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ChrisAdrian

Unangelomigliore

TraduzionediGiuliaBoringhieri

Einaudi

PerMR

Afollevelocità

Nelnovembredicuiparlohonoveannierubo:dolciumial supermercato, giocattoli

all’emporio, libri in libreria.Ma non titoli come Georgemano morta il curiosone, oRacconti di uno stronzetto diquarta,benchésiainquartaesia uno stronzetto. Sonotroppointelligenteperleggerelibricosíetroppointelligenteper essere in quarta, ma lamamma non vuole togliereallascuolailpiaceredellamiapresenza. Sono troppointelligente per Miami

Springs, e troppo intelligenteperilmiostessobene.

Nel novembre del 1979sono alto circa un metro emezzo e papà è morto danovemesi. Ilmio fratellino èmatto e io qualche voltavorrei avere il dominio delmondo.Honoveanni,ma inrealtànonliho.Disangue,dicuore e di ossa sonoantichissimo. A volte misentosaggiocomeunfaraone.

Sono in classe e stoascoltando Miss OuidaMontoya che ci legge ad altavoce:

Notti selvagge – Nottiselvagge!

FossiioconteNottiselvaggesarebberolanostrapassione 1.

E prosegue, concludendoconlastessapassioneconcui

ha cominciato. Quandofinisce ha il fiatone. –Qualcunomi sa dire chi l’hascritta? – chiede, nel silenziogenerale.Nonèlanostraveramaestra, è solo la supplenteche ci hanno dato dopol’incidentediMissOrtonconl’autobus.

– Nessuno? – Oggi è laprima volta che ci rifilapoesia. Ieri abbiamo passatoquasi tutto il tempo a

costruiretacchinicoipiattidicartaepupazzettidipellegrinicoi bicchieri per l’imminentefesta di Thanksgiving che,come ogni anno, si svolgeràin sala mensa e durante laquale intoneremo gli inni diringraziamento fra unaportatael’altradihamburgerdi tacchino,mais in scatola ebudino di zucca. L’altroieriaveva allungato la lezione dispagnolo leggendoci tutto il

giorno lastoria in traduzionedeltopolinoinmotocicletta.–Allora?–insiste.

– Lo chieda a Con, –risponde Maria Josiah, unabambina di Hialeah con latestaamartello.

Risatine soffocate in tuttala classe. BuddyWashington,seduto dietro, dà un calcioalla mia sedia. – Mostro, –bisbiglia.

– Allora, Con? – chiede

OuidaMontoya.– Allora cosa? – dico io,

con voce tagliente estronzetta.

–Misaidirechihascrittoquestapoesia?

–Nonsiamounpo’piccoliperquestaroba?

Lamaestramiguarda,poisi leva gli occhiali. – Devisapere, Con, che stamattinami sono svegliata di ottimoumore, e ho pensato: «Oggi

voglio lasciare un segno.Voglio entrare in classe elasciare un segno. Vogliousarequestobreveperiododisupplenza per cambiare unpochino la vostra vita. Unpochino appena» –. Faschioccare le dita moltopiano,alpuntochequasinonlosento.–Echec’èdimegliodi un po’ di poesia, percambiareunpo’lecose?–Misorride, di un sorriso dolce e

sincero, puntando i dentidrittoversodime.

– Ma la poesia non fasuccederenulla,–dicoio.Leisirimettegliocchialiealzalatesta come incuriosita da unbuonodore.

– Chi ha scritto la nostrapoesia? – La nostra poesia,penso io, ma capisco al volocheperleinonècosí.

– Due volte si è chiusa lamia vita, – dico, – prima di

chiudersi. Ora non mi restacheattendere…

Il sorriso della maestra siallarga ancora di piú –talmente tanto che il labbrosuperiorefiniràperavvolgerleil naso, mi dico –, e cambial’incrocio delle gambe. Nelsilenzio si sentono le duesuperfici di nylon chestruscianol’unacontrol’altra.

– Se l’immortalità misveli…–continualei.

– Un terzo evento… –aggiungoio.

–Immenso…– Inimmaginabile,

impossibile…– Come questi, due volte

accaduti. La separazione ètutto ciò che sappiamo delCielo…

– E tutto ciò che ci bastasaperedell’Inferno.

Maria Josiah scoppia aridere: – Con ha detto

«inferno»!–Simettelamanodavanti alla bocca, manco ciavessi mandato lei. Il restodellaclassesilimitaafissarmicome fossi un alieno e aguardare Ouida Montoya intrepidaattesadellasuamossasuccessiva.

–MissEmilyDickinson,–dice. – Ecco chi ha scrittoquestepoesie!Avanti,ripeteteconme:EmilyDickinson!

– Emily Dickinson! –

esclamano tutti, con voce unpo’tremula.

–Moltobene,–dice lei.–Vogliamoascoltarneun’altra?– Aspetta finché si alza unamano.–Sí,Maria?

– Perché invece nonfiniamoitacchini?

– È una possibilità.Mettiamolaaivoti.

I tacchini vinconoventiquattro a zero; io misono astenuto. Cosí tiriamo

fuori i mezzi tacchini cheavevamo precedentementeritagliato dai piatti di carta epassiamoilrestodellalezionea spillarli insieme e acolorarli.Servirannoallafestacomesegnaposto,masulmioscrivo:Buoncompleannoculotriste, stronzetto che non seialtro.Checos’hadispecialeuncompleanno? Fattene unaragione, rompicoglioni. I tuoipiagnisteimibruciano ilbuco

del culo. Non fanno accadereniente, i compleanni.Sopravvivono nella valle dellorodire.

Sono cosí concentrato nelmio lavoro, a disegnare ognilettera in un colore diverso equel genere di vaccate lí, chequando Ouida Montoya siavvicinanonmiaccorgodellasua presenza finché noncapisco che l’odore diantipulci che sento sopra la

testaèilsuoprofumo.Coproiltacchinoconunamano,malei la sposta per leggere leultimerighe.

– È tutto cosí difficile, –dice,chinandosiamettereuntrattinofraculoetristeconlasuapennarossadisupplente.

Durante l’intervallomenestoincimaaunacasetta,acuinon si avvicina nessuno

quandocisonoio.Guardodisottoibambinichegiocanoepenso: «Ehi tu,Maria Josiah!A morte! Una rasoiatasull’occhioperte,Maria!»

«Buddy Washington, a tetirounabellabadilataintesta,cosí forte da farti schizzaremarmellata di lamponi dalnaso!»

«Molly LaRouche, a temetto la testa in unaganascia!»

«SammyFie,ticospargodimieleetidoinpastoalleapi!»

«Rosetta Pablo, ti facciomangiaredauncanecoidentismussati!»

Nome per nome, passo inrassegna l’intera classe.Trascorro cosí l’intervallo.Quando sono piú o menotutti morti, mi appendo atestaingiúechiudogliocchi,finché non sento avvicinarsiqualcuno. È Yatha McIlvoy,

chetral’altroèl’unicaacuidisolitorisparmiolavita.

–Buoncompleanno!–midice.–Tihofattounacosa–.Miporgeunpellegrino.Soprac’è scritto: Pellegrino per ilcompleannodiCon.

–Comefaceviasaperecheerailmiocompleanno?

–L’hadettoMissOrtonlasettimana scorsa, non tiricordi?

Arriva Ouida Montoya. È

in pieno sole. Dalla miaposizione sembra un aereonemico in avvicinamento.PosaunamanosullaspalladiYatha.

– Mi lasci parlare unattimoconCon,Yatha?

–Certo,–rispondeYatha,e si allontana camminando aritroso. Dopo qualche metromisalutaconlamano,sigiraecorrevia.

–Possovenirevicinoate?

–No, – rispondo io, emitirosu.Sonodinuovosedutoin cima quando lei miraggiunge.

–Nonseifelice,–midice.–Stobenissimo.– Scusa se ieri mi sono

dimenticata del tuocompleanno,–diceancora.

–Nonm’importa.– Qui c’è scritta un’altra

cosa–.È il tacchinodi carta,che avevo strappato in otto

pezzi e buttato via. Lei l’harimesso insiemecon ilnastroadesivo.

–Non è per lei, – dico. –Non m’importa di lei,signora. È mia madre che sen’èdimenticata.

– Ah! – esclama lei. –PoveroCon.

– Ehi! – dico io. –Vaffanculo! –Mi aspetto chese ne vada o che mi trascinida suor Gertrude, la preside,

come fa sempre Miss Orton.Invecerimanelíferma,conlalungagonnadisetachependefralesbarre.

– Ho detto vaffanculo, –ripeto. – Nessuno le hachiesto di fare la buonasamaritana col poverobambino triste senzacompleanno.

Lei si appoggia indietrosullemanie tira ilmentopiú

su che può senza smettere diguardarmi.

– Sei uno stronzettoarrabbiato, vero? –Mi limitoaricambiare losguardo.Nonche la ami particolarmente,ma poiché mi parla come sefossiunbambinovero,poichéè la prima persona in quelposto di una noia mortale aparlarmi come se fossi unbambino vero, mi succedequalcosa,menerendoconto.

Un lieve sussulto, come unospostamento dentro di me.Dice lei: – Dicevo davvero,prima. Questa mattina misentivo in estasi. Mentreguardavo la luce del soleinondare il pavimento dilegnodicasamiahodettoadalta voce: «Ouida Montoya,oggi aiuterai qualcuno». Enonmi capitamai di parlaread alta voce quando sono dasola. Mai. Perciò permettimi

di aiutarti –. Distende ilbraccioemitoccalaspalla:–Vuoiraccontarmichecosac’èchenonva?

– Niente di speciale, –rispondo. – La mamma si èdimenticata del miocompleanno.

– No, c’è qualcos’altro, –dice lei. – Ho letto la tuascheda in segreteria –.Avvicinalasuafacciaallamiatanto che ci potremmo

baciare.Nottiselvagge,pensod’untratto,emigiraunpo’latesta. Cristo santo, signora,penso. È la vita: tutto qui.Indietreggio per scansarla, eoscillo all’indietro fra lesbarre finoa lasciarmicadereaterra.

–Civediamoinclasse,–ledico andando via, senzaalzarelosguardo.

–Andiamo a fare un giroin macchina, piú tardi! – mi

gridadietro.–Comevuole,–borbotto.

Ho voglia di distruggerequalcosa, cosí prendo ilpellegrino di Yatha e loaccartoccio, poi mi pento ecerco di rimetterlo in sesto,peròluicontinuaadavereunaspettoparecchioincasinato.

A casa, ieri, c’era unbigliettosultelevisore:

ConeCalebSono uscita con Milo a

comprare plettri per chitarra eroba varia. Torno nel tardopomeriggio.Nelpostosegretocisonocinquedollaripercena.Baci,

laDonnaMisteriosa

Quando l’ho letto hosentito una specie dipugnalata nella pancia dalleparti dell’appendice.Nonme

ne importadei compleanni–è da quando ho tre anni chenonme ne importa niente –eppure ho sentito unapunturadolorosacomesemiavessero fatto una fattura, euna vocina dentro l’orecchioche bisbigliava: «Se n’èdimenticata!»

Sono andato in cameramia e di Caleb, che stavadormicchiando nel letto acastello basso. Ho preso la

rivista degli scout, «Vita diragazzo», che avevo rubatoper lui alla biblioteca dellascuola, e gliel’ho messaaddosso. Era un Lupetto,all’epoca in cui impazzí,sostenendo di venire daMarte, dove i fuochi siaccendevano cosí e dove legarediautomobilineapedalisi facevanocosà, edove tuttoera di gran lunga superiorerispettoaiLupettiinversione

terrestre. Non sono contentoche sia pazzo ma sonocontento che l’abbianoespulso. Fra i due, avreipreferito se fosse stato unaBrownie, una piccola scoutfascista con le mutandinemarroni, piuttosto che unLupetto,ma nessuno dei dueèancorameglio.

Misonosedutodifiancoallettoe l’hoguardatodormire.Aveva la faccia gonfia e gli

occhi che roteavano sotto lepalpebre. Ho svuotato lacartellasulpavimento.Avevofatto un salto anche inlibreria,doveavevocompratoThuvia,fanciulladiMarteeilnumero di ottobre di«ScientificAmerican».Frieda,la proprietaria, all’inizio delmesemivendeametàprezzoil numero delmese prima. Èuna lesbica. So che cosa vuoldire perché ho rubato nella

sua libreria,chesichiama«Ilprofessorino», Le gioie delsessolesbico,Legioiedelsesso,LegioiedelsessogayeLegioiedel sesso 2. Li ho nascostisotto il materasso.Sfogliandoli ho imparatotutto sul sesso truculento, inognivariante.Sobenissimodichesitratta, ingeneraleeneiparticolari.

Mi sono anche preso Lamontagna dalle sette balze,

maquestononl’hopagato.Laregola chemi sonodato, conIl professorino, è «comprouno – rubo uno». StoleggendoThomasMertonperdiventare una personamigliore.

Poi mi sono fermato albazar, dove ho preso duetavolette gigantidi cioccolatoe duepistole ad acqua: regaliper me e Caleb per il miocompleanno. Sono cadute

anche loro a terra insieme alMerton e alle riviste. Gli homesso la tavoletta e lapistolasulpettoinsiemealresto,poimisonosedutoconlaschienaappoggiata alla sponda e holettoadaltavocefinchéCalebnonhaapertogliocchi.

– Con, – ha detto,tirandosisuasedere.

–Dormitobene?– Troppo poco. Ma ho

sognato–.Hapresolapistola

e la rivista, e la rivista se l’èstretta al petto. L’espulsioneerastataunverodramma,perlui.–Grazie.

–Diniente,–horisposto.–Buoncompleanno.

– Non è mica il mio: è iltuo.

– Tu lo sai, io lo so.Qualcunaltro, invece,non losa.

–Losa.–Sel’èdimenticato.Perciò

stasera andiamo dihamburger.

–Hamburger? – ha detto.–Okay.

–Fame?– Okay –. Mi ha sparato

conlapistolascarica.– Lavati la faccia, – gli ho

detto.–Ètuttastropicciata–.Caleb è sceso dal letto ed ècorso in bagno, la pistola inuna mano e la rivista scoutnell’altra.

Sono andato a guardarlo:erarittonellavascadabagno,a piedi nudi, curvo con lafaccia sotto l’acqua. Illavandino non gli piace.Questo sistema di metteredirettamente la faccia sotto ilrubinetto è quello che usanosu Marte per lavarsi, dice,quello che usano a casa loro.Negli ultimi nove mesi holetto Straniero in terrastraniera, Podkayne, ragazza

diMarte,Cronachemarzianee tutti i cicli di storie diBurroughs eccetto Thuvia,che per qualche ragione eradifficileda trovare.L’ho fattoper capire meglio il miofratellino.Quandolamammaciavevadettochel’aeroplanodi papà era precipitato nelleEverglades,Caleberarimastoun attimo pensieroso e poiavevadomandato:–Chi?

– Il tuo papà, – aveva

rispostolamamma.– E tu chi sei? – aveva

chiesto, girandosi verso dime. Non avevo risposto. Erasvenuto, crollando sultappeto. La mamma e ioeravamo rimasti fermi aguardarlo,comeaunarecitaapagamento.Poiavevamodatoentrambi di testa. Dopoessersi risvegliato non avevaparlato per due settimane,osservandonoietuttociòche

lo circondava come se glifossimo totalmente estranei.Quandoharipresoaparlareèstato chiaro che dovevamoimparare a conoscere unbambinonuovo.SostenevadichiamarsiBelacediveniredaBarsoom. Nei fine settimanaincuistavamodalui,papàcileggeva spesso Burroughs,quando non riusciva adormire. Dopo aver finitotuttiilibridiTarzaneravamo

passati a quelli ambientati suMarte, e ne avevamo letto iprimi tre. La dottoressaMouw, la strizzacervelli diCaleb – e talvolta anchemia–, dice che dobbiamo abitarela sua fantasia se vogliamocheneesca.

La dottoressa Mouwindossatailleurscuri,haocchiscurietristieunapettinaturaa cono come il cappello diunafata,eamenormalmente

sta simpatica, benché soloun’idiota possa decidere didiventare psichiatra. Perbrevissimotempohopensatoancheiodifarequelmestiere,ma adesso credo che vorreidiventare o un topod’appartamentoounmonacotrappista, oppure un banale,classico genio del male, diquelli che hanno il dominiodelmondo.

–Pronto,–hadettoCaleb.

–Mettitilescarpe–.Luileha messe e si è guardato lestringhe. – Sí che ce la fai, –gli ho detto, senza dargli iltempo di insinuare che nonriuscivaadallacciarle.

– Su Barsoom non leabbiamo, – ha rispostoarrabbiato.Peròsièallacciatolescarpe.Disolitoglielofalamamma.LadottoressaMouweiosiamod’accordocheèuneccessodiimmedesimazione.

Ho preso i cinque dollaridall’insalatierainfrigoriferoeci siamo messi in marciaverso ilMcDonald’s sullaDeSoto.Calebaveva riempito lasua pistola ad acqua nellavascadabagnoesièmessoasparareatuttelepalme.

– Ciao! – diceva. – Ciao!Bowbeedoimpapa!

– Parla normalmente,dannazione!–glihodetto.

–Morite,nemicidiElio!–

hadetto lui, poi si èmesso aciucciare scrupolosamente lacanna della pistola. – Chenomedate,–mihachiesto,–aqueglialberi?

– Sai benissimo come sichiamano.

– Assomigliano ai kalai-zee.

–Nonvedol’oradisaperechecosasono.

–Unarazzadigiganticonlesquame,–hadetto lui,–e

una folta capigliatura verde.Te ne accorgi quandomangiano i bambini, perchéglirimangonodeibrandellidipelleappiccicatiallabocca.

– Come ti vengono inmente queste storieobbrobriose?

– È la pura verità, – harisposto, usando la battutatipica di papà quando ciraccontava le cose disgustosecheavevavistodadottore,da

giovanissimo, prima diincontrare la mamma, diimparare a volare e didiventare un trafficante didroga.

– Che caldo, cazzo! – hodetto.Calebmihasparatosuicapelli. –Ti vabene chenonhoportatolamia,–hodetto.

– Ti sto rinfrescando. SuMarte, comunque, fa piúcaldodicosí.Quando l’ariaèbollenteci sediamoall’ombra

delbolinga,sottolesuefogliepiumose, e beviamo hoopaghiacciato.

Caleb è intelligente, comeme o forse anche un po’ dipiú, ma riversa tutto il suoacume nell’allucinazione incuivive.Nelgirodinovemesiè diventata parecchiodettagliata, però è ancoraquasi tutta roba che bene omale gli viene da papà. Insostanza è un misto di tre

quinti di Burroughs, unquinto di Dr Seuss, e unquintodicacatechesiinventada solo. Potrebbe fare laseconda elementare al SantaTheresa, e beccarsi tutta ladose normale disocializzazionechelamammaci tiene tanto che io abbia, einvece è in una classe«indeterminata» alla VirginiaKeyAcademydelladottoressaMouw insieme a un vasto

assortimento di piccoliNapoleonieGesúCristieunamanciata di lunatici consindromeAdhd.

–Buoncompleanno,–mihadettoCaleb.

–Già.–Seiarrabbiato.–No.–SuBarsoomabbiamoun

rito particolare per icompleanni dimenticati. Sequalcuno si dimentica del

compleanno di un altro,l’offesosparaalcolpevoleconuna pistola kama, che èinnocua.Poisifaunafesta–.Mihaoffertolasuapistolaadacqua dalla partedell’impugnatura.

– Piantala con questecacate di Marte, – gli hodetto.

– Qualche volta usiamouna pistola zonu, che èinutilmente letale, – ha

aggiunto lui, rimettendosi intasca la sua e dandomi lamano.Gliel’hostrizzata.

Al McDonald’s Caleb hapassato cinque minuti acercare di ordinare un«Happy Meal», solo che lochiamava «Biba Fa» e il tipodietroilbanconenonavevalaminima idea di che cosastessedicendo.

– Uno di quelli nellascatola,–glihospiegato.Non

volevo dire «Happy Meal»perché non mi va di parlarequella cazzo di neolingua delMcDonald’s. Qualche voltaFrieda mi dice di badare acomeparlo,enonperchénondevo dire «cazzo»ma perchénon devo dire «Whopper»,«La casa dei sogni diBarbie»o«HappyMeal».

– Se vuoi una scatola, neabbiamo di tutti i tipi, – hadettol’uomo.–Tuttiipanini

grandi sono serviti in unascatola –. Di solito devocombattere come undisperato per ordinarequalcosa che non sia unHappy Meal, perché te lorifilanoappenaapribocca.

– Biba Fa! – ha esclamatoCaleb per la decima volta. –Seisordo?

–Cioè,–hoaggiuntoio,–unmenuperbambini.

– Ah! – ha risposto

l’uomo. – Un Happy Meal!Perchénonl’haidettosubito?– L’abbiamo fissato insilenzio. Io non volevo unHappyMeal del cazzo,ma iltipo ne ha portati due e ioavevo solo voglia di sedermi.Cosí gli ho dato i soldi e cisiamoandatiametterevicinoalla finestra che dà sullaTrentaseiesima North West,dovecisonotuttelesedidellecompagnieaeree,ilchemiha

buttato giú il morale perchémihafattopensareagliaerei,ealvolareeapapàprecipitatoinunapalude.Hodatolamiasorpresa a Caleb, ho toltol’hamburgerdallacartae l’hoguardato.

–Ehi, – ha dettoCaleb. –Questa è una formazione ElaEcksta –. Ha fatto girare ledue sorprese mandandolel’unacontrol’altra.

– Mangia, – gli ho detto.

Luihaposatoigiocattoliehacominciato a passare il ditosul retro della scatola. –Guarda che se non timetti amangiare all’istante me loprendoio,iltuocibo–.Calebhaafferrato l’hamburger, l’haannusato e gli ha dato unpiccolo morso. Io hoaddentatoilmioehopensatoche aveva il sapore delladelusione. Poi ho pensato:«Chepoppantechesei,èsolo

uncompleanno,nonsignificaniente».Ehopensato:«Buoncompleanno a me». E hopensato:«Fanculo!»

Lamammaèvenutadamedopomezzanotteperscusarsi.Caleb dormiva, esausto dopoaver guardato la televisionetuttalasera,cosachequandola mamma è a casa nonpossiamo fare; ma credo che

gli faccia bene guardareNicholas della FamigliaBradfordemagarivoleresserecomelui.

Iostavofissandoilsoffitto,con le finte costellazioniadesivechemiavevaregalatopapà al mio ultimocompleanno.Stavodicendolepotenze di tre, cosa chenormalmente mi fa veniresonno. Quando la mamma èentrataesièmessaacantare,

hopersoilconto.Sièfermataproprio di fronte al nostroletto. Ho dato un’occhiata eho visto la sua testa, unasagoma indistinta sotto lestelleadesive.

Cantava un motivettoidiota sulle note di HappyBirthday, che diceva che ledispiaceva, emi voleva bene,e cheuna gabbiadimattimitoccava, poveraccio, e volevalaperdonassiperchésisentiva

uno straccio.Avevaunavoceparecchio impastata dallavodka e sull’uscio ho vistoMilo che barcollava. Haallungato la mano adaccarezzarmiicapelli.

–Tre,–hodetto.–Nove.Ventisette.Ottantuno.

–Scusami,–hadettolei.– Duecentoquarantatre.

Settecentoventinove.– Non volevo. Pensavo

fosse domani. Pensavo che il

settefossedomani.–Duemilacentottantasette.

Seimilacinquecentosessantuno.

–Scusamitanto.Losocheseimoltoarrabbiato.

–Diciannovemilaseicentottantatre.Nonsonoarrabbiato.

– Certo che lo sei. Ne haituttoildiritto.

–Nonlosono.–Scusamitanto.

– Fa lo stesso. Icompleanni non sonoimportanti.

–Losonoeccome.–Nonperme.– Dài, esci dal letto,

festeggiamo.–No,grazie.– Dài. Ti canto un’altra

canzone.–Vogliodormire,adesso.– Ti prego, esci dal letto,

fallo perme. Ti ho preso un

regalo.Allora sono sceso e l’ho

tenuta per il braccio mentreuscivamo dalla porta, perevitarechecascasse.Milosièavvicinatopersorreggerlanelcorridoio ma io gli sonopassato davanti senzafermarmi e l’ho trascinata insalotto: non volevo chesembrasse che glielaconsegnavo. Papà è morto

nove mesi fa ma erano giàdivorziatidaunanno.

La mamma e Milosembrano una coppiaabbastanza solida. Lui non èuna cattiva persona, è alto,bello, ha un gran cuore, icapelli rossi e gli occhi verdi:un vero gioiello aschenazita,come dice di sé.Normalmente non gli bado,maqualchevoltamifavenireinervi.

–Mazel tov,Markie!–miha detto in salottomentre siversavadabere.Mifavenireinervi quando mi chiamaMarkie e tira fuori boiate dazietto ebreo. Già questo èfastidioso, ma il peggio èquandovuol fare l’amicone esi offre di portarmi acavalcioni sulla schiena comese avessi tre anni, osemplicemente fa cosí ilsimpaticoingiropercasache

avrei voglia di cavargli gliocchi.

Mi sono seduto e li hoguardati. – Prendi il regalo,Milo, – ha detto la mamma,crollandoasederedi fronteame.Milo ha preso una borsain cucina eme l’ha data. –Èun regalo temporaneo, – hadetto la mamma. – Poiarriveràquellovero–.Dentrola borsa c’erano fagioli neri,

una lattinadi risoedelpollosurgelato.

– È per il tuo pranzo dicompleanno! – ha detto,mentre chiaramente eraquello che due ubriachipotevano raccattareall’alimentari cubano apertotuttalanotte.Stavopertirarleilpolloaddosso,percomemiguardavaconunsorrisodolcecome se quel pollo fosse ilsimbolo del suo amore, ma

poi non l’ho fatto: almeno ciavevaprovato.

–FelizNavidad!–hadettoMilo.

– Ho veramente sonno, –hodettoio.

– Povero piccolo, – hadetto lamammaalzandosi inpiedi e ondeggiando verso dime permettermi lemani sulviso. – Vai a letto e sogna iltuopranzodicompleanno,lagrandefestachefaremo.

– Non mi va di fare unafesta.

– Intanto sognala, – hadetto. Milo mi ha strizzatol’occhio e gli è andata beneche non avevo con me unpunteruolo. Sono andato incameramia,misonomessoalettoehochiusogliocchi,mamiarrivavanolelorovoci,eilghiaccio dentro i lorobicchieri faceva il solitofottuto rumore, cosí sono

sceso di nuovo giú e hochiuso la porta, che è unacosa che Caleb non vuoleperché su Marte succedonocoseterribili,albuio.

Dopo la scuola OuidaMontoya mi affianca mentrepercorro un tratto desertodellaDeSoto.–Èoradi fareil nostro giro inmacchina, –dice.

–No,grazie,–dicoio.– Sicuro? –mi chiede.Ha

letto poesie tutto il giorno.Dopo l’intervallononc’eranopiú state votazioni, nonavevamo avuto scelta. Cisiamo sorbiti la Dickinson, epoi Yeats, Keats e Shelley, eancheMistressFacciadarospoBroadstreet.Enonmihamaitoltoilfiatodalcollo:«Questadichiè,Con?Equest’altra?»

– Mi lascia in pace, per

piacere? – le chiedo,calmissimo.

–No,–rispondelei.–Ioticonosco! Abbiamo una cosain comune io e te, una cosaspecialeeterribile.

Scaravento i miei libricontro la sua Volvo, senzaammaccarla ma facendo ungran rumore. Lei fermal’automobile.

– Signora! – le urlo. –Basta! La pianti di rompermi

le palle! Sparisca dalla miavita!–Leiaprelaportiera.Iolevadovicino–lasuafacciaèpiú o meno all’altezza dellamia quando è seduta – estrillo: – Fanculo al culo! –senza neanche sapere chesignifica. Voglio solo che milasciinpace.

Ma a questo punto lei èarrabbiata. Mi afferra per ilbavero della camicia, lacamicia bianca dell’uniforme

scolastica,mi tirasopradi leiemi scaraventa sul sediledelpasseggero dove mi ritrovoconipiedialpostodellatesta.Poi schizza via e sento l’autosobbalzaresui libriquandocipassasopraconleruote.

– Che cosa fa? Che cazzofa?

– Stai zitto un secondo, –mi risponde,mentre conunamano si pinza la radice delnaso e con l’altra tiene il

volante. – Sono furibonda,sono davvero furibonda,perciò dammi il tempo dicalmarmi –. Socchiude gliocchi e stringe le dita cosíforte che si vedono i tendinidel polso contrarsi. Guidasempre piú veloce, semprepiúveloce,giúperlaDeSoto,passacomeunrazzodavantiacasa mia e al McDonald’s epoi imbocca laTrentaseiesimaNorth-West.

–Sifermi!–leurlomentremi rigiro e mi metto sedutodritto, ma lei mi lanciaun’occhiata che miammutolisce.

Passano all’incirca altriquattro minuti prima cheabbassi la mano e cominci arallentare.

–Cosívameglio,–dice.–Mi hai fatto arrabbiareenormemente, Con. Non

farmi arrabbiare cosí, perfavore.

–Miharapito.– Da un po’ di tempo va

tutto storto, bisogna cheraddrizzi qualcosa. Bisognache trovi il modo di aiutarequalcuno,senocrollo.

–Loracconterò.–Nonc’èniente che vada

comedeveandare.Unavolta,quando mi sentivo giú, mibastava guidare a folle

velocità ed era come se milasciassituttoallespalle.

– La licenzieranno,signora. Porca puttana se lalicenzieranno –. Ma lo dicoconuntonodolce,comeseledicessi: «Porca puttana comesei simpatica», o: «Porcaputtanacomeseibella».Edèbella davvero. Ha il visoancora tutto in fiamme, e icapelli intorno alla testa

elettrici e arricciati come pereffettodellarabbia.

– Cosí penso: «Dai unamano a qualcuno, e Diorisolleveràanchete.C’èancheamore nel mondo, e io èquestochevoglioessere»–.Sigiraaguardarmi:–Capisci?

– Come no, ma bisognachemiriportiacasa.

– Ho visto la tua schedapersonale, quell’orribilescheda in cui c’è scritto che

oditutti,sempreecomunque,e ho pensato: «OuidaMontoya,c’èancheamorenelmondo, e ce ne vuole qui eoraperquestoragazzino».

– Veramente io non losono,–dico.–Nonmisipuòannoverare fra i ragazzini,fatto salvo che è un reatograverapirmi.

–Haidettochecapivi,manonèvero.

– Devo tornare a casa.

Devobadarealmiofratellino.Leiadessomiriportaacasa.

– Fra poco, – dice. –Allacciati la cintura. Miofratello è morto correndo afolle velocità, e questa è solola seconda delle due coseorribili che mi sono capitatequest’anno –. Premesull’acceleratore e la Volvo,che finora era filata via lisciasulla Trentaseiesima e poisulla Interstatale 95, imbocca

a folle velocità la Julia Tuttlein uscita dalla baia. Dov’èfinito il traffico? Mipiacerebbe proprio saperlo.Dov’è finita tutta la gente acuipotreiurlareper chiedereaiuto?

– Hiiii! – strilla,digrignandoidentibianchi.–Bello,vero?

Loammetto,èbello,conilsolesull’acquaeMiamiBeachche ci corre incontro. La

maestra armeggia con ipulsantidelbraccioloetutti ifinestrinisiabbassano.Lanciaaltrijodel,ogorgheggi,oquelchesono,chesembranoversidi un pappagallo all’attacco.Miposa lamanosullagambaestringeforte.

–Senti?–michiede.–Eh sí,– rispondo,anche

se non so di che cosa stiaparlandoecomincioadavereunpo’dipaura.

– Sono i nostri problemiche non hanno piú fiato perrincorrerci. Andiamo troppoveloci.Lisentiituoiproblemiche stramazzano alle nostrespalle, li senti sul serio? Cherimangono dietro, comequellidelcompleanno?

– Sí, – rispondo, anche sel’unicacosachesentoinquelmomentoèlasuamanosullamiagamba.StopensandoaLegioiedelsesso2eatuttigliatti

di penetrazione cosímeravigliosamente resi acarboncino. E per una voltaprovounpo’diinteresse:nonsono solo immaginitruculente come quelle diAnatomia del gatto, non èsolo conoscenza maesperienza, è unamano sullamiagamba.Nonècosíchelaintendelei,locapiscoquandola leva emi dà un pizzicottosulnaso,poitoglie lamanoe

la sventola fuori dalfinestrino, ma la miasensazionenoncambia.

–Quandoracconteròtuttonontroveràmaipiúlavoroinquestostato,–ledico.

– Non racconterai niente,– risponde lei senzaguardarmi. – Ho letto la tuaschedapersonale e seiugualeame–.Haragione,oalmenovorrei che l’avesse, o forsenon ci capisco un accidente.

Accende la radio. StapassandoLucyintheSkywithDiamonds. Al momento delritornello lei spingedinuovolamacchinaafollevelocità.

Nonraccontoniente.–Haifattotardi,–midice

la mamma quando arrivo acasa.

– Già. Mi sono fermato aparlare con la maestra. La

supplente.– Capito –. È in cucina,

posto insolito per lei. Siallontana dal lavello. –Yorkshire pudding, – dice. –Eroastbeef!

– Bello, – dico. – VieneancheMiloamangiare?

– No. Ho pensato che civolevaunacenaspeciale.Unacenadicompleanno.

– E il pollo? – Lei mi fatanto d’occhi, strofinandosi

suegiúlemanisuijeans.– Mi dispiace tanto.

Pensavocheierifosseilsei.– Te l’ho già detto:

pazienza.–Comunquequestanonè

la tua festa di compleanno.Quellaveralafaremounaltrogiorno.

–Nondiraimicasulserio?–Tifaràbene.–Comeunincubo.–Badaacomeparli!

– Non voglio nessunafesta.

–Tipiacerà.Cisarannolatorta con le candeline, icappelliniaconoe igiochi…tutto quel che dev’esserci,insomma.

– E dove affitterai gliamici?

– Rilassati. Rilassati evedraicheandràbenissimo!

–Verràfuoriunoschifo–.Calebmisiavvicinadadietro

e si allunga per mettermi lemani sugli occhi, ma arrivasoloall’altezzadellabocca.

–Bethbaloo?–chiede.– Arthur Treacher, –

rispondo.–Niha,–dicelui.–FlipWilson?–Niha.Riprova.– Con Markowiecz

Clooney?–Fuochino.–CalebCartorisClooney?

– Sia-fee, – dice. –Focherello.

–Cedo.–Nonvale.– Be’, potrebbe essere

BelacdiElio,madaquel chemi risulta scomparvecombattendo gli uominisinteticideipoli.

– Tutte bugie! – diceCaleb, ridacchiando, etogliendolemaniperfarmiilsolletico.

–Guarda,Caleb,–dice lamamma. – Roast beef! – Cimostra il pezzo di carnelegato,con il sanguecheescefra un giro di spago e l’altro,poiloinfilanelfornofacendoun sacco di scena. Io pensoche è un bel momento, epenso anche che è tuttodannatamentestrano.

Il giorno dopo vado a

scuola, e passo oltre. Nonvoglioandaredovec’èOuidaMontoya.Cosíperunpo’mimetto a fare il turista eprendo l’autobus per VillaVizcaya, l’obbrobrio rosa diMr Deering. Quandoqualcuno pensa che abbiatagliato e comincia a farmidomande, io parlo conaccento francese e dico chestocercandoilmiopapà,che

è laggiúdietroquella siepe, escappovia.

Il parco di Vizcaya èbellissimo ed è soprattuttoqui, fra le querce dellaVirginia e i banyan affacciatisuun’ampiaporzionedibaia,che passo i tre giornisuccessivi.Lamiascuolanonsifaviva.Inrealtàmelapassobenone, anche se non faccioaltro tutto il giorno chestarmenesedutosuunalbero

aguardareilcieloepensareaOuida Montoya che guidaveloce, o che vola, o inalternativa che fa scritte nelcieloconlasuaVolvo.

Dopotregiornitrovonellaposta una lettera perme. DaunamicodipennacheabitaaPortoRico,dicoallamamma,manonèvero.C’èscritto:

Tu non hai raccontatoniente,ioneppure.Cifacciamo

un giro? De Soto angolo DeLeon, giovedí alle quattro emezza.Okay?

OM

Cosígiovedí allequattroeun quarto dico alla mammache vado da Frieda e poi inbiblioteca, e lei dicebenissimo ma torna per lesetteemezza.All’angolofralaDe Soto e la De Leon vedoappostata la Volvo color

argento. La vulva d’argento,penso, e ridacchio fra me eme come un tredicennescemo.

– Non ero sicura chesaresti venuto, – dice leiquando entro in macchina.Facciospallucce.

– Grazie per non averdettonienteasuorGertrude.

– Siamo pari, – rispondelei. – Allora, che cos’haivogliadifare?

– Come la volta scorsa, –rispondo. L’altro giornoeravamoandatiallaspiaggiaeci eravamo seduti sul cofanodella sua auto a guardare ilmare. «Scappa, se vuoi, –miaveva detto, – ma tanto tiriacciuffo». Io non avevovoluto scappare, perché miaveva preso in grembo, miaveva stretto fra le braccia emi aveva detto che miavrebbescassinato,echetutti

i miei problemi sarebberofuoriusciti e si sarebberoscioltialsole.

Va di nuovo alla spiaggiamaquestavoltanonsiferma.Sale invece su per la Collinsfino al Broad Causeway eprosegue per la 95, dovespinge la Volvo aicentoquarantaindirezionediJacksonville. Mi posa dinuovolamanosullagambaecominciaaparlare:–Nonho

maipresounamulta,–dice.–Miofratellovegliasudime.

– Ci hamesso tanto? – lechiedo.

– No. Ha battutoviolentemente la testa ed èmorto sul colpo. Le Volvosono le auto piú sicure almondo,maluinonavevaunaVolvo–.Rimaneunattimoinsilenzio prima didomandarmi: – Qual è lamollaperte?–Noncapiscoe

glielodico.–Permelamolladel ricordo sonogli incidentid’auto, – dice, stringendomila gamba. – E il metalloaccartocciato, comprese lelattineperlastrada.Eilvetroinfranto. E una ferita allatesta. Queste cose mirichiamano immediatamenteunasensazionecomeseavessiingeritounapietra.Disolitoènello stomaco, ma qualchevoltalasentointuttoilcorpo,

comesecircolassenelsangue.Ancheilsangueèunamolla.

–Aerei, – dico. –E i filmsui disastri aerei. Non mipiacciono piú le paludi, eneppureglialligatori.

– Vertebre schiacciate, –dicelei.–Collirotti.Terminimedici come «C1» e «C2». Etrovo orribile la parola«petecchia». Quasi quasi misento male al solopronunciarla.

–Volo,–dico.–Uccelli.– Bare di rame. E fiori.

Rose rosse, rose gialle egirasoli.

– Perfino il profumo deifiori,–dico io.Anchequestavolta ha abbassato tutti ifinestrinieguidafinchéilsolenon comincia a calare. Èiniziato a piovigginare e ilfondo stradale è viscido, manontemounincidente.

Dalle parti di Pembroke

Pines le dico che devorientrare per le sette emezzao sarò nei guai. Lei tornaindietro, ma invece didirigersi verso casa miaraggiunge il parcheggio delSanta Teresa. È totalmentevuoto. Non ci siamo parlatimolto, ma la sua mano èrimasta sulla mia gamba perun sacco di tempo, e lastringeva e stringeva al ritmodella musica trasmessa dalla

radio. È stato molto bello,penso. Una bella uscita dicoppia.Maquandofaccioperscendere mi dice: – Aspetta.Tivadiimparareaguidare?

Io sono abbastanza altoper la mia età. Arrivo aipedali e riesco a vedere al disopra del volante, anche seaguzzando gli occhi etirandomiunpo’su.

–Sembriunavecchietta,–mi dice.Guido tre volte su e

giú per il parcheggio, poiintorno ai pali della luce,finché l’ultimo lo aggiro inscioltezza.Facile,penso.

–Piúinfretta,–dicelei.–Se non sai andare in fretta,alloranontiho insegnatounbelniente.

Accelero un po’, e lei sisporge verso di me e con lamanosinistramispingegiúaforzailginocchio.LaVolvofaunoscattoinavantimariesco

acontrollarlaecominciamoagirare e girare sempre piúveloci, come sulla giostrarotante alla festa del SantaTeresa, che si svolge tutti glianni a maggio proprio inquestoparcheggio.Una forzaincontenibile spinge MissOuida Montoya verso il miolato dell’automobile. Mivengono inmente la forzadiCoriolis,l’occhiodelcicloneealtre cose rotonde: le arance,

lemele, i bulbi oculari. Sonoschiacciato contro la portieraeholasensazionechelaforzacentripetami stia strappandoviaunpezzodicorpo.

– Piú in fretta, – dice.Alloradogas.

– Piú in fretta, piú infretta! – dice. – Piú velocedella saetta! – Mi giro aguardarla in faccia. Ha unsorriso da matta, da veramatta. Gli occhi hanno

qualcosa di maniacale, comesestesseroperschizzarlefuoridalleorbiteependeredaunamolla.–Vaibenissimo!–midice. Il mondo oltre la suafacciaèununicograndepalo,su cui alla fine vado asbattere. Rimbalziamo eruotiamo su noi stessi unavolta, un’altra, poi ancoramezzo giro. Pigio i freni,l’auto fa un sobbalzo e siferma.

– Le ho distrutto lamacchina, – le dico,piangendocomeuno stupidopoppante.

– Non fa niente, –risponde. Ha la faccia a uncentimetro dalla mia, aportatadibacio.Dietrodi leivedocheunfarosièspentoel’altro getta sulla scuola unfascio di luce come ilproiettoredi sicurezzadiunaprigione.

– Che cosa vuoi? – michiede.–Checosavuoi?

Comincio a gemere esinghiozzare come unbambinetto qualsiasi. Pensodi saperlo, anche se non socome dirlo. Lei mi vieneancora piú vicina e cerca dicingermi con le braccia. Èveramente a portata dibacio… perciò glielo do. Miavvento come un serpente,ma dopo pochi secondi mi

accorgochelasualinguanonstainteragendoconlamia,alcontrario, la sta evitando, emirespinge.

–Checosapensidifare?–miinterroga.

– Mi stavo… prendendounacosa,–rispondo.

–Controlamiavolontà,–dicelei,asciugandosilabocca.

–Loso,–dicoio.–Èmegliosetenevai.–Certo,–dico.Sapevoche

non lo dovevo fare. Sapevoche mi stava offrendo unmorboso surrogato di amorematerno, e invece mi sonopreso il bacio perché era aportata di mano. Mi sentocattivo,mastomeglio.

– Mi hai distrutto lamacchina, – dice, come se lonotassesoloora.Ioescoemiallontano senza voltarmi, equando sento il clacsonsuonare a singhiozzo

immaginochesialeichecistapicchiandosopraconlatesta.

Camminoversocasa,emichiedo:Satanasisentivacomeme quando stava perconquistare il Paradiso? C’èun neonato nei paraggi a cuipossospaccarelatestacontrouna pietra? Sono umano? Lepalme mi sovrastano comekalai-zee, ridacchiando infondo alle pance, tutte pienedibambini.Sonostatoaperto

a forza, penso, e ne èsgusciato fuori un essereorripilante.

Arrivato a casa, restofermo sulla soglia adascoltare. Di là c’è silenzio.Faccio il giro e spio dallafinestra della camera dapranzo. Yatha McIlvoy stamettendo delle candeline suunatorta.Allatooppostodeltavolo, Caleb è seduto sulleginocchia della mamma. Ci

sonoaltrepersone,amichediYatha. Immagino che lamamma abbia dovutoconvincerle o ricompensarlein qualche modo. Sono tuttefemmine.

«Mondo,vita:vihobeccatifinalmente!–penso.– Ilmiobaciol’hoavutoenessunomelopuòtogliere,nessunose lopuòriprendere».Tornatoallaporta d’ingresso, armeggiorumorosamente con le chiavi

nella serratura perché sisentano pronti a ricevermi.Quindi spalanco l’uscio esaltodentrostrepitandocomeun ossesso, e strillo: – Buoncompleanno!

1 Emily Dickinson, poesia n.249, in Silenzi, a cura di BarbaraLanati,Feltrinelli,Milano1996.

Lasommadellenostreparti

Beatrice aveva bisogno diun fegato nuovo. Il suo erarimasto irrimediabilmente

danneggiato, unmese prima,cadendo dall’alto di unparcheggio di sette piani.Mentre l’ospedale sipreparava all’imminentetrapianto, Beatrice era incoma,manonaddormentata.La parte di lei che noncoincideva con quel corpomalatoerainpiediaccantoalletto che occupava nell’unitàdi terapia intensiva, eguardava l’infermiera china

su di lei per prelevarle ilsangue. La sua anomalacondizione le permetteva diconoscere aspettinormalmentedeltuttoprivatidellepersone.PerciòBeatricesapeva che l’infermiera, dinomeJudy,stavapensandoalmarito. Erano le undici emezza di sera, piú o menol’oraincui luiandavaaletto,e Judy stava immaginando isuoi preparativi per la notte.

Pensava al marito che sitoglievacamiciaepantaloniepiegava per bene il lenzuoloperché arrivasse esattamentesotto la vita. Poi si sarebbegirato sul fianco e avrebbemesso una mano sotto laguancia. Le mancava damorire la cavità fra le suescapole in cui era solitaappoggiare la facciaaspettandol’arrivodelsonno.

Distratta, Judy mancò la

vena, e imprecò pianoquando si accorse che nonentravasanguenellaprovetta.Il corpo di Beatrice non simosseenonprotestòmentrel’infermiera rovistavasottopelle alla ricerca di unavena già molto strapazzata.Infine, senza che Beatricesentisse nulla, la trovò, e ilsangue preso a prestito(Beatrice aveva subito unatrasfusione completa nelle

prime ore dopo il ricovero)fluí silenziosamente in unaprovetta dal tappo rosso.Quandoquestafupiena,Judyne riempí un’altra dal tappogrigio, quindi una dal tappolilla, e infine una il cuitappino di gomma aveva ilcoloredelleuovadipettirossoappenadeposte.

Si tirò su e,mentre con lemani compiva il gestoautomatico di appiccicare le

etichette coi numeri rossi aicampioni di sangue, osservòattentamente la paziente.Beatrice era una donna dicorporatura media con unafolta chioma di riccioli rossi,ma nessun altro connotatoparticolare. Dietro i tubi e ifili che la nascondevano, lapelleerapallidaeleggermenteverdastra, e sotto la semplicecamiciadanottedaospedale,le forme,un tempogenerose,

eranoridotteaunoscheletro.Ancheicapellinoneranopiústupendi, luminosi e ramati,come al momento delricovero. Erano ancoraabbastanza belli, ma piúspenti, e di un color sanguescuro e opaco alle radici.Mentreavvolgevaintornoalleprovetteilmodulodirichiestadi analisi per il laboratorio einfilava il pacchettino in unabusta di plastica, Judy decise

che sarebbe tornata a dareunabellaspazzolataaicapellidi Beatrice. Quest’ultima, acui dei propri capelli nonimportava piú niente, pensòche sarebbe stataunaperditaditempo.

Sistemati per bene icampioni di sangue nei lorocontenitorisicuri,egettativiai rifiuti taglienti, Judy girò itacchi e uscí dallo scompartosemiprivato che Beatrice

occupava nella prima sala diterapia intensiva. La percorsesalutando con un cenno delcapogli infermierie idottoriche la notavano. Beatrice laseguí. Salutò anche lei lepersone che incontrava.Nessunolavide.

Judy si avvicinòall’accettazione, dove unausiliario perennementesfaccendato di nome Frankstava sfogliando con aria

annoiata un vecchio numerodel«Reader’sDigest».

– Ecco qua, – gli disseJudy,spingendoversodiluilabustacol sangue.–Portali suin laboratorio e chiedi unarefertazioneurgente.

– Puoi contarci, – risposeFrank, chiudendo la rivista.Prese inconsegna icampionied ebbe la solita reazione difastidio. «Muso di topo»,pensò dentro di sé. Non era

l’unico in terapia intensiva asostenere che Judy aveva ilineamentidiunroditore,conquel viso piccolo eprotuberante su cuicampeggiavaunnasolungoesottile, e quei denti anteriorisporgenti e ben curati. Ognivolta che Judy era di cattivoumore e si sfogava con glialtri membri del personaleinfermieristico, Franksussurrava a qualche collega:

«Forse il roditore gradirebbeun boccone di formaggio».Non si era ancora spinto alasciarle nell’armadietto unpezzettino di groviera, maprimaopoil’avrebbefatto.

Si immaginò Judy cheguardava estasiata ilformaggioappoggiatosulsuoricambiodiscarpe,sichinavaa prenderlo e losbocconcellavatutto.Lotrovòun pensiero spassosissimo e

uscendodalla sala scoppiò inuna sonora risata, propriomentre stavasopraggiungendo di corsaun’altra infermiera con unatanica da tre litri piena diurina per il laboratorio.Beatrice, che non trovavaaffattodivertente lastoriadeltopo e non aveva particolaresimpatia per Frank, lo seguífuori dal reparto stando aqualche passo di distanza,

mentre lui dondolava latanicadiurinaecanticchiavaabassavoce.

Percorrendo l’ampiocorridoio centraledell’ospedale Frank guardòfuori dai finestroni sulladestra.Stavanevicando,malosi intuiva amalapena. I vetriglirimandavanosoprattuttoilsuo riflesso. Osservandosi,rimpianse di non avereindossato una camicia sotto

l’uniforme, perché il tagliodelle maniche, pensò, glifaceva le braccia gracili emagroline.

Prese l’ascensore riservatoal personale fino al sestopiano, senza accorgersi cheBeatrice era entrata alle suespalle. Arrivato adestinazione,uscídrittofilatodall’ascensore e percorse uncorridoio affacciato su unatrio la cui principale

attrattiva consisteva in unpianoforte a coda, nero elucido. Il cavedio dell’atriosalivasufinoall’ultimopianodell’ospedale. Ogni tantoentrava qualcuno che simetteva a suonare unamusichetta allegra, ma nonsuccedeva mai durante ilturno di Frank. Beatrice liavevasentitinelleorediurne.La sua pianista preferita eraunaragazzinamennonitache,

impettita sotto il suocappellino di carta, suonavainni religiosi. Svoltando adestra, Frank e Beatriceuscirono dal corridoio edentrarononeldipartimentodipatologia.

Frank rimaneva sempresorpreso dal buon odore diquelluogo,unodorechenonera affatto da ospedale, enemmeno da laboratorio.Nonsisentivanonéimiasmi

tipici dei pazienti coninsufficienza renale, né gliodori acri delle sostanzechimiche che facevanoprudere il naso. In quellaboratorio si respirava,piuttosto, il profumo dellebelledonnechevilavoravano.Anche Beatrice lo trovavabuono, principalmenteperché considerava sueamiche le persone lí dentro,che pure non l’avevano mai

conosciuta. Il laboratorio erauno dei posti in cui andavapiúvolentieriapassareunpo’ditempo.

Frank aveva unmomentaneo interesse peruno degli amici di Beatrice,un tecnicodi ematologia congli occhi azzurri e una scarsaigiene dentale, ma fianchibellissimi, di nome Denis.Quandoentròaconsegnareilsangue e l’urina, Denis non

c’era.Due donne e un uomoerano concentrati suglischermi dei loro computer,trascrivendodatianagraficidivario genere, compilandorichieste di esami einserendoneirisultati.Nonsiaccorsero della presenza diFrankallosportello.

– Urgente!– urlò lui,facendoli trasalire tutti e tre.Beatrice avrebbe volutomollargliunceffone.

– Grazie, – disse l’uomo,un tipo taciturno dall’ariabuffa e con due orecchieenormi.–Mettipurelí.

– Super-urgente, – disseFrank, posando l’urina sulripianodellosportello.

– D’accordo, – risposel’uomo.

– Dovete darci dentro. Iltrapianto della signora hainiziodomattina.

– D’accordo, – disse una

delle due donne, una tipamagra dai capelli lunghi elisci. Frank le invidiava gliocchiverdiedorati.Sispinsefinoallosportelloconlasediae gli strappò di mano icampionidisangue.

–Grazie,–disse,posandole provette accanto alterminale e non curandosenepiú. Si chiamava Bonnie.Fingeva di concentrarsi sulloschermo del computer

aspettando che Frank se neandasse. «Vattene», pensò,esercitando tutta la propriaforza di volontà controquell’odioso ausiliario.Beatrice provò a darle unamano ed espresseintensamente il desiderio cheFrank tornasse al suo gironeinfernale di infermierebisbetiche.

– Se n’è andato, – dissel’uomo dalle grandi orecchie,

chesichiamavaLuke.–Queltipohaunmododi

guardarmi che non tollero, –risposeBonnie, che tolse condestrezza dall’involto icampioni di sangue, aprí ilmodulodirichiestaeinseríalcomputer gli esami daeseguire.

– Da serpente, – disseOlivia,l’altradonna.

– Maledizione! – esclamòBonnie. Si era accorta che

l’urina non era stataetichettata.Infilòlatestanellosportello e urlò, rivolta versoil corridoio: – Ehi tu!Fattorino dell’urina! – SeFrank sentí, non lo diede aintendere.

– Che problema c’è? – lechieseLuke.

– Non hanno etichettatol’urina.Cherotturadipalle.

–Lichiamosubito,–disselui.

–Grazie,–risposeBonnie.Guardò Luke che si alzava eandava al telefono,chiedendosi perché sitagliasse sempre i capelli cosícorti, invece di tenerli lunghipercoprirelebrutteorecchie.«Sono proprio gigantesche»,pensò, e si chiese se avesserounqualchelegameconlasuapersonalità. Si diceva che gliuomini dalle mani grandiavessero grandi peni e che le

persone coi capelli rossifossero irascibili, ma nonavevamai sentito dire nientedegliindividuiconleorecchiegrandi, salvo, forse, cheavevano un uditoleggermente migliore deglialtri. Questo sí, era possibileche qualcuno gliel’avessedetto,peresempiosuanonnao il professore di scienze interza media. Beatriceconsiderava le orecchie di

Luke un segno didabbenaggine, perché anchesuo padre aveva avutoorecchie grandi, ed era statoun gran babbeo. Comunque,orecchie o non orecchie,BeatricesiresecontodiavereundeboleperLuke.

Quest’ultimo riattaccò iltelefono e disse: – Ce lamandano su –. Dallastampante dietro di luistavano uscendo le etichette

adesive per i campioni disanguediBeatrice.Bonnie losquadrò di nuovo da capo apiedi e pensò che in un’altravita, con altri canoni estetici,avrebbeanchepotutotrovarlobello. Per la centesima voltaseloimmaginòsenzacamiciae ne rimase delusa. Si alzòdallasediaeporseicampionia Olivia. – Puoi mettercil’etichetta, per favore? – lechiese.

– Certo, – rispose lei. –Ehi,èlasignoradelsalto!

– Davvero? – chieseBonnie.–Nonl’avevonotato.

–Chissà come sta, –disseLuke.

–Nonungranché,–disseBonnie,–sehabisognodiunaltrofegato.

– Ma non peggio delprevisto, – disse Olivia. –Tuttoconsiderato,cioè–.Era

concentrata a etichettare icampioni.

– Dovresti metterti iguantiquandofaiquellavoro,– le disse Luke. – Dico sulserio.

–Loso,–risposeOlivia.– Se una provetta ti si

rompeinmano,poichefai?–Tivasangueovunque,–

risposeBonnie.–Loso.Miècapitato, una volta. Perfortunaavevoiguanti.

–Vuoicheme limetta?–chieseOliviaaLuke.

–Fa’comevuoi,–risposelui.–Erasolounconsiglio.

– Buon Dio! – esclamòOlivia. Beatrice attraversò losportelloelesiavvicinò.Nonhai niente da temere dalmiosangue, le disse, ma Olivianon la sentí. In quelmomento Olivia, in effetti,stava rimpiangendo di nonaver messo i guanti.

Attaccando l’etichetta sullasuperficie curva di unaprovetta dal tappo lilla, eracaduta vittima della suafantasia morbosa.Immaginava che il tubetto lesi spaccasse inmanoe che leschegge di vetro siconficcassero nel pollice,inoculandole il sangue dellasignora del salto con relativemalattie. Era una fantasiasimile a un’altra che le

capitava abbastanza difrequente, in cui immaginavadi assistere per caso a unarapina in banca e di trovarsidietro a una guardia giuratanell’istante preciso in cui lesparavano un colpo cosíviolento che il proiettile latrapassava e si conficcavadentro di lei. Poteva beccarsiqualsiasi cosa; le abitudinisessuali della guardiapotevano essere la sua

condannaamorte:chipotevadirlo?

Olivia scosse la testa,quindi portò il sanguedall’altra parte dellaboratorio, alla sezione dichimica,dovetrovòiltecnico,ilgrandeegrossoOtto,chesene stava seduto con i piedisopra la Hitachi 747, unamacchina dalle grandiprestazioni,capacedieseguireogni sorta di mirabolante e

complessa analisi chimica disieroeplasma,urinaeliquidocerebrospinale,eperfinodellefeci, purché di consistenzasufficientemente acquosa.Beatrice l’aveva seguita eadesso guardava Olivia cheguardava Otto addormentatoe ne contemplava lamascellavolitiva. Pur essendo legata auna ragazza conosciuta alcorso di chimica, Olivia nonsi sentiva in colpa ad

ammirarelamascelladiOtto,né altre parti della suaimmensaanatomia.

