiali

americane stimano attualmente che circa 10.000 furono effettivamente uccisi»

b) 11 novembre 1999 “L’Espresso” a p.174 (la notizia di 28 righi), pubblica una dichiarazione di

Pujol, consulente , in quanto “ esperto”, del Tribunale dell’Aja:« gli albanesi sepolti in Kosovo

nelle fosse comuni durante il conflitto della scorsa primavera sono circa 2500»

c) 7 gennaio 2000, “Il Corriere della Sera”, p.9, informa che l’operazione di scavo è stata

completata nel precedente dicembre. I cadaveri sono risultati 2108, non tutti necessariamente

albanesi. Il giornale pubblica la dichiarazione anche del medico spagnolo Juan Lopez Palafox, che

ha diretto la macabra operazione. Egli ha riconosciuto, tra l’altro, che gli era stato preannunciato

di prepararsi a circa 10.000 autopsie» 22 ibidem

2.3 Il consumo dell’informazione e la produzione orizzontale delle notizie nei new media

Nei nuovi media l’informazione si “consuma” a ritmo vertiginoso, potremmo dire però che questa

informazione viene anche prodotta “orizzontalmente”, in maniera che tutti teoricamente possano

essere partecipi della creazione di idee e della diffusione delle notizie, in cui nessuno appare

aprioristicamente escluso e possa dire la propria opinione.

Questo aspetto rappresenta un fatto inedito, sostanzialmente democratico, che pone dinanzi a molte

sfide e a molti interrogativi. L’informazione in rete potrebbe perfino emendare i difetti ravvisati da

alcuni studiosi nella “natura, effettiva, di regime misto, a prevalenza oligarchica, che si annida

dentro ogni forma di democrazia parlamentare o anche sovietista » 23( L. Canfora, Critica della

retorica democratica, op. cit., p 79)

Gli ideologi guglielmini, al contrario, già nel tempo del Krieg der Geister , ossia del dibattito di

idee che coinvolse gli intellettuali e i media dei Paesi entrati in guerra nel 1915, descrissero la

natura di élite del potere democratico, cominciando ad enucleare il carattere per così dire totalitario

dei gruppi di pressione “retro scenici”. L’informazione sui nuovi media come la rete, se utilizzata e

prodotta con la competenza, con gli strumenti interpretativi e selettivi che la scuola e la

progettazione didattica può fornire su larga scala, può aprire nuove prospettive di democrazia e

partecipazione . Gli sviluppi e le sfide sono ancora in fieri in tal senso.

Ancora una volta la scuola sembra chiamata ad un compito cui non può derogare , quello di

educare le nuove generazioni allo spirito critico, a fruire dei nuovi e potenti mezzi mediatici della

società globalizzata per accrescere la conoscenza e non per riaffermare nuove forme di

omologazione ed asservimento.

Migliorare la formazione significa migliorare l’informazione, liberare la conoscenza, promuovere la

nascita di idee, la partecipazione democratica a vantaggio di un miglioramento generale della

società. In merito alla possibilità di partecipazione democratica dei cittadini alle scelte della

politica , di diverso avviso era Walter Lippman (1889-1974), giornalista ed esperto di politica

statunitense, interna ed estera del secolo scorso. Partecipò alle Commissioni di propaganda e

rinsaldò le sue convinzioni circa la necessità di indirizzare l’opinione pubblica ed il consenso verso

l’operato di una esigua classe dirigente ritenuta capace e specializzata nella gestione del potere.

Egli pensava che «la propaganda era per la democrazia ciò che il randello era per lo stato totalitari, era cosa buona e giusta, perché gli interessi comuni sfuggono al gregge smarrito della popolazione

che mai saprebbe neppure immaginarli» 24 (N. Chomsky, Atti di aggressione e controllo, cap 3 ,

cit.). In realtà la falsificazione delle notizie e degli eventi, appare una costante della propaganda

politica non solo statunitense ma in generale:

« e quando il sistema scolastico ed il mondo della cultura sono allineati, il consenso è

assicurato[…..] , l’immagine del mondo che viene presentata al popolo ha solo una remotissima

relazione con la realtà. La verità sotto un enorme castello di bugie» 25 ibidem

CAPITOLO 3

INFORMATION ORIENTEERING

3.1 Le notizie preconfezionate ad uso dei consumatori

La presenza delle cosiddette bufale nell’informazione, non è l’unico elemento che oggi può aiutare

ad identificare una condotta di disinformazione. Oltre alle fake news , notizie false, è da considerare

parimente pericoloso quello che con una nuova espressione potremmo definire “information

orienteering” o orientamento informativo.

E’ un termine che prende spunto dallo sport, l’Orienteering, che si basa su una sorta di caccia al

tesoro, un percorso obbligato attraverso il quale i concorrenti sono chiamati a passare all’interno di

un campo di gioco nel quale devono orientarsi.

Accade anche per l’informazione questa stessa cosa: spesso il percorso di conoscenza di una notizia

o di un evento è già predeterminato da chi ha tutto l’interesse a diffondere un preciso messaggio,

per ottenere un preciso effetto. Ciò fa pensare a notizie confezionate, selezionate ad uso dei

consumatori e lanciate sul mercato dell’informazione come prodotti offerti ai possibili fruitori dopo

indagini di mercato. In un saggio scritto nel 2007 dal titolo “What we say goes”, Chomsky si

sofferma in particolare sul processo di creazione o manipolazione di un intero “orizzonte cognitivo”

transmediale e pervasivo.

Tale processo può prescindere da una notizia falsa , nel senso che può farne a meno, poiché non c’è

alcuna necessità di farvi ricorso, per basarsi più semplicemente su un sapiente “dosaggio” di notizie

vere. Si tratta di dirigere l’informazione, dosarne i flussi e guidarli attraverso percorsi

predeterminati.

Uno degli esempi che potremmo indicare è quello dell’informazione legata ad un evento storico di

portata mondiale come l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy nel avvenuto nel 1963 e

di cui ci parla Chomsky del saggio indicato.

Nel tentativo ( del tutto riuscito, a giudicare dai risultati) di distrarre l’opinione pubblica

dall’analisi degli elementi tangibili, la strategia comunicativa della CIA si è basata su una politica di

“disclosure controllata”.

Le notizie riguardanti l’assassinio di Kennedy sarebbero state diffuse in modo da lasciare

all’opinione pubblica lo spazio per le illazioni più disparate. Una “cortina fumogena” ivi comprese

le piste, probabilmente false, che portavano alla mafia come mandante, creata ad arte per alimentare

la vena polemica generale ed occultare elementi più importanti come quelli che conducevano ai

reali mandanti dell’assassinio ed al reale movente.

La cosiddetta “teoria del complotto” additata come responsabile della disinformazione del pubblico,

sarebbe in altre parole una strategia volta proprio a confondere il pubblico. Non conseguenza ma

vera e propria causa della disinformazione. Nel libro “What we say goes” Chomsky dice:

«A couple of years ago, j came across a Pentagono document that was about declassification

procedures. Among other things, it proposed that the government should periodically declassify

information about the Kennedy assassination. Let people trace whether Kennedy was killed by the

mafia, so activist will go off go on a wild goose chase instead of pursuing real problems or getting

organized».

« Un paio di anni fa mi sono imbattuto in un documento del Pentagono riguardante procedure di

declassificazione. Tra le altre cose proponeva che il governo dovesse periodicamente declassificare

ossia desecretare informazioni riguardanti l’assassinio di Kennedy. Lasciate che la gente cerchi di

capire se Kennedy sia stato ucciso dalla mafia, così gli attivisti si impegneranno in un folle ed

inutile inseguimento anziché andare dietro a veri problemi o organizzarsi». 26 ( N.Chomsky What

we say goes”,Allen & Unwin, Nuova Zelanda, 2007, p.39

Possiamo dire, pertanto, che il flusso di informazione può essere gestito per manipolare l’opinione

pubblica ed che anche le informazioni veritiere, se dosate opportunamente ed in un certo modo

possono orientare il consenso del pubblico in una direzione predeterminata. In tal modo si fornisce

all’opinione pubblica l’illusione di venire a conoscenza di verità, laddove viene mostrata soltanto

una parte del quadro e non la visione di insieme. Nessuna bugia, dunque, ma un dosaggio opportuno

di una parte della verità.

