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Ai miei Genitori
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La presente opera esamina la tematica del terrorismo internazionale nell’ottica,
dapprima, del diritto penale del nemico, per poi passare ad affrontare il punto nevralgico
in tema di rispetto dei diritti fondamentali. A questo punto si è constatata la necessità di
aprire la ricerca verso il fenomeno dell’immigrazione, anche non clandestina, per i
collegamenti che sociologi e criminologi hanno opportunamente evidenziato. La
connessione col tema dei diritti umani ha posto in rilievo, in giurisprudenza, il fenomeno
dell’overruling, dal quale si trae spunto per valutare la possibilità di comparsa di un
fenomeno analogo, nell’ottica antitetica al cd. diritto penale del nemico.
Più nel dettaglio, il lavoro considera l’attualità del terrorismo internazionale
(Capitolo Primo) a seguire dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 agli Stati
Uniti d’America e, negli anni immediatamente successivi, ai Paesi europei.
Il succedersi di eventi di tale portata ha indotto gli Stati, anche quelli non
direttamente aggrediti, a intraprendere un’adeguata azione di contrasto munendosi di
nuovi strumenti giuridici (Capitolo Secondo). La ricerca passa così ad esaminare gli
apparati normativi adottati in Europa e negli USA, confrontando il modello europeo con
quello anglosassone ed evidenziando che il secondo entra in conflitto con decenni di
progressi in tema di rispetto dei diritti umani. L’esame della legislazione italiana analizza
in particolare la modifica apportata dalla l. n. 438 del 2001 all’art. 270-bis c.p. Questa
legge ha esplicitato nel testo della norma la menzione della finalità di terrorismo,
chiarendo, nel nuovo terzo comma dell’art. 270-bis, che essa sussiste anche allorché le
attività progettate dall’associazione siano rivolte contro uno Stato estero, un’istituzione o
un organismo internazionale. Le questioni interpretative sull’esatta portata da attribuire
alla espressione “finalità di terrorismo” sono esaminate a fondo e confrontate con quelle
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intervenute dopo le modifiche apportate al codice penale dalla l. n. 155 del 2005, con
particolare riguardo all’art. 270-sexies c.p.
Dopo la ricostruzione della legislazione innovata e del conseguente dibattito
dottrinario italiano, la ricerca tratta la disciplina antiterrorismo adottata nei principali
Paesi europei: Regno Unito, Germania, Spagna, Francia, Belgio. Il lavoro analizza,
quindi, la legislazione degli USA, soprattutto con riguardo al rispetto dei diritti
fondamentali, per come garantiti dalla costituzione federale.
Nel prosieguo dell’indagine (Capitolo Terzo) è trattato ampiamente il dibattito
dottrinario relativo alla tesi di G. Jakobs, secondo la contrapposizione del diritto penale
del cittadino (Bürgerstrafrecht) al diritto penale del nemico (Feindstrafrecht), e, con
l’occasione, si allarga l’orizzonte verso rilevazioni storiografiche e filosofiche pertinenti.
Subito dopo aver ricostruito la teoria di G. Jakobs e le sue radici storiche, la
ricerca prende in considerazione le critiche ad essa mosse con riferimento ai suoi tratti
più significativi, per concludere che la differenza tra diritto penale comune e diritto
penale del nemico non sarebbe di tipo quantitativo - ossia una mera flessione dello
standard di garanzie rispetto al diritto penale comune -, bensì di tipo qualitativo, perché
esso presenta vere e proprie diversità strutturali, che lo rendono ”altro” rispetto al diritto
penale post-illuminista: tipo d’autore, tendenziale degiurisdizionalizzazione; risposta
sanzionatoria che tende all’annientamento (Vernichtung), esclusione ovvero
neutralizzazione del nemico. Torna così alla ribalta la tutela dei diritti fondamentali
dell’uomo e si chiarisce che essa si estende al catalogo delle garanzie proprie dei sistemi
processual-penalistici liberali.
A questo punto, la ricerca si concentra sul ruolo che l’autorità giudiziaria tende ad
assumere in un sistema non esente da slittamenti verso il tipo d’autore, in particolare per 3
lo straniero (Capitolo Quarto). Tale rilievo porta all’esame della recente giurisprudenza
italiana che, nell’ottica di una più penetrante tutela dei diritti fondamentali, ha recepito la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (casi Scoppola, Previti e Gruppo
Danone). In particolare, si esamina la sentenza della sezioni unite della Corte di
Cassazione n. 18288 del 21.01.2010, Beschi, che, facendo applicazione del principio di
legalità in senso sostanziale - così come enunciato dalla Corte di Strasburgo nelle
succitate pronunce - ha ritenuto di poter concedere, in sede esecutiva, l’indulto in
precedenza negato, e ciò sulla base del mutamento giurisprudenziale favorevole nel
frattempo intervenuto (sentenza a sezioni unite n. 36527 del 10.07.2008, Napoletano).
L’indagine si sofferma, quindi, sull’ordinanza del Tribunale di Torino del
27.6.2011 e su quella del G.u.p. del medesimo Tribunale del 30 gennaio 2012,
relativamente alla revoca ex art. 673 c.p.p. della precedente sentenza di condanna inflitta
all’imputato, da effettuarsi in forza di un mutamento giurisprudenziale in bonam partem.
Ciò perché, a seguito della modifica dell’art. 6, comma 3, D.lgs 286/1998 operata dalla
legge n. 94 del 2009, la Cassazione aveva, dapprima, confermato l’interpretazione
precedente alla novella legislativa, per poi mutare orientamento con SS.UU n. 16453 del
2011, Alacev. Sul punto, come è noto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 230 del
2012, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p.
sollevata dal Tribunale di Torino e ha riaffermato il principio di legalità in senso formale,
mettendo in evidenza che il principio di legalità accolto dalla nostra Costituzione è
diverso da quello di cui all’art. 7 CEDU così come interpretato dalla Corte di Strasburgo
in quanto uno dei suoi corollari è la riserva di legge e sancendo che è incostituzionale la
revoca di un giudicato di condanna in caso di sopravvenienza di un overruling
4
giurisprudenziale che escluda la rilevanza penale del fatto per il quale la condanna stessa
è stata inflitta.
La suddetta pronuncia della Corte costituzionale non fa, comunque, venir meno
l’attualità del dibattito, perché una futuribile legislazione antiterrorismo adottata dal
nostro Paese sull’esempio degli USA potrebbe portare ad analoghi fenomeni di
overruling ispirati dal primato dei diritti fondamentali.
Un sentito ringraziamento va al Prof. Fabrizio Ramacci. In primo luogo, per le
importanti linee guida fornite ai fini della redazione della presente opera. Inoltre, - e
soprattutto - per la passione per il Diritto Penale trasmessa alla sottoscritta fin dalle
lezioni del Corso di diritto penale, frequentato nel lontano 2004 durante il secondo anno
d’università.
Roma, ottobre 2013
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INDICE-SOMMARIO
pag.
CAPITOLO PRIMO
L’attualità del terrorismo internazionale.
1. Libertà versus Sicurezza nelle moderne democrazie
occidentali………………………………………………………..……………….12
2. La prima fase: il terrorismo internazionale a seguito degli attacchi dell’11
settembre 2001 e le reazioni normative dei Paesi occidentali.
………………………………………………………………..………17
3. La seconda fase: gli attacchi terroristici dopo il 2007.……….……...……19
CAPITOLO SECONDO
L’azione di contrasto.
In particolare: gli strumenti normativi in Europa e negli Usa.
1. Il modello anglosassone e quello europeo di lotta al terrorismo
internazionale……………………………………………………………………..21
2. La legislazione antiterrorismo in Italia. Il quadro normativo antecedente
l’11 settembre…………………………………………...………………………..22
2.1. Segue. Il d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni nella
legge 15 dicembre 2001, n. 374: la nuova formulazione dell’art. 270-bis c.p.
………………………………..……………………………………28
6
2.2. Segue. Le questioni interpretative in tema di «finalità di
terrorismo»……………………………………………………….………..30
2.3. Segue. La Convenzione internazionale per la soppressione del
finanziamento del terrorismo del 1999 e la Decisione Quadro del Consiglio
dell’Unione europea del 13 giugno 2002 (2002/475/GAI)
……………………………………………….…………..39
2.4. Segue. Il d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, nella l.
31 luglio 2005, n. 155: l’art. 270-sexies e le «condotte con finalità di
terrorismo»……………...…………………………………………............42
2.5. Segue. Le prime applicazioni giurisprudenziali dell’art. 270-sexies
c.p………………………………………………………………………….46
2.6. Segue. Considerazioni conclusive: tendenze del nostro ordinamento verso
un diritto penale del nemico…………………………...
………………………………………...52
3. La legislazione anti-terrorrismo nel Regno Unito…………………............53
4. La Germania……………………………………………………………….67
5. La Spagna…………………………………...……………….…………….73
6. La Francia……………………………………………….…………...........79
7. Il Belgio……………………………………………………………………81
8. La legislazione anti-terrorismo negli USA………………………………..82
9. La prima fase. La dichiarazione dello stato di emergenza e l’Autorizzazione
all’uso della forza: le basi per la successiva creazione di un vero e proprio diritto
penale del nemico……………………………….………………………………..84
10. La seconda fase. L’U.S.A. Patriot Act…………………………………….877
10.1. Segue. Il President Military Order……………………….…...........92
10.2. Segue. Ambito soggettivo di applicazione dell’ordinanza presidenziale: gli
enemy aliens o enemy combatants…...…………............93
10.3. Segue. Il campo di prigionia di Guantánamo e le garanzie giurisdizionali
negate agli enemy aliens…………..………………............98
10.4. Segue. Le Commissioni militari ad hoc……………………..........101
10.5. Segue. Il Detainee Act………………….…………………………103
11. La terza fase. La giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati
Uniti……………………………………………………………………..………104
12. La quarta fase. Il Military Commission Act……….……………………..105
13. Considerazioni conclusive: i tratti di un vero e proprio diritto penale del
nemico nell’ordinamento statunitense………………………………..................109
CAPITOLO TERZO
Il dibattito dottrinario. La teoria del diritto penale del nemico e le critiche.
1. Il dibattito contemporaneo: la ricostruzione del pensiero di Günter
Jakobs……………………………………………………………….……….….105
2. Le radici storiche e filosofiche del fenomeno…………………….……...113
3. Le critiche della dottrina alla concezione di Jakobs……………………..117
4. Le classificazioni dottrinarie in tema di diritto penale del
nemico…………………………………………………………………………...128
5. Il contenuto del diritto penale del nemico………………………….…….131
6. Il diritto processuale penale del nemico…………………………….……1368
6.1. Segue. La tortura………………………………………………….137
7. Il rispetto dei diritti fondamentali………………………………….…….140
8. Le garanzie processual-penalistiche dei sistemi penali liberali…….……143
9. Le ragioni dell’inammissibilità di una dicotomia diritto penale
tradizionale/diritto penale del nemico…………………………………………..145
CAPITOLO QUARTO
Il mutamento di giurisprudenza in materia penale.
Prospettive di apertura del nostro ordinamento all’overruling.
1. Il ruolo del giudice ed il rispetto dei diritti fondamentali………..………147
2. I termini della questione: l’overruling in materia penale………………...148
3. Il reato di omessa esibizione dei documenti di identificazione e di soggiorno (art.
6, comma 3, D.lgs. 286/98) e la riforma apportata dalla l. 15 luglio 2009, n. 94 quale
espressione del diritto penale del nemico “in senso debole” ovvero “in senso
ampio”……………………………………………………..……………...152
4. Il principio di legalità “materiale” o “sostanziale” e la giurisprudenza della Corte
Edu e della Corte di giustizia dell’Unione europea………………………155
5. Il caso Beschi (Sezioni unite della Corte di Cassazione n. 18288 del 21.01.2010)
……………………………………………………………………...159
6. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. (ordinanza del
Tribunale di Torino del 27.6.2011)……………………………………………...163
7. L’ordinanza del G.u.p. del Tribunale di Torino del 30 gennaio 2012...…166
8. Il principio di legalità formale……………………………...……………1689
9. La pronuncia della Corte costituzionale n. 230 del 2012………………...169
10. La possibilità di un fenomeno analogo in materia di terrorismo. L’esempio degli
USA…………………………………………………...…………………..179
11. Prospettive futuribili e possibili esiti………………………………...…..182
Bibliografia…………………………………………………………...…………185
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CAPITOLO PRIMO
L’attualità del terrorismo internazionale
1. Libertà versus Sicurezza nelle moderne democrazie occidentali.
Dopo l’11 settembre 2001 il mondo occidentale ha dovuto fare i conti con una nuova
esigenza da fronteggiare, ossia il terrorismo, di matrice islamica ed avente portata
transnazionale. Sono a tutti noti, infatti, gli eventi catastrofici che, a partire dall’11
settembre 2001, hanno colpito le democrazie più evolute. Si fa, in particolare, riferimento
agli attacchi terroristici dell’11 settembre alle Twin Towers di New York ed al Pentagono
di Washington D.C.; a quello dell’11 marzo 2004 presso alcune stazioni ferroviarie di
Madrid; a quelli del 7 e del 21 luglio 2005 all’interno della metropolitana e a bordo di un
autobus a Londra; nonché, infine, a quelli del 30 giugno 2007 contro un terminal
dell’aeroporto di Glasgow (1).