– Svegliati, – gli disse,mettendo le due provette coltappo rosso e il tappo grigioin un portaprovette vicino alpiede di Otto. Con la manogli scosse la punta di unascarpa.

– Non sto dormendo, –disse lui. – Sto solo facendoriposaregliocchi.

– Come no, – disse lei. –Non sei ancora autorizzato aessere stanco. Mancano setteore.

Otto si tirò su, prese leprovette e cominciò atrasferirle nella centrifuga. –Ah! – disse. – È quella delsalto.

– Già –. Olivia siincamminò verso la sezionediematologiadel laboratorio,poi si voltò. – Suppongo che

teneserviràunpo’perilivellidi ammonio, – gli disse,porgendogli la provetta coltappo lilla. – Ma appena haifattoportalaaDenis.

– Certo, – disse lui. –Grazie–.Glipiaceval’ideadiavere una buona scusa perandareacercareDenis.Avevadi lui la stessa opinione cheavevanoFrankeBonnie.

Facendo piú alla sveltapossibile, estrasse una

percentuale minima delsangue di Beatrice e la versòin una piccola provetta diplastica. Ma la fretta l’avevareso incauto, e un’unica,magnificagocciagli cadde suun indice non protetto dalguanto. Per un attimo fupresodalpanico,pensandodiavere proprio in quel puntounapellicinastrappatacheinrealtà era sull’indicedell’altramano. Andò comunque di

corsa al lavandino, prese unflaconedicandegginaesenespruzzò un po’ sul dito.L’odore gli ricordò il bagnodellasuainfanzia,disinfettatoreligiosamente da sua madredopo ogni uso. Beatrice,accanto a lui, gli disse, Nonhai nulla da temere dal miosangue.

Dopo essersi ben ripulito,Otto fece partire diverseanalisi, incluso il livello di

ammonio, sulla 747 e andòvelocemente in ematologia,dove trovò Denis chino suuna rivista zeppa diinformazioni biografiche suimusicisti. Girò intorno alcongelatorea−50°CeDenisalzòfinalmentelosguardo.

– Ciao, – disse. EntròancheBeatrice, che si sedettesul congelatore e cominciòsilenziosamente a far sbattere

le gambe contro la paretedellamacchina.

– Ehilà, – disse Otto,dirigendo lo sguardonon suifianchi di Denis ma sullaparte superiore dei suoibicipiti,cheglipiacevanononperché fosseroparticolarmentegrossi (eranocirca un terzo dei suoi), maperché erano molto bentorniti, e immaginava diappoggiarcisopralaguanciae

lasciarsi cullare cosí dalsonno.

– Che c’è? – gli chieseDenis.

–Sangueperte.Aspettanoemocromo con formula eVes.

– Nessun problema –.Denis allungò la mano versola provetta. Otto gliela misenelpalmofacendoattenzione(suo malgrado) a nonsfiorarlo, ma nel ritirare la

manograttòconilmignoloilpolsodiDenis.

– È la signora del salto, –disseOtto.

– Ah, – rispose Denis.Dietrol’espressioneserena, lasua vera reazione fu bendiversa. Sentí il cuorebalzargli in gola, e gli venneistintivamente da portarsi ilcampione di sangue allafronteetenerloappoggiatolí,cosa che naturalmente non

fece. In piedi davanti a lui,Otto lo guardava dall’alto esorridevaimpacciato.

– Si direbbe un trapianto,–disse.

–Unaltro?–Difegato,questavolta–.

Ilprecedenteerastatodirene.– Dove li trovano, tutti

questiorgani?Otto si strinsenelle spalle.

– Devo tornare al lavoro, –disse, avviandosi verso

l’uscita. Squillò il telefono.Denis rispose e ascoltòqualcheistante,poiriappeseeuscí in corridoio. Giú infondo, al capo opposto, c’eraOtto curvo sulla suamacchina. – Ehi, Otto! Ilfegato sta arrivando! Cimandano su il sangue deldonatoreperlasierologia!

– Okay! – urlò Otto dirimando.Denistornònelsuolaboratorio, si sedette e

incominciò a lavorare. Eraemotivamente moltocoinvolto dalla signora delsalto.Erapersuasodi esserneinnamorato, e di esserlo dalgiorno stesso in cui eraarrivata, in cui ne avevasentito la storiaemaneggiatoil sangue per la prima volta.Non sapeva darsi alcunaspiegazione razionaledell’attrazione che provava,eppure ogni notte in cui

lavoravanell’edificiodoveeraricoverata, e ogni volta cheaveva a che fare col suosangue, la trovavaunpo’piúaffascinante. Richiuse larivista e sospirò.Con la testaappoggiata alla macchinaimpegnata a contare esepararepertipolesuecelluleematiche, simise in attesa didati che gli stavano molto acuore, perché lariguardavano.

Beatrice sedeva e loguardavacontristezza,perchénon era di Denis che erainnamorata, e probabilmentedi nessun altro lí inlaboratorio, salvo forse diLuke con le sue enormiorecchie.Quel fantasticare diDenis su di lei le risultavainsopportabile,perciòuscídallaboratorio da una portaaperta sul retro e andò sultetto, dove, in mezzo a un

turbinio di neve, si mise adaspettare l’arrivo del suonuovofegato.

Si affacciò a guardare lacittà da un’altezza che le erafamiliare. L’ospedale, come ilparcheggio, aveva sette piani.Davanti a lei si stendeva ilcampus dell’università,tagliato esattamente in duedal fiume. A un certo puntoprovò a scappare, ma arrivòsolo fino a quel fiume. C’era

una forza che la tenevaavvinta all’ospedale. Pensòche fosse il suo corpo ancoravivo, e desiderò chemorisse.Dopotutto c’era una ragione,se si era buttata giú dalparcheggio. Non avrebbesaputo dire quale, nello statoin cui si trovava ora: sapevasolo che non voleva tornareindietro,echec’eradimezzola tristezza devastante che siera portata appresso tutta la

vita, e della quale non avevamaiincolpatonessuno.

Sentí l’elicottero primaancora di vederlo. Il suofrastuono era incredibile.Tappandosileorecchieconlemani, lo vide emergere dallatempesta di neve e posarsisulla piattaforma. Videscendere frettolosamente gliinfermieri dell’elisoccorso,unodeiqualitenevainmanouna borsa termica di

polistirolo. Come avevanofatto l’altra volta con il rene,adesso avrebbero portato ilfegatodi sotto,dove imedicil’avrebbero esaminato e resodisponibileperlei.Appenagliinfermieri scomparveroall’interno dell’ospedale,Beatricesigiròesi lanciòdaltetto.

Non assomigliò affatto alsalto che l’aveva condotta lí.Intantofupiúlento,epoinon

le fece alcunmale. La cadutafu, anzi, cosí lentadadarle iltempo di riflettere su variecose, e questa volta, mentrefluttuavanell’ariaguardandoifiocchi di neve che lasuperavano, pensò al suoprimo fidanzato. Si chiamavaBoukman. Si erano messiinsiemequandoavevanoottoanni. I suoi genitori nonl’avevanoaccettatoperchéeranero, e non gli lasciavano

frequentare la loro piscina; equestoaMiami,doved’estateera un’esigenza vitale fare ilbagnotuttiigiorni.

Perciò era lei ad andarenella piscinadella famiglia diBoukman, e a entusiasmarsiper le sue stranezze. Luisosteneva di essere nato dauna cagna e di saper volare.Non erano i suoi genitori,diceva, i due cheapplaudivano i loro tuffi

sincronizzati all’indietro. Lasua vera madre si chiamavaQueenie ed era un alano,come Scooby-Doo. Il padreera di Haiti. Era una cosanormale, diceva, da quelleparti. Lei credeva a tuttoquello che le diceva, e passòl’estate in trepida attesa dellelezionidivolopromesse.

Il giorno della primalezione gli diede un lungobaciosullabocca,poipresero

la rincorsa sul tetto piattodella casa di Boukmantenendosi permano. Arrivatisul bordo, lei si bloccò e loguardò lanciarsinel vuotodasolo.Boukmansaltòdal tettoe scese a piombo, cadendodritto sulla testa, la sua testaben fatta e ben rasata.Beatrice guardò giú e vide ilsuo collo orribilmentepiegato. Essendo una

bambina,noncapísubitocheeramorto.

Anni dopo le venne ildubbio che fosse stata la suaindecisioneacostargli lavita.Se si fosse lanciata con lui,sarebbero riusciti a sorvolaretutte le case basse delquartiere rispettabile in cuivivevano,arrivandoasfiorareconlapuntadelpiedelacimadellealtissimepalmereali?

Mentre si avvicinava a

terra,Beatricesiconvinsechela grande tristezza della suavita non era stata Boukman.Non era stato lui la ragionedel suo salto. Però l’avrebbesempre considerato il puntodi partenza della sua lungastoria di tristezza, la personache le aveva insegnato che iragazzi non possono volare eche dalle cagne escono solocuccioliesangue.

Beatrice entrò nel pronto

soccorso seguendo duebarellieri che spingevanodentro la vittima di unincidente motociclistico. Lepochepersoneinsalad’attesaalzaronogliocchialpassaggiodell’uomo, che gridava asquarciagola «Louise!Louise!» Beatrice rimase aguardare mentre lotrasportavanointuttafrettaalcentro traumatologico infondo al corridoio. Intorno a

lei si formarono mulinelli dineve che entrarono nellastanza, finché le porte non sirichiusero e le persone inattesa ripresero a guardaredistrattamente le riviste diintrattenimento o latelevisione. Non vista,Beatriceentrònell’areavietataalpubblico,dovedadietro letendinedivisorielegiunseroirumori dei vari interventid’urgenza.Non si soffermò a

guardare le fratture allerotule, le feritealla testaogliasmaticidalvoltoterreoedalrespiro disperatamenteaffannoso. Cercò dicamminare piú in frettapossibile per raggiungere gliinfermieridell’elisoccorsochestavanoportandoilsuofegatosuinchirurgia.

Non ci riuscí. Il tempodella caduta aveva dato loroun gran vantaggio. Ma nelle

vicinanze del reparto dicardiorianimazionesiimbattéin Olivia che attraversava ilcorridoio tutta tranquillatrasportando un kit per ilprelievo venoso e cantandoMaria. Beatrice la seguí finoal nido, all’altro capodell’ospedale, doveOlivia erastatachiamatapereseguireunprelievo di sangue a unneonato appena sfornato. AOlivia non seccava fare i

prelievi, anzi, le piacevamoltissimo evadere daiconfinidellaboratorio.Pativasolo, talvolta, di dover farmaleaibebè,ancheseeraperil loro bene. Entrarono nelnido e videro un’infermieracorpulenta che cullava enutriva un neonato. Le suecosce adipose strabordavanosotto i braccioli della sedia adondolo.

– È quella laggiú, – disse

l’infermiera, indicando unaculla termica all’angolooppostodellastanza.Beatricesi soffermò a contemplare ledecorazioni allegredell’ambiente: conigli, pony,micini,eungraziosodisegnodi tre cani sottouncespugliodi caramelle. Gli occhi delprimo cane erano grandicome un piattino da caffè,quelli del secondo come unpiatto da frutta, e quelli del

terzo come un piatto piano.Quest’ultima immagine larattristò.

Accantoallaculla termica,Olivia stava preparando labambina per il prelievo disangue.

–Ciao,tesoro,–ledisse.–Sei bellissima! – Le strofinòcon forza il piede con unbatuffolo di cotone imbevutodi alcol. La bimba la trovòuna sensazione non

spiacevole. Con moltorammarico, Olivia estrasseuna lancetta dalla confezionedi alluminio sterile e laconficcò nella parte piúcarnosadeltallone.

–Scusa,piccina,–ledisse.La bimba, che non avevaancora un nome ma che eradestinata a chiamarsi Sylvia,non cominciò subito astrillare. Sul suo visino passòdapprima un’espressione di

totaleincredulità.Quandopoidall’incredulità passò allosdegno, allora si mise astrillarecosíforteedecisacheBeatrice pensò che avrebbescompigliato i capelli diOlivia come una folata diventocaldo.

– Eh già, – disseOlivia, –lavitaèdura.Nesoqualcosa,io –. E questo è solo l’inizio,sussurrò Beatrice alle suespalle.

Dopo aver preso il tallonenell’incavo fra il pollice el’indice, Olivia cominciò astringerepiúfortechepoté.Avolte aveva l’impressione disentire le ossa scricchiolareper effetto dellacompressione, ma Bonnie leaveva assicurato che era solouna sua idea e che eraassolutamente impossibilerompere il tallone di un

neonato, con le sue ossa cosítenereeflessibili.

Dalla ferita era uscita unaperla di sangue rosso scuro,cheOliviatolseconunlembodi garza perché era tropporiccadi fattori coagulantiperessere utile all’analisi.Continuò a spremere iltallone e raccolse la gocciasuccessiva in una minuscolaprovetta di plastica, e poiquelladopo,epoiquelladopo

ancora.Necontòventicinqueprimadiarrivareagli0,25mlnecessari.

L’operazione richiesemolto tempo. Il sangue eralento a uscire. Oliviacominciò a patire le lampadetermiche che tenevano ineonati al caldo come tantihamburger.Unaeraattaccataal tettuccio della cullaesattamentesoprailsuocollochino sulla bimba. Come

avrebbe voluto che unausiliario le asciugasse ilsudoredallafronteprimachegocciolasse giú! Beatricel’avrebbeaiutatavolentieri,seavessepotuto.

– Sembra di essere nelSahara là sotto, vero? – dissel’infermiera grassa,guardandoOliviachesudava.

– Mi sto disidratando,credo, – disse Olivia,spremendo l’ultima goccia.

Tappòlaprovettaeavvolse iltallone in una benda adesivadi colore sgargiante. Neltentativodicalmarelabimba,Olivia e Beatrice leaccarezzarono le braccia e ilpancino, ma lei continuò astrillare.Uscironodallaportache labimba strillavaancora,e Beatrice si fermò aosservarladallaparetevetrata.Rossa come un peperone, laneonata continuava a

dimenarsieastrillarementreun’infermiera faceva fare ilruttinoallasuavicinadiculla,sussurrandole dolci parole.Beatrice mise una mano sulvetro e disse, Poi è ancorapeggio,semprepeggio.

Tornate in laboratorio,BeatriceeOliviatrovaronoglialtri riuniti intorno a untavolo per prelevarsireciprocamente il sangue.Dalla sua posizione seduta,

con il braccio scopertoallungato in avanti, BonnieguardòOliviadasottoinsuelechiese:–Com’èandata?

– Una faticaccia. Laneonata avevaun sangue chesembrava colla. Ma ce l’hofatta.

– Brava. Hai visto daqualche parte una provettacoltappoblu?Denisdicechegliene manca una. Èagitatissimo.

– Pensavo ne avessimopresa una a quella del salto.Sono sicura di averneetichettatauna.

–Già,maa luinonèmaiarrivata. Sarà finita chissàdove,ormai.

– Vuoi che ti faccia ilprelievo? – chiese Otto aOlivia.

– Sí, – rispose lei. – Unattimo solo, che vado a darequestoaDenis.

– Portalo qui quandotorni! – le urlò Bonnie.Beatricerimasefermadov’eraa guardare Luke che, coiguanti, massaggiava l’incavodel braccio di Bonnie per faringrossarelavena.

–Sbrigati!–glidisselei.–Illacciomifaunmalecane.

–Scusa,–risposelui,–maormai ci sono –. Beatrice simiseaccantoaLukeeosservòil modo in cui infilò l’ago

nella vena di Bonnie. Avevagesti rapidi e sicuri. Comesempre quando leprelevavanoilsangue,Bonnieaveva girato la testa dall’altraparte e non se n’era neancheaccorta.

–Nonabbiamomicatuttalanotte!–disse.

– Già, – rispose Luke,mordendosi il labbro mentrespingeva una provettasottovuoto nella camicia di

plastica che racchiudeva ilretro dell’ago, con la suapuntaposterioreaffilata.Tuttisentironounoschioccosordoquando si ruppe il vuotodentro la provetta. Beatriceguardava, affascinata, ilsangue vivo di Bonnie cheirrompeva nella provetta.Immaginò di essere al postodi Bonnie, con le dita sicuredi Luke che le accarezzavanol’incavodelbraccio.Gliandò

ancora piú vicina e finse dicredere che la sua incipienteerezione, che lo stavaimbarazzando e infastidendo,fosse provocata da lei. Lukeestrasse l’ago e premette unbatuffolodigarzasullaferita.

– Ah che imbroglione! –disseBonnie.–Nonmi sonoaccortadiniente.

–Giustocosí,–disseLuke.– Chi mi fa il prelievo? –SperavalofacesseBonnie,ma

lei era impegnata a osservareilproprio sangue, tenendo inaltolaprovetta,controlalucefluorescente sul soffitto, efacendone ruotare ilcontenuto.

– Siediti, Luke, – disseOtto.–Mioccuperòiodite.

Otto indossò un paio diguantiextra-largeesiaccinsea prelevare il sangue a Luke.Usòunagonuovo, e tuttaviaLuke sperò quasi che usasse

quello che aveva impiegatoconBonnie.Sarebbestataunaformadiintimità,pensò.

Olivia sopraggiunse allelorospalleconDenisproprionel momento in cui l’agopenetravanelbraccio.Mentregli vedeva eseguire unprelievo da manuale, Oliviaimmaginò che, con i suoigrossimuscoli e la sua forza,OttopotessebucareilbracciodiLukedaparteaparte.

– Stai diventando bravo,Otto,–glidisse,dandogliunapacca sulla schiena. Lasciò ilbraccio appoggiato alla suaspalla e, mentre Ottocambiava provette eterminavailprelievo,sentivaipiccoli movimenti del suodeltoide.

– Grazie, – rispose Otto,che poi prelevò il sangueprimaa lei,equindiaDenis.Vedere quest’ultimo

arrotolarsi la manica edesporre la vena che spiccavasu tutta la lunghezza delbraccio, gli diede un fremitodi eccitazione. Mentre con ilpollice tastava la vena,immaginòilorocuoribattereall’unisono,evideilorocorpi(nella fattispecie i toraci)premutil’unocontrol’altro,eloro due, strettinell’abbraccio, estasiati per ilsincronismodeilorobattiti.

Quandoebbeterminato,sisedette e cercò di arrotolarsila manica, ma arrivò solo infondoall’avambraccio,perchédi lí in su l’arto era troppogrosso per far passare ilpolsino della camicia, chedovette togliersi. Beatrice simiseaccantoaDenisduranteil prelievo, e fu colpita dallapeluria nera di Otto chepartiva dal ventre, salivasull’addome e continuava sul

torace e sotto le braccia.Aveva un aspetto morbido eben curato, come se fossestatalavataconunoshampoocostosoanzichécolsapone.

AncheOlivianefucolpita,e molto: vagheggiò diappoggiare la faccia sul suotorace, e arrivò al punto diandargli vicino per sentirel’odore sotto il suo braccio.Bonnie scoprí di ammirare ilprofilo piatto della pancia di

Otto, l’estensione del suotorace e soprattutto lospessoree laformaallungata,simileaun’ala,dellesuefascelaterali. Luke osservò Bonnieche osservava Otto e loinvidiò.Denis pensava solo eunicamente alla sua signoradelsalto.

La pensava distesa sultavolo della sala operatoria,forse già aperta, e pregava insilenzio che l’intervento

riuscissesenzacomplicazioni.Beatrice alloramormorò unapreghiera alternativa, perboicottare quella di Denis:pregò che ci fosseun’interruzione di correnteelettrica, un anestesistaincompetenteochequalcunofacessecadereilfegatoaterra.

Rimase ancora un po’ inlaboratorio aspettando cheDenis e Otto analizzasserotutto il sangue,perchévoleva

accertarsi che i suoi amicistessero bene. Risultò che illivellodiferrodiLukepotevaessere piú alto e che Bonnieaveva il glucosiospaventosamentebasso.

– Ora di pranzo! – disseBonnie quando lo seppe, eandò a cercare Denis perchiedergli di aiutarla ascovare il carrello dei pasti.Lukelaguardòuscireealzòiltelefono, che aveva

cominciatoasquillareinquelmomento. Ascoltò conespressionegrave,poirispose:– D’accordo, – e riattaccò.Incrociòlebracciasulpettoedisse a Olivia, che stavainserendo dei dati nelcomputer: – Trapiantoannullato.Lasignoradelsaltoèmorta.

Beatrice, nell’udire ciò,non rimase a osservare lareazione di Olivia ma andò

dritta al fiume. Tuttaviacontinuava a non poterattraversare il ponte, e ne fuprofondamente delusa. Cirimuginò per tutto il tragittodi ritorno verso l’ospedale.Sarò bloccata qui persempre?, si chiedeva.Andò acercareilpropriocorpo.

Quando lo trovò, le suedomandeebberorisposta.Eraancora all’unità di terapiaintensiva chirurgica, ma in

un’altra stanza, fuori dallaquale vide un’équipe dimedicichediscutevanofradiloro.–Checosadovrei farneadesso, di questo fegato? –chiedevauno.

Un altro dottore stavainterrogandoJudy,cheerasulpunto di piangere dallarabbia. Beatrice, ripeté perl’ennesima volta, si eraarrestata mentre le stavaspazzolandoicapelli.

– E chi le ha detto dimettersi a spazzolare lepersonesuicapelli?–lechieseun dottore iraniano, che aJudynoneramaipiaciuto.

– Santiddio, volevo solofareunacosacarina!–risposeJudy. – E se non le sta bene,vadaafarsifottere!–Sigiròescappò via come una furia,maledicendo le conseguenzedelproprioscattod’ira.Dopoche Judy fu uscita dalla sala,

Frank si rivolse a un collegadicendo:–Il toporuggisce–.Beatrice andò a guardare ilpropriocorpo.

Noneralaprimavoltachesubiva un arrestocardiorespiratorio,maintuttigli altri casi lo avevanorianimato. A lei nonsembrava diverso dal solito,madai discorsi che sentiva líintorno capí che era statadichiarata clinicamente

morta. Sembrava viva soloperché i suoi organi ancorasani e trapiantabili eranotenutiinvitadallemacchine.

Beatricelasciòilsuocorpoe si allontanò dalla sala. Cisarebbe voluto un po’ ditempo prima che lastaccassero dalla macchina eprelevassero gli organi.Bisognava fare alcuni esamidel sangue e tirare giú dallettol’équipedell’espianto.In

salaoperatoria trovò il fegatoche la stava ancoraaspettando. Era l’unicapresenzanellastanza.Andòaguardarlo da vicino: eraimmerso in una sostanzafluidadiuncolorrosapallido,che pur non essendo sangueemanava, nel complesso, unodore cosí acre che Beatricecredettedisvenire.

Sii felice, fegato, disse, etornò al laboratorio di

patologia per passare le sueultime ore in ospedale fraamici.

A metà strada sentí unamusica,e laseguí.Ilsuonolaportò giú dalle scale, le feceattraversare diversi corridoi,e, data l’acustica moltoparticolare di questa partedell’ospedale, sembravasempre vicinissimo. Non erainusuale che un gemitovagante volteggiasse giú

nell’atrio e turbasse unavolontaria di passaggio,impegnata in qualcheinoffensivamissione.

Lamusica lacondusseallabalconata sull’atrio del terzopiano, e sporgendosi videBonnie che suonava ilpianoforte a coda e Denisseduto mogio accanto a lei.Bonnie stava eseguendo conbrio un pezzo su un’ottavaalta,eintantocantava:

Lemanihanditafolliipiedihanditicariniicervellisonomolliegrigicometopinimailsangueèilmegliochec’è.Ilsangueèilmegliochec’èsí,ilsangueèilmegliochec’èanchelamammatidicecheilsangueèilmeglioperchédellepartilasommaluiè.

Poi smise di cantare macontinuò a suonare

delicatamente. – È unacanzone chemi ha insegnatomia madre infermiera, a cuil’aveva insegnata a sua voltaunamattadi inserviente.Lei,l’inserviente,nonmiamadre,fu licenziata perché beveva ilsangue rappreso delleprovette usate. Diceva chesapeva di ostrica –. BonniecercavaditiraresuilmoraleaDenis, che era tanto triste.Quando era rientrata per

chiedergli se volevapranzare,lui stava per l’appuntoriagganciando il telefono.Erarimasto per un attimo comeparalizzato vicino allemacchine, poi era scoppiatoinunpiantodirotto.Bonnielíper lí non aveva saputo cosafare,poiglieracorsaincontroe l’aveva abbracciato,dicendogli: – Va tutto bene,Denis–.Eralaprimacosacheleeravenutainmente.

Denis non ci tenevaparticolarmente a essereabbracciato. Ebbe un brevemoto di odio nei suoiconfronti, poiché era vivamentre la sua signora eramorta, e se inquelmomentoavessepotutoscambiarel’unacon l’altra l’avrebbecertamente fatto. Bonnie loabbracciò, e lui pianse sullasuaspallaprotettadalcamiceper qualche minuto. Poi si

scostò, dicendole: – Non socosamiprende.

–Èstataunalunganotte,–risposelei,ilchenoneravero.Fino a quel momento erastata quasi rilassante, nellasua lentezza. «Lo stoabbracciando! – pensò. –Tuttoilrestononconta».

– È per via della signoradel salto, – disse Denis. – Èmorta.

– Non lo sapevo! –

esclamò Bonnie. – Nonsapevochelaconoscessi!

– Non la conoscevo,infatti, – rispose lui. Unnuovo singhiozzo gli salí dadentro e proruppe dallabocca.

Guardando oltre la spalladi Denis, Bonnie vide Lukecheliosservavadalcorridoio,e che a quel punto si girò eandò via. –Vieni, togliamociunmomentodiqui,–dissea

Denis,prendendolopermanoe guidandolo oltre la portaposteriore. Lui non protestò,neppure quando lei locondussealpianoforte,lofecesedereecominciòasuonare.

MentreBonniemuovevaledita sulla parte bassa dellatastieraeintonavaunanuovacanzone, Beatrice scavalcò labalconata sopra di loro ecominciò a volteggiare versoil basso. Fece un atterraggio

perfetto sul pianoforte, vi sisedette sopra a gambeincrociate e fissòintensamenteivoltidiBonniee Denis, che invece non siguardavano. Bonnie smise disuonare.

–Tisentimeglio?– Sí, – rispose Denis. –

Grazie. Non so perché miabbia fatto questo effetto –.Nonavrebbemaiconfessatoanessuno di essersi

innamorato della signora delsalto. Se non riusciva aspiegareasestessolaragionedella sua infatuazione, comepotevaspiegarlaadaltri?

– Mi sembra una buonacosa,–disseBonnie.–Sarestiunbravomedico.

– Grazie, no –. Accanto alorosiaprironoleportediunascensore e ne uscí unaguardia giurata, che liavvicinòconcircospezione.

– Non siete autorizzati asuonareilpianoforte,–disse.

– Già, è vero, – risposeBonnie. – Pazienza –. E silanciò in un’esecuzione diChopsticks.

– Devo chiederle dismettere.

– Se vuole farmi smetteremi deve sparare, – risposeBonnie.

– Forse è meglio andarevia,–disseDenis.

– Io mi sto divertendo, –disse Bonnie. – È un delittodivertirsi in ospedale? Si puòsolo soffrire e morire, quidentro? – Cominciò asuonarePerElisa. La guardiascrutò i loro cartellini diriconoscimento e annotòqualcosasuun’agendinanera.

–Cenestiamoandando,–disse Denis, tirando Bonnieperilbraccio.

– Dovrò fare rapporto, –

disselaguardia.–Rapportatiunpo’piú in

là! – disse Bonnie. Si sentivasu di giri. Forse dipendevadall’aver avuto Denis fra lesuebraccia,ocosívicinoalei.

– Ci vediamo su inlaboratorio, – disse Denis. Sialzò e se ne andò. Bonniesmisedisuonareeloseguí.

– Aspetta! – gli disse. –Andiamoa cercare il carrellodei pasti! – La guardia si

allontanò, pensando a tutti ipazienti che chiedevano solodi poter dormire in pace.Beatrice rimase sopra ilpianoforte. Si distese sullaschienaeguardòinalto,settepiani in su, fino alla voltadell’atrio. Davanti allebalconate passavano pochepersone,alcunecheandavanoa consegnare sangue allaboratorio, altre chetrasportavano un paziente.

Videlabellafilippinaaddettaalla ristorazione che spingevail carrello dei pasti del terzoturno, e che passò di fronteallabalconatamangiandounabarrettadolce.

Chiuse gli occhi eimmaginòcheaognilivellocifosse un suo amico dellaboratorio affacciato allabalconata a guardarlaatterraresulpiano.Immaginòche si chiamassero a gran

voce l’un l’altro: Olivia chechiamava Otto, Otto Denis,Denis lei, lei Luke, LukeBonnieeBonnieDenis.

Quando tornò inlaboratorio lo trovò nel caos.La tranquillitàdicuiavevanogoduto nelle ultime ore erafinitaec’eradinuovoungranda fare. Si sedette allosportelloaosservareLukechecorreva da una parte all’altra

con un’espressione disconforto.

Luke si sentiva sommersodai fluidi. Non ricevevanopiú, adesso, solo richieste diesamidelsangue,maanchediurina, liquido cerebrospinale,e di ogni sorta di effusione.C’era un andirivieni diausiliari che mollavano allosportello grandi quantità dicampioni. Arrivavano suanche pezzettini di corpi

umani, organi o tumori damettere in soluzione econgelare fino alla mattinadopo, quando li avrebbeesaminati il patologo.Qualcuno depositò uncervello tutto intero immersonella formaldeide in uncontenitorediplastica.

E c’erano feci in granquantità,quasi tuttemolli, inscatolettediplasticablucheaLuke ricordavano molto le

confezioni di insalata dipatate delle gastronomie.Volendo sbrigare le cose infretta, ne fece cadere una aterra. Ringraziò il cielo chenon si fosse rotta sulpavimento. La scatolettarimbalzò e rotolò fino allascarpadiOlivia,chelafermò.

–Scusa,–ledisse.– Non fa niente –. Olivia

ebbe un’altra delle sueassurdefantasie:immaginòdi

prendere il contenitore escaraventare la brodagliaaddossoaLukeesulleparetiele finestre del laboratorio,gridando «Merda! Merda!Merda!»

–Comincioaesseremoltostanca,–aggiunse.

– A chi lo dici, – risposeLuke.Nonciavevafattocaso,ma erano passate molte ore.Eranoquasilecinque.Alleseiavrebbepotuto andare a casa

cometuttiglialtri,manonneaveva granché voglia. Sichiedeva se lui e Bonniesarebbero mai usciti di líinsiemeperandareacasasua.Dal laboratorio di chimicasbucòOtto.

–Basta!–glidisse.–Sonostufodilavorare.

– Mi sembra che il ritmostiarallentando,–commentòLuke.

– Dov’è Bonnie? – chiese

Otto, sedendosi a unterminalelibero.

– Sul retro, – risposeOlivia.–ConDenis–.Lesuemani, sempre sudate,facevano una specie dirisucchio quando le sfregavaperpoistaccarledicolpo,efuquel suonocheprodusseora,ammiccando. In realtàBonnie stava solo aiutandoDenis con la formulaleucocitaria. Lui l’aveva

perdonata della scenaimbarazzante di prima, e leiera stata cosí audace daproporglidivedersipiútardi.

– Torno subito, – disseLuke. Uscí dal laboratorio,attraversò il corridoio edentrò nei gabinetti degliuomini. Beatrice lo seguí. Loguardò urinare, sporgendo latesta di lato per vedergli ilpene. La cosa non fu moltoeccitante, e Beatrice si rese

conto con una certa (moltomodesta) tristezza di nonprovare per lui, in realtà,alcun desiderio fisico. Il suosogno era un altro: seguirlocomeunfantasma,entraredinotte nel suo letto singolosenzaesserevistaopercepita,e sdraiarsi sopra, dentro evicinoaluicheintantofissavailbuconelsoffittodacuiunanottesierastaccatounmetroquadro di intonaco, cadendo

ai piedi del letto esvegliandolodisoprassalto.

Lukesisciacquòlafacciaesiguardòallospecchio,drittonegli occhi, mentre Beatricelo osservava appoggiata allavandino. Avvicinando ilproprio viso al suo, eguardandodoveguardavalui,Beatrice riuscí a sentireperfettamente quel chepensava:«Chec’èchenonvainme?»

Uscendo dai gabinetti,Luke e Beatrice siimbatterono negli infermieriche arrivavano per i prelievidel mattino. Mentre Lukeproseguiva verso illaboratorio, Beatrice si fermòa guardarli passare. Tutte lemattine saliva a vederli.Sembrava una parata.Percorrevanoilcorridoioduea due o in gruppetti di tre,alcuni tenendosi abbracciati,

altri avendo da poco lasciatolo stesso letto.Si chiamavanoAlan, Elaine,Wendy, Randy,Eric,Arthur,Phuong,Louisa,Amanda, Loric, Oliver,NathanedElizabeth.Beatriceli trovava tutti molto carini,ma soprattutto Oliver, conquellatestamastodonticae labellacarnagionechiarachealsuo arrivo era semprearrossata e come rinvigoritadal freddo. Aveva l’aria di

essereunodiqueiragazzichebevonolitridilatte.

A Beatrice piacevaannusarli, perché ciascunoaveva addosso un’acqua dicolonia o un profumodiverso. Certe volte passaval’interamattinataaseguirlidiqua e di là, dentro e fuori lecamere dei pazienti a fareprelievi.Ma quel giorno nonpoteva.

Quel giorno aspettò

pazientementeallosportelloeguardòisuoiamiciterminareil loro turno di lavoro. Passòun’ora prima che fosseropronti a uscire. Avevanol’abitudine di andare a farecolazione tutti insieme. Ottopropose pancake. Gli altri latrovarono un’ottima idea,tuttitranneLuke,chedissediessere troppo stanco permangiare e si avviò lungo ilcorridoio. Beatrice non lo

seguí subito. Aspettò che glialtri amici si fosseroincamminati nella direzioneopposta. Guardandoliallontanarsi disse unapreghieraperloro.

Che accada questo, disse,raccogliendosi i capelli soprala testa e sventolandoli nellaloro direzione, come se ciòpotesse avverare i suoidesideri: Che Olivia e Ottoscoprano ciascuno i lati belli

dell’altro,cheDeniseBonniesi infondano reciprocamentegioia, e che Luke abbiafortuna.

Si inginocchiò, e inatteggiamento di supplicaimplorò felicità per i suoiamici. Dentro di sé vedeva ilfuturocheauspicava:DeniseBonnie che si baciavano nelfreddo pungente dellamacchina di lei mentreaspettavano che il motore si

riscaldasse;Otto eOlivia chesi facevano piedino mentreguardavano un filmnell’appartamento di Otto, esi addormentavano con leteste che si toccavano e ilrespirodell’altroinfaccia.Maper Luke non riusciva aimmaginareniente.

Beatrice lo rincorse e lotrovò che scendeva dallacollina, verso il fiume e lafermata dell’autobus. L’area

dell’ospedale sorgeva in unpaesaggio bellissimo, checomprendeva un boschettodigradante fino al fiume. Ilsuolo e gli alberi eranocompletamente coperti dineve, che continuava ascenderesottile.Facevamoltofreddo.Lukesieratrasferitolídalla Louisiana. Scendendodalla collina alberata pensavaallacasadeigenitorieallasuavecchia camera da letto.

Un’ambulanza che stavaandandoaprenderequalcunogli passò di fianco a sirenespiegate. Luke cominciò apiangere, ma smise prima diarrivare alla fermatadell’autobus.

Qui c’era una ragazza,imbacuccata in un giacconepesante, che leggeva alla lucedel lampione. La ragazza glilanciò un’occhiataccia e poitornò alla sua rivista. Luke si

andòamettere ilpiú lontanopossibile. Beatrice gli sisedetteaccantoeconsideròlapossibilità di prendergli lamano.Luichiusegliocchiesimise a pensare, senza sapersispiegare perché, al buco sulsoffittodicasasua.Nonavevaancora rimosso l’intonacocaduto.Sentíunarisata.

Riaprígliocchievideunadonnachevenivaversodilui.Indossavaunacamicettanera

e pantaloni bianchi, e aveval’ariadi essere stata aballare.Il trucco le si era tuttosbavato. Si accorse, quandogli arrivò piú vicina, chepuzzavadialcol.

–Miscusi,–glidisse.–Miperdoni –. Era una perfettasconosciuta.

– Sí? – rispose lui. Leguardòicapelli.Eranotuttiindisordine, ma si capiva chefino a non molto tempo

prima erano raccolti inun’elaborataacconciatura.

–Puòdarmiunamano?–glichieselei.

– Non saprei, – risposeLuke. La sua voce esprimevascarsointeresse.

–Èchestosanguinando,–glidisselei.–Misonoappenavenute lemestruazioni enonhonientedietro,nonsosemispiego.Leihamicaqualcosa?

– Penso che dovrebbe

rivolgersi laggiú, – risposeLuke, indicando con uncennodelcapolaragazzacheleggeva, laqualealzò la testa,liguardòperunattimoepoiripreseaignorarli.

–Già fatto.Niente.Leihamica un fazzoletto di carta odi stoffa, o qualsiasi altracosa?

– No, mi dispiace, –rispose Luke. Voleva che seneandasse.

– Sono messa veramentemale,–disselei.

–Nonlapossoaiutare.– Allora, – gli chiese la

donna,toccandosiipantalonibianchi, – li ho macchiati?Questo almeno me lo puòdire? Non riesco a piegarmiabbastanza in avanti davedere.Temochecadrei.Nonsono molto lucida, almomento –. Per un istanteLuke incrociò il suo sguardo:

aveva gli occhi azzurri. Leguardò il cavallo deipantaloni.

La donna scoppiò in unarisata. – Sono riuscita a fartiguardare!–C’eraunuomo lívicino, e rideva anche lui.Luke lo vide uscire da unangolo buio. La donna gliandò incontro, dicendogli: –Losapevo,chesareiriuscitaafarloguardare!–Glimiseunbraccio intorno alla vita, e

barcollando i duecominciaronoadallontanarsi.Lukeguardòlaragazzaconlarivista: sorrideva. Si alzò inpiedi, tolse le mani dalletaschedellagiaccaelemiseinquelle dei pantaloni,distogliendo lo sguardo.Aveva ilvisopaonazzo.C’eraqualcosa inunatasca.Lotiròfuori.

Era la provetta col tappoblu che Denis non trovava

piú. Allora Luke gli avevagiuratodinonsaperneniente,maadessosiricordòdiaverlapresa da un bancone dov’erastatadimenticatadaOlivia.Ilsanguedentro laprovetta erascuro ma non coagulato. Lastrinse nella mano nuda: ilcontatto con la sua gambal’aveva intiepidita. Fecesaltare via il tappo con ilpolliceerincorseladonnaeilsuoamico.Giuntoabbastanza

vicino, li spruzzòabbondantemente di sanguesul collo e sulla schiena. Ladonnasi toccò lanucaconlamano, la riportò davanti e laguardò. Quando vide ilsangueurlòtalmentefortedafar volare via gli uccelliinvernali che cantavanoappollaiatisuifilideltelefono.

–Contenti? – gridò Luke.– Contenti? – L’uomo siavvicinòeglidiedeunpugno

in piena faccia. Luke caddesul marciapiede innevato el’uomo gli diede un calciosulla testa, uno solo, poi siallontanò di nuovo conl’amica, cercando dirincuorarla. La ragazza dellarivistasialzòeseneandòadaspettare l’autobus allafermatasuccessiva.

Beatricesi sedettevicinoaLuke,chefissavacongliocchisbarrati il cielo che

albeggiava. Era stranamentecontento di trovarsi lí perterra, e lei si preoccupò perlui. Fu invasa da unasensazione nuova. Quandol’aveva visto cadereall’indietro spruzzandosanguedalnaso si era sentitagonfiare d’amore come unaspugna, ed era laprimavoltache provava questapesantezza da quando si erarisvegliata in ospedale.

Allungò il braccio pertoccarlo.

Quando Beatrice gliaccarezzòlafronteLukesentíqualcosa, ma pensò sitrattassediunsemplicesoffiodivento.Quando lei sichinòa baciarlo, pensò che fosseuno spasmo del labbro, forsedovuto a un danno cerebralecausatodalcalcioallatesta.

Mentrelobaciava,Beatricesividechiaramentediventare

sua moglie in spirito. Coltempo, adesso ne era certa,Luke sarebbe riuscito asentirla, vederla e conoscerla.Come se non fosse neanchemorta. Il bacio, il contattofisico, era stato emozionante.Comehofattoanonpensarciprima?, si chiese, chinandosiperdarglieneunaltro.

Ma proprio mentre lobaciava, una nota acuta,nitida, le risuonò in testa, e

seppe con assoluta certezzache le avevano finalmenteprelevato ilcuoredalpetto,eche stavano per portarlo aqualcuno che ne avevabisogno e desiderio.Nell’istanteincuiletolseroilcuore, si sollevò ilveloche leappannava la memoria, eBeatrice ricordòperfettamente e nitidamenteil motivo del suo salto.Mentre le ultime gocce di

sangue defluivano dal cuore,si alzò in piedi e spalancò lebraccia, come a benedirel’interopaesaggioinvernale.

Fine!, urlò, e si precipitòoltre la strada, sul ponte.Quando fu nel mezzo spiccòil volo, salí verso l’alto e siallontanò, alla ricerca di unluogo senza solitudine edesiderio; senza rabbia einfelicità, senza delusione;

senza schiacciante,impenetrabiletristezza.

Pugnalate

Qualcuno stavaassassinando gli animalettidel nostro quartiere. Li

trovavamo sulla stradadavanti a casa, e da lontanosembravano vittime diautomobilisti imprudenti,mada vicino si vedeva che ilcorpo era paffutello e tondo,nonpiatto,esegnatodaitagliprecisi e rettangolari di unalama. Talvolta giacevano inpozze di sangue rappreso, eallora si capiva chel’assassinioavevaavutoluogolí.Altrevolteeraevidenteche

eranostatirimossidallascenadelcrimineepiazzatiadarte,come i due scoiattoliabbracciatisullaportadicasadiMrsChenoweth.

Prima scoiattoli, poiconigli, poi gatti e poi, sulfiniredell’estate, cani.Aquelpunto io sapevo ormai damolto tempo chi fossel’autore delle pugnalate.Avevo scoperto l’identitàdell’assassinoilprimogiugno

dell’estate del 1979, cioè dueanni, un mese e quattordicigiorni dopo che mio fratelloera morto di cancro. Mi eroalzato presto quella mattina,laprimaconilsoledopounacatena ininterrotta di giornidi pioggia, perchémio padredoveva portarmi a vederel’Uomo Ragno, di cui era inprogramma una comparsaalla quarta edizione dellaFestad’estateorganizzatatutti

gli anni a Washington dallaSocietà americana contro laleucemia. Avevo otto anni eper me l’Uomo Ragno eramoltoimportante.

Stavo mangiando unascodella di cereali in cucina,quando mio padre misquadernòdavantiilgiornale.– Guarda un po’ qui, – midisse. In prima pagina c’eraun articolo dettagliato sullaseparazione di due gemelle

siamesi,LisaeElisaJohansendiSaltLakeCity.Eranouniteal torace come me e miofratello Colm, ma avevanoanche,adifferenzadinoidue,alcuni organi vitali incomune. C’era un parola perindicarelalorosituazioneelanostra: «toracopago».Continuavaaessere laparolapiúdifficilecheconoscevo.

– Non è incredibile? –disse mio padre. Essendo un

chirurgo, queste cose eranoperluidelmassimointeresse.– Visto? E hanno solo seimesi! – Colm e io eravamostati separati a un anno emezzo. Io non avevo ricordichiari né del periodo in cuieravamo attaccati, nédell’operazione,mentreColmdiceva sempre che siricordava delle nostre testeche sbattevanocontinuamente l’una contro

l’altra, e che subito primadell’anestesia aveva sognatodelle scimmie. Le gemelleJohansen erano unite per ilfianco, mentre mio fratello eio per la schiena. Perché cipotessimo vedere, i nostrigenitori ci reggevano unospecchio, e questo me loricordo eccome: nellospecchio con l’impugnaturad’argento di mia madre

vedevo,allemiespalle,lamiafaccia.

Pur essendomolto presto,quando uscimmo a prenderel’auto trovammo la nostranuova vicina seduta suigradini d’ingresso della casadei nonni, intenta a leggereunlibronelsoledelmattino.

–Ciao,Molly,–dissemiopadre.

–Buongiorno,dottorCole,– rispose lei. Con gli adulti

era di una buona educazioneimpeccabile. A scuola,malgrado fosse arrivata soloduemesiprima,eragiàmoltopopolare,etendevaametterein soggezione gli altribambini con la suaimpressionante proprietà dilinguaggio.

–Poverabambina,–dissemio padre dopo che fummoentrati in macchina e partiti.Gli faceva pena perché

entrambi i genitori eranomorti in un incidentestradale. Lei era con loro inauto al momento delloscontro,ma la forza dell’urtol’aveva sbalzata fuori da unfinestrino aperto. Immaginaiche lí in Florida, dov’eracapitato, fosse normaleguidareconivetriabbassatiesenzacinturadisicurezza.

Mi rigirai sul sedile e mimisi a testa in giú. Era una

miamania:mi piaceva vedersfrecciaregli alberi e i filideltelefono fuori dal finestrino.Miamadrenonmeloavrebbemai permesso, ma in quelmomento era su un volo perSan Francisco. Faceva lahostess.Una voltamiopadreeioavevamoviaggiatoconleimentre era al lavoro e miavevaportatounbicchierediCoca-Cola con tre ciliegine.Avevaposatolabibitaesiera

piegata sopra di me persollevarelatendinacheioperpaura tenevo abbassatadall’inizio del volo. «Guarda,– mi aveva detto. – Guardache spettacolo!» Avevoguardato, e avevo visto dellemontagne di sabbia chesembravanosacchettidicartaspiegazzati. Avevofantasticato di cadere daquell’altezza fra le braccia dimiofratello.

– L’Uomo Ragno! – dissemio padre quandoimboccammo la Statale 50 esorpassammo un cartello chediceva WASHINGTON, D.C., 29

MIGLIA.–Nonseieccitato?–Siallungòemisfregòlatestacolpugno.Sefossimostati ioe mia madre da soli, lei nonavrebbe aperto bocca, invecemio padre chiacchierò pertutto il tragitto, parlandodell’Uomo Ragno, del Mall,

della sosia di Farrah Fawcettcompresa nel programma, echiedendomi incontinuazione se l’idea divedere tutto ciò non miesaltasse, pur sapendo chenonavreirisposto.Nonavevopiú detto una parola néemesso un suono dal giornodeifuneralidimiofratello.

L’Uomo Ragno fu una

grande delusione. Quandomiopadremiportòdaluiperfarmi fare l’autografo, notaicheilcostumeeramalfattoedi un materiale lucido,volgare,equandomidisse:–Salute,Ragnetto,–avevaunavoceacutada topolino.Capiicheeraunbidoneedesideraiandarmene prima possibile.ScappaicorrendoperilMallemio padre mi riacciuffò soloquando ormai ero arrivato al

castello dello Smithsonian.Non fece nessuna scenata.Quandoagivoinmanieracosístranadiventavatristeebasta.Mia madre invece qualchevolta perdeva le staffe e miurlava che ero un poveropiccolodementee chenienteeramaisemplice,conme.Poiregolarmente si scusava, mamaiconlastessaveemenza,eperciò per me non valeva. Eogni volta speravo che piú

tardi, la notte, piombasse incamera mia svegliandomi eurlando che le dispiacevatantissimo, prendendosi aschiaffi e magari rifilandoneanche qualcuno a me, perquantoerapentita.

– Con l’Uomo Ragnoabbiamo chiuso, – disse miopadre. Mi portò a vedere lasiepe a forma di bufalo erestammoperunpo’sedutiinsilenzio sull’erba, finché mi

chiese se mi andava diritornare là con lui. Miandava, e cosí mio padreriuscí a conoscere la sosia diFarrah Fawcett (di cui nelfrattempo ci eravamo persil’esecuzione di Feelings)grazie ai suoi contattiall’interno della Societàcontro la leucemia. Lei dissecheerocarinoemiregalòunafotografia con autografo cheio poi diedi a mio padre,

perché avevo capito che lavoleva.

Una volta tornati a casa,salii in camera mia escaraventaitutti igiornaliniepupazzetti dell’Uomo Ragnonegli angoli piú reconditidell’armadio. Poi salii sultetto conun libro.Mi sedettia leggere per la quinta voltaStuart Little. In basso, nelcortile dei vicini, MollyPitcher stava giocando in

silenzio,comeme.Ognitantoguardava insu,vedevache laguardavo e riabbassava latesta sorridendo alle suebambolediplastica.Avevamogià interagito cosí in passato,conme che leggevo e lei chegiocava, ma quel giorno perqualche ragione mi parlò.Sostenne il mio sguardo peralcuni secondi, poi fece unarisatinasmorfiosaemichiese:–Vuoivedere ilmio stiletto?

–Fecispallucce,scesigiúelaseguii nel vallone dietro lecase. Non sapevo che cosafosse uno stiletto. Pensavoche volesse farmi guardaredentrolemutandinecomemiera successo tre settimaneprimaconJudyCorcoran,cheabitavadueportonipiú in là,chepoiavevacercatodifarmigiurare chenonavreidetto anessuno quello che avevovisto,cioènientedispeciale.

Ma la cosa chemimostròMolly dopo che fummo scesiuna decina di metri nellasterpagliaesifuinginocchiatavicino alla lapide a punta difreccia del nostro bobtail,Gulliver, ed ebbe scavatobrevemente nella terra secca,era un pugnale. Era lungocirca trenta centimetri eadornato di quelli chesembravano veri smeraldi erubini, incastonati, con una

grande pietra azzurra nelpomo e una rosa incisa sullapartesuperioredellalama.

–Ti piace? –mi chiese. –Me l’ha regalato mio padre.Era di una principessamedievale –. Mi piacevaeccome.Allungailamanoperprenderloma lei se lo strinseal petto: – No! Non puoitoccarlo! – Scappò via dicorsagiúper ilvallone,versoilfiume,eiononlaimitai.Mi

sedetti sulla tomba diGulliver, pensai a tutti glianimaletti morti e capii –perfino una mente infantileera in grado di fare ilcollegamento – che era stataMolly Pitcher a ucciderli.Tuttavia, a parte una breveriflessione su come dovevaessereaffilatalalamaperfaredeitaglicosínetti,nonstettiapensarci tanto su. Tornai acasa e andai giú nel

seminterrato a guardare Ladonna bionica, il mio nuovotelefilmpreferito.

Dopo la morte di Colmavevo preso l’abitudine difissare,ancheperoreeorediseguito, lamiaimmagineallospecchio. I miei genitoripensavano che fossesemplicemente un’altra dellemie manifestazioni autistiche

e cercavano entrambi discoraggiarla, al punto ditogliere lo specchio dallastanza. Non sapevano che inrealtà non era la miaimmagine che guardavo, maquella di Colm. Nellospecchio vedevo il viso cheavevamo avuto in comune.Eravamogemellispeculari.Lepersone che conoscevanobenelenostrefaccesapevanoche erano perfettamente

simmetriche: alle pagliuzzedoratenelmioocchiosinistrocorrispondevano in manieraspeculare quelle nell’occhiodestro di Colm, un piccolodifetto sul contorno destrodelle sue labbracorrispondeva a un ugualedifetto sul contorno sinistrodellemie. Perciò, quandomiguardavoallospecchio,anchele poche piccole cose cherendevano unico il mio viso

lotrasformavanonelsuo,esemicisoffermavoabbastanzaalungomiofratellocominciavaaparlarmi.Miraccontavadelparadiso nei minimiparticolari,adesempioilfattoche lí non si doveva maiandare in bagno, necessitàche entrambi avevamosempre trovato alquantoscomoda e noiosa.Mi dicevache non smetteva mai ditenermid’occhio.

Fradinoic’eraunlegame,ripeteva continuamenteanchedavivo,cheichirurghi,separandoci, non avevanospezzato;unlegameinvisibile.Lasommadellenostreanimenon faceva due, ma una emezza. Ogni tanto sinascondevainqualcheangolodella nostra grande casa, evolevache lo trovassiusandola speciale «sensibilità deigemelli». Non ci riuscivo

quasimai,mentrequandoerail suo turno arrivava drittofilato al mio nascondiglio.Non c’era nessun posto dellacasa in cui potessi sfuggirgli;nessunpostoalmondo,adireilvero.

Dopo la sua mortecominciaiatrovarlononsolonegli specchi, ma in ognisuperficie riflettente. Neilaghetti, nelle pozzanghere,sulla parte concava dei

cucchiai: ovunque. E l’ultimacosa che mi diceva erasempre: «Quando vieni astaredinuovoconme?»

Molly Pitcher micomparve alla finestra quellanotte. Ero ancora sveglio.Sulle prime pensai che fosseColm. I vetri erano aperti eMolly stava lí in mezzo,ferma:soloquandounlampo

estivo la illuminò capii cheera lei. Vidi luccicare ilpugnalechetenevainmanoefui certo che fosse venuta auccidermi, ma avvicinandosial letto mi disse soltanto: –Vuoi venire fuori conme? –Un altro lampo rischiarò lastanza. I fulmini erano ilmotivo per cui mi avevatrovato ancora sveglio. Nellecalde notti estive Colm e iorestavamo alzati per ore a

guardarli lampeggiare sulfiume. A volte i nostrigenitoricilasciavanodormirenella veranda, dove la vistaeraperfinomigliore.

Si sedette sul letto. – Mipiace, camera tua, – disseguardandosi intorno. Dalcorridoio filtrava un po’ diluce, quanto bastava perintuire l’impianto generaledella stanza. L’aveva arredatamio padre perme eColm in

modo che sembrasse unanave, completa di moquetteblu mare e di un pontesopraelevato di legno conparapettoe ruotadel timone.Sopra uno dei due letti c’erauna targa che parevaautentica con la scritta:CUCCETTA DEL CAPITANO;l’altro era il letto del primoufficiale. Quando Colm eravivo ce li scambiavamo ogninotte, innomediun’assoluta

parità, a meno che uno deidue non avesse paura, nelqualcasostavamonellostessoletto.L’ultimavoltacheavevadormito qui, Colm avevausato quello del capitano, edalmomentocheilciclononpotevapiúreplicarsi,daalloraio avevo dormito sempre esolo nel letto del primoufficiale.

Mollymilevòlelenzuolaementre mi vestivo si guardò

intorno in cerca delle miescarpe.Quandoletrovòmeleportòedisse:–Muoviti.

La seguii fuori dallafinestra, incimaaltettoegiúdall’abete del Colorado checresceva davanti a casa,proprio vicino a cameramia.Presegiúper lanostra stradafinoalcampodagolf,intornoa cui sorgeva una parte delsobborgo in cui abitavamo.Unavoltaquelpostoerastato

un campeggio femminilebattista, ma nel corso delsecolo successivo si eratrasformato in un sobborgoresidenziale per gente biancabenestante che viveva in unasorta di pseudo-isolamentobucolico.SichiamavaSevernaForest. Ebrei e italiani noneranoammessi,ed’estateperregolamento bisognavarinchiudere i cani in unrecinto comune. Il campo da

golf, che aveva solo novebuche, era molto collinoso,circondatoinpartedavallonie in parte dal fiume Severn.Molly mi portò all’ampiospiazzo erboso della quartabuca,amenodimezzomigliodalle nostre case. La luna eratramontata, ma la luce dellestellemipermettevadivederei conigli ammassati fra i filid’erba e i denti di leone. Miinginocchiai e raccolsi uno

dei fiori. Stavo per soffiarnevia i semi, quandoMolly miafferròperilbraccio,dicendo:–Nonfarlo,sispaventano.

Per un po’ di temporestammo lí, con Molly cheteneva una mano sul miobraccioe l’altra sul coltello, aguardare i conigli sedutiplacidamente nell’erba,aspettando che si abituasseroanoi.–Sonobellissimi,vero?– mi chiese, lasciandomi il

braccio.Cominciòamuoversimolto lentamente verso ilconigliopiúvicinoallanostraposizione. Si spostava con lastessa lentezza della luna incielo, e per capire che avevafatto qualche progressodovevo non guardare perqualche minuto. Quandoriaprivo gli occhi la vedevopiú vicina al coniglio, cheintanto non si era mosso.Arrivata a circa un metro e

mezzo di distanza, si giròversodimeemiguardò.Eratroppo buio per vederla infaccia. Non so se stessesorridendo. A quel punto silanciò contro la bestiolina, ilcoltellopuntatoinavanti,elatrafisse. Il coniglio ebbe ununicosussultoemorí.Miresicontochestavotrattenendoilrespiro e avevo ancora ildente di leone davanti allabocca. Ci soffiai sopra, e i

semi volarono verso Mollychecontinuavaaconficcareilpugnale nella carne, econtinuava, continuava,continuava.

Il lunedí successivo, ascuola, Molly mi trattò constudiata indifferenza. Io latenni d’occhio tutta lamattina, pensando che miavrebbe fatto capire in

qualche modo che erasuccessaunacosaspecialefradi noi, ma non lo fece. Nonche me ne importassegranché, che mi rivolgesseancora la parola oppure no.Eroabituatoallagentechemioffriva amicizia in viasperimentale. Mossi da unbreve impeto di gentilezza, ibambini facevano i simpaticiconmeperpoidimenticarmi

come un cagnolino. Lilasciavofare.