Oggi i media tradizionali perdono sempre più lettori a vantaggio della rete, dei media online, di siti

web. Chomsky vide il naturale adattamento delle imprese e del mercato pubblicitario alla nuova

situazione, inoltre rilevò l’innegabile opportunità che la rete forniva agli utenti per ottenere

informazioni ampie e diversificate; tuttavia ne evidenziò anche gli aspetti problematici in quella

sorta di diluvio di materiali, di vespaio di informazioni selvagge, delle quali bisogna

necessariamente operare una selezione, e bisogna essere competenti per farlo.

Alla domanda dell’intervistatore su cosa egli pensasse dell’importanza dei nuovi media e della

crescita di siti web, da ZNet e Common Dreams a Counter-Punch e AlterNet Chomsky risponde:

«The media, I presume, will adjust to this with online publication with advertisements and so on.

The Internet does, as you say, provide opportunities to obtain information and an extremely wide

variety of viewpoints. That’s a good in itself. But there is a downside.

The downside is that you are so flooded with material that unless you have an understanding of the

world that is sufficient to allow you to be selective, you can be drawn into completely crazed

cocoons of wild interpretation.

That happens all over the place. Built into the Internet is a system for creating cults. So, for

example, if I had a blog, which I don’t, and I put up something that is a slightly novel and maybe

questionable interpretation of some event—the Bush administration is trying to poison the water in

Boston or something, to pick at random—tomorrow somebody else would say, “That’s right, but it’s

worse than you think.” And pretty soon you would develop a cult of people proving that the Bush

administration is trying to poison the world’s water. It’s extremely easy to get caught up in that

kind of cultlike behavior, which has a cocoonlike property similar to other religious cults, immune

to evidence, immune to argument.»  

«I supporti, presumo, si adatteranno a questa situazione con la pubblicazione online e gli annunci

pubblicitari e così via. Come si dice, Internet offre le opportunità per ottenere informazioni e

un'ampia varietà di punti di vista.

Questo è un bene in sé. Ma c'è un inconveniente.

L'inconveniente è che si è così inondati di materiale che, a meno che non si abbia una

comprensione del mondo sufficiente per consentire di essere selettivi, si può essere attirati in furiosi

vespai di interpretazioni selvagge. Questo succede in tutto il web. Una delle caratteristiche Internet

è la facilità di diffusione dei miti. Quindi, per esempio, se avessi un blog e dessi un'interpretazione

leggermente nuova e forse discutibile di qualche evento, ad esempio "l'amministrazione Bush sta

cercando di avvelenare l'acqua a Boston" o qualcosa di simile - il giorno dopo qualcun altro

direbbe: "Questo è giusto, ma è peggio di quanto si pensi".

E presto si avrebbe sviluppato un culto di persone convinte che l'amministrazione Bush stia

cercando di avvelenare l'acqua di tutto il mondo. È estremamente facile riuscire a stimolare quel

tipo di comportamento fanatico, simile ad altri culti religiosi, immune alle prove, immune

dall'argomentare.»  27 ivi p.151

Alla nuova domanda dell’intervistatore su cosa egli potesse suggerire a coloro i quali navigano in

rete il filosofo risponde:

«Surfing the Internet makes about as much sense as for, say, a biologist to read all the biology

journals. You will never learn anything that way.

No serious scientist does that. The literature is massive. You get flooded by it. A good scientist is

one who knows what to look for, so you disregard tons of stuff and you see a little thing somewhere

else. The same is true of a good newspaper reader. Whether it’s in print or on the Internet, you have

to know what to look for.

That requires a knowledge of history, an understanding of the backgrounds, a conception of the

way the media function as filters and interpreters of the world. Then you know what to look for. And

the same is true on the Internet.»

«Navigare su Internet ha la stessa importanza di quella che ha, ad esempio, per un biologo leggere

tutte le riviste di biologia. Non imparerai mai niente in questo modo. Nessun scienziato serio lo fa.

La letteratura è enorme. Ne sei inondato. Un buon scienziato è uno che sa cosa cercare, per cui

ignoriamo tonnellate di cose e vediamo qualche cosa da qualche altra parte. Lo stesso vale per un

buon giornalista. Sia che sia in stampa o su Internet, deve sapere cosa cercare. Ciò richiede una

conoscenza della storia, una comprensione degli ambiti di provenienza, una concezione del modo

in cui i media funzionano come filtri e interpreti del mondo. Allora sai cosa cercare. E lo stesso è

su Internet.»28 ibidem

3.2 Le strategie di controllo dell’opinione pubblica

Sulla rete circola da tempo un decalogo che illustra il modo in cui il potere attua forme di controllo

sociale. Si tratta di una serie di strategie svelate, che si ispirano, ancora una volta, alle teorie e alle

dichiarazione del linguista americano N. Chomsky che afferma:

«The key element of social control is the strategy of distraction that is to divert public attention

from important issues and changes decided by political and economic elites, through the technique

of flood or flooding continuous distractions and insignificant information» 29

(www.goodreads.com/quotes/485177)

Alla base della strategia comunicativa e della manipolazione dell’informazione si utilizzerebbero

strategie di distrazione di massa con notizie fuorvianti, oppure con la creazione di problemi creati

ad arte per poi imporre soluzioni ed acquisire in tal modo consenso, con il rinviare la diffusione di

notizie sgradevoli alla massa con la strategia del “differimento, e infine, con la gradualità

nell’introdurre soluzioni sgradite al cittadino, per ottenerne l’accettazione pubblica per una

applicazione futura. In quest’ultimo caso la massa di cittadini è incline alla speranza o ha il tempo

per abituarsi a scelte dolorose, fatte passare per necessarie.

Lo stile della comunicazione è altrettanto importante per far passare un messaggio: il tono è in

genere infantile, con l’esaltazione degli aspetti emotivi e irrazionali della comunicazione; si

adoperano per lo più modelli mediocri nella elaborazione del messaggio, che rimandano alle mode

o sono tesi a colpevolizzare i destinatari per la loro incapacità presunta di affrontare difficoltà di

ordine personale oppure economico.

W. Lippman diceva nel suo saggio l’Opinione pubblica che il problema era « provocare emozioni

nel lettore, di indurlo a provare un senso di identificazione personale con le vicende di cui sta

leggendo. La notizia che non dà questa possibilità di inserirsi nella lotta che presenta, non può

attirare un vasto pubblico. Il pubblico deve partecipare alla notizia, pressappoco come partecipa al

teatro, mediante l’identificazione personale. […..]Per potervi entrare deve trovare un appiglio

familiare nella vicenda, e questo gli vien fornito con l’uso di stereotipi. Questi ultimi gli dicono che

se un’associazione di idraulici viene definita un «monopolio», ha ragione di provare ostilità; se

viene definita un «gruppo di autorevoli esponenti economici», l’invito è a una reazione favorevole.

Il potere di creare l’opinione risiede nella combinazione di questi elementi.» 30 ( Lippmann,

Walter. L’opinione pubblica (Italian Edition) (posizioni 5051). Donzelli Editore. Edizione del

Kindle.

Nel suo saggio il politologo statunitense espone in modo esaustivo le idee in merito alla presunta

incapacità ( oltre che impossibilità) del pubblico di decidere su questioni riguardanti il bene dello

Stato, prefigura come possibile soluzione una classe responsabile, esperta, alla guida di “masse

disorientate”. Lippman sostiene che lo spirito democratico e di partecipazione alla vita sociale e

politica della collettività, richiederebbe però da parte dei cittadini, se non una continua e costante

guida e regia nei confronti dei pochi che li governano, “ almeno un controllo effettivo sulle loro

azioni, pretendendo che esse debbano essere tutte chiaramente documentate e che i loro risultati

vengano tutti obiettivamente misurati”. Dunque egli non prevede la partecipazione democratica dei

cittadini alle decisioni che lo riguardano ma prescrive una qualche forma di misurazione dei

risultati.

Aspirazione di ogni modello di democrazia avanzata potrebbe essere la piena partecipazione dei

cittadini alla vita dello stato, la consapevole richiesta di essere informati correttamente, la

possibilità di vagliare in maniera competente le informazioni che vengono fornite loro per metterle

a confronto.