Il nuovo fenomeno ha fatto da subito paura, poiché, da un lato, come tutte le forme di
terrorismo, si basa sulla depersonalizzazione della vittima (2), ossia sulla scelta di colpire
vittime innocenti nel mucchio, la cui identità è quindi indifferente (3); dall’altro lato,
però, esso si distingue da altre forme di terrorismo note in passato, in quanto si
caratterizza per l’elevato tasso di ideologizzazione, il fanatismo, il fondamentalismo, la
non negoziabilità degli obiettivi politici proclamati, il rifiuto di ogni possibile dialogo (4).
1() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, Torino, 2008, p. 1. 2() A tal riguardo, infatti, anche in giurisprudenza è stato osservato che «La connotazione tipica degli atti di terrorismo è la “depersonalizzazione della vittima” in ragione del normale anonimato delle persone colpite dalle azioni violente, il cui vero obiettivo è costituito dal fine di seminare indiscriminata paura nella collettività». Così, Cass. n. 1072/2006.3() G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, in Giur. it., 2008, p. 782. 4() G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 783.
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Le roccaforti giuridiche più evolute del pianeta – e, in primis, gli Stati Uniti
d’America – hanno, quindi, avvertito una seria minaccia alle fondamenta stesse dello
Stato di diritto e, per garantire la sicurezza del Paese, hanno adottato legislazioni che
collidono con i diritti fondamentali dell’individuo, nonché con i principi classici dei
sistemi penalistici liberal-democratici, affermatisi dall’Illuminismo in poi (5). In alcuni
casi, addirittura sospendendo tali diritti e garanzie, come avvenuto, appunto negli Stati
Uniti e, per certi versi, in Gran Bretagna; in altri casi, come in Italia e Spagna, entrando
semplicemente in frizione con essi.
A tali attacchi, infatti, si è reagito, dal punto di vista del diritto interno, con gli
strumenti classici del diritto penale. In particolare, è stato fatto proprio l’assunto per cui,
in situazioni di emergenza, le libertà dei cittadini e dei terroristi avrebbero potuto essere
sacrificate per assicurare il bene primario della sicurezza dello Stato, che è presupposto
per fruire delle stesse libertà nel moderno Stato democratico. E così, al fine di tutelare la
sicurezza del Paese e, con essa, quella dei suoi cittadini, si è allo stesso tempo finito per
sacrificare quei diritti fondamentali e quei principi cardine dello Stato di diritto che si
volevano tutelare (6). Si è corso in tal modo il rischio di degenerare in una vera e propria
normalizzazione dell’emergenza, poiché quegli strumenti normativi, introdotti con un
efficacia temporalmente limitata, avrebbero però potuto essere prorogati e, di fatto, lo
sono stati. Senza contare, peraltro, la contemporanea introduzione, nella maggior parte
5() In dottrina, è stato efficacemente sottolineato come l’emergenza rappresenti una vera e propria prova di resistenza per i diritti fondamentali. In questo senso, cfr. G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 781. 6() Un tale modo di pensare le reazione, tuttavia, è deprecabile all’interno di uno Stato di diritto. A tal proposito, infatti, in dottrina (G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 782) si è osservato «Da tutto ciò scaturisce, dunque, il rischio che a tale acme di terrore, finiscano per corrispondere […] deprecabili rimedi, per così dire, uguali e contrari, che finirebbero per travolgere i valori su cui si fonda il concetto stesso di Stato di diritto».
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degli ordinamenti, di misure a tempo indeterminato, come, ad esempio, la previsione di
nuove fattispecie incriminatrici in tema di terrorismo internazionale.
La conseguenza di tale incedere normativo è stata, quindi, la lesione dei diritti
fondamentali, da un lato, del terrorista-nemico (ad es., vita, dignità umana, libertà
personale) e, dall’altro, del cittadino (riservatezza, libertà di circolazione, di associazione
e di informazione).
Sul piano delle garanzie proprie degli Stati democratici, invece, si è assistito, dal
punto di vista del diritto penale sostanziale, alla lesione dei principi di legalità,
determinatezza, tassatività, offensività e necessaria materialità del reato, colpevolezza e
personalità della responsabilità penale, della funzione retributiva della pena e di
prevenzione generale e speciale; dal punto di vista del diritto penale processuale, inoltre,
si è avuta la violazione del divieto di tortura – che, per altro verso, può essere inteso
come manifestazione del più generale principio nemo tenetur contra se detegere -, del
diritto di difesa, del principio del contraddittorio e, più in generale, del giusto processo.
Il terrorismo internazionale, in sostanza, ha comportato in alcuni Paesi una
militarizzazione del diritto penale, sconfinando nel c.d. diritto penale del nemico.
Ma la storia si ripete (7). Nell’autunno del 68 a.C. la prima superpotenza militare del
mondo fu, infatti, colpita da un attacco terroristico (8): i pirati, che ormai imperversavano
7() In tal senso, R. HARRIS, Pirates of Mediterranean, in The New York Times, 30 settembre 2006. 8() In Dione Cassio, infatti, si parla dei pirati, come di coloro che «terrorizzavano» i popoli. Cfr. CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 22.2. Dione Cassio, storico e senatore romano, è stato autore di una “Storia romana” in lingua greca. Cfr. G. NORCIO, Introduzione, in CASSIO DIONE, Storia Romana, Milano, 1995, passim.
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minacciosi in tutto il Mediterraneo (9), arrivarono a saccheggiare e bruciare Ostia (10), il
porto di Roma. Per il panico causato dall’attacco, i Romani presero una decisione che
minava alla loro stessa Costituzione, alla loro democrazia, alla loro stessa libertà (11). Fu,
infatti, approvata nel 67 a.C. la Lex Gabinia (12) (detta anche Lex de piratis
persequendis), che concesse a Pompeo Magno (13) i più ampi poteri possibili per condurre
la lotta contro i pirati, che ormai da decenni infestavano il Mediterraneo e le sue coste,
rendendo difficile perfino l’approvvigionamento di grano per Roma (14).
Alla fine, Pompeo impiegò meno di tre mesi per scacciare tutti i pirati dal
mediterraneo, ma – come è stato efficacemente sottolineato (15) – la Lex Gabinia è stata
l’inizio della fine per la Repubblica romana, perché ha costituito il precedente sulla cui
9() «[I pirati] non navigavano più a piccoli gruppi, ma in grosse schiere, e avevano i loro capi, che si acquistarono grande fama [per le loro imprese]. Depredavano e saccheggiavano in primo luogo e innanzi tutto coloro che navigavano (non li lasciavano in pace neppure durante l’inverno, ma anche in questa stagione facevano scorrerie spinti dal loro coraggio, dalla perizia e dal successo); poi anche coloro che stavano nei porti. E se uno osava affrontarli in mare, di solito era vinto e distrutto; se poi otteneva la vittoria, non riusciva a catturare nessuno dei nemici, a causa della velocità delle loro navi. Così i pirati tornavano subito indietro come vincitori, e saccheggiavano e bruciavano non solo villaggi e fattorie, ma anche intere città, e alcune se le rendevano alleata tanto da istituire in esse quartieri d’inverno e basi per le loro operazioni, come in un paese amico». Così, CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 21.1-3. 10() CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 22.2. 11() Infatti, le singole iniziative sino ad allora intraprese sulla spinta emozionale dei singoli eventi non avevano sortito alcun effetto. In argomento, v. CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 23.2. 12() Tale legge prese il nome del tribuno della plebe che la propose, Aulo Gabinio, appunto. Quest’ultimo, in particolare, propose che si eleggesse tra gli ex-consoli, per una durata di tre anni, un condottiero con pieni poteri contro tutti i pirati e che gli si desse un forte esercito. Cfr. CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 23.4. 13() Alla fine, la legge fu approvata nonostante le remore presentate in Senato dai più e nonostante la consapevolezza per la sua illegalità da parte di tutti. Soprattutto, il profilo che destava maggiore preoccupazione era quello di attribuire un così vasto potere ad un solo uomo e, addirittura, per un periodo di tre anni. Sul punto, v. il dibattito sorto in Senato a seguito della proposta di Aulo Gabinio, in CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 24-36. 14() Tale legge attribuiva all’ex-console il comando della guerra contro i pirati per tre anni, con un ampio potere che gli assicurava il controllo assoluto sul mare e sulle coste per 400 stadi all’interno (70 Km circa), ponendolo al di sopra di ogni capo militare in Oriente. Gli si dava, inoltre, il potere di scegliere 15 legati dal Senato, da distribuire nelle principali zone di mare, di prendere il denaro che desiderava dal tesoro pubblico e dagli esattori di tasse, nonché 200 navi armate ed equipaggiate di tutto punto, con soldati e rematori. Cfr. CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 36-37.1.15() R. HARRIS, Pirates of Mediterranean, cit.
14
base, meno di una decade più tardi, sono stati attribuiti analoghi poteri a Giulio Cesare
per la campagna in Gallia.
A tal proposito, appare opportuno evidenziare che, negli Stati Uniti, non è mancato
chi (16) ha effettuato un vero e proprio parallelismo tra l’attacco dei pirati al porto di Ostia
nel 68 a.C. e quello di Al Qaeda alle Torri Gemelle ed al Pentagono dell’11 settembre
2001. In primo luogo, perché così come nessuna Nazione aveva mai avuto il coraggio di
sferrare un attacco diretto a Roma, del pari nessuno Stato avrebbe mai avuto il coraggio
di ideare un assolato così spettacolare al cuore degli Stati Uniti, la superpotenza del
mondo. In secondo luogo, perché in entrambi i casi, in realtà, l’attacco non era stato
sferrato né da una Nazione, né da uno Stato, bensì da un insieme di uomini riuniti,
appartenenti a tutte le Nazioni: i pirati, in un caso, i terroristi islamici, nell’altro.
Analogamente a quanto accaduto a Roma, anche il Governo degli Stati Uniti ha
reagito, adottando strumenti normativi che hanno messo in discussione i diritti e le libertà
da sempre garantite negli Stati Uniti. La Lex Gabinia, infatti, è un classico esempio di
legge dalle conseguenze non volute, in quanto ha fatalmente sovvertito quelle stesse
istituzioni che essa intendeva proteggere. A questo punto appare opportuno chiedersi se
un simile effetto potrebbe determinarsi anche in quelle moderne democrazie occidentali
che si sono piegate al diritto penale del nemico ovvero se tale stesso effetto possa essere
evitato riconducendo anche siffatta species di «diritto super-penale» (17) entro i binari
della legalità.
2. La prima fase: il terrorismo internazionale a seguito degli attacchi dell’11
settembre 2001 e le reazioni normative dei Paesi occidentali.16() R. HARRIS, Pirates of Mediterranean, cit.17() F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, in Soc., 3, 2009, p. 18
15
Gli attentati terroristici posti in essere dai fondamentalisti islamici a danno del mondo
e degli ordinamenti giuridici occidentali possono essere sostanzialmente suddivisi in due
fasi. La prima di esse è quella che va dall’11 settembre 2001 al 30 giugno 2007, in cui
tali fatti sono stati posti in essere nei territori degli Stati occidentali. La seconda fase,
invece, è quella che si estende da tale ultima data ed è tutt’ora in corso, in cui, invece,
nessun attacco diretto è stato più perpetrato nel territorio occidentale, ma solo al di fuori
di esso, in quegli stessi Paesi caratterizzati da una forte matrice islamica.
Dal punto di vista strettamente giuridico, la prima fase è stata caratterizzata da
un’immediata reazione normativa per fronteggiare la nuova emergenza terroristica, da
parte di tutti gli Stati, anche da quelli non direttamente interessati dagli attacchi. Questo,
soprattutto, dopo gli attentati di New York nel 2001 e quelli di Londra nel 2005.
In questa sede è sufficiente anticipare che, negli Stati Uniti il 14 settembre 2001 è
stato dichiarato, con efficacia retroattiva, lo stato di emergenza nazionale ed il Presidente
è stato autorizzato dal Congresso all’uso della forza. Il 26 ottobre è stato, poi, approvato
l’USA Patriot Act 2001 e, il 13 novembre, il President Military Order. In Gran Bretagna,
il 12 novembre 2001 è stato adottato l’Anti-terrorism Crime and Security Act (ATCSA
2001), con cui è stata sostituita la disciplina di cui al precedente Terrorism Act 2000.
Immediatamente dopo gli attentati di Londra, il 20 ottobre 2005, è stato invece approvato
il Terrorism Act 2006, entrato in vigore il 30 marzo 2006, con cui la previgente disciplina
è stata ulteriormente inasprita.
In Germania, il 9 gennaio 2002 è stata approvata la Terrorismusbekaempfunggesetz,
ossia la legge sulla lotta al terrorismo internazionale e, l’11 gennaio 2005, la
Luftsicherheitsgesetz: la legge sulla sicurezza aerea. In Francia, il 15 novembre 2001, è 16
stata approvata la legge 2001-1062 sulla sicurezza quotidiana, mentre, successivamente
agli attentati di Londra, è stato adottato il cd. progetto di legge Sarkozy, ossia una nuova
legge contro il terrorismo. In Belgio, con la legge del 19 dicembre 2003, è stato
modificato l’art 137 c.p., facendo propria la definizione di terrorismo internazionale di
cui alla Decisione quadro 2002/475/GAI. In Spagna, invece, dopo gli attenti in questione
è stata approvata una disciplina per lo più marginale e di attuazione degli obblighi assunti
a livello internazionale ed europeo, posto che l’ordinamento giuridico spagnolo, ormai da
tempo abituato a fare i conti con il terrorismo, era munito di un’efficace disciplina di
contrasto.