Quando Molly infine mirivolse la parola, io ormai ciavevo rinunciato. Dopopranzo,quandoeravamotuttidi nuovo ai nostri posti, nelsilenzioseguitoallapreghierapostprandiale che MrsWallaby, la maestra, avevarecitato per il papa cheproprio quel giorno erapartito per uno storico

viaggio nella sua nativaPolonia, Molly mi passò unbigliettino.Loapriipensando,per qualche ragione, chedovesse esserci scritto «Tiamo», perché una volta neavevo ricevuto uno cosí dauna bambinamolto popolareascuola,chesichiamavaIris;quand’eroarrossitoleielesueamiche mi avevano riso infaccia con cattiveria. Ma sulbigliettino di Molly c’era

scritto soltanto: Ti convienenondirenienteanessuno.Misembrò la cosa piú ridicolache avessi mai letto. Volevadire, evidentemente, che nondovevo mandare una letteraalla polizia. Molly non miconosce affatto, pensai,altrimentiavrebbesaputochenonavreidettoniente.

– Che cos’hai in mano,Calvin? – mi chiese MrsWallaby.Marciò verso dime

emisquadròdadietrolelentidegli occhiali. Prima che miraggiungesse avevo infilato ilfoglietto in bocca ecominciatoamasticarlo.

–Checos’era?–michiese.Lo ingoiai. La sua faccia eracosí vicina alla mia chepotevo leggere lamarca sullamontatura dei suoi occhialifirmati:OscardelaRenta.

–Checos’era?–michiesedi nuovo. Ovviamente non

risposi. Emise un grandesospiroemidissediandareasedermi sulla «sedia diGiuda», in pratica un bancod’angolo, separato dagli altri,rivolto verso il muro. Lamaestra non era una cattivapersona,matalvolta io tiravofuori il peggio dagli altri.Ungiorno, durante l’intervallo,mi aveva salvato da ungruppo di bambine che mistavano dando pizzicotti per

farmiurlare.Miavevaportatodentro e spalmato sui livididella crema idratante cheteneva in borsetta, poi però,dopo avermi detto un po’ divolte che non potevocontinuare cosí, davvero nonpotevo,mi aveva lanciato unlungo sguardo severo e miaveva dato anche lei unpizzicotto. Non era fortecome quello delle bambine,ed era sotto la camicia, dove

non si poteva vedere. Mel’avevadatofissandomidrittonegli occhi, e io non avevourlato. Non avevo battutociglio.

Molly tornò qualche nottedopo. A scuola, dopol’incidentedelbiglietto,avevacontinuato a ignorarmi,limitandosi a lanciarmi ditanto in tanto un sorrisino

criptico. Ritornò emi tirò dinuovogiúdallettolanotteincui cominciarono le vacanzeestive. Non disse nulla, aparte ordinarmidi vestirmi edi seguirla, finché passammodifiancoalcampodagolfeiofeciperavviarmialpostodeiconigli. Mi afferrò per ilcollettoemitrattenne.

– No, – disse. – È ora dipassare a qualcos’altro –.Quella notte andammo a

cacciadigatti.Nonerafacile.Inseguirli al buio fu unafaticaccia. Correvano piúveloci di noi o sparivano incimaaglialberi.

– Dobbiamo avere unpiano,–disse infineMolly, eben presto ne escogitò uno.Ci riavvicinammo alle nostrecase, dove trovammo il gattodi un vicino, di nomeCarlomagno,cheprimacierasfuggito passando attraverso

uno sportellino cheimmetteva in un garage.Molly mi piazzò in uncespuglio lí accanto ecominciò a inseguireCarlomagno, che fino a quelmomento ci aveva tenutid’occhio placidamente.Quandoloassalí, ilgattofeceun balzo verso il suosportellino, ma io gli bloccailastrada.Luiallora,perchissàquale ragione,mi saltòdritto

in braccio, mi guardò infaccia, poi si girò a guardarela mia socia. Molly avevaestratto il pugnale. Il gatto sirannicchiòancoradipiúfralemie braccia, aspettandosi,suppongo, che lo portassi insalvo dentro casa, ma io loscagliaiviolentementeaterra.Molly gli si avventò contro elopugnalòallagola.

La morte di Carlomagnonon passò inosservata. Nonche le morti precedentifossero state ignorate, ma leautoritàdiSevernaForest–losceriffo, il presidente delComitatodizonaequellodelCountry Club – avevanoliquidato le uccisioni discoiattoli e conigli come glischerzi di cattivo gusto diqualcheadolescenteannoiato.Quando fu ritrovato

Carlomagno,penzolonisuunramo dritto di betulla,nell’abitato cominciò adiffondersi una certapreoccupazione. Era statocommesso un crimine.«Disgustoso!», sussurrava lagente incontrandosiall’emporio, fra l’acquisto diuna vodka e di un latte alcacao. Su dime eMolly noncadde il benché minimosospetto. Io ero considerato

da tutti un bambino strano esfortunato,ma assolutamenteinoffensivo.MollyPitchereraaltrettanto sfortunata, magodeva di molta stima. Conquei capelli biondi e grandiocchi castani, era il ritrattodell’innocenza, e recitava allaperfezione la parte dellaragazzina brava e buona.Certe volte pensavo cheriuscisse a esprimere cosíbene quell’anima dolce e

gentile solo per via dellepugnalate.

Passarono alcuni giorniprimachevenissedinuovoacercarmi, nel tardopomeriggio dopo una partitadi lacrosse. Il sabato era ilgiorno di allenamento dellasquadradeipulcinidiSevernaForest. Io ero uno deimigliori, perché non avevonessuna paura della palla.Non cercavo di scappare

quandolavedevovolareversodi me come un proiettile.Certi bambini chinavano latesta,odeviavanolapallaconun colpo di stecca, invece diprenderla. A me invece nonimportava di essere colpito.Laalzavodaterraelaportavoviadicorsa,spessopertuttoilcampo perchémi capitava dirado di passarla. La miatecnica nel cullare la palla,affinata in ore e ore di

esercizio con il viceallenatore,ununiversitariodinome Sam Corkle, eral’invidia di tutti gli altrigiocatori. Dubito cheall’epoca il gioco miinteressasse granché (noncapivo che senso avessemandarelapalladaunaparteall’altra del campo), tuttaviacontinuavo a giocare, emoltiannidopomiopadreavrebbeavuto la soddisfazione di

riconoscermi nei torneiuniversitari trasmessi intelevisione. Però mi piacevacorrere, e ammazzarmi difatica, epensavocheprimaopoilapallapotevapiombarmiaddossocontantaviolenzadafarmi scoppiare la testa comeunazuccamarcia.

Quelgiornoavevopresolapalla in un occhio. SamCorkle l’aveva scagliata versodi me con tutta la sua forza

adulta,pensandochelostessiguardandoechefossiattento.Invece ero imbambolato.Quando mi colpí l’occhio,vidi un grande lampo biancoe l’immagine fuggevole, chescomparve subito, del visodiColm.L’urtomigettòaterra.Guardando in alto nel cielovidi passare un aereo e midomandai, come facevosempre quando vedevo unaereo in volo, se a bordo ci

fosse mia madre, anche sequelgiornosapevobenissimocheeraacasa.SamCorklemiraggiunse insieme all’altroallenatore e mi feceroun’infinità di domande percapire se fossi disorientato eavessi subito unacommozione cerebrale.Ovviamente non risposi.Qualcuno disse che unacommozione mi avrebbeprovocato il vomito, cosí mi

fecerosederesuunapanchinae uno di loro rimase conmepervederecomeandava.Nonvomitai e mi riammisero inpartita. L’occhio mi facevamale e stava iniziando agonfiarsimarientrailostessovolentieri, nella speranza diessere colpito di nuovo eavere un’altra fugace visionedimiofratello.

–Checosatièsuccesso?–michiesemiamadrequando

SamCorklemiriportòacasa.Erasedutaaltavolodapranzoinsieme a mio padre che siteneva sull’occhio, nero egonfiocomeilmio,unpaccodi hamburger surgelati. Incoda per far benzina, eravenutoamaleparoleconunoche voleva intrufolarsidavanti a lui. Quellasettimana c’erano moltiproblemiconilcarburante.Intutta la città le stazioni di

rifornimento chiudevano inanticipo, avendo esaurito giàa mezzogiorno la loro scortagiornaliera. – Anche tu,campione? – mi chiese. Miesaminò l’occhio e disse chesarebbe andato tutto a posto.Mia madre fu sollevataquando seppe che non erostato picchiato da qualchebulletto, e quando SamCorkle lodò la forza d’animoche avevo dimostrato

rientrando cosí volentieri inpartita,misorriseperfino.Mistava tenendo un hamburgersull’occhio quando udimmobussareallaporta.AndòSamad aprire, e sentii la vocinadolce di Molly Pitcher chedomandava: – Calvin puòvenire a giocare? – Saltai giúdalle ginocchiadimiamadree mi precipitai versol’ingresso.Leimirincorse,miacciuffò emi disse: – Portati

l’hamburger –. Mentre eroancora sulla porta tornò insala da pranzo e sentii chechiedeva a mio padre: – Daquando tuo figlio ha unafidanzatina?

Molly aveva in mano unvasetto vuoto di maionese. –Andiamoacacciadi lucciole,– mi disse, senza chiedermiche cosa avessi fattoall’occhio. La seguii, alla lucedelcrepuscolo, finoalcampo

da golf, e per strada buttail’hamburger in un cespugliodiagrifoglio.Corsidiquaedilà insieme a lei cercando diacchiappare gli insetti, felicechefossevenutaachiamarmiquand’era ancora giorno epensando che ciò dovessesignificare qualcosa.Mi presiqualche schiaffetto sullamano perché, oltre allelucciole, cercavo di

acchiappare anche i suoicapellibiondisvolazzanti.

Pensavo che volesseriempireilvasettoperpoterciinfilare dentro la mano eschiacciarle senza pietà,oppure portarle a casa eattaccarle con gli spilli a unfogliodicarta,oppureancoraestrarnegliorgani luminosiecreare un potente velenofluorescenteincuiintingereilcoltello. Invece, quando si

fece buio, quando avemmocatturato una trentina dilucciole e il vasetto ne fustracolmo, Molly levò ilcoperchio e corse giú dallacollina,spandendounasciadipuntini luminosi che levolteggiavano intorno. Poitornò su, ridiscese la collinaversoilfiume,eseneandò.

Ben presto non rimasero

piú gatti da catturare. Nonperchéliavessimouccisitutti,maperchédopocheilquarto,untigratodinomeSnackcheviveva con la famigliaNottingham ai piedi dellacollina, fu trovato con dodicipugnalate in corpo sugliscalini d’ingressodell’emporio, la gentecominciò a tenere i gattidentro, la notte. Le nostrebattutedi caccia eranomolto

distanziate, un’uscita ognidue settimane circa, ma fraunael’altraMollymivenivaachiamarea casaemiportavaa giocare fuori con il chiaro.Duranteilgiornofacevamolecoseconsideratenormaliperibambini della nostra età.Sguazzavamo nel fiume,giocavamo con le suebambole e guardavamo latelevisione. Quandouccidemmo Snack eravamo

ormai alla fine di luglio, edopo due notti di cacciainfruttuosa ai gatti Mollydecise che era d’obbligo uncambiodipreda.Mifecefareuna camminata notturna diun’ora nel bosco, fino allegabbie dei cani. Nel buio,molto prima di arrivarci, lisentimmo già abbaiare.Sapranno che stiamoandandodaloro,pensai.

Legabbieeranoilluminate

da un unico lampione,piantatonelmezzodiun’areadisboscatafraglialberi.Sottola luce passava una stradavicinale che conduceva allaGenerals Highway e adAnnapolis. Molly Pitcher simise a marciare su e giúdavanti ai box. I caniululavanoeabbaiavanoalsuopassaggio. Erano le due delmattino.Nonc’eranessuno,enon c’erano abitanti nel

raggio di unmiglio emezzo.Il canile aveva precisamentelo scopodi teneregli animalilontanidallecasedagiugnoasettembre, perché nondisturbassero tutti i ricconiche venivano a trascorrerel’estate nelle loro case divilleggiatura. Era una regolastupida.

Molly si accovacciòdavantiaunbarboncino.Nonlo conoscevo. Il cane guaí e

indietreggiòversoilfondodelsuobox.

–Chebelcucciolo,–disse,benché fosse un adulto. Mifece cenno con la mano diavvicinarmi,mirigiròepreseun pezzo di carne dallozainettoHollyHobbiechemiavevaaffibbiatoall’iniziodellanostra escursione. Poi tiròfuoriimieiguantidalacrosseemidissediindossarli.

–Staiprontoadafferrarlo,

– disse. Si chinò e alla pocalucemostrò il pezzodi carnealcane.–Vieni,–glidisse.–Vieni a prenderti ilbocconcino, cucciolotto.Nonaver paura –.Conunamanoteneva la carne e con l’altracercava di spanderne l’odoreverso l’animale, che per unpo’ continuò a guaire eringhiare ma alla fine si feceavanti cautamente perannusarelacarne.Tenendoil

boccone a un’estremità,quandoilcagnolinosimiseamordicchiarlo, Molly con lamano libera cominciò agrattargli la testa. Mi fececenno di andarle di fianco.Non avevo mai avuto uncontatto cosí ravvicinato conunbarboncinointuttalamiavita. La sua proprietaria,pensai, probabilmente eraunariccasignoraciccionaconicapellibianchi,chedormiva

conunacollanadidiamantialcollo in un gigantesco letto abaldacchino.

– Ci siamo… Adesso! –esclamò Molly. Allungai lemie manone da lacrosseattraverso le sbarre e afferraiil cane per una zampaanteriore, che cominciòsubito a strattonare perliberarsi. – Non mollarlo! –mi ordinò Molly, cercandoaffannosamente il coltello

nella borsa. Quando il caneaveva tentato di scappare –con dei piccoli strappi,inizialmente –, guardandomicomeperdire«Cheaccidentistai facendo?», ero stato lí líper lasciarlo libero. SeMollynonmi avesse ripreso, credochel’avreifatto.

Fu un’uccisionecomplicata,perchélesbarreciostacolavano e quel cocciutocagnolinovolevavivereatutti

i costi. Mi morsicò le mani,inutilmente. Morsicò ilcoltelloesitagliòlegengive,ei denti stridettero contro ilmetallo. Ringhiava, guaiva elatrava,con tuttiglialtricaniintorno che sbraitavano.Molly diceva «Cosí! Cosí!Cosí!» abassa voce, quasiunsussurro. Quando alla fineinferse un colpo mortale sulcollo, un fiotto di sanguecaldoschizzòoltrelesbarree

mientrònell’occhio.Bruciavacome gli shampoo acidi chemi compravano i mieigenitori,manonurlai.

Sulla strada del ritorno lalasciai camminare davanti ame. Osservavo il bagliorelunare sulla sua testa mentresi chinava fra le fronde esaltellava sopra i tronchimarcescenti. Mi sentivo incolpa, ma non per ilbarboncino,perilqualeavevo

provato un odio istantaneo eassoluto dal primomomentoche l’avevovisto,bensíper laproprietaria, lasignoragrassache doveva chiamarsi MrsVanderbilt, pensavo, perchéquello era il nome piú daricchi che conoscevo.Immaginavoleicheandavaalcanilesullasualimousineconuna ciotola di porcellanapiena di carne cruda à latartareperilsuo«tesorino»,e

lafacciachefacevavedendoilbatuffolo di sangue sulpavimentodellagabbia,senzapotercrederechequellofosseil suo adorato. Molly nelfrattempo mi stavadistanziandosempredipiú,eintanto urlava che dovevosmetterla di andare cosípiano, e di spicciarmi. A uncerto punto era cosí lontanachel’unicacosacheriuscivoavedere era la luce della luna

riflessa sul suo capo e sullaborsabiancachesieraportatadietro promettendo dipulirmiiguanti.

A circa un miglio dalcanile sentii il fischio di untreno.Eraancoralontano,masapevo che i binari erano lívicino. Li raggiunsi. Vidiall’orizzonte il faro dellalocomotiva. Mi distesi inmezzo alle rotaie e aspettai.Molly Pitcher mi venne a

cercare – sentivo che michiamava, urlandomi che erounostupidoecheeravamoinritardo. Era stanca. Volevaandare a letto. Quando iltreno fu piú vicino sentii neibinari un ronzio basso,bellissimo, che miattraversava il cervello estimolava un qualche organopreposto alla produzione difelicità, e immaginai la testachemivolavaviadalcorpoe

atterrava ai suoi piedi o, inalternativa,chelacolpivaelagettava a terra. Mollyl’avrebbe guardata con tuttacalma, pensai, messa nellaborsa e portata a casa, dovel’avrebbe conservata sotto illetto insieme ai miei guanti,in ricordo della nostrafrequentazione.Iltrenoarrivòemipassòsopra.

Probabilmente non mistaccò la testa perché ero

troppo piccolo. O forseperché era diverso dal trenodi Charlie Kelly, un ragazzodiquindiciannimortol’estatescorsa dopo una festa nelboscoabasedispinelli,chesieradistesosullerotaieperfarcolpo sulla sorella di SamCorkle.Ilconducentenonmivide neppure. Il treno nonrallentò, né prima né dopo.Mi corse sopra con unfrastuono crescente finché

smisi perfino di sentirlo e,guardando la luna compariree scomparire fra i vagoni,sentii la voce di mio fratellochemidiceva:«Mancapoco».

Tutta Severna Forest fusconvolta dalla morte delbarboncino, che risultòchiamarsi Arturo. Unsorvegliante fu messo diguardia al canile. I primigiorniseneoccupòlosceriffo

Travis in persona, che peròdopo una settimana nominòsuo sostituto un ragazzogiovane da lui giudicatoaffidabile,ilqualeinveceselasvignavaperfarsiunacannaeascoltare musica a tuttovolume nell’auto della suaragazza.Mentre lacoppiaerain tal modo affaccendata,dopo due notti diappostamenti in attesadell’occasione, colpimmo di

nuovo. Questa volta si trattòdi un jack russell terrier dinomeRubacuori.

Dopo di lui le gabbiefurono chiuse e i canirispediti a casa dai padroni,che li tennero dentro,soprattutto di notte. Losceriffo Travis sostenne diessereaunpelodalcatturareil «depravato», ma in realtànon sfiorò mai né Molly néme. Lei non sembrava

preoccupata di esserescoperta. Ma neppuregongolavaperilsuosuccesso.Se ne stava zitta, non dicevaniente né di questo né, tantomeno, del perché andasse adarepugnalateingiro.

Madei suoi genitori parlòtutta l’estate. Quando nongiocavo a lacrosse, passavo iltempoconlei:inbarcaavelasul fiume, sulla Sunfish che inonni le avevanocompratoa

giugno, o a caccia di granchiblu nei bassi fondaliacquitrinosi dietro BeachRoad, o in giro sulle nostrebiciclette con la sella lunga.Invidiavo lasuaperchéavevanappe multicolori chepenzolavano dai manubri esul retro una targa inminiaturaconlascritta«Robache scotta». In un giorno dicalma in cui ci eravamoimpantanati in mezzo al

fiume, con la manociondoloni nell’acqua laascoltai raccontare dei suoigenitori,disuopadrecheeraprofessore di storia nellastessa università in cui SamCorkle sarebbe rientrato fraqualche settimana, e che lasera le narrava storie diantiche principesse, e lediceva che in una vitaprecedenteanche leierastatadicertounaprincipessa.Non

se lo ricordava? Nonriconosceva in quel vecchioritratto il suo principe diallora? Non riconosceva ilpugnale con cui avevatrucidato il bestialepretendentechevolevarapirlae portarla a vivere sottoterranelsuoregnoditenebre?Suamadre, una pediatra, avevaprudentemente protestatoquando il padre le avevaregalato lo stiletto, ma «sua

figliaeraseriaeresponsabileeci si poteva fidare che nonavrebbe maldestramenteferito né se stessa né altri».«Una ragazza deve sapersidifendere», aveva detto ilpadre, naturalmente perscherzo.Ilcoltelloeraappesoalla parete di camera sua,insiemeaunarazzod’epocaea diverse riproduzioniartistiche di anticheprincipesse,elaregolaerache

non l’avrebbe toccato finchénonfossestatapiúgrande.

Io ascoltavo e intantoguardavo le pallide meduseche passavano trasportatedalla corrente. Di tanto intantounamitoccavalamanocon i tentacoli emipungeva.Avrei voluto parlare a Mollydi mio fratello, delle storieche ci raccontavamo, delnostro gioco del faro, o diquellodelponte,odiquando

giocavamoatuonoefulmine,o del sogno di entrambi diavereunlettovolante,unpo’come quello che compare inPomi d’ottone e manici discopa, ma fornito diteletrasporto, alla Star Trek,perstazionareinvolosoprailnostro ristorante preferito etrasferireabordounsaccodipizze squisite. Invece nonraccontai nulla. Niente miavrebbe indotto a parlare,

quelgiornocometuttiglialtrigiornitrascorsidalfuneralediColm. All’epoca non sapevoperché non volevo parlare.Esperti di vario genereavevano provato a farmi direqualcosa: con la terapia deldisegno,conquelladelgioco,con carta e penna, e perfino,una volta, con pupazzisessuati.Non potevo dir loroquelchenonsapevo,eanchel’avessi saputo non avrei

potuto dirlo lo stesso, perchéla mia sola forma dicomunicazione erano icompiti scolastici.Riflettendoci oggi, credo cheilmotivochemi fece tapparela gola e sigillare il cervello èche quel giorno, durante laveglia funebre, capii che nonavrei mai potuto dire nientedi adeguato al fatto dellamorte di mio fratello. Avreidovuto dire una parola per

riportarloindietro,mapoichénon la sapevo, non dovevodiremaipiúniente.

Il compleanno di Mollycadde la prima settimana diagosto. Mia madre mi portòin un negozio a cercarle unregalo. Lei si trattennemoltonel reparto delle Barbie,smaniando per i variaccessori, ma io insistetti

silenziosamente sulla miascelta, una combinazionesalone di bellezza - stazionediagnostica della Donnabionica, un gioco di lussodove la bambola delpersonaggio di JaimeSommers(neavevosceltaunada includere nel regalo)poteva non solo ricaricare lapropria batteria atomica, maanche rifarsi l’acconciatura.Inrealtànonerailveroregalo

che avevo in mente per lei,quello fatto col cuore. Laragione per cui lo avevocaldeggiatoeraperchésapevoche Molly l’avrebbe accoltocon totale disinteresse, e cosíavrei potuto prenderlo egiocarci io. Ilmio vero donoper lei era un grande sassopiatto,trovatonelSevern,peraffilare il coltello. Lo incartainella paginadei fumetti delladomenica. Quando la aprí

sorrise emi disse, veramentecontenta,cheerailregalopiúbelloditutti.

I nonni le regalarono unamacchina fotograficaPolaroid.Ilnonno,dasemprefedele sostenitore degliacquisti all’ingrosso, lecomprò un intero scatolonedipellicoleelampadineperilflash.Laseradopolasuafestadi compleanno, seduti incima al tetto di casa mia,

Molly simise a sparare flashche illuminavano tutto ilvallone, buttando via lefotografie sputate fuoridall’apparecchio. Nonritraevano niente, non leinteressavano. Io le raccolsi eme le premetti sul naso,perché mi piaceva l’odoredella carta fotografica. Dopounpo’dallaverandadifiancosuononnoleurlòdismetterladi sprecare rullini, e di

comportarsiconpiúgiudizio,se non voleva vedersisottrarre il suo nuovoapparecchio. NaturalmenteMollysmiseall’istante.

Quellanottetornòallamiafinestra, con lo zainetto inspalla. Immaginando chesarebbe venuta, ero andato aletto completamente vestito,scarpe comprese. Con miagrande sorpresa lei me letolse,emitolseanchelecalze.

Rimasisedutoconipiedichesporgevano dal bordo delletto, mentre Molly estraevadal sacco un barattolo divaselinae,dopoavernepresouna manciata grossa comeuna prugna, me la spalmavasulpiedeefraledita.

– Questa notte ci attendeuna lunga camminata, – midisse, senza tanticomplimenti. Mentrespalmava l’altro piede chiusi

gli occhi per godermi lapiacevolesensazione.Quandomi rimisi calze e scarpe ecamminai sui piedisacramentati mi sembrò dicamminaresuunguanciale,osulla grossa pancia di miopadrequandogiocavaconnoie io e Colm gli passavamosopraapiedinudiconluichegridava:«Ahia!Glielefantimicalpestano!»

Andammo molto oltre il

canile, a tre miglia da casa.Uscimmo da Severna Forest,superandolebassecolonnedimattoni sgretolati chesegnalavano l’inizio dellastrada forestale. Proprio al dilà della proprietà, passammoper il piccolo sobborgoabitato da famiglie di neri, lecui donne facevano ledomestiche nelle case deinostri vicini. Molly micondusse fra i campi di una

tenuta agricola checosteggiava la GeneralsHighway.

– Voglio un cavallo, –disse, immobile, scrutando lavastadistesadierbadavantianoi. In lontananza sivedevano una casa e unastalla. Le avevo viste non soquantevoltedall’autodeimieigenitori,quandoaguidareeramiamadreeioerocostrettoastare seduto diritto. Avevo

sempre immaginato che viabitasserodonneconlacuffiain testa e uomini barbutimasenzabaffi,comequellidiunlibropatinatosugliAmishcheavevamoinsalottoechenonapriva mai nessuno, tranneme. Molly si avviò verso lastalla. La seguii, e guardandolasagomascuradellacasamichiesi se potesse esserci allafinestra un abitante insonne

che ci stava guardandoarrivare.

Nessuno,neancheuncaneoungatto,cibloccòlastrada.Mi chiesi che cosa avrebbefatto Molly se fossimo statiattaccatidauncaneringhiososbucato dal buio. Pensai chenon l’avrebbe pugnalato. Lamiateoria,assolutamentenonprovata, era che stesseseguendo una scalagerarchica,echefossepartita

da uccelli, scoiattoli, gatti ecanipersaliresemprepiúsu,fino ad arrivare al grossocuore vermiglio di un essereumano. Ero sicuro che unavoltavarcatouncertogradinodella scala animale, non cisarebbe piú tornata. Secondola mia teoria, Mollyconservava l’energia vitaledelle suevittimenellagrandepietra blu incastonata nelmanico del pugnale, e il

giorno che ne avesseaccumulata abbastanza lapietraavrebbesfavillatocomelaTerranellefotodallospazioappeseallaparetedellanostraauladiquarta, sopra ilmotto«Nulla è impossibile».Aquelpunto i suoi genitorisarebbero certamente uscitidallapietraetornatidalei.

Può darsi che la cavallaavesse un nome, che io perònon ho mai saputo. Poteva

essereincisodaqualchepartenelsuobox,maallalucefiocadella stalla non l’ho notato.Era una grande giumentaappaloosa. Molly avevaportato zucchero e mele. Lediede damangiare e le parlòsottovoce. Era l’unico cavallolídentro.Glialtriboxinquelmomento erano vuoti, maavevano comunque un’ariavissuta. Molly disse allacavalla: – Va tutto bene. Stai

tranquilla. Non c’è niente dicui aver paura –. Le fece unsorriso veramente dolce el’animalelaguardòconisuoienormi occhi marroni, e sivedeva che aveva completafiducia in lei, come gliunicorniche,avevolettonellefiabe, si fidavanoistintivamente delleprincipesse. Con la manodestratenevailpugnaleeconlasinistraaccarezzavailmuso

della cavalla. –Toccalo, –midisse. – Sembra velluto –.Posai lamanoesattamente inmezzoaisuoiocchi.Eravero.Abbassai le palpebre eimmaginai di toccare miamadreconilvestitodivellutoche indossava sempre aNatale. Quando li riaprii lacavalla mi stava guardandocon i suoi grandi occhi.Dentrocividimiofratellocheaccarezzaval’animale,edietro

c’era Molly che si avventavacol pugnale. Finché la lamanon le penetrò in gola lacavalla non cercò neppure diindietreggiare. Poi si rizzò,strappando il pugnale dimano a Molly e cercando dicolpirci con gli zoccoli, cheperòsbatteronosolocontroillegnodelbox.Quandoscosselatestailcoltelloschizzòfuorie finí ai miei piedi. Volevagridare,maacausadel taglio

alla gola riusciva a emetteresolosbuffiesoffiate.

La vidi scalpitare ebarcollare dentro il box. Erofermo e tranquillo, finchéMolly non scattò la primafotografia e il flash mi fecesobbalzare. I successiviimmortalarono,aintervalliditrenta secondi, gliocchidellacavalla. Alla fine l’animale sipiegò sulle ginocchia in unagrande pozza di sangue,

stramazzò sul fianco e morí.Malgrado il ronzio dellaPolaroid, i sibili e gorgogliiprodotti dalla ferita, e i tonfideglizoccoli,sembravaessersisvolto tutto in silenzio.Quando i rumori cessarono,improvvisamentesentiiigrilliche frinivano e il respiroconvulsodiMolly.

Mollymiportòacasaemifece entrare nella vasca con ipantaloni arrotolati sopra le

caviglie. Mi tolse la vaselinadaipiedieilsanguedicavallodaicapelli,quindimirimisealetto, neanche un’ora primadel sorgere del sole. Miaddormentai e sognai cavallidalle cui gole uscivano fiotticontinui di sangue e i cuiocchi trattenevano immaginiperfette di Colm, e che miparlavano dalle loro ferite,con voci da vecchiette,dicendomi che se solo fossi

montato in groppa miavrebberoportatodalui.

Ci fu una vera e propriaindagine di polizia, e Mollydecise che per un po’ ditempo avremmo dovutostarcene tranquilli. Di notte,mentre le auto della poliziadella Anne Arundel Countypattugliavano le strade diSevernaForest,noirestavamo

rintanati in casa, e nonuscivamo neanche dopo cheeranoandatevia.L’estate finíe ricominciarono le lezioni.Molly Pitcher a scuola miignorava quasi del tutto,mentre nel pomeriggio o neifine settimana ogni tantopassava di nuovo da me.Qualche volta uscimmo conla barca a vela, e un giornoandammo con i suoi nonnifino a Leonardtown per

raccogliere mele in unfrutteto.Lefogliedeglialberi,oltre la finestra di cameramia, caddero giú nel vallone,e io recuperai come ogniinvernolamiavistaapertasulfiume,finoinfondoallabaia.In lontananza scorgevo leantenneradiodell’Accademianavale, con le loro forti lucirosse lampeggianti nell’ariafredda. Passavo il tempo afissarleeadaspettarla,con la

finestra spalancata,maMollynon si fece piú vedere finoallaprimanevicata.

Fu a dicembre, subitoprimadellevacanzediNatale.Quella sera all’emporio, sottoun vecchio abete, un fintoBabbo Natale seduto su untrono di legno con le foglied’orodistribuivaregaliatuttii bambini di Severna Forest.A differenza dellamaggioranzadiqueibambini

io sapevocheera finto, e cheinrealtàera losceriffoTravisvestito da Babbo Natale che,come tutti gli anni,distribuiva doni acquistati eportatilídaigenitoridiquegliingordibimbetti.Sedutosullasua sedia, circondato dasportepienedipacchiregalo,facevamoltascenachiedendoa ogni bambino se era statobuono durante l’anno.Quando chiamò me, mi

avvicinaiariceveredabravoilmio regalo dalle sue ruvidemani. Si trattava di unaFembot, la bambola robotnemica giurata della Donnabionica, che risiedeva inpianta stabile in camera miada quando Molly l’avevascartata.Eroappuntosullettoche giocavo con la Fembot,quando lei fece la suaimprovvisa e inaspettata

comparsa alla mia finestra.Dovettialzarmieaprirle.

– Vai giú a prendere ilcappotto, – mi ordinò. – Fafreddo, fuori –. Eseguii. Miopadre era andato in ospedalepoco dopo che eravamotornati da Babbo Natale, emiamadrestavadormendoincamera sua, sfinita dopo unvolonotturnodaLima.QuasituttiglialtriadultidiSevernaForesteranoalla loro festadi

Natale al circolo socialecittadino.Molti erano famosiper ubriacarsi regolarmentein quell’occasione, inparticolare lo sceriffo Travis.Per tutta la sera tenevaaddosso il costumedaBabboNatale,edellesuepagliacciatesiparlavapoipersettimaneesettimane.Scherziinoffensivi,niente di volgare oimbarazzante. Cantava efaceva battute spiritose e

mordaci, cose di cui tutto ilrestodell’anno,ubriacoono,sembravaessereincapace.

Quando uscimmo, perterra c’erano già un paio dicentimetri di neve. Ciarrampicammo su un alberodavanti al circolo sociale e lanevicata si infittí. Restammoad aspettare che la festavolgesse al termine. Vedevogliamicideimieigenitoricheballavano e lo sceriffo Travis

che saliva in piedi sui tavoli,faceva le capriole e danzavacon due signore incontemporanea. Ogni voltache qualcuno apriva la portadell’ingresso, con le folate dineve ci giungevanomusica erisate.Sentiregliadultichesidivertivano mi fece veniresonno,propriocomecapitavasempreameeColmquandoinostri genitori avevanoamicia cena, il che accadeva

sovente prima che morisse.Dalla porta aperta di cameranostra li sentivamo ridere, etalvoltasuonare ilpianoforte,e cullato da quei rumorisprofondavo regolarmente inunsonnobeato.

Mi addormentaisull’albero, con la testaappoggiata alla spalla diMolly.Eravamo incastrati frai rami uno vicino all’altra,perciò non sentivo freddo.

Quando mi diede unagomitataemidisse:–Sveglia,è ora di andare, – stavanevicando fitto. Scesedall’albero e si allontanò intuttafretta.Iosaltaigiú,diediun colpetto per scrollarmi didosso la neve ammucchiatasisullaschienaesullespalle,elecorsi dietro. Stava tornandoindirezionedellenostrecase,versoilteedellasettimabuca.Quando la raggiunsi vidi il

vago profilo di un’altrapersona che arrancava nellaneve, a una trentina dimetrida noi. Solo quando fummopiú vicini riconobbi ilcaratteristico cappello diBabbo Natale. Lo sceriffoTravis era famoso per nonaccettare mai un passaggio.Era molto fiero di riuscire atrovare sempre, ubriacocom’era, la strada di casa.Vivevagiú vicino al fiume in

una villetta modesta in cuipenso dovesse sentirsi solo,dato che i figli se n’eranoandati e lamoglie eramorta.Aveva preso una scorciatoiaattraverso il campo da golf.Sapevo che avrebbe tagliatoperilboscooltreilgreenfinoaBeachRoad.

Ma lo raggiungemmoprima.Stavacantandoadaltavoce Adeste fideles e non cisentí arrivargli alle spalle.

Quando fummo a meno didieci metri da lui MollyPitcher estrasse il pugnale emipassòunpezzettodi cavoelettrico. – Tieniti pronto, –mi disse. Appena citrovammo un po’ piú vicinifece uno scatto verso di lui,leggermente ridicola con lesue gambette corte cheaffondavano e faticavano acorrerenellaneve.Nonavevaniente di ridicolo, invece, il

colpo che gli inferse propriosoprailcinturonenero,piúomeno all’altezza del renesinistro. Lo sceriffo cadde inginocchio e Molly lo colpíancora, sulla schiena questavolta,quasiinpienocentro,epoi ancora al collo mentrestramazzava in avanti. Dopoil primo colpo lo sceriffolanciò un urlo, propriosecondolemieprevisioni,unurlopotenteeselvaggiocome

quellogettatodamiopadreinospedale quandoColm avevaesalatol’ultimorespiro.Mollylopugnalòun’ultimavoltasullato destro della schiena. Albuio,sullacoltrebianca,ilsuosangue sembrava nero. Losceriffogiacevaafacciaingiúe non parlava. Io rimasi inmezzo alla neve con il miocavoelettricochiedendomiselo dovessi usare perpicchiarlo.

Mollymiafferròlamanoemitrascinòviaatuttavelocitàattraverso il bosco e lungoBeach Road fin sotto casanostra.–L’hopreso,–dicevaansimando, con la voce infalsetto. – Ho preso BabboNatale! – Un paio di volte,vedendo avvicinarsi i faridegli ultimi ritardatari chetornavano a casa dalla festa,dovemmoacquattarcidietroitronchi d’albero. Ci

precipitammo su per ilvallone, oltrepassammo lalapidediGulliver eMollymidiedeunaspintapermontaresull’albero,dicendomi solo:–Rimettiapostoilcappotto!–primadi scapparea casa sua.Eseguii. L’avrei riportato giúin ogni caso.Mi seccava chemi considerasse cosíimprudente. Avevo ancora ilcavo. Lo nascosi in fondo almio armadio insieme ai

vecchi giochi dell’UomoRagno.

Tornato a letto, vidi fuoridalla finestra la bufera checontinuava a crescered’intensità. Di quel passo,l’indomani mattina sarebbestata una vera tempesta.Avrebbero chiuso le scuole.Sapevo, mentre la guardavocaderedasdraiato,chelanevestava ricoprendo le nostreimpronte di bambini, stava

ricoprendo il corpodiBabboTravis. Me lo figurai lí,morente, con il freddo dellaneve che poco a poco glipenetrava nella pelle, neimuscoli e nelle ossa.Immaginai che sulla vista glistessecalandounvelosottile,come se qualcuno gli stesseavvolgendo la testa condiversi strati di carta igienicaprofumata; Colm e iofacevamo cosí quando

giocavamo a «Sono lamummia maledetta» o a «Ilchirurgo plastico mi haappena rifatto la faccia». Mifigurai Colm che aspettavapazientemente vicino allaporta mentre la neve loricopriva, o gli entravadentro, e lui lasciava fare:Colmcheaspettavatranquillola figura che piano piano siavvicinava.

Lo sceriffo Travis nonmorí. Un cittadinocoscienzioso,preoccupatopervia della bufera, gli avevatelefonato a casa.Poichénonavevarispostoeranopartitelericerche. L’avevano trovatodove l’avevamo lasciato noi.Non si era mosso di uncentimetro, ma era vivo. Alsuo arrivo in ospedale miopadre lo sottopose a unintervento chirurgico per

rappezzare il rene squarciato,con molta preoccupazioneper la lesione del midollospinale.

Quando si svegliò disse diricordarsi tutto. Malgrado lanotte particolarmente buia elaneve,diedeunadescrizioneabbastanza dettagliata deisuoi assalitori. Erano stati,disse, due grossi neri, di cuiuno lo teneva fermo e l’altrolo pugnalava dicendogli

«fanculo al babbo natalebianco». La polizia fece unsopralluogo nella comunitàneraaiconfinidellaproprietàdi Severna Forest e furonoarrestati due uomini,identificati da Travis in unconfronto all’americana. Lividisulgiornale.

MollyandòsututtelefuriequandoseppecheTravisnonera morto. Non l’avevo maivistacosíarrabbiata:davadei

calci cosí forti al letto dicameramiada far tremare laparete, e la targa PRIMO

UFFICIALE cadde a terra conungranrumoremetallico.

– Perché? – diceva a vocealta. – Perché non è morto?Dovevaassolutamentemorire–. Mentre lei continuava adare calci al letto io pensavoalla sua famelica pietra blu,finché mio padre si affacciò

alla porta e disse: – Tuttobene,quidentro?

– Sí, signore, – risposeMolly. – Stavamo sologiocandoaprendereacalci illetto.

– Va bene, adesso peròfatemiilpiaceredismetterla.

–Sí, signore,– rispose lei,arrossendo.Iofissailachiazzadisolesultappetoedesideraiche mio padre chiudesse labocca e se ne andasse. Non

farla arrabbiare, pensai. Nonvolevo che prendesse anchelui.

Quando fu uscito, Mollydisse:–Nonègiusto,ecco!

Credevo che sarebberopassati parecchi mesi primache venisse di nuovo acercarmi di notte. Credevoche dovessimo starcenetranquilli, invece ripassòpresto, dopo solo quindicigiorni,all’iniziodellaseconda

settimana di gennaio. Erastata con i nonni in Floridadurante le vacanze, ma lanotte stessa in cui tornò mivenneachiamare.Durante lasua permanenza in Floridaun’ondata di freddo gelidoerascesasullacostaatlantica,daNewYork aRichmond. Ilfiume e perfino alcuni trattidella baia di Chesapeakeeranoghiacciati.

Quando discendemmo il

vallone fino alla BeachRoad,io ero sicuro che stessimoandandoacasadiTravis,perfinirlo. Invece, giunti instrada, Molly la attraversò,scavalcò l’argine del fiume escese sulla superficieghiacciata. Si girò achiamarmi:–Dài,forza,–midisse, e prese a scivolare sulghiaccio con gli stivali digomma.Superòlabanchinaeipontiliesiallontanòversoil

largo. Mi giunse l’eco dellesue parole: – Muoviti,lumacone!–Miaffrettainelladirezione da cui credevo cheprovenisse la sua voce manon riuscii a raggiungerla.Forse si stava nascondendo.Era una notte limpida masenzaluna,eMollyindossavaun cappotto e un cappelloscuri. Dopo un po’ di tempomi fermai e incrociai lebraccia intorno al corpo.

Avevo freddo perché i mieigenitori erano entrambi acasa e non avevo avuto ilcoraggiodiandarealpianodisotto a prendere il cappotto.Perrimediareavevoindossatodue maglioni, che però nonmi tenevano abbastanzacaldo.Mibuttai in ginocchioa fissare il ghiaccio, cercandodi scorgere l’immagine diColm. Sentii gli stivali diMolly che scivolavano in

lontananzanelbuio, epensaialla storia che avevo sentito,del fantasma di una ragazzache era annegata pattinandosul fiume mentre andava atrovare il fidanzato aWestport. Si diceva che innotticomequellalasipotesseincontrare, una bianca figurasuipattini,echechilavedevain faccia fosse destinato amorire nell’acqua. Diediun’occhiata a valle del fiume

nella speranza di scorgere ol’uno o l’altra, il fantasma oMolly,mavidisololelucideiponti lontani, oltreAnnapolis. Ci fu un flash eperunattimopensaichefosseunaspeciedi lampoestivo inversione invernale, poi sentiiilronziodellaPolaroidecapiiche Molly mi aveva appenafattounafotografia.

Nefeceun’altra,eun’altra,e un’altra ancora, da diverse

angolazioni. Suppongo chestesse cercando diinfastidirmi o mettermipaura.Forsepensavachesareifuggitoe caduto sulghiaccio.Invece restai in ginocchio, epoi mi misi sulla schiena aguardare le stelle. Mio padremi aveva insegnato ariconoscere la costellazionedei Gemelli, l’unica checercassi mai di individuare,maquestavoltanonlatrovai.

Mollymi scivolòaccantoe sifermòdietrolamiatesta.Nonpotevo vederla, però nevedevoglisbuffidifiato.

Pensai che, a quel punto,avrebbe parlato. Nella miatesta le avevo sentito farequesto discorso, che avevoripetutomolte volte frame eme: «Ho bisogno di te. Per imiei genitori. Sono rinchiusiqui dentro e devo liberarli.Non ti dispiace, vero?» Non

mi dispiaceva, naturalmente.Le avrei risposto cosí, se neavessi avuto il modo. Miaspettavoquestesueparoledaquando aveva pugnalato ilcavallo,perchénonriuscivoaimmaginare quale animaleavrebbe potuto prendere dimiradopo,senonme.Quellanotte Colm mi aveva detto:«Manca pochissimo, ormai!»Mapochissimononerastato,el’attesaeracontinuata.

Invece,nondisseniente.Silimitò a inginocchiarsi vicinoameeamettermiunamanosulla pancia. Respirava inmaniera affannosa e nonsorrideva. Al collo aveva lamacchina fotografica chependevaeinmanoilpugnale.Mi sollevò i maglioni e lamagliettadelpigiama,perchésentissi il freddodella lamaemi venisse la pelle d’oca. Miappoggiòlapuntadelpugnale

sulla pancia e quando miguardò ebbi la fortetentazionedidirequalcosa.

– Addio, – disse, e spinsela lama dentro con tutta ladelicatezza che immagino sipotesse usare. In testa mirisuonò la voce di miofratello. Anche lui disse unasolaparola:«Adesso!»Perunattimo, quando sentiipenetrare la lama, lodesiderai,eneprovaipiacere,

manonduròalungo.Unurlolacerantemontòdentrodimee mi proruppe dalla bocca.Era il suono piú forte cheavessi mai udito, piú fortedell’urlodiTravis,piúfortediquellodimiopadre,piúfortedell’urloditutti icani,gattieconigli. Si propagò sulghiaccio in ogni direzione einvestí la gente nelle case.Mentre mi rimettevoprecipitosamente in piedi,

sempre urlando, sulle collinesoprailfiumevidiilluminarsimolte finestre. Molly eraindietreggiata di colpo, lafaccia impietrita inun’espressione di perfettostupore. Mi voltai e fuggii,senzacontrollare semi stesseinseguendo, cosa di cuicomunque ero certo. Fuggiiper salvarmi la vita, sulghiaccio, sicuro in ogniistantedisentireilsuostiletto

nella schiena. Quandoscavalcai l’arginee corsi sullastrada lanciai un altro urlo,questa volta per il male chemi ero fatto a sollevarmi.Mentre arrancavo su per lascarpata sentii che mi stavadietro. All’abete davanti acameramiamiraggiunseemipugnalò un polpacciopenzolante, facendomicadere. Le diedi un calcioquando mi assalí di nuovo,

colpendole un ginocchio, manon gridò. Buttai avanti lemaniperfarmischermo,eleile accoltellò. Le diedi unpugno sanguinante sullamascella e la gettai a terra,salii sull’alberoemi infilai incamera, troppo spaventatoper pensare di chiudere lafinestra. Mi precipitai fuoridalla stanza e giú dalle scale,fino alla camera dei mieigenitori, sbattei

violentemente la porta e lisvegliai con le mie urlaisteriche.Miamadreacceselaluce. Incurantidelmio lungosilenzio, leparolemisalironosu dalla pancia sanguinante,mi scivolarono comemercurioingolaedesploseronell’atmosfera luminosa dicameraloro.

– Voglio vivere! – dissi, ementrelodicevomisispezzòil cuore, perché appena mia

madre aveva acceso la luce,sullo specchio grande difronte al letto era comparsal’immagine di Colm. Eracoperto di sangue come me,ferito – ne ero certo – dallamia vigliaccheria e dal miotradimento. Era lí che miguardava mentre i mieigenitori saltavano giú dallettoemicorrevanoincontro,lebracciatese, ivolti livididiterrore alla vista del loro

bambino sanguinante.Ansimando, singhiozzai dafartremare lacasa,enonperildolore lancinantedellemieferite aperte, o per il piantodei miei genitori, o perchésapessi che Molly in quelmomento stava tornando alfiume,doveavrebberivoltoilcoltello contro di sé esacrificato alfine una vitaumana al suo pugnaledivoratoredianime,cosache

in qualche modo sapevosarebbeaccaduta,echedifattiaccadde. Non piangevo inquelmodoperchémisentivoincolpaversoglianimaliolepersone, adesso che sapevoesattamente quanto malefacesseilcoltello,ancheseunsenso di colpa lo provavo. Enon piangevo perché eraimminenteilmomentoincuiavrei tradito Molly Pitcher,sapendo–comesapevo–che

avrei negato ognicoinvolgimento con quantoerasuccesso.PiangevoperchéColmavevascossolatesta,miavevavoltatolespalleesieraallontanato, svanendo inun’immagine che a poco apoco si era trasformata nellamia, fino a esserlocompletamente. Sapevo ched’ora in avantiquell’immagine mi avrebbeparlatosoloconlamiavocee

miavrebbeguardatosoloconimiei occhi; sapevo che nonavrei mai piú rivisto miofratello.

LavisionediPeterDamien

Peternonsieraammalatounsologiorno in tutta la suavita. Quando i sette fratelli,

dalprimoall’ultimo, si eranomessi a letto con la varicella(in fila per altezza e gravitàdell’esantema, con Tercin, ilpiú basso e il meno colpitodal morbo, a un’estremità, eThomas, il piú alto, piúgrande e piú malconcio,all’altra), Peter li avevaaccuditi insieme alle sorelle enon era stato contagiatoneppure da Tercin, che glisputava addosso appena gli

arrivava a tiro.QuandoAmyportò a casa il bubboneperlato e Kathryn, Louise eAnne si riempirono leginocchia di galla di quercia,lui ne rimase immune, eperfino quando l’interafamiglia si beccò la febbregialla,Peter–chepureavevasgraffignato una secondaporzione del pesce azzurroavariato di Mr Hollin – ful’unico a cui non venne

l’ittero agli occhi e alla pelle.Poichélasuasalutediferrolofaceva sentire solo, si erasfregatoilcorpoconlaradicedi noce americano, ma suamadre aveva scopertol’imbroglioel’avevapicchiatocon il bastone «Verità»,mandandolo in castigo nelfienile per una settimana,perché peggio che dire bugiec’erasolol’incarnarle.

Fucosíchequellanotte,la

vigiliadellaFestadelraccolto,svegliandosi con i brividi,nonostanteilcaldod’agosto,emadido di sudore, Peter noncapí che cosa gli stesseaccadendo. Pensò che Tercingli avesse rovesciato addossoun secchio d’acqua disorgente, ma il fratellino –l’unico piú piccolo di lui –stava dormendoprofondamente all’altro capodella camera, respirando a

singhiozzo come facevasemprequando sognava, e inogni caso, se mai, Tercinl’avrebbe inzuppato di pisciodi cavallo. Per alcuni minutirimase sdraiato,perfettamente immobile, aguardare la luna levarsi nelriquadro della finestra. Lacamerachecondividevaconilfratello era stata l’ultima aessere munita di vetri, e lafinestra era arrivata solo

quindicigiorniprima.Sapevache la luna era gibbosa e infase decrescente,ma non eralaformaadirglielo,poiché leincrespature del vetro ladistorcevano facendolasembrare soffice e irregolarecomeunodei formaggimolliche Mrs Clark ricavava dallatte delle sue capre. Le bolledel vetro riflettevano la lucein modo sorprendente; quelvetro era il suo regalo di

compleanno,el’avevapulitoerimirato per due settimane,eppure in quel momento gliparve piú splendido chemai,e sentí improvvisamenteun’affinità incredibile con lesue bolle. Gli sembrava diessere sospeso inun’atmosfera densa etrasparente, incuigalleggiavainondatodi luce lunare.Cosíquesta è la febbre, pensò,riconoscendo i sintomi

descritti dai fratelli e dallesorelle, e si accorse di undolorino alle ossa chescomparveconlarapiditàconcuieraarrivato.Sirivoltònelletto,semprepiúbagnato,esiriaddormentò.

–Stanottesonostatomale,– disse il giorno dopo allamadre, a colazione, badandodi non tradire il minimoorgoglionellavoce.Anche seera diventato, crescendo, il

doppio di lei, la madre nonavrebbe esitato a usare su dilui il bastone «Umiltà» (ilsecondo piú grande dei settecustoditi in un barile nellaveranda sul retro) se l’avesseritenuto utile a rinforzare isuoilatimigliori.

– Hai sognato di esseremalato?

–No, avevo la febbre e leossa indolenzite,maadessoèpassato.

– Che strano sogno, –disselei.–Lafebbrenonvaeviene cosí in fretta. Perfortuna d’estate le malattiesognate non diventano realtà–. Dopodiché passòattentamente in rassegna imembridellafamigliaraccoltiintornoal tavolo, tuttiquantiintenti, compreso loschizzinoso Tercin, amangiare di gusto la farinad’avena, il miele e le uova,

senza un solo nasogocciolante o un solo occhiolucido,esi feceunsegno–sipassò il dito sul naso – chePeter sapeva essere unoscongiuro contro la malasorte.Anon conoscerla benesi sarebbe detto che si stavasemplicementegrattando.

Fu tentato di crederle,perché in fin dei conti avevasempre ragione su tutto –previsioni del tempo,

problemimatematici, titolidicanzoni–,mailricordodellamalattia non si lasciavaaccantonare come i sogni. –Sono stato male, – annunciòai ravanelli quel mattinolavorando nell’orto. Tuttavia,dopo essere rimasto un’oraaccovacciato tra i filarid’insalata non accusava ilminimo dolore alle ossa, e almomento di andare a scuolanon ci pensava praticamente

piú. Il lavoro e i rumoriconsueti della fattorial’avevano completamenteassorbito: suo padre era giúalla fornacea farechiodi; suamadre ed Elizabeth stavanolavando la fibra di lino;Tercin era seduto vicino acasa e imprecava pianomentre costruiva lebanderuole per i covoniinsiemeaCaryneGenevieve.PerfinoleparolaccediTercin

sembravano contribuire allabellezza della giornata. «Nonc’è niente che non vada»,pensò Peter fra sé e sé, dopochegiustolasettimanaprimail reverendo Wallop li avevasgridati tutti perché nonapprezzavano a sufficienzal’assenzadidisgrazie.

Piú tardi però,mentre eraa scuola, provò di nuovo lastrana sensazione di esseresospesonell’aria.MentreSara

Cooper recitava una poesiadavantiallaclasse,PeternotòReuben Claflin che liguardava dalla finestra.Reuben marinava sempre lascuola insieme a Tercin, madi suo fratello non c’eraneanche l’ombra. Pensò chequella mania di fare lospavaldo alla finestra,piazzandosi appena fuoril’angolovisualediMrsClark,fosse stupida. – Se vuoi

tagliare, taglia, – disse. –Manonstrafare.

Reuben era brutto: suquestoc’erapienaunanimità,inpaese.Sullasuabruttezzasimisurava quella di tutti glialtri ragazzi, cosí come sullabirbanteria di Tercin simisuravano e giudicavanotutte le azioni. «Caspita,quello stagnino è bruttoalmeno la metà di ReubenClaflin!», aveva detto sua

madrequelsabatoapropositodi un venditore ambulantegiuntoinpaese.Equandounbambino ne faceva unaveramentegrossaeranormaleche i genitori gli dicessero:«Oggi ti comporti propriocome Tercin Damien!» FucosíchePetercapícheglieratornata la febbre: non soloperché aveva freddo, anzichécaldo, ma anche perchéall’improvviso la faccia di

Reubenglisembròlacosapiúbella delmondo. I butteri, lecicatriciegliocchiravvicinaticome quelli di un’arvicolacreavano un insieme cosímeraviglioso chePeter pensòche il dolore al petto venissedalí.

La sensazione era semprequella di volteggiareper aria,maquestavoltaeracomeselasua anima, la sua essenza,andasse ad attaccarsi alla

ripugnante perfezione delragazzo alla finestra. Saraaveva appena cominciato adeclamare:

Lagiornataèfredda,ebuia,euggiosa:

piove,eilventononhamaiposa:

laviteancorsiaggrappaallaparetesgretolata,

macadonolefogliemorteaognisuafolata.

Elagiornataèbuia,buia,buia.

Peter si alzò e rovesciò ilbanco.Nonlofeceapposta,dialzarsierovesciareilbanco,eneppuredi tendere lebracciain avanti e parlare, eppuredisse una parola, qualcosa divagamente simile a«Reuben!», anche se non erasuaintenzionedire«Reuben».Era piú simile a unmugolio,

al modo in cui avrebbepronunciato quel nome unpovero demente privo dellaparola.Siaccorsediessere ingrave imbarazzo, espaventato: quando avevanolafebbreisuoifratellielesuesorellenonfacevanomaicosí.Mrs Clark si stavaavvicinando a grandi passi,decisama lentissima, e tutti icompagni girarono la facciaversodilui,glisguardicuriosi

e le labbra già alquantocontratte in sorrisetti rigidi ebeffardi. D’improvvisopercepíchiaramentelabrezzache soffiava piano dallafinestra. I passi diMrs Clarkrimbombavanosulpavimentodi legno dell’aula, ma nonc’erano altri suoni. Poi, conuno schiocco simile a untizzone che scoppietta nelfuoco,nelsuocampovisivosidisegnò una fessura:

attraversava le pareti dellaclasse,lalavagna,lebraccia,ilpetto e le mani di Sara.Ovunque girasse la testa, lafessuraeralà;dividevaindueperfino il viso – pur semprebello – di Reuben. Dopo unaltro istante lungoun’eternità, la fessura sisquarciò,eilgiornosidipanòin un altro giorno. Peterrimase perfettamenteimmobileetranquillomentre

la visione si alzava e glipassava sopra velocissima. Aquel puntodi lui rimase solol’organodellavistaenonebbepiú né mani né piedi, nécorpo. Il venticello erascomparso,insiemealrumoredei passi di Mrs Clark, alsuono delle risate degli altristudenti e alla spinta dellabrezza. Scorse un cielolimpidoeazzurro,edentroilcielounadonnachecadeva.

Da principio credette chefosse un uomo perchéindossava una giacca e deipantaloni neri, poi notò ilineamentidelvisoe i capellilunghi e folti che siattorcigliavano intorno allatestamentreroteavanell’aria.La donna precipitò verso dilui, poi lo prese con sé nelladiscesa, senza mai toccarlo,limitandosi a coinvolgerlonella caduta. Peter sentí un

vuotod’arianellostomacoeilventocheglipungevalapelle,e a quel punto le fuabbastanza vicino daaccorgersi che la donna eramolto spaventata e urlava,pur non riuscendo a sentirla.Mentre giravanovorticosamente nell’ariascorsedi sfuggitauna folladigente in piedi nel mezzo diuna sopraelevata di pietra.Fecero un altro giro su loro

stessi e vide due torrid’argento bruciare controquelmagnificocieloazzurro.