3.3 Il fact-cheking e l’attività di controllo delle notizie

Nell’Era della informazione globalizzata e del bombardamento mediatico di notizie più o meno

attendibili nasce la necessità di un efficace controllo ed una selezione delle informazioni. Il fact-

cheking è una verifica circa l’attendibilità delle notizie che circolano sui media ed in particolare

online, esso nasce all’interno delle redazioni dei giornali ed è una sorta di controllo delle fonti , un’

autocritica circa i fatti e la loro interpretazione negli articoli.

La funzione è quella di assicurare ai lettori informazioni corrette e questa pratica si diffonde dalla

carta stampata in ogni settore dell’informazione. Un articolo di Focus dal titolo “Fact checking:

guerra aperta alle bufale online” offre spunti di grande interesse per lo studio della nuova frontiera

della verifica dell’informazione online.

Negli Stati Uniti sono nate diverse piattaforme di fact-checkers per verificare le fonti come

Politifact.om oppure Truthgoggles, dal momento che il vaglio delle notizie è un modo efficace

anche per il buon funzionamento di una democrazia. La disinformazione, in particolar modo in

campo politico, non è nata nell’era dei social network, ma con l’avvento di Internet e i social

potrebbe essere bloccata o almeno ridimensionata nei suoi effetti. Secondo il Reporters Lab della

Duke University (Stati Uniti), agli inizi del 2017 erano attivi nel mondo 114 progetti di fact

checking in 53 paesi, un salto numerico rispetto a pochi anni prima. 

Per gli esperti della Duke un buon fact checker, per essere considerato affidabile, deve rispondere

ad alcuni requisiti:  analizzare la prospettiva di tutte le parti coinvolte, esaminare dati oggettivi e da

questi trarre le deduzioni, essere trasparente sui metodi e sui propri finanziatori e, infine, tenere

traccia delle dichiarazioni e promesse dei politici.

Il Washington Post, per esempio, lo scorso anno ha pubblicato RealDonald Context, un piccolo

programma per le applicazioni Firefox e Chrome, che contestualizza i tweet del presidente Trump e

gli attribuisce un indice di veridicità in base a un’operazione di fact checking condotta dalla

redazione.

Storyful è invece una agenzia irlandese fondata da Mark Little e specializzata nella verifica dei

contenuti presenti sui social media, operazione di fact checking che può richiedere oltre 10 ore di

lavoro. In rapporto all’informazione scientifica, un utile riferimento va ad alcuni siti come

SciCheck, Climate Feedback e HealthNewsReview, che si occupano di svelare le false

informazioni nel settore climatico, medico o della salute in generale. 

I social media e le testate giornalistiche stanno guardando con sempre più interesse alla tecnologia e

alla collaborazione anche con gli utenti, per un fact checking efficace.

Sistemi di intelligenza artificiale, in un non lontano futuro potrebbero essere in grado di elaborare

rapidamente grandi volumi di dati e di migliorare le proprie performance nel tempo, svelando false

informazioni messe in rete.

Un articolo di Focus dal titolo “Fact checking: guerra aperta alle bufale online”, offre spunti di

grande interesse per lo studio di sistemi di verifica dell’informazione online: Google Digital News

ha finanziato Factmata, un progetto di automatizzazione della verifica delle informazioni riportate

sui media online, confrontandole con dati ufficiali e liberamente accessibili.

I Google Labs hanno finanziato anche Claimbuster, una piattaforma di analisi del linguaggio

naturale sviluppata all’università di Arlington (Texas), che utilizza l’intelligenza artificiale per

valutare il grado di affidabilità di un’affermazione di taglio politico.

Le tecnologie per un fact checking automatico e su larga scala già funzionano ma il sistema dei

controlli potrebbe raggiungere nel giro di pochi anni livelli ancora più alti e sofisticati , con

verifiche in ogni direzione e in tempo reale; per cui, ad esempio, dichiarazioni false fatte

pubblicamente sui media, potrebbero essere smentite all’istante, nel momento stesso in cui vengono

rilasciate. 

Will Moy, nel rapporto 2016 sull’automazione del fact checking, sottolinea il fatto che tutte queste

tecnologie debbano rimanere “libere”, utilizzare standard comuni ed essere basate su software

gratuiti, in modo che chiunque, enti pubblici e privati, e anche comuni cittadini, possano verificarne

il corretto funzionamento.

Nell’articolo di Rebecca Mantovani su Focus si legge:

« La più grande risorsa della rete sono però i suoi utenti. Ecco perché Facebook, oltre a lavorare

sull’intelligenza artificiale, vuole sfruttare anche gli 1,7 miliardi di iscritti per controllare in tempo

reale ciò che viene pubblicato sulla piattaforma: per esempio dando la possibilità di taggare i

contenuti sospetti ed evidenziando quando un contenuto che si sta per condividere è stato indicato

come non affidabile da più persone. Sul tema delle bufale digitali, soprattutto in ambito politico, si

è espresso qualche giorno fa anche Tim Berners-Lee, l’inventore del World Wide Web, in

una lettera aperta scritta in occasione del 28° compleanno del www. Sir Berners-Lee auspica una

regolamentazione più severa della propaganda politica online e si dice convinto che la risposta alla

disinformazione online risieda, almeno in parte, nella tecnologia». 31 ( Rebecca Mantovani, Fact

checking: guerra aperta alle bufale online, Focus , 21 marzo 2017)

Sir Berners-Lee appare preoccupato dei rischi che gli utenti corrono a causa della diffusione dei

loro dati personali, nonché delle loro preferenze politiche . In tal modo appare compromesso il

diritto alla privacy dei cittadini e , in regimi autoritari, persino la loro incolumità fisica e la libertà

di pensiero.

Appare chiaro come un mezzo come quello del web che fornisce agli utenti possibilità

inimmaginabili, spazi di partecipazione democratica mai realizzati nella storia dell’uomo, nasconda

in sé insidie, potenziali pericoli. Il controllo ed il monitoraggio delle idee di avversari politici, ad

esempio, potrebbe trasformare uno strumento egualitario in una sorta di macchina infernale e

perfino liberticida, in Paesi in cui le istituzioni politiche hanno la possibilità di reprimere forme di

opposizione interna:

«This widespread data collection by companies also has other impacts. Through collaboration with

– or coercion of – companies, governments are also increasingly watching our every move online

and passing extreme laws that trample on our rights to privacy.

In repressive regimes, it’s easy to see the harm that can be caused – bloggers can be arrested or

killed, and political opponents can be monitored.

But even in countries where we believe governments have citizens’ best interests at heart, watching

everyone all the time is simply going too far. It creates a chilling effect on free speech and stops the

web from being used as a space to explore important topics, such as sensitive health issues,

sexuality or religion».

«Questa massiccia raccolta di dati da parte delle aziende ha anche altre conseguenze: grazie alla

collaborazione - o alla coercizione - delle aziende, i governi stanno incrementando l'osservazione

di ogni nostra azione in rete e promulgando leggi estreme che collidono col nostro diritto alla

privacy.

Nei regimi repressivi è facile capire il danno che può derivare - blogger possono essere uccisi o

arrestati, e oppositori politici possono essere monitorati.

Eppure anche nei paesi che crediamo avere gli interessi dei cittadini sopra ogni cosa, il controllo

pervasivo di tutti sta andando troppo oltre. Crea un effetto anestetizzante sulla libera espressione, e

toglie al web la funzione di spazio esplorativo di temi importanti o delicati come la salute, il sesso e

la religione». 32 (www.theguardian.com/technology/2017/mar/11/tim-berners-lee-web-inventor-

save-internet?CMP=share_btn_fb)

Si possono avere informazioni su immagini in rete usando motori di ricerca come Google Images,

Jeffrey’s Exif Viewer oppure FotoForensic, altro strumento online che ci permette di analizzare

colori, forme, ombre e può rivelare tracce di ritocchi con software come Photoshop o simili.

L’analisi dei video e dei loro fotogrammi realizzati in anteprima è possibile ugualmente, di essi si

possono desumere le informazioni ricercando le immagini in rete e tracciando la storia dei video.

