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Eugenia Scabini, psicologa

«La zona grigia di chi resta bamboccione fino ai 40» «È l’età di chi ha un lavoro, ma vive coi genitori e non vuol fare scelte chiare»

di ROBERTO I. ZANINI

« Spariscono i giovani perché la giovinezza domina in modo sempre più ambiguo le relazioni umane. È la condizione desiderata degli adulti. For ever young, diceva una canzone. Tutti – sostiene Eugenia Scabini, preside della Facoltà di psicologia della Cattolica – vogliono essere giovani. In questo modo si perde il passaggio, la transizione e di conseguenza l’impegno per passare dalla condizione di giovane a quella di adulto».

Diventare adulti non è più un obiettivo perché gli adulti pensano solo a restare giovani? «E in un adulto questo è un aspetto molto negativo, perché ha perduto l’idea di quale sia la sua stessa identità. Di conseguenza per i giovani non c’è tensione verso la meta. Così ci si espande orizzontalmente, a tutte le età, senza di-stinzioni ».

Si smette di crescere, si vivacchia. «Nei fatti, gli adulti che si rispecchiano nei giovani non fanno niente per spingerli a crescere, perché loro stessi non hanno capito cosa voglia dire essere adulti ».

Cosa vuol dire essere adulti? «Per la società di oggi la questione è chiara solo sul versante lavorativo. Se lavori e sei autonomo sei adulto. Ma, come dice giustamente Francesco Botturi, l’aspetto generativo dell’identità adulta è in ombra. L’impegno per generare, per educare, per promuovere una nuova generazione e quindi il futuro non è considerato un obiettivo essenziale. Si resta nell’indefinito, nel disimpegno... Non a caso è stata inventata la categoria dei 'giovani adulti', cioè quell’età di mezzo, che magari ha un impiego, ma vive con i genitori e non ha ancora fatto scelte definitive dal punto di vista affettivo e familiare».

Nessuno vuole più crescere, nessuno vuole più sentirsi una persona responsabile? «Tempo fa abbiamo fatto una ricerca sui genitori di quelli che abbiamo definito i 'giovani adulti' e abbiamo scoperto che la paura di crescere non era soltanto nei giovani. Anche padri e madri avevano paura che i giovani crescessero. Per comprendere meglio: la parola che ricorreva più spesso da parte dei genitori nei confronti dei loro figli era 'autorealizzazione'. Erano soprattutto preoccupati che i loro giovani si autorealizzassero, che facessero quello che a loro piaceva, non che avessero una famiglia e crescessero dei figli».

Quindi i giovani non hanno adulti in cui identificarsi.«Per questo ritengo sia necessario un ripensamento antropologico. Occorre ritrovare la concezione perduta dell’essere adulto. Occorre fare in modo che si torni a rispondere alla domanda: per che cosa sto al mondo? Per cosa vale la pena di vivere?».

È la domanda degli adolescenti? «Degli adolescenti che vogliono crescere. E se fra le risposte non è contemplato il fronte generativo, cioè il trasmettere il dono della vita che abbiamo ricevuto a una terza persona diversa da me, si perde il senso stesso della vita, oltre che quello del dono».

Botturi parla di eredità. «Esatto. E di fronte all’eredità c’è chi la dilapida; c’è chi la tiene sotto il materasso, col rischio che diventi un rudere, che perda di valore; c’è chi la fa fruttare rinnovandola, rimettendola a disposizione delle nuove generazioni. Oggi è facile trovare il primo caso o anche il secondo. Il terzo caso è sempre più raro».

Sembra la parabola dei talenti. «Il problema potrebbe essere analizzato proprio in questi termini. Noi abbiamo ricevuto talenti che non facciamo fruttare. E che non frutteranno se non si recupera l’idea che non c’è identità se non attraverso la generazione: sono un 'generato' e non posso realizzare me stesso se non generando figli o preparando terreno fertile alle nuove generazioni. Altrimenti non c’è soluzione alla sterilità. Il declino demografico è sintomatico dell’immaturità degli adulti: pensiamo solo a noi stessi e finiamo per perderci.

Avvenire, 21 gennaio 2011, pag. 24