Poi si ritrovò in classe,distesosupinosulpavimento.MrsClarkerainginocchiodifianco a lui, e conunamanoteneva fermo un righello chePeter stringeva fra le labbra.Sara lo fissavadall’alto, cometuttiglialtricompagni.

–Pensaaiverdiprati!–glidisse Mrs Clark, parlando

lentamente e ad alta voce. –Alla calmadell’azzurromare!Allapacediuncielosereno!–Gli spiegò (a lui e a tutta laclasse, perché nessunpasseroera precipitato morto dallafinestra e nessun fulmine eracadutofuorisuicampi,manerisultòlostessounalezionediscienze naturali) che il suocervello era stato sopraffattodall’appassionata recitazionedi Sara, e che perciò aveva

avuto un attacco diconvulsioni.

–No,signora,–disseSara,appoggiando unamano sullafronte di Peter. – Penso chenondipendasolodallapoesia.Scotta.

–Potrebbeessereilmaldelverme,–dissesuamadre.–Ola febbre del salice. O iprimissimi sintomi

dell’idropisia –. La madreavevauncataplasmaperognimalanno, cosí Peter rimasetutto il pomeriggio seduto,annoiato e irrequieto, con lasevera ingiunzione di nonmuovere gli impacchi cheavevasullaschiena,sulpettoesulla pancia, mentre il restodella famiglia era impegnatoneipreparativiperlaFestadelraccolto. Avrebbe preferitoammucchiare i covoni,

sistemare le pergole ocucinare, o fare qualunquecosa pur di non pensare alladonna che cadeva. A suamadrenonavevadettonientedi ciò che aveva visto, né anessunaltro.Con la febbresihannosempredellevisioni,losapevadairaccontideifratellie delle sorelle. Caryn avevasognatoche lamadreentravanella stanza con una mazzastillantesangue,echementre

la teneva alzata sopra di sé –inungestopiúdibenedizioneche diminaccia – le gocce sitrasformavanoininsettiscuri,stagliaticontrolalucelunare,che mettevano le ali ecominciavano a sfarfallareintorno alla casa. Horaceaveva visto dei conigli chesuonavanoilviolinoeGeorgeuna strana signora tutta fattadi frutta e verdura. Peteravrebbe voluto raccontare

loro quel che aveva visto,perché la sua visione era lapiú strana e spettacolare ditutte,maaquelpensierosentíun vuoto allo stomaco comeseavesseripresoacadere,esiritrovò tutto sudato, puressendo la febbre sparita daun bel pezzo. – Non c’è daspaventarsiperunasignora,–disse tra sé e sé, seduto incucina mentre sua madre

tagliava carote, – anche secadedalcielo.

– Che hai detto? – glichieselamadre.

–Stobene,–replicòlui.–Sto benissimo. Posso levarmigli impiastri e darmi anch’iodafare?

– Domani, – rispose lamadre, ma due ore dopo siarrese e Peter ebbe giusto iltempo, prima di cena, diaiutare Caryn a finire le sue

banderuole. A partel’eccitazione e l’attesa dellafesta, quindi, avrebbe dovutoessereunaseratacometuttelealtre. La febbre era sparita, ese teneva la mano apertadavanti a sé non tremavaneanche un po’. Ma nonriusciva a togliersi dalla testala signora. Quando chiudevagli occhi gli compariva,congelatanellacaduta,con legambe all’insú e il viso

nascosto da una cortina dicapelliscuri.Ilvestitoazzurroche Caryn indossava da unasettimanaimprovvisamentesitrasformò nel cielo dellavisione, e quando Tercininfilzò le salsicce nelle suepatate per modellare unacapra con le corna, Peter civideleduetorriinfiamme.Sisporse in avanti e con laforchetta fece cadere lesalsicce.

– Perché l’hai fatto? –chiese Tercin, e Peter dissesolo che non si dovevagiocare con il cibo. Tuttosommato pensò di riuscire anascondere bene il propriodisagio, e commentòanimatamenteil labirintocheGeorge stava allestendo perl’imminente festa.Nonostante la madre avesseun’aria indagatriceogni voltacheincrociavanoglisguardi,e

il padre l’avesse fissato conespressione corrucciata nelbel mezzo della benedizione,nessunomenzionò piú il suoattacco di convulsioni e almomentodellabuonanottelamadre gli mise sul petto unsoloimpacco.

– Questo è castigo delleossa, – gli disse Tercin dopochelamadreebbeportatoviail lume. – È una malattiamortale.

–Dormi,–dissePeter.–Vabene,dormo,–disse

Tercin, – ma non comedormirai tu. Il tuo sarà ilsonnodellamorte,dacuinonci si risveglia mai. Non finoalle trombe del giudizio.Buonanotte, fratello.Buonanotte e addio persempre.

–Non ti sentoneppure, –disse Peter. – Non mi

interessano le tuescempiaggini.

–Certo,èunsintomo.Poiarrivano la sordità, poi lemacchie, e poi la sensazioneche ti stiano strappando lapelle. Eh già, ho sentitoparlare di un caso analogo aHomer,diunaragazzacheciha messo un mese intero amorire,mahasoffertotuttoiltempo.Eccomesehasofferto.

– Non puoi essere gentile

conme,unavoltatanto?–glichiese Peter. Poi si girò sulfianco emise la testa sotto ilcuscino senza aspettare larisposta di Tercin. Il fratellonon parlò piú. Peter avevapaura di chiudere gli occhi eimpiegò molto tempo adaddormentarsi.Temevacheladonna fosse lí, dipinta sulretro delle proprie palpebre,sospesa nell’aria azzurra.Nondimeno, quando

finalmente si addormentònonsognòlei,maSara.Eranoalla festa, lui le salava ilmaiscospargendo i chicchi conuna saliera, e intanto lechiedeva: «Va bene cosí,amore?», e leisistematicamente rispondeva:«Ancora un po’, caro!» APeternonsarebbedispiaciutocontinuare a salarle il maistutta la notte,ma un leggerosolletico sulla faccia lo destò

dal sogno. In piedi davanti alui,nelriquadrodellafinestrailluminato dalla luna, c’eraTercin con un pennello inuna mano e un barattolo diinchiostronell’altra.

–Ohmerda! – esclamò ilfratello. Buttò il pennello sulletto di Peter, scaraventò aterrailbarattolodiinchiostroe corse fuori dalla stanza.Peter si lavò la faccia nellabacinella sopra il comò.

Quandosiriaddormentònonsognò piú nulla, e il mattinodopo al risveglio si sentíbenissimo:nessunaccennodifebbre e nessunindolenzimento alle ossa, eanche sforzandosi non siricordava piú che aspettoavesse la donna che cadeva.Fu felice di scoprire che nonsiricordavaneancheseavesseicapellineriocastani.

A colazione la madre lo

dichiarò guarito, e nessunocercò di escluderlo dagliultimipreparativiperlaFestadel raccolto. Dopo pranzoaiutò George a disporre illabirinto, piazzando i covonidove gli indicava il fratellosenza provare piú di tanto amemorizzarli, perché inserata avrebbe gareggiatoanche lui congli altri ragazzie non voleva che pensasserochebarava.

All’inizio della festa,quando il reverendo Wallopbenedí il granoturco e lacarne e ci fu la danza dellemarionette,alcuni–lamadrediSara,MrHollinealtri–lofissaronocondiffidenza.Nonera cosa da poco, un attaccodi convulsioni, checché nedicesseMrs Clark con le sueinsulse teorie. Lo sapevanotutti che portava sfortuna siaachil’aveva,siaachiglistava

intorno, e la madre di Saraaveva addirittura proposto dirimandarediunasettimanalaFestadelraccoltoperchénonfosse rovinatadaunpresagiocosí funesto. Poi c’eraTercinche andava in giro abisbigliare bugie assurde,c’era da scommetterci: comeavesse avuto altri dodiciattacchidopoesseretornatoacasa da scuola, uno ogni dueore, proprio cosí, a ogni

posizione pari delle lancettesull’orologiodellacucina.Male occhiate sospettose furonorigettate dagli sguardi torvidellamadre, ementreTercinraccontava una fandonia ilpadregliarrivòallespalleeglidiede uno scappellottotalmentefortedafarlocaderedalla panca. Al che tuttirisero,equalcunoosservòchenon sarebbe stata una veraFesta del raccolto se Tercin

Damien non fosse statoscoperto a combinarne unadelle sue. Tercin fece unosputo e se ne andò viaciondoloni, con le spallecurveeunacosciadipollopermano,sicuramenteincercadiReuben, che non mancavamai a nessuna festa ocerimoniamachesirintanavasempre al buio oltre il fasciodilucedeifalò.

I fuochi, rifletté

brevemente, avevanoqualcosa in comune con letorri in fiamme dei suoisogni,ma gli sembrò passatoun secolo dalla visione. Equando Sara lo venne acercare e si stese di fianco alui,attiròsudisétutta lasuaattenzione.

– Peter, – gli disse, –indovinachecosapenso.

–Che volevi piú zuccherosulmais?

–Che dici? Chimangia ilmaiszuccherato?

–Allorachehaisentitounodore disgustoso passandodavanti al deretano di MrHollin?

– No. Sei un disastro aquestogioco.

–IlreverendoWallopdiceche solo Satana conosce ipensierisegretidelleragazze.

– Se qualche voltaascoltassi quel fanfarone,

sapresti che dice: «Solol’oscuro conosce i piú oscuripensieri degli uomini». È lafrase numero settantaduedelle cento che ha imparatoalla scuola biblica. Ti doun’ultima possibilità, poi haiperso.

– E che mi succede seperdo?

– Una cosa terribile einaspettata. Solo un altrotentativo…

– Be’, – disse lui,incrociando le braccia sulpetto. – Forse… – Nonriusciva a indovinare, einoltreodiavaigiochetti,cosípensò che, senza ingegnarsioltre, la soluzione potevaesserechesistavadivertendo.Prima che potesse finire lafrase George suonò il cornodella festa, chiamando araccolta i ragazzi e le ragazzesotto i sedici anniper lagara

del labirinto.Peternonavevafatto in tempo a mettersi inginocchio, che già Sara erabalzata in piedi ed era ormaiquasiarrivata.–Percasostaipensandoche saràuna seratamagnifica? – le chiese,inseguendola.

C’era un’unica torciaaccesanelmezzodellabirintodi pergole, una luce chebastava appena a vedere ibambini, sagome scure che

correvano alla ricerca dellastrada giusta per il centro. Ilprimo che arrivava ricevevaunpremio.PetersuperòSara,bloccata inunvicolocieco.–Avresti dovuto rimanermialle costole, – le disse, e pertutta risposta lei gli fece ilbroncio.

La lucentezza fu la primacosa che notò. Propriomentre stava per spiccare lacorsa – lui e Edgar Minton

avevano trovato la stradagiustanellostessomomento–si rese conto che riusciva avedereperfettamenteilvisodiEdgar, in tutti i dettagli,compreselelentiggini,cheglidisegnavano sul naso unafigura simile all’OrsaMaggiore. Sembrava che ilviso di Edgar avesse preso ilposto del sole; peccato chefosserolediecidiseraefossebuiogiàdadueore.–Edgar,

– chiese, – che cos’ha la tuafaccia?

– So che cos’ha la tua, –rispose Edgar. – È bruttacomelamorte!–Ecorseviaaprendersi il premio,lasciandosidietrounachiazzadi luce solare che si diffusesulle pergole e sul prato,mentre un cielo azzurrospazzòvialanotte.

– Oh, no! – mormoròPeter, e si voltòperché aveva

sentito un tonfo alla suasinistra. Una donna si erasfracellata al suolo. Qualcunaltrocaddeallasuadestra,unuomo questa volta, e Petercrollòaterraanchelui,sicurodi essere stato abbattuto daun oggetto sfrecciato fuoridall’uomo. Non aveva maivisto un corpo contorto esfracellato in quelmodo, e sichiese se una cosa cosí fossemai successa a memoria

d’uomo.–Aiuto!–esclamò.–Aiutatelo! – Perché quellavoltanonerasolo,matuttelepersone intorno a lui eranoimpalate a fissare le torri infiamme. Il labirinto si eraespanso – sembrava largo unchilometro invece di centometri–ealpostodellatorciac’erano le torri, entrambeluccicantiairaggidelsole,mauna sola in fiamme.Quae làPeter vide altri ragazzi

bloccati dentro il labirinto –SamuelFinch,CalebBorleyeJohn Sterling – cheguardavano bruciare la torreschermandosigliocchiconlamano.

Dal cielo continuavano apiovere persone, ma nessunacadde cosí vicina a Petercome le prime due, e dalontanonon riuscivaa capiresetradilorocifosseanchelasua signora. Si alzò e corse

versouna figura, scavalcandolepergoleopassandocidrittoin mezzo, violando la leggedellabirinto,mafattoqualchemetroglienecadderoaltrepiúvicinee luicambiòdirezione,urlando: – Aiutateli! – Andòavanti cosí per un tempoincalcolabile, a correre datutte le parti mentre gli altristavano fermi a guardare,finché un rumore giunse aspezzare quell’incendio

silenzioso, un rombomisto aun suono acuto, che Petertrovò fossel’accompagnamento perfettodi quella strana visione. Eracerto che un suono cosí nonsi fossemaisentito,che fosseuna cosa inaudita propriocome il corpo sfracellato delprimo uomo o quella torreche bruciava nel cielo. Unavoce familiare gli urlò: –Attentoall’angelo!–Sivoltòe

videSara,anonpiúdicinqueoseimetridalui,chepuntavail dito verso sud, dove unacosa immensa stavasfrecciando nel cielo.Immaginò si trattasse di unangelo – gli angeli dovevanoessere per forza immensi eveloci – che passò sopra diloroinunistante,elamassaeilrumorelobuttaronoaterra.Con il petto schiacciatosull’erba, Peter alzò la testa e

lo vide schiantarsi contro latorre intatta –silenziosamente, perché ilfrastuono si persenell’incendio che provocò.L’unicosuonorimastoadessoerano le urla di Sara. In unistante fudinuovonotte, e abruciare restarono solo latorcia e i falò, cheilluminarono un caos didiversa natura: dieci bambinibloccati nel labirinto, in

ginocchio, che piangevano,strillavano o tremavanoviolentemente, con i genitoriche li abbracciavano ourlando saltellavano al lorofianco. Qualcuno stavapronunciando il suo nome:non era Sara ma sua madre,inpiedivicinoalui.Percepílasua mano sulla spalla, e lascacciò. – Mi fai male, – ledisse, perché in effetti di

colpo quella spalla gli facevaunmaleatroce.

Mihai scritto che sei stufodistaremale.Stufodeldolorealleossaedeimisteriosi lividisulla pelle, e stufo di Tercin.Per essere cosí stupido, èintelligente nelle sueperversioni, e di una crudeltàa suo modo geniale. Talvoltapenso che in realtà non sia

stupido,machelapigriziaelamalignità abbiano ilsopravventosudi lui, e che sededicasse allo studio anchesolo un quarto del tempo chepassaatorturartidiventerebbepresidente. Ma tu non darglipeso, caro amico, e non darpeso alle febbri e alle ulceresotto la lingua. Un giorno tene libererai, come di questamalattia.Nelbeneonelmale,i fratelli sono destinati ad

andarsene,e lo stessovaleperlemalattie.Eguardachenonintendo dire che ce nelibereremoconlamorte.

Abbiamo sentito la tuamancanza ieri in chiesa. Ioperlomeno l’ho sentita… NoncredocheWallopabbianotatolatuaassenza.Ilbelloèchehapregato per noi tutto ilpomeriggio, con fervorecrescente – «Sollevali daquesto male, fa’ che li

abbandonipersempre!»–,manon ha mai guardato nellanostra direzione, come se lamalattia si attaccasse con losguardo,ecomeseavessemaicolpito qualcuno sopra idiciannove anni. A me seimancato, invece. Eravamosedutisuduebanchi(inmododa farci trovare tutti insiemeal momento della guarigione,hadettoWallop.Avreivolutochiedergli se la mano di Dio

ha bisogno di questi aiuti. Inrealtà sapevamo che eravamostati messi in quarantena).Eleanor era seduta fra me eSam Finch. Le nostrechiacchierelaimbarazzavano,e cercava di zittirci con deiviolenti«shh!»cheleuscivanodal profondo, e ha finito perfare un tale chiasso cheWallopsièvoltatoversodileielehachiesto:«MissCrowley,

sadirmiilsignificatodiquestavisionecheviaffligge?»

Eleanor è arrossita cosíviolentemente che anche lemie gote sono avvampate perilcaloreemanatodalsuoviso.Presadalpanico,haguardatoprimameepoiSam,equindisuamadreall’altro capodellachiesa, la quale però si èlimitataateneregliocchifissiin grembo. Allora si è rivoltanuovamente a Wallop e si è

messaarecitareilPadrenostrocon una vocina flebile espaventata. Lui l’ha lasciatafinire epoihadetto: «Propriocosí. Di fronte a questadomanda,edifronteaquestoflagello, la preghiera non èforse l’unica risposta che ciresta?»Wallop nonmi èmaipiaciuto ma non l’avevo maiodiato fino ad allora, quandoimprovvisamente ho capitoche lamia vita (come la tua,

quella di Sam, di Edgar, diAaron,diLily,diElizabeth,diConnoreperfinodiEleanor–se non sta fingendo!) dipendedalla risposta a quelladomanda. Wallop si aspettache la troviamo colPadrenostro, ma io credo chesianecessariauna ricercabenpiú approfondita e rischiosa.Suunacosa,però,haragione:tutto questo non può nonavere un perché. Se veniamo

rapiti in questa dimensionecosí fantastica, dev’esserci unmotivo.Lavisioneèunasfida,eilsuosignificatounacura.

– Uno scombussolamentodel sangue, – disse il dottorHerz,convocatodaClevelanddal padre di Sara. A leiprescrisseoppio,antimonioechina,ebenchéArthurCarterfosse l’unico del paese in

gradodipagarlo,procedetteavisitaretuttiibambinimalati;il 20 agosto, una settimanadopolaFestadelraccolto,bensedicidiloroeranoalettoconvari gradi di torpore. Perultimo andò da Peter, dovedovette superare le obiezionidella madre, che aveva giàpredisposto e iniziato unprogramma terapeutico. –Questo signore sa che cos’èl’alchemilla? – domandò a

Peter, suo pubblicoinvolontario, e a chiunque lastesse ad ascoltare. – Sa checosa sono la cardiaca e ilneem?El’orticaperluièsoloun’erbaccia infestante efastidiosa? – Ciò malgradosuomaritosiimpuntò.

– Uno scombussolamentoimportante,grave,–continuòil dottore, tappando leboccettine di vetro che avevariempito di campioni. Aveva

raccolto e conservato ognifluidooicorecheerariuscitoa racimolare da Peter, perportarlo ad analizzare aCleveland.–Questospiega levisioni. Nel cervello si sonoformati accumuli di sangueche ostruiscono i canalisinusali da cui normalmentedefluiscono i pensierisurriscaldati: ecco il perchédelle fiamme. Non hai forse

menzionato un albero chebruciava,ragazzomio?

– Era una torre, – risposePeter,congliocchipuntatisuTercin che, fuori dallafinestra, seduto su unmasso,tormentavaunacarotacon leunghie.

– Ah! Ma fra qualchegiorno sarà un albero,sicuramente,ealloraancheglialtri bambini avranno lavisionediunalbero.Perchéè

unacosachesipropaga,comeun cerchio in uno stagno –.Per descrivere l’effetto buttòin avanti le braccia e poi leaprí come se stessenuotandonell’aria.–Capisci?

Peterrisposedino,masuopadre annuí e chiese dinuovo: – Che cosa si puòfare?

–Èmoltosemplice,–disseil dottor Herz. – Fra pochigiorni il mio elisir sarà

pronto, e quando tornerò,entro venerdí, lo porterò.MrCartersiègentilmenteoffertodi acquistarne abbastanza darifornire l’interopaese,ancheseprevedochecurandoPeterglialtricasisirisolverannodasoli.

–Dio lo protegga, – disselamadre,convocepiatta.

–Dioproteggatuttinoi,–disseildottorHerz,–quandosiamo sottoposti a una

tribolazione, e la malattia èsempre una tribolazione. Mala tribolazione non è forseunaprova?Enon sono forsegliesamichepassiamoafarcidiventare perfetti? E laperfezione che cos’altro è, senon il risultato di tutte leavversitàsuperate?

– Dobbiamo avvolgerlonell’olibano e nei fiori diregina dei prati, – disse lamadre, e lei e il dottore

cominciarono a battibeccare.Peter smise di prestar loroattenzione e si voltò aguardare Tercin, cheimprovvisamente diede tremorsigiganteschiallacarotaeselamangiò,quindibalzòviae cominciò a fare rotoloni ecapriolesull’erba,ruoteesaltimortali, e prendendo loslanciosaltòdaunacatastadilegna disegnando unacapriola nell’aria. Quello

sfoggio di perfetta salute e dilibertà aveva lo scopod’indispettirlo, ma Peter silimitòasospirare,incapacedicomprendere la perfidia delfratello. «La cosa non mitocca, – aveva intenzione didirgli piú tardi. – Nondisturbarti, perché tanto noncifacciocaso».

Cifuunoscoppiettionellastanza, un rumore come loschiocco di una frusta, e poi

un fruscio come di tendepesanti mosse da un ventoforte, e Peter sentí una fittaall’anca; con una smorfia didolore tirò su le gambe. Lamadreaprílaboccaeglimiseuna mano sul petto. Aprí laboccaeglifeceunadomanda,epurnonriuscendoasentireneanche una parola Peter lacapí dal movimento dellelabbra: – È sempre lo stessodolore?

– Sono sordo! – esclamòPeter,vedendosuopadrechemuoveva rapidamente esilenziosamente le labbra. –Eppure no… sento quel chedico! – Diede una botta suldavanzale della finestra esentí anche quella, mentre leparoledi cui lo inondavano igenitori e il dottore eranoavvolte dal silenzio. I primiavevanoilvoltocontrattoperl’apprensione, il dottore

sembrava tranquillo ecompiaciuto.Peterpensòchedicesse:–Naturalechetunonsenta! È un effetto delloscombussolamento, ragazzomio!

Unaltroschiocco,un’altrafitta lancinanteall’ancaeunastilettata nella schiena, e poifu sommerso dai rumori. Lamadre, il padre e il dottorHerz parlavano con voci chenoneranoleloro:dallamadre

proveniva una voce maschilesimile a quella del padrequando lo si andava asvegliare dal pisolinodomenicale, il padre avevaunavocedidonnae ildottorHerz sembrava unabambinetta.

– Stanno uscendo grandivolute di fumo dalle torri,Phil. Si vedono fiammeprovenire da almeno due

fianchidell’edificio,–disse lamadre.

– Sembrerebbe che unsecondo aereo abbiaappena… Abbiamo appenavisto un secondo aereosopraggiungere lateralmente,–disseildottorHerz.

– È incredibile! – disse ilpadre. – La seconda torre èesplosa circa venti piani piúin basso, con uno scoppiogigantesco–.Poituttietregli

si avvicinarono per tenerlofermo e calmarlo, perché siera rannicchiato contro laparete e la finestra persottrarsialoro.

–Silenzio!–gridòPeter.–Statezitti!–Avevalemaniditutti addosso e sentiva salirela febbre, crescere come sestesse venendo a prenderloper portarselo via. Pensò checon un po’ di sforzo avrebbepotuto scappare in tempo

dalla visione: si staccò dalmuro,sgusciòinmezzoaitrerotolando nel letto e caddegiú sul pavimento. E primachesuopadreavesseiltempodi girarsi attraversò la cucinaeuscídallaporta.

–Dovecorri,fratello?–gliurlò Tercin quando gli passòdavanti. Peter non rispose econtinuò a fuggire a gambelevate, lungo il sentiero, oltrel’officina del fabbro e nei

campi aperti, sicuro di averela visione alle calcagna. Nonimmaginavadipossedereunatale velocità: era a letto dagiorni e giorni, e proprioquellamattina,acolazione,losforzodiaffettareilprosciuttolo aveva stremato. Sembravache piú forte correva, piúforte potesse andare. Erafantastico poter guizzaresopra la morbida terra,lasciarsialle spalle lamalattia

e sfuggire alla visione. Madurò soloun istante: arrivatoametà del campo, la visionelo catturò. Il rombodell’angelogli fusopra,econla codadell’occhioPetervidela sua ombra sfrecciare sulterreno. Eppure non c’eraassolutamente niente nelcielo, né un uccello né unanuvola. Da qualche partedentro di sé recuperò unoscatto residuo di corsa, ma

insufficiente. Quando loraggiunse, l’ombra lo sollevòper aria, e il campo e laforesta riecheggiantescomparvero. Al posto delpaesaggio familiare vide ilcielo azzurro e le torriluccicanti, e si diressevelocemente in quelladirezione. Faceva anche luiparte dell’angelo, adesso, e sisentiva rabbioso ed euforico,portentosoespaventato.

LapozionedeldottorHerzpermehaun saporemistodiruggineepino.Samdicedigine sangue. Edgar Minton hadettodistercodimaialeeSamgli ha domandato (tuttoquesto, bada, per lettera)quando l’aveva mangiato, losterco di maiale, visto chesapevachegustoaveva.Edgargli ha risposto che ne avevasentito l’odore e che era perquello che lo sapeva. Cosí si

sono lanciati in unadiscussione di cinque paginesuquantoodorareequivalgaamangiare, concludendo cheper averne la certezzabisognava che qualcunoassaggiasselostercodimaiale,e hanno giurato che appenafossero stati meglio avrebberocostretto Reuben Claflin afarlo.PropriolestessecosecheEloisa scriveva ad Abelardo!Ricevo pagine e pagine di

questaroba:ilorofoglidasoliformano una pila di venticentimetri sul mio scaffale,mentreituoiappenaunpaio.Ma non lo dico perrimproverarti.

Papà sostiene che lapozionestagiàfacendoeffetto.Mi dice che ho un aspettomolto migliore, come seribadire una cosa bastasse arealizzarla.Iomisentosempreuguale,l’unicadifferenzaèche

l’elisir mi aiuta a dormire, ilche è una meraviglia, no?Eppure la mia signoracompare piú frequentementeche mai, fino a cinque o seivolte al giorno in questoperiodo. Anche le tue visionisono cosí frequenti? La tuasignoranonèlamia,haidettola settimana scorsa, ma ticonfesso che comincio apensarecheciascunadiloro–latuasignorachecade,lamia

alla finestra o la donnaustionata di Sam, che correpernonfarsiraggiungeredallavalanga di cenere – abbiaqualcosa in comune con lealtre. Forse era solo l’effettostordente dell’elisir, mal’ultima volta nel viso dellamia signorami è sembratodicogliereunchedituttelealtre.Era lí alla finestra, comesempre, con lo sguardo fissosul fumo e una mano posata

sul vetro, e come sempre misono stupita che potesseroesistere vetri cosí lisci e senzadifetti, ma il suo tatto era ilmio e quindi sapevo che eravero. Che sensazione strana,Peter – ma non brutta –guardarla in faccia, avere ilsuo tatto e vedere con i suoiocchil’angeloirrompere.Epoil’ho visto, quel tratto comunechenon si lasciavadescrivere.Questavolta,però,hoscoperto

anche una tristezzaparticolare in lei, che nonaveva niente a che fare conl’incendiodellatorrevicinaedera slegata perfino dalsignificato che l’angelo inarrivo rivestiva per lei: la suamorte.Leilosapevaeneera…sollevata!

Eh sí, c’è qualcosa dimisterioso nelle visioni. Nonsonosolounadisgraziaeunafatica quotidiana. Eleanor

piange come una poppanteogni volta che ne ha una,mentre io ne esco non solodebilitata, ma anche elevatanell’animo. Che pensieri! Chesensazioni! Pur di averle,quasi quasi vale la penasopportareirialzidifebbreeidolori. Il dottorHerzdice chenel giro di una settimanastaremo meglio, e si aspettachesiatuaguarireperprimo,visto che sei stato il primoad

ammalarti, però lo rincuoraanche l’improvvisa assenza dilividiinSam.Glihodettochela sua teoria dellapropagazione sa piú disuperstizione, che di scienza.Ha risposto che i fatti glidarannoragione.

L’altra sera Eleanor èvenuta a trovarmi, portata inbarella dai fratelli come unaregina. Sono forti, ma dialtezze diverse, sicché hanno

fatto la strada tutti sghembi,con lei che rotolava strillandodi qua e di là. Ha parlato disciocchezze per un’ora, poi dipunto in bianco ha deciso diricoprirti di calunnie. Le hodatounoschiaffosuquellasuabocca da rana e l’ho graffiatacon l’anello. «È stato unospasmo», lehodetto.Qualchevolta ne ho davvero, dispasmi.

Papà ha ceduto, perciò

sabato prossimo ci vedremo.Ingamba,amicomio!

Comeprimaavevasognatodi volare, Peter cominciò asognare di guarire. Il fatto disalire adagio sulle cime deglialberi, muovendo le bracciaper nuotare nell’aria,sembravalacosapiúnormaledel mondo. Quando poi sisvegliavaesirendevacontodi

quel che aveva fatto, sirimproverava per non averloné apprezzato né sfruttato adovere: non era mai salitoabbastanza inalto,nonavevamai fatto vedere a Tercin diche cosa era capace, nonaveva mai volato fino allafinestradiSaraperportarlaafare un giro con lui. Alrisveglio si rendeva conto,invece,diaverdinuovotoltole erbacce nell’orto,

strappando con la forza dellemani, delle braccia e dellespallelaradiceramingadiunfaggio, e che al suono dellacampanella della scuola erasaltatoinpiedi,sieraripulitole mani sui pantaloni ed eracorsoa tuttavelocità lungo ilsentiero e per il bosco checosteggiava la fattoria. Lascuola era stata sostituita daunmodelloinscalaunoaduedelColosseo, enel sogno era

statoquestoa stupirlo.Maalrisveglio,astupirloerastatalaforza che si ritrovava nellemanienellebraccia, la stessadi un tempo, antica emiracolosaquantoildonodelvolo.

Dal letto – stava sedutoalla finestra solo durante ilgiorno–vedendolalucedellaluna sul pavimento capí cheera già in ritardo. A fineestate, infatti, non passava

maisottolaportaprimadelledue, mentre lui avrebbevoluto partire entromezzanotte. Rimase unattimo in ascolto per sentireseTercinstesserussandoocifossequalchevoceincasa,mail silenzio era tale che gliarrivòperfinoilgridolontanodi una civetta nel bosco. Lafatica di fare la borsa l’avevasfinito, e prima avevarischiatodiesserescopertoda

Caryn, che l’aveva vistosgraffignarecibodallacucina.«Ti porto io tutto quello chevuoi», gli aveva detto lei,malui le aveva risposto che gliattacchi di fame gli venivanonelcuoredellanotte.

Camminò concircospezione, un po’ perevitare di svegliare qualcuno,unpo’perchéilsuoequilibrioera sballato, e un po’ perchéera convinto che un

movimento improvvisoavrebbe scatenato unavisione.E averneuna inquelmomento sarebbe stato undisastro. Per tutta lasettimana aveva risparmiatoleenergieefattocredereasuamadre di essere peggiorato,mentre in realtà non si eramai sentito meglio. La portadella cucina era attaccata acamera sua. Con l’angolodella borsa rischiò di

rovesciare un candeliere, chevacillòmanoncadde.

Appena fuori, consideròper laprimavolta ladistanzache lo separava dal bosco, equanto ci volesse da laggiú auna grotta dove l’avevaportato Thomas un giorno.Un tempo avrebbe calcolatouna mattinata di cammino,ma in quel momento glisembrò lontanissima, in capoal mondo: una meta

sufficientemente lontana darendereun servizioa tuttiglialtri (se bisognava credere aldottorHerz) e abbastanzadanasconderlo aMrHollin conle sue buone intenzioni. Duegiorni prima Peter li avevasentitiparlaretuttiinsiemeincucina. Parlavano piano maluiliavevauditichiaramente,come se la febbre gli avesseacuito l’udito o un venticelloche girava per casa gli avesse

soffiatoleparoledirettamentenell’orecchio. Il dottor Herzparlò di contagio fulminante,e sostenne con foga che lacosa migliore per gli altribambini del paese fosse diessere allontanati dal «casoprimario».

«Allora li porti viasenz’altro», aveva detto suamadre. Il dottore ribattégentilmente che non eraquello che intendeva. «So

perfettamente che cosaintendeva, signore!», avevagridato allora sua madre,dopodichéavevano fatto tuttisilenzio. Peter sapeva chestavano tendendo l’orecchioper sentire se simuovevanelletto. Quando ripresero aparlare fecero ancora piúpianodi prima,maPeter erasicuro che li avrebbe sentitianche da un miglio didistanza. Discussero

intensamenteeeducatamenteper un’altra mezz’ora, con ildottor Herz che descrivevacon dovizia di particolari lecomodità e l’atmosferafamiliare del suo ospedale diCleveland, e Mr Hollin checontinuava a ripetere, perrassicurarli, che le spesesarebbero state interamentecoperte.Allafinesuamadrelicacciò via: aveva rispostoostinatamente«buonanotte»a

ogni loro domanda, finché sierano arresi e se ne eranoandati. Peter aprí gli occhiquel tanto che bastava e livide allontanarsi, a piedi giúper la stradina, con i cappelliinmanoe scuotendoa turnola testa.Laportadella cucinasi aprí e Peter avvertí perlungo tempo gli occhi di suamadrefissisullasuaschiena.

– Eccomi partito, – disse,dopo aver richiuso piano la

porta di casa. Per le primecentinaia dimetri andò tuttoameraviglia.Aognipassochefaceva si sentiva piú forte,come se per riprendere acamminare bastasse solo unpo’ di pratica, e pensò che,una volta arrivato, avrebbeavuto ancora energie residueper spazzare il pavimentodella grotta e prepararsi unbell’angolino in cui riposare.Ma non era ancora a metà

stradaperilbosco,chescorseun filo di fumo nell’aria. C’èqualcun altro sveglio aquest’ora, pensò, che si èacceso il fuoco per il tè.Questa convinzione losorresseperun’altradecinadimetri, finché non poté piúignorare l’odore, che avevaqualcosa di molto strano.Non era solo legna chabruciava. E intanto sentiva i

piedi sempre piú pesanti,semprepiúpesanti.

Feceancoraqualchepasso,finché non riuscí piú amuoverli; era saldo sullegambe ma come incollato alsuolo. Le braccia glicascarono lungo il corpo e lamela che uscendo avevaacchiappato dal tavolo dellacucinaglicaddedimano.Poiil fumo gli offuscò la vista,avvolse l’officinadel fabbro e

rese invisibile la linea deglialberi. Sentí una vampata dicalore alla spina dorsale, chelo costrinse a stare alto edrittocomenoneramaistatoin vita sua, e alzò gli occhi.Quasi stesse volando all’insú,il suo campovisivo si allargòevide la scuola, la finestradiSara, l’emporio, la chiesa eperfino la parabola del cielonotturnoeHamilton,dove lagente lasciava la luce accesa

tutta lanotte.Lanciòunurlounattimoprimadi sentire lapuntura nella gamba e,immediatamente dopo, nellaguancia.

– È un semplice nocciolo,– disse Tercin, uscendo alloscoperto da un albero, lafiondacheglipenzolavadallamano.–Seavessivolutofartimale sul serio avrei preso unsasso–.Gli simisedavanti egli puntò di nuovo la fionda

addosso, mirando dritto infaccia al fratello. Peter rise:com’erapiccolo,Tercin!Eraacentinaia di metri d’altezza,ma guardandolo vedevabenissimo la confusione e ladelusione sul suo viso, emalgrado il fracassoprovocato dal vento e dallefiamme sentiva chiaramentela sua voce. Lí vicino c’eral’altratorrechebruciava.–Tispappolo l’occhio con la

fiondaquandovoglio,–disseTercin.

–Vattene,–dissePeter.–Staarrivandol’altroangelo.

–Gli angeli se ne freganodime.Nonmifannopaura.Ètardi per essere ancora inpiedi.

–Vai via, o colpirà anchete!–ribattéPeter,chetuttaviadubitava che un angelopotesse scomodarsi per unesserino rudimentale come

suo fratello. Era ancoralontano,madalíinaltoPetervedevache stavaarrivando, ea quella velocità sarebbesicuramente stato lí amomenti.

– Te la stai filando! –esclamò Tercin, avendofinalmente capito le evidentiintenzioni di Peter e dandouna pacca al suo sacco. –Buon viaggio, allora, e tantisaluti. Forse a cena si parlerà

una buona volta diqualcos’altro, e qualcunoriderà di nuovo, in quellacasa. Adesso parliamo di teanche quando non parliamodite!

– Sta arrivando, – dissePeter.

– Sappi che esistono altrepersone a questo mondo.Altri problemi, oltre ai tuoi.Ma figurati se lo capisci.Nessuno lo capisce, a casa

nostra.Quindiproseguipure,vai.Vuoichetiportiio?

– Ti prego, – disse Peter,sentendosi piccolissimo evulnerabile nonostante lapropria mole, sicuro che ilcolpo violento dell’angeloprima o poi l’avrebbe ucciso,e non piú sorpreso dichiedere pietà a suo fratellochedellafacilitàconcuiavevagettato via la stancarassegnazione causata dalla

lungamalattia,perscoprirediavere una gran voglia divivere.–Fratello…tiprego…non lasciare chemi colpisca!–Tercin lo dovette sentire,perché diede un’occhiatadietro le spalle un attimoprima che arrivasse, e nonvedendo nulla si rigirò versoilfratelloeloguardòinfaccia.Ciò che vi vide dovette farglisuperare la sua naturaleostilità. Mollò la fionda, si

girò, alzò le mani in aria egridò:–Vattenevia!

Non serví a fermarlo.L’angelo volò alto sopra eattraverso di lui, luminoso,rombanteegrandecomeunachiesa, e colpí Peter dritto alcuore,incendiandolo.Mentreil fuoco bruciava Peter emiseil piú forte suono della suavita, di una forza benmaggiore di quanta pensassedi avere ancora dentro di sé

dopounacosílungamalattia,e sebbene non riuscisse acamminare e Tercin avessescoperto il suopiano, fu soloallora – immaginando le luciche in quel momento siaccendevanoacasaenelrestodel paese – che capí di averperso la sua unica possibilitàdifuga.

Lontano, sotto di lui,Tercinloguardava,lostuporee la paura dipinti sul suo

microscopico visino. Peterpiangeva dal male che glifaceva il fuoco. Lo stavadisfacendo.Scrollòlespalle,ebrandellinecadderoalsuolo.«Attento», cercò di dire aTercin, ma dalla boccaproruppero solo singhiozzi.Dal suo corpo cominciaronoa cadere persone. Glibalzavanofuoridaicapelli,glicascavano dal naso, gligocciolavano dagli angoli

degli occhi. Erano piccolecome suo fratello. Peter sigirò e scosse la testa,facendone cadere altre daicapelli, e vide chedi fiancoalui c’era Sara, alta, forte edevastata come lui; ma erastatacolpitaprimaebruciavada piú tempo. Le sue ossaerano cosí calde che ilbagliore filtrava attraverso lapelle. Sara lo chiamò pernome e si disintegrò: la

colonna di ceneri e fumocrollò, e la sua testa,appoggiata in cima, le caddefra i piedi e si sfracellòsull’erba. A quel punto Peterfu colto dalle convulsioni enon fu piú costretto aguardare.

La visione terminò ancheper Tercin. Mentre Petergemeva e si contorceva,Tercin rimase sdraiato apancia in giú con le mani

sopralatesta,enonosòalzarelo sguardo finché il fratellononsifucalmato.Líintorno,nel bosco e nel silenzio dellanotte, non si vedevano piúragazzi che bruciavano, corpiche cadevano o angelirombanti.Tercinsitiròsuesistrofinò gli occhi e il naso. –Guarda cos’hai combinato, –disse al fratello che oradormiva tranquillo per terra.–Mel’haipassata!–Glidiede

uncalciofortenellecostole,eattraverso lo stivale pensò diaver sentito il rumore di unosso che si rompeva.Malgradociò,glienediedeunaltro. – Maledetto appestato,me l’hai passata! – Si girò ecorse via verso il bosco, poidopo un attimo tornòindietro a riprendersi lafionda. Diede un altro calcioalfratelloesparídinuovo.

Ti ho visto e so che anchetumihaivista.Sochemihaisentita quando hopronunciato il tuo nome.Stavo per dire qualcos’altro,qualcosa di estremamentesaggio e importante. Ormainonlosopiú,ovvio,etalvoltamidomandosesiaverochehodetto qualcosa, oltre al tuonome, se io abbia veramentedatovocealmiosentiresubitoprima che le ossa incendiate

collassassero: avevo lasensazione di aver capitotutto, di aver compreso ilmistero del tormento che ciaffligge e la ragione dellenostre sofferenze. Era unsentimento alto, magnifico,chesitradurrebbesicuramenteinparoleindimenticabili.Seleavessipronunciate,sochetulericorderesti anche se io leavessi dimenticate… ma nonhoavutoaltro che silenzioda

te, negli ultimi quattordicigiorni. Fai finta di esseremorto? Ho spie dovunque,caro amico. La piccola AbbyCrowley ieri pomeriggio ti havisto alla finestra che leggevi.Hai disegnato una civetta egliel’haimostrataattraversoilvetro, però a me non mandineanchedueparole.

Edgarèpeggiorato,nesaraialcorrente.Forsehaianchetuletuespie,oforsetuamadreti

dice solo quello che ritieneopportuno che tu sappia. Èuna settimanaormai chenonè in sé, e l’altra sera, mentresua sorella lo imboccava difarinad’avena,harischiatodistrozzarsi.Adessohalafebbre.Il dottor Herz passa tre oretutti i giorni a tamburellargliil torace e la schiena con unbicchiere di cristallo. Tosseartificiale, dice, dato cheEdgar non la produce

spontaneamente. «Siriprenderà,–diceildottore,–non abbiate fretta». Me lovedo che dice la stessa cosadavanti al suo cadavere:«Dateglisolounattimo»,dice,e lo stuzzica con unbastoncino dotato distraordinarieproprietà.

Scrivendoti tutto questo soche c’è il rischio che tu laprenda nel modo sbagliato.Potrestidirecheavevotorto,e

che non c’è nessun reconditolatopositivo inquel checi stacapitando.Èsolomorte,dirai:solounaltromododimorire,piúlentoedolorosoestranodimolti altri. Magari perqualcunosaràcosí.

Tuo fratello vive in unagrotta con Reuben Claflin.Abbyhaavutodiecicentesimida Reuben per rubare unatortaeportargliela.Hadatolamoneta ame, come se questo

potesse in qualche modocancellare il furto. Te laaccludoperchénon saprei checos’altro farne, e perchésicuramente Tercin ha undebitoconteperilmalechetiha fatto. Abby è una piccolapettegola intelligente. Mi hadescritto la situazione,l’ambiente è accogliente ecasalingo, e mi ha recitatoperfino la scenetta di Reubenche asciuga delicatamente la

fronte di Tercin. Ho qualchedubbiosullesuevisioni–ionehoavutequattrodaquandosiè ammalato e non l’hoincontratoneancheunavolta.Forseunanimovilepercepiscesolo l’orrore e si nascondedagli amici onesti, in quelmondocomeinquesto.Inognicaso,dovrestidireatuamadrechestacrescendoameraviglia.

Anche io sto crescendo eprosperando, Peter. Certo, le

persone normali non lodirebbero, guardandomi. Ilmio io specchio–quellocheètuttodi questomondo e tuttoin superficie – è pieno dimacchie e di lividi, magro econ l’ittero, e i miei capelli,come dice mia madre, hannoperso vigore. Ma al di là delcorposonounagigantessachecresce, e ogni volta che miaddentroinunanuovavisionemi avvicino sempre di piú a

unafinechenonèlamorte,loso. Sei un gigante anche tu,puoicercaredinascondertidame quanto vuoi ma lo so lostesso. Noi oggi sormontiamotutti come un tempo le torrisormontavano noi, prima chediventassimo loro. Capiscil’evoluzione? Da piccolo efragile individuo, ad angelovolteggiante, a monolite. E ilpasso dopo che cos’altro puòessere,senonilcielochetutto

sovrasta e uno spirito di cuiogni cosa fa parte, e da cuiniente è separato? Lasciaperdere la buona novella delreverendo Wallop e senti lamia: è in arrivo una cosastraordinaria, adornata difuoco,distruzioneesofferenza.Il nostro animo ne saràelevato, e capiremo, e allorarimettersi in salute sarà unacosa da nulla, cheaffronteremo in un lampo.

Perciò non preoccuparti delpovero Edgar. La suaconsunzione è una cattivamaestra chebisogna ignorare.Esci allo scoperto, amoremio– esci dai tuoi abissi. ForseEdgarMintonmorirà,manoivivremo.

Unangelomigliore

–Altuopostononlofarei,–midisse laprimavolta checi incontrammo. Avevo sei

anni e stavo scavando sottoun tronco abbattuto percapovolgerlo e vedere sec’erano vermi. All’epoca miopadrepossedevaancoratuttiisuoi terreni e io potevocamminare un interopomeriggio senza mai usciredai confini dei suoi aranceti.Passavo un sacco di tempo adivertirmi in quel modo,inventare giochi, crearmiamici immaginari perché di

veri eproprinonne avevo, edare la caccia ai tesorinascosti dei pirati o degliindiani. Le mie sorelle eranotutte molto piú grandi edetestavanoavermifraipiedi,cosídisegnavanofintemappe,le invecchiavano pestandolesullasabbiaconunamazzadabaseballecarbonizzandolesuibordi, e mi spedivano allaricerca dei tesori. Ci sonocascatoperanni.

Leierasedutasuunalberoe con qualche spinta leggerafaceva dondolare un’aranciache le pendeva accanto alviso.Imieiamiciimmaginarinon erano del tipo che sivede. Mi figurai che quellasaputella fosse la figlia di unraccoglitore di frutta, giacchéeravamo a fine stagione e ifilari erano pieni diguatemaltechi. Indossava unvestitogiallosmanicatoconil

musodiungattinodipeluchedisegnato sul davanti. Me loricordomolto chiaramente, emiricordochedopomichiesicome avessi fatto ainventarmi da solo questoparticolare di una bambinainesistente. Aveva la pellescurissima. I capelli lescendevano oltre la vita. Miparve che avesse lamia età echepotessefarelamiaclasse.Nonlediediretta.

Sollevando il troncodisturbai un nido di vespe,che volarono fuori e miattaccarono, pungendomisulla faccia, sul collo e sullemani. Mentre le scacciavo,urlando e piangendo, labambina mi guardava. Nondisse niente, ma si alzò inpiedisulramoedispiegòlealisullaschiena,conmiograndestuporeespavento.Mimisiacorrere verso casa, ma

respiravo con molta fatica:una reazione allergica. Perfortuna incontrai un gruppodi raccoglitori che stavanomangiando sull’erba e svennidifrontealoro,tuttogonfioeboccheggiante.

Mi venne a trovare inospedale. Strafatto diBenadryl in vena, dicevo achiunque mi capitasse a tiroche c’era un angelo nellastanza, deliziando dottori e

infermiere. Già a quei tempida drogato ragionavo bene evelocemente, sicché quandomiopadremichiesechecosaavessi detto, dal suo tono divoce capii che era megliorispondere evasivamente.Quando però io e leirimanemmo soli e si mise aipiedidelmioletto,insilenzio,con un’aria strana non soloper via delle ali ma ancheperché era vestita da

dottoressa, con il camicebianco, lo stetoscopio e icapelli raccolti inunelegantechignon, lechiesiperchénonmi avesse avvertito dellevespe, e rispose: – Non sonoqueltipodiangelo.

Mio padre ha sempresaputosolounaminimapartedeiguai incuimicacciavo, eciononostante sono sempre

stato il figlio meno amato el’ultima persona che avrebbevoluto accanto quando siammalò gravemente. Le miesorelle, però, erano tutte ingravidanza. Per una, voluta estimolata,per lealtredue,unincidente di percorso. Conche entusiasmo festeggiaronola coincidenza, e con cherammarico furonocostretteaspedirmi da San Franciscoalla Florida. Ero in clinica

quandomi telefonarono, e laprova tangibiledell’invincibilità del loroterzetto è che riuscirono asuperare lo sbarramento deidiversi numeri interni da cuipassare e delle duecentraliniste abituate anegarmi meccanicamente atutti i pazienti che micercano.

– Papà sta male, – disseCharlotte.

– Non da oggi, – risposi,perché la cosa durava da unanno,e sebbenenonpossanoessercimiglioramentiquandosi tratta di un carcinomapolmonaremicrocellulareconmetastasi, nostro padre stavatenendodurodamoltimesi.

– Papà sta peggio, – disseChristine,eCarmenaggiunse:–Moltopeggio!–Carmeneralamaggioreelapiúincintaditutte,anchesedipoco.

– È in ospedale, – disseChristine.–Haun’infezione.

– Alla vescica, – disseCharlotte.Fral’unael’altracisono due anni di differenzama sembrano tre gemelle, edimostrano da sempre lastessa età, con quella frontecorrugata e la bocca sottile egiudicante, tutte alte e dicarnagione chiara mentre iosonobasso e scuro, tutte congli stessiocchiazzurridiuna

sfumatura che sembraperfetta per guardare lepersone dall’alto in basso. Imiei occhi invece sono quasineri, come quelli di miopadre, e Carmen dice cheposso nasconderci dentroqualsiasicosa.

– Una leggera cistite, –dissi.–Eallora?

– La dottoressa Klar diceche stamoltomale,– risposeChristine.

– Non sa se uscirà vivodall’ospedale, – aggiunseCharlotte.

– Dice sempre cosí, –risposiio.–Inrealtànonlosamica. È allarmista eapprensiva.

– Devi andare da lui! –disseroloroincoro.

– Voi dovete andarci, –ribattei. – Andateci voi, se ècosíimportante.

–Manoi siamo incinte!–

disseroloro.Eviaconlescusepersonali: una lievepreeclampsia per Charlotte eChristine e una trombosi alpolpaccio per Carmen. Nonpotevano muoversi da NewYork, dove abitavano tutte aun tiro di schioppo l’unadall’altra.

– C’è chi viaggia finoall’ottavo mese. Un sacco didonne lo fanno! – dissi, pursapendo che non era vero.

L’angelointantosierasedutosulla mia scrivania e miguardavascuotendolatesta.

– Tu sei un dottore, –disserotutteinsieme,comesequesto tagliasse la testa altoro, e io avrei volutoobiettarecheeroinabile,eperdi piú un pediatra. Avreipotuto confessarlo sedutastante, a loro e al mondointero: «Sono un medicoinabile», e poi imboccare la

strada di mattoni gialli dellariabilitazione.

Invece riappesi il telefonosenza dire niente. L’angelocontinuava a guardarmiscuotendo il capo. Si eraacconciatapersbalordire:unabustadellaspesadiplasticaintesta, una veste da casasudicia e un gatto mortoarrotolato intorno a ognipiede.

–Nonloconoscoquasi!–

le gridai, senza ottenererisposta.Eaggiunsicheavevouna paziente in attesa, cosache sapeva già perché lei satutto quello che so io, eperchénonsonomairiuscitoanasconderleniente.

– Lascia perdere quelladonnae i suoibambini, sonocattivi, – mi disse senzaguardarmi,mentrelepassavodavanti. Aveva un buonmotivo per non amare Mrs

Fontaine,manon capivo checos’avesse contro i suoi duebambini, sebbene fossiabituato al fatto che miindicava sempre i futuri ladridiautomobili,bari algiocooassassini,comesedovessidarloroaseimesiunamagnificapillola della virtú e prevenirecosíiloropeccati.

I Fontaine stavanoaspettando pazientemente insala visita. Zebadiah faceva

spruzzi nel lavabo, la madredava damangiare alla sorellae lazia leggevaungiornalinoperbambini.–Salveatutti!–dissi, e chiusi a chiave laporta.Zebadiahtrotterellòfinlà per controllare, compliceinnocente della nostra tresca.– Tesorino, – disse MrsFontaine,rivoltaameenonasuofiglio,–cometiva?

– Giornata pesante, –risposi.

– Allora la tua amica haproprioquellochecivuole,–disse, estraendo dalla borsadei pannolini un pacchettoavvolto nella carta stagnolache appoggiò sulla mensoladel lavandino. E non neparlammo piú, perché unodei termini del nostroaccordo è di mantenere unadiscrezione al limite delmutismo. Le allungai unabusta, mi infilai il pacchetto

in tasca, e a quel puntoparlammo dei suoi figli. Suasorella,chesieramessaafareil gioco dei particolarinascosti, ci interruppe perchiedere:–Dov’èlostivale?–e:–Vedeteunflauto?–Io lerisposi di no, e lei disse chenon dovevo essere moltointelligente se non riuscivo ascoprire il flauto nascostonell’albero.

– Se sapevi già dov’era,

perché l’hai chiesto? – ledomandò Mrs Fontaine. Lasorella socchiuse gli occhi erispose: – Volevo metterloalla prova –. E scoppiò ariderecomeseavessedettolacosapiúspiritosadelmondo.VisitaiZebadiahe sua sorellaLily,unabimbagrassottella efelicedisoliquattromesi,chefaceva i suoi gorgheggimentre le auscultavo il cuoree le manipolavo le anche.

L’angelo marciava sul fondodellastanza,conunfrusciodigattiaognipasso,esembravache Lily la vedesse. – Inquesto preciso momentodovrebbe cadere un fulminedal cielo, – disse. Puravendola solo in tasca, ilsemplice fattodipossedere lasostanzamirendevapiúfacileignorarel’angelo.

– È una bella bambina, –dissiaMrsFontaine.

– Non è brutta, –commentò lei, abbassando latesta con un sorriso. Suasorella tese le braccia perprendere la bimba, la tenneun istante e dichiarò che eraveramente bella, poi la passòalla mamma che la passò ame, e io non so perché laripassai alla sorella. Ognitanto succedono cose cosí,leggere, come questa bimbache sorrideva, rideva e

passavaincerchiodimanoinmano, e suo fratello chestrillava: – Anch’io sonobello! – sollevando le bracciaper essere tirato su, e tutti ecinque che ridevamo mentrel’angelo, impotente, teneva ilbroncio. Avrei voluto chedurassepersempre.

– Ce l’hanno tutti, unangelo? – le domandai un

giorno,circaunmesedopoilnostro incontro, quando perla prima volta mi chiesi setutti i bambini avessero unospirito guida invisibile aglialtri.Miguardaiintornonellamia classe di primaelementare, e strizzando gliocchi riuscii a vederli: vicinoalle mie compagne colgrembiulino, sedute, c’eranoaltre bambine colgrembiulino, in piedi, e

c’eranobambinicoipantaloniblu che sarebbero sembratidel tutto normali, non fossestato per il portamentoimpeccabile e le ali flosce erichiuse.

– Solo chi diventeràeccezionale o farà coseeccezionali. Spesso essereeccezionali basta. Il restovienedasé,automaticamente,come il pensiero o l’amore.Capisci?–Aqueitempilasua

voce poteva essere di unadolcezzaindescrivibile.

– No, – risposi. Cosíquandoarrivammoacasamitrascinò nella biblioteca dimiopadre,esenzabadareallemie suppliche di non entrarelí senza il suo permesso, mipiazzò di fronteall’enciclopedia. Aprii a casoqualchepaginadiunvolume,eleimiseilditosugliuominie le donne chedovevano alla

guidadiunangelo lapropriaeccezionalità. Eranomeno diquel che pensassi, edequamente distribuiti fra chisi distingueva nel bene e chinelmale.Sfogliaiall’indietroinomi che cominciavano perA,madiquellisucuimettevaildito,edicui facevabrillarele lettere perché potessiritrovarli in ogni momento,ne conoscevo uno su dieci.Attila lo conoscevo perché

l’avevamo appena fatto astoria, e avevo anche presoparte a una piccolamessinscena: indossando unapellicciasmessadimiamadre,conaltricinquemaschieunabambina a cui era toccata laparte di Hun per via dellalungacapigliaturanera,avevocapitanatoilrestodellaclassea suon di urla. – Ma eracattivo!–ledissi,e leiribatté

che non tutti davano ascoltoalloroangelo.

Odio la medicina nonpediatrica, odio i pazientiadulti e i loro ospedali.Quand’ero all’università nonvedevol’oradinonavercipiúa che fare, di smetterla con idolori lombari, ledepressionicroniche e gli infortuni pernonandareal lavoro.Odiavo

soprattutto le vecchiettedallefacce incartapecorite e dalcuore triste e delicato, chebastava guardarle storteperchécilasciasserolepenne.Perfino un prematuro natomezzo morto ha unamaggiore capacità direcupero. E poi odiavol’odore dell’ospedale. Ibambini,perprimacosa,nonhannounodorecosícattivo,epoi anche da ammalati o da

morti non emanano il tanfodi cui sono permeati gliospedali per adulti, e cheanche le ali dell’angeloproducono quando le agitafreneticamente.All’università,ogni volta che facevo unacazzata di proporzionigigantesche, avevol’impressione chemi restasseappiccicato,epermoltigiornimi bastava annusarmi le ditaper ricordarmi del povero

zombie che avevo quasiammazzato per aver fattomaleiconti.