Amnesty International ha realizzato YouTube DataViewer, uno strumento che a partire

dall’indirizzo di un video online su YouTube estrae alcune informazioni riguardo al filmato, e in

particolare tutti i fotogrammi generati per l’anteprima: accanto a ognuno, un link consente di

avviare la ricerca di quella singola immagine con Google Images, e si ricade perciò nel primo

suggerimento anti bufala riportato in questa pagina perché l'eventuale "proliferazione" di quella foto

permette di tracciare una storia del video.

 Google Maps ed Earth ci danno la possibilità di verificare la conformazione di qualsiasi luogo del

pianeta e confrontarlo con le immagini presenti online per verificarne la fedeltà. WolframAlpha poi

è un programma che recupera perfino informazioni metereologiche di un luogo e la data, in tal

modo se ne può verificare la corrispondenza con quelle che appaiono nell’immagine o nel video

apparso in rete e che riporta la stessa data.

 

CAPITOLO 4

I LIMITI DELL’INFORMAZIONE GIORNALISTICA COME PIBBLICO SERVIZIO

4.1 Il filo di Arianna e il labirinto dell’informazione mediatica

Analizzando i problemi inerenti la comunicazione e la diffusione delle notizie possiamo fare

riferimento ancora una volta al saggio di W.Lippman , egli afferma in un modo che a noi sembra

scoraggiante, che “verità e notizia non sono la stessa cosa” debbano pertanto essere chiaramente

distinte.

La funzione della notizia è segnalare un fatto, che può essere verificato e di conseguenza accettato o

smentito; la funzione della verità è portare alla luce i fatti nascosti, di metterli in relazione tra di

loro e di dare un quadro della realtà che consente agli uomini di agire, quest’ultima cosa non è

semplice da fare.

Portare alla luce fatti nascosti e oltretutto metterli in relazione, richiederebbe elementi di

conoscenze enormi, la conoscenza di un’enorme mole di dati, che non è agevole verificare,

soprattutto da parte di una massa incompetente e poco interessata a questioni così prettamente

tecniche .

In tal caso la discrezione del giornalista e di chi dà le notizie è enorme e difficilmente le sue

affermazioni possono essere smentite.

Le cause di un fatto, ad esempio , possono essere raccontate in cento modi diversi e difficilmente

smentibili. Da qui nasce il potere enorme dell’informazione:

«La funzione della notizia è di segnalare un fatto, la funzione della verità è di portare alla luce i

fatti nascosti, di metterli in relazione tra loro e di dare un quadro della realtà che consente agli

uomini di agire. Solo là dove le condizioni sociali assumono una forma riconoscibile e misurabile,

il corpo della verità e il corpo della notizia coincidono.

Questa è una parte relativamente piccola dell’interesse umano. In questo settore, e solo in questo

settore , i criteri per giudicare le notizie sono sufficientemente esatti per rendere le accuse di

distorsione o soppressione qualcosa di più di un giudizio partigiano.

Non c’è attenuante né scusa alcuna per dichiarare sei volte che Lenin è morto, quando la sola

informazione che il giornale possieda è una segnalazione della sua morte proveniente da una fonte

che si è dimostrata inattendibile[…..]. Ma quando si tratta, ad esempio, di pronunciarsi su articoli

che trattano di quello che vorrebbe il popolo russo, un tale metro ( di attendibilità) non esiste.

L’assenza di precisi criteri di verifica spiega, mi pare, meglio di qualsiasi altra cosa il carattere

della professione.

C’è un piccolissimo corpo di conoscenze esatte, che non richiede alcuna capacità o preparazione

eccezionali. Il resto rientra nella discrezionalità del giornalista[….] Non esiste una disciplina

psicologica applicata, come esiste una disciplina nei campi della medicina, ingegneria o legge, che

abbia l’autorità di orientare la mente del giornalista quando questi passa dalla notizia al vago

regno della verità.

Non esistono canoni per orientare la sua mente, né canoni che indirizzano il giudizio del lettore o

dell’editore. La sua versione della verità è solo la sua versione […..] dove non esiste un criterio

obiettivo di verifica la sua opinione è fatta dai suoi stereotipi, secondo il suo particolare codice e

secondo l’urgenza del suo interesse. 33(Lippmann, Walter, L’Opinione pubblica op.cit pos.5086-

5109)

Per Lippman le idee si riferiscono a fatti che sono fuori del campo visuale dell’individuo e che per

di più sono difficili da comprendere, ciò che l’individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e

certa ma su narrazioni che gli vengono date dai mezzi di informazione di massa.

La propaganda in ogni settore della vita sociale, in politica come in economia, non è che lo sforzo

di modificare le immagini degli individui, “gli stereotipi” personali, ossia le convinzioni e la forma

mentis, acquisiti in contesti socio –culturali, sostituendo un modello di comportamento ad un altro.

Il problema dunque è quello di dare, se non una conoscenza diretta dei fatti, almeno una corretta

informazione dei fatti, ma ostacoli di vario genere devono essere superati per fare questo: il primo

riguarda gli ostacoli che il governo, o altre autorità dello stato democratico, pongono alla

conoscenza di alcuni fatti di rilevante interesse pubblico, rendendoli segreti, questo segreto limita

molto spesso anche il lavoro stesso dei giornalisti, ai quali le istituzioni trasmettano le

informazioni più superficiali da offrire al grande pubblico e non quella più importante ma segreta

dei colloqui confidenziali, degli incontri non ufficiali, ormai delle telefonate segrete (vedi la recente

polemica in Italia sulle intercettazioni); il secondo risiede nelle motivazioni economiche e culturali

che impediscono a tanti di accedere alle fonti di informazione o di vagliarle, e questi

condizionamenti investono sia gli addetti del settore che i fruitori dell’informazione, ossia i

cittadini; il terzo ostacolo riguarda la volontà da parte di una èlite di orientare l’opinione pubblica

in maniera intenzionale e per un interesse economico o politico:

« […] la storia del concetto di segretezza, di riserbo, sarebbe divertente – ha per l’Italia un peso

assai maggiore rispetto agli altri stati democratici dell’Occidente giacché è ormai accertato che

nella recente storia repubblicana (ma anche in quella dell’età liberale e fascista) l’istituto del

«segreto di stato» o anche quello del riserbo governativo è stato usato più volte per ragioni che

poco o nulla hanno avuto a che fare con l’interesse generale e sono state legate, piuttosto,

all’esigenza da parte di singoli uomini di governo o partiti politici di non far conoscere azioni che

sarebbero andate incontro con ogni probabilità a severe censure di una parte almeno della stampa

e della pubblica opinione.

Purtroppo, fino ad oggi, nessuno studioso ha tentato di ricostruire questo aspetto singolare della

nostra storia recente. Il secondo aspetto di cui parla Lippmann è costituito dalle barriere

economiche, sociali e culturali che impediscono a tanti di accedere alle fonti di informazione: «Ci

sono interi settori – osserva –, vastissimi gruppi, ghetti, isole e classi che hanno solo un vago

sentore di ciò che succede.

La loro vita scorre come su binari, sono rinchiusi nei propri affari, esclusi dagli avvenimenti più

grandi, incontrano poche persone appartenenti a strati diversi dal loro, leggono poco». più o meno

da solo gli affari che rientrano nella sua immediata competenza, soprattutto determina la

somministrazione specifica del giudizio. Ma il giudizio stesso si forma su modelli che possono venir

ereditati dal passato, trasmessi o imitati da altri ambienti sociali». […] Il terzo aspetto cui l’autore

dedica molto spazio riguarda le novità introdotte, nel campo della comunicazione, dalla psicologia

del profondo, che consente di analizzare in maniera assai più rigorosa le motivazioni psicologiche

che spingono individui e gruppi sociali a seguire quel che succede al di fuori del microcosmo in cui

si svolge la vita della maggior parte dei cittadini di uno stato e del mondo intero» 34 (Lippmann,

Walter L’Opinione pubblica, Prefazione di Nicola Tranfaglia, op. cit.)

4.2 Gli “stereotipi” : ostacolo ad una corretta comprensione della realtà

La sfida che ancora oggi investe la società contemporanea è quella di superare i limiti della’attività

giornalista e dei new media come pubblico servizio, limiti che sono poi gli stessi della democrazia

rappresentativa moderna. Ma sappiamo che il potere dei media tende a crescere dove le altre

agenzie di socializzazione, in primis la scuola, non svolgono compiutamente la propria funzione, e

se all’interno della società sono carenti il pluralismo. Un fatto può essere , pertanto, nascosto o

riferito in tanti modi diversi per accarezzare i gusti del pubblico o per orientarne politicamente le

scelte, pertanto, dove non esiste un criterio obiettivo di verifica l’opinione politica del giornalisti ha

un enorme peso. Un pubblico non informato correttamente non è in grado di operare scelte

consapevoli e ciò va a discapito della società in generale e della cultura.