In Italia, immediatamente dopo gli attentati alle Twin Towers, è stato approvato il d.l.
18 ottobre 2001, n. 374, conv. con modif. in l. 15 dicembre 2001, n. 374, con cui è stato
modificato l’art. 270-bis c.p., in tema di associazioni terroristiche od eversive. In
particolare, la novella ha inserito nella rubrica della norma un espresso riferimento alla
finalità di terrorismo «anche internazionale» ed ha specificato, al terzo comma, che la
finalità di terrorismo ricorre anche quando l’atto di violenza è posto in essere non solo
contro l’Italia, ma anche contro uno Stato estero, un’istituzione ovvero un’organizzazione
internazionale. Inoltre, è stato inserito nel codice penale l’art. 270-ter, che incrimina la
condotta di assistenza agli associati. Successivamente agli attentati di Londra, invece, è
stato approvato il d.l. 27 luglio 2005, n. 144, conv. con modif., nella l. 31 luglio 2005, n.
155, recante il cd. pacchetto anti-terrorismo, con cui sono state introdotte nel codice
penale nuove fattispecie criminose e, segnatamente, l’art. 270-quater che incrimina la
condotta di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale; l’art. 270-
quinquies che punisce la condotta di addestramento ad attività di terrorismo anche
internazionale; infine, all’art. 270-sexies, è stata configurata una definizione di condotte 17
con finalità di terrorismo, così ponendo fine alle difficoltà ermeneutiche in precedenza
sorte a causa dell’indeterminatezza sul punto della fattispecie di cui all’art. 270-bis c.p.
In seguito a tali eventi, il fervore legislativo in materia di terrorismo internazionale
sembrerebbe aver subito una battuta d’arresto, così come il conseguente dibattito
dottrinario.
3. La seconda fase: gli attacchi terroristici dopo il 2007.
Nella seconda fase, invece, non si sono più registrati attacchi diretti nel territorio
americano od europeo. Tuttavia, per ciò solo, non si può certo legittimamente ritenere che
la problematica del terrorismo internazionale abbia perso rilevanza per gli ordinamenti
giuridici occidentali. Si consideri, infatti, che solo nell’ultimo bimestre del 2012 si sono
verificati ben novantasette atti terroristici (18) nei Paesi islamici.
Tali fatti criminosi, sebbene commessi all’Estero, infatti, potrebbero assumere
rilevanza anche per l’Occidente. Volendoci limitare all’Italia, potrebbe accadere, ad
esempio, che una “cellula” islamica radicata nel nostro territorio organizzi in Italia un
atto terroristico da compiere all’Estero e colpire così obiettivi sensibili, quali militari
impegnati in operazioni di pacekeeping ovvero ambasciate. Del resto, i fatti venuti
all’attenzione delle nostre Corti hanno riguardato proprio ipotesi in cui cellule islamiche
insediate nel nostro territorio stavano reclutando militanti e raccogliendo finanziamenti
per commettere atti di violenza all’Estero. Inoltre, non può neppure essere tralasciata la
non marginale ipotesi in cui i fatti di terrorismo vengano di nuovo perpetrati direttamente
nel territorio occidentale. 18() Sul punto, cfr. la cronologia degli episodi di terrorismo internazionale, in Gnosis. Rivista italiana di intelligence, 4, 2012, pp. 153-159.
18
Appare, pertanto, opportuno procedere ad esaminare gli strumenti giuridici adottati
negli Stati Uniti ed in Europa sull’ondata emotiva degli eventi ed analizzare, quindi, i vari
punti di frizione che essi hanno presentato rispetto ai diritti fondamentali dell’uomo ed ai
principi processual-penalistici propri dello Stato liberale, fino a sfociare, in taluni casi, in
vere e proprie forme di cd. diritto penale del nemico. L’indagine consentirà, quindi, di
prospettare, almeno per il nostro Paese, una soluzione che possa essere valida una volta
per tutte e non già dettata dalle contingenze del momento che, appunto, a causa
dell’emergenza, spesso hanno portano a tralasciare le acquisizione fatte proprie dal
moderno Stato di diritto, in più di due secoli di elaborazioni teoriche.
CAPITOLO SECONDO
L’azione di contrasto.
In particolare: gli strumenti normativi in Europa e negli Usa.
19
1. Il modello anglosassone e quello europeo di lotta al terrorismo internazionale.
A Seguito degli attacchi terroristici negli Stati Uniti ed al successivo divampare del
fenomeno del terrorismo internazionale di matrice islamica, i Paesi occidentali, anche
quelli non direttamente interessati dagli attacchi, hanno sentito il bisogno di munirsi di
nuovi strumenti normativi per contrastare gli eventi. Infatti, la legislazione allora in
vigore si è mostrata fin da subito inadeguata, presentando il nuovo fenomeno una portata
transnazionale, del tutto sconosciuta alle pregresse forme di criminalità, anche
organizzata.
Nel mondo occidentale, si sono, quindi, venuti delineando due diversi modelli (19): da
un lato, quello dei Paesi anglosassoni (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e, in parte,
Australia); dall’altro lato, quello dei Paesi dell’Europa continentale, ove soprattutto
nell’immediatezza dell’11 settembre, non sono mancate tendenze verso le prassi
anglosassoni (20), con il conseguente rafforzamento degli apparati di polizia e di
intelligence.
Il primo di tali modelli presenta i tratti di un vero e proprio diritto penale del nemico
e, almeno per quanto riguarda il sistema normativo affermatosi negli Stati Uniti, è
denominato “modello Guantánamo”. Anche in Gran Bretagna è stato adottato un sistema
per molti aspetti similare a quello statunitense. Tuttavia, questo Paese, a differenza degli
USA, doveva fare i conti con la tutela dei diritti fondamentali prevista dalla Cedu ed è
stato così che la House of Lords ha ricondotto, in breve tempo, entro i binari della legalità
la legislazione antiterrorismo britannica.
19() Sul punto, v. A. SPATARO, Otto anni dopo l’11 settembre. (Il modello anglosassone e quello europeo nell’azione di contrasto al terrorismo internazionale, in Quest. giust., 5, 2009, p. 151. 20() Ibidem.
20
Il secondo modello, invece, è risultato essere maggiormente rispettoso dei diritti
fondamentali dell’individuo e dei principi liberal-democratici del moderno Stato di
diritto, anche se, almeno in un primo momento, anche nel Continente si sono registrati
strappi più o meno profondi al principio di legalità. In Europa, però, il fallimento del
sistema anglosassone di lotta al terrorismo internazionale si è mostrato fin da subito ed in
maniera ancora più evidente. In Italia ed in Spagna, poi, il terrorismo internazionale è
stato affrontato con procedure rispettose della tradizione giuridica europea. In particolare,
gli strumenti adottati da noi si sono mantenuti nel solco dei principi tracciati dallo Stato
di diritto, anche quando si è potuto individuare al loro interno singoli aspetti eccepibili
dal punto di vista del rispetto della Costituzione (21).
2. La legislazione antiterrorismo in Italia. Il quadro normativo antecedente l’11
settembre.
È possibile ripartire l’evoluzione della legislazione italiana in tema di terrorismo
internazionale in tre diverse fasi (22): la prima, antecedente gli attacchi terroristici alle
Twin Towers di New York dell’11 settembre 2001; la seconda, immediatamente
successiva a tale evento catastrofico e che vede l’approvazione, in tempi rapidissimi, del
d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni nella legge 15 dicembre 2001,
n. 374; la terza fase, infine, prende le mosse con l’approvazione del cd. pacchetto
antiterrorismo del luglio del 2005 (23), subito dopo gli attentati di Londra.
21() R.E. KASTORIS, Processo penale, delitto politico e «diritto penale del nemico», in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 7. 22() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, in Cass. pen., 2006, p. 3366.23() Si fa, in particolare, riferimento al d.d.l. presentato dall’allora Ministro dell’interno Giuseppe Pisanu e che ha portato all’approvazione del d.l. 27 luglio 2005, n. 144, conv. in l. 31 luglio 2005, n. 155.
21
Per quel che concerne il primo dei succitati periodi, è noto che il terrorismo non è un
fenomeno nuovo (24) all’interno del nostro ordinamento. Fin dall’Ottocento l’Italia ha,
infatti, conosciuto forme di terrorismo interno. Si fa, in particolare, riferimento ai
movimenti anarchici della fine dell’Ottocento (25), ai quali il legislatore aveva reagito con
l’adozione delle cd. leggi Crispi del 1894, che prevedevano norme più severe in tema di
istigazione ed apologia e di attentati con l’uso di esplosivi (26). Fu, poi, prevista una
normativa in tema di stati d’assedio, che militarizzava la disciplina penale e processuale
in presenza di straordinarie esigenze di turbamento dell’ordine pubblico in determinate
zone del territorio italiano.
Il terrorismo interno, tuttavia, è imperversato nel nostro Paese negli anni Settanta ed
Ottanta del secolo scorso (27). Il legislatore è, quindi, intervenuto con la cd. legislazione
penale d’emergenza, connotata da veri e propri caratteri d’eccezionalità. La nuova
strategia di contrasto presentava, infatti, una maggiore complessità rispetto al pregresso
intervento di un secolo prima, in quanto si sviluppava non solo sul fronte sostanziale, ma
anche su quello sanzionatorio, processuale, penitenziario e preventivo. È con tale
legislazione che il sistema di tutela penale contro la criminalità politico-terroristica aveva
progressivamente acquisito i tratti di un vero e proprio sotto-sistema penale,
caratterizzato da regole parzialmente derogatorie rispetto alla disciplina generale. La
chiave d’accesso a tale plesso normativo fu assicurata da un elemento normativo, ossia la
24() Tra tutti, v. M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, in Studium Juris, 2005, p. 1279. 25() M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1279 26() Ibidem. 27() È di tutta evidenza come il fenomeno terroristico desti particolare allarme sociale, posto che – come è stato efficacemente osservato - «la “pericolosità del delinquente è direttamente proporzionale alla fungibilità della vittima” – il massimo grado di pericolosità collettiva, poiché a “vittima indeterminata”, avendo l’atto terroristico come fine il “clamore terroristico”, a prescindere dall’identità e dal numero delle vittime». Così, F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 482.
22
«finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico», che era stato inserito nel
sistema sia come elemento costitutivo di autonome fattispecie di reato (artt. 270-bis, 280,
289-bis c.p.), sia come circostanza aggravante comune, applicabile quindi a qualsiasi
fattispecie criminosa (art. 1, legge n. 15 del 1980): la finalità terroristica o eversiva
determinava l’applicazione della disciplina settoriale, caratterizzata da un cospicuo
aumento di pena; misure premiali di incentivazione alla collaborazione; alcune deroghe
sul piano processuale e penitenziario.
In particolare, il d.l. 15 dicembre 1980, n. 15, conv. in l. 6 febbraio 1980 n. 15 ha
introdotto nel codice penale l’art. 270-bis (28) che, sin da subito, aveva sollevato problemi
interpretativi. Anzitutto, si erano poste difficoltà di coordinamento con la disciplina dei
reati associativi. Soprattutto, però, la norma presentava perplessità sui limiti del suo
ambito applicativo. Infatti, mentre nella rubrica compariva il riferimento sia alla «finalità
di terrorismo» che di «eversione dell’ordine democratico», al contrario, nel testo della
stessa – che, com’è noto, solo vincola l’interprete -, si faceva menzione del solo «fine di
eversione dell’ordine democratico». Si era, dunque, sviluppato un acceso dibattito volto a
chiarire se le due finalità, di terrorismo, da un lato, e di eversione, dall’altro, fossero una
endiadi, come poteva evincersi dalla rubrica della norma, oppure costituissero
espressione di due concetti diversi, come invece ritenevano dottrina e giurisprudenza
prevalenti.
28() Il testo originario della norma, inserito dall’art. 3, d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, conv. In l. 6 febbraio 1980, n. 15, disponeva «270-bis. Associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico. – Chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni. – Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da quattro a otto anni».
23
La finalità eversiva (29), inoltre, a seguito della legge di interpretazione autentica n.
304/1982, andava intesa come eversione dell’ordinamento costituzionale (30). Questa
equiparazione ha, così, delineato in maniera più precisa il bene giuridico tutelato dalla
norma (31), ancorandolo ad una fonte normativa, la Costituzione, anziché ad un concetto
politico (l’ordine democratico) che, in quanto tale, si prestava a letture ideologicamente
orientate.
Si pose, quindi, il problema di stabilire quale tipo di organizzazione fosse sanzionata
ai sensi della norma in esame. Una prima interpretazione, più restrittiva, vi includeva solo
le associazioni terroristiche con finalità eversiva. Si obiettava, però, che era possibile
concepire sia associazioni con scopi terroristici, indipendentemente da un programma
politico di sovversione dell’ordine costituzionale, sia associazioni sovversive non
necessariamente connotate da una finalità terroristica, come nel caso in cui esse fossero
rivolte ad organizzare un colpo di Stato incruento. Il concetto di terrorismo, infatti, non
era espressamente definito nel diritto penale italiano. La mancanza di una definizione
normativa, tuttavia, non aveva creato particolari problemi agli interpreti nel corso degli
anni Ottanta, posto che i gruppi terroristici interni allora operanti si proponevano altresì
una finalità eversiva dell’ordine democratico (32).