L’angelo sembrava gradirequel luogo,madel resto a leipiace la morte, o perlomenola eccita, come a me unaciambella o la bellezza fisica.Sidàsempreunsaccodiarieperché le basta annusare lepersone per prevederne l’oradel decesso. Era l’unica cosain cui ero diventato bravo

anch’io, prima da studente epoi da specializzando:riconoscere i malati gravinella folla indistinta dipazienti che mi venivanosottoposti ogni giorno.Peccatochenonmiricordassimai come fare a salvarli. Nelnostrotragittoversolastanzadimiopadre l’angelo simiseperlaprimavoltaasaltellare,einoltre,purconservandounabbigliamento da stracciona,

aveva sostituito i gatti condelle scatole di kleenex,lucidatolealiemessointestaun elegante (ancorché lercio)cappello.Forseeral’ospedale,oforsesoloilfattochecifossivenuto, a renderla felice. Eraconvinta che avessi fatto lacosagiusta, eperciòera statabendisposta nei mieiconfronti per tutta la duratadel viaggio e adessotrotterellava come una

scolaretta. Penso che solouccidendomi avrei potutorenderlapiúfelice.

Le infermiere nonalzarono la testa quandopassai davanti alla loroguardiola,direttoalfondodelcorridoiodovec’era la stanzadi mio padre, né quandoripassaidicorsainfugadalui.– Eccolo lí, – disse l’angeloquando entrai; negli ultimimetri mi aveva preceduto ed

erapassataattraversoilmuro.Me lo indicava a grandi gesticome se si fosse trattato diun’automobilenuovaodiunasmagliante motocicletta invetrina. L’ultima volta chel’avevo visto era lo stesso,inscalfibile, uomo di sempre,dal volto arcigno e gli occhineri,ilmioopposto,unmetroe novanta di dispotismo esenso di responsabilità. Unuomo che avrebbe avuto

bisogno di un angelo suo,l’avevo sempre saputo. Oraeradistesosuunlettosporco,con i pannoloni, calvo, senzadenti eppure maestoso comeAslan sulla sua tavola dipietra.Quando entrai alzò losguardo e mi salutò con un«Tu!», riuscendo a caricarequella parola in egualmisuradi delusione, rimprovero esorpresa.Fecicadereaterrail

libroe la scatoladi caramelleefuggiivia.

Sono sempre a mio agionei bagni. Da specializzandoqualche volta la sera midefilavo nei gabinettilasciando ilmio tirocinanteabarcamenarsi e affogare,sostenendodopodinon avermairicevutolesuefrenetichechiamate mentre in realtàavevo spento il cercapersoneed ero stato seduto sul water

con la testa fra le mani o afarmi una piccola dose dellamia sostanza del mese. Alpiano d’ospedale dov’eraricoverato mio padre, vicinoall’ascensore, c’era unposticino tranquillo, ungabinetto singolo conserratura.

Che la porta sia chiusa achiave, o che io abbiaveramentevogliadi starmeneper conto mio, non ha mai

costituito un deterrente perl’angelo. In pochi istanti eragià lí (nonhomaicapitochecosa la trattenga, dato chepuò viaggiare alla velocitàdella colpa e talvolta sembraessere da tutte le particontemporaneamente). Erosedutoconlatestafralemanie lei intantomi sgridava, e lasuavoceaffollavalastanzetta,contuttiquei«checosacredidi fare» e «adesso tu torni di

là» che sembravanorimbalzare sulle paretibiancheinpacchettidisuonoseparati. Io non sono queltipo di dottore, dissi allemiemani,nonsonoundottoredinessun tipo, e non so comecomportarmi laggiú in quellastanza. E lei disse che ancheseerounodiqueidottorichenon ci capiscono niente dimedicina, e anche se avevopassato gli esami di

abilitazione perché avevopagatouncertodottorGuptaper aggirare le patetichemisure di sicurezza dellaSocietàamericanadipediatriacontro imbroglioni eimpostori, ebbene: perfino ioeroingradodicapirequandoun paziente era in uno statodi prostrazione e abbandonototali, perfino io potevoalleviare la sua pena con unpiccologestodiumanità.

Per tutta risposta le passaiun po’ di droga. Qui nonc’entrava Mrs Fontaine, maun’altra spacciatrice, unaspeciedi fidanzata– inveritàa metterci insieme era statasolol’eroinadasniffare–chegirava con un cornettoattaccato al portachiavi,pronta a tirarlo fuori a ogniavversità:unagommabucata,un piede fratturato o lasifilide, problema

quest’ultimo che richiedevaduesniffate.«Unabellatiratae passa tutto!», diceva,ridendo con l’aria piúinnocente del mondo. Fupicchiata a morte da unfidanzato piú appassionatoma meno gentile di me, emorí una notte al prontosoccorsodelGeneralHospitalmentre ero di turno comepediatra. Riconobbi il suocadavere ricoperto di botte

entrando in traumatologia aprendereunacopertatermicaperunbimbetto infreddolito.Una dose minima e l’angeloera già partito. Giusto undebole ammonimento a nonfarloedeccochedistendevaeagitava le ali, e per unafrazione di secondo sentii lasolita puzza terribile, poidivenne un odore di erba,biscotti e neve fresca suimarciapiedi. Gli occhi le

divenneropiúchiari,manondi ghiaccio come quelli dellemie sorelle, scrollò appena latesta per sbarazzarsi delcorredo da megera e conpochigestidelleditasisciolsei nodi nei capelli. Sembrasempre che si voglia farbellaper me. Tre volte dimenò ifianchi, e la veste da casadivenne uno splendido sariazzurro, sotto il quale i beipiedieranonudi.

–Tieni!–lefarfugliai.– Meglio se ne prendi

ancora, – disse lei, e ioeseguii.Poisimisedifronteame e mi appoggiò le manisulle spalleper tenerle ferme,giacchétremavanotutte.Noneralaprimavoltacheavevolasensazionedivolareamarciaindietro; il gabinetto era unvascello che solcava l’ariamosso dal pianto, e lei mitimonavaconlemani.

–Devo tornare di là? – lechiesi quando mi sentiimeglio.

– Non ancora, amore, –risposelei.–Aspettadiesserebellopronto.

Quand’ero bambinol’angelo era sempre buono, ilche non significa che nonfosse mai temibile. Moltospessosi limitavabanalmente

a tallonarmi e io quasi midimenticavo che fosse unangelo, ma ogni tantoassumeva un aspetto cosímaestoso da farmi sentirepiccolopiccolo.Ungiorno,inquinta elementare, stavoascoltando distrattamenteMrsKhemlani che ci parlavadei cowboy e degli indiani. –La storia va sempre da est aovest, – aveva detto, perchéeraunadellefrasifattecheci

aveva elargito all’inizio delsemestre,eprimaopoiaognilezionelepiacevaribadirecheaveva ragione. Ci sarannosempre libri messi al rogo,stava dicendo, le donnesaranno sempre cittadine diserie B, e dagli albori dellaciviltà la storia si muoveintorno al globo versooccidente.

Ascoltavo distrattamente,fantasticandosuipiedinidelle

donne cinesi di cui si eraparlato poco prima allalezione di sociologia. Erorimasto affascinato dallefotografiecheciavevanofattovedere,einvecediconsegnareilmiolavoretto,unascarpinadi cartoncino, perché siasciugasse insieme alle altresul davanzale della finestra,me l’ero tenuta perrigirarmelainmano.L’angelonel frattempo girovagava per

la classe, in piedi o seduto,com’era sua abitudine. Quelgiorno aveva scelto unincarnatoeunabbigliamentoda cinesina. In alcuni casi lasua foggia andava incontroalle mie fantasie, ma sapevoche non ero io a deciderlo:avevo già provato a farleassumere l’aspettodiuncaneo di una pannocchia digranoturcoconcentrandomie

guardandola fissa, finchénonmiavevadettodipiantarla.

Con i suoipiedini storpiela sua goffa andatura, eun’espressione che peresperienza sapevo essere dirabbia al sentir direstupidaggini, quando MrsKhemlani disquisí sulgrandioso corso della storiaandòamettersidi fronteallaclasse.Eroabituatoasorbirmilezionichesentivosoloio,oa

vederlecoprireconlamanolapagina che stavo leggendo edire: «Credimi, non è andatacosí».

– Un tempo la città piúimportante del mondo eraNanchino, – stava dicendoMrsKhemlani.–Poièstatalavolta di Atene e di Roma. Aquelle sono seguite Vienna,poi Parigi, poi Londra, poiBoston e poi New York. Maadesso,sentiteunpo’qui,sta

pertoccareaSanFrancisco.Edopo? Mio marito dice lospazio cosmico, perché è uningegnere e ha una mentescientifica,mentreiodicochebisogna andare ancora aovest,ilchesignificadinuovoinOriente!

CindyHacklight, nella filadi banchi accanto al mio,chiese che cosa c’entrassetutto questo con i cowboy egli indiani, ma la voce

dell’angelo mi coprí larispostadiMrsKhemlani.

– Non è vero! – urlò,battendo i piedi. Era allacattedra, alle spalle di MrsKhemlani,estavalasciandoilsuo corpo infantile. Era laprimavoltachelavedevoconl’aspetto di un’adulta. Si reseenorme. La testa toccava ilsoffitto e le ali spiegate siallargavano da un capoall’altro della classe. –Non a

ovest! – esclamò, e sulle alicominciarono a scorrereimmagini di uomini chebisbigliavano dentro stanzebuie, soldati in guerra, carriarmati che attraversavanovillaggi come nei vecchicinegiornali, e gruppi dipersone sedute in silenzio.Aveva smesso di usare leparole, ma le sue ali miparlavano eccome, eranoimmaginicheemergevanodal

biancoprofondocomesquillidi tromba, ed erano,soprattutto, le sensazioni chene scaturivano, per cuiprovavo tristezza e gioia,rabbiaeamoreindistintotuttiinsieme e in sequenza; eranoleimmaginielesensazionidiun discorso con cui l’angelomispiegavailverocorsodellastoria. –Viene verso di te! –mi disse, ma era superfluo,perché mi aveva insegnato a

concepirmi come sulla crestadiun’ondagigantesca:sedutoal mio banco, sentivo sotto ipiedi la storia che miincalzava e mi sospingeva,conmezzi ame ignoti, versoun obiettivo che non avreisaputo descrivere se noncome luminoso, ma che inquel momento vedevo congrandechiarezza.Balzai fuoridal banco, facendo cadere lascarpetta della tortura, e con

le braccia alzate mi espressinei miei migliori «Urrà!» dastadio. Avevo undici anni epensavodi aver capitoquelloche l’angelo aveva in serboper me, con una fiducia diesserneall’altezzacheoggimirisultaincomprensibile.

– Sí, – disse MrsKhemlani, che pensava stessifesteggiando la sua teoria. –Urrà!Urràperlastoria!

Meglio essere netturbiniche dottori, quando si ha unpadre malato. Se fossi unarborista, un maestro discuola,uncercatoreditartufio perfino un vecchio tossico,lamalattia sarebbemalattia ebasta,unacosadaaccettareenonunnemicocheglialtrisiaspettano che io sappiasconfiggere. Per mesi e mesile mie sorelle mi avevanocostretto con le moine a

immischiarmi nelle decisionideimedici che curavanomiopadre,eioavevofattofintadicapire quello che midicevano, propinando a tutti– i dottori, le mie sorelle emio padre – le mie opinioniinfondate. Anche se nonavessi conseguito la laurea inmedicina con mezzi illeciti,non sarei stato comunque ingrado di ricordarmi lenozioni di patologia del

secondo anno. Mi guadagnoda vivere complimentando lemamme per i loro beibambini in ottima salute.Amo i neonati e amo laketamina, ed è questo il veromotivopercuisonodiventatopediatra: non perché odi lemalattie, o abbia maidesiderato guarire qualcuno,o sia mai stato convinto disaperlofare.

Ma nessuno mi fa sconti

per il fatto che sono untossicodipendente e unimpostore. Quando gli altridottori vengono a sapere chesono un dottore anch’io, miarruolano fra i combattentidelle battaglie perse, e mirovesciano addosso il pesoaggiuntivodell’annesso sensodi colpa. Appena gliinfermieri sentono che sonoundottore,miodianoperchéli critico e interferisco con il

loro lavoro. E l’angelo, cheaveva la lista di tutti i mieidifetti e avrebbe dovutocapirmi meglio, mirimproverava di non salvarela vita a mio padre, la cuimorte si approssimava ognigiorno di piú. Era ilminimoche potessi fare, mi diceva,perché perfino un miracolononeranienteinconfrontoaicompiti a cui ero destinato.Inoltre, se fossi riuscito in

quest’impresa,tuttoilrestosisarebbe sistemato. Era laprima speranza che mi davada molto tempo, a parte lamorte.

–Nonèunnemico che sipuò fregare con l’astuzia, –disse Mrs Scott, una dellecompagnucce di mio padrealla seduta di chemioterapiadel martedí. Mio padre erauscito dall’ospedale unasettimanadopo ilmioarrivo,

eper tutto ilmese successivolo portai alla infusionesettimanale. Da qualchetempo era troppo stanco perparlare, o forsesemplicemente stufo dellasignora. Si addormentavadurante ogni seduta,lasciandomi solo a dialogarecon lei. Mi aveva confidatoche odiava il modo in cui siprostituiva alla speranza –ogni settimana tirava fuori

unanuovaancoradi salvezza–, perciò se non avessi avutouna conoscenza di primamano del bel sonno pesanteindotto dal Benadryl in venaavreidettochefacevafintadidormire per schivarla. Laconversazione cominciavasempre dall’ultima scopertafatta dalla signora su rivistecome «Prevenzione oggi»,«Medicina ayurvedica» o «Ivantaggi

dell’idrocolonterapia»: nelgiro di cinque minuti miopadre affermava di avere latesta pesante, e due minutidopo russava, con il mentosulpetto,piúpianodelsolito.Epoichénonpotevochiudereil becco a Mrs Scottinfilandoleuntaccodiscarpaingola, leproponevo sempreunapartitaadama,acarteoabackgammon. Il saloned’infusione della dottoressa

Klarabbondavadipassatempicomequesti.

Giocammo a scacchi,attività che normalmentepreludeva a lunghi silenzimeditabondi. Mrs Scott disolitosimettevaunditosullatempia e fissava cosíintensamente la scacchierache non mi sarei stupito divederla vibrare in rispostaall’intensità del suo sguardo.Oggi però la signora era

distrattaeunpo’agitata,forseperché le stavanosomministrando steroidi oforse perché il mio angelo siera seduto vicino a lei.Nonostante il suo ottimismo,eraognisettimanapiúdebole,e sipuòstar sicuri chepiú lagente si avvicina alla morte,piú comincia a percepire leemanazioni negativedell’angelo.

– In realtà non è una

partita a scacchi, – proseguílei,essendoiorimastozitto.–Credo di averlo capitoveramente solo adesso –.Abbassaiildito.

–Achecosa,allora?– Lo sa benissimo, –

rispose, mettendosi la manosul petto.Aveva anche lei uncancro ai polmoni comemiopadre. – Oncoloquatsi, –sussurrò. Era il nome cheavevaassegnatoalsuomale,e

che sussurrava appena, comese pronunciarlo ad alta vocefosse un modo perrafforzarlo.

–Ah,lui,–dissi.– In effetti sembra una

partita:tumuovieluimuove,tu scegli una chemio e luicontrattacca con unamutazione, tu trovi l’erbaperfettapersconfiggerloe luisviluppa un altro strumentodi difesa, e i dottori giocano

con i vari organi finché ilcorpo non diventa un’unicagrande scacchiera. Ciscarabocchiano perfino sopra–. Si abbassò il colletto dellacamicetta e mi mostrò unpezzettino di pelle sotto laclavicola. Era una piccolacrocetta per segnare il puntodell’irradiazione.–Maquestaè solo la visione superficiale.Se si guarda piú a fondo,

comeho fatto io, si scopre laverità.

– Credo di averla battuta,– dissi, facendo fare al mioalfiere una mossa scorretta.La signora non guardòneppure.

–Quantevoltel’hosentitodire, al mio male… Ma nonmi ha mai battuta, e non ècerto per la mia disciplinamentale. È perché hoimparato a resistergli nel

profondo delmio essere.Nelprofondo,dottore.Nonèunalezione che avrà sentito ascuola, ma vorrei che laimparasse. Vorrei che suopadre la imparasse. Io mioppongoaquestonemicoconla disciplina spirituale, edovrebbefarloanchelui.

Mentreparlava, l’angelo lesi accostò furtivamente, sichinò e diede una sniffatinaalla sua testa avvolta nel

turbante. – Tre settimane, –disse.Poiavvicinòilnasoallafronte sottile e lucida dimiopadre–lasuapellesembravadiventare ogni giorno un po’piú sottile e piú tesa, ed eroconvinto che sarebbe bastatosfregarla appena o darle unaleggerissima grattatina perlasciar trasparire il craniosottostante – e disse la stessacosa.

–Staizitta!–dissi.

–Èdifficiledaaccettare,–disseMrsScott.–Sochenonèun’opinionediffusa,manonè il caso di esseremaleducati–. La dottoressa Klar entròprimachepotessirisponderleescusarmi.

– Salve a tutti! – esclamò.Trent’anni passati nel Sudestdella Florida non eranobastatiadattenuarlel’accento.Amiopadrepiaceva; avendoavuto una vita di successo

basatasempresull’ordinee ladisciplina, era contento chefossetedesca.Ilcamicebiancoimmacolatoera la cosamenoperfetta in lei, ma al solovederlo mi sentivo colpevoledi sciatteria e di fallimento.«È la nonna della partemigliore di te», aveva dettol’angelo quando l’avevaincontratalaprimavolta.

Al suono della sua vocemio padre si svegliò e le

sorrise.–Charlotte?–chiese.Una settimana dopo essereuscito dall’ospedale avevacominciato a confondere iluoghi e le persone,prendendo un’infermiera ouna premurosa signora dellaparrocchia per una dellemiesorelle,ocredendodiessereaChicago nella casa della suainfanziaechiamandouncanemorto sessant’anni prima.Me,nonmihamaipresoper

nessun altro, mentre si èspesso mostrato stupito divedermi. «Ancora qui?», michiedevatalvoltaalmattino.

– Sono la dottoressa Klar!– disse lei con entusiasmo.Diceva tutto con entusiasmo,anche cose come «Non nevale la pena» o «Sarebbe unmiracolose fosseancoravivofra un mese». Era uno diqueglioncologicheconmetàbocca ti dicono «vita» e con

l’altrametàtidicono«morte».A mio padre dava solo bellenotizie, a me solo brutte. Laodiavo.

–Cara,–dissemiopadre,richiudendo gli occhi masenzasmetteredisorridere.–Quandonasceilbambino?

–Presto,–rispose lei.– Ilbambino sta bene. Va tuttobene! – Fece per dargli unapacca sulla spalla ma letrattennilamano.

–Èlaspallacheglifamale,– le dissi. Mio padre avevametastasi ovunque, ma laspalla e la schiena erano ipunticheglidolevanodipiú;annuí con la testa e siriaddormentò.

–Ildolorecomeva?–Peggio.Eabbiamofinito

il Percocet. Ha finito ilPercocet.

– A questo si rimediafacilmente,–disselei.

– Un grammo dimeditazione vale piú di unchilodiPercocet,–disseMrsScott.

– Secondo alcunetradizioni! – disse ladottoressa Klar, poi mi fececenno di seguirla nelcorridoio. – Penso sia giuntoilmomentodismettere,–midisse.

–Smetterechecosa?–Smetteredinascondersi!

–gridòl’angelo.– Smettere la chemio, –

disse la dottoressa Klar.Avevamo questaconversazione tutte lesettimane. – Perchécontinuare?Chevantaggioneabbiamo? Perché venite quitutte le settimane, mentrepotrebbestarseneacasa?

– Lui non vuole smettere.Luivuoleproseguire.

– Basterebbe che tu gli

imponessi la mano, eguarirebbe,–dissel’angelo.–Se tu gli imponessi la mano,tutto il dolore che mi haicausatoscomparirebbe.

– Ma lui sa quello chevuole?

– Quando è qui è semprein stato confusionario.L’ambienteètroppofreddo.Eil Benadryl primadell’infusione gli dàsonnolenza.

– Carl, – mi disse ladottoressa, posandomi lamano sulla spalla propriocome aveva fatto prima conmiopadre, amo’di confortoperunmorente. –Penso chesia veramente giunto ilmomento –. E l’angelo disse:–Èsemprestatoilmomento!

Irapportiframeel’angeloavevano cominciato a

guastarsi in seconda mediadopocheCindyHacklightmiavevafattovederelapatatina.Cindy aveva messo su unasorta di impresa casalingamostrandola a chiunque,maschio o femmina, le dessecinque dollari, una bellasomma per l’epoca, primadell’inflazione dei tempi delliceo. La mia idea è che nondesseveramentepesoaisoldi,ma che pensasse che valeva

troppo per mostrarla gratis.In ogni caso, non avevabisogno del denaro. Nonc’erano ragazzi poveri nellanostrascuola.

–Nonbatterai siffatta via,– mi aveva detto l’angelo.Riservava questo linguaggiopesante e ricercato per imomenti di maggior serietà,per le cose di cui eraveramente convinta, le piúimportanti. Io invece avevo

preso la via del bosco perseguire Cindy dietro lapalestra, dove, appoggiandosialtroncosottilediunpioppo,mi aveva chiesto di giurarenon di mantenere il segreto,ma di avere rispetto per ciòche stava per mostrarmi. Lapromessachelefeciallora,diavere riguardo per la suapiccola patatina pelata, l’hopoi mantenuta per tutta lavita, dalla seconda media in

avanti,sempre,anchequandone ebbi di nuovo un saggioun’estate in cui eravamoentrambi a casa, durante ilcollege. – Gira la testa! –avevagridatol’angeloquandoCindy aveva alzato la gonna.E per la prima volta eradiventato brutto, avendomesso su la faccia daalbicoccadellanostrapreside,Mrs Carnegie. Impressionatodal contrasto fra la bellezza

dell’una e la bruttezzadell’altra, giravocontinuamente gli occhi,finché Cindy, che con unamano continuava a tenerealzata la gonna, mi avevamesso l’altra sulla testa e miaveva ruotato la faccia versodi lei. – Se vuoi avernerispetto, la devi guardare, –miavevadetto.

Dopo questo episodiol’angelo mi rimproverò per

giorni e giorni, e adesso aripensarcisembraunacosadapoco, rispetto a quel che mifece passare negli anni e neidecenni successivi.«Un’allettante patatina valeundestinodigrandezza?»,midomandavaincontinuazione,rispondendosi da sola, finchénon imparai anch’io larisposta giusta:«Assolutamenteno».Inrealtàilproblemanoneral’appetito

sessuale, che tuttavia, unavoltadestatosi,finíperfaredimeunmostroeunmaniaco,rendendomischiavodiessoefacendomi sprecare, alloracome oggi, metà della miavita – a scopare chiunqueaccettasse di stare fermo unattimo, dal liceo in avanti,senzainterruzione,conlasolaesclusionedellavoro,delciboe del sonno, ma mai deglistupefacenti. Penso che fosse

la prima volta che una cosacosí normale mi attraevaquanto i compiti straordinaria cui l’angelo voleva che midedicassi. Quando fecil’amoreconCindydistesoperterra fra gli aranci profumatidi mio padre, provai unnormalissimosensodipace,equando nel bosco lei si eratirata su la gonna avevocapito che potevo desiderare

– follemente – qualcosa chel’angelononapprovava.

Mio padre aveva uncampanellino che suonavaogni volta che volevaqualcosa. La mattina,sentendolo, mi alzavo dalletto singolo che occupavoquando avevo cinque anni eandavo al piano di sotto avedere che cosa volesse. Nei

primi tempi dopo il suoritorno a casa lo dovevoaiutare a uscire in giardinoper mettersi seduto al sole,poi cominciò a chiedermi diportargliilcaffèolacolazionechenonriuscivapiúafarsidasolo, quindi di girarlo opassarglilacopertacheglierascivolata dalle gambe, e allafine suonava incontinuazione, senza posa,come un Babbo Natale

accattone,senzasaperequelloche voleva, sicché gli davounapastigliadiantidolorifico(eunalaprendevoio,semprerigorosamente fedele allaregoladiequaspartizionechemierodato)cheloplacava.

Janie Finn era la nostrainfermiera mandatadall’hospice. Ho sempreodiato gli hospice, la genteche ci lavora, le infermiereconitacchialtieiguancialia

rischio soffocamento, e leresponsabili delle curepalliative, apparentementetuttealtissimeeconicapelliegli occhi neri, vestite comegesuiti dell’Ottocento e conun debole per i flirt con lamorte. Janie peròmi portavalamorfina liquida e l’Ativan,il che per me era piú chesufficiente a perdonare achiunque la colpa di esistere.–Unbel sinistro-destro, – ci

disse in cucina il primogiorno,mettendomi inmanoi flaconi. Prima ancora diaverli assaggiati sentii cheemanavano un piacevolecalore, e pensai cheriflettessero in manierafantastica la luce delpomeriggio. Janie si mise inguardia e sferrò due pugniveloci. – Una doppiettacontro il dolore, – disse. –Uno-due, provare per

credere! – Con un flaconenellamanodestraeunonellasinistra ci provai, e sí, misembrò di avere sul seriopugni piú potenti. Allungaiun colpo all’angelo, che ineffettiloschivòconlatesta.

Attingevoabbondantemente aglistupefacenti, e facevocontinui andirivieni con lafarmacia, dove immaginavol’omino sul retro che

travasava nei flaconi quelladroga pura e luminosa, dadue grandi refrigeratori, esognavodiandarglidietroperbere alla cannella, perché erosicurochese fossi riuscitoadassumerne a sufficienzal’angelo avrebbedefinitivamente cambiatoaspetto, e se poi fosse stataanchesufficienteauccidermi,pazienza. Ero sicuro chel’angelomi avrebbe condotto

inunposto tollerabile.Comeodiava quei flaconcini. Se liavessi avuti quand’ero unragazzodidodicianni,laloroterapiaquotidianamiavrebbeforse permesso di condurreunavitanormale.

«Forza, imponi lamano,–continuavaadirmil’angelo.–Toccalo e fallo stare bene».Gli ultimi giorni non mistrillava quasi mainell’orecchio, tuttavia perme

era una tortura ancorapeggiore il modo in cui michiedeva sistematicamentel’impossibileemiaccusavadiessere colpevoledell’aggravarsi quotidianodellamalattia.Dituttelecosechemiavevadetto,eraquellachepativodipiú.Nonpotevoignorare un barbone per lastrada senza che cominciassea elencare una a una leragioni per cui, data la

cronica incapacità deiprogrammi politici e delleleggi di affermare il benecomune, ero personalmenteresponsabile della sua tristecondizione, come se lecentinaia di migliaia dipeccatidiomissionedicuierafatto il mio destinoincompiuto avessero causatolacatastrofediunanazioneedei suoi abitanti.Ma quandomi accusava delle disgrazie

capitate a gente sconosciuta,perfino se caduta dal cielo obruciata nelle chiese, era piúfacile. Anche con i bambinipiccoli riuscivo ad avere unatteggiamento impersonale.Maconmiopadreno,luinonpoteva essere un voltoanonimo per me, e perqualche ragione durantequelle settimane in Floridaarrivai per la prima volta acrederle quando mi diceva

che con un solo miracoloavrei riscattato lemie cattiveazioni, e se con una manopotevo ridare la salute amiopadre,conl’altrapotevodarlaalmondointero.

–Preparami la cena, –midissemio padre, e io eseguii.Erano solo le tre delpomeriggio, maindipendentementedall’ora,il

pasto si chiamava semprecena, e consisteva semprenella stessa cosa: frullato alcioccolato con una banana,un uovo crudo e un po’ diAtivan.Glieloportai,nepreseun sorso, e la cena era bell’efinita. Girò la testa e aprí labocca comeunuccellino: erail segnale che voleval’antidolorifico,cosítiraifuorilamorfinadallatascaeglieneversai qualche goccia. Fece

schioccare le labbra e girò dinuovo la testa verso iltelevisore, poi chiuse gliocchi. – Adesso schiaccio unpisolino,–midisse.–Vai incameratua.

Fecirumorecomesestessisalendo le scale e uscii. Unaltro pomeriggio di unazzurro sfolgorante. Miopadre ripeteva incontinuazione che voleva untemporale. Quando tollerava

lamiapresenza emi lasciavastare con lui in salottoperlopiú guardavamo latelevisione, e sempre leprevisioni del tempo. Era lastagione degli uragani, mafinora avevamo avuto soloavvisaglie. «Guarda cheroba!», diceva, indicandoun’enorme turbolenza cheattraversava l’Atlantico,oppure urlava «Scemi!» aipoveri giornalisti abbarbicati

aipalidellaluceamagnificarespettacoli straordinari chenon avevano bisogno diparole. Quand’ero bambinogli uragani erano i nostrinemici, sradicavano gli alberie disperdevano i frutti.Adesso invece mio padre nepronunciava i nomifemminili con grandetenerezza. –Mi sono semprepiaciuti,–mirisposequandoglichiesiilperché.

Non avendo vicini di casanel raggio di un chilometro,nessuno mi chiese che cosastessifacendoquandoattaccaii pannelli protettivi anti-uragano alle finestre delsalotto e della cucina, e miopadre dall’interno non fecedomande. In quei giorniaveva un sonno cosí pesante,oltre al fatto che aveva legambe e le braccia semprefredde, che qualche volta mi

sembrava morto. Apriil’ugello della pompa e lopuntellai in modo chespruzzasse sulle imposte, poialtramontolaavviai.L’angeloerametà brutto e metà belloperché io ero metà fatto. –Perdi tempo a fargli scherziinvece di tirarlo fuori dalletto.

– Non è uno scherzo, –dissi. Rimasi ancora unmomento a guardare il cielo,

presiungoccinodimorfinaeandai dentro. Quando entraiinsalottoconunacandelamichiese che cosa stessesuccedendo.–C’èunagrandebufera,–risposi.

–Finalmente!–disse.Facemmo festa, altre due

cene a base di Ativan emorfina, e mio padre,rinvigorito dalla bufera, perun po’ fu piú lucido e miraccontò storie di antichi

uragani, di raccolti rovinati edi bimbetti sopravvissutimiracolosamente a tornadoche li avevano strappati dalleloro case e depositati in altreprovince.

– So che hai dei segreti, –midisseall’improvviso.Epoiaggiunse: – Tua sorella hacercato di annegarti quandoavevidueanni,teloricordi?

–No,–risposi,eglichiesidi proseguire. Ma ora nella

sua testa ero diventato miasorellaCharlotte.

–Comehaipotutofaredelmale a un bambino cosípiccolo? – mi chiese, e iorisposi che ne avevo fattetante,dicosebrutte.

– Ma non mi dire! –esclamò l’angelo. Presiun’altra goccia di morfina,dritto davanti a mio padreche tanto aveva gli occhichiusi, ma lui subito schiuse

la bocca, come se avessesentito l’odore, cosí ne diediun po’ anche a lui. Ne presiancora siaperme siaper lui,quindi passai all’Ativan.Eppurel’angelononsmettevadi guardarmi come un’arpia.– Imponi lamano!–disse.–Staarrivandounaltroangelo!

– Non importa, – dissemio padre. Poi sussurrò: –Tuamadreunavoltacercòdisoffocarlo. Un attimo solo,

con una coperta, e me lovenne subito a dire. Però eradepressa, e quando si èdepressisifannocosecosí.

– Se tu fossi un uomoeccezionale, – mi dissel’angelo, che avevacominciato a biascicare leparole, – se tu fossi ilpresidente (e sai benissimoche avresti potuto essere ilpresidente), io sarei lacoscienzadellanazione!

–Chiudilabocca,–ledissipiano,pensandodiaverusatountonodivoceudibiledaleimanondalui.

–Nondirmidichiuderelabocca, ragazza impertinente!–disse.Glidiediunaltropo’di morfina. Sebbene non mel’avesse chiesta, appena glimisi inbocca ilcontagoccesimiseaciucciarlo.

– Lo puoi fare, – dissel’angelo,eilvisolesiilluminò

e tornò bello per un istante.Midiedel’esempio,tendendounamano inavanti,morbidae bianca da un lato, pelosa eruvidadall’altro.Laappoggiòsulpettodimiopadre.–Devisemplicemente smetterla unabuonavoltadifarecazzate.

–Stairovinandotutto,–ledissi, e presi un sorso diAtivan, un sorsino piccolo,davvero, solo chebisognerebbe prenderlo a

gocce, e appena l’ebbimandato giú capii il perché.Erasquisitoefacevasembraretutto bellissimo, non solol’angelo, la cui pellaccia volòvia come trascinatadalventodiunverouragano, le cui alitornaronopulite,echecon ilcorpoeilvisoalloscopertosiaprí in un abbracciocompassionevole: perfino ilviso di mio padre diventòbello, giallo ed emaciato e

tuttavia stupendo. Fusorprendentevedereunabellafaccia cosí simile allamia.Lastanza brillava di qualcosa,ma non di luce, e all’esternosoffiava una vera bufera chemetteva i brividi e facevatremare le pareti. Come glicapitavaditantointanto,miopadreallungòlebracciacomepercercareatentoniqualcosadavanti a lui, allora io feci lostessoel’angelopure,etuttie

tre tendemmo le manicontemporaneamente.

«Siatepronti inqualunquemomento per l’ultimaconversazione», mi avevadetto Janie Finn, intendendoquel dialogo in cui siaffrontano tutte le questioniinsospesoecisidiceaddio,edopo il quale il moribondonon ha piú rimpianti. «Siparla e ci si lascia andare»,aveva detto, facendo un

ampio gesto con le manicomeseliberasseunostormodi colombe o un fascio dipalloncini. Sono le cose chedicono sempre quellidell’hospice, e per questomotivo vorrei che morisserotutti dimorte lenta, con unametàdilorochesispegnepereffetto di un’iniezione letalementre l’altra metà resta alsuo capezzale, tutti quantipresi nelle loro belle

conversazioni, e intantodiminuiscono di numero,dimezzandosi, fino adiventaredue,epoiunosolo,l’ultimo, e a quello arriva unnanoeglisparainfaccia.

Ma all’improvviso mi resiconto che proprio questadovevaesserelanostraultimaconversazione,fattadiboccheche si aprivano a turno percondividere una cosaimportante e bellissima che

nonimpiegavaparole,mentrela stanza interadavaungransensodisollievo,amecomeamio padre, ne ero certo.L’angelo tuttavia eracombattuto, sembrava lottarecon se stessa. Il volto eraancora bello ma il corpo eraritornatobrutto,eiflaconcinieranoquasi vuoti.Miopadreaveva la bocca aperta, mapresi io l’ultima morfinarimasta e a lui diedi una

gocciad’acqua.Aprígliocchi,miguardòedisseancoraunavolta«Tu!»scuotendolatesta,poi richiuse le palpebre.Tuttavia,quandoappoggiailatesta sul suo petto non miscacciò, e mentre con unamano tastava alla ciecadavanti a lui, lasciò che gliprendessi l’altra e glielaposassi sul mio collo. –Voglio un angelo migliore,

papà,–glidissi.–Nonchiedoaltro.

– Adesso schiaccio unpisolino, – disse lui. –Sprangatuttoevaiincameratua–.Invecerimasidov’eroemi assopii a mia volta. Misvegliai la mattina dopo suldivano. La finta pioggiacontinuava a battere sulleimposte chiuse, e non avevoidea di come fossi finitodall’altra parte della stanza.

L’angeloerainuncantuccioeaveva di nuovo la facciabrutta,madiquellabruttezzache hanno le facce dopo chehanno pianto. Mi sedettiaccanto a mio padre, chedovevaesseremortodapoco,perché ilvisoera freddoegliocchi aperti avevano giàl’aspettodell’uvaguasta,mailtorace e la pancia eranoancoracaldi.Glimisilemanisulpetto,viappoggiailatesta,

e restai a lungo in quellaposizione,primaditelefonarea Janie per dirle che ilmomentoeragiunto.

Ilbambinoscambiato

Mio padre e io siamo incucina, in piedi, fissiamo iltostapane e aspettiamo che

escano i waffle. Da quandomiofigliostamalecuciniamoa turno: lui si occupa dellacolazione, io del pranzo, e lacena la prepariamo insieme.Abbiamo una piastraapposita,mastamattinal’ideadi fare la pastella sembravatroppofaticosa,esobenechenei waffle fatti sul momentoc’èunsovrappiúd’amore,maso anche che a Carl nonimportachesianosurgelati,e

vedo in mio padre la stessaariasfinitachehoimparatoariconosceredurantegliultimigiorni della malattia di miamadreeilmiodivorzio,enonmisembrailcasodidirglicheoggi i waffle surgelatipotrebbero esserecontroproducenti. Lasuperficie cromata deltostapanecirimandalanostraimmagine dilatata ecapovolta.

Una molladell’apparecchiosièrottaelefette non saltano su comedovrebbero. I waffle salgonolenti e solenni. Carl dicevasempre che il pane tostatosembrava uscire dalla tomba,e scherzava su strudel dizombieebiscottialripienodivampiro. Non era unbambino del tutto normaleneanche primadi ammalarsi.Mio padre prende i waffle, li

imburra e li mette su unpiatto, che appoggia su ungigantesco vassoio d’argento,di quelli che usano imaggiordomi per servire,completo di cloche d’argentoconimpugnatura.–Prendilosciroppo,–midice,esiavviaversoilpianodisopra.

Sifermafuoridallaportaebussa. Lui bussa sempre, iomai. Dice che è importantetrattareCarlconrispetto,eio

sono d’accordo, ma alla cosache in questo momentooccupa il suo letto nonpotrebbe importare di menodella nostra buonaeducazione. La cosa richiededa noi un certo insieme dicomportamenti, tutto il restoèsuperfluo.–Chiè?–chiede,con una voce che sembracontenerneadecine.Talvoltamiconvincochefradilorocisia anche quella di Carl, una

vocina fievole eincredibilmentelontana.

–Chi vuoi che sia? –dicemiopadreaprendolaporta.

– Speravo di riceverefinalmente soddisfazione, –dice Carl dal letto, a cui ècostrettodamorbide fascedicontenzione che abbiamopreso in ospedale. Sichiamano Posey, un nomeinnocuo come un mazzolinodi fiori, ma non altrettanto

piacevoli.Loleghiamosolodinotte,esoloperchéaltrimentiandrebbe a cercarsi un postorialzato come la cima dellalibreria, il tettoo l’alberoaltonel cortile, da cui invocare asquarciagola giustizia,vendetta e soddisfazione.Contenzione a parte, il suoletto è quello di sempre, conlefiguredelbaseballstampatesulle lenzuola, e la camera èsemprelastessa,tappezzatadi

immagini di personaggistorici,didigheepontiealtriprodigi dell’ingegneria;l’unica differenza è cheabbiamodovutotoglieretuttele figure di aerei, di fronte acui si rincantucciava urlandoditerrore.

Slaccio le fasce e tiro suCarl in modo che riesca amangiare. – Guardare prego!–glidicemiopadre,esollevala cloche d’argento con un

gesto teatrale. Mio padreriesce a essere enfatico anchequando è stanco e abbattuto.–Waffle!

– I waffle non cisoddisfano,–diceCarl,conlafaccia contratta in unasmorfia di altezzosacondanna, ma parole esmorfia non contano piúquando addenta la forchettachemiopadregliavvicinaallabocca e trangugia

famelicamente il cibo. Le sueparoleedespressionidelvoltosembrano appartenere aqualcunaltro,ma l’appetitoèrimasto quello di Carl, e colpassare delle settimane èdiventato ancora piúbambinesco. Mentre dallabocca vomita elaborateoscenitàegiudizisprezzanti,isuoi piatti preferiti sonorimasti i waffle, l’hamburgeral formaggio e i wurstel. –

Vogliogiustizia,nonwaffle,–dice,aboccapiena.

–Malagiustizianonècosísquisita, – ribattemio padre,che ame invece raccomandasempre di non parlare alla«cosa», soprattutto sevogliamocheCarlmangi.–Ela giustizia non sarà mai ilpasto principale dellagiornata.

–Noisiamoimorti,–diceCarl. – Dov’è il sacrificio di

sangue che attendiamo? Checosaavetefatto,oggi,pernoi?

–Ibravibambiniadoranoi waffle, – dice mio padre,ingozzandolo.Fraunbocconeel’altroinfilovelocementeuntovagliolo per catturare lebriciolee lepallottoledi cibomezzo masticato che glicadonodi bocca. È piú faciletenerlopulitomentremangiapiuttosto che ripulirlo dacapo a piedi dopo. L’unica

volta che abbiamo provato ametterlonellavascadabagnosièribellatocomeungatto,ebasta la vista di una spugnaperché cominci a scalpitare ericoprirci di insulti. Io tengogliocchibassi e cercodinonascoltare il rumore cheproduce, brani di canzonimormorate con dieci vocidiversee suoni chenonsonoparole. Ma proprio mentrestiamo per finire, trattengo

troppoalungolosguardosulvolto di mio figlio, e i suoiocchi, che fino a quelmomento hanno roteatovorticosamente, comeseguendo una scena in unmondo fantastico tuttodentro di lui,improvvisamente aggancianoi miei. È sempre moltodifficiledistoglierelosguardo,inquesticasi.

– Ami tuo figlio? – mi

chiedonolevoci.Mio padre mi sibila un

inutileavvertimento.Socheèuna trappola, ma è unadomandaacuinonriescomaianonrispondere.

– Lo sai benissimo, – glidico.

– Un bel modo didimostrarlo, abbandonarlo.Ci sono vari livelli diabbandono e tu sei andatooltre, non negarlo.

Praticamente è uno di noi,adesso.

Mio padre scuote la testa.–Lacolazioneèfinita,–dice.Mette la cloche sul suovassoiodamaggiordomoevaverso la porta. – Forza, –miingiunge,poichésonoancorasedutosulletto.

– Vengo fra un attimo, –glidico.

– Non serve a niente, –dice lui. – Non è… – Non

finisce la frase e si limita ascuotere di nuovo la testa.Sembra terribilmente triste,mentre Carl sfoggia unsorrisodiabolico.

–Scendosubito,–dico.– Maledizione! – replica

miopadre,echiudelaporta.– Maledizione, sí! – dice

Carl. – Maledetta la tuainfedeltà, la tua memoriacorta, il tuocuorestriminzitoed egoista, e… ah! –

Interrompo la tiratachiudendomi il cassetto delcomodinosuldito.Mentre lofaccio, vedo i lineamenti delsuo viso distendersi eritornare quelli di unbambino, prima ancora che isuoi in particolare. Sulprincipioilsuovoltoèintrisodi stupore e piacere, poisprofonda in un’espressionedi tristezza e confusione, eCarl comincia a singhiozzare

comeunqualunquebimbodinove anni, senza elevarelamenti funebri degni di uncorotragicooemetteresuonistriduli da vecchietta. Ognivolta che succede reagiscesempreallostessomodo,conun misto di sonno,confusioneetristezza.

Piange,siguardaintornoemiriconosce.

–Papà,–michiede,–cheore sono?Che ore sono? – È

esattamente quello che hadetto quando si è risvegliatodall’operazione.

Dico: – Le nove,campione.Saràunabellissimagiornata –. Me lo metto inbraccio e lo tengo strettomentrepiange.Daquantosiègiàgonfiatoilditodeducocheabbiamoalmenoun’ora.

Una notte è andato a

dormirecheerailsolitoCarl,unbambinodinoveanninonproprio normale perchéleggeva troppo, odiava glisport eavevauna fantasiaunpo’ macabra, e la mattinadopo si è svegliato che eraun’altra cosa: uno spiritovendicativo, migliaia disconosciuti arrabbiati, unchangeling, un bambinoscambiato 1. Avevo bussatoalla sua porta per svegliarlo,

come sempre, ma non eroentrato in camera fino aquando, a soli venti minutidall’arrivo del pulminoscolastico, non era ancorasceso di sotto. Lo trovai aletto, un mucchietto sotto lecoperte.Di solito voleva direcheerastatosveglioaleggerefino a poche ore prima.Miopadre e io controllavamosempre che avesse le lucispente, ma Carl teneva una

decina di piccole torceelettriche disseminate per lacamera,enonriuscivamomaiascovarletutte.

– Ehi, campione, – gliavevodetto,–seisveglio?

– Siamo svegli, – era statala risposta, e non mi eroaccorto che la voce fossediversa perché era soffocatadalenzuolaecoperte.

– Be’, Vostra Altezza, ilpulmino sarà qui tra venti

minuti. Perciò diamoci unamossa –. Negli ultimi tempiaveva letto forsennatamentelibri su Elisabetta I, e miopadre una volta l’avevaaddirittura sorpreso con unavecchia camicia da notte disua madre e un paralumecapovolto intorno al collo,chedettava leggeallapropriaombra riflessa. Pensavo cheavesse usato il pluralemaiestatis.

– Noi non viaggiamo inpulmino,–avevadetto,epoisi era seduto, tirando su ilbusto, sempre avvolto nellacoperta. Prima ancora che sivoltasse verso di me, lacopertacadesseelovedessiinfaccia,mi ero preoccupato. –Eneppureinautomobileoinaereo. Noi ci spostiamo colvento che si alzò quando letorri crollarono, e non ciacquietiamomai.

Aveva uno sguardodistante, e mi fissava noncome se non mi conoscesse,ma come se mi conoscessebenissimo e non gli andassiaffattoagenio.

– Carl, – avevo detto, –piantala.Nonfaridere.

– Se ne è andato, – avevadetto lui.–Nonpreoccupartipiúdeldovuto,connoisaràalsicuro.

Avevo aperto la bocca per

fargliun’urlata,ederoandatoverso il letto intenzionato adargli uno scossone,chiedergli di farla finita.Piantalaconquestestronzate,ero stato sul punto di dirgli,sebbene non usassi parolaccecon lui, o davanti a lui, daprima che sua madre se neandasse.Mainqualchemodoavevo capito che non stavacercando di farmi ridere, eche quello strano

comportamento non eravoluto. Era molto diversodalle altre volte che avevafatto finta di essere qualcunaltro: un re o una reginamorti, Zanna Gialla, MissPiggy… La lista deipersonaggi in cui si erafugacementecalatoeramoltolunga. Trovava qualcuno inun libro o alla tv che glicolpiva la fantasia, e subitodecideva di essere come lui.

Maprimadiallora,contuttiisuoi sforzi, non era mairiuscito a sembrare unapersona cosí diversa da sé.Non gli feci un’urlata. Nonrimasinemmenonellastanza.Andaiachiamaremiopadre.

Carlsitrattieneperunpo’.Allafineanchequestavoltasiè calmato, come sempre, eparliamodiquellochegli sta

succedendo, e della suamalattiaedelfattochedormacosí tanto. E, come sempre,luidicediesserecertissimodiaver sognato, solo che deisogni non ricorda neancheuna scena, né se fossero belliobrutti.Tuttelevoltechehodi nuovomio figliomi piacesemplicemente starmenesedutovicinoaluiaparlarediniente, o sentirlo raccontarequalche storiella affascinante

dipresidentioremorti,comefaceva ai vecchi tempi,quandoeraunacosanormale.Alla lunga, però, la miapresenza lo annoia, e siarrabbiaperchénon lo lascioandare a scuola, fare un giroin bicicletta, far visita a unamico o leggere per contosuo.Percalmarlodisolitoglileggo qualche paginasoporifera di una biografia,finchénonspariscedinuovo.

Oggi invece lo porto a fareunapasseggiata.

– Perché devo stare inquesta stupida carrozzella? –michiede,mentrelolegoallasuaelegantesediaarotelle.Èuna specie di regalodell’ospedale. L’abbiamopagata, intendiamoci,ma peraverla abbiamo dovutoaffidarci ai buoniuffici diungiovane specializzandoentusiasta,ilqualehainsistito

chenonc’eraragionepercuiCarl dovesse starsene semprechiusoincasa.Èunadiquellesupercarrozzelle cheriservano ai bambini spastici.– Sembro un ritardato, – hadettoCarl.

– Potresti addormentarti,–glidicomentreglistringolacintura. Non gli è maicapitato di addormentarsifuori casa, ma se fosse ingrado di scendere facilmente

dalla carrozzella potrebbeinseguirequalcunoalgridodi«Fuoco su Babilonia!» Glidico: – Lo sai come succede:giochi a tennis, e da unmomento all’altro tiaddormentiprofondamente.

–Maquesta ènarcolessia,–dicelui.–Holanarcolessia?

–Nonproprio,–rispondo.– Ma dormi tanto. Però vameglio.

– Io odio il tennis.

Quand’è che ho giocato atennis?

–Eraunafiguraretorica,–rispondo, e sento i passipesanti di mio padre cheentra in camera. Di solitoquando Carl torna fra noinonsi favedere,eseCarlmichiede di lui gli dico che èandato a fare un giro inmacchina, o a comprarsi unanuova dentiera, o a unappuntamento con una

signora di centocinque anni.–Guarda chi è tornato, – glidico.

–Seipazzo,–midice,cosípiano e cosí vicinoall’orecchio che penso diessere l’unico a sentirlo. – Èuno sbaglio. Ci hannospiegatochenonbisognafarecosí–.Mistringonellespalle,eruotolasediaarotellecomeperconsegnarglisuonipote.Èl’unica risposta che riesco a

dargli, ilmiomodo di dirgli:«Guarda, non m’interessaquello che ci hanno spiegatoinospedale, tantononhannocapito un cazzo di niente.PeròCarlèdinuovoqui,perunpochino».

–Guardami,nonno,–diceCarl.–Sonounritardato.

– Il ritardato è quello inpiedi dietro di te, – ribattemio padre, poi si china e lo

stringe in un abbracciomortale.

– Ahia! – dice Carl. –Guarda che torno! – Senzaaggiungerealtro,miopadresigiraeva fuori, sul retrodellacasa, a spaccare legna. Èancora troppo presto nellastagioneper fare il fuoco,maquandoèmoltoarrabbiatoluifa sempre cosí. Abbiamo giàuna catasta sufficiente pertuttol’inverno.

– Dove vuoi andare? –chiedo aCarl,mentre spingola sedia a rotelle lungo larampa provvisoria checonduce dalla porta dellacucinaalvialettod’ingresso.

–Inqualipostiètantochenon vado? – chiedeallegramente,emicolpisconola velocità con cui sembraessersi ripreso dal suostraniamento, e la sua ariacosí normale. Si fa fatica a

crederechecisiaqualcosachenonva.

–Intutti,–glirispondo,ilche è vero, e decidiamo diandare fino al fiume, maappena arrivati al parco diceche si vuole fermare e michiede se può andare sulloscivolo. –Meglio di no, – glirispondo. –Èbello alto.E sepoitiaddormenti?

– Scivolo giú! – rispondelui,eaquelpuntononsoche

cosa ribattere. O forse hoallentato solo la guardia enutro l’infondata speranza,non basata su alcunaesperienza precedente, cheCarl rimanga sempre cosí.Non faccio in tempo aslegarlo dalla carrozzella, cheun aereo vola sopra le nostreteste un po’ piú basso delnormale;Carl si rannicchia ecercadibuttarsidalsedileperschivarlo.–Staigiú!–urla.–

È in cielo… arriva! –Abitiamo lontano daqualunque aeroporto e quelvelivolo non ha nessunaragione di essere qui, né dipassare cosí vicino a terra.Vuole solo torturarci. Perciògli urlo contro mentre cisorvola. Le mamme e lebambinaie distolgono losguardo dai loro pargolettiper puntarlo su di noi, e intutto il parco giochi cala il

silenzio mentre il rombo deljet si affievolisce. Poi Carl sirialza e chiede: – Che cos’èstato? – e il parco torna ariempirsideisolitirumori.

– Solamente un aereo, –rispondo, allacciandogli dinuovo la cintura, quindispingo la carrozzella versouna panchina e mi siedoaccanto a lui. Non accennapiú allo scivolo. Negli occhiha già uno sguardo d’accusa,

ma la voce è ancora la sua.All’altrocapodelparcogiochiun bambino fa rimbalzareunapallarossa,eCarlmidicecheunannomarzianoèquasitre volte un anno terrestre,primadismetteredeltuttodiparlare. Non voglio tornaregiàacasa.Nonvogliovederlodi nuovo in trappola, nellasua stanza da ospedale nellanostra casa-ospedale, e nonvoglio finire anch’io

intrappolato insiemea lui.Levociricompaiono,maintornoalla panchina non c’ènessuno.

– Colpevoli, – dice,puntando il dito contro lemamme e le bambinaie. –Colpevoli,colpevoli,colpevoli–.Ilbimbodellapallalacalcianella nostra direzione e simette a rincorrerla. Io lacalcio a mia volta perrispedirgliela ma il bimbo

continua lo stesso adavvicinarsi,ignoralapallachegli sfreccia di fianco e sipianta davanti a noi, tre oquattro anni, sorridente,senzadireunaparola.–Noncolpevole, – dice l’entità. –Perora.

Al pronto soccorso, dopoaverlo sottoposto a unacaterva di esami che

risultarono tutti normali,diagnosticarono a Carlun’alterazione dello statomentale. Alla fine mi fecerocapire che non sapevanoquale fosse il problema, mache un problema c’era, amenochenonfossetuttaunafintadapartediCarl, laqualcosa consideravanoperfettamente possibile. Iopensai che doveva essere unmalato immaginario ben

convinto, per farsi fare unaparacentesi spinale. Durantel’esame Carl era rimastoperfettamente immobile,senza neanche stringermi lamano, sebbene gli avesserofatto solo una piccolaanestesia locale alla colonnavertebrale.Quando ilmedicoa metà gli aveva chiesto seandassetuttobeneCarl,avevarisposto:–Noisiamoimorti,echecos’èunagoaconfronto

di un aeroplano di settantatonnellate? O di due? Bucapure, dottore.Quelmalenonpuoifarcelo.

Mandarono a chiamare lapsichiatra,elanostravisitainospedalepreseun’altrapiega.Fuoridalla camera si sistemòinpiantastabileunpoliziotto,e tutti, tranne una gentileausiliaria di nome Rebecca,cominciarono a trattarci inmodo un po’ diverso. Penso

chefosserointimoritidaCarl,dallecosestraneeterribilichediceva,a loro edi loro, e daltimbro elettrico della suavoce. Io avevo ancora troppapaura per lui, per averne dilui.

Laddove i medici delpronto soccorso avevanocercato di capire che cosastesse succedendo pungendoCarl, riempiendolo di aghi edi radiazioni, la psichiatra si

limitò a parlare. Volevasapere tutto – tutto – di noi.Era solo il tardo pomeriggio,ma la specializzanda chebeccammo aveva l’aria tipicadi chi lavora nel cuore dellanotte: sfinita, stufa e pernientecontentadiavereachefare con noi a fine turno.All’inizioparlòcontuttietre,poi con ciascunoseparatamente: prima conme, poi con mio padre e

quindi con Carl. Durante ilnostro colloquio la suapiccolamatita gialla svolazzòfreneticamentesultaccuino,equandoledissideldivorzioepoidellamortedimiamadreemise dei versi partecipi edisse piú volte: «Quante coselesonocapitate,direcente»,epoi: «Quante cose gli sonocapitate, di recente». Noncapivo bene se si riferisse a

miopadre,aCarloperfinoame.

Da ultimo parlò conCarl,spedendo mio padre e mefuori dalla stanza erichiudendo la porta; con ungesto consumato fece cennoalpoliziotto,chesieraalzato,di rimettersi seduto.Rimanemmo a camminareavanti e indietro davanti allaporta, cercando di non darfastidio agli altri pazienti

ricoverati in emergenza,finché Rebecca non cicondusse a una piccola salad’attesainfondoalcorridoio,che però era troppo lontanada Carl, cosí dopo cinqueminuti, senzabisognodidireniente,cialzammotuttieduee tornammo davanti allacamera, dove restammo inpiedi senza fare rumore. Laspecializzanda ne uscí inlacrimepochiminutidopo.

–Che cos’è successo? – lechiesi.

– Devo parlare col mioprofessore, – rispose, e siavviò giú per il corridoio. Insala visita, Carl era distesosulla barella e guardava undisegno di Elmo che losalutava simpaticamente dalsoffitto.

–Che cosa le hai detto?–glichiesi.

– Quello che diciamo a

tutti, – risposero le voci, masenza guardarmi. –Anche tupiangeraiascoltandoilnostromessaggio, e ancora piúintensamente,perchései tu ilnostrodestinatario.Siamoquiperchétucihaichiamati,conla tua infedeltà, e quirimarremo finché nonrimedierai al tuo errore consincerità e sacrificio –. Midissequestecosetenendomiildito puntato contro, sempre

senza girare la testa, e per isuccessivi dieci minuticontinuò a seguirmi col ditodovunque mi spostassi nellastanza, e quando mio padrecercò di ripiegargli il bracciosul petto non riuscí amuoverlo. Passarono altridieci minuti e laspecializzanda ritornò,dicendo allegramente: – Loricoveriamo! – come se fosse

la notizia piú bella delmondo.

Il pranzo prevedemaccheroni al formaggio. Lipreparosulmomento,piúperfar piacere a me che a Carl.Lui li preferisce precotti,anche in condizioni normali,ma io amo grattugiare ilformaggio e far bollire lapasta, e trovo che stare a

girarla, con quel continuomovimento circolare, abbiaqualcosa di rilassante. Miopadre fuori sta ancoraspaccando legna, ma harallentato parecchio il ritmo,e pur non vedendolo dallafinestrasonosicurochepassala maggior parte del suotempo seduto su un ceppomesso in piedi, con la lamadell’accettaappoggiataaterrainmezzoallegambe, lemani

unite sulla sommità delmanicoeilmentosullemani,gli occhi fissi sui boschi inlontananza.