Nell’Era della globalizzazione i mezzi di informazione non danno dimostrazione di un sostanziale

distacco né dai partiti politici né dai poteri influenti economico finanziari, il cittadino per esercitare

i suoi diritti con piena autonomia di pensiero deve possedere i mezzi culturali per difendersi dai

condizionamenti esterni e, oserei dire dai suoi stessi “stereotipi” intesi come immagini mentali

precostituite:

«C’è in questo passaggio un’intuizione importante, strettamente legata agli sviluppi della nuova

psicologia, ed è quella che si riferisce ai «modelli» che influenzano a fondo chi riceve la

comunicazione, nel senso che è a determinati «modelli» che fa sempre riferimento l’utente di ogni

informazione, cogliendo del messaggio che riceve in particolare quella parte omogenea e armonica

rispetto ad essi. Di qui parte, nel saggio di Lippmann, un’analisi approfondita del ruolo centrale

che simboli e stereotipi esercitano nella comunicazione, condizionando al tempo stesso i

comunicatori e i dirigenti dell’informazione, che ne hanno bisogno per costruire un ritratto

coerente e ordinato delle notizie, e gli utenti, che se ne servono a loro volta per codificare i fatti e

darne una prima, sommaria interpretazione. «Di solito – conclude Lippmann – tutto ciò culmina

nell’edificazione di un sistema del male e di un altro, che è il sistema del bene. Allora si rivela il

nostro amore dell’assoluto. Infatti non abbiamo simpatia per gli avverbi che qualificano e limitano,

poiché ingombrano le frasi e ostacolano il sentimento irresistibile».35 ibidem

E ancora:

«C’è un’altra ragione, oltre all’economia dello sforzo, che spiega perché così spesso ci atteniamo

ai nostri stereotipi quando potremmo avere una visione più disinteressata. I sistemi di stereotipi

possono essere il centro della nostra tradizione personale, le difese della nostra posizione nella

società. Formarono un’immagine ordinata e più o meno coerente del mondo, a cui le nostre

abitudini, i nostri gusti, le nostre capacità, i nostri agi e le nostre speranze si sono adattati. Forse

non sono un’immagine completa del mondo, ma sono l’immagine di un mondo possibile a cui ci

siamo adattati. In questo mondo le persone e le cose hanno un loro posto preciso e si comportano

secondo certe previsioni. In esso ci sentiamo a nostro agio; vi siamo inseriti; ne siamo membri;

sappiamo come rigirarci. Vi troviamo il fascino del familiare, del normale, del sicuro; le sue

scanalature e le sue forme stanno là dove siamo abituati a trovarle. E anche se abbiamo dovuto

abbandonare molte cose che ci avrebbero tentato prima che ci accomodassimo alle pieghe di

questo stampo, una volta che ci stiamo ben dentro, troviamo che esso calza comodamente come una

vecchia scarpa. Nessuna meraviglia, quindi, che ogni attacco agli stereotipi prenda l’aspetto di un

attacco alle fondamenta dell’universo: infatti è un attacco alle fondamenta del nostro universo, e

quando sono in gioco cose grosse non siamo affatto disposti ad ammettere che ci sia una

distinzione tra il nostro universo e l’universo. […..] Nessuno schema di stereotipi è naturale. Non è

solo un modo per sostituire l’ordine alla grande, fiorente, ronzante confusione della realtà. Non è

soltanto una scorciatoia. È tutto questo, e anche qualcos’altro. È la garanzia del rispetto di noi

stessi; è la proiezione nel mondo del nostro senso, del nostro valore, della nostra posizione e dei

nostri diritti. Perciò gli stereotipi sono fortemente carichi dei sentimenti che gli sono associati.

Costituiscono la forza della nostra tradizione, e dietro le sue difese possiamo continuare a sentirci

sicuri della posizione che occupiamo» (36 L’Opinione pubblica, op. cit. pos.1616-1632)

4. 3 La post-verità e l’irrilevanza del fatto

Una più corretta informazione per alcuni studiosi sarebbe possibile, come abbiamo avuto modo di

rilevare, solo con la costituzione di organi indipendenti che si assumano la responsabilità di dare

informazioni libere da centri di potere economico - finanziario o politico. Senza dubbio, inoltre, la

creazione di una pluralità di fonti di informazioni, alle quali il cittadino possa attingere per

acquisire progressivi spazi di autonomia e di partecipazione attiva è un elemento decisivo sulla

strada della democrazia. Ma la strada appare impervia e piena di ostacoli : non sempre tutto ciò che

appare sui network ed il rete costituisce garanzia di qualità e la veridicità dell’ informazione, tanto

meno di autonomia.

Persiste il problema della manipolazione mediatica e del potere pervasivo dei grandi network

aziendali che catturano e monopolizzano gran parte dell’informazione che appare in rete. Il fine

dell’informazione mediatica molto spesso esula dall’ interesse pubblico e solo in minima parte, ha

in se come obiettivo la crescita democratica e partecipativa del cittadino, mentre in larga parte ha

scopi legati ad interessi commerciali o di propaganda.

E’ innegabile il fatto che ogni forma di Cultura è “Potere”, pertanto, possedere le competenze

necessarie per decifrare l’informazione ed operare una scelta e una selezioni di contenuti, appare

oggi più che mai un’urgenza per la democrazia occidentale. E’ doveroso fornire alle giovani

generazioni una formazione per difendersi da ogni forma di “assimilazione” della cultura

dominante, regolata e generata spesso da vecchi e nuovi centri di potere economico e politico.

Sono una pletora le informazioni non vere che ci investono, distribuite sotto forma di notizie, che

agiscono secondo i meccanismi di un virus informatico o mediatico, il quale fa leva sulle

“sensazioni” e l’emotività degli individui, ai fini di una manipolazione del consenso e delle menti,

ciò con l’ausilio della ricerca psicologica abbinata ai moderni mezzi di comunicazione.

Karl Kraus ( 1874 – 1936) scrittore, giornalista austriaco, considerato uno dei principali autori

satirici di lingua tedesca ha spesso criticato in modo ironico la società, la politica e i mass media del

proprio tempo. Pare dicesse che “chi esagera ha buone probabilità di venire sospettato di dire la

verità e chi inventa di passare per bene informato” ; Ambrose Bierce giornalista americano, a

ridosso del XIX secolo affermava nel suo Dizionario del diavolo che la verità è una sorta “di

miscuglio di apparenza ed utopia".

Oggi pare calzante e più che mai attuale la sua riflessione. Nel 1967 Guy Debord scrittore, regista e

filosofo francese nel saggio “La società dello spettacolo” pubblicato nel 1967, afferma che le

società dominate dalla economia capitalistica si presentano come un'immensa accumulazione

di «spettacoli». Le immagini sono lontane dalla vita autentica delle persone, spettacolarizzate,

esibite ed imposte al punto che esse diventano l’unica realtà, pervadono la vita degli individui e i

loro rapporti, come vuoti simulacri del nulla. Lo spettacolo diviene il mezzo ed il fine della

produzione capitalistica così che la realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo stesso diventa reale.

Lo spettacolo mostra all'uomo ciò che egli potrebbe fare, ed ogni momento della vita le è affidato .

L’individuo diventa consumatore di immagini, di oggetti e di illusione, si nutre di esse senza mai

divenirne sazio.

Nel mondo realmente rovesciato, in cui tutto è consacrato allo spettacolo che diventa reale, “il

vero” come un momento del “falso”.

L’essenza delle cose pare scomparsa da una larga parte delle nostre immagini alle attingiamo, per

trasformarsi una commedia dell’assurdo. Il riferimento è ad un termine presente nel Oxford

Dictionary il post-truth, ossia post-verità, per indicare che per la formazione dell’opinione

pubblica i fatti oggettivi possono essere meno importanti degli appelli alle emozioni.