In passato, quindi, il problema di definire l’esatta portata della «finalità di terrorismo»
ed i suoi rapporti con quella di «eversione dell’ordine democratico» appariva più teorico
29() La finalità di terrorismo indica il fine di provocare il panico nella collettività mediante atti indiscriminati di violenza, rivolti a soggetti del tutto estranei alle finalità perseguite dall’associazione.30() In particolare, l’art. 11 della l. 29 maggio 1982, n. 304 aveva statuito che «all’espressione “eversione dell’ordine democratico” usata nelle disposizioni di legge precedenti alla presente, corrisponde, per ogni effetto giuridico, l’espressione “eversione dell’ordinamento costituzionale”.».31() A. VALSECCHI, Sub art. 270-bis, in E. Dolcini-G. Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, Milano, 2010, p. 2622.32() F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, in Cass. pen., 2007, p. 3954
24
che pratico (33), posto che l’art. 270-bis era in grado di riflettere la realtà storica delle
associazioni terroristiche di allora, che si proponevano un programma eversivo
dell’ordinamento interno, da attuare ricorrendo alla violenza terroristica (34).
A partire dagli anni Novanta del XX secolo (35), però, nel nostro Paese si sono
manifestate forme di terrorismo internazionale. Ci si riferisce, in particolare, a quelle
“cellule” a specifica connotazione etnico-religiosa che, utilizzando il territorio italiano
come base logistica, sostenevano l’azione di organizzazioni terroristiche operanti in altri
Paesi (36). Alcune tipologie di associazioni terroristiche, infatti, avevano assunto una
dimensione sempre meno interna e sempre più transnazionale, rispetto alla quale l’art.
270-bis c.p. si presentava troppo ristretto (37).
Ad essere nuova per l’ordinamento italiano, non era, pertanto, la criminalità
terroristica, quanto piuttosto la sua concreta fisionomia (38). Il processo di
internazionalizzazione della criminalità aveva impresso anche al terrorismo tratti del tutto
nuovi sotto il profilo oggettivo e soggettivo, tanto che il vecchio art. 270-bis era risultato
presto inadeguato.
33() M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 128234() Secondo la giurisprudenza della Corte suprema formatasi sul punto, per “terrorismo interno” doveva intendersi “qualsiasi azione qualificata dal fine di porre in essere atti idonei a destare panico nella popolazione” (cfr. Cass., Sez. Un., 23 novembre 1995, n. 2110), nel senso che può parlarsi di finalità terroristica in presenza di condotte violente dirette ad ingenerare paura e panico, nonché ad incutere terrore nella collettività con azioni criminose indiscriminate, dirette cioè non contro le singole persone ma contro quello che esse rappresentano o, se dirette contro la persona indipendentemente dalla sua funzione nella società, miranti a incutere terrore per scuotere la fiducia nell’ordinamento costituito e indebolirne le strutture” (Cass., Sez. I, 11 luglio 1987, n. 11382) 35() Per un’attenta ricostruzione delle problematiche inerenti all’emergere in Italia di nuove forme di terrorismo, con caratteri di transnazionalità, v. G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3367.36() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3367.37() M. PELLISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1282.38() Così, M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1279.
25
Infatti, il riferimento nel testo della norma alla sola eversione dell’ordinamento
costituzionale, unitamente alla collocazione della fattispecie tra i delitti contro la
personalità dello Stato, escludeva la possibilità di ravvisare gli estremi del delitto de quo
in alcune associazioni che avevano fissato la propria base operativa in Italia, ma con
finalità eversive di un ordinamento straniero. Ancora più difficile era poi ricondurre alla
fattispecie in esame le associazioni rivolte a commettere atti di terrorismo internazionale,
ma prive di finalità di eversione dell’ordine costituzionale.
In tale contesto, la Corte di cassazione, nel rispetto del principio di stretta legalità,
aveva interpretato in maniera restrittiva il vecchio art. 270-bis c.p., sottolineando che il
bene giuridico protetto da tale norma, collocata tra i delitti contro la personalità dello
Stato, era solo l’ordinamento costituzionale dello Stato italiano, dovendosi escludere un
suo ambito di applicabilità ad associazioni che avessero avuto come obiettivo quello di
programmare atti violenti contro l’ordinamento di uno Stato straniero cui appartenevano i
suoi componenti ovvero contro un’istituzione internazionale (39). Tali condotte avrebbero
dovuto, quindi, essere considerate penalmente irrilevanti (40) all’interno del nostro
ordinamento, in quanto dirette a sovvertire l’ordine costituzionale di Paesi stranieri, di cui
il nostro non poteva certo farsi garante.
Tuttavia, secondo la Corte di legittimità l’indubbio riflesso che una siffatta condotta
aveva comunque nell’ordinamento giuridico italiano andava sanzionato contestando
semplicemente reati di diritto comune, quali, appunto, l’associazione per delinquere (art.
416 c.p.) - aggravata, peraltro, dalla finalità di terrorismo, che nell’art. 1 legge n. 15 del
1980 compare disgiunta dalla finalità eversiva -, nonché gli eventuali reati strumentali,
39() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3376. In giurisprudenza, cfr. Cass., Sez. VI, 24 febbraio 1999, n. 737; Cass., Sez. V, 26 maggio 1998, n. 3292; Cass., Sez. VI, 1° marzo 1996, n. 973.40() Così, Cass., Sez. IV, 30 gennaio 1996, n. 561, in Cass. pen., 1997, p. 1332.
26
quali quelli di falsificazione, con una innegabile ricaduta, però, sulla possibilità di
utilizzare gli strumenti investigativi e processuali – intercettazioni, termini di custodia,
trattamento penitenziario e così via – più idonei ad affrontare in modo efficace il nuovo
fenomeno emergente (41).
La norma, quindi, presentava i limiti tangibili di una gestione solo “domestica” (42) del
terrorismo, inadeguata al nuovo atteggiarsi del fenomeno, la cui impronta, ora
transnazionale, evidenziava una capacità offensiva che andava al di là dell’ordinamento
costituzionale dei singoli Stati nazionali.
2.1. Segue. Il d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni
nella legge 15 dicembre 2001, n. 374: la nuova formulazione
dell’art. 270-bis c.p.
A seguito degli attentati terroristici agli USA dell’11 settembre 2001 si rendeva,
pertanto, necessario un intervento normativo volto a contrastare il terrorismo
transnazionale. La portata catastrofica di tale attentati ha, infatti, indotto gli Stati, anche
quelli non direttamente aggrediti, ad intraprendere un’adeguata azione di contrasto,
munendosi di appropriati strumenti giuridici.
Il legislatore italiano, quindi, nel dichiarato intento di dare attuazione agli impegni
assunti sul piano internazionale, per una strategia unitaria contro forme violente di
41() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3367.42() M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1278.
27
attacco alle istituzioni, con l’art. 1, comma 1, d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, conv. con
modif. dalla l. 15 dicembre 2001, n. 438, ha sostituito il testo dell’art. 270-bis c.p. (43).
Nella rubrica è stato, anzitutto, inserito un espresso riferimento ai nuovi caratteri
del fenomeno terroristico. La norma è, infatti, diretta ad incriminare, tra l’altro, le
«associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale». La novità più significativa
riguarda certamente l’eliminazione della difformità tra rubrica e testo dell’articolo, posto
che ora la finalità di terrorismo compare anche in quest’ultimo, così confermando quanto
ritenuto in passato da dottrina e giurisprudenza prevalenti, ossia che i concetti di
“eversione” e “terrorismo” erano da ritenersi tra loro distinti.
Il secondo comma della norma in esame ha aggravato il trattamento sanzionatorio
nei confronti dei partecipi all’associazione, innalzando il minimo edittale da quattro a
cinque anni ed il massimo da otto a dieci.
Al terzo comma dell’art. 270-bis il legislatore ha introdotto una norma
interpretativa definitoria la quale, agli effetti della legge penale, specifica che la «finalità
di terrorismo» sussiste anche quando «gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato
estero, un’istituzione ed un organismo internazionale».
Infine, all’ultimo comma è stata inserita la confisca obbligatoria nei confronti del
condannato.
2.2. Segue. Le questioni interpretative in tema di «finalità di terrorismo».43() Il nuovo testo della norma prevede: «270-bis. Associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico. – Chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni. – Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. – Ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione e un organismo internazionale. – Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego».
28
Fin da subito, il problema interpretativo di più importante rilievo è stato quello di
definire l’esatto ambito applicativo del dolo specifico contemplato dalla norma, ossia la
«finalità di terrorismo», posto che, fino al successivo intervento normativo di cui al d.l.
27 luglio 2005, n. 144, conv. in l. 31 luglio 2005, n. 155, è mancata nel nostro
ordinamento una definizione normativa di “terrorismo” (44).
Il legislatore del 2001 ha, infatti, specificato, al comma 3 dell’art. 270-bis c.p., che
la finalità di terrorismo sussiste anche quando gli atti di violenza sono posti in essere
contro uno «Stato estero», «un’istituzione» ed un «organismo internazionale» (45). La
fattispecie incriminatrice in questione è, dunque, applicabile anche quando destinatario
degli atti di violenza non sia lo Stato italiano, come invece avveniva in passato. Tuttavia,
con la novella del 2001, il legislatore ha mancato l’occasione per dare una definizione
dell’atto di terrorismo in quanto tale. Questione, peraltro, di importanza cruciale (46),
atteso che dall’esatta definizione del “terrorismo” dipende anche la delimitazione
44 Un contributo fondamentale per la ricostruzione del dibattito dottrinario e giurisprudenziale ai fini dell’esatta interpretazione da dare alla «finalità di terrorismo» è dato da L.D. CERQUA, La definizione di «terrorismo internazionale» alla luce delle fonti internazionali e della normativa interna , in Giur. mer., 2007, p. 788 ss. 45() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3368. In particolare, l’A. mette in evidenza come, dalla nuova formulazione dell’art. 270-bis c.p., rimanga esclusa rilevante forma di «illecito associativo politicamente orientato e cioè l’associazione che si ponga come obiettivo la sovversione, intesa come rovesciamento con mezzi violenti dell’ordinamento costituzionale di uno Stato estero. – Infatti, l’art. 270-bis comma 3 c.p. estende agli Stati esteri la finalità di terrorismo ma non la finalità eversiva.». 46() Nei primi anni immediatamente successivi gli attacchi agli USA, l’intensificarsi delle indagini in tale settore, mise in evidenza le presenza nel territorio italiano di numerose cellule islamiche, non più affiliate, come in passato, a specifiche organizzazioni eversive nazionali. Tali cellule, appartenenti all’area del fondamentalismo islamico, parevano svolgere compiti di supporto ad organizzazioni terroristiche sovrannazionali, diversamente affiliate con Al Qaeda. L’attività posta in essere nel nostro Paese era perlopiù di reclutamento di combattenti da inviare presso i campi di addestramento dislocati nei vari Paesi fondamentalisti, nonché di raccogliere finanziamenti da inviare all’estero. Sul punto, v. amplius, F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, in Cass. pen., 2007, p. 3955.
29
dell’ambito applicativo (47) della disciplina in materia, caratterizzata da un abbassamento
del normale livello di garanzie rispetto al diritto penale comune.
Il vuoto normativo ha lasciato alla giurisprudenza l’improbo compito di riempire
di significato la «finalità di terrorismo» di cui all’art. 270-bis c.p. Si sono, dunque,
succedute una serie di pronunce giurisprudenziali, discordanti tra loro, e che sono state,
poi, ampiamente criticate in dottrina. Questa querelle tra autorità giudiziarie, da un lato, e
tra dottrina e giurisprudenza, dall’altro ha portato, infine, il legislatore ad introdurre nel
nostro ordinamento una definizione di terrorismo all’art. 270-sexies c.p., recependo in
gran parte la definizione datane dalla decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea
del 13 giugno 2002 (2202/475/GAI). Ma procediamo con ordine.
La mancanza di una definizione normativa ha portato, fin da subito, dottrina e
giurisprudenza a ricercarne il contenuto nelle convenzioni internazionali e nelle fonti
europee. Tuttavia, almeno in questa prima fase, mancava accordo su quale fosse la fonte
da prendere a referente ermeneutico principale.
Dato per assodato che atto terroristico era quello destinato a creare il panico nella
popolazione civile, il punctum dolens ha riguardato principalmente la qualità della vittima
della condotta terroristica: se dovesse essere solo ed esclusivamente un civile oppure
potesse anche essere un militare. E, se militare, si poneva l’ulteriore problema di chiarire
se dovesse essere un militare direttamente ovvero non direttamente impegnato nel
conflitto. Ebbene, in una prima fase, si è ritenuto che atto terroristico fosse solo ed
esclusivamente quello posto in essere contro vittime civili. Successivamente, invece, si è
ritenuto che tale fosse anche l’atto posto in essere nei confronti di vittime militari, a
prescindere dal fatto se fossero o meno direttamente impegnate nelle ostilità.47() In questo deficit di determinatezza era possibile ravvisare un tratto di diritto penale del nemico. In argomento, v. amplius, infra.
30
I primi anni duemila sono stati, quindi, caratterizzati da una grave incertezza nella
prassi applicativa. Evidenziano plasticamente i termini del dibattito due pronunce della
giurisprudenza di merito (48) che si sono succedute a pochi giorni di distanza l’una
dall’altra.