Il mezzogiorno per noi èsempre un momento dipausa. Iomiperdo a renderecomplicate ricettesemplicissime, mio padre faun sonnellino o suona lachitarra, e il sole alto ha uneffetto calmante sull’entità.Carl adesso è tranquillo in

camera sua, non legato,seduto sul bordodel letto. Seglielo lasciassimo farestarebbecosíperore.

PensoallamadrediCarlecomesempremichiedodovesia,eseavrebbefattoqualchedifferenzapoterlarintracciaree chiamare al capezzale delfiglio. Lui non la ricordavaquasi, e non chiedevamai dilei, il che, secondo quellidell’ospedale,eraunodeisuoi

problemi.Tuttelevoltechecirifletto, di solito giungo allaconclusionecherenderebbelecose piú difficili, perché eraunadonnaveramentestranaeunamalattiacomequestaeranellesuecorde.Miècapitatopiú volte di pensare cheprobabilmente sarebbe statainvidiosa di Carl e chel’avrebbe voluta avere lei alsuoposto.

– Questa stronzata deve

finire, – dice mio padre, allemie spalle. Senza smettere dimescolare i maccheroni migiroaguardarlo,conilmezzosospetto che abbia portatol’accettaperdarepiúpesoallasua richiesta, invece ha lemanivuote.Mirigiro.

–Ognivoltarimaneunpo’piú a lungo, – dico. – Hainotato?

– Parli come se non fossesempre qui. Come se non

fosse sempre lui,maqualcunaltro.

Mistringonellespalle.– Stare al suo gioco è la

cosapeggiore,losai.– Non so un bel niente.

L’unicacosacheso,daunpo’ditempoaquestaparte,èchecosafunzionaecosano.

– La tua soluzione nonfunziona,–dicemiopadre.–Nonèunpassoavanti.Gli famale.

– Vuoi aiutarmi a portarsuquesti?–Nonmirisponde,e quando mi giro perchiederglielo di nuovo èsparito. Tendo l’orecchio alrumore dell’accetta ma incasa c’è un silenzio assoluto.Rimango ancora un po’ lí inpiedi, a mescolarefuriosamente, chiedendomicome faccia mio padre aguardare Carl e pensare cheabbiaunsubstratopatologico

tale da prodursi inquest’involontaria assunzionediruolo,questarovinatotale,questo flagello. Non so checosasiapeggio,opiúdifficile,da credere: che un ragazzinopossa essere traumatizzato alpunto da albergare dentro disé la tristezza e la rabbia chel’entità ci comunicaquotidianamente, o chemigliaia di esseri umanipossanoesserefusiinsiemeda

unabomba incendiaria inuncoacervodispirititormentati,affamati di una giustizia cheriescono a concepire solo interminidipunizione.

Nonsoquantevolte,nelleultimesettimane,hocucinatoi maccheroni al formaggionella stessa pentola, sullostesso fornello, alla stessa oradelgiorno,maaquantoparemiaccorgosoloadesso,perlaprima volta, della

temperatura altissima cheraggiunge il fianco dellapentola, e ci tengo attaccatol’avambracciofinchéresisto,epoi un’altra volta finchéresisto, prima di portare lascodella al piano di sopra.Non sapendo in quale partedella casa si trovimio padre,non mi lascio mai scappareunfiatosenondentro lamiatesta, ma non ho neppurebisognodimostrargli lapelle

ustionata, che Carl è giàtornatoinsé.

– Parliamo di nuovo diquel giorno, – aveva detto aCarl il dottor Sandman. Io liosservavo da dietro unospecchio unidirezionale,insiemealrestodell’«équipe»:due specializzandi,un’infermiera professionale,un assistente sociale e un

ridicolo studentedimedicinache dimostrava duemesi piúdiCarl. Eravamo in ospedalegiàdaunasettimanaemezzae conoscevo ormai moltobene la loro stanza da agentisegreti. Gli avevano fatto unmucchio di domande, loavevano osservato quando sene era stato per conto suosenzatoccareigiochidivariogenere che gli mettevanodavanti,quandoavevaridotto

in lacrime un altrospecializzando, quando erarimasto seduto a fare nientedi niente. Mi avevanoosservato mentre gli parlavo,e avevano ascoltato la cosache stavo cominciando aconoscere come «l’entità»elencare tutti i peccati damecommessi come persona,padre e cittadino, gli infinitimodiincuiavevodelusotuttequellemigliaiadisconosciuti.

Io continuavo a dire: «Carl,Carl,escifuoridilí»,anchesenon avrei dovuto, non avreidovutoinalcunmodoturbareCarl o suggerirgli che cosafare. Mi dicevano semprecome non dovevocomportarmi con lui, esempre in manierasquisitamente gentile: «Forsesarebbe il caso che nonalzasse la voce con lui».«Forsesarebbeilcasochenon

gli dicesse che la faarrabbiare». «Forse sarebbe ilcasochenonglidicessecheètristeacausasua».

– Quel giorno siamo nati,– aveva detto Carl,sorridendo.

–Ah,davvero?–gliavevachiesto il dottor Sandman.Era un omone, quasi diecicentimetri piú alto di me,almeno venti chili piúpesante, e non grasso.

Sembrava piú adatto ascovare delinquenti fuggitidurante la libertà vigilata chea far emergere il doloresegretodeibambini.

– Certo. Siamo nati nelfuoco nelmomento stesso incuivisiamomorti.

–Sí,questomel’haidetto.Matu,checosastavifacendo?Checosastavasuccedendoincasa quando hai saputo degliaerei?Èpassatomoltotempo,

mateloricordi?–Avevafattole stesse domande anche ame,nellastessastanza,primachemiconducesserodall’altraparte del vetro. Mi avevachiesto se avevamo lasciatocheCarl vedesse le immaginitrasmesse in televisione degliaerei che si schiantavanocontro gli edifici, e avevorisposto che noi no, maqualcun altro sí. Sua madre

aveva voluto che le vedesse.Pensavachefosseimportante.

–Altridimenticano,–Carldisse a Sandman, – ma noino, mai. Che cosa stavamofacendo? Di tutto. Non puoicapire. Tu sei una personasola, lo sei sempre stato, noisiamomigliaia.

– Aiutami a capire –.«Quindi la madre di Carl èandata via dopo… ildisastro?»,miavevachiesto,e

io per la prima volta avevorispostodisí.E ildottoreerarimastosedutoperunminutopieno a martellarsi la matitasuidenti.

– Noi aiutare te? Te?Noisiamo morti, tu sei vivo. Ildovere morale è un fattomatematico. Perché noncomincituadaiutarenoi?

– Ci sto provando.Parlandoti –. «Adesso chiedemaidisuamadre?–miaveva

chiesto Sandman. – Chiedemai dove sia?» Gli avevorisposto che in realtà nonparlavamoungranchédilei.

– Le parole non bastano.Leparolenonfannogiustizia.Avevate promesso che tuttosarebbecambiato,migliorato,invecetuttoèrimastouguale,o peggiorato. Adessoesigiamosoddisfazione,cheleparolenonciprocurano.

– Parlare è il modo

migliore per sentirsi meglio,Carl, – disse il dottorSandman.–Fidati.

IlrisultatofucheCarlnondissepiúniente,limitandosiagettare occhiate furibonde ingiro per la stanza, e cheappena Sandman parlava loprendeva in giro mimandoconlamanoalzataunaboccastarnazzante. Sarebbe il casoche non gli dicesse di fidarsi

di lei, pensai. Sarebbe il casochenonlochiamasseCarl.

Tornati in camera, misedettiadaspettaremiopadreche stava venendo a darmi ilcambio. Facevamoun giornoper uno, in modo che Carlnon rimanesse mai da solo,ma era comunque piúfaticosocheacasa,perchéquinon stavamo un attimolontani da lui. Aveva uncompagno di stanza, un

bambinocalvodiseiannichesembrava piú particolare chepsicotico. Un’infermiera conlalingualungamidissechesiera strappato tutti i capelli ese li era mangiati. Chiamavamio padre e me «signore», eper il resto non ci rivolgevamoltolaparola.

Quel pomeriggio miaddormentai sulla sediaaccanto al letto di Carl, cheera molto silenzioso,

probabilmente ancoraarrabbiatoperl’interrogatorioa cui l’aveva sottopostoSandman. Il mio sonno fubreve.FuisvegliatodallavocediCarl,emiresicontosubito,prima ancora di esserecompletamente lucido, cheaveva qualcosa di diverso.Aveva sempre una notaelettrica e corale, però eragentile, o perlomeno nonaccusatoria,enonarrabbiata.

– Ogni promessa èinfranta,–stavadicendoCarl,– ma noi dobbiamoraccogliere tutti i cocci elegarlidinuovoinsiemeconilsangue.

– Ame piace il sangue, –disseunavoceallemiespalle,e capii che Carl stavaparlando allo strano bimbocalvo.–Sonofelicequandolobevo.

–Noinonsiamomaifelici,

–disseCarl.–Seberesangueè motivo di felicità perqualcuno, noi diciamo,lasciate che ne godano, ma imieilaccidisanguenonsonorossi. Sangue significasacrificio. Tutto il resto èirrilevante, o uno sbaglioancorapeggiore.

– Sei uno spirito triste, –disse il bambino. – Forse timanca tuo fratello, come ame.

–Tutticimancano.Siamouna moltitudine ma siamoradicalmente soli.Nondimeno, è vero, anchel’infedeltà dei fratelli ciaddolora.

– Spiriti tristi! Quanti nehoconosciutiquandoeropiúpiccolo.Alloraanche tuparlila lingua del dolore? – E ilragazzino cominciò arivolgere a Carl un suono a

metà fra il singhiozzo e illatrato.

– Noi parliamo tutte lelingue,–disseCarl, e simisealatrareesinghiozzareanchelui in risposta al bambinocalvo. Mio padre varcò laporta,pensando,neerocerto,che le cose non potevanomettersipeggiodicosí.

– È ora che vada,campione, – dissi, e mi alzaiin piedi troppo velocemente.

Sbatteifortelatestacontrounpesante lampadario appesosopra il letto di Carl, chemifece un male cane. Urlai: –Cazzo! – Sentendo laparolaccia, presunsi, Carlspalancò gli occhi, i latratidiventarono normalisinghiozzi, e per la primavolta in una settimana emezzaliriconobbicomesuoi.Con la sua vera voce michiesecheorefossero.

Mio padre, da quando loconosco, non rimane mai alungo in collera con me,anche quando è dalla partedella ragione. A cenacuciniamo gli spaghetti,perchéCarlèancoraqui,pursapendo che pasticcio neverrebbe fuori se dovesseandarsene di nuovo. – Checos’haifatto?–michiedemiopadre,guardandomilemaniela faccia piena di lividi alla

ricerca di qualche nuovosegno,ma l’ustione è copertadallamanica.

– Niente, – dico io. –Proprio niente. Carl è…tornato. Tutto lí –. Poi,sapendochenondovreifarlo,aggiungo: – Forse è finita.Forseèsemplicementefinita.

Quando Carl torna è piúdifficile dargli la medicina,ma va presa all’ora di cena.Prima di ingoiarla versa

qualche lacrimuccia, ma ciònon influisce minimamentesul mio buon umore, né suquello di mio padre, chetrasmettiamoanchealui.

– Sa di piedi! – esclama,però intanto sorride.Perunavolta mangiamo alpianterreno, dove mio padreprepara la tavola come peruna grande occasione, con ipiatti belli e le candele. Carlarrotola la pasta con gesti

sapientiefingediesserestatoincomaperdiecianni.

–Abbiamofinalmenteunadonnapresidente?–chiede.

–Sí,–rispondemiopadre.–Unanera.

– Perfetto! E la luna èabitata?

–LoèancheMarte,–dicoio.–Lasuaterraformazioneèinatto.

– Fico, – dice. – E ilcancro?

– Sconfitto, – rispondemiopadre.

– Era ora, – dice Carl. –Quanteguerresonoincorso?

–Nessuna,–rispondo.–C’èpaceovunque,–dice

miopadre.– E nessuno muore di

fame,aparteiteenagercheamodo loro lo vogliono, –aggiungo.

– Un mondo perfetto! –dice mio padre. Ridendo si

buttaall’indietro,alzailcalicee brinda alla nostra salute.Sorrido anch’io, ma conimbarazzo, perchéd’improvviso capisco chestiamo tutti fingendo, e cheforse per una famiglia non èla cosa piú giusta da fare.Come a un mio segnale, ilsorriso si spegne sul volto diCarl, che ghigna e urla: –Bugiardo! – con la sua voceelettrica.

Èsolounattimo,magettauna cappa di tristezza sulresto della cena. Nonfacciamo piú giochi, eteniamo a freno laconversazione. Carl ci spiegacomefunzionaunadinamo.

Sfrutto gli ultimi minutidella sua presenza per fargliun bagno veloce; quando loportoalettoègiàandatovia.–Che cosa hai fatto per noi,oggi?–michiede,mentregli

fissiamo le cinghie per lanotte. – Hai attuato ilcambiamento che ti avevorichiesto?

–Notte!–dicemiopadre,ebaciaCarlsullatesta.Carlsigira e sputa, poca robama ilversoèrumoroso:«Ptu!»Miopadre resta ad aspettarmisulla porta, con l’aria truce,pronto a vedere quale nuovaferitaintendaprocurarmi.MichinoperavvicinarmiaCarl.

– Mi stai spezzando ilcuore,–glidico.

–Sí,– ribattono levoci.–In duemila novecentonovantottopezzi.

Non ero stato l’unico alasciare l’ufficio. Sparimmo adecineperandaredallenostrefamiglie il giorno in cui ilmondo finí. Arrivai presto acasa.LamadrediCarleragià

andata a prenderlo. Lamaestra aveva telefonato inpreda al panico, come se iprossimi a essere colpitidovesseroesseregliasili.

Mi aspettavo di trovarlioccupati in qualche normaleattività, come impastare ibiscotti,giocareaungiocoinscatolaoleggereunastoriaingiardino. Non so perché miaspettavo che sua madre gliavrebbe creato intorno

un’atmosfera di pace, o chel’avrebbe preparata per me.Come ho detto, era unadonna strana già prima disuperare ogni limite ediventare una pazza egoista,primadipartireperilviaggioin cui non permise a me eCarl di accompagnarla. Unfatto come questo lei loaspettava da tutta la vita, erala conferma che il mondo

esterno era incasinato comequellocheavevadentro.

Entrai dalla porta e li vidiin piedi, mano nella mano,davanti al televisore, cheguardavanoireplaydelcrollodelletorri.

–Vedi? – stava dicendo aCarl.–Èpropriocomepensoio: il kairos che irrompe neltempo per fare la storia. Loriesciasentire?–glichiese,etremòtutta.

– Papà! – esclamò Carlquandomi vide. – Là dentrocisonodellepersone!

Avevatreanni.

La casa è vecchiama nonmolto grande. Per svegliaremio padre ci vorrebbero legridadei torturatie iohodeitappi per le orecchie, ma hopaura a metterli perché seCarl torna in sé nel cuore

della notte lo voglio sentire.Me ne sto disteso adascoltarlo farfugliare e pensochenonsuccederàmai.Palpola bruciatura sul polso erimpiangodiaverdettoquellabugia a mio padre, che Carlera migliorato, che la cosadentro di lui si era stufata dinoi e se n’era andata, gratis,senza prezzi da pagare pernessuno. Mi domando comesarebbeandatasequelgiorno

avessimo cucinato biscotti,giocato e fatto finta che ilmondo non fosse cambiato,come sarebbe andata se suamadrenonciavesselasciati,ese l’alone di caos chesprigionava gli avrebbegiovato piú della monotonatranquillità di cui l’abbiamocircondatoioemiopadre.Midomando se sarebbe servitochiedergli ogni giorno seavevanostalgiadellamamma,

se credeva che l’avessi spintaio ad andarsene, se avevapaurachefossemorta.

La risposta a questedomandeèsemprechenonloso, e normalmente miassopisco al mormorio dellevoci, angosciato dalmio nonsapere, non sapere che sbagliho fatto in passato, stofacendo ora e farò domani,permeritarmi ilperduraredi

questasofferenzadimiofiglioemia.

Stanotteinvecerimangolí,paralizzato e senza requie,finché del tuttoinaspettatamente il nonsapere si trasforma in unacertezzaluminosa,emisentocome se prima mi fossisempre addormentato troppopresto per permetterle diposarsi su di me, nel mioletto, insieme a una certa

consolazione. Mi alzo, vadonella camera di Carl, glislacciolecinghieelotirosuasedere.

– Che cosa vuoi? – glichiedo.

–Losai,–diconolevoci.–Te lo ripetiamo tutti i giorni.Giustizia. Soddisfazione.Vendetta.

–Checosavuoi?–chiedodinuovo,equestavoltaglidounabottarellasulpetto.

–Losai!–Dimmelo!– Avevi assicurato che

sarebbe cambiato tutto,inveceèrimastotuttouguale.Dovevi tirare fuori il latomigliore di te, e dov’è finito?Pagaci il nostro tributo disangue.Riportaloqui!

–Chi?Miofiglio?–Sciocco!Testesso!– Io voglio solo riavere

miofiglio,–dico.–Ridammi

mio figlio –. Gli do un’altraspinta, piú forte, che lo facadere indietro sulla testierache abbiamo imbottito dicoperte,elevocisimettonoaridere.

–Provacicheseidegnodilui. Provaci che sarai diverso–. Le voci ridono di me, eridonoeridono.AfferroCarlper il bavero del pigiama, lotiro fuori dal letto e me lotrascinodietrogiúdallescale,

fino in cucina, senza che luismetta un attimo di ridere, ementre lo tengo attaccato ame come un fantoccio miguardo intornofreneticamente: i coltelli perla carne, il forno, ilmicroonde, l’aspirapolvere…cercodipensareacosapotreifareperaccontentarlo,aqualeprovadefinitivapotreidargli,per riaverlo indietro persempre.Lofacciousciredalla

porta, scendiamo i gradini,giriamo intorno alla casa eandiamosulretro.

Pioviggina ma non fafreddo. Le nuvole basseriflettono il bagliore deilampioni e l’intero cortile èimmerso in una luce soffusacolor arancione. Spingotroppo bruscamente Carlcontro la parete di legnaordinatamente impilata damiopadre,sufficienteperdue

lunghi inverni. Miinginocchio di fianco a lui eprendo l’accetta. Carl hasmesso di ridere e disorridere.Hagliocchifissisudime.

– Codardo, – dice. –Sciocco. Spergiuro –. Ma levoci parlano in un sussurro.Appoggio la mano in cimaalla catastadi legna, guardo ilividi e le bruciature, e mirendo conto che finora ho

lasciatol’altraintatta, integra,echelamaggiorpartedelmiocorpo non è stata né sfioratané segnata dall’ordalia diCarl.

Passo l’accetta nellamanoferita.Nonè facilecomecisipotrebbe augurare, un colposolo e via. Non so quanti nedo: tre o quattro, credo, mami sembradi stare facendo apezzi con infinita faticaqualcosa di molto piú

persistente di un pezzo dicarne e di ossa.Mi guardo ilpolso solo per dare il primofendente, dopodiché trovo ilpunto senza bisogno diguardare. Tengo gli occhi suCarl,sullacosadentrodilui,ea ogni colpo chiedo aentrambi:–Vibasta?–Equelche voglio dire, credo, è: vibasta come prova che amomiofiglio,chesonodegnodiriaverlo indietro, che sono

sincero quando prometto diprendermi maggior cura dilui,chepromettodiessereunpadremigliore,diestirparedame la colpa che l’ha buttatofra lebracciadiquesteanimefurenti che sono morte perrenderci tutti cittadini delmondo, e che sarò miglioreanche nei loro confronti, eche vivrò sempre portando ilpeso del giorno della loromorte, se oggi essere giusti

significa questo? – Maledettibastardi!–urlo.–Vibasta?

Il viso di Carl cambiaespressione:primaèorgoglio,poi curiosità, poi sembra chesistiaabboffandodelsangue,della rabbia e del dolore chesono nell’aria. La faccia glidiventarossa,pienaesemprepiú compiaciuta, finché dipunto in bianco si spegne eassume l’espressioneopposta.Il ghigno sulla bocca si

contrae in una O di pena edispiacere, e rotea le bracciacome se stesse cadendo dalcielo, come se stesse cadendodi nuovo dentro se stesso. Ilcorpoèpercorsodallatestaaipiedi da un sussulto, el’espressione del viso hasubito un cambiamento cosíradicale, che ho la certezzache non sia rimasto nulla diestraneo in lui. Tendospasmodicamente l’orecchio

alsuopianto,percapiresec’èancora traccia dell’entità, alpunto che mi dimentico direspirare e di piangereanch’io, e non misorprenderebbe se midimenticassi anche disanguinare.Poimirovescioaterra accanto a lui, il polsopremutocontroilmiofianco,e non riesco a tirar fuori leparoleperdirglicheoresono,néperrispondereamiopadre

che è uscito conuna torcia eche riempiendomi diimproperi mi chiede checos’hofatto.

1 Nella tradizione nordica ilchangeling, che nella versioneoriginaledàiltitoloalracconto,èilbambino magicamente scambiatonellacullaconunaltro,oconunacreaturafantastica[N.d.T.].

UneroediChickamauga

Nonrimanemoltoaltrodafare, una voltamorti, a partedistendersisulfiancoevedere

il resto della battaglia. Misono fatto beccare subito, ilprimo giorno diChickamauga. Una fineingloriosa,acuimiopadreeimiei fratelli non sirassegnerebbero mai. Lorostanno ancora caricando,sparando e avanzando in unterreno dove i Ribellispuntano da tutte le particome la gramigna. –Uccidetene uno per me,

capitano! – ho urlato a miopadre, cadendo. Senzadistogliere la mira, ma conuna certa tenerezza, mi harisposto:–Teneuccideròunpaio,ragazzo!

Miritrovoaterrainmezzoa lunghi steli d’erba che misolleticano le labbra. Lemangiucchio e sento unsapore acerbo e amarognolo.Sono circondato da figurantimoribondi che invocano la

mamma e implorano Dio disalvarli. – Oddio, Oddio,Oddio, – una voce sussurradavanti ame.Vorrei stesserotuttizitti.Hosemprepensatocheilgiornoincuimoriròsulserio, morirò in silenzio,perché l’oblio imminente mitoglierà certo la parola. Cisonogiorni in cui il pensierodella morte mi ammutolisceperfino durante la mia vitanormale. Il vento ha girato e

mi arriva alle narici unazaffata di odore di naftalina:uno dei partecipanti allarievocazionedeveaverlausataper mettere via l’uniforme.«Sono troppo giovane perandarmene! Troppo giovane!ChisiprenderàcuradellamiaFrieda?»Iragazziinvocanoleloro Frieda, le loro Birgit, leloro dolci Mäuschen. Inteoria siamo un reggimentotedesco.

– Ehi, tu, morto! – sentodire proprio dietro di me,dopo che le gridadei feriti sisono trasformate in flebiligemiti. Qualcuno è cadutoallemiespalle:unsuopiedeèappoggiato allamia coscia. –Vedi qualcosa? Che succede?– Sembra la voce di unragazzino.

– Spari da tutte le parti, –rispondo. Mi dà un calciodrittonelsedere.

– Dilettante! – gli dico intono accusatorio. Vorreistringermi le chiappe, ma imorti non si massaggiano leferite.

– Spasmomuscolare dellacoscia, – dice lui. – Robaautentica.Succedeva.Cisonoi documenti. I ragazzimorendopotevanodimenarsicomeburattini.Perciòdimmiche succede, o te ne do unaltro.

– Figlio di puttana! – glidico, perché non sonoabituato a farmi prendere acalci da chi sta dalla miaparte.–Lavacessi!–Menedàun altro, forte, e gli dico chesuccede. Il Nono (cioè noi)sta avanzando regolarmentesul terreno. IlCinquantacinquesimo«Ohio»èconloro,madovesiafinitoil resto della brigata, non neho la minima idea. Vedo il

prode colonnelloKammerling attraversare ilcampo in groppa al suoappaloosa. È uno di queicolonnellicoraggiosi,opazzi,che porta personalmente imessaggi nel cuore dellabattaglia.Maledizione,èstatocolpito! Appena arrivato dalcapitano, uno sporco Ribellel’hasteso.

Quest’ultimo particolarenon è vero. Il colonnello sta

benissimo.BillyCalcialestosene accorge appena si metteseduto, imprecando. – Balle!– dice. – Kammerling non èmorto a Chickamauga! –Hogià capito che è uno di queifanatici della fedeltà storicache stroncano ogniimprovvisazione, se nonproprio ogni divertimento.Migiroaguardarlo,cercandodiprepararmiaricevereilsuoprossimo calcio, e vedo che

non è un ragazzo, ma unafemmina di aspettomascolino.Cel’hamessatuttapersembrareunmaschio,maha una faccia carina che latradisce.Mifasubitopensarea Giovanna d’Arco, chedoveva avere sicuramente uncattivo odore, una bruttadentatura, una folta peluria etutti gli altri difetti tipici delMedioevo. I morti e feriti le

dicono di mettersi giú, e leiobbedisce.

–Telafacciopagare,–midice, però non mi sferra unaltro calcio. Si è sistemata inmodo da riuscire a vedere labattaglia; io sono messo inmodo da vedere solo la suafaccia. Sportivamente, mitieneaggiornato,abassavoce,su quel che succede. Non neho bisogno. Quand’erobambino, a casa mia,

Chickamauga era un classicoargomentodiconversazioneatavola.Mio padre schierava ipiselli e le carote come lineedella fanteria e ci spiegavacosí l’andamento dellabattaglia. «Vedete qui, –diceva, togliendo emangiando un pezzetto dicarota, – Rosecrans lasciòaperto un varco in questalinea, e Longstreet non eratipo da lasciarsi sfuggire

un’occasione simile». E ipiselli dello schieramentoribellerotolavanoattraversoilvarco. Dopo una vita dipranzicomequestilastoriatirimane in testa. ConoscoChickamauga a menadito, epoiché in queste rievocazionici si fa un vantodi rispettarefedelmente laveritàstorica, ilprimo giorno della battagliaio so già esattamente tuttoquello che succederà. Sono

morto mentre respingevamol’attacco semi-anfibio diCleburne al fianco sinistrodell’Unione. Non unabattagliaspettacolare,comelaCarica di Pickett o l’Eroicaresistenza di Thomas, anchese domani effettivamente ciaspetta Snodgrass Hill. Lífaremo fuoco e fiamme, saràil momento culminante dituttoilfinesettimana.

A battaglia conclusa, un

trombettiere solitario cavalcainmezzoalfumo.Siavvicinaai feriti, ai moribondi e aimorti e suona il silenzio. Imorti si alzano, irsutiragazzoni che quando noncombattono per difendere odistruggerel’Unionefannogliavvocati o i meccanici,oppure gestiscono società dimanutenzione piscine. Sitirano su, si stirano lemembra indolenzite dalla

morte, si abbracciano, sidanno buffetti sul viso emanate sul sedere. «È andataalla grande!» Mio padre e imiei fratelli vengono aprendermiperincludermineltradizionale abbracciocollettivo del dopo battaglia.Solleviamopapàsullespalleelo facciamo saltare per ariacome un bambino. Miaccorgo di essermi girato aguardare Giovanna d’Arco,

che sta ignorando del tuttochi le strizza la spalla e le dàpacche sulla schiena. Stafissando con odio il frontenemico.Nel fumo basso, allaluce rossa del tramonto, iRibellistannodilagandooltrele loro linee, le mani tese inavanti, pronte a stringere lenostre.

Ilmiotrisnonnoèstatoun

eroe di Chickamauga. Hasacrificato la sua vita persalvareunpoverotamburino.Sono un soldato del Nono«Ohio»,comelui,manonmisento un figurante di sangueblu solo per via del mioantenato. Non sopporto iFigli dei veterani confederatie gli snob della Grandearmatarepubblicana.Aiballi,l’unica medaglia che indossoè quella che mi sono

guadagnatoconlemiegambefacendo il Sentiero dellaguerracivile,coniboyscout.

Nella mia famiglia ci sitramanda l’odio per i Ribelli,non qualchemedaglia,ma ionon sono un fanatico. Almomento di arrivare a me ildisprezzo era già moltodiluito. Il mio trisnonnoterminava tutte le sue letterecon la frase«JeffersonDaviesmonta la capra», ma mio

padre si trasferí dall’Ohio inFlorida. Mise su uno studiodermatologico a Orlando.Alle riunioni di famiglia, inOhio,ioeroilcuginoRibelle.«AdessoseiunodelSud!»,miavevadettomiacuginaLibby,spingendomivialamanoconcui cercavo di palparlamentre pomiciavamo nelseminterrato. In realtàOrlandonon facevapartedelSud.E ilSudchemiacugina,

per tradizione famigliare,aveva imparatoaodiare,nonesistevapiúdanessunaparte.

Nonmipiacepartecipareaqueste cose. Non mi piacefarefinta.Nonmipiaccionoifucili,anchesoloirumorichefanno. Nonmi piace la lana:pizzica, e quando mi pioveaddossopuzzocomeuncane.Gli stivali non sono dellamisura giusta.Ma se nonmifacessi vedere a queste recite

sarei radiato con disonoredalla mia famiglia. Sono lapassione di tutti quanti, deimiei due fratelli maggiori, dimio padre e di mia madre.Clay, il mio fratellino piúpiccolo, le odiava.Un tempopotevamo sfogarci a vicenda,ma lui non c’è allarievocazione commemorativadel centotrentacinquesimoanniversario del massacro diChickamauga Creek. La

morte lo ha sciolto dai suoiobblighi.

–Tiavevoavvertito,chetel’avrei fatta pagare! – diceJoan. Strabuzzo gli occhicomeunostupidoemipassolamanosulcollo.Quandomel’aveva detto, avevoimmaginatocheavrebbefattoqualcosa di subdolo, tipomarciare dietro di me e

sputare nel bicchiere di lattache pende dallo zaino, orubarmi il fucile e pigiare untappo di sughero dentro lacanna.Invecesièpresalasuavendetta apertamente. Hamesso il pollice e l’indice atenaglia e mi ha dato unpizzicotto cosí forte da farmiurlare.

Anche se mi ha fatto unmale cane, sono contento,perché le volevo parlare. Ho

lo stesso desiderio di starlevicinochehoavolteconaltrepersone. È un impulso checercodinonassecondarepernon rendermi molesto aglisconosciuti,anchequandomicapita di provare, come conJoan, un’affinità immediata,undesiderio irrefrenabilechesolo una conoscenza intimapuòappagare.Miopadre,cheper ragioni sue ha scavatotroppo a fondo

nell’Ottocento,chiamaquestaaffinità immediata«onnifilia»,eunavoltamihadetto che Fourier (uno deisuoi eroi) pensava che fosseuna cosa da coltivare esfruttare,echeognivoltachesulla Terra un sentimentosimilesbocciava fraunuomoe una donna, era la salvezzadell’umanità. Io però miricordo un flagello di nomeSusanGreer, chemiha rotto

le scatole con la suaabnegazione per tutta lasecondaelementare,echemiha tallonatoconunbarattolodi colla finché non hoacconsentitoasedermiconleisotto una palma e adassaggiarne un po’ comepegno d’amore. La colla ciaveva uniti in matrimonio.Susie dagli occhi strabici edalla lingua un po’ troppograndeper laboccarimase la

miaamorevole e indesideratacompagna finché non andòad abitare a Tallahassee.Ripensando a lei, credo cheun corpo non dovrebbeimporsi prepotentemente aun altro, perché da «Lieto diconoscerla» a «Con questacolla io ti sposo» il passo èbreve.

Voglio dire che sto moltoattento a non assillare senzamotivo le persone che mi

piacciono. Ecco perché sonocontento che Joan si sialanciata in quel pizzicotto, elosonoancoradipiúdelsuoinvitoacena.

– Metto su stufato dimanzoecaffè,–dice.–Mifaicompagnia?

–Hai intenzionedi darmiunaltropizzicotto?

– Hai intenzione di farmidinuovoarrabbiare?

–Sperodino.

– Bene! Tutto a posto,allora–.Siavviaeiolaseguo,ma non abbiamo fattoneanche tre metri che sifermaedice:–Solounacosa.Hobisognodi sapere: tunonsei di queste parti, vero? –Allarga le braccia, come aindicare la piccola zona dellaGeorgia in cui ci troviamo,ma qualcosa nella suaespressione del viso mi diceche in realtà si riferisce

all’intero Sud, depravato eincapacediperdere.

–No,–lerispondo.– Cioè, sei uno yankee,

vero?Le indico il corno di

ottone della fanteria sul miochepí.–Cosípare.

–No,–dice,allungandoilbraccio verso di me. Pensoche voglia di nuovopizzicarmi, invece me loappoggia semplicemente sul

petto,soprailcuore.Nessunomi hamaimesso lamano lí,inquelmodo,elasensazioneè piacevolissima. – Vogliodire,seiunveroyankee?

–Certo, – rispondo. Emisentoindoverediaggiungere:– Ovvio. Assolutamente sí.Non sono un Ribelle, se èquestochevuoidire.

– Tutto a posto, allora.Tutto a posto –. Lungo ilcammino passiamo accanto

allo spiazzo in cui la miafamigliahapiantato le tende.Ilmio fratello piú grande stalucidando la sella di nostropadre. Alza gli occhi e mivede. Mi metto l’indicedavanti alla bocca ma luigrida lo stesso: – Dove staiandando?–Nonglirispondo.

– Chi era? – mi chiedeJoan.

– Non ne ho idea, –rispondo.

– Hai visto le foto? – michiede, mentre aspettiamoche lo stufato finisca dicuocere. – Non c’è nessunoche sorrida –. Possiede unvecchio stereoscopio e unacollezione di stereogrammi.Inserisce le immagini nelvisoreeioaccostogliocchialbinocolo. Da principio lefigure sono confuse, poi miappaiono nitidamente conuno strabiliante effetto

tridimensionale. Uno yankeeingrugnito in posa per unritratto: sarà per la suamamma, o per la suainnamorata. Ha le spallepiccole e curve ma un collocosí massiccio chedifficilmente riuscirei astringerglieloconduemani.

–Dapiccoloerounpatitodel View-Master, – le dico.Sfogliavo le immagini conunatalefuriacheruppilaleva

discorrimento.Allorarubaiilvisore di Clay e ruppi anchequello.Eraunbambinobravoa perdonare, e reagiva agliaffronti non con rabbia macontristezza.

Joancambialefotografie,emi mette un cavalleggeroRibelle dagli occhi enormi eseri.Tienelasciabolaalzatainsegnodisaluto.

– Che cosa guardano,secondote?–midomanda.–

Cosanedici?–Lamacchinafotografica,

– rispondo. In realtà pensoche stessero guardando ilfuturo, reso improvvisamentemolto concreto dallaprospettivadellamorte.C’eraqualcosadelgenereancheneldiariodiClay,di cuidopo lasuascomparsasonodiventatoilsegretocustode.Erasottoilmaterasso, un posto ovvio:ma lui, per l’appunto, si

fidava degli altri. La sera incui morí avevo deciso dimettereinordinecamerasua,l’unica cosa che pensavo dipoter fare, di poter reggere.Ma non misi in ordine. Misedetti sul suo letto, sullelenzuola e sulla vecchia,lurida coperta che eraimpregnata del suo odore, esulla prima pagina lessi: Ilfuturo è informe einconsistente, tranne quando

sono proprio lí, a un passo, eallorahalaformadellamorte,e la sua consistenza. Perchéquestomidàsollievo?

– Credo che ci fossedell’altro,–dice, emetteunanuova fotografia. Stavoltal’immagine sfocata sitrasforma in una scenaraccapricciante: una lungateoria di Ribelli morti lungola staccionata di HagerstownPike. Poi mucchi di Ribelli

morti con i fucili muti difronte ai muri sbrecciati diDunkerChurch.PoiicorpidiRibellimortiaccatastatiinunfossato. Le conosco tutte,queste foto. Mio padre ce leproiettava su un grandeschermo in salotto, quasifossero i ricordi di unavacanzadelpassato.

–Cadevanoe lí restavano,– dico, strofinandomi gliocchi e fissandola. Uno

sguardosognante lepassasulviso,edice:–Hannoavutolamerdachesimeritavano.

La sera, al ballo, c’è ancheJoan, elegantissima nella suauniforme di gala. Ci sono imiei fratelli e imiei genitori,miamadre con una raffinatacrinolina ovale, unagiacchetta alla zuava divelluto viola e un cappello

conuntrionfodifiorifreschi.A casa l’aveva messo infrigorifero,epoil’haportatoaChickamauga in una borsatermica.Digiornoimpersonaun’infermiera perché è il suolavoronella vita vera. L’annoscorsodei tipi sovreccitatimiavevano prelevato dal campoconl’ambulanzaeportatoallatenda-ospedale, dove, dallabarella in cui ero disteso,avevo visto mia madre

gongolante in mezzo a tuttoquel sangue finto. Anche leimi aveva visto e mi avevaraggiunto.Avevopensatochevolesse salutarmi, machinandosi su di me con lafaccia insanguinata mi avevadetto semplicemente:«Grida». Io non avevogridato.Erorimastolídistesoa osservare, mentre migiungevano le urlaentusiastiche degli altri

ragazzi. Non avevano nientein comune con le urla chefarebbe un uomo che perdesangue dalla pancia o a cuistanno segando una gamba.Mi ricordo come urlò miopadrequandoseppecheClayeramorto.Dicevasemprechese l’aspettava, ma la verità èche urlò cosí perché nonriusciva a credere che suofiglio non ci fosse piú. Il suourlo probabilmente era

parecchio simile a quello diun uomo a cui segano unagamba: un urlo non solo didolore,madiincredulità.

– Li odio, – mi confessaJoan mentre balliamo. Conuncennodellatestaindicagliufficiali Ribelli. La gente cisibila: «Dilettanti!Dilettanti!», ma non miinteressa. Secondo mefacciamo un figurone, comecoppia. Se in tutti gli altri

campi della vita sono unfallito, nella polka almenosono bravo, e Joan non èmalaccio. – Hai mai pensatochenonhannomai pagato ilfio? Che l’hanno semprepassata liscia? Checontinuano a non pagare ilfio?

– Che vuoi dire? – lechiedo,ancheseinrealtànonmi interessa saperlo, perchéstiamo ballando e la sto

abbracciando, e quando lasentostrettaalpettoèunpo’come quando prima ci haappoggiatosopralamano.

–Secolidi infamia:questovogliodire.Vogliodiregenteche possedeva altra gente, echepoihafattofintachenonfossemaisuccesso.

–Èpassatotantotempo.–Èquellochediconoloro!

Dicono esattamente cosí.Inveceeraieri.

Non mi piace baciare,aveva scrittoClay.Tuttoquelsucchiaremiprovocaunafittadietro la testa. Joan e iopiantiamolatendadacampo.Per montarne una intera civoglionoduepersone;ciascunsoldato ne porta metàarrotolata sulla schiena. Le siabbottona insieme e ilrisultato è un riparoveramentemisero,incuipuoistar certo che quando piove

gocciola dentro, e che nonfornisce alcuna protezionecontro il freddo. Joanhaunacoperta di lana e un traliccioche abbiamo riempito difienoecartoccidimaisfornitidagli organizzatori. Cispogliamo, rimanendo inmaglia e mutandoni diflanella rossa, e ciintrufoliamofralacopertaeilfieno. Restiamo distesi cosí,

pancia contro schiena. Joancantaavocebassa:

C’èmoltastanchezzaneicuoristanotte

perquestaguerrachenonvuolfinire

c’èmoltaattesaneicuoristanotte

perun’albadipacedilàdavenire.

Intantosimuore,intantosimuore,

sottolevecchietende,simuore.

Poi tace, e io penso si siaaddormentata, inveceimprovvisamente esclama: –Cucchiaio! – e ci giriamosull’altro fianco, con la miapancia contro la sua schiena.Tremo tutto, e non per ilfreddo. Joan ripete un po’ divolte il gioco del cucchiaio,finché a un certo punto,girandomi, la trovo nella

stessaposizionediprima.Hail viso esattamente davanti almio,emibacia.Latestamifamale,mamipiace.

–Qualèlacosapiúbruttachehaifattoinvitatua?–michiededopo.

–Nonloso,–rispondo.–Unadev’esserci.– No, non credo, – dico,

invecec’è.Mivieneinmenteall’istante,comesestessi soloaspettando di sentirmi fare

questa domanda. Un giorno,durante una grande,eccessiva, gozzoviglianteriunione di famiglia, stavotrattenendo per le bracciaClay che si divincolava perandarevia.Volevoimpedirglidi uscire dalla porta, perchéogni volta che lo faceva nonsapevamo mai quandol’avremmo rivisto. Mentre lotenevo, mia madre neapprofittò per dargli un

violento ceffone: mi sentiicome se fossi stato io apicchiarlo,comesefossistatoio a punirlo del crimine diessereinfelice.

– E la cosa piú bella chehaifatto,allora?

– Non lo so.Probabilmente non hocombinatomoltodibuonoinvitamia.Etu?

– Io lo so, ma non l’hoancora fatta.Hounprogetto.

Saràunacosameravigliosa.

La mattina dopo,all’ispezione del reggimento,ho gli occhi pesti e la facciastropicciata. Dopo averserrato i ranghi, il Nono«Ohio»ha riaperto le filaperpermettere il passaggio delcolonnello Kammerling e deisuoiaiutantidicampo,fracuimio padre, venuti a

controllare se ci siaqualcunocolpevole di dilettantismo odi celarematerialepericolosonell’equipaggiamento.Estraggoilcalcatoioeloinfilonella canna del moschetto,quindi slaccio lapattinadellagiberna. Mio padre alza ilcalcatoio di un paio dicentimetrielolasciaricadere.Sentendoilsuonodesiderato,vivoesquillante,faunbruscocenno di approvazione. Un

fucile sporco produce untonfo sordo o non fa nessunrumore. Mi apre la giberna,all’infruttuosaricercadirotolidi monetine o di puntimetallicinellecartucce;quellisí che sono pericolosi.Possonofarfuoriunocchioaqualcuno, e perfinoammazzarlo.Maèmiopadrechesioccupadisrotolarmilecartucce, perché quando

provo a farlo io combinosempreungranpasticcio.

–Ottimecartucce,figliolo,– mi dice, e passa oltre, asgridare un povero figurantevicino a me che ha il fucilesporcoeibottonidellagiubbasottosopra. –Vergogna! – glidice, e per un attimo misembra che stia parlando aClay.

Joanèdietrodime.Sentoilcolonnellochesicongratula

con lei. Il suono prodottodallacannadelsuomoschettoera cosí perfetto da avergliquasi fatto venire le lacrimeagliocchi.

– È evidente, soldato, –dice, – che ci tieni molto aquell’arma. Credo che sia ilfucile meglio tenuto di tuttal’armatadelCumberland.

–Ioloamo,signore,–dicelei.–Loamocomesefosseilmiobambino.

Dopo l’esercitazione miopadre tiene una lezione aglispettatori esterni sul tema:«Che cosa conteneva untipicozainomilitare?»,eioglifacciodaspalla,cioè traduco.Lui impersona il trisnonno, elamiapresenza serve a far síchenondebbamaiusciredalpersonaggio, rispondere adomande che locostringerebbero a dire cose

inimmaginabili per un uomodell’Ottocento.

– C’erano gli utensili permangiare,–dice,indicandoiltavolino su cui ha rovesciatoil contenuto del suo sacco. –Coltello, forchetta, uncucchiaio molto grande, unpiattodilattaeunmestolo.

– Non sarebbe stata piúpratica una posatamultifunzione? – chiede unuomo.Sisporgedalcerchiodi

persone che ci attorniano eindica il grosso cucchiaio. –Una posata multifunzionenon sarebbe stata meglio?Perché non usavate unaposatamultifunzione?

Mio padre mi guarda conaria smarrita. – Posatamultifunzione?

– Una combinazione diforchetta e cucchiaio, –rispondo. Non sopporto chefinga di non sapere di che

cosa parliamo. – Signore, –dicoaltipograssodallafacciasmorta, – all’epoca nonesistevano le posatemultifunzione. Le hainventate Thomas AlvaEdison nel 1878, tredici annidopo la fine della guerra –.Mio padre mi gettaun’occhiataccia. Nel suoregolamento personale, dareinformazioni sbagliate a unalezione sugli zaini è uno dei

criminipeggiori.Mamipiacepensarechementireefingeresiano due cose diverse. Miopadre passa a descrivere ilcibo che si consumava conquegliutensili.

– Gallette, fagioli, verdureessiccate, lardo e pancetta –.Mi chiede di distribuire unpo’ di gallette. Prima dipartire per una rievocazionefacciamo sempre una grandeinfornatadigallette.

– Mangiavano questaroba? – chiede MisterMultifunzione.

– Sí, certo che lamangiavamo,–rispondemiopadre.–Manoncipiaceva–.Canta qualche verso di Èfinito il tempo delle gallette.Un bambino addenta unagalletta–c’èsemprequalcunoche lo fa – e dice che sa dicartone. Mio padre indicaalcuni effetti personali:

lettere, una Bibbia e untemperino. Una signora fapresentecheleletteredacasasi ungono tutte, a riporleinsieme al lardo. Anche illardo viene fatto girare, e lasignora lo tiene a distanzacomesefosseuntopomorto.Mio padre ammette che lelettere unte eranoeffettivamenteunproblema.

– Quanto è durata laguerra? – chiede il bambino

che aveva assaggiato legallette.

–Quattroanni,–rispondemiopadre.

– Come il liceo, – dice lasignoradellardo.

– Precisamente, – dico io.–Unacosabrutale, infernale,e, vista da dentro,interminabile.

– Poi c’erano le armi, –dicemiopadre.–Se lozainoera ben foderato si riusciva a

infilarci dentro anche labaionetta –. Gli spettatori glidomandano a gran voce diparlaredelsuofucile.Nonc’èmai stato bisogno dichiederglieloduevolte.

–Questoèunmoschettoacanna rigata Springfieldmodello1861.Prendeilnomedall’arsenale in cui venivaprodotto,mapermeè«Sally»–. Mister Multifunzione alzala mano per fare un’altra

domanda.–Prego,–dicemiopadre.

– Per sparare sinascondevano là dietro? –chiede,indicandolecatastedipalle da cannone chespuntanounpo’ovunquesulterreno,inmemoriadiquestoo quel generale caduto, e glialti obelischi posti a ricordodellafieraresistenzadiquestooquelreggimento.

–Sí,certo,–dicoio.–Chi

arrivava per primo ai cippicommemorativi acquistavaunnettovantaggio.

Miopadremisbatte fuori.Chiede amiamadre di farglidaspalladurantelalezione,ilchemi va benissimo.Vado acercare Joan e la trovo nellasuatenda,conunbarattolodamezzo chilo di polvere dasparo fra le gambe, che

arrotola cartucce. Entro acarponi e mi siedo vicino alei.Michinoperbaciarla,mamirespinge.

– No! – dice. – Puoi fareunpasticcio!

– Credevo ne avessi giàunascatolapiena.

–Meneserveunaspeciale,– dice, ripiegando la parteposteriore della cartuccia chesta preparando.Me la lancia.Ha uno strano peso, e

stupidamentecimettounbelpo’ prima di capire checontiene una vera pallottolaMinié.

– Che cosa te ne fai? – lechiedo.

–Tuchedici?–ribatte.Eaquel punto mi bacia. Me nesto lí seduto apomiciare conlei, la cartuccia non a salvestretta in mano, mentredovreicorrereadenunciarlaamio padre o al colonnello.

Adessomene vado,mi dico.Quella che ho in mano è lavita di qualcuno. Invece nonmenevado.

Al grande evento, larievocazione dell’Eroicaresistenza di Thomas aSnodgrass Hill, vado conJoan. Qualche volta trovostrano il modo in cui glistorici raccontano le cose.

Thomas subí a piú riprese,dicono, l’assalto feroce deiConfederati,mariuscísemprea tenerduro.Comeseavessefatto tutto da solo. Come sefossemortosololui,centinaiaecentinaiadivolte,durantelagiornata.Come se fosse stataunabattagliafraduegiganti–il bello e nobile Thomas eBragg l’intrattabile,l’ubriacone – e non uncombattimento di piccoli

uomini che, fra colpi schivatie uccisioni, impararonoquantopocovalessero le lorovite, e quanto preziosefossero.

Ho intenzione di stareattaccato a Joan e rubarle lacartuccia appena prova ausarla. – Attenzione, mimuovo!–urlo, e sparo soprala sua spalla ai Ribelli che siarrampicano sulla collina frale querce rade. Siamo

schieraticonilreggimento,infila per due, e sono in gradodi vedere ogni suamossa. Lacartucciacaricahaunostranoinvolucro, non la solita cartadi giornale. Sarà facilericonoscerla. Sono deciso afermareJoan.

Achidare lacolpa?,avevascritto Clay.Ame stesso.Mestesso. Ripensando alla miavita,mivergognodi tutto.Misono portato il suo diario in

battaglia. Ce l’ho sempredietro. Da principio loportavo ovunque andassi (èpiccolo e sta in qualunquetasca) perché avevo paura dilasciarlo incustodito e chevenissescoperto,poihopresol’abitudine di consultarlocome altri consultano laBibbia. A chi dare la colpa?Ho letto queste parole primadellaspedizionesullacollina.

I Ribelli continuano a

venireallacaricaearipiegare.Mentre avanzano ululano,con un verso cosí strano chesembra lo schiamazzo di unbranco di ubriaconiincoscienti.Centotrentacinqueannifaeraconsiderato un urlospaventoso. Innervosivamoltissimo i soldatidell’Unione,checercaronodiinventarsene,inrisposta,unotutto loro, un fragoroso

«urrà!» che sollevasse glianimi mentre correvanoincontro alla morte, ma chedai resoconti dell’epocasembrava piú che altro unconato di vomito. Le carichedei Ribelli devono essererespinte. Conquisterannoterreno solo quando Thomasbatterà ordinatamente inritiratafinoaChattanooga.

Dove va? Questo miinteressa sapere. Questa è la

domanda che vorrei scriveresulquadernettodiClay.Doveva a finire tutto il dolore diun’esistenza angosciata,quando quell’esistenzafinisce?Imieigenitorieimieifratellicredoabbianopensatoche fosse stato risucchiatodentro la bara di Clay, comeunaspeciedivasodiPandoraa ritroso. Perciò dopo la suamorte non facevano chesospirare, apparentemente

schiacciati da un’immanetristezza, ma io credo che inrealtàsospirasserodisollievo,perché non sarebbero piústati tormentati dal suotormento.

Joan si gira e mi sorridementre carica l’arma con lacartuccia dallo stranoinvolucro. Punto il fucile aterra, allungo la mano e lesfiorolaspalla.–Nonfarlo,–le dico con voce flebile. Da

ogni parte intorno a noifervono le normali attività dicombattimento, gli uominipuntano, sparano, caricano,soccombono ai colpi e siimmolano con gemiti dimoribondi. Non guardoquello che fa. Incasso uncolpo e mi metto la manosugliocchimentreJoanalzailfucile e sceglie la sua vittima.Immagino stia cercando fra iRibelli un bel soldatino

reazionario.–Non farlo,– leripeto, ma quando la sentosparare un’emozione miattraversa,emifigurochesiaClaychedàunaschioppettataal mondo che lo opprime. Ilcielo è un ventre ripugnante.Misento soffocare. Immaginomiofratellochenonpermetteal mondo di distruggerlo eammazzarlo, e lo affronta apugnalate.

Mi tolgo la mano dagli

occhi.Joanèinpiedipropriodavanti a me, ha un aspettomolto tranquillo e scruta inmezzoalfumo.Alzailfucileeiopensochevogliaspararedinuovo, che abbia altriproiettili, e che anche se leavessi sottratto la cartucciaavrebbe comunque uccisoqualcuno. Invece lo lasciacadere, riceve un colpo conun gemito piú di piacere che

didolore,ecadeaterraconilvoltosereno.

–Piagnone,–midice.

Diariodellamalattiaedellamortediunabambina

Lamiastanza,la616,ognivolta che torno è lí che miaspetta,amenochesiapieno

inverno,stagionedirotavirus,quandoilpavimentoèinvasodabambinipiccolidalvisettosmunto che sfrecciano comemissili per i corridoi susvolazzidicaccaliquida.Sonomalati passeggeri, nonragguardevoli. Chi èospedalizzato da tutta unavitahadeivantaggichequestibebè con il rotavirus, conasmadaVrs,conindigestioniaccidentali, rare

tonsillectomie, e tutte le altresotto-sottospecie di malattie,nonpotrebberomaisognarsi.Ne è una piccoladimostrazione la targa che leinfermiere hanno appesosopralamiaporta,unascrittadi brillantini d’argento su uncartoncinogiallo:ChezCindy.

Mio padre mi aiuta asistemarmi in camera primadi andarsene. Gli piaceabbassareilletto,strapparela

strisciadicartasopra la tazzadelcesso,disfarmilavaligiaemettermi i vestiti nel piccolomobile a cassetti. – Haiportato solo top epantaloncinicorti,–midice.

–Epigiami,–dico io.– Itop facilitano l’accesso. Allevene –. Dice che quandotornami porta una vestaglia,ma dubito che torni. Ibambini che entrano inospedale solo una volta ogni

dieci anni, tutti li vanno atrovare e hanno la stanzapiena di fiori, cioccolatini epalloncinicolorati.Quandosiè al decimo o quindicesimoricovero, visitatori e fiorisvaniscono.Ioifiori,ormai,liricevo solo quando mi vieneun’infezione. Però tutte levolte che entro in ospedalemiozioNedfaunadonazionealla Fondazione americana

per la cura della Sindromedell’intestinocorto.

– Mi dispiace non poteressere qui per l’anamnesi el’esame obiettivo, – dice.Normalmente resterebbe arispondereatutteledomandedel tirocinante di turno, maquesto ricovero coincide conun trasloco. La nostra nuovacasa è ad appena trechilometridallavecchia,maèpiú grande e ha una bella

vista. A me la vista noninteressa tanto. Questo latodel Moffitt Hospital affacciasul parco e, oltre, sulGoldenGate. Quando rimane lanotte, mio padre se ne staseduto per ore a osservare leluci lampeggianti sul ponte,mentre io guardo latelevisione.Questa volta aprele tende e mette la facciadavantialvetrodellafinestra,dàun’occhiatasola,inlungoe

in largo, poi si gira di nuovoversodime,misalutaconunbacioedesce.

Dopo che se ne è andatomi cambio,mimetto un topverde acido epantaloncini diun bianco smagliante, e midirigo verso il fondo delcorridoio.Mipiace,passando,sbirciarenellealtrestanze.Leportesonoquasi tutteaperte,ma non vedo nessuno checonosco. Ci sono alcuni

ragazzini con gli arti intrazione,genereortopedia;unpaiodiasmaticicheciuccianole loro pipette di albuterolo,una ragazza bionda, alta emagra, sedutadritta sul letto,che legge uno di quegliorrendi libridiNarnia.Ha lafibrosi cistica stampata infaccia. Si accorge che laguardoemisaluta.Proseguo,passandodi fiancoaduecasidimacrocefalia e aunbrutto

eritema. Arrivo finalmenteallaguardioladelleinfermieree sono accolta daesclamazioni di benvenuto:«Cindy! Cindy! Cindy!»Bentornata, dicono, e dovecaspitaseistata,eNancy,chemi seguiva semprequand’eropiccola, fa finta di strizzarmiletetteecommenta:–Lamiabimba sta diventando unadonna!

–Ciaoatutte,–dico.

Vedete il gatto? Il gattohala titubanza leucemica felina.Perde pelo, ha un doloreterribile alle guance esanguina dalla bocca e dalleorecchie.Haunproblemaagliocchi. Non ci vede quasi. Hamesso la faccia dentro lalettiera perché qualche voltaquestoglidàunpo’disollievoalle guance, ma in compensohamaleallezampe,lavescicasta diventando sempre piú

irritabile e haundolore sullapunta della coda che sipresenta tutti i giorni amezzogiorno. Come sequalcuno gliela prendesse inboccaeglielamasticassesenzasosta.

Soffri,gatto,soffri!

Sono un’ex prematura diventisei settimane: unamiracolata.Oggidevinascere

di ventiquattro settimane perguadagnarti il titolo dimiracolato, ma quando sononataioeripiúdilàchediquaanche se venivi alla luce aventisei.Mi è andata bene, aparte un’infezioneaddominale che mi è costatacirca trenta centimetri diintestino: non una granperdita per una personagrande,mamoltoimportanteper un esserino di un chilo

comeme.Perciòhoproblemiintestinali. Ho difficoltà diassorbimento, fitte di doloreatroce,vomitoall’impazzataedevo usare sondini perl’alimentazione enterale, einoltre talvoltadevoricorrereal sughetto, la Npt –alimentazione parenteraletotale –, che fa a meno delmio piccolo, inutile intestinoe mi nutre direttamente invena. E nonhomai avuto in

regalo un pony, pur essendoottoannichelochiedoatuttiimieicompleanni.

Mentre sono in attesa chemimettano ilPicc– ci vuoleuncateterecentraleperpoterassumere il sughetto –,un’educatricebatteallaporta.Si capisce subito quando èuna di loro, perché bussanomolto educatamente, ealtrettanto educatamentechiedono: «Posso entrare?»