Il concetto di post-truth esiste già da tempo, tuttavia in un saggio pubblicato nel 1992 sul magazine

The Nation, Steve Tesich drammaturgo serbo americano, ne esplicita i caratteri essenziali e

specifici. L’autore fa riferimento come esempio emblematico a traffico illecito di armi tra Usa e

Iran tra il 1985- 1986 e che diede vita allo scandalo Iran-Contras, poiché sull’Iran gravava il peso di

un embargo delle armi. Steve Tesich prendeva atto di una generale libera scelta della politica di

vivere in una sorta di mondo della post-verità in cui ciò che veniva detto e diffuso dai media era

irrelato dalla realtà delle cose.

Se si cerca il termine di post-truth nel Nigram Viewer, strumento messo a disposizione da Google

per effettuare ricerche testuali nel database dei libri digitalizzati di cui l’azienda dispone, si può

constatare che il termine compare dal 1988. 37 (DoppioZero, Storia naturale della post-verità, M.

Pireddu, Rivista scientifica, dic.2016)

L’uso del termine post-truth, nell’accezione di “verità che diventa irrilevante” è attestato dopo la

pubblicazione del libro dal titolo “The Post-Truth Era di Ralph Keyes nel 2004. Il termine diviene

pregnante in riferimento al ruolo dei social media, emissari inarrestabili di informazioni e di falsa

informazione, un mondo in cui è impalpabile ogni distinzione tra vero e falso, il villaggio globale in

cui tutto è vero e niente è vero. Proliferano i siti delle fake news nell’ambito della cronaca politica e

di costume. I social network costituiscono una delle agenzie più potenti di socializzazione a livello

globale, tale da ridimensionare il ruolo di altre istituzioni quali la famiglia , la scuola , i partiti. Un

cambiamento tale da apportare ciò che P.P.Pasolini definì in riferimento alla televisione “ la

mutazione antropologica” degli individui. Emerge inarrestabile un flusso di contenuti e di

informazioni e contenuti prima tenuti ai margini, immessi in un ecosistema mediatico di

accreditamento collettivo e pervasivo. Gli spazi aperti e al contempo chiusi dei social media

tradiscono forme di autoreferenzialità su una scala enormemente più ampia rispetto al passato, un

nuovo delirio di Truman Show, in cui i contatti sono per così dire predeterminati ed unidirezionali

secondo quella che viene definita teoria delle “echo chambers”. Le camere d’eco lasciano

intravedere una sorta di sistema di informazione personale, tale da non esporci a punti di vista

conflittuali, un sistema di isolamento con conseguente regressione della capacità di dialogo e di

confronto. Le echo chambers si sono il risultato di un meccanismo filtrante di informazione,

impermeabili ad una comunicazione pluridirezionale. Teoria questa delle camere d’eco, che ha in

sé elementi di verità, poiché i nuovi mezzi telematici ci permettono di autocostruire i canali di

informazione, di entrare in contatto con contenuti e “prodotti” culturali o di mercato a noi più

congeniali e verso i quali abbiamo maggiore interesse:

Fermatevi a riflettere: qual è stata l’ultima notizia che avete cercato direttamente sul sito web di un

giornale? E quante volte, invece, aprite articoli o video attraverso link sui social network? Che si

tratti di Facebook, Twitter o Instagram, l’offerta di pagine e profili è ormai capillare, e copre sia la

produzione che la distribuzione dei contenuti online. Eppure, spesso, dietro l’abbondanza e la

pluralità delle fonti sui social network si nasconde lo spettro della disinformazione, con la

diffusione di notizie dubbie o completamente false. Un problema che, secondo il World Economic

Forum del 2013, rappresenta una delle maggiori minacce tecnologiche e geopolitiche per il futuro

della nostra società, insieme al terrorismo e agli attacchi cibernetici. Per conoscere le dinamiche

dell’informazione sui social, comunque, non basta verificare la qualità dei contenuti, ma occorre

scoprire come le notizie vengono “consumate” dai lettori. Secondo i risultati di una ricerca

pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, infatti, gli utenti di Facebook

tendono a focalizzarsi su un set molto limitato di pagine e di narrazioni, nonostante la grande

disponibilità di notizie potenzialmente consultabili. Lo studio, condotto dal gruppo di Walter

Quattrociocchi della scuola IMT Alti Studi di Lucca, ha analizzato le interazioni di 376 milioni di

utenti di Facebook con le pagine di notizie in lingua inglese presenti sul social network. […..] Sulla

base dei “mi piace” in comune, i ricercatori hanno così definito delle pagine connesse tra loro,

identificando dei pattern circoscritti di relazioni tra le fonti. Si tratta, in estrema sintesi, di reti che

danno vita a vere e proprie comunità virtuali, definite echo chambers, dove persone con opinioni

simili interagiscono tra loro e condividono contenuti, riducendo al minimo il contatto con punti di

vista diversi. In queste bolle virtuali anche la scelta delle fonti sembra guidata dal cosiddetto “bias

di conferma”, cioè la tendenza a ricercare quelle notizie che rafforzano le proprie convinzioni. Si

creano quindi dei gruppi polarizzati, formati da utenti che condividono una certa visione del

mondo, il cui senso di appartenenza diventa più importante della veridicità stessa delle

informazioni.«[…..] è proprio questa radicalizzazione che porta a considerare credibili anche

notizie false o contraddittorie, diventa fondamentale capire quali sono i meccanismi che tendono a

acuire le differenze tra i punti di vista». 38 ( http://www.scienzainrete.it/articolo/verit%C3%A0-

impigliata-nella-rete/fabio-ambrosino-alessandro-vitale/2017-04-05)

Saremmo, pertanto, di fronte ad una polarizzazione o radicalizzazione dell’informazione, una sorta

di “bolla della comunicativa” che altera la nostra percezione della realtà , della quale avremmo una

visione parziale e non onnicomprensiva. D’altra parte da una recente ricerca del Pew Research

Center sul rapporto tra discussione politica e social media negli Stati Uniti emergerebbe un quadro

più complesso : gli utenti delle rete, invece che restare irretiti ed imbrigliati in una sorta di bolla

dell’informazione o, per meglio dire, di rimanere chiusi in spazi autoreferenziali privi di differenze,

hanno a disposizione inesauribili fonti di informazione. In ambito politico, solo una piccola

percentuale di navigatori dichiara di essersi connessa con persone che avevano le stesse opinioni

molti, invece, dichiarano di aver bloccato e filtrato contenuti che non collimavano con le loro idee

politiche. Così possiamo dedurre che gli automatismi degli algoritmi funzionino in modo parziale

per quel che concerne la polarizzazione dell’informazione, così che i media digitali non riducono

gli spazi dell’informazione e della democrazia né alimentano necessariamente la disinformazione.

Anche se presentano rischi così come i media tradizionali, i nuovi mezzi di informazione

telematica darebbero comunque l’opportunità di entrare in contatto con una pluralità di idee e di

punti di vista.

Un modo per esercitare la cittadinanza attiva e difendersi dalla disinformazione è l’utilizzo di più

fonti di informazione, ma avvalersi anche degli strumenti tradizionali della cultura che potremmo

definire “alta” ossia il libro, per crescere ed avere le competenze necessarie per analizzare le

informazioni sotto il profilo linguistico e semantico. L’alfabetizzazione digitale, dunque, ha in sé

enormi potenzialità in termini di conoscenza rispetto al passato, a patto però che si impieghino

capacità critiche e si sappia bene utilizzare la propria mente.

CAPITOLO 5

DEFINIZIONE E SELEZIONE DELLE COMPETENZE NELL’ERA

DELL’INFORMAZIONE GLOBALIZZATA

5.1 I nativi digitali e le loro competenze per il controllo dell’informazione

Le società del passato non garantivano certo più pluralismo rispetto alla società nella quale oggi

viviamo, il nodo da sciogliere rimane la capacità dei cittadini di avere una visione quanta più ampia

possibile dei fatti e della realtà che li circonda.

Jennifer Hochschild studiosa delle politiche governative ad Harvard rivela una correlazione tra la

partigianeria dei media nel XVIII e nel XIX secolo e quella attuale.