La prima di esse è la sentenza del G.u.p. di Milano del 24 gennaio 2005 (49), con la
quale, all’esito del giudizio abbreviato, sono stati assolti dall’imputazione per il reato di
cui all’art. 270-bis c.p. tre soggetti sospettati di appartenere ad una cellula islamica. A tal
fine, il giudice si è basato sulla distinzione tra atto terroristico, illegittimo, ed atto di
guerriglia, invece legittimo, in quanto diretto a debellare l’invasione straniera.
In particolare, il G.u.p. milanese ha fondato tale distinzione sull’art. 18/2 del
progetto di Convenzione globale dell’O.N.U. del 1999 sul terrorismo, il quale prevede
che gli episodi di guerriglia posti in essere nell’ambito di contesti bellici, anche da forze
armate diverse da quelle istituzionali, non possono essere perseguite neppure sul piano
del diritto internazionale, a meno che non venga violato il diritto internazionale
umanitario. Da tale inciso il G.u.p. ha dedotto che atti di terrorismo penalmente rilevanti
sul piano del diritto internazionale e, quindi, di riflesso, anche sul piano del diritto
interno, sono solo quelli diretti a seminare terrore indiscriminato nei confronti della
popolazione civile in nome di un credo ideologico e/o religioso, con esclusione quindi di
48() Venivano tratti a giudizio avanti all’autorità giudiziaria di Milano, alcuni soggetti che, secondo la ricostruzione dell’accusa, si sarebbero associati per commettere atti di violenza con finalità di terrorismo internazionale sia in Italia che all’estero. Ebbene, il G.u.p. di Milano, all’esito del giudizio abbreviato, ha assolto dall’imputazione di cui all’art. 270-bis tre degli imputati, facenti parte della cellula milanese, dichiarandosi invece territorialmente incompetente per altri due imputati facenti parte della cellula cremonese. Conseguentemente, ha rimesso gli atti avanti all’autorità giudiziaria di Brescia (territorialmente competente), revocando, tuttavia, la misura cautelare in atto per difetto dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui all’art. 270-bis c.p. Il G.i.p. di Brescia, dal canto suo, ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza del reato in questione. Per una più ampia ricostruzione della vicenda processuale, v. F. CERQUA, Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale: un contrasto giurisprudenziale, in Cass. pen., 2005, p. 3130. 49() G.u.p. Milano, 24 gennaio 2005, Bouyahia Maher, inedita.
31
quegli atti posti in essere contro appartenenti alle forze armate. Il G.u.p. di Milano è
giunto a tale conclusione perché estendere la tutela di cui all’art. 270-bis c.p. anche agli
atti di guerriglia posti in essere nell’ambito di conflitti bellici in atto in altri Stati, ed a
prescindere dall’obiettivo preso di mira, avrebbe voluto dire prendere inevitabilmente
posizione per una delle forze in campo. Nel caso di specie, il giudice ne ha ricavato,
quindi, l’insussistenza della finalità di terrorismo di cui all’art. 270-bis c.p., posto che
dalle emergenze processuali appariva piuttosto che i combattenti reclutati nel nostro
Paese dagli imputati fossero certo diretti nei campi di addestramento siti in Paesi
fondamentalisti islamici, tuttavia per essere utilizzati in combattimenti contro le forze
armate della coalizione alleata (50).
50() L’impianto motivazionale della pronuncia in commento è il seguente: «[…] Non risulta invece provato, nonostante gli encomiabili sforzi investigativi compiuti, che tali strutture paramilitari prevedessero la concreta programmazione di obiettivi trascendenti attività di guerriglia da innescare in detti o in altri prevedibili contesti bellici e dunque incasellabili nell’ambito delle attività di tipo terroristico di cui all’art. 270-bis c.p. come novellato all’indomani dei noti e tragici fatti dell’11.9.2001. – La nozione di terrorismo, com’è noto, diverge da quella di eversione e come questa non è definita in via normativa, dovendosi dunque ricavare in via ermeneutica, sia sulla base del contenuto delle convenzioni internazionali sul punto, sia, soprattutto, riflettendo sulla ratio e sulla genesi della norma penale in questione. – Emblematico sotto il primo profilo appare il tenore della Convenzione Globale dell’O.N.U. sul Terrorismo, progettata nel 1999, che all’art. 18/2 prevede un’esimente in ordine alle sanzioni in essa previste, in forza della quale le stesse non riguardano le forze armate ed i gruppi armati o movimenti diversi dalle forze armate di uno Stato nella misura in cui si attengano alle norme di diritto internazionale umanitario. – Proprio da tale normativa, ed in particolare da detta esimente, si ricava che le attività violente o di guerriglia poste in essere nell’ambito di contesti bellici, anche se poste in essere da parte di forze armate diverse da quelle istituzionali, non possono essere perseguite neppure sul piano del diritto internazionale, a meno che – ed ecco che in tal caso l’esimente in questione non opera – non venga violato il diritto internazionale umanitario. Da tale ultimo limite può ricavarsi dunque che le attività di tipo terroristico rilevanti e dunque perseguibili sul piano del diritto internazionale siano quelle dirette a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo ideologico e/o religioso, ponendosi dunque come delitti contro l’umanità. – A confortare tale impostazione interviene la ratio della norma di cui all’art. 270-bis c.p., com’è noto novellato a seguito dei noti e tragici fatti dell’11.9.2001. – La modifica che ha appunto esteso il rilievo penale dei fatti in tale norma già previsti anche ai casi in cui gli stessi fossero posti ai danni di uno Stato estero, voluta d’emergenza all’indomani di tali fatti, parallelamente ad analoghi interventi legislativi posti in essere in altri paesi, ha evidentemente perseguito la finalità di creare una sorta di diritto penale sovrannazionale con il quale tutelare i singoli Stati da attentai terroristici di ampio spettro, speculari di strategie politiche autonome e risolutive. – L’estendere tale tutela penale anche agli atti di guerriglia, per quanto violenti, posti in essere nell’ambito di conflitti bellici in atto in altri Stati ed a prescindere dall’obiettivo preso di mira, porterebbe inevitabilmente ad un’ingiustificata presa di posizione per una delle forze in campo, essendo peraltro notorio che nel conflitto bellico in questione, come in tutti i conflitti dell’era contemporanea, strumenti di altissima potenzialità offensiva sono stati innescati da tutte le forze in campo. – Tanto premesso, va rilevato come in punto di fatto non può ritenersi provato, neppure in termini di gravità indiziaria, che le due “cellule” in
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In pari data è stata, altresì, emessa dal G.i.p di Milano un’ordinanza con la quale è
stata revocata la misura cautelare ad altri due imputati nel medesimo procedimento, in
quanto, basandosi sulle medesima distinzione tra atti di guerriglia ed atti terroristici, il
giudice ne ha ricavato l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui
all’art. 270-bis c.p.. Gli atti, inoltre, sono stati contestualmente trasmessi all’A.G. di
Brescia, territorialmente competente per la “cellula cremonese”.
I provvedimenti del G.i.p./G.u.p. di Milano sono stati ampiamente criticati (51)
sotto diversi profili (52). Per quel che più propriamente interessa la presente indagine, è
stata oggetto di critiche la fonte internazionale cui il giudicante è ricorso per ricavare la
definizione di «finalità di terrorismo», ossia l’art. 18/2 del progetto di Convenzione
globale contro il terrorismo delle Nazioni unite del 1999. Tale strumento normativo
internazionale, infatti, non è mai stato approvato dall’O.N.U. (53) ed è rimasto nella forma
embrionale di mero progetto, come del resto lo stesso giudicante pare evidenziare nelle
pronunce in commento. La dottrina ha, quindi, messo in evidenza come, sebbene, nel
questione, pur gravitando in aree notoriamente contrassegnate da propensioni al terrorismo, avessero obiettivi trascendenti quelli di guerriglia come sopra delineati. – Al riguardo non può dirsi sufficiente a fondare l’ipotizzata responsabilità penale, la comune appartenenza a realtà eversive ed a strutture, quale quella denominata “Ansar Al Islam” – peraltro bombardata e distrutta nel corso di tale conflitto – dalla composizione tutt’altro che omogenea ed anzi alquanto articolata e complessa. […]». Così, G.i.p. Milano, ord. 24 gennaio 2005, Drissi, in Foro it., II, c. 219, con nota di G. IUZZOLINO e U. PIOLETTI.51() In tal senso, tra i tanti, v. F. CERQUA, Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale: un contrasto giurisprudenziale, cit., p. 3136; nonché M. MANTOVANI, Brevi note in materia di terrorismo internazionale, in Giur. mer., 2005, p. 1370.52() La decisione in commento è stata oggetto di critiche sotto diversi profili. In primo luogo, per il discrimen tra “atto di guerriglia” ed “atto terroristico” su cui essa fonda l’applicabilità o meno dell’art. 270-bis c.p. In secondo luogo, perché qualifica, del tutto arbitrariamente, la disposizione di cui all’art. 18/2 della Convezione contro il terrorismo quale esimente. Infine, è stata oggetto di aspre critiche anche l’ordinanza, adottata in pari data, e con la quale il medesimo G.i.p. si è dichiarato territorialmente incompetente rispetto ad altri due imputati nel medesimo procedimento ed ha trasmesso gli atti al Tribunale di Brescia. Con tale ordinanza, basandosi sulla medesima distinzione tra atto di guerriglia ed atto di terrorismo di cui alla sentenza di assoluzione, è stata, altresì, contestualmente revocata la misura cautelare della custodia in carcere per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui all’art. 270-bis c.p. Tale provvedimento è stato oggetto di critiche per gli aspetti più prettamente processuali. In particolare, nella misura in cui, con un’ordinanza di trasmissione degli atti al giudice territorialmente competente, il G.i.p. ha, altresì, revocato la misura custodiale. Per le critiche, v. F. CERQUA, Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale: un contrasto giurisprudenziale, cit., p. 3136.53() In tal senso, v. M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1288.
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perdurante silenzio del legislatore, la strada giusta per ricavare l’esatta portata della
nozione di “terrorismo” fosse certamente il ricorso a fonti internazionali e
sovrannazionali, sarebbe stato più opportuno ricorre a Convenzioni invece in vigore per il
nostro ordinamento.
Di appena qualche giorno successivo è il provvedimento, di segno opposto,
emesso dal G.i.p. di Brescia il 31 gennaio 2005 (54) ed al quale erano stati rinviati per
competenza gli atti nei confronti dei due imputati, sospettati di appartenere alla cellula
cremonese.
Il giudicante prende le mosse da un’accesa critica (55) nei confronti dell’impianto
motivazionale dell’ordinanza (56) del G.i.p. di Milano, per ritenere, invece, sussistenti gli
estremi del delitto di cui all’art. 270-bis c.p. Volendosi soffermare sui soli profili che
riguardano la nozione di terrorismo, in primo luogo, il G.i.p. di Brescia mette in rilievo
come lo stesso giudice milanese, nella sua ordinanza, sia perfettamente consapevole che
la Convenzione globale del 1999 fosse stata soltanto progettata e mai approvata dalle
Nazioni unite. Non si vede, pertanto, come possa essere validamente tratta da essa una
definizione di terrorismo che sia espressione del diritto internazionale vigente, posto che
54() G.i.p. Brescia, ord. 31 gennaio 2005, in Foro it., 2005, II, c. 218 ss. Il provvedimento in parola è stato emesso dall’autorità giudiziaria proprio in sede di rinnovazione della misura cautelare e di custodia cautelare in carcere ex artt. 27, 272 e ss. e 285 c.p.p., a seguito della caducazione della misura da parte del G.i.p. di Milano con la succitata ordinanza del 24 gennaio 2005. Per un esame approfondito delle ordinanze del G.i.p di Milano e di quello di Brescia, nonché dell’ampio clamore mediatico da esse suscitato, v. F. VIGANÒ, Profili di diritto penale sostanziale dell’azione di contrasto al terrorismo (relazione all’incontro di formazione organizzato dal CSM a Roma il 14 aprile 2005, disponibile sul sito http://appinter.csm.it/incontri/incontri/dll).55() «Questa A.G. intende discostarsi in modo radicale da tale ragionamento, che, a proprio giudizio, appare frutto di erronea applicazione di norme, nonché di una valutazione bidimensionale delle carte processuali e, più i generale, del fenomeno terroristico nel suo complesso.»; così, G.i.p. Brescia, ord. 31 gennaio 2005, cit.56() Ovviamente, le critiche del G.i.p. di Brescia si appuntano contro l’ordinanza di trasmissione degli atti all’A.G. territorialmente e competente e di contestuale revoca della misura della custodia cautelare in carcere. Tuttavia, posto che il G.i.p. di Milano aveva utilizzato la medesima distinzione tra “atto di guerriglia” ed “atto di terrorismo” anche per revocare la misura custodiale, la querelle tra i due giudicanti assume comunque rilievo ai nostri fini.
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la medesima non è mai stata approvata proprio per il disaccordo degli Stati sui suoi
contenuti.
In secondo luogo, il giudice bresciano evidenzia come la distinzione tra
“giustificata guerriglia” e “terrorismo” sia opinabile, in quanto implica inevitabilmente,
ove la distinzione venga fatta in ragione della natura tirannica o meno dell’antagonista,
proprio quella presa di posizione per una delle forze in campo che il G.i.p. di Milano
vuole evitare.