Invade la camera con il suosorriso affettato mentre stoguardando in tv il canale dimeditazione (ventiquattr’oresu ventiquattro di musica diviolini e immaginipsichedeliche di fiori cheondeggiano o foglie chetremolano, eccetto tardi, anottefonda,quandofraleduee le tredelmattino imugoliidi un theremin fanno dasottofondo a un tappeto di

stelle lucenti). Si chiamaMargaret. Quand’ero moltopiú piccola le educatrici dipediatria mi piacevano unsacco perché mi portavanogiocattoli e miaccompagnavano in salagiochiadannusarelapastadamodellare, ma col tempo illoro fascino è svanito, e cosíogni divertimento. Adesso letrovopiúchealtro fastidiose,ma non le tratto mai con

cattiveria, perché esseresgarbati con una educatriced’infanzia è come prendere acalciuncagnolino.

– Noi collaboriamo coiragazzi, – dice, – e tuttipartecipanoconcolori, figuree parole! Una collaborazionedi prosa e poesia! – Bellagioia, vorrei poterle dire, lagente come te mi annoia amorte. Se non te ne vaiquanto prima il mio cuore

smetterà di battere dallosfinimento. Invece lascio chevada avanti. Quando mipropone di contribuire allarivista letteraria dell’ospedalerispondo: – Certo! – Ma sochenonlofarò.Stolavorandoa un progetto tutto mio, ildiario della malattia e dellamortediunabambina,enonho pensieri o parole daregalareal«Moffitteer».

Ava, l’infermiera della

flebo,arrivamentreMargaretmi sta raccontando la storiascrittadaunbambinodisetteanniconsolometàcervello–chehacomeprotagonistaunapompa da infusione parlante–,earipensarcilevienequasidapiangere.

–Esehascrittounastoriacosíconmetàcervello,–dico,– figurati cosa potrei fare iocon il mio cervello tuttointero!

–Tesoromio,tupuoifaretutto quello che vuoi, – dice,dolceeincoraggiante.Sioffredirestarementremimettonoil Picc, ma mi sarebbe dimaggior conforto avere icentocinquanta chili di ziaMary sulla faccia che questasignora almio fianco, cosí ledico,No,grazie,efinalmenteseneva.–Torneròperiltuopezzo, – dice. La frase suona

sinistra al di là delle sueintenzioni.

Il Picc fila via liscio comel’olio. Con la solita dose dimorfina e un po’ dimidazolam, quando Ava miinserisce il cateterenell’incavo del braccio misentotrasportaresuipratidelcanale di meditazione.Mentre affondo tra i fiorimisembra di cavalcare la puntadel catetere, stile Viaggio

allucinante, e di insinuarmicon lui fino al cuore. Ipanorami non mi piacciono,ma è bello guardare giú, infondoallacatarattadisangue,nella prima camera. Lagrande valvola si apre. Cicadoattraversoeatterrofralemargherite.

Sono ancora beatamentestorditadaisedativichemihadato Ava, quando penso disentire ilgattochemugoladi

dolore, invocando il mionome.Maèiltirocinantechemistachiamando.Misveglioin una stanza semibuia, conun formicolio al braccio, eprima di guardare il medicodo un’occhiata all’operato diAva.UnsottilePicc si eclissadentrodimepropriosotto lafossa antecubitale, e l’interoavambraccio è avvolto in unguanto di rete bianca chesembraquasidipizzo,digran

modanel1983,quandoioeroamenodue.

–Scusasetihosvegliata,–dice. –Hai unmomento perfare due chiacchiere? – Hal’aria stanca. Lí per lí misembrasuicinquant’anni,maquando si avvicina di piú alletto capisco che ne ha dimeno, solo mal portati. Èmagro e con una stranacapigliatura, direi piúsbagliata che incolta; ha gli

occhi piccoli e lucidi, grandiorecchie, e una di quellebarbette che siscarabocchiano sulle faccedelle persone, insieme allecorna del diavolo, a mo’ discherno.

–Veramentesonoattesaalgran galà, – dico. Mi guardaperplessoesigrattalabarba.

– Sono il dottor Chandra,–dice.Sbircioilsuocartellino

identificativo:SiriusChandra,MD.

– Non hai l’aspetto di unChandra, – ribatto, perché èbiancocomeme.

–Sonostatoadottato,–midicesemplicemente.

– Anch’io, – gli dico,mentendo. Mi tiro su con laschiena e tamburello con lamano sul letto di fianco almio,maildottoresiappoggiaaunapareteedestraeditasca

penna e taccuino. Di lí inavanti favolteggiare lapennaper aria, buttandola in altocon la punta delle dita eriprendendola fra pollice eindice,madiquelcheglidicononscriveunasolaparola.

Vedete la femmina dipony? Ha un terribilesgomento di zoccoli. Ognivolta che prova a camminare

ha un dolore atroce, enonostanteciòèmoltoagitatae non riesce a stare sedutaferma. A tarda notte glizoccoli la implorano in unsussurro: «Per favore, perfavore, trasformaci in colla»,oppure la colpiscono con unacrudeltàdegnadelsuopeggiornemico.Ilponynonsapiúchecosa pensare di loro, dei suoizoccoli, perché è vero che lefanno un male cane, ma è

anche vero che sono tantocarini–adettaditutti,lasuapiú grande bellezza – e chel’unicacosacheledàunpo’disollievo è morderli, morderliforte. Eccola che avanza sullacimadellacollina,direttaallafiera equina, dove non potràcavalcare il Vento dellaprateria,négiocarenelFieniledegli spettri, e tanto menoordinarebocconcinidicowboyimburrati caldi,perché i saggi

cavalli del luna park siguardano bene dal lasciarentrare una malata cosícontagiosa. La cavallina siferma al cancello, guarda glialtrichesidivertonoesembracheballi,manonballa.

Soffri,pony,soffri!

– Che cosa sai del dottorChandra? – chiedo a Nancymentre mi arriccia i capelli,

nella guardiola delleinfermiere. Ha dei boccolielaboratissimi e unassortimentodiocchialidicuinon ha veramente bisogno.Da dietro i suoi occhialinitappezzati di strass vedo, intutta la sua prodigiosa,orripilante chiarezza, EllaThims, un’altra bambina conl’intestino corto, seduta sulsuocarrellinorossoaccantoalbanco dell’accettazione. Ella

ha avuto qualche problemacon la rifinitura della parteinferiore del suo corpo, eperciòènatasenzaano,senzavagina,senzacolonesenzalamaggior parte dell’intestinotenue, e ha i reni a forma dispirale.Hasolodueanni,maè in parenterale anche lei. Laconoscodaquandoènata.

–Nonhafattomolti turniqui. È un tipo abbastanzasilenzioso. E abbastanza

gentile. Non ho mai avutoproblemiconlui.

– Ti è mai capitato ditrovare interessantequalcuno? Qualcuno checonoscevi appena, che tisembra solo interessante,chissàperché?

– Ti piace? Vero che tipiace?

– Lo trovo interessante, ebasta. Come un senzatettoche indossa delle scarpe

stupende. O un cane senzacollare che spunta nel belmezzodiuncimitero.

– Tesoro, non sei il suotipo.Questolosodisicuro–.Solleva la mano, la flette discatto all’altezza del polso.Poiché la guardo perplessa,ripete il gesto, ancheggiandobrevementesulposto.

–Ah.– Benvenuta a San

Francisco! – Sospira. –

Comunque, puoi trovare dimeglio. Il dottore ha un’ariabuffa, e i pantaloni che glicadono. Qualcuno glidovrebbe dire di tirarseli su.Sua madre glielo dovrebbedire.

Alla voce «lamentelaprincipale» gli avevo chiestodi scrivere questo: non nepossopiúdiamore.Ildottorehafattovolteggiarelamatitaeabbassatolosguardo.Quando

siamo arrivati agli aspettisocio-biografici, gli ho dettochelamiamadrenaturaleerauna suora che avevacommesso qualchepeccatuccioconilsordomutodella parrocchia. E gli hodettodelmio libro,delgatto,del coniglietto, del pavone edel pony, tutte creaturedeliziose afflitte da unamalattiaunicaeterribile.

– Pensi che lo comprerà

qualcuno?–mihachiesto.–Esisteun librocheparla

solo di cacca, – gli horisposto. – Perché nondovrebbe essercene uno cheparlasolodimalattiaemorte?Tutti fanno la popò. Tuttisoffrono. Tutti muoiono –.Gli ho anche letto la paginasulpony,emostratolafigura.

–Metteunpo’dipaura,–ha detto, dopo una lungapausa di silenzio e di

acrobazie con la penna. – Ehai disegnato l’intestinoall’esternodelcorpo.

– I pagliacci mettonopaura,–horibattuto,–etuttiliamano.Elasindromedellozoccolo sgomento non è unabellezza.Iomilimitoadirelecosecomestanno.

–Ci siamo, – diceNancy,– eccoti tutta riccioluta! –Sembrachedicaguarita.Fraigiochi di Ella Thims c’è uno

specchio.Mi guardo i capellie schiaccio ilgrandepulsanteviola al di sotto. Il giocattoloemetteunsuonoedEllabattele mani. – Buona fortuna, –aggiunge Nancy mentre filovia sullamia asta della flebo:hounappuntamento,stasera.

Unodeglisvantaggidiaversoffertotuttalavitadicattivoassorbimento e didenutrizione cronica è chesono alta un metro e

quaranta, laddove mio padreè uno e novantacinque, miamadreunoecinquantacinquee mia sorella uno e ottantagiusti. Ma uno dei vantaggidella mia altezza è che sonoabbastanza leggera daviaggiare a bordo dellapiantana, il che è unabenedizione quando si èincatenatialsughetto.

A cinque anni riuscivo aspostarmisoloinlinearetta,e

soloavelocitàmoltomodeste.Col passare del tempo sonodiventata esperta a usare ipiedi per cambiare direzione,svoltare e fermarmi, arallentare trascinando unpiedea terraeagiraresumestessa disegnando strettespirali o larghi cerchi. Digiorno faccio solo qualchebrevepasseggiata,madinottegironzolofinoailaboratoridiricerca, in un edificio

attaccato, ma non connesso,all’ospedale. Alle tre delmattino anche le piú grosseteste d’uovo sono a casa adormire,eiopossovolareneilunghi corridoi senza chenessunomi veda omi fermi,eccettoisorvegliantiditurno,sempretroppograssietroppolentiperriuscireaprendermi,ammesso che capiscano cosastannovedendo.

Il mio appuntamento è

conunmalatodiFcdinomeWayne. È il fibrocistico piúpasciuto che abbiamai visto.Di solito sono biondi,magri,pallidi e ti aspetti che tisputino sangue addossoappena ti sorridono. Wayneinvece è abbronzato, ha icapellicastanoscuro,gliocchiazzurri e grandi, e un toraceampio e allungato. Èparecchio peloso, per averesedici anni. Ho visto di

sfuggita il suo addome,grande e peloso, mentrescivolavo davanti alla suastanza. Al mio quartopassaggio (ogni voltarallentavo e mi giravo aguardarlo di sfuggita) mi hachiesto di entrare. Abbiamogiocato a un videogame dikarate.Glihofattoilculo,poigli ho mostrato il canale dimeditazione.

È qui per una messa a

punto: di tanto in tanto iragazziconlafibrosicisticasistancano piú facilmente delsolito, o tossiscono di piú, ohannounatossediversa,ounperiodico test di funzionalitàpolmonare rivela un drasticopeggioramento, e alloravengono in ospedale persottoporsi a due settimanediantibiotici in vena e a unafisioterapiarespiratoriamoltointensa.È ametàdel ciclodi

tobramicina e si annoia amorte. Scendiamo al bar e loguardo mangiarsi treciambelle stantie. Io prendodell’acqua e un sorso del suotè. Quando mi danno ilsughetto non homai fame, ein questo periodo assimilocosí poco che se staseramangiassi una bistecca,domattina dal mio sederesalterebbe fuori una muccaintera.

Gli faccio un po’ dianamnesi, senza sapere beneil perché dellemie domande,e via via che parliamo hosempre meno il timore checapisca che sto recitando laparte del tirocinante. Infattinon se ne accorge, e mentrepassiamo in rassegna i suoisintomi entra nei dettaglisenzaprotestenériserve.

– Il mio muco è verde, –dice.–Verdecosí–.Indicale

mie unghie dei piedi. Miracconta che ha due cuginigemelli malati anche loro diFc, e che quando sono tuttiinsieme a una riunione difamiglia deve indossare unamascherina per nontrasmettere il suoPseudomonas mucoidealtamente resistente. – È perquesto che non esistonocampiscuolaestivipergliFc,– aggiunge. – Ci sono campi

perdiabetici,perchihal’Hiv,per ragazzi con insufficienzarenale e con insufficienzaepatica, ma per gli Fc no.Perché ci infetteremmo l’unl’altro –. A quel punto, forseinvolontariamente, inarca lesopracciglia. – Esiste uncampo per quelli come te? –michiede.

– Probabile, – rispondo,anche se so benissimo cheesiste,el’estatescorsacisarei

andata se l’anno prima nonfossi stata espulsa per averorganizzato un gioco in cuiun paio di ragazzini malatifuronofattirotolaregiúdaunpendio,findentrounaretedacalcio. Fu un grandivertimentoperquasitutti,enessunosifecemale.

Oltre la spalla di WaynevedoildottorChandrachesisiede a due tavoli da noi.Nell’istante in cui Wayne

avvicina alla bocca la suaultima ciambella, il dottorChandraavvicinaunafettadipizza alla sua, ma se Waynemordicchiacomeuninvalido,il dottore trangugia. Non fachespingereespingerelasuapizzainbocca.Inmenodiunminutol’hafinita.Poisialzaestrascicandoipiedicipassadifianco, ciucciando unabottigliad’acqua,conpezzettidi formaggio impigliati nella

barba. Non si accorgeneanchedime.

Quando Wayne finisce leciambelle lo porto su.Oltrepassiamoilsestopianoesaliamo al settimo. – Nonsono mai stato fin quassú, –dice.

–Emato-oncologia,–dico.– Andiamo a trovare

qualcuno?–Conoscounposticino–.

È la stanza del medico di

guardia.Unpaiod’annifauntirocinante dimenticò incamera mia le sue tesseremagnetiche, una delle qualiconteneva un utile elenco dicombinazioni per aprirediverse porte. I codici sonolenti a cambiare, negliospedali. – Il tirocinantenonc’èmai,–glidico,aprendolaporta. – Di notte i ragazziemato-oncologici hanno unsaccodiproblemi.

All’internocisonounlettosingolo, un telefono e unposter dove un mottoconfortante accompagnal’immaginediunmiciotriste.Mivieneinmenteilgattodelmio sogno, gemente emugolante.

–Nonsonomaistatonellastanza di un medico diguardia,–diceWayneconuncertonervosismo.

– Rilassati, – gli dico,

spingendolo verso il letto. Lospazio è appena sufficiente afarci stare le nostre duepiantane, ma dopo averarmeggiato un po’ riusciamoa sistemarci sul letto. Lui simette in cima, disteso sulfianco, con i piedi appoggiatial comodino. Io miraggomitoloaipiedidelletto.Una piccola lampada sulcomodino fa una luce fioca,ma sufficiente a vedere il

profilo delle sue labbracarnose e a leggere la scrittasopra la porta che dà sulcorridoio: Lasciate ognesperanza,voich’intrate 1.

–Capiscicosavuoldire?–michiede.

–C’è scritto: «Credoche ibambini siano il nostrofuturo».

– Bello. Sarebbe carinoavere delle candele –. Mi

scivola un po’ piú vicino.Mistiroesbadiglio.–Haisonno?

–No.Perunpo’nondicenulla.

Fissa il pavimento oltre lacoperta,sottileestrappata.Lamiaflebocominciaafarebip.La riprogrammo. – Aria neltubo,–dico.

– Ah –. Sistemando laflebo sono strisciata sul lettounpo’piúversodilui.–Vuoiche facciamo qualcosa? – mi

chiede, guardandosil’ombelico.

–Perchéno,–dico.Comeun ragno a cinque zampe,facciogirare lamano intornoal letto, in cerchio: passosopra ilmiobraccio, sopra lemie cosce, risalgo su dallapancia e proseguo fino allapunta della testa, per saltaredi nuovo giú sulla coperta.Lui la guarda con un sorrisoche si affievolisce semprepiú

manmano che risale il letto,siarrampicasullasuagamba,e gli ridiscende lungo ipantaloni.

Vedete la zebra? Soffre diun atroce ahia! al pancreas.La pancia le fa un maleterribile; talvolta le sembradiavere delle rane che cicamminanodentroetalvoltaècome se dei serpenti la

mordessero dall’interno,proprio sotto l’ombelico;qualchevoltahalasensazionechesiapienadicentopiedicheballano, con una scarpa dacalcio su ogni zampetta, equalche volta è un dolore chenon riesce neanche adescrivere, anche se l’unicacosa che riesce a fare, in queiperiodi, è starsene seduta apensare come descriverlo. Peralleviare un po’ la pena si

gratta lapanciasuunaspeciemolto particolare di alberi, ecomunque ne ricava pocosollievo. La lingua le si staricoprendo di croste, e ognivoltachesternutiscelecadonograndi ciuffi di criniera. Lestrisce hanno cominciato aprendere strane direzioni, ecapitachelasuacaccalevadadietro, strisciando a terra ofluttuando nell’aria, e le dicaognisortadicattiverie.

Soffri,zebra,soffri!

Sto dormendo nel mioletto, sognando il gatto,quando sento l’équipe; illamento delmicio si sfilacciaerompe,isuonisidipananoediventano voci. Ho gli occhichiusi ma sonocompletamente sveglia. Ilgattomisalutaconuncennodellasuazampascabbiosa.

– Dottor Chandra, – diceuna voce. So che dev’esserequella del dottor Snood,l’aiutogastroenterologo.–Miripeta quali sono i tre segniradiologici tipicidell’enterocolitenecrotizzante–.Stannofacendoilgirovisitedavanti alla mia porta,saranno sei o sette, l’interaéquipedigastroenterologia:ildottor Snood, il miotirocinante, il borsista, le

infermiere professionali e ipoveri studentelli dimedicina. Fra pocoentrerannodentroevorrannotutti picchiettarmi la pancia.Il dottor Snood parlerà percinqueminutidimerda:dellamia, di quella di altri emagari,comefaavolte,dellamerdacomeideapura, idealeplatonico inesistente suquestaTerra.Sonosicurachesogna merde fantastiche,

perfette, come io sogno ilgatto.

Parla Chandra. Rispondesenza esitare,pneumoperitoneo epneumatosi, poi però siferma.Sempreaocchichiusi,riesco a immaginarmeloperfettamente: i capelli tuttiarruffati, gli occhietti lucidiche fissano la punta dellescarpe, lo stetoscopiocontorto,attorcigliatointorno

al collo, che gli sgualcisce ilcamice. I piedi sono rivoltiall’interno,conlepuntechesitoccanoquasi.Mentre ero suconWaynehopensatoalui.

Il dottor Snood, tropporompiscatole peraccontentarsi di due rispostesu tre, comincia arimproverarlo aspramente:Un dottore al tuo livello diformazione deve saperequeste cose; le vite dei

bambinisononelle tuemani;non sapresti diagnosticartineanche lapuntadelnaso; latua ignoranza è micidiale, latua ignoranza può uccidere.Conunoscattodirabbiaescodal letto, furente conl’arrogante dottor Snood econilpoverodottorChandra,e furiosa con me stessa peressere cosí furiosa. Agguantol’asta della flebo come fosseunbastone,aprolaportacon

uncalcioeurlo,spaventandotuttiquanti:–Arianellavenaporta, cazzo! Aria nella venaporta! – Nessuno parla, equalcuno impallidisce.Ansimo, appesa all’asta.Guardo il dottor Chandra.Luinonansima,maèrimastoa bocca aperta. I nostrisguardi si incrociano per treeterni secondi, poi luidistoglieilsuo.

PiútardiportoEllaThims

giú alla sala giochi.Procediamo a rilento, perchéabbiamo entrambe laparenterale incorso,equindidevo coordinare imovimentiin modo da spingere la miapiantana e tirare il carrellinoevitandocontemporaneamente chel’astadellasuaflebo,attaccataalcarrellinocomeuntenderauna barca, slitti troppo adestra o troppo a sinistra.

Sdraiata sulla schiena con legambeall’aria,Ella fa ilgiocodiafferrarsielasciarsiipiedi,girando la testa per salutaretutti quelli che vede. Nelcorridoio incontriamoinfermiere,studenti,visitatorie dottori di ogni sorta –assistenti, borsisti,specializzandi e tirocinanti –,ma non il mio. Tuttisorridono e fanno ciao aEllacon la mano, oppure si

chinano o si accucciano perdarleunbuffettoo sorriderlepiúdavicino.Amefannouncenno con la testa, senzaneanche guardarmi in faccia.Migiroversodilei,pensandoa quel che l’aspetta. –Goditelo finchépuoi,gioia,–le dico, perché so che in unposto come questo si dàfondo molto presto allatenerezzachesiispira.

Fartenerezzaèunlavoroa

tempo pieno, qui dentro. Ècon quella che si devonocoprire gli orrori – stomie,cicatrici, mani focomeliche,labbra leporine, agenesie delbulbooculare–esopperireatutti gli oltraggi di un corpomalato.CoprelastranafacciapaffutadiElla,gliocchigiallielapelatasullatesta,coprelesue dita in sovrannumero,copre le sue stomie e l’odoreacre e pungente di urina che

emana: su tutto si stende lastraordinaria capacità di Elladi far tenerezza, emanazionedi un qualche organo celatonel profondo del suo essere.Guardando gli altri in faccia,noto come il suo stia ancorafunzionando, e il mio abbiasmesso di farlo. A un certomomento quell’organo cede:cede per tutti, ma per quellicomenoipiúinfretta,avendomolte piú cose da coprire

della naturale bruttezza dicorpi e anime. Arriva ilgiorno in cui suscitiamo piúrepulsionecheattrazione,elabuona disposizione degliestraneineinostriconfrontièpersapersempre.

Non è una gran perdita.Eppure qualche volta lapatisco, come in questomomento, in cui mi ricordodi dieci anni fa, quandopassavo da questo stesso

corridoio sulla mia grossarotella. I passanti mifermavano per eccesso divelocità, emultavano con unabbraccio. Mi ricordo i lorovisi sinceri, aperti e nongiudicanti,eoramichiedo,semai incontrassi qualcunocosí, cosa potrei farci, dopoun inizio tanto insulso.Ritrovo qualcosa diquell’approccio, nel modo incui mi guarda il dottor

Chandra. E anche leeducatrici di pediatria hannoqueltipodisguardo.Malorohanno seguito corsiuniversitari su come nonreagiredavanti auna testa inpiú,aicattiviodorieallefaccesenza naso, e su comeimparare ad amarli permestiere.

NellasalagiochiaffidoEllaaMargaretemisiedoa terrainunachiazzadisoledavanti

allaportachedàsul terrazzo.L’attività della mattina, perchi è abbastanza grande ocoordinato da poterlasvolgere, consiste nelcostruire «Occhi di Dio»:intrecci di fili colorati suun’intelaiatura di legno. Acasa ho un baule pieno diOcchi, presine, sculture diterracotta non piú grandi diunamano:unatalecollezionedi oggetti artigianali da far

pensare che io abbia passatotutta lavitaneicampiscuola.Rotoloesrotolo,faccioedisfoilmio filo,perchénonvoglioaggiungere pezzi allacollezione. Guardo Ella chegioca con una vaschettad’acqua in cui immerge unsecchiellorosso,chepoiversasulle pale di una ruotaidraulica. Un giocattolo chenon conosco. Tutte le voltechevengonetrovodinuovi,e

lastanzaètenutabene,allegraeinvitante;graziealcontinuointeressamento di gentedanarosa, pareti e moquettevengonorinnovateinunlassodi tempo inferiore a quelloche certuni lasciano passarefraunavisitadalparrucchieree un’altra. Tutto il piano ècosí,tranneinalcunipuntiincuièrimastaqualchesaccadibruttura ospedaliera, nelsolito beige, sfuggita

all’attenzione dei ricchi. Lecamere piú belle sono quelleoccupate in passato da unbambino privilegiato affettodaunmalesenzasperanza.

Passocosíquasiun’ora.Lanoia può essere un problemaper tutti, qui dentro, ma ionon mi annoio mai aosservare i mei compagni direpartopallidi,macilenti,fareschizzi con l’acqua, impilarecubidacostruzioneocantare

insiemeaMissMargaret.Duefloride gemelle con lasindromediDown–Dolorese Delilah Cutty, che hannoentrambe la leucemia e chespesso sono in ospedale persottoporsi alla chemio neglistessi periodi in cui ci vengoio per il sughetto – stannofacendo una gara di capriolesul tappeto. Arthur, unbambino con la sindrome diCrouzon – le ossa del cranio

gli si sono saldate troppopresto–,stagiocandoalgiocodell’oca con una bambinaaffetta da Pandas.Ogni voltache tocca a lui muovere,lancia delle risatine stridule.Gliocchi,allora,glisporgonofuoridalleorbite.Di tanto intanto ne fuoriesconocompletamente,nelqualcasobisogna prenderli con unpezzo di garza sterile eficcarglielidinuovodentro.

Dopo tre o quattroocchiatine nella miadirezione, Margaret viene dame.Hanotato che sto con lemani inmano, cosache tuttele educatrici d’infanziaaborrono, anche se in realtà,qualcheannofa,neèarrivatauna,dinomeEldora, che eraunafautricedellameditazioneecercavadiinsegnarcialcuneposizioni yoga.Non è durataa lungo.Margaret si accuccia

–sonograndiaccucciatrici,leeducatrici, perché hannoimparatocheaibambinipiacecheglisiparliallaloroaltezza–, e vedendo che non hofinito ilmioOcchiodiDio,eche il filo pendeingarbugliato,michiedesehoqualchedubbiosucomefare.

In effetti ce l’ho. Com’èpossibile che l’intestino ti sirivolga contro, che le tuestesse interiora diventino il

tuo nemico? Com’è possibilecheArthur,conunatestacosígrossa, non sia un supergenio? Com’è possibile cherida cosí forte dovendosottoporsi, domani, a unanuova operazione, in cui lemani sapienti di qualchesadico ben intenzionato gliromperanno a bella posta lafaccia? Com’è possibile cheunuomocosípocoattraenteecosí irraggiungibile, cosí

malmesso e con i pantaloniche gli cadono, cosí penoso,continuiadassumereneimieipensieri la statura di ungigante? Mi passano per latesta tutte queste e altredomande, perciò cimettounpo’ a rispondere a Margaret,ma leièpaziente.Finalmentemenevieneinmenteunachemi sembra indolore: – Comesi faa farcambiare ideaaungay?

Vedete il pavone? Soffre dicroccantesorpresaalpolmone.Hamalealpetto,eognivoltache cerca di dire unagentilezzaaqualcunoglivienesolounagrantosse.Glipuzzatalmente il fiato che tuttiscappano,eanche luicercadievitarlo scappando, manaturalmente dovunque vadacontinua a sentirlo. Qualchevolta,percercaredisfuggirgli,trattieneilfiatofinoaperdere

isensi,masirisvegliasempre,anche quando non vorrebbe,ed eccola di nuovo, quellapuzza di pollo rancido,granchiodecrepitoo sederediippopotamo. Quando fa laruota adesso si vergognasolamente, e l’unica cosa chegliprocuraunpo’disollievoèleccare uno pneumatico inmovimento, operazionealquantodifficile.

Soffri,pavone,soffri!

Nonèprudenteconfidarsicon qualcuno, qui dentro.Anche ai pochi nonimpiccioni – ma in realtà losonotutti–èmeglionondireniente o mentire, piuttostoche fare qualche confidenza.Tichiedonoquandohaiavutoil primomestruo, o il primorapporto sessuale, se a casastai bene, se fai uso disostanze stupefacenti, sevorresti esserepiúbella epiú

magra o avere i capelli piúluminosi.Etuglidicichehaideicrampiterribili,olatristeabitudine di fare sessocompulsivoconisenzatettoalGoldenGatePark,ochenonsairinunciareaunasniffatadicandeggina tutte le mattineappenasveglia,otilamentidiessere grassa e di avere unacapigliatura che sembrasempre appena sciacquatacon la saliva. E loro allora ti

dicono, Ti aiuterò a perderel’abitudine della candeggina,non meno debilitante dellamalattia fisica, anche se inmaniera diversa,quell’orrendaabitudinechetiimpedisce di diventarepienamente te stessa.Oppureti offrono di spiegarti perchécoi senzatetto sia preferibilenon entrare in contattoanzichédarsialla fellatio,o tipromettonodilavartiicapelli

nientemeno che con loshampoo degli dèi. Ma tuttiloro vanno e vengono,tirocinanti, specializzandi eassistenti, infermiere eeducatrici d’infanzia,assistenti sociali e venditriciambulantiditamales:solotu,l’ospedale e la malattiarimanete sempre gli stessi. Itirocinanti cambiano ognimese, e se ti concedessi aciascuno è poco ma sicuro

che se ne approfitterebberocome un’intera squadra difootball del liceo siapprofitterebbe della piúappetitosa troiettapompon,etu, come lei, ti ritroverestischiava della tua storiapersonale, costretta asottometterti al deficiente diturno.

Le confidenze fortuite, o isegretifabbricatilíperlí,noncorrono meno rischi.

Margaret fraintende, pensache stia cercandoapprovazione. Lei èun’elargitriceprofessionalediapprovazione, concompetenze affinate inmigliaia di ore di giochi diruolo;hagiàfattolapartesiadella giovane lesbica querula,siadell’adultocheledàilsuoappoggio. –Non c’è nessunaragione di cambiare, – mi

dice. – Non devi vergognartidicomesei.

Questa è una lezione chehoimparatoparecchiotempofadamiamadre,cheerastatadavvero una lesbica, dopo lasuafasedisuoramaprimadiquella di moglie. «Non hocambiato rotta perché quellavalessemeno»,miavevadettoseriamente la mattina in cuimiavevatrovatafralebracciadiShelleyWoo,miavicinadi

casa e una delle pochebambine che abbia maiconvinto a dormire da me.Nonavevamopassatolanottea strofinarci, tenere edeccitate, come credeva miamadre. Ci stavamoabbracciandoconl’innocenzadi due peluche. «Ma guardache va bene», continuava aribattere alle mie proteste.Perciò so che è inutile anchediscutereconMargaret.

Essere diventata unalesbica dichiarata mi dà dapensare. Vago per il repartosalutandoframeemeconun«Ciao, infermiera!» tuttequelle che incontro.Mi siedonella loro guardiola, leosservo andare e venire, efaccio girare il grande, pigrocarrello che contiene tutte lecartelle cliniche, la nostraruota della sfortuna.Immagino di far scivolare le

mani sotto i loro bei camicieleganti–chenonsonoverdedentifricio come quelli deldottor Chandra, ma rosashocking, giallo canarino oblu oltremare, a disegnistampati di margherite, soliche ridono, nuvolette, oaddirittura con ricami diballerine hawaiane – e dipremereleditanell’incavofrale loro costole. Penso chepotrei strappare via coi denti

gli occhiali tempestati dilustrinidiNancy,omorderledelicatamente la cresta dellaclavicola. La caposala – unafilippinachesichiamaJory–vede che apro e chiudo laboccainsilenzio,emichiedese ho qualche problema allamandibola. Scuoto la testa.Nessun problema. Sto solocercando di spalancarla perfarci entrare un immaginario

boccone delle sue morbidetettemarroni.

Se a me viene cosí facilecalarmiinquestanuovaparte,chissà se a lui capita mai dipensare che effetto farebbeappoggiare la guancia sullamia pancia sfregiata, ostringermiicapellinelpugno.Quand’eropiccolailpediatra,il dottor Sawyer, una voltaall’anno mi guardava nellemutande,dicendo:«Controllo

solo che sia tutto normale».Ora immagino la visita, eimmagino lui che laimmagina conme.Mi mettel’orecchio sul petto e sullaschiena per auscultarmi, equand’è ora di guardarminelle mutande, fa tantod’occhi e dice: «Non ènormale,èstraordinaria!»

Una lucesfolgorantemisièappenaaccesafra legambe,inondandolodiraggicelestiali

che loportanosullarettavia,quando esce in tutta frettadalla stanza dei medici,dirimpetto alla guardiola. Ilportablocco gli scivola dimanoechiedescusa,nonsisaa chi; raddrizzandosi mi dàun’occhiata di sfuggita.Vorrei che sorridesse edistogliesse lo sguardo,abbassando la testa come adire «Oh accidenti», inveceaccennaappenaunsalutocon

ilcapoeseneva.Aspettochesvolti l’angolo, poi do unaspinta forte al carrellogirevole. Se la mia cartellaclinica si ferma davanti aimiei occhi, vuol dire che miama.

Vedete il maschio discimmia? Soffre di condannarenale cronica. I suoi renihanno una brama incessante

di cose: altre scimmie, alberi,personeefruttadiognigenere.Li sente rimestare dentro dilui,epremerglicontroilfiancoogni volta che si avvicina aqualcosacheglipiace.Quandodiceauna scimmia, femminao maschio, che i suoi reni lavogliono abbracciare, si beccauno schiaffo, un pugno o uncalcio nell’occhio. Di notte irenigli fannounmaleatroce.Èsempregonfioeumidiccioa

vedersi. Puzza come ungabinetto perché può fare lapipí solo quando nonvorrebbe, e ogni notte sichiede: Quante paia dipantaloni bianchi inamidatipuò rovinareuna scimmiadasola?

Soffri,scimmia,soffri!

Ogni quattro notti è diguardia. Rimane in ospedale

dalleseidelmattinoalleseidisera del giorno dopo, e dinotte sta sveglio perrispondere a svariateemergenze a portata ditirocinante.Lovedoentrareeuscire dalle stanze, scrutare idiagrammi lunghi mezzometro affissi a enormitabellonisulleparetidifiancoalle porte, o guardaresolennemente le infermiereche lo redarguiscono per

oltraggio aipazienti o al loroonore: una disposizione nonfirmata, il dosaggio sbagliatodi un farmaco, le mani noncorrettamente lavate. Losorprendoincorridoio, inunatteggiamentochemisembradidisperazione,sedutoaterrafuori dalla stanza di Waynecon il viso fra le gambe, epensocheabbiasaputodimee Wayne, e sia affranto. MahodatoilbenservitoaWayne

già parecchi giorni fa.Eravamo comedue astedellaflebodipassaggionellanotte,glihodetto.

Il dottor Chandra non èdisperato: dorme, senzarussare ma soffiando fortedalla bocca. Faccio qualchepassoversodi lui,abbastanzada poterlo annusare: sa dicaffè, gel per capelli esottaceti, o qualcosa delgenere.Perterraaccantoalui

c’èundiagrammaaperto,cosídall’alto riesco a leggerequanta pipí ha fatto Waynenelle ultime dodici ore. Miabbasso al suo fianco econsidero la possibilità disedermiedormireanch’io,diimitare la sua posizione esfiorare la sua spalla con lamia, di chiudere gli occhi emagari sognare il suo sogno,perché questo creerebbe unasorta di intimità fra di noi.

Ma prima che riesca asedermi, dal fondo delcorridoio sopraggiungeNancy, a passo felpato, senzascarpe, reggendo unabacinellamezzapienad’acquacalda. Un esercito diinfermiere, tutte col ditodavanti alla bocca, comparenel corridoio dietro di lei.Nancysiinginocchiavicinoaldottor Chandra, appoggia labacinellaaterraeglisollevala

mano dalla gamba cosídelicatamente, che penso lavogliabaciare,poiglielamettenell’acqua. Io sto lí in piedisenzamuovermi, perché nonvorreichesisvegliassementremi allontano, e mi credesseresponsabile dello scherzo.Nancy e le altre infermierescompaiono tutte nellaguardiola dietro l’angolo, enel corridoio restiamo dinuovo solamente io e lui.Mi

tamburello la testa cercandodi farmi venire in mente unmodoperuscire entrambidaquesta situazione, finché miaccorgodelcarrellodeipastiaduepassidanoi.Prendounacannuccia e mi inginocchiovicino a lui. Sono parecchilitri, ma mentre bevo miimmagino che abbiano ilgusto della sua mano.Quando, piú tardi, do distomaco, mi sembra la

migliore vomitata della miavita,perchéèperlui,ementreNancy mi tiene indietro icapelli e mi chiede che cosami abbia preso, a bere tuttaquell’acqua, fra me e me glidico,L’hofattoperte,piccolomio, sentendomi patetica esublimeallostessotempo.

Lo seguo per altre duenotti incui èdiguardia;nonlosalvodaaltrischerzicattivima lo becco a grattarsi e a

frugarsi pensando chenessuno lo veda, e vorreiessere lamanochegratta e ildito che fruga: è damatti, loso, ma sarebbe veramenteinteressante e gratificantepoterlo toccare inquelmodo–inqualunquemodo,anzi–,e mi chiedo che cosa cavolosto facendo, ma che cosa,mentregironzolodisoppiattocon sempre maggioredisinvoltura,mentremisiedo

di fronte a lui con un’ariaannoiatae loascoltoblandireil radiologo per telefonoall’una del mattino,considerando che potreiesserealettooaspassoconlamia piantana, considerandoche è un tipo strano, e nonpotròmaipiacergli,eparlainmodo buffo, e cometirocinante ha fama di averepoco sale in zucca. Invece lovedo che rimane fermo in

piedinelcorridoiopercinqueminuti, con lo sguardo fissosu un triciclo abbandonato,che appoggia il palmo dellamano contro il vetro di unafinestra e china la fronte aguardare le luci lampeggiantisulponte,emivieneunagranvoglia di sapere che cosa stiapensando, e dal mionascondiglio dietro un cestodi lenzuola sporche lo vedoche saltella su e giú per il

corridoio, che lui crededeserto, e sono sicurache stacercandodivolarevia.

Laquartanotte incuièdiguardia, nascosta nellostanzino sporco mentre luicincischiaconundiagrammadavanti alla porta dellacamera di fronte nelcorridoio,mirendocontochepotreifaremenofatica,ecosíquando se ne va ritorno incamera mia, guardo qualche

minuto il canale dimeditazioneepoimiesercitoa gemere: all’inizio esagero esembro troppo malata, poitroppo poco,ma alla finemiviene proprio bene, eschiaccio il pulsante perchiamare l’infermiera. Nancystanotte non è in servizio.Quando Joryarriva,mi trovache gemo e mi tengo lapancia. Mi dà Tylenol e ungoccio di morfina, ma sto

attenta a far calare di poco igemiti, cosí Jory chiama ildottor Chandra perchégiudichilui.

È una situazioneromantica, a modo suo. LelucisonofiocheeChandramiappoggia le mani calde,appena lavate, sull’addome,premendosuogniquadrante,un giro di palpazionesuperficiale e uno diprofonda. Parlando a voce

molto bassa,mi chiede semifacciapiúmalequi,qui,oqui.– Adesso ti schiaccerò lapancia tenendo la manoferma nello stesso punto perun secondo, e voglio che tumi dica se quando la tolgo tifa piú o meno male –. Miausculta l’addome, poi miprendelacavigliaemitendeeflettel’anca.

–Nonloso,–glirispondo,quandomichiedeseildolore

sia aumentatoodiminuito. –Rifacciamolo.

Vedetelaconiglietta?Halarovina del lume colonico,raffinatissima malattia cheviene solo ai conigli dellemigliori famiglie.Ma quandopiange lacrime di sangue, eragni spaventosi le striscianofuori dal sedere, preferirebbeessere povera, e nemmeno il

suostupendo lettorobotizzatoriesce a darle un po’ disollievo,oadistrarla.Quandoilcuscinoelettricoleprocacciasogni di coniglietti felici chegiocano nella neve prova soloinvidiaetristezza,enelsonnosi morsica la lingua, esanguina tutta la notte,mentre il letto le tampona lelabbra con batuffoli di cotoneimpugnati da lunghe ditad’acciaio.Tutte lemattineun

domestico la accompagna inautomobilealClubdelvasino,dove lei e altre conigliettericchesisiedonosuunafiladigabinetti di cristallo.Dovrebberoesseresueamiche,ma non le piacciono perniente.

Soffri,coniglietta,soffri!

Quandomivisitamimettodritta e nascondo i libri che

mi ha portato Margaret, lebiografie di Saffo, Billie JeanKing e Hilda Doolittle. Eraentrata zitta zitta in cameramia,avevarichiuso laportaeabbassato le veneziane, poi liavevatiratifuoridallacinturaripetendomicheconleiilmiosegreto era al sicuro, benchénon ci fosse ragione di tantasegretezza, e niente di cuivergognarsi, e che se avessivoluto dichiarare la mia

omosessualità mi avrebbedato il suo pieno appoggio,come me lo stava dando atenerla nascosta. Aveva giàescogitato uno striscione damettere sopra il letto, unarcobaleno punteggiato distelle, per il giorno in cuiavessi abbandonato ognisenso di vergogna esentimento negativo.Nascondo i libri, perché se ildottor Chandra li vedesse, e

credesseaquellochevoglionofar credere, non avrei piúsperanze. Non mi va che miconsideri solo una giovaneamica lesbica. Tiro fuoriqualche rinfresco, biscotti,succhi di frutta e budiniavanzati dai vassoi delpranzo, che continuano aportarmi sebbene oltre alsughetto io non sia in gradodimandaregiúaltro.

Non ho molti fidanzati,

fuoridiqui.Quandovengonoa sapere delle cicatrici sullapancia e della gastrostomia,quasituttiiragazziprendonole distanze prima che possanascere qualcosa, e gli uniciche perseverano nel lorointeresse sono i tipi viscidi acui piacciono i mostri. Homiglior fortuna qui dentro,con i ragazzi come Wayne,ma anche queste storie nonprocedonoallamanierasolita,

con quel parlarsi sempre dipiú finché pensi che lui tiabbia capito, e toccarsisempre di piú finché rimaniincinta senza neanche esseresicura di essergli piaciuta. Imiei convegni di mezzanottecon il dottor Chandra nonhannonientedinormale,maalmeno seguono un certoordine, un certo sviluppo.Loconvoco in camera, lui mimette le mani addosso,

prescrive un determinatotrattamento e poi torna pervedere se ha funzionato. Pertre notti di fila si mettedavanti a me, mi guarda peralcuni secondi, cambiandopiede d’appoggio, poi michiede se ho bisogno d’altro.In un lampo mi passanodavantiagliocchituttelecosedi cui avrei bisogno, marispondo«No»,eluiseneva,promettendomi di tornare a

vedere come sto piú tardi,cosa che non succede mai.Infine,laquartanotte,finitoilsuosolitoballetto,michiede:– Che cosa vuoi fare dagrande?Quando sarai adulta,intendo. Quando avrai finitolascuola,etuttoilresto.

–Medicina, – rispondo. –Pediatria.Chealtro?

– Non sei stufa di tuttoquesto? – mi chiede. Arretraverso la porta, ma a me

sembra che si stiaavvicinandoalletto.

–Forsesí.Madevo.– Puoi scegliere di fare

qualunque cosa, – dice, madal tono della voce nonsembrapensarlodavvero.

– Tarzan avrebbe potutonon diventare il re dellagiungla?

– Avrebbe potuto fare ilballerino, se avesse voluto.Oilgelataio.Qualunquecosa.

– Tu hai mai voluto farequalcos’altro,oltrealdottore?

–Mai.Neppureunavolta.–Eadesso?– Oh, – dice. – Oh, no.

Noncredo.No,non credo–.Il cercapersone vibrafacendolo sobbalzare. Loguarda. – Devo andare. Se ildolore si ripresenta dillo aJory,miraccomando.

–Vieniunattimoqui,–glichiedo.–Devodirtiunacosa.

–Piútardi,–ribatte.– No, adesso. È questione

di un secondo –. Credevo sene sarebbe andato, invece siavvicinaesifermainpiedidifiancoalletto.

–Chec’è?–Vuoidelsuccodifrutta?

– gli chiedo. In realtà avevointenzione di accusarlo, congrande delicatezza, di esseretaleequaleame,disaperelastessa cosa indescrivibile che

so io di questo posto, e delmondo intero. – O unbiscotto?

– No, grazie, – risponde.Quando è sulla soglia lorichiamo,glidicodi fermarsie tornare indietro.–Chec’è?– mi chiede di nuovo, eproprio nell’istante in cuimisembra di aver trovato leparole per dirglielo, ilcampanello delle emergenzesimetteasuonare.Sembralo

scampanellio di un gelataioambulante, invece vuol direche c’è qualcuno, su questopiano, che ha voglia dimorire. Chandra salta sucome se gli avessero dato unpizzicotto sul sedere, gira dauna parte in corridoio, siferma, gira dall’altra, tornaindietro: sembra che nonsappia decidersi se correreverso l’emergenza,o fuggirnevia.

Mi alzo e lo seguo incorridoio, appena in tempoper vederlo entrare di corsanellastanzadiEllaThims.Loscorgo, oltre la folla di genteassiepataallaporta,inpiedialcapezzale del letto, con l’ariadepressa e indecisa, ungrandepallonediventilazionein mano. Chiede a qualcunodi rintracciare sulcercapersone lospecializzando anziano, poi

mettelamascherasullafacciadiElla,chesanguinadalnaso,dalla bocca e dalle sedi dellestomie.Ognivoltachepremeil pallone, il sangue sprizzapertuttalamaschera,chenonriesce a far aderireperfettamente al mento diElla. Mentre la mascheracontinua a staccarsi, leinfermiere gli chiedono checos’abbiaintenzionedifare.

– Mah, – dice. – Mmm.

Unpo’ di ossigeno? –Nancyfinisce di collegare Ella almonitoresegnalaun’aritmia.–Diamole dei liquidi, – diceChandra.Nancygli chiede senon preferirebbe, invece,defibrillare.–Mah…Magari!– dice. A quel punto vengospinta via dall’équipe delpronto soccorso pediatrico,accorsa dall’altra partedell’ospedale alloscampanellio del gelataio.

L’assistente chiede al dottorChandra che cosa stiasuccedendo, e lui arrossisceancoradipiúedicequalcosache non riesco a sentire,perché vengo spinta semprepiú lontano dalla portamentre sempre piú personemi superano nella calca e siassembrano a cerchiconcentrici intorno al letto,qualcuno per guardare equalcun altro per salvare.

Rispedita alla guardiola delleinfermiere,mimetto inpiedidi fronte a Jory, che è sedutaaccanto al telefono e stasfogliandounarivista.

– Ehi, gioia, – mi dice,senza guardarmi. – Va tuttobene?

Vedete il gatto? È morto.La titubanza leucemica felinaèsempreterminale.Lotrovate

laggiú per terra. Poteteprenderlo.Avanti.Portateveloa casa e mettetelo sotto ilcuscino, e pregate i vostrigenitorio ilvostropupazzettoimbottito che chiamate Gesúdi farlo ritornare, e ditegli:«Torna, torna». Il mattinodopo puzzerà di piú,ma nonsaràpiúvivodiprima.Magarièinunpostomigliore,magarila sua malattia non potevaseguirlo là dov’è andato, o

magariètuttougualeaprima,il luogo è cambiato ma ildolore è rimasto lo stesso.Magari non c’è niente diniente,làdov’èandato.Iononloso,comenonlosapetevoi.

Addio,gatto,addio!

Ella Thims è morta alpronto soccorso pediatrico,uccisa, si è scoperto, da unaquantità eccessiva di potassio

nel sughetto. Il battitocardiaco era cosícompromesso che non sonoriusciti a salvarla, puressendosi accaniti su di leifino all’alba. Se ne sonoaccorti che stavamale già daunpo’,sicchéquandol’hannoattaccataallamacchinacuore-polmoneeragiàtroppotardi.L’hanno resa una mortavivente: il suo sanguecircolava,ma ametàmattina

del giorno dopo aveva giàcominciato a imputridiredentro. Il principale arteficedel disastro, si è appurato, èstatoildottorChandra,conlacollaborazione diun’infermieraappenalaureatache aveva minuziosamentecontrollato i veleni contenutinella soluzione e li avevasomministrati senza battereciglio. Poteva esserci uncocktailpiúmicidiale,sisono

chiesti tutti per ore, di untirocinante idiota eun’infermierasprovveduta?

Passo la mattina attaccataallamiapiantanadellaflebo,aguidare in tondo lungol’anello che corre intorno alreparto. È strano essere qui,con la luce del giorno, inmezzo a tutte queste personeindaffarate – un po’ menoindaffarate,oggi,eunpo’piúsilenziose, per via di questa

morte. Vado piú adagio delsolito,guidandocomefarebbemianonna, appoggio ilpiedesinistroespingo,senzafretta,fermandomi spesso perlasciar passare le équipemediche. Sfilano come lefamigliedi anatre: l’assistentein testa, dietro lo specialista,lo specializzando e glistudenti, tutti in riga, con ilnutrizionistacheciondolandochiude la fila. Pneumologia,

nefrologia, neurochirurgia,perfino ipoglicemia: neicorridoi girano le équipe dituttelespecialità,maquelladigastroenterologianonlavedodanessunaparte.

Avevo passato la notte aletto senza dormire,nell’attesa che venissero avisitarmi. Me li immaginavobene,tuttiaprendereacalciildottor Chandra fuori dallamiastanza,aturno,eildottor

Snood che come se nientefosse gli schiacciava il collocon lascarpamentre l’équipediscuteva minuziosamente lemieultimegesta.Maavrebbeanche potuto non venire. Seuccidi qualcuno forse tirispediscono a casa inanticipo. O forse era soloscappato a nascondersi daqualcheparte.Erosvegliamalo sognavo: rannicchiatodentro un armadio della

biancheria che ciucciaval’angolo di una coperta,oppure stravaccato sulpavimento del bagno, chepicchiava piano la testacontro la tazza del cesso, oancora,nudo,inginocchio,ininfermeria, che si sparavaBenadrylemorfina.Ovunqueandasse io lo raggiungevo, econ grande dolcezza losfioravo con lemani, sempresenzadirenulla, limitandomi

ad annuire, perché sapessechecapivoilsuotormento.

In tarda mattinata giranodelle voci: è saltato giú dalponte; si è buttato sotto untram; i genitori di Ella,presentatisi infine inospedale,l’hannoammazzato;è tornato a casa in Virginiasvergognato da tutti. Ioaggiungoetolgoparticolari:siè levato ivestitie lihaposatisul marciapiede,

accuratamente piegati, primadisaltare;iltramerapienodiragazzi di un coro tedesco; ilpadre di Ella lo strangolavamentre la madre loaccoltellava; i piedi glisporgevano fuori dal lettodellasuainfanzia.

Nonmifermoneancheperprendere le medicine; Nancymitrotterelladifiancoemelepassa al volo. Poco dopo,verso l’una, capisco che sto

inseguendo qualcosa, e chemi conviene sbrigarmi se lovoglio raggiungere. Hol’impressione – eppure nondovrei cascarci – che tutta latristezza recente, la tristezzanuova delle ultimeventiquattr’ore, debba avereun senso, debba portare aqualcosa, cambiare qualcosa,dentro di me o nel mondoesterno.Ma non so che cosapotrebbe cambiare, e penso

che niente cambierà: quidentro da sempre muoionobambini, e poveri idiotivannoevengono,edasempreilgiornodopoarrivanonuovimalati, pronti a lasciarsirovistareilcorpo,semprepiúdeboli nel loro lettod’ospedale, nella speranzanondiguarire,cosaacuiipiúsaggi hanno rinunciato datempo, ma di trovare quiqualcosa che li faccia sentire

meglio, solo per un po’, equalche volta la ottengono,questa cosa, ma piú soventeno.Pensoaimieianimalie lisento tutti, non solo il gattoma l’intero, stracarico,serraglio, gridareincessantemente:«Basta!»

Piú svelta! Piú svelta! Piúsvelta! Vado a una velocitàingiustificabile perfino perun’infelice ragazza conl’intestino corto. La gente

pensa: «Si vede che volevabene a quella bambina». Ioinvecepenso:«Nonlorivedròmai piú». Eppure ho quasidimenticato che sonoall’inseguimento di qualcosa,chenon sto sfrecciandoper icorridoi solo perché miprovoca euforia. Leinfermiere, gli studenti eperfino i piú altezzosiassistenti cercano discansarmi, ma il risultato è

che formano una pista dislalom. È merito mio, nonloro,senonvengonoinvestiti.Nancy cerca di sbarrarmi lastrada, di fermarmi,ma si fatimorosamente da parte benprimachelapossaanchesolosfiorare. Alcuni dottori,genitori in visita e ragazzi, epoi ancheunpaio di guardiegiurate, di cui una talmentegrassa da sbarrare tutto ilcorridoio, cercano di

arrestare la mia corsa, manessunodilorociriesce,emigridano cose che non sentoneppure. Sono concentratasulla finestra. Si trova in unpunto laterale rispettoall’anello, in fondo a uncorridoio di una trentina dimetri su cui si affacciano lasala giochi e il prontosoccorso pediatrico. Lafinestra incornicia un pilonedel ponte vicino, che oggi,

stagliato contro l’azzurroabbagliante del cielo, è di unarancione particolarmentevivo. Comincio a capirciqualcosa quando mi rendoconto che l’anello mi servecome rampa per prenderevelocità e infilare la finestra,che in questo momento misembral’unicaviad’uscitadaqui. La guardia giuratacicciona,Nancyeungenitoremi bloccano la strada subito

dopol’imboccodelcorridoio.Formano una catena umanachevadaunapareteall’altra,e quandomi avvicino due diloro chiudono gli occhi, manon la spezzano. Compio lagiravoltapiúrapidadellamiavita e torno indietro nelcorridoio.

È Miss Margaret afermarmi. Esce dalla salagiochitenendoinbracciounacesta di cubi da costruzione,

mi vede, guarda verso lafinestra in fondo al corridoioe strilla: – Porca puttana! –All’inusitata parolaccia, chepuremi fa inciampare, riescoa resistere, ma i cubi che hagettato sul mio camminocostituiscono un ostacoloinsormontabile. Ce nesarannounaventina,anchedipiú. Mentre cerco di evitarliprovo a leggere le lettere,pensando che formino il

nome della cosa che stoinseguendo,manonfacciointempo e riesco a leggere solola piú lontana, una R, e larossa Q che mi finisce sottouna rotella. Cado dallapiantana, che prosegue lacorsa scivolando verso lafinestra,mentre iomiritrovosullapanciadavantialprontosoccorso, con il cateterevenoso centrale che fuoriesceconunostrapposecco,netto,

come un dente estratto conun cordino fissato a unaporta.L’estremitàdeltubicinosi inarca in aria spargendogoccedisanguesulsoffitto,eio penso come sarebbe statobello se, ancora attaccato allapunta del catetere, fosseuscito fuori anche il miocuore, e che suono limpido,irripetibile, avrebbe fattotoccandoterra.

1Initalianoneltesto[N.d.T.].

Perchél’Anticristo?

Mio padre mi avevaavvertito: la tristezza siappiccica alla tristezza, e le

persone depresse si aggiranocome branchi di canibastonati. La disgrazia è ilpeggior collante diun’amicizia. Nello scegliertigli amici, diceva, devichiederti quali grandi cosepuoi fare con loro. Deviimbastire una squadra, midisse una volta, non unpatchwork di piagnoni, e mifeceprometterechenonsareimai entrato in

un’associazione di orfani ofigli affranti dal dolore,perché sedersi in cerchio acompatirsi a vicenda, e vederlodati e rinforzati i latipeggiori di sé, è un modosicuropernonfardecollarelapropriavita.Cosísivaingiú,midiceva, disegnando con lamano la traiettoria di unottovolante, mentre tu deviandareinsu.

Perciò afferrai subito la

situazione quando CindyHutchinson cominciò amostrare interesse nei mieiconfronti dopo la morte disuo padre. Era l’uomo piúriccodellanostra città ed eraal World Trade Center araddoppiare il suo capitalequandocifuloschiantodegliaerei. Cindy divennetragicamente famosa, ed’improvviso tutti siricordarono che mio padre

eramortoquandoeravamoinquinta elementare, e neisilenzi che calavano durantele frequenti interruzionidellelezioni, in cui si dava spazioalla discussione dei nostristati d’animo, tutti gliinsegnanti cominciarono aguardarmi, come se fossi piúmaturo degli altri perché lavita si era accanita contro dime prima e piú duramentedelnormale.Ocomeselamia

esperienzadialloramiavesseinsegnato qualcosa che oggiavrei potuto condividere, eche avrebbe aiutato tutti afarsicoraggio. Ioperò tenevogli occhi fissi sul banco,perché non avevo imparatounbelniente.

A lezione e a pranzosorprendevo Cindy aosservarmi,eunpaiodivoltevenneallapartita,enelpienodell’azione sentii un solletico

allanuca,alzailosguardoelavidi lí. Ma fino alla metà diottobre non mi rivolse laparola,né iocercaidiparlarecon lei, pur essendodispiaciuto come tutti per ilsuo papà. Era semprecircondata da amici eammiratori, e mi sembravache ricevesse tante di quelledimostrazioni di solidarietàdabastareperunavitaintera,cosígiravoallalarga.

Un pomeriggio, dopo lascuola, mentre camminavoverso il campo di lacrosse, lavidi divertirsi con le sueamiche sulle statue davantialla biblioteca. Quando mivide mi corse dietro, ma miraggiunse solo all’altezza delcomplessosportivo.–Ehilà!–disse.Mifermaiemivoltai.

–Ehilà,–risposi,alcheleirimase lí impalata, a tirarsi illembodellagonna,toccarsila

matita infilzata fra i capelli eguardare i tuffi dei ragazzidietro i vetri della piscina. –Già, – conclusi, perché nonsapevo che cosa dirle. – Civediamo.

–Socome ti senti,–disseall’improvviso,buttandofuorila frase inuncolpo solo,unasfilza di parole borbottate inun soffio, ma l’avevo giàsentita tante di quelle volte,che credo che l’avrei capita

anche se fosse statapronunciataincinese.