Sarebbe però auspicabile non tanto un controllo delle informazioni, che rammenti ed invochi tempi

passati con una sorta di nuova censura, che ridurrebbe ulteriormente gli spazi di democrazia e di

libertà degli individui , già ampiamente minacciati, semmai una maggiore conoscenza e diffusione

delle fonti di finanziamento dei principali mezzi di informazione anche online.

Difficile e rischioso è prevenire la menzogna in rete, molto più sensato difendersi, svelandola,

liberando gli individui da ogni forma di “pigrizia” mentale.

Il problema dunque , ancora una volta afferisce al campo della scuola e della formazione scolastica

ed educativa: dare gli strumenti per utilizzare e gestire più consapevolmente dati ed informazioni,

sviluppare il senso critico delle persone, fornire nuove competenze anche digitali.

Una ricerca della Stranford University svolta tra il 2015 e 2016 su un campione di circa ottomila

studenti, afferma che i nativi digitali non riescono a valutare correttamente le informazioni e a

distinguerne la credibilità . 38 (Pireddu, Storia della post-verità, op.cit) .

Nella programmazione scolastica si potrebbe affiancare alle competenze di base ( saper leggere,

scrivere, parlare, argomentare) anche competenze legate alle life skills e competenze digitali

riguardanti la comprensione e la valutazione di contenuti in rete.

La consapevolezza di dover affrontare sfide globali nell’ambito della comunicazione, in un non

lontano futuro potrebbe suggerire la necessita di stabilire un insieme di abilità scolastiche,

competenze comuni e valide all’interno delle singole nazioni o a livello internazionale, considerare

l’opportunità di dotare gli studenti di tutti gli strumenti per orientarsi nella serva inestricabile del

mercato editoriale sul web. 39 (Domenique Simone Ryken, Agire le competenze chiavi, F.Angeli,

2007, pp103-104).

La definizione di “competenza chiave” ha trovato spazio negli ultimi anni nell’ambito della

istruzione in molti paesi dell’OCSE. Questa espressione è usata spesso come sinonimo di

competenze fondamentali o obiettivi educativi imprescindibili. Il concetto di competenza chiave è

definito in DeSeCo (Definizione e Selezione delle Competenze chiave) nell’ambito del progetto

internazionale di ricerca, concepito dall’OCSE già nel 1997 e si fonda su tre criteri generali ovvero

che:

«le competenze chiave contribuiscono a risultati di grande valore a livello individuale e sociale in

termini di vita “realizzata” in tutta la sua durata e di buon funzionamento della società. Questa

concezione è coerente con l’importanza attribuita al capitale umano e sociale per il benessere

personale, economico e sociale. [….]ricoprono un ruolo funzionale al soddisfacimento di richieste

importanti e complesse e di sfide in un’ampia gamma di contesti.

Gli individui partecipano a diversi ambiti di attività. Ovviamente per agire in maniera efficace o

per realizzare qualcosa con successo- come datore di lavoro o lavoratore, come consumatore,

come cittadino, come studente- sono richieste o desiderabili diverse competenze specifiche[….] .

Le competemze chiave hanno la finalità di mettere gli individui in grado di destreggiarsi e di

partecipare efficacemente in molteplici ambiti sociali, come il settore economico, la vita politica, le

relazioni sociali, le relazioni interpersonali pubbliche e private [….].

Questo criterio riflette una scelta politica, l’impegno verso il miglioramento delle competenze che

contribuiscono all’eguaglianza sociale anziché favorire semplicemente gli interessi di una élite» 40

(Domenique Simone Ryken, Agire le competenze chiavi, op. cit. pp105-106)

Possiamo chiarire con un elenco quelle che sono definite in sintesi competenze chiavi:

a) capacità di lettura e scrittura

b) capacità di analisi (problem solving)

c) capacità di ascoltare e parlare

d) capacità di pensiero critico

e) approccio riflessivo

f) capacità nell’uso delle tecnologie della informazione e comunicazione

g) educazione alla coscienza civica

In un mondo in cui le incertezze si moltiplicano il cittadino deve comprendere in modo adeguato

fatti e dei fenomeni con cui entra in relazione, essere capace di far fronte all’innovazione per

individuarne punti di forza ed eventuali criticità, di dotarsi di una capacità di controllo degli

elementi della conoscenza.

Fronteggiare le differenze, agire autonomamente, « modellare anziché essere modellato, scegliere

anziché accettare le scelte degli altri» sono abilità che devono essere sviluppati in una società

complessa come quella in cui viviamo. Tenendo conto delle basi concettuali fornite da DeSeCo , cui

si è fatto riferimento precedentemente, possiamo distinguere tre grandi categorie di competenze

chiavi:

1. l’interazione in gruppi eterogenei

2. agire autonomamente

3. usare in modo interattivo strumenti sia materiali che socio-culturali ossia il linguaggio,

l’informazione e la conoscenza ma anche le macchine e i computer. 41 (Ivi pp.134-138)

Il termine interattivo indica il modo in cui tali competenze permettono agli individui di relazionarsi

con il mondo esterno e di attribuirgli un significato . E’ proprio all’interno di tale categoria di

competenza chiave che si sviluppa la capacità di cogliere la qualità dell’informazione che ci arriva

dall’esterno, di capirne gli scopi e le modalità, di non farsi irretire in una sorta di labirinto della

connessione mediatica, dove le informazioni giungono anche senza essere ricercate, come in una

camera d’eco; appaiono evidenti forme di manipolazione per interessi legati al mercato della

pubblicità, più che all’offerta delle notizie. Conoscere le giuste modalità con le quali fruire

dell’informazione senza rischi (ad esempio sottrazione illecita di dati personali) appare sempre più

un’esigenza per i navigatori del web. Questo perché la conoscenza e l’informazione ha un ruolo

centrale nell’economia mondiale ed è considerata una competenza chiave. Le tecnologie

informatiche forniscono agli studenti un migliore accesso al materiale disponibile in quasi tutte le

discipline, facendogli condurre ricerche ed analisi ad ampio raggio per assumere le decisioni.

Possiamo dire, dunque, che « per adempiere con successo alle proprie funzioni in tutti gli ambiti

della vita, gli individui non solo devono accesso alle conoscenze e all’informazione, ma anche

saperle usare in modo efficace, riflessivo e responsabile. Queste competenze sono importanti

qualora dobbiamo prendere decisioni per prodotti e servizi oppure quando dobbiamo esprimere il

voto in elezioni o referendum» 41 (ibidem). L’uso interattivo di informazioni ha come conseguenza

l’acquisizione di nuove conoscenze e l’identificazione delle fonti di informazione adeguate.

5.2 Governare il cambiamento

La tecnologia ha trasformato le modalità attraverso le quali abbiamo accesso alla conoscenza ed ha

ampliato in modo esponenziale la quantità delle fonti a nostra disposizione, i benefici di tale

trasformazione sono innegabili, a patto che si governi tale cambiamento non rinunciando alla

qualità dell’istruzione, una qualità che non può essere legata alla semplice promozione di immagine

di ogni istituzione scolastica, talvolta più esibita che reale, basata sui numeri e le percentuali di

successo formativo o sugli incentivi economici degli addetti, anziché sulla qualità effettiva. Il

numero e la produzione in serie di un “prodotto” esibito come eccellente non necessariamente

corrisponde alla sua qualità. Molti interventi educativi, molte iniziative “di qualità” in ambito

scolastico lasciano più di un dubbio circa la loro necessità e validità .

L’eccessivo ampliamento dell’offerta educativa, l’accumulazione numerica di attività fino al

parossismo, in alcuni casi, potrebbe addirittura provocare effetti opposti in rapporto agli scopi

lodevoli che ci si prefigge.

La qualità dell’istruzione va a vantaggio dell’intera società e delle sue istituzioni, i suoi effetti

ricadono su tanti altri aspetti della vita democratica di un paese. Polarizzare gli interventi su alcune

competenze fondamentali e prioritarie richiede, senza ombra di dubbio, una selezione delle attività

da svolgere in ambito educativo, tralasciandone altre , soprattutto quelle strettamente legate ad

attività più di tipo burocratico ed amministrativo anziché alla qualità dell’istruzione degli utenti.

La scuola deve dare competenza agli utenti per affrontare le sfide del mercato del lavoro e le sfide

per una comprensione e una trasformazione della società in termini di conoscenza e civiltà, ma non

risponde prettamente a logiche di un mercato competitivo allo scopo di pubblicizzarne i suoi

“prodotti” culturali.