In terzo luogo, il G.i.p di Brescia afferma che, tutte le volte in cui non può essere
fornita la prova dell’obiettivo in concreto preso di mira dagli indagati, qualificare come
terroristico un atto a seconda se la condotta sia posta in essere contro vittime civili ovvero
militari entrerebbe in contrasto con la natura dell’art. 270-bis, così come riconosciuta
dalla Suprema Corte, secondo cui il reato di associazione transnazionale sarebbe un reato
a pericolo presunto de iure.
Infine, il giudice bresciano evidenzia che l’inadeguatezza di una netta distinzione
tra “guerriglia” e “terrorismo” è dimostrata anche dal rilievo pratico per cui non può
prevedersi con anticipo se una data organizzazione, pur costituita per il compimento di
atti di violenza con una determinata finalità, agisca poi in concreto verso specifici
obiettivi militari ovvero nei confronti di civili inermi, ben potendo mutare tipologia di
bersaglio in extremis.
Il G.i.p. di Brescia ritiene, quindi, che, per attribuire significato all’espressione
«finalità di terrorismo» di cui all’art. 270-bis c.p,. debba farsi ricorso all’«intenzione del
legislatore», secondo quanto previsto dall’art. 12, comma 1, delle disposizioni sulla legge
in generale. E, ciò, perché le leggi vanno interpretate, non secondo la propria opinione
personale, bensì secondo le scelte politiche che hanno indotto il legislatore del passato ad 35
emanarle e quello del presente a mantenerle in vigore. Solo in questo senso le leggi sono
espressione del comune modo di sentire di una comunità in una determinata zona ed in un
determinato periodo storico. Sulla base di tali premesse, il giudice bresciano giunge,
pertanto, alla conclusione che il comune modo di sentire, secondo l’intenzione del
legislatore che ha introdotto l’art. 270-bis c.p., è quella di ritenere quali veri e propri atti
terroristici anche quelli posti in essere con il ricorso a kamikaze da parte di portatori di
ideologie estremistiche islamiche, nei confronti di unità militari. Se ne deve, quindi,
dedurre la finalità terroristica delle condotte in concreto poste in essere dagli imputati,
anche alla luce del fatto che l’organizzazione terroristica cui gli stessi risultano
appartenere (Ansar Al Islam) è stata inserita dal Governo degli Sati Uniti nella lista delle
organizzazioni terroristiche collegate ad Al Qaeda (57).
Anche tale decisione è stata ampiamente criticata in dottrina (58). In primo luogo,
per il richiamo all’intenzione del legislatore di cui all’art. 12 delle Preleggi. Si è messo, in
particolare, in evidenza come in tal modo si rischi di ricadere in quel giudizio politico
che, proprio il G.i.p. di Brescia, nelle sue premesse, aveva inteso evitare (59). Altri,
57() «L’unica valutazione “politica” che spetta al giudice nell’attribuire un significato alla espressione “finalità di terrorismo” contemplata nell’art. 270-bis c.p. è pertanto quella indicata nell’articolo 12, comma 1, delle disposizioni sulla legge in generale, che eleva a principale criterio ermeneutico la “intenzione del legislatore”. – Le leggi vanno dunque interpretate non secondo la propria opinione personale, bensì in conformità alle scelte politiche di fondo che hanno indotto il legislatore del passato ad emanarle ed il legislatore del presente a mantenerle in vigore. Le leggi in questo senso sono espressione del comune modo di sentire di una comunità radicata in un determinato contesto storico e geografico. – Alla luce del comune modo di sentire della comunità politica (o delle comunità politiche) che ha prodotto l’art. 270 bis c.p. (o altre norme equivalenti) deve ritenersi che azioni violente condotte anche con il ricorso a “kamikaze” da portatori di ideologie estremistiche islamiche nei confronti di unità militari attualmente impiegate in Asia (tra cui un contingente italiano) non possono qualificarsi come atti di legittima “guerriglia”, ma vanno senz’altro definiti ad ogni effetto come atti di “terrorismo”. Non può ignorarsi al proposito che l’organizzazione Ansar Al Islam, cui gli imputati sono riconducibili è stata inserita dal governo degli stati Uniti tra le organizzazioni terroristiche che intrattengono fecondi rapporti con la temibile “Al Qaeda”».58() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3380; nonché M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1288.59() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3380.
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invece, hanno sottolineato come, seguendo il ragionamento del G.i.p. bresciano, si
rischierebbe di riempire il vuoto di determinatezza della norma con le istanze punitive
dell’opinione pubblica, che portano inevitabilmente alterazione dell’equilibrata
interpretazione delle norme (60). In secondo luogo, l’ordinanza in parola è stata criticata
per il ricorso ad una lista predisposta da un Paese straniero, peraltro neppure appartenete
all’Unione europea, quale prova del carattere terroristico dell’organizzazione
transnazionale de qua.
Per quel che concerne il ricorso alle liste per dedurre il carattere terroristico di una
data organizzazione internazionale, è bene osservare che da tempo la dottrina (61) e, più
recentemente, la giurisprudenza (62) hanno messo in evidenza come le liste di
organizzazioni terroristiche stilate dal Consiglio dell’Unione europea, sulla base delle
analoghe liste predisposte dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, siano
semplicemente il presupposto per l’applicazione di una serie di misure di carattere solo
amministrativo (63). Esse non hanno alcun valore, invece, per il giudice penale. Possono
al più fornire uno spunto investigativo agli organi della pubblica accusa. La tesi contraria,
infatti, trasformerebbe il delitto di cui all’art. 270-bis in una sorta di norma penale in
bianco (64). Se questo discorso è valido per le liste predisposte da organizzazioni
internazionali, a maggior ragione esso lo è per la validità, all’interno del nostro
ordinamento e del nostro processo, di liste stilate da un Paese straniero.
60() In tal senso, M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit. p. 1288. 61() A. VALSECCHI, Il problema della definizione di terrorismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 1144.62() Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006 (dep. 17.1.2007), n. 1072, in Cass. pen., 2007, p. 1462, su cui v., più ampiamente, infra.63() Si pensi, ad esempio, al congelamento dei beni.64() A. VALSECCHI, Il problema della definizione di terrorismo, cit., p. 1114.
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2.3. Segue. La Convenzione internazionale per la soppressione del
finanziamento del terrorismo del 1999 e la Decisione Quadro del
Consiglio dell’Unione europea del 13 giugno 2002 (2002/475/GAI).
Soprattutto, però, si è messo in evidenza in dottrina (65) come le due succiate
pronunce abbiano omesso di considerare, tra le fonti internazionali e sovranazionali (66)
da cui trarre la nozione di terrorismo, le due principali in materia. Più esattamente, si fa
riferimento, da un lato, alla Convenzione internazionale per la soppressione del
finanziamento del terrorismo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni unite il 9
dicembre 1999 ed entrata in vigore il 10 aprile 2002 (67); dall’altro, alla Decisione Quadro
adottata dal Consiglio dell’Unione europea il 13 giugno 2002 (2002/475/GAI) (68).
In particolare, l’art. 2 della Convenzione ONU del 1999 (69) è già da tempo
integrativa delle fattispecie incriminatrici, in quanto ratificata dal nostro ordinamento con
65() F. CERQUA, Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale: un contrasto giurisprudenziale, cit., p. 3136. 66() Per una ricostruzione della nozione di terrorismo nelle convenzioni e negli atti normativi delle organizzazioni internazionali, nonché nell’ambito dell’Unione europea, v. O. VILLONI, Il reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale e la nozione di terrorismo negli strumenti normativi e nelle convenzioni internazionali, in Giur. merito, 2005, p. 1358;67() Aveva messo in evidenza l’importanza della Convenzione ONU del 1999 per la determinazione della nozione di terrorismo internazionale, L.D. CERQUA, Sulla nozione di terrorismo internazionale, in Cass. pen., 2007, p. 1580 ss.. In particolare, l’A. era intervenuto in senso critico a Cass., Sez. I, 21 giugno 2005, n. 35427.68() La dottrina, criticando le decisioni del G.i.p di Milano e di quello di Brescia, aveva messo in evidenza come, al fine di definire esattamente la portata della «finalità di terrorismo» di cui all’art. 270-bis c.p., avessero importanza fondamentale la Convenzione ONU del 1999 e della Decisione quadro 2002/475/GAI. In particolare, si era espresso in tal senso, A. VALSECCHI, La definizione di terrorismo dopo l’introduzione del nuovo art. 270-sexies c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 1007. La prima pronuncia ad esprimersi in tal senso è stata: Ass. Milano, 9 maggio 2005, Bouyahia Hammadi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 821. Con tale sentenza, la Corte d’Assise di Milano ha accolto le indicazioni provenienti dalla dottrina, utilizzando gli strumenti internazionali più appropriati. In tale ottica, cfr. A. VALSECCHI, Il problema della definizione di terrorismo, cit., p. 1150; nonché F. VIGANÒ, Riflessioni in tema di terrorismo internazionale e diritto penale, in Corr. mer., 2005, p. 429; 69() Per una prima significativa valorizzazione, in giurisprudenza, della Convenzione ONU del 1999 ai fini dell’esatta delimitazione della porta del terrorismo internazionale, v. Ass. Milano, 9 maggio 2005, Bouyahia Hammadi, cit., p. 821; nonché G.u.p. Brescia, 13 luglio 2005, Rafik, inedita. Un commento a tali decisione è anche presente in G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3380 e 3384.
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la legge 14 gennaio 2003, n. 7. Ad avviso di tale disposizione, è terroristica, in primo
luogo, ogni attività indicata come tale da specifiche convenzioni internazionali di settore
che incriminino singole attività tipicamente terroristiche (70). È, altresì, terroristica
qualsiasi altra condotta che presenti un duplice requisito, l’uno di carattere oggettivo,
l’altro di natura soggettiva. Dal punto di vista oggettivo, l’azione violenta deve essere
diretta a cagionare la morte o le lesioni gravi ad un civile oppure, in contesti di conflitto
armato, ad una persona che non partecipi direttamente alle ostilità. Dal punto di vista
soggettivo, invece, deve essere sorretta dalla finalità di intimidire la popolazione, ovvero
da quella di costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere od
omettere un determinato atto (71).
La formulazione della Convenzione del 1999 ha, dunque, una portata così ampia
da assumere il valore di una definizione generale, applicabile sia in tempo di pace che in
tempo di guerra. Essa è comprensiva di qualsiasi condotta diretta contro la vita o
l’incolumità di civili ovvero, in contesti bellici, contro ogni altra persona che non prenda
parte attiva alle ostilità in una situazione di conflitto armato. In quest’ultimo caso, sempre
70() In particolare, l’art. 2 della Convenzione ONU del 1999 prevede che «commette un’infrazione ai sensi della presente Convenzione chiunque con ogni mezzo, direttamente o indirettamente, illecitamente e intenzionalmente eroghi o raccolga fondi con l’intenzione che vengano usati o nella consapevolezza che saranno usati, in tutto o in parte, allo scopo di compiere: a) un atto che costituisce una condotta inclusa nel campo di applicazione di uno dei trattati che figurano in allegato e come in esso definito». In allegato alla Convenzione, figurano quindi i seguenti trattati: 1. Convenzione sulla repressione del sequestro illecito di aeromobili, fatta a l’Aja il 16 dicembre 1970; 2. Convenzione per la repressione di atti illeciti contrari alla sicurezza dell’Aviazione civile, fatta a Montreal il 23 settembre 1971; 3. Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei reati contro le persone internazionalmente protette, inclusi gli agenti diplomatici, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni unite il 14 dicembre 1979; 5. Convenzione sulla protezione fisica del materiale nucleare, adottata a Vienna il 3 marzo 1980; 6. Protocollo per la repressione di atti illeciti contrari alla sicurezza delle Piattaforme fisse situate nella Piattaforma continentale, fatta a Roma il 10 marzo 1988; 9. Convenzione internazionale per la repressione di attentati terroristici dinamitardi, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni unite il 15 dicembre 1997.71() Più esattamente l’art. 2, lett. b) della Convenzione configura una clausola di chiusura a mente della quale è da considerarsi terroristico «qualsiasi altro atto inteso a provocare la morte o gravi lesioni fisiche a civili o a qualsiasi altra persona che non prenda attivamente parte alle ostilità in una situazione di conflitto armato, quando lo scopo di tale atto per sua natura o contesto, è quello di intimorire la popolazione, o costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un atto qualsiasi».
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al fine di diffondere il terrore tra la popolazione e di costringere uno Stato oppure
un’organizzazione internazionale a compiere oppure omettere un determinato atto. Le
vittime devono, quindi, essere dei civili ovvero persone non direttamente impegnate nelle
operazioni militari.
Anche la Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione europea del 13 giugno
2002, già prima della novella normativa ad opera della legge n. 144 del 2005, sebbene
non direttamente vincolante all’interno del nostro ordinamento, costituiva senza dubbio
un referente esegetico di primaria importanza per l’applicazione dell’art. 270-bis c.p.
In particolare, l’art. 1 della Decisione prevede che ciascuno Stato membro adotti
idonee misure affinché siano considerati come terroristici alcuni reati ivi specificamente
individuati (72). La norma prosegue configurando come terroristiche anche tutte quelle
condotte che, per loro natura o contesto, possono recare grave danno ad un Paese o ad
una organizzazione internazionale, quando però siano commesse con il triplice dolo
alternativo ivi specificato, ossia al fine di: intimidire gravemente la popolazione;
costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere
o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, destabilizzare gravemente o distruggere le
strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di
un’organizzazione internazionale.