– No che non lo sai, –ribattei, e mi incamminai.Lasciò andare la mano,appena appoggiata alla miasacca.

–Questaseradounafesta!–miurlòdietro.–Vieni!

– Non vado spesso allefeste,–risposi,ilcheeravero.Nonmipiacevabere,nonmipiaceva vedere gli altri

ubriacarsi, lepersoneconcuimiinteressavapomiciarenonerano mai quelle a cuiinteressavapomiciareconme,e se volevo far piangere unaragazza ubriaca mi bastavastarmeneacasaefarpiangeremiamadre.

Invece ci andai, e forsequello fu il primo segnale,quella strana tensione chesentii per tutta la duratadell’allenamentoepoi a casa,

mentre preparavo la cena emia madre mi guardavamangiare, senza toccare quelche aveva nel piatto,limitandosi ad ammucchiarele patate e disossare il polloper metterne qualche strisciain bocca al cane. Avevopensato a Cindy e alla suafesta tutto il pomeriggio, enella doccia, dopol’allenamento, ero rimastocon gli occhi chiusi sotto

l’acqua come faccio sempre,con la sensazione di ruotaresumestesso,conipiedinudiche giravano sullemattonellerese scivolose dal sapone, equando avevo riaperto gliocchi mi ero ritrovato con ilvisorivoltoasud,indirezionedel fiume e di casa sua. Nonmi capita quasi mai dipensare di dover fare unacosa, ma quando succede disolito si rivela la cosa giusta,

comequandopasso lapallaauno che sembra non potersismarcare,oaunesamescelgounarispostachelaragionemidice che è sbagliatamaho lasensazione che sia giusta, efunzionasempre.

–Vadoaunafesta,–dissiamiamadre.

– Sono contenta per te,amore,–disselei.–Nonesciabbastanza. Questo tel’abbiamo già fatto vedere? –

Si girò verso il cane. Haqualcosa del barboncino, maper la gran parte è unmeticcio, e l’acconciaturaelegantechemiamadregli fafare tutti imesi ame sembrauna parrucca posticcia. –Cambiacanale!–gliordinò,eilcanecorseversoiltelevisoreelospenseconilnaso.–Be’,cistiamoancoralavorando,–dissemiamadre.–Matuvai,vai!Divertiti, e non badare a

questo–.Conunampiogestodellamanoindicòlestoviglie.– Penseremo a tutto io ePuppy –. Poco dopo, però,andò in camera sua, con ilcane alle calcagna, e richiusela porta, sicché dovettiriassettare io, prima discendere dalla collina perandaredaCindy.

Abitiamo nello stessograndequartiere,unodiqueiposti lungoilSevernincui la

gente paga un mucchio disoldi per vivere in mezzo aiboschi e sentirsi lontana datutti.A seguire la strada, contutte le sue curve, la casa diCindy sarebbe stata a trechilometri, ma tagliando peril bosco ce ne volle meno diunoperarrivareaipiedidellacollina.CindyvivevainBeachRoad, proprio sul fiume, suuna piccola penisola grandequantol’edificio.Ilvialettodi

accesso era pieno diautomobili, ma gli alberifiltravano la luce e il rumoredella festa, e solo quandosvoltai una curvami apparvela casa, con tutte le finestreilluminate. Cindy era sedutada sola nella verandad’ingresso, con un bicchieredivinoinciascunamano,unodi rosso e uno di bianco, ebeveva qualche sorso oradell’uno, ora dell’altro; mi

fermai a osservarla, in piedidavantialei.Nonsoperchélofeci, ma non durò molto,perchédopopocoCindyalzògli occhi e mi disse: – Erosicurachesarestivenuto.

– Io sto di merda, – midisse,–mavogliocheglialtrisi divertano –. Era questo loscopo della festa: al secondoposto, dopo la felicità

personale, c’era quella deglialtri. Cosí vagava da ungruppo all’altro dei suoiospiti, invitandoli a bereancora, ridere piú forte,cantare un’altra canzone, o asalire al piano di sopra perunapartitaastrippokernellasua grande camera da lettonell’attico. – Dài, –mi disse,poiché ero restio a prendereda bere. – È per una buonacausa.

La seguii di sopra e misedetti a giocare a poker fralei e Paul Ricker. Paul hagrandiocchieunvisoapertoe leale, e nel giro di ventiminuti era già in mutande.Quasi tutti si erano toltialmeno la camicia,mentre ioerosoloapiedinudi,eCindyera ancora completamentevestita. Entrava e usciva dalgioco: scappava a ballare disotto, a portare su nuovi

giocatori o a rinnovare lescorte di alcol, mescolandovodka,gin,gassosaesuccodipompelmo in una grandecoppa posata per terra alcentrodellastanza,incuipoiintingeva il mestolo perriempireibicchieri.

– Ehi, – disse Paul. –Stecca contro stecca! Corpocontro corpo! – Eravamonella stessa squadra di

lacrosse, e si divertiva aimitareilnostroallenatore.

– Certo, – dissi, cercandodi non guardargli la peluriasullapancia.L’avevogiàvistanella doccia, ma qui eradiverso, in una stanza inpenombra piena di ragazziubriachi, almeno un quartodei quali avevanoabbandonato il gioco persbaciucchiarsi davanti a tutti.Anche da ubriaco fradicio

continuava ad avere occhienormi, che al buiosembravano luccicare. Siavvicinò fino a toccarmi lagamba con la sua, e io miscostai. Allungò la mano ecominciò a fregarmi laschiena, con movimenticircolari,fralescapole.

– Ti homai detto che haiuna bella schiena? – michiese.

– No, – risposi, e mi

scostainuovamente.– Ehi! – disse. – Sto

scherzando!– Lo so, – ribattei io.

Sorrise,edivennetutt’occhietuttodenti.

– Io lo so, tu lo sai,noi losappiamo! – disse. Poi sisporse inavantiecominciòabaciarmisulcollo.Unattimodopo che mi si eraappiccicato, arrivò Cindy ascacciarlo.

–Eccoavoiilvincitore!–esclamò, annunciando chePaul era la persona piúubriaca della festa. Ci fu unapplausogenerale ePaul feceun inchino, poi si girò, siabbassò lemutandeemostròlechiappeatutti.

– Mi potete chiamare, –disse,–signorWinterbottom!

– SignorWinterbottom! –gridòqualcuno.–Ciraccontiunafavola!

– C’era una volta, – dissePaul, sculettando a ogniparola, – un ragazzo che sichiamavaPaul.

– Si cambia gioco! – disseCindy, dando una spinta aPaul,checaddevicinoallettoe ci mancò poco che sispaccasse la testa sulcomodino.Rotolòsultappetoe scoppiò in una risataisterica. – Tutti su! – urlòCindy cercandodi sovrastare

la musica. – Venite tutti disopra!–Salironosolointreoquattro, ma sembròaccontentarsi. Prese lecandele accese sul cassettonee sul davanzaledella finestra,le distribuí alle personeseduteaterraecifecemettereincerchio.Poi infilò lamanosotto il letto e tirò fuori unatavoletta Ouija. – Questogioco, – disse, – si chiama«Parlaconiltuopapà».

Paul fece una risatina,maperfino da ubriaco si accorseche era calato un silenzio ditomba.

– Cindy, – disse unaragazza dall’altra parte dellastanza. Era troppo buio percapire chi fosse. – È unacosa…credochesia…

–Va tutto bene! – replicòCindy. – Non è come pensi.So perfettamente che non èdavverolui.Ovvio.Nonsono

micamatta.Èsolounospiritorincretinito che fa finta diesserelui.Nonmifacciomicafregare –. Posò la tavoletta aterra,alcentrodelcerchiocheavevamoformato,ecominciòa tirar dentro gente,prendendolaperlacamiciasece l’avevano, oabbracciandola estrattonandola, sempredicendo:«Su,vieni».Inbrevesiformòuncerchiocompatto

di persone intorno allatavoletta. – Qui le mani, –disse, prendendo le dita eposandole sulla planchette,finché furono almeno indodici a toccarla. Io milimitavoatenereunacandela.–Zitti,adesso,–disseCindy,benché non stesse parlandonessuno. Aveva richiuso laporta ma si continuava asentirelamusicadelpianodisotto. – Fermi e zitti.

Intelligentoni, svuotatevi latesta.Ubriaconi, rimaneteunattimo seri –. A questa frase,Paulrisedinuovo.

– Seri! – ripeté Cindy.Dopo qualche istante disilenzio e di respiri profondi,cominciò a canticchiare abocca chiusa, a voce moltobassa,comesestessedandoilla solo a se stessa, perchéquandoinvocòsuopadreusòuntimbrodivoceancorapiú

bassodelmio.–Papà,–disse.–Padre.Tistiamoinvocando.Attraversa di nuovo il fiume,ritorna dalla nostra parte eparlaci. Siamo ignoranti evogliamo conoscere i segretideimorti.

– Ignorante sarai tu, –disse Paul. – Io no. Io vadobene cosí –. Sbuffò ma nontolseilditodallaplanchette, eCindynonglidiederetta.

– Papà, ci sei? – La

planchette si mosse subito, eondeggiando formòrapidamentedueparabolechecomposerolaparolaSí.

– Come ti sono andate lecose, ultimamente? – chieseCindy, sempre con quellavoceprofonda,dapagliaccio.

Com’era prevedibile cheandassero,risposelatavoletta.Date le circostanze. MalcolmWalker annotava le lettere e

poi leggeva ad alta voce leparolecheformavano.

–Be’,–disseCindy,–nonè chequassú siano tutte festein maschera e concorsi dibellezza.

– Quassú? – chiese Paul.Cindy gli fece segno di starzitto.

– Risponderai alle nostredomande?–chiese.

Certo,comesempre.Sonoiltuoumileservitore.

–Micamale,–disseSoniaChu. – Piacerebbe anche ame, far fare a mio padrequellochevoglio.

– Pensa bene ai desideriche esprimi, – replicòCindy.– Domande? Ci sonodomande?

– C’è qualche gay fra inostri insegnanti? – chieseMalcolm.

MrsLambertèlesbica,fularisposta. Sonia disse che non

c’era bisogno di uno spiritopersaperlo.

– I terroristi sono líall’inferno? – chiese Paul. –Stanno arrostendo sullospiedo?

L’infernoèunparadiso,perchi hauno sguardo innocentee un’immaginazioneincontaminata.

–Cherazzadirispostaè?–chiesePaul.

Le risposte sono domande.

Ledomandesonorisposte.– Di tutte le persone in

questa stanza, chi morirà? –chieseCindy.–Vogliamounnome!

–Cindy! – esclamòSonia.–Questaèpesante!

Tutti moriranno, eccettouno.Tutti soffriranno, eccettouno.

– Questa sí che è dabrividi,–disseMalcolm.

– È cosí che dev’essere, –

dissePaul.– Ma chi morirà per

primo?–chieseCindy.Che importanza ha il

tempo,giacchéprestofinirà?– Non risponde mai in

maniera molto diretta, –commentò Cindy. – Bisognaaverepazienza.

– Ma io non lo vogliosapere,–disseSonia.

– Invece sí,–disseCindy.–Dài,èsoloungioco.

Non è un gioco. È la finedeltempo.Lamiasofferenzaègrande, ma la vostra lo saràancoradipiú.

–Èstatoterribile?–chieseArthur. – Nella torre.Dev’essere stato terribile. Leil’havistoarrivare?L’havisto,l’aereo?

L’hovistoarrivarepertuttala vita,ma per voi è in serboundrammaancorapeggiore.

–Mi sa che sta dalla loro

parte, – disse Paul. Cindy gliordinòdichiudereilbecco.

– Chi morirà? – chiese dinuovoCindy.

Tuttitranneuno.Cindysbuffòspazientita.–

Talvoltaoccorreassecondarli,– disse, – per ottenere larisposta che si vuole.D’accordo.Chi?Chivivràpersempre?

Il Grande. Il figlio diLucifero.L’Anticristo.

– L’Anticristo è qui allafesta? – disse Paul. –Vado adargliuncalcioinculo!

È in mezzo a voi. Hasempre dormito e sognato inmezzo a voi, ma adesso èdesto.

–Chiè?–chieseCindy.–Smettila di stuzzicarci!Diccelo! – E questa volta laplanchette piombò non sullelettere, ma sulla persona chevoleva indicare; le dita si

trascinaronodietrolemani,lemaniicorpi,etuttiedodiciigiocatori caddero pancia aterra con la faccia sullamoquette. La planchettespiccò il volo, uscí dallatavolettaescivolòsultappetocome se avesse le ruote,fermandosinelpuntoincuilebraccianonavrebberopotutotendersi oltre e puntandodrittoversodime.Migiraiaguardarmi dietro le spalle,

aspettandomichissàperchédivedere sulla porta lamammadi Cindy, tornata in anticipodal viaggio fuori città con lasorella.Malaportaerachiusaenonc’eranessuno.

–Che festapazzesca,–midisse Paul Ricker il giornodopo. Eravamo nellospogliatoio a fineallenamento.

– Sí, – dissi io. – Moltostrana.

–Nonmiricordodinientediquellocheèsuccessodopole nove, ma mi hannoraccontatodellaOuija.Nontipreoccupare. Uno di quegliaffari ha detto a mia sorellacheeraGesú.

– Non ti ricordi proprioniente?

– Be’, ho un paio di flashsparsi. Mi ricordo di aver

cantato parecchio. Equalcosina del poker. E diaver cercatodovunque imieipantaloni. Nient’altro.Tranne… – Si chinòavvicinandomi la boccaall’orecchio. – Credo di averscopatouna.Nonmi ricordoniente, accidenti, ma lamattina dopo mi sonosvegliato conquest’impressione, etoccandomi in quel posto la

sensazione era la stessa diquando uno ha… hai capito.Chenedici,sonoononsonofuoriditesta?

–Seifuoriditesta,nonc’èdubbio.

– Ho una lista dicandidate, ma come faccio acapire qual è quella giusta?Non posso mica andare daCindy e chiederle: «Ehi,Cindy, abbiamo scopato ierisera?» A parte il fatto che di

sicuro non era lei. Vabbè, loscoprirò –. Lasciòammucchiata ai suoi piedi ladivisadaallenamentoe andòafareladoccia.

–Ti augurodi riuscirci! –glidissi, e aspettai cheavessefinitoprimadifarlaanch’io.

Cindy mi ribeccò mentreaspettavol’autobus.Malgradocifossepocaluceperleggere,erosedutosull’erbaconilmiolibrodistoria,unavoltatanto

concentrato sul testo, perciònonmiaccorsidelsuoarrivoe la vidi solo quando sisedettevicinoame.

– Ehilà, – disse. Non laguardai, cosí mi diede uncolpettosullaspalla.–Ehilà!

–Chec’è?–chiesi.– Che c’è? – ripeté,

facendomiilverso,maconunaccentodaritardato.–Grazieper essere venuto alla festa,ieri sera. Peccato che tu

l’abbia rovinata facendol’Anticristo.

– Sarà, – dissi. Dopo ilgiocodellatavolettamen’eroandato, benché Cindy miavesse chiesto di rimanere, eci avesse scherzato sumoltissimo, prendendo laplanchette,puntandolacontrole persone e dicendo cosetipo:«TuseiRonaldReagan»,oppure «Tu sei il papa»,oppure «Tu sei un

mostriciattoloconduepeni!»Ma sentivo che avevosbagliatoadandarci.Tornaiacasaecontinuaituttalanottead avere quella sensazione. –Di solito non vado alle feste.Finiscosempreneicasini.

– Non che ci sia qualcosadi male. Non midispiacerebbe conoscerel’Anticristo. Potrebberispondereamoltedomande,

essendo cosí beninformato.Giusto?

–Nonloso.– Be’, pensaci. Saprebbe

piúcosedinoi,no?–Immaginodisí.– Ero presa in questa

merda fino al collo, allemedie.Candelenere,piercingnascosti, preghiere alcaminettoefrasitipo«Satanaè il mio padrone!» All’epocaavevoicapellineriederonel

girodiSusieFreep.L’haimaiconosciuta? Va al Trinity,adesso.

– No, – ho risposto,semprecercandodileggere.

– Buon per te. Aveva unacattiva influenzasudime.Lamammadovettepraticamentefarmi fare una terapia didecondizionamento perallontanarmi da lei. Era tipola nostra sacerdotessa, unacosacosí.Halasciatoperdere

anche lei,eadessofapartediYoungLife.Chestoria,eh?

–Già,–risposi,dopodichéCindyrimasezittaperunpo’,ma si era fatto troppo buioperleggere.Ilcieloeraancoramoltoazzurroechiaro,ma ilprato ormai era in ombra enonriuscivopiúadistinguerele parole. Cindy si inclinòverso di me e appoggiò latesta sulla mia spalla. – Saràunabellaserata,–disse.

–Amepiace,l’autunno,–dissi,senzamuovermi.

– È la mia stagionepreferita, – disse lei. – Lorimane ancora, nonostantesettembre e via dicendo. Ehi,mia madre e mia sorellasaranno fuori fino a venerdí.Vieni a trovarmi, ciguardiamo un film, oqualcos’altro –. Rimase zittaunpo’piúalungo,mentreiomichiedevodove fosse finito

l’autobus, finché mi disse: –Ieri notte ho sognato chefacevosessoconmiopadre.

– È un sogno moltocomune,–commentai,ederavero,seilfattochelodicaunanalista basta a renderlo tale.Cindy sollevò la testa dallamiaspalla,equandomivoltaia guardarla mi gettòdell’acquainfaccia.

–Cristo,–dissi.–Equestochevuoldire?

–Brucia?–michiese.–Famale? – Era una normalebottiglietta di plastica ma iosapevo che conteneva acquabenedetta.

–Cristo santo! Fanculo! –dissi, strappandogliela dimano e bevendone una bellasorsata. Era molto calda, epensai che doveva averlatenuta tutto il giorno acontatto con il corpo. Labuttai a terra. – Contenta,

adesso? – le chiesi. – Adessola pianti? Mi lasci in pace?Nonhorispostedadarti.Nonsouncazzodiniente–.Presilamia sacca e la stecca emeneandai.

–Stavosoloscherzando!–miurlòdietro.–Dài,su,tidoun passaggio! – Ma ioproseguiiapiedifinoacasa.

Ero infuriato, e lo rimasiper tutta laduratadellacena,rispondendo a malapena a

mia madre che mi chiedevadella festa. Le dispiaceva chenon fosse stata moltodivertente,emidissechenondovevo generalizzare, e cherinunciare a tutte le feste percolpa di una sola era comerinunciare ad avere rapporticon le persone solo perché siaveva per padre un bifolco eun impostore. Poi miraccontòdiqualchefestaacuieraandataaitempidelliceo,e

del ballo di fine anno, in cuiera caduta da una barca esarebbemortasenonl’avessetenutaagallailvestito.Avevogià sentito queste storie. Purnon avendo praticamentetoccatocibo,mivennemaldistomaco. Ero convinto chefosse a causadell’arrabbiatura.

Poimivennelanausea,manon vomitai fino quasi amezzanotte, subito dopo

essermi addormentato. Misvegliai con un brucioreterribile alla pancia, seguitodaunsensodipienezza,eunattimo dopo vomitavo sulletto. Quando accesi la lucevidicheavevorimessosanguevivo. Mi aveva macchiato ilcuscino e le lenzuola, cosí lecambiai,pensandochelacosasarebbefinitalí,esentendomiperfinounpo’meglio,senonche il bruciore ricominciò, e

questavoltariusciiadandarein tempo al gabinetto, maavevo appena smesso divomitare che fui costretto asedermisullatazza,perchémiuscivano scariche di sanguenerodal sedere.Rimasi líperun po’, tremante einfreddolito, poi mi vestii ebussai alla porta di miamadre.

–Mamma,–dissi, –devoandareall’ospedale–.Bussaie

la chiamai un’altra volta. Ilcane abbaiò, ma fu l’unicarisposta che ottenni. Cosípresi l’automobile e andai dasolo.

– Io odio le assistentisociali, – disse Cindy. Nonvolevo visite,ma lei venne lostessoatrovarmiinospedale.Si presentò con i compiti discuola e un mazzetto di

bigliettid’augurifattiamano,eiopensaichel’insegnantediarte avesse chiesto ai mieicompagni di disegnarli perme, come succedeva alleelementari quando unbambino si ammalava o glimoriva il cane, ma quandoCindy me li diede vidi cheerano tutti opera sua. – Cen’eraunachevenivasempreacasa. Una della Croce Rossa.Nonsocomeciabbiascovate,

fatto sta che continuava apresentarsi alla porta e miamadre continuava a farlaentrare; prendevano il tè, epoi questa signora parlavaprivatamente conciascunadinoi.Comesemiamadrenonavesse avuto un analista dacinquecento dollari l’ora daben prima che mio padremorisse. «È dura perdere ilproprio padre», mi ha detto,«ma lo è ancora di piú se si

tratta di una tragedianazionale, oltre chepersonale».Lehorispostocheera un’osservazione moltosaggia,mamettendol’accentosu saggia in un modo che…mi spiego? In un modo chedal tono della mia voce sicapiva che la consideravoun’incapace. Lei invece hapensato che le stessi facendoun complimento e mi hadetto che ero molto matura

per la mia età. Cosí la voltasuccessiva, quando ci siamotrovatedasole,lesonoandatavicina,e indovinachecosa lehodetto?

Io stavo guardando fuoridalla finestra, era unasplendidagiornatad’autunno.Avrei voluto essereall’allenamento.

– Indovina che cosa le hodetto.

– Non lo so, – replicai.

Cindy era entrata che avevoappena finito di parlare conl’assistente socialedell’ospedale, la quale miavevachiestodinuovoperchémiamadrenonavessepotutoportarmilí.Leavevoripetutoche non stava bene, lei miaveva chiesto un’altra voltache cosa avesse, e io le avevorisposto che avrebbe dovutochiederloamiamadre.Èpiúbravadimeadire lebugie;è

capace di inventarsi unastoria nel tempo che ci vuolearaccontarla.Sapendocheseavessi parlato troppo avreifattocasino,mierolimitatoafissarelasignoraeadirlechemi stava tornando il mal distomaco, cosí se ne eraandata.

–Lehodetto: «Nonmi sipuò trattare come unafottutissima area disastrata».E lei ha detto: «Devi essere

molto arrabbiata. Capisco latua rabbia». Io odio leassistentisociali.

–Qualcunodeve farequellavoro,–dissi.

– Ma scommetto che le èvenuto un colpo quando lehai detto che sei l’Anticristo.Nessun assistente socialepotrebbe resistere allatentazionedirieducarti.

–Nonneabbiamoparlato.–ÈilfigliodelDiavolo,ma

credocheconigiustimodellidi ruolo potrebbe diventareun membro alquanto attivodellasocietà.

–Moltodivertente,–dissi.Cindy si alzò dalla sedia, sivenneasederesullettovicinoame emi prese lamano. Ionon la ritrassi e lei nondisseniente. Rimanemmo seduticosí per un po’. Entròun’infermiera per mettermiun farmaco nella flebo. Mi

curavano per un’ulcera nelduodeno, la partedell’intestino tenue che sitrovasubitodopolostomaco.Il dottore continuava achiedermi se fossipreoccupato per qualcosa,perchéquesteulcerevengonoachihafortipreoccupazioni.

–Credichelagentenoncipensi già piú? – mi chiese,una volta uscita l’infermiera.–Amiopadre,vogliodire.

– Non sono passatineanche due mesi, – lerisposi.

– Bastano e avanzano, –disse lei. – Di solito la gentesmette di pensare a questiorrori in un paio di giorni.Cioè, immagina se non fosseandata… com’è andata. Sefosse morto perché guidavada ubriaco, o qualcosa delgenere. Nel giro di unasettimananessunoci avrebbe

piúpensato.Inuncertosensomi piaceva quando la genteripeteva ininterrottamentechenientesarebbestatocomeprima. Perché era vero,almenoperme.E volevo chelo fosseancheper il restodelmondo.

– Non si ritorna mai allanormalità,–dissi.

– Io no, – disse. –Mamiriferivo agli altri. Mi piacevaquando in tv passavano e

ripassavano continuamentegli spezzoni dei filmati. Miamadre ogni volta spegneva iltelevisore, ma io tenevoacceso quello di cameramia.E ripetevo: «Sí, continuate atrasmetterli. Fatelo ognifottutissimamattina,inmodoche nessuno possa maidimenticarequellochehannofatto al mio papà». Adessoinvece mi tocca guardarloregistrato.

–Nonmipareunabuonaidea, – dissi. – A me bastavedereuna fotodimiopadreper diventare triste –. Leiallorasivoltòaguardarmiesiportò la mia mano sul suocuore.

–Ioetesiamotaliequali,sai.Taliequali.

–No,nonlosiamo,–dissi,togliendo lamano.–Homaldi stomaco. Voglio dormireunpo’.

–D’accordo–disse.–Ehi,stavo per dimenticarmene –.Rovistònellasuaborsaditela,grande quanto una valigia, eneestrasseunpacchetto.

– Mi hai già regalato ibigliettini,–ledissi.

– Forza, aprilo –. Eraun’altra tavoletta Ouija, ilmodello base, non unolussuoso come il suo. – Nondevi usarla da solo, se no

impazzisci o vieni possedutodaldemonio.

–Nonmenefaccioniente,–dissi,eCindysichinòsudime.

–Conmenonhaibisognodi fingere, –mi disse. –Nonfarelacommedia.Sochevuoiparlarecontuopadre.

– Cristo santo, – dissi, elasciai cadere a terra latavoletta.

–Ticibutteraiacapofitto

appenaesco.–Cristo!Lavuoipiantare?–SecontinuiadireCristo

in questo modo ti prenderailagonorrea,ochissàchealtro,– commentò. – Non ticonviene dire Cristo tutto iltempo–.Schiacciaiilpulsantedi chiamata dell’infermieraperchiederledimandarlavia,ma Cindy se ne andò di suaspontanea volontà. – Checosa vuoi che ti porti,

domani? – Lí per lí risposiniente,poiperòdissilasteccadi lacrosse e una palla. Efinalmenteseneandò,eiomiabbassai e feci scivolare ilgioco sotto il letto. Quandoarrivòl’infermieraledissichenon avevo bisogno di nulla,maleisi trattennecomunquequalcheminuto,ariempirelacaraffa dell’acqua e asistemarebenelecoperte.

–Carina, la tua ragazza,–

disse.– Già, – replicai, senza

spiegarle, chissà perché, chenon era la mia ragazza. Mimisi a pancia in giú e pensaialle partite di lacrosse, comefaccio di solito peraddormentarmi, e credo chedormii un paio di minuti,perchésognaichePauleiociaffrontavamo davanti aun’enorme folla di gente. Ilche non aveva senso, perché

io e lui siamo nella stessasquadra e Paul è portiere.Quando riaprii gli occhi,puntavano sulla finestra cheinquadrava un grande cieloazzurro.

Sfogliai i biglietti. C’eranoscritte cose tipo Spero chel’emorragia allo stomacopasseràpresto, oppureNientepaura, non morirai! In unac’era la silhouette di ungiocatore di lacrosse che

diceva La tua squadra habisognodite.SolounadicevaGuarisci presto, Anticristo!Quellalílabuttai.

Sarà un giorno come unaltro, diceva mio padre,alludendo al giorno in cuisarebbe morto. E diceva dinon annotarlo, non renderlospeciale o farne unacommemorazione funerea. Igenitori vanno e vengono,

diceva, e cosí dev’essere, eaveva solo quarantadue anni.Mi fece promettere di nonusaremai la suamorte comescusa per non lanciarmi inniente,dinonesserediquelliche abdicano alla vita perchéhanno avuto da Dio unadimostrazione precoce dellasua finitezza. Cindy dicevacheeracomeseavessevolutoaiutarmi a superare la suamorte prima ancora che

avvenisse.Edicevacheperleiogni giorno era quel giorno.Non aveva bisogno chefosseroricorrenzeprecise,unmese, sei mesi o un anno.Ognimattinascoccaval’ora,eognimattinaalrisvegliotuttoricominciava, i due aerei levolavano in testa e le torricrollavano.

Non so quand’è chediventammo amici, néquando smisediprovocarmi,

e neppure quando cominciaiad aspettare con ansia ilmomento in cui mi sareiseduto vicino a lei, dopol’allenamento, alla fermatadell’autobus. Mi aiutò acontraffare il certificatomedico in modo cherisultasse che potevo giocaredi nuovo nel giro di unasettimana, anziché di unmese. Chiacchieravamosdraiati sulla schienaa fissare

il cielo, senza neancheguardarci.Equalchevoltanelfrattempol’autobusarrivavaeripartiva, e a casa miriportavaleiinmacchina.

Avevapersodipopolarità,vuoiperchélagente,secondole sue previsioni, avevadimenticato l’accaduto, vuoiperché semplicemente nongradiva che vi accennassecontinuamente o neriparlasse,comeerasuccesso,

appunto, anche quellamattina. Quando smise ditrascinarsi dietro ovunqueuna marea di gente divennepiú facile stare con lei. PaulRicker disse sfottendomi cheavevo una fidanzata pazza,ma la cosa non mi diedefastidio, benché non laconsiderassilamiafidanzata.

Non tornò piú sullafaccendadell’Anticristo,salvoqualche raro caso, in cui

diceva cose tipo: «Quandoerediterai il tuo regno dovraioccupartidilui»,alludendoalnostro odioso insegnante diinglese, al preside o a unodiquellicheavevanocominciatoa prenderla in giro. Oppurediceva,moltodi sfuggita, chetramite la tavoletta erariuscitaamettersiincontattocon uno dei terroristi, chel’aveva accolta come unonorevole membro delle

Brigate Anticristo. Se a quelpunto mi arrabbiavo, leirideva, mi dava una paccasullaspallaedicevachestavascherzando. Ammise chel’ulcera era capitata per purocasodopol’acquabenedetta,ea fine novembre credevoormai che avesseabbandonato l’idea, erinunciato a darmenedimostrazione.

Ma una sera uscimmo a

fareungiro in automobile, ilgiorno stesso della primagrande nevicata. Dopo averpreparato la cena per miamadre scesi a piedi a casa diCindy e la trovai che stavacostruendo una rampa dilancio per sua sorella, persaltare con gli sci. Sopra laloro fossa biologica c’era unpiccolo terrapieno da cui sipoteva prendere velocità. Larampa di lancio, però, era

troppo vicina alla casa, eglielodissi.

– Va bene cosí, – ribatté.Ma quando la sorella saltò,finí direttamente in garageconglisci.

– Te l’avevo detto, –commentai.Lasorellaritornòin casa piangendo eminacciando di dire allamamma che Cindy l’avevafattoapposta.

– Togliamoci di qui, –

disselei.Facemmoungiroinauto, come al solito, su e giúperlecollinedellanostracittàepoioltre, fino allaGeneralsHighway. Me ne stavostravaccato sul sedile con ipiedi sulla plancia senzapensare a niente, mentreCindy parlava. Si fermò aprendere una pizza con cuiaccompagnare la birra cheaveva rubato dal suofrigorifero, e andammo a

mangiarla in un posto checonoscevamo, un sito incostruzione lungo il fiume acirca quindici chilometri dadove abitavamo. Arrivammoche era buio; gli escavatorierano ombre gigantesche tragli alberi.–Casa, finalmente!– disse Cindy, fermandol’auto in una stradina checonduceva a uno scavoaperto.

In un battibaleno montò

sulsedileposteriore.Disolitoparlavamounpo’, appoggiatiallo schienale con gli occhichiusi,enonnecessariamentedei nostri padri o degliattacchi alle torri o anche discuola e di lacrosse, e soloquando cominciava a farfreddo Cindy mi diceva chedietrosaremmostatipiúcaldiperché avremmo potutosedercivicinivicini.

– Non vuoi un po’ di

pizza?–lechiesi.– Non adesso –.

Tamburellò con la mano sulsedile di fianco a lei, e andaidietro.

Non concludevamo maigranché. Avremmo delusoPaul e la sua morbosaimmaginazione. Mi facevasempre domande moltoparticolareggiate, su atti einserimenti di cui avevo amalapena un’idea, finché il

mio imbarazzo era tale dazittirlo. Cindy e io cibaciavamo e abbracciavamo,e di solito mi toglievo lacamicia perché le piacevaappoggiare la guanciadirettamente sulmio petto, etalvolta quando la stringevocosí era il momento in cuiparlavamo di piú dei nostripadri, normalmente dipiccole cose successequand’eravamobambini,cose

belleocosebrutte,nonfacevadifferenza. Poi ci baciavamoancora, e sapevo che avrebbevolutoche facessipiúdiquelchepotevo.Era solo lapauraa impedirmidi spingermi findove mi avrebbe permesso.Mi sarebbe piaciuto, credo,masentivochesel’avessifattosarebbe successo qualcosa ditremendo. – Forse dovrebbesuccedere qualcosa di

tremendo, – disse lei quandoglieloconfessai.

C’era già un che diincredibilmente consueto,familiare, in tutto questo.L’effetto del sedile di cuoiocontro la pelle della schiena,la lucedella lunachepassavaattraverso i finestriniappannati facendo brillaretuttalamacchina,eleichemitiravaicapelliperrovesciarmiindietro la testa e baciarmi

sotto il mento. Tutto andavacome doveva. Se Cindysussurrava qualcosa checapivo male, o pronunciavafrasi di cui afferravo unaparola sola, come «cadere»,«cielo»o«aperto»,nonneeroinfastidito.Maquellaseramiaveva slacciato i pantaloni,pur non avendo infilatodentro la mano, e ora mipremeva i fianchi addossocon tale forza che pensai che

il telaio dell’auto sarebbecrollatoesaremmofinitisullaneve. Poi mi mise la boccadirettamente dentrol’orecchioemidisse:–Voglioche sfondi il mondo interoconunpugno,comehaifattoconleduetorri.

Balzaisue lacacciaivia.–Eh?

–Niente,–rispose.–Nonho detto niente –. E cercò di

baciarmi ancora, ma larespinsi.

– Devo tornare a casa, –dissi,emiinfilailacamicia.

– Come vuoi, – disse,guardandomi montare sulsedileanteriore.Rimasi líperunpo’,con lapizzadinuovosulle ginocchia e lo sguardofisso davanti a me mentreCindymichiedevaditornaredietro. Finalmente fece ungran sospiro, uscí e girò

intorno all’auto perraggiungere il sedile delguidatore.

– Come hai potuto direuna cosa simile? – le chiesiquand’eravamo circa a metàstradaversocasa.

– Non mi giudicare, –rispose.–Chenesai,tu?

– Hai detto una cosatremenda,cazzo.Esec’èunache può saperlo, sei propriotu.

– Vaffanculo, – disse. –Che cosa ne sai tu? Tu chenon puoi nemmeno essereferito. E non dire a me chesono tremenda, tu che seifigliodelDiavolo,cazzo.

–Seipazza.– Puoi scommetterci, –

disse. – Chi avrebbeimmaginato che l’Anticristofosseuntaleperdente?–Nonseppi che cosa replicare, epensaidichiederledifermare

l’auto per tornare a casa apiedi, ma aveva ricominciatoanevicare.

– Hai mancato il mioincrocio, – le dissi, quandosuperò la Severna ForestRoad.

– Puoi andare a piedi dacasa mia, – disse. Appenafummo nei pressi accelerò ecominciòaprendere le curvestrette di Beach Road acinquanta chilometri all’ora,

sul ghiaccio e sulla neve.Quando le dissi di rallentarenon replicò, ma un attimoprimachegiungessimoacasasua si voltò a guardarmi, misorrise,siallungòsopradimee con un abile gesto misganciò la cintura disicurezza. Prima che potessichiederle che cosa stessefacendopigiòsull’acceleratoreeimboccòlarampacheavevacostruito prima, puntando

l’auto direttamente contro ilgarage.

Quando saltammo dallarampa le scappò un grido.Forseeraunaparola,manonavrei saputo dire quale.Riuscii a malapena adafferrare la cintura con lamano, poi infilammo ilportone del garage eandammoasbatterecontroilmuro di fondo. La sua autoera una Volvo – la roba piú

sicura che suo padre potessecomprarle. Ma doveva averdisinserito il mio airbag.Passaidirettamenteattraversoilparabrezza.

Sepersiisensi,fusoloperun attimo. Mi tirai su asedere, là dove ero cadutooltre il cofanodell’automobile, ed essendoaccese le luci del garage miaccorsi che ero ricoperto dipizza,nondisangue.Quando

mi alzai in piedi mi sentiimoltoindolenzito,eilnasoaltatto mi doleva. Cindyimprecava, cercando didistricarsi dal suo airbag. Lasua portiera non si apriva,cosídovettepassaredallamia.Ionel frattempomene stavolí in piedi a guardarmiintorno, fra scaffali pieni dibarattoli di vernice, vecchiecoppe e attrezzi dagiardinaggio.

– Te l’avevo detto! – urlòCindy,dandomideipugnisulpetto,nonavreisaputodireseper aggredirmi ocongratularsi. – Te l’avevodetto,cazzo!–Dietrodileisiapríunaporta e comparve lafaccia di sua sorella, amezz’aria subito a sinistradellostipite.

–Porcamiseria,haicapitoadesso!–disse.

Cindydiede un’altra festa.Non so come riuscí aconvincere sua madre alasciarla di nuovo a casa dasola, mentre era fuori città.Erano passate appena duesettimane da quando avevadistrutto l’auto, ma se l’eracavata con la scusa che lamacchina aveva slittato suunalastradighiaccio.Iononle parlavo piú. Mi mandavabigliettini che le restituivo

senza leggere, e dopol’allenamentoandavosubitoacasa a piedi invece diaspettarel’autobus.

Questavoltaalla festanonandònessuno. Feci la discesafino a casa sua ma rimasi aguardare dietro gli alberi. Ditanto in tanto vedevo il suoviso alla finestra. Fissava alungo il cortile vuoto, poiscompariva. Mi rattristavapensare a Cindy seduta lí da

sola nella sua grande casa,convinta che nessunopensasse piú a suo padre e aquello che era successoappena un paio di mesiprima, vedendo confermati isuoi peggiori sospetti sullepersone. Ma non me lasentivo di andare a bussarlealla porta, e non solamenteperché avevo paura di quelcheavrebbepotutoescogitare

dinuovoperdimostrarmicheerochileipensava.

– Com’era la festa? – michiese mia madre quandotornai a casa. Era seduta incucina con il cane, che eranellasuaposizionepreferita,apancia in giú sul tavolo, conla testa sopra le zampeincrociate. Rimanevano cosíperoreeoreaguardarsinegliocchi, mentre mia madrebeveva, finché arrivava il

momento di accendere iltelevisore, uscire a fare unapasseggiataoandarealetto.

–Sonoandatoviapresto,–lehodetto.

–Nontidivertivi?–Miannoiavounpo’.–Be’,peccato.Cibeviamo

qualcosa? – chiese; era unapropostaeunarichiesta.Presiil suo bicchiere, ci misi delghiaccioedell’altravodka,eame versai un po’ d’acqua.

Quando mi sedetti il canegirò su se stesso, senzasollevarsi, solo trascinandosisullezampecomesenuotasse,e cosí ruotando in sensoorario simise in faccia ame.Miamadre gli fermò la codachebatteva sul tavolo. –Unaserataccia anche per me, –disse. – Puppy e io abbiamoparlato un po’ –. Allungai lamano verso il cane,aspettandomi che si ritraesse

o mi ringhiasse, invece cistrofinòilmusocontro.–Gliho chiesto: «Dove sta scrittoche una donna deve soffriretutta la vita?Dove sta scrittochesuopadredebbamorire,esuamadreanche,eanchesuofratello e sua sorella, e suomarito?»

– Ma è solo un cane, –commentai.

–Nonpretendochemidiaunarisposta,–disse,rizzando

la schiena e guardandomidall’altodelsuolungonaso.–Avrei potuto chiederlo a untavolo, al tappeto o al cielo,che era lo stesso. Hai sentitounasolaparoladiquelchehodetto?

– Hai mai adorato ildiavolo?

– Eh? Che razza didomanda è? Perché me lochiedi?

– Non lo so –. Il cane si

girò di nuovo verso di lei,come offeso anche lui dalladomanda.

– Se non hai voglia diparlare,–disse,–sesei stufodime,bastadirlo–.Sialzòinpiediefeceschioccareledita.Il cane saltò giú dal tavolo ecorse in camera loro, e lei loseguí senza aggiungere altro,sbattendosi dietro la porta.Rimasi ancora qualcheminuto seduto al tavolo, a

bere la mia acqua, poi miversaiunpo’della sua vodkaemi sedetti sulla sua sedia, abere e riflettere, ma capiisubito che non era roba perme, e che non mi sarebbeservito a niente, starmeneseduto lí come faceva lei.Andaiincameramia.

Avevo buttato via latavoletta Ouija già cinquevolte, e cinque volte eroandato a riprenderla nella

spazzatura,me l’eromessa ingremboeavevoparlatoconlamente,olospirito,chedicevadiesseredimiopadre.Quellanotte conversammo a lungo.Tunonseiunacreaturacomele altre, disse, perché sei ilfiglio della mia mente e delmio desiderio, e la perfezionesi faognigiornopiúspazio inte. Ben presto non avrai piúnulla di umano. Oggi unapuntura di spillo ti fa

sanguinare, una preghiera tidà il voltastomaco. Domaniattraverserai nudo i campi dibattaglia e schiaccerai le casesotto il tuo tallone. Alza lamano, allora, e un’aquila siposerà sul tuo pugno. Lanciaungridooltraggiosoalsole,edesso tremerà nel cielo.Innumerevoli volte l’haisentito, l’hai saputo, il tuopotere,perunistantesolo,congrande meraviglia, poi la

menzogna necessaria ti haavviluppatoehaidimenticato,e l’immensa,prodigiosaveritàti è parsa un futilevagheggiamento. Un giorno,presto, l’esatto contrario saràvero,erisvegliandotiincimaauna montagna di teschismetterai di vagheggiareun’esistenza cupa e ordinaria,e ti chiederai: Davvero erocosí? La mettevo via percinque minuti, e subito la

riprendevo e ascoltavo dinuovo quello che mi diceva,lettera dopo lettera:Innumerevoli volte mi chiedi,innumerevolivoltetirispondo.Hai sempre saputo il perché.Hai sempre sentito che c’eraqualcosa di sbagliatonell’inconcludenza con cuicercavi di corrompere ilmondo intero. Ho dettocorrompere: volevo direperfezionare.Perciòcomepuoi

chiedermi perché, quando ilproblema di cui ti lamenticontiene in sé la risposta e lasoluzione? Figlio mioprediletto, quando lasmetterai di affliggerti per ciòdicuidovrestiesultare?

Rimasi due ore adascoltare, messaggio dopomessaggio. Come sempre,quando fu tutto finito provaiunsensodivergognacomeseavessi passato il tempo a

masturbarmi. Andai adormire ma continuai arigirarmi nel letto, pensandoalternativamente a Cindy,Paul emiopadre.Quando laluna fu abbastanza alta dafiltrare attraverso la finestra,pur con le tapparelleabbassate entrò troppa lucenellastanza.

Andai sotto il letto, comefacevo spesso da piccolo,speciequando imieigenitori

litigavano o ero spaventatoper qualche altro motivo. Aqueitempituttiibambinicheconoscevo avevano il terroredello spazio sotto il letto,mentre io in quel posto nonavevomai paura di niente, epiú era buio, piú ci stavobene. Tirai giú la coperta inmodo che arrivasse quasi alpavimento e mi facesseschermo contro la luce, poichiusi gli occhi e mi

abbracciai le ginocchia.«Perché l’Anticristo?», midomandai, ma per una voltasenza riferirminecessariamente a qualcosa oqualcuno. Ma volevo capire.Perché?Perchédoveva esserequella la rispostaalproblemachesentivodiaveredentro?

–Èunpo’chenonvedoingiro quella matta della tua

ragazza,–midissePauldopol’ultimo allenamento dellastagione.

–Non è lamia ragazza, –risposi.–Nonloèmaistata.

– D’accordo, la tua non-ragazza, – disse. – Dov’èfinita?

–Nonloso,–risposi.–Acasa,presumo.

–Comunqueèmeglioselalasci perdere per un po’.

Lasciala decomprimere.Smattire.Mispiego?

– Direi di sí. Ehi, saigiovedí quando correvi conquel difensore del Trinityversolaporta,eluicercavadicolpirti ma ha preso solo iltuo guanto, ed era cosíconcentratoacolpirtichenonsi è accorto che Malcolm siera messo in posizione diblocco?

– Già, – disse, sempre

rivoltoversol’armadietto.– Ed è rimbalzato contro

Malcolm e tu hai fatto queltirodifiancocheèpassatofralegambedelportiere?

–Ah-ha.–Grandeazione.– Grazie, – disse, poi si

girò e sorrise. – Non seimalaccio neanche tu –.Eravamosolinellospogliatoioperché Paul passava le oresotto la doccia e io ero

rimasto lí tutto il tempo acincischiare e chiacchierarecon lui. Si voltò percontinuare a farsi la borsa, edalmodo incui sorridevamisembrò di non avere altrascelta, in quelmomento, cheandare a stringerlo fra lemiebraccia. Sembrava una cosainevitabile, come quandol’auto di Cindy si eraschiantata contro ilmurodelgarage ed ero volato

attraverso il parabrezza; unacosa che nessuno avrebbepotutoimpedire,comeallora.Eperunistante,mentreerolíche gli tenevo un bracciointorno al petto e l’altrointornoallapancia,elosentiirilassarsi contro di me,sembrò che al mondo ognicosa andasse per il versogiusto,echedifronteamesiaprisse un’epocacompletamente nuova, in cui

nonc’eraspazioperCindy,latavoletta Ouija o il fatto diessere il figlio del Diavolo.Ero certo che mi avrebbepreso lamano e che avrebbepronunciato il mio nome, easpettavocongliocchichiusi.Invecemi allontanò con unagomitata, si girò e mi diedeuno spintone. – Che cazzofai? – disse. – Che c’è? Cheproblema hai? – Lo guardaisenza dire niente,

sfregandomi il petto dovemiaveva spinto, perché nonsapevocherispostadargli.

Dopo l’allenamento tornaia casa a piedi e andaidirettamente in camera mia,senza uscirne neanchequandomiamadrebussòallaporta per chiedermi che cosacifossepercena.Continuavoaprendereearimetteregiúlatavoletta, e me ne stavoseduto con la schiena contro

il muro a fissare lo spaziosotto il letto, ma senzastrisciarci dentro, perchétemevo che se l’avessi fattononnesareipiúuscito.Sentiimia madre che si preparavaqualcosadamangiare,parlavaal cane, guardava latelevisione. Andò a letto cheera passata la mezzanotte.Aspettai di sentire la suaporta che si chiudeva, poiusciidacameramiaedicasa.

Tagliai per il bosco giú dallacollinaeandaidaCindy.

La finestra di camera sualampeggiavadiazzurro,rossoe arancione, come se stesseguardando la tv. Lanciai unpaio di meline selvatichecontro il vetro, colpendolodelicatamente.

– Eccoti, – disse. – Vuoisalire a vedere un film? –Risposi di sí. Venne adaprirmi al pianterreno e mi

condussepermanoattraversola casa buia, oltre la cameradella madre e quella dellasorella, attenta perfino a noncalpestare la luce che filtravasottoleporte.

–La festa era la settimanascorsa, – mi disse quandofummoincamerasua.

–Loso,–ribattei.–Be’,megliotardichemai

–. Mi fece sedere sul letto,spenseiltelevisoreearmeggiò

con il computer. – Vuoi deipopcorn?

–No,grazie.– Meglio. Non sarebbe

appropriato. Questo mel’hanno regalato al miocompleanno –. Rigirò inmano un videoproiettoredigitale per farmelo vederebene. – È meglio di unsempliceschermo.Loportereidi sotto semiamadre e quelcriceto di mia sorella non

fossero in casa. In salottol’immagine si può allargareveramentetanto.Esipuòfareche quandounodi loro saltapoi salti anche tu,dalle scale.Solo che tu atterri sul sofà,ovvio.Manonèchecenesiabisogno.Siamopronti.

Schiacciò un pulsante etutta una fetta di murodivenne un rettangolo deltipico blu elettrico digitale,quindidiunazzurrocielopiú

delicato, e poi la telecamerapuntò verso il basso perinquadrare un uomo sedutoal tavolino di un bar, cheparlava in silenzio, beveva ilsuo caffè e gesticolava con lamano per sottolineare le suemute esclamazioni. Dietro dilui erano chiaramente visibilileduetorri.

– Lo guardo sempredall’inizio, – disse. – Sperochenontidispiaccia.

– No, assolutamente, –dissi, e le presi la mano. Laritrasse.

– Ehi, attento! Questalezione è per te, non perme.Iolaconoscogià.

– Lo guardi tutte le notti?–Sistrinsenellespalle.

– Quello è Antonin, –disse, indicando l’uomo. – Sichiama cosí, ho scoperto –.Alle sue spalle comparvel’aereo, e l’esplosione sembrò

diramarsi in tutta la stanza.Cindytrasalíemiriacciuffòlamano.–Cisiamo,–disse.Cimettemmosedutiaguardare;Cindy simordeva le labbra emi stringeva forte lamano.–Ora! – disse, alzandosi inpiedi un attimo primadell’impatto del secondoaereo. – Questo non miprende mai di sorpresa. Tusenti qualcosa? Ti ricordiqualcosa?

–Tipo?–Ma sí, lo sai. I ricordi. I

perché.Tuopadre.– No, – dissi. – Vieni un

po’qui.– I volti non si vedono, –

disse. –Neppure sulla paretedelsalotto.Mentresilancianodi sotto, non li si vede infaccia. Ho pensato che se sipotessero proiettare leimmagini sul muro esternodella casa, forse… forse se

vedessi un volto, sapresti chisei.

–Iosobenissimochisono,–dissi.–Echecosavoglio.

–Noncambimai,–disse,scuotendo la testa. – Aspettaperò, ho un’idea. Togliti lacamicia.Solo lacamicia.Nonhodettoipantaloni.Vabbè–.Prese il videoproiettore e logirò inmodoche illuminasseme anziché il muro, quindi,mettendolo a fuoco

lentamentemanmano che siavvicinava,creòunrettangolodell’esatta dimensione delmio torace. Chiusi gli occhicercandodipercepireilcaloreemanato dalle fiamme. – Eadesso?

–Niente,–risposi.– Accidenti –. Puntò il

proiettorecontrolospecchio,io cercai di guardare ma laluce era troppo forte. Cindyallora si tolse a sua volta la

camiciaesimiseinmodochele immagini colpissero lei. –Vedi? – chiese. Vedevo lepersone che si lanciavano,cadevano dal suo viso,scomparivano nell’angolonero sopra la spalla e infineprecipitavanooltre le costole.– Vedi? Se si fa cosí, si puòquasi sentire ciò chesentivano loro. Terribile,vero?Adessotiricordiperchél’haifatto?–Leandaivicinoe

feci una cosa che sembraval’esatto contrario di quelloche avevo fatto con Paul. Laabbracciai da davanti, masenza nessuna tenerezza, econ la sensazione che tuttoandasse,eavrebbecontinuatoad andare, per il versosbagliato.

Il videoproiettoreilluminava lo spazio sopra ilsuoletto.Quandosisdraiòlaluce la scavalcò, mentre

quando fui sopra di lei sentiile torri sulla schiena, equandosisedettesopradimele vidi che risalivano lungo ilsuo corpo, per poiridiscenderneimprovvisamente quando laprima crollò. Ci rotolammosul letto, e mi sembrò che ilproiettore ci avvolgesse diluce, e nel mentre anchel’oscurità ci avviluppò,strisciando fuori dallo

specchio, dalla finestra e dasotto il letto e insinuandosifra di noi. L’oscurità miriempílatestaenonvidialtroche lampi di luce nel buioinfinito.Cindysiallontanò,econ lei il mondo intero, epure la tristezza che avevodentro, non solo dalla mortedimiopadremaognisingologiorno della mia vita. Anchequella se ne andò. Sentii una

voce che diceva: «Eccoti.Eccoti».

– Eccoti qui, – stavadicendo Cindy, quandoriaprii gli occhi. – Eccoti,finalmente. È dura. Èveramente dura, essere ilfiglio del Diavolo, ma ti ciabituerai. Ci si abitua a tutto–.Rimasi fermodov’ero, conla faccia premuta contro lasua spalla, piangendo nonperché ero triste ma perché

finalmentesapevochiero,ecicredevo, grato e felice per ildisastro che avevo appenacausato, il disastro che avevogià provocato e quello cheancora dovevo provocare,ogni catastrofe amepiú caradi quella precedente,pensando che se anche nonstavo guardando gli edificisulla parete, nella mia testaluccicavano come candelinesuunatortadicompleanno–

Opadre, lascia che brucino illoro calore è perfetto come ilmiogiubilo–perfesteggiareilmioprimogiornodivita.

Ringraziamenti

Grazieinfiniteaglieditorchehannosaputo apportare grandimiglioramentia questa o a quella storia con la loro

attenta cura: Cressida Leyshon, EliHorowitz, Tom Chiarella,Tyler Cabot,MichaelRay,DonLee, LoisRosenthal,LeeMontgomeryeBenGeorge;egraziesoprattutto a Eric Chinski, EricSimonoff e Stephanie Paulsell, del cuigenerosoinvestimentoditempoefaticahabeneficiatol’interaraccolta.

È

Il libro

UNA FACCENDA

spinosa, la vita. CosíCaleb, sette anni,preferisce rifugiarsi

sul pianeta Barsoom con isuoi riti marziani per icompleanni dimenticati;Carl, nove, parla di sé alplurale e pretende biblicheespiazioni; e la bella signoradai capelli rossi decide difarla finita con passioni edolorisoloperscoprirechelafine della vita non equivaleallafinedellastoria.Ma se si può perdere ungemello amatissimo

prematuramente,seunpadrepuò sparire insieme ad altreduemilanovecentonovantasette anime in un’apocalisse difuoco e acciaio, un angelocustodechecistaafare?Nell’universo di Adrian gliangeli, ali sgualcite, viziettichimici e brutto carattere,hanno davvero bisogno diimparareafarmeglio.

«Storie straordinarie,

bellissime,indimenticabili.Alpari di Kafka, Poe e SalmanRushdie, Adrian sa bene cheilmodomiglioreperdarvitaal meraviglioso è scrivernerealisticamente».

TheBostonGlobe

Nei nove racconti di questaraccolta,scrittifrail1997eil2007, il naturale si mescolacon spontaneità al

soprannaturale, l’umano aldemonico. La fisicità èprepotente inognistoriae lemalattie del corpo siaffiancano a quelle dellospirito – lutti, abbandoni,solitudini – a disegnare unageografia del dolore, spessoinfantile, dentro al quale iltrascendente s’innesta conesitisorprendenti.Chi si aspettasse di ritrovarenell’angelochedàiltitoloalla

raccolta l’immacolatoemissario divinodell’iconografia classicaresterebbe deluso. L’esserealato in questione si abbigliain modo astruso, nondisdegnal’occasionaledosedistupefacenti,edètantorestiooinabileadaiutareilmedicotossicomanedicuiècustode,quantoquestiloèadalleviareilmale terminalecheaffliggesuopadre.

Allo stesso modo, è inutilecercarenellepiccole creaturetormentate dei racconti ilmalatino fragile ed emaciatodell’immaginario comune. Ibambini di Adrian sonointelligentissimi, «troppo peril loro stesso bene»,disincantati, capaci diadoperare armi affilate.Quella del sarcasmo, fra lealtre: la minuscola Cindy,affetta da Sindrome

dell’intestino corto, ne falargo uso con medici epazienti dell’ospedale, marisparmialeeducatriciperchémaltrattare loro «è comeprendere a calci uncagnolino». Carl, il bambinoscambiato,conoscelelevedelsenso di colpa. E c’è chi lelamelescegliedavvero.Il potere visionario dellapolarità terreno-ultraterrenoraggiunge ilsuoapicenei tre

racconti che riverberano l’11settembre. L’impatto diquell’eventosull’inconsapevole eplasmabile materia infantiledeflagrainun’altrarealtà,maimpartisce nel contempoun’indimenticabilelezionesuquesta.Difficile non leggere infiligrana il dato biografico.L’esperienza di Adrian,oncologo pediatrico e

teologo,oltrechescrittore,siriversa evidentemente inquestiracconti,comeintuttala sua opera, con potenza ecapacità evocativa, ma senzaalcun dogmatismo. L’animadi una donna in coma,dopotutto, non è che «laparte di lei che noncoincideva con quel corpomalato».

L’autore

Chris Adrian è autore ditre romanzi, fra cui Lagrande notte (Einaudi,2013).Isuoiraccontisono

apparsi su tutte leprincipali riviste letterarie.Ha prestato servizio comemedico nell’unità diematologia e oncologiapediatrica dell’Ucsf e haconseguitoundottoratointeologia alla HarvardDivinity School. Nel 2009ha ricevuto unaGuggenheim Fellowship enel 2010 «The NewYorker»l’hanominatofrai

venti migliori scrittoriamericani conmenodi 40anni.

Dello stessoautore

Lagrandenotte

TitolooriginaleABetterAngel©2008ChrisAdrian.Allrightsreserved

includingtherightsofreproductionsinwholeorinpart,inanyform.

©2015GiulioEinaudieditores.p.a.,TorinoIncopertina:foto©DavidSutherland/Getty

Images.Progettografico:Bianco.

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EbookISBN9788858419939