5.3. La qualità dell’informazione, le logiche del mercato e la difesa degli utenti

Quali sono oggi gli scenari dell’informazione, spesso condizionata dalle logiche di mercato? Come

preservare gli spazi di libertà e di democrazia dei comuni cittadini? Quali sono i possibili rischi

presenti e futuri della navigazione on-line? Siamo sempre connessi in rete ma tutto ciò che

facciamo sul web lascia una traccia. Pur di ricevere servizi gratis dalla rete accettiamo in modo

disinvolto ed inconsapevole di rinunciare alla sicurezza e riservatezza dei nostri dati personali,

lasciando tracce della nostra identità , dei comportamenti, idee e perfino dei sentimenti. Tutto

questo è accettabile purché non ci sia qualcuno che possa controllarci e condizionare le nostre celte

presenti e la nostra vita futura.

Pare, invece, che sia esattamente ciò che accade oggi nella quotidianità della rete telematica, tanto

che nel giro di pochi anni, come ci suggerisce Mark Zuckerberg il fondatore di Facebook, ci

potrebbe essere la possibilità di decodificare perfino gli impulsi del nostro cervello e farli arrivare

ad una tastiera, magari decidendone di condividere solo alcuni. Grandi siti come Google e Facebook

incamerano un flusso di dati personali enorme degli individui e possedere tali dati ha come scopo

moltiplicare profitti e consentire alla pubblicità o alla propaganda politica di raggiungere un target

di utenti per la vendita dei loro prodotti. Anche le testate giornalistiche in rete operano allo stesso

modo e devono avere un livello di frequentazione molto alto delle loro pagine web, a discapito della

qualità dell’informazione, per invogliare inserzionisti a pubblicare le loro inserzioni pubblicitarie

sul giornale. Compagnie sul web tengono traccia dei nostri spostamenti in rete sui vari siti e

conservano le informazioni, ciò avviene attraverso un codice identificativo che ci viene assegnato

quando navighiamo in rete oppure attraverso meccanismi di tracciamento che consentono di

riconoscere il dispositivo fisico del nostro computer, i quali consentono di riconoscerci quando

navighiamo in un sito e di monitorare cosa guardiamo e per quanto tempo. I nostri dati si

diffondono ovunque nei vari continenti e molto spesso anche perché gli stessi utenti del web in

modo volontario cedono i loro dati e li diffondono in cambio di servizi che gli vengono offerti e

delle applicazioni. La legge regolamenta gli illeciti commessi da queste compagnie nella

acquisizione di dati personali che arrivano, talvolta, ad acquisire perfino le conversazioni private

degli utenti, ma la regolamentazione e le sanzioni si mostrano essere poco efficace.

Lo scopo di questa acquisizione di dati è quello di vendere pubblicità riguardante qualsiasi prodotto

di mercato, compreso quello politico, acquisendo informazioni sulle preferenze, le abitudini perfino

il carattere e la psicologia degli utenti in rete. Le implicazioni di tale fenomeno potrebbero essere

molteplici e porre in discussione la libertà e l’autonomia degli individui, il controllo sulla loro stessa

esistenza, se le società che acquisiscono dati personali riuscissero a tracciare profili psicologici

degli individui e studiarli con studi Psicometrici in grado, ad esempio, di diagnosticare una

depressione o delle preferenze ed abitudini delle persone monitorate a loro insaputa. World Check,

acquisita da un’agenzia di stampa londinese,la Thomson Reuter, è uno dei database più grandi del

mondo nella raccolta di dati personali all’insaputa dei soggetti monitorati, che vengono poi richiesti

da agenzie governative, istituti di credito, studi commerciali.

CONCLUSIONE

E’ fondamentale in ogni intervento didattico la riflessione e la scelta degli obiettivi e le finalità da

raggiungere. Scopo di questo lavoro è individuare strategie per sviluppare negli alunni un

apprendimento significativo, utilizzando i nuovi mezzi che la tecnologia e l’informatizzazione

mettono a nostra disposizione. Il computer offre nuovi strumenti e potenzialità per l’apprendimento

e la pratica dell’insegnamento, ma sembra abbattere la priorità del libro, della scrittura a stampa

come matrice in cui è depositato il sapere e la qualità della conoscenza e dell’informazione.

Sembra farsi strada una priorità della multimedialità, intesa come una sorta di “totem”, uno

strumento che esibisce un legame con la cultura di massa ma anche una indifferenza verso i

contenuti veicolati. La rete può essere fruita come una sorta di “macchina infernale” dove verità e

falsità si confondono in un miscuglio indifferenziato, in un degradante livellamento della qualità di

contenuti . Tutto ciò deve essere scongiurato, ai fini di una difesa del sapere ma anche del diritto

degli individui a scongiurare nuove forme di asservimento e manipolazione delle menti. Si tratta di

affermare nuove possibilità di conoscenza, sviluppare nuove potenzialità di apprendimento, di fruire

di nuovi e inimmaginabili canali di informazione senza per questo degradare il sapere a pura merce,

senza irretire gli individui in nuovi dispositivi di asservimento e di controllo. La scuola e la

formazione in generale svolgono un ruolo fondamentale nel dare ai cittadini gli strumenti per una

maggiore conoscenza del mezzo telematico, nel programmare le competenze e le abilità necessarie

per essere consapevoli dei contenuti di cui fruiscono. Il soggetto formatosi nell’era della

multimedialità e della tecnologia in rete deve essere reso maggiormente esperto circa la portata dei

mezzi di comunicazione di massa, che utilizza sia come emittente che come ricevente di

informazione. Compito dell’insegnamento scolastico è, pertanto, sviluppare i processi cognitivi

superiori, lo spirito critico, la capacità argomentativa degli studenti, affinché essi possano

discernere, imparare e pensare bene. Una didattica che svolga questo compito deve, senza dubbio,

mediare tra un insegnamento basato sui contenuti della cultura tradizionale e delle varie discipline

ed un lavoro di ricerca basato sull’uso consapevole delle tecnologie. Ciò richiede un nuovo spirito

organizzativo, maggiore autonomia di insegnamento, oggi troppo spesso imbrigliato in pastoie

burocratiche o di promozione superficiale dell’immagine dell’istituzione scolastica, spesso legate al

consenso e al gradimento dell’utenza scolastica, ma lontane dai fondamentali scopi della

programmazione didattica e dell’insegnamento. Nell’ambito dell’istituzione scolastica ogni

componente deve svolgere il compito assegnato, senza alcun tipo di confusione dei ruoli, senza uno

sbilanciamento o polarizzazione di responsabilità di una delle parti in campo. Anche gli studenti

devono fare la loro parte, acquisire la consapevolezza dei propri obblighi e dei propri doveri, senza

lasciarsi irretire in una prassi che li sottragga all’obbligo di una partecipazione attiva e consapevole

delle loro formazione, che alimenti la loro passività o l’irresponsabilità educativa. Ampliare, ad

esempio, a dismisura in termini quantitativi diversi generi di contenuti formativi e porli sullo stesso

piano, nasconde in sé un’insidia, ossia il rischio di un abbassamento complessivo della qualità

dell’istruzione e della formazione. Un successo scolastico facile che non risponda alla realtà dei

fatti, può essere altrettanto improduttivo quanto un insuccesso ; mentre procrastinare il successo in

avanti può dare la possibilità agli studenti di innalzare gli obiettivi della propria formazione ,

rafforzarne il carattere, accrescere la loro consapevolezza ed autostima, valorizzare lo sforzo. Allan

Bloom nel suo libro dal titolo “La chiusura della mente americana” sostiene che « la democrazia

americana con la sua propensione al relativismo e alla tolleranza e la sua tendenza ad equiparare i

diversi generi di contenuti formativi, ha determinato una banalizzazione del livello di formazione,

lasciata orfana di valori culturali guida e di conseguenza ha portato ad un drastico impoverimento

della mente dei giovani statunitensi» . Occorre pertanto ripensare alla formazione degli studenti e

ridare importanza allo studio dei grandi testi della tradizione occidentale, in grado di sviluppare la

mente ed il pensiero, senza rinunciare ai nuovi e potenti mezzi della tecnologia.

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alessandro-vitale/2017-04-05