72() Tali condotte sono: 1) attentati alla vita di una persona che possono causarne il decesso; 2) attentati gravi all’integrità fisica di una persona; 3) sequestro di persona e cattura di ostaggi; 4) distruzioni di vasta portata di strutture governative o pubbliche, sistemi di trasporto, infrastrutture, compresi i sistemi informatici, piattaforme fisse situate sulla piattaforma continentale ovvero di luoghi pubblici o di proprietà private che possono mettere a repentaglio vite umane o causare perdite economiche considerevoli; 5) sequestro di aeromobili o navi o di altri mezzi di trasporto collettivo di passeggeri o di trasporto di merci; 6) fabbricazione, detenzione, acquisto, trasporto, fornitura uso di armi da fuoco, esplosivi, armi atomiche, biologiche e chimiche, nonché per le armi biologiche e chimiche, ricerca e sviluppo; 7) diffusione di sostanze pericolose, il cagionare incendi, inondazioni o esplosioni i cui effetti mettono in pericolo vite umane; 8) manomissione o interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse naturali fondamentali il cui effetto metta in pericolo vite umane; 9) minaccia di realizzazione di uno dei comportamenti di cui ai numeri precedenti.
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L’area applicativa della Decisione quadro è più limitata rispetto a quella della
Convenzione ONU del 1999, riguardando solo i fatti commessi in tempo di pace.
L’undicesimo considerando introduttivo, infatti, esclude dalla sua disciplina le attività
delle forze armate in tempo di conflitto armato.
2.4. Segue. Il d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni,
nella l. 31 luglio 2005, n. 155: l’art. 270-sexies e le «condotte con
finalità di terrorismo».
Subito dopo gli attentati di Londra del 7 e del 22 luglio 2005, il legislatore italiano,
con l’art. 15, comma 1, del d.l. 27 luglio 2005, conv. con. modif. in l. 31 luglio 2005, n.
155 (73), ha finalmente introdotto nel codice penale una propria definizione di terrorismo,
recependo per lo più l’art. 1 della succitata Decisione quadro 2002/475/GAI. Il nuovo art.
270-sexies c.p. costituisce, dunque, una vera e propria attuazione della fonte comunitaria.
Al pari dell’art. 1 della Decisione quadro, infatti, l’art. 270-sexies c.p. prevede che
la condotta si connota come terroristica ogniqualvolta presenti determinati requisiti
oggettivi e soggettivi. Sul piano oggettivo, è necessario che le condotte, «per loro natura
o contesto, possano recare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione
internazionale». Sul piano soggettivo, tali condotte debbono essere poste in essere allo
scopo alternativo: a) di «intimidire la popolazione», b) di «costringere i poteri pubblici o 73() Per un commento alle modifiche normative introdotte dalla l. 155 del 2005, v. S. REITANO, Riflessioni in margine alle nuove fattispecie antiterrorismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 217; nonchè A. MARTINI, La nuova definizione di terrorismo: il D.L. n. 144 del 2005, come convertito con modificazioni in legge 31 luglio 2005, n. 155, in Studium Juris, 2006, p. 1219. L’intervento di cui al d.l. 27 luglio 2005, n. 144, recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale», convertito con modificazioni nella legge 31 luglio 2005, n. 155, è stato di ampio respiro. Per un esame dell’ampliamento dei compiti della polizia giudiziaria in tale materia, v. A. SCAGLIONE, Misure urgenti per il contrasto al terrorismo internazionale e polizia giudiziaria, in Cass. pen., 2006, p. 316.
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un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto»,
ovvero c) a «destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali,
costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale».
La norma codicistica contempla, infine, una clausola di chiusura, a mente della
quale sono altresì considerate con finalità di terrorismo tutte quelle condotte definite
terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto
internazionale vincolanti per l’Italia. In tal modo, l’art. 270-sexies c.p. finisce con l’essere
una vera e propria fonte aperta, destinata ad estendersi o restringersi per effetto, non solo
delle convenzioni internazionali già ratificate, ma anche di quelle future, in modo tale da
assicurare un’armonizzazione automatica dell’ordinamento giuridico dello Stato a quello
internazionale.
A differenza dell’art. 1 della Decisione quadro, quindi, l’art. 270-sexies c.p. non
elenca specificamente quali reati di diritto comune siano suscettibili di essere qualificati
come terroristici, in presenza del necessario dolo specifico. Ad avviso della dottrina (74),
il legislatore italiano potrebbe aver ritenuto superflua una tale elencazione, in quanto la
maggior parte delle condotte di cui all’art. 1 della Decisione quadro sono già contemplate
quali autonome fattispecie criminose dal nostro ordinamento, se sorrette da una finalità
terroristica (artt. 280, 820-bis, 289-bis), mentre le altre condotte sono reati comuni ai
quali è applicabile l’aggravante della finalità di terrorismo di cui all’art. 1 della l. 15 del
1980.
L’art. 270-sexies c.p. presenta, inoltre, significative differenze rispetto alla
definizione di cui alla Convenzione di New York del 1999. Sul versante oggettivo,
74() A. VALSECCHI, Misure urgenti per il contrasto al terrorismo internazionale. Brevi osservazioni di diritto penale sostanziale, in Dir. pen. proc., 2005, p. 1224; F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, cit., p. 3957.
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infatti, è carente di qualsivoglia riferimento alla qualità della vittima. Per la nuova
disposizione, sembrerebbe, quindi, irrilevante che la vittima dell’attentato terroristico sia
un civile piuttosto che un militare anche attivamente impegnato nel conflitto armato. Sul
versante soggettivo, invece, alle due finalità espressamente contemplate dalla
Convenzione – ossia quella terroristica in senso proprio e quella coercitiva della volontà
dell’autorità – si aggiunge una terza finalità: ossia l’eversione di qualsiasi Paese straniero
od organizzazione internazionale. In tal modo, la finalità eversiva diventa una vera e
propria “sottoipotesi” (75) della finalità terroristica e non più un quid aliud, come era stato
fino ad ora nel nostro ordinamento.
Ebbene, giova effettuare qualche precisazione circa la qualità della vittima
dell’attentato terroristico. Nel diritto internazionale, è pacifico che l’atto terroristico possa
essere posto in essere anche in un contesto di conflitto armato, purché la vittima sia un
civile o comunque un soggetto non direttamente impegnato nelle ostilità. Diversamente
opinando, infatti, si tratterebbe di un vero e proprio atto di guerra, in quanto tale, soggetto
allo ius in bello. Nello stesso senso, del resto, si esprime la decisione quadro
2002/475/GAI la quale – come si è detto - all’undicesimo considerando specifica che essa
non si applica ai fatti commessi dalle forze armate in tempo di conflitto armato. Posto che
l’art. 270-sexies c.p. è norma attuativa della decisione quadro, esso dovrà essere
interpretato in un senso ad essa conforme, in omaggio ai principi valevoli in tema di
interpretazione delle norme interne, attuative di fonti comunitarie. Ne consegue che la
definizione di terrorismo di cui all’art. 270-sexies c.p. sarà applicabile ai soli fatti
commessi in tempo di pace. Al contrario, ai fatti commessi in tempo di guerra sarà
applicabile la definizione di cui all’art. 2 della Convenzione di New York, con la 75() F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, cit., p. 3957.
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conseguenza che non saranno considerati terroristici i fatti commessi contro militari
attivamente impegnati nelle operazioni militari in contesti di conflitto armato.
È stata criticata, invece, in dottrina (76), la scelta del legislatore italiano di
ricondurre la finalità eversiva a quella terroristica. Soluzione, peraltro, imposta dagli
obblighi comunitari. Si è messo, infatti, in evidenza che in tal modo, il giudice italiano
potrebbe essere chiamato a difendere l’ordine costituito di qualsiasi Stato estero, anche di
quelli retti da regimi tirannici e dittatoriali (77).
2.5. Segue. Le prime applicazioni giurisprudenziali dell’art. 270-sexies
c.p.
La prima sentenza a fare applicazione della definizione di condotte con finalità di
terrorismo di cui all’art. 270-sexies c.p. è stata quella resa il 28 novembre 2005 dalla
Corte d’assise d’Appello di Milano (78).
Con tale pronuncia, la Corte di merito ha ritenuto applicabile l’art. 270-sexies c.p.,
e la definizione di «condotte con finalità di terrorismo» ivi contenuta, pur essendo detta 76() F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, p. 3958.77() F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, p. 3958; l’A., in senso critico, evidenzia che tale «conclusione potrà magari lasciare insoddisfatti: ma mi pare che l’interprete non possa fare altro che rassegnarvisi, nell’impossibilità di correggere in via interpretativa l’inequivoca volontà del legislatore».78() Ass. app. Milano, 28 novembre 2005, Bouyahia Maher, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 1097. Il processo d’appello, in particolare, ha ad oggetto la sentenza resa all’esito del giudizio abbreviato dal G.u.p di Milano il 24 gennaio 2005, cit., e di cui già si è detto, v. retro § 2.2.
44
disposizione entrata in vigore dopo i fatti di causa. E ciò perché – ad avviso dei giudici
d’appello – la norma sarebbe priva di contenuto sanzionatorio. Al contrario, preciserebbe
solo in termini più restrittivi il concetto di terrorismo di cui all’art. 270-bis c.p.
Ai fini di una più corretta interpretazione dell’art. 270-bis c.p., la Corte passa,
quindi, in rassegna le fonti internazionali in materia di terrorismo. In particolare, esamina,
innanzitutto, l’art. 2 lett. b) della Convenzione del 1999 per la repressione del
finanziamento al terrorismo e la decisione quadro 2002/475/GAI, concernente il
terrorismo in tempo di pace. Successivamente, prende in considerazione anche la quattro
Convenzioni di Ginevra del 1949, rese esecutive con l. n. 1739 del 1951 e i due Protocolli
aggiuntivi, resi esecutivi con l. n. 762 del 1985, le cui disposizioni, facenti parte del
diritto internazionale umanitario, contengono la definizione di conflitto armato e degli
obblighi dei combattenti anche non facenti parte di truppe regolari, nonché il divieto di
colpire intenzionalmente la popolazione civile e di dirigere attacchi militari contro
obiettivi civili.
Partendo da tali premesse, i giudici d’appello giungono, quindi, alla conclusione
secondo cui, dalle fonti normative internazionali, si ricava che un atto può definirsi
terroristico quando sia idoneo a diffondere il terrore nella popolazione civile ed a
provocare un grave danno ad uno Stato avvero ad un’organizzazione internazionale,
purché sia stato commesso nel corso di un conflitto armato o di una situazione equiparata
(come ad esempio, l’occupazione militare ad opera di uno Stato straniero), sia qualificato
da una finalità politica o ideologica e, soprattutto, sia diretto contro un obiettivo civile.
Dunque, ad avviso della Corte d’assise d’appello, anche dopo la novella legislativa
di cui alla l. 155 del 2005, è fondamentale che l’atto di violenza sia posto in essere contro
una vittima civile, affinché esso possa essere qualificato come terroristico. 45
Applicando i suesposti principi di diritto al caso di specie, i giudici d’appello
hanno condannato due dei tre imputati per il reato di cui all’art. 416 c.p. ( 79), così
derubricata l’originaria imputazione per il reato di cui all’art. 270-bis c.p. (80), in quanto,
nel caso di specie, si è ritenuta non raggiunta la prova circa la natura dell’obiettivo in
concreto preso di mira dai militanti dell’organizzazione, in un Paese peraltro straniero.
La Corte di cassazione (81) ha successivamente annullato con rinvio la sentenza
della Corte d’assise d’appello milanese. La Corte di legittimità ha censurato proprio la
nozione di condotte terroristiche fatta propria dalla corte territoriale. La pronuncia della
Suprema Corte, in particolare, va apprezzata in quanto pone un punto fermo nella
definizione della finalità di terrorismo, così mettendo fine al dibattito dottrinario e
giurisprudenziale sviluppatosi a seguito della novella del 2001.
La Cassazione, innanzitutto, evidenzia l’inesattezza di quanto ritenuto dalla Corte
d’appello nell’impugnata sentenza, secondo la quale l’art. 270-sexies c.p. sarebbe privo di
contenuto direttamente sanzionatorio. Al contrario, esso contempla – ad avviso della
Suprema Corte - una norma definitoria con diretta incidenza sull’effettiva portata della
disposizione incriminatrice di cui all’art. 270-bis c.p. Oltretutto, la nuova definizione
introdotta dalla l. 155 del 2005 risulta in realtà, da un lato, più ampia di quella in
precedenza fatta propria nel nostro ordinamento, avendo essa esteso all’eversione di
qualsiasi ordinamento, anche straniero, le finalità terroristiche; dall’altro, invece, la 79() In particolare, gli imputati sono stati condannati per il delitto di associazione per delinquere finalizzata alle uniche condotte penalmente rilevanti per l’ordinamento italiano e debitamente provate in sede processuale, ossia la falsificazione dei documenti di identità ed il procurato ingresso illegale in altri Stati europei.80() Nel caso di specie, era emersa la prova del coinvolgimento di almeno due degli imputati in un’attività di reclutamento dei combattenti da inviare in Iraq nell’imminenza dell’invasione americana nel marzo del 2003. Tuttavia, la Corte territoriale ha che l’accusa non avesse, invece, fornito la prova che detti combattenti, una volta giunti in Iraq, sarebbero stati impiegati esclusivamente in operazioni contro obiettivi civili e non anche contro obiettivi militari della coalizione, come, ad esempio, con l’uso di kamikaze. 81() Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006, cit.
46
nozione di terrorismo internazionale di cui all’art. 270-sexies c.p. è più restrittiva di
quella in precedenza ricavabile dall’art. 270-bis c.p., così come integrato dalla
Convenzione di New York del 1999, in quanto applicabile ai soli fatti commessi in tempo
di pace. In virtù di tale carattere, in parte restrittivo ed in parte ampliativo, la nuova
disciplina deve, quindi, essere assoggettata ai dettami di cui all’art. 2 c.p. L’errore in cui è
incorsa la Corte d’assise d’appello, tuttavia, non ha prodotto conseguenze, posto che i
principi da essa applicati erano stati comunque tratti dalla Convenzione ONU del 1999.
Il secondo errore in cui è incorsa la Corte ha avuto, invece, delle conseguenze sul
piano pratico. La Corte d’assise d’appello di Milano aveva, infatti, considerato come
terroristici solo gli atti posti in essere esclusivamente contro la popolazione civile. Tale
ricostruzione, ad avviso della Cassazione, non è condivisibile, in quanto restrittiva della
Convenzione ONU del 1999 che, invece, certamente comprende tra gli atti di terrorismo
anche gli attacchi diretti contro militari impegnati in compiti del tutto estranei alle
operazioni belliche, quali ad esempio lo svolgimento di aiuti umanitari. Inoltre, ad avviso
della Cassazione, bisogna includere tra gli atti terroristici anche quegli atti violenti posti
in essere in un contesto di conflitto armato e che siano contemporaneamente rivolti sia
contro militari che contro la popolazione civile, tutte le volte in cui essi risultino
produttivi di gravi danni non solo nei confronti dei militari, ma anche dei civili (82). 82() In particolare, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto «l’art. 270 sexies c.p. rinvia, quanto alla definizione delle condotte terroristiche o commesse con finalità di terrorismo, agli strumenti internazionali vincolanti per l’Italia, e, in tal modo, introduce un meccanismo idoneo ad assicurare automaticamente l’armonizzazione degli ordinamenti degli Stati facenti parte della comunità internazionale in vista di una comune azione di repressione del fenomeno del terrorismo transnazionale. Ne consegue che, a seguito della integrazione della citata norma da parte della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, fatta a New York l’8 dicembre 1999 e ratificata dall’Italia con legge 14 gennaio 2003, n. 7, costituiscono atto terroristico anche gli atti di violenza compiuti nel contesto di conflitti armati rivolti contro un obiettivo militare, quando le peculiari e concrete situazioni fattuali facciano apparire certe ed inevitabili le gravi conseguenze in danno della vita e dell’incolumità fisica della popolazione civile, contribuendo a diffondere nella collettività paura e panico. (In applicazione di tale principio, la Corte ha affermato che, in base all’art. 270 sexies, che contiene una norma definitoria incidente sulla portata della disposizione incriminatrice di cui all’art. 270-bis c.p., sono qualificabili come atti terroristici anche le zioni suicide commesse da cd. “kamikaze” nel contesto di un
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Emblematico è il caso in cui, ad esempio, un cd. kamikaze si faccia esplodere contro un
automezzo militare in un mercato affollato (83).
La Corte di Cassazione ha, quindi, annullato la sentenza della Corte d’assise
d’appello, disponendo, in sede di rinvio, di procedere ad un nuovo vaglio delle prove
acquisite al fine di ravvisare o meno la finalità di terrorismo contestata agli imputati.
Al di là della singola vicenda processuale, la sentenza della Cassazione va
apprezzata per l’attenta ricostruzione dei rapporti tra l’art. 270-sexies c.p. e la
Convenzione del 1999. In particolare, la Corte evidenzia come l’art. 270-sexies c.p., in
quanto attuativo della decisione quadro 2002/475/GAI, debba essere letto alla luce di
essa. Ne consegue che il campo di applicazione della norma è il medesimo della citata
fonte europea: essa è applicabile ai soli fatti commessi in tempo di pace. Al contrario, in
caso di atto commesso in tempo di guerra, la definizione della finalità di terrorismo deve
essere tratta dalla Convenzione ONU contro il finanziamento del terrorismo del 1999, ad
avviso della quale è terroristica – è bene ribadirlo – ogni condotta posta in essere contro
civili o militari non attivamente impegnati nel conflitto (84). Sono, invece, certamente
estranee alla nozione di terrorismo le condotte poste in essere contro militari combattenti
(85). conflitto armato)». Così, Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006, cit.83() Così Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006, cit.84() In particolare, ad avviso della Suprema Corte «la definizione dell’art. 270 sexies deve essere coordinata con quella della Convenzione del 1999, resa esecutiva con la l. n. 7 del 2003, e che, di riflesso, gli elementi costitutivi delle condotte con finalità di terrorismo – indicati dalla norma nazionale sulla scia della Decisione quadro dell’Unione europea – devono essere integrati facendo riferimento anche alle previsioni della predetta convenzione. Deve trarsene il corollario che dall’integrazione della normativa interna con l’anzidetta fonte internazionale deriva che la finalità di terrorismo è altresì configurabile quando le condotte siano compiute nel contesto di conflitti armati – qualificati tali dal diritto internazionale anche se consistenti in guerre civili interne – e siano rivolte, oltre che contro civili, contro persone non attivamente impegnate nelle ostilità, con l’esclusione, perciò, delle sole azioni dirette contro i combattenti, che restano soggette alla disciplina del diritto internazionale umanitario» (Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006, cit.).85() Per una breve analisi dei nodi interpretativi ancora in essere a seguito della novella normativa di cui alla l. 155 del 2005, v. S. REITANO, Riflessioni in margine alle nuove fattispecie antiterrorismo, cit., p. 263.
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Tale approdo interpretativo cui è giunta la Corte di legittimità è stato, peraltro,
accolto con favore dalla dottrina (86), la quale ha messo in evidenza come, attualmente, le
forze militari straniere ancora presenti nei Paesi islamici siano per lo più impegnate in
un’attività di pacekeeping e di polizia internazionale. Conseguentemente, qualsiasi
attacco terroristico contro di esse ricadrebbe certamente nell’ambito applicativo di cui
all’art. 270-bis c.p. (87).
Una volta esattamente definito l’ambito di applicazione dell’art. 270-sexies c.p.,
permane, tuttavia, il problema fondamentale per il contrasto al terrorismo internazionale,
ossia quello probatorio. Infatti, pur definita la finalità terroristica a seconda della vittima
(civile o militare non impegnato nelle operazioni belliche) e del contesto (atti commessi
in tempo di pace ovvero in tempo di guerra) in cui la condotta viene posta in essere,
risulta arduo raggiungere la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, di quale sia
l’obiettivo in concreto preso di mira dagli imputati in un processo in Italia, per fatti che,
per giunta, essi programmano di compiere all’estero (88).
Così definito l’ambito applicativo delle fattispecie in tema di terrorismo
internazionale, è bene precisare quale sia il bene giuridico protetto delle nuove norme,
che, ovviamente, non può più essere identificato nell’ordinamento costituzionale italiano,
dovendosi ritenere che la collocazione sistematica delle norme de quibus all’interno del
86() Ex pluribus, v. G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3378; nonché F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, cit., p. 3960. 87() In tal senso, v. G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3378. L’A., facendo particolare riferimento alla situazione presente in Iraq, ha affermato: «Le forze militari straniere pur ancora presenti lo sono ormai nella veste di forze impegnate in un’attività di pacekeeping e in operazioni di polizia internazionale su richiesta di quello che è certamente un Governo legittimo che ha la libera sovranità sul Paese e ne consegue che qualsiasi attacco contro di esse e qualsiasi forma di reclutamenti dei militanti da inviare in Iraq ricadrebbe certamente nella fattispecie di azione terroristica». 88() Del resto, già Ass. Milano, 9 maggio 2005, cit., si era posta il problema del «ragionevole dubbio» in merito ai concreti proponimenti degli associati. In tal senso, v. G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3380.
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codice penale sia un mero retaggio storico. Dunque, secondo alcuni, il bene protetto
sarebbe l’ordine pubblico mondiale ovvero la sicurezza pubblica mondiale (89). Tale
impostazione è stata criticata da altri (90), i quali, invece, hanno messo in evidenza come
le norme in questione siano fattispecie plurioffensive. Più esattamente, esse tutelerebbero,
in via diretta, i beni della vita, dell’incolumità fisica, della libertà personale delle vittime
degli attentati, così come della proprietà individuale o collettiva dei beni materiali colpiti.
In via mediata, invece, le condotte terroristiche mirerebbero a colpire beni giuridici
diversi a seconda della specifica finalità, tra quelle indicate dall’art. 270-sexies, che
l’agente intenda perseguire, ossia, in via alternativa ovvero congiunta: la libertà di
autodeterminazione dei funzionari pubblici di qualsiasi Stato od organizzazione
internazionale; la tutela degli ordinamenti esistenti di Stati o di organizzazioni
internazionali; il diritto di ciascuno di vivere libero dalla paura. Recentemente, tuttavia, la
giurisprudenza ha ritenuto che il bene giuridico tutelato dalle disposizioni in materia di
terrorismo sia solo la personalità internazionale dello Stato (91), trattandosi quindi di reati
monoffensivi.
2.6. Segue. Considerazioni conclusive: tendenze del nostro ordinamento
verso un diritto penale del nemico.
89() E. ROSI, Terrorismo internazionale: le nuove norme interne di prevenzione e repressione, in Dir. pen. proc., 2002, p. 157. 90() F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, cit., p. 3968.91() Così Cass., Sez. I, 23 febbraio 2012, n. 12252. In passato, invece la giurisprudenza aveva ritenuto che i reati in questione fossero plurioffensivi, nel senso che tutelassero, da un lato, la vita e l’incolumità delle vittime, dall’altro, la «libertà di autodeterminazione degli Stati e delle organizzazioni internazionali» (Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006, cit.).
50
Come messo in evidenza nell’incipit della presente indagine, la legislazione anti-
terrorismo italiana appartiene al modello europeo degli strumenti di contrasto al
terrorismo islamico. Ne consegue che, al di là di singoli punti di frizione che essa possa
eventualmente presentare con i principi costituzionali, essa non appartiene alla categoria
del diritto penale del nemico.
Certamente è pur vero che l’art. 270-bis c.p., così come modificato dalla d.l. 374
del 2001, conv. in l. 438 del 2001, presentava, almeno fino all’intervento del d.l. 144 del
2005, conv. in l. 155 del 2005, un deficit di determinatezza (92) che avrebbe potuto
attrarlo in quella species di diritto penale. Come abbiamo visto, infatti, il legislatore del
2001 aveva omesso di inserire all’interno del nostro ordinamento una nozione di
terrorismo internazionale, rendendo i confini della fattispecie assai ampi e generici. Tale
punctum dolens della norma in esame, del resto, è emerso in tutta la sua evidenza fin da
subito, come si è visto dalle opposte pronunce del gip di Milano e di quello di Brescia
che si sono succedute a distanza di poco tempo l’una dall’altra.
Agli inconvenienti derivanti dall’indeterminatezza della fattispecie ha, appunto,
voluto ovviare il legislatore del 2005 per il tramite dell’introduzione di una definizione di
terrorismo internazionale all’art. 270-sexies. A quel punto, però si sarebbe potuto
verificare uno sconfinamento nel diritto penale del nemico sotto un altro punto di vista,
ossia dando seguito a quell’interpretazione, almeno in principio, fatta propria dalla
giurisprudenza di merito, secondo cui la nuova norma avrebbe avuto portata meramente
interpretativa e, in quanto tale, avrebbe, quindi, potuto avere efficacia retroattiva.
Tuttavia, sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione che, con la succitata pronuncia,
92() E’ bene sottolineare come parte della dottrina ritenga che, anche a seguito della novella di cui alla. l. 155 del 2005, la definizione di terrorismo di cui all’art. 270-sexies pecchi per determinatezza. In tal senso, cfr. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, Torino, 2008, p. 101.
51
ha ricondotto la norma in questione nell’alveo del principio di legalità, chiarendo che essa
non è una vera e propria norma interpretativa, bensì una norma pseudo-interpretativa (93)
e, in quanto tale, soggetta alla disciplina di cui all’art. 2 c.p. (94).
3. La legislazione anti-terrorrismo nel Regno Unito.
Quando gli USA sono stati colpiti dagli attentati terroristici dell’11 settembre
2001, la Gran Bretagna (95) si era da poco munita di un nuovo strumento di contrasto al
terrorismo. Si fa, in particolare, riferimento al Terrorism Act 2000, entrato in vigore il 19
febbraio 2001, con lo scopo di rivedere e rafforzare la legislazione in materia e far, così,
fronte al crescente fenomeno del terrorismo internazionale (96).
Il Terrorism Act 2000, in particolare, era diretto a reprimere il terrorismo in una
prospettiva internazionale. Secondo la definizione contenuta nel preambolo di tale
provvedimento, infatti, la nozione di terrorismo (97), era da intendere come «uso della
violenza, o anche solo minaccia, contro persone, o proprietà, al fine di promuovere una
causa politica, religiosa o ideologica; nonché la messa a repentaglio della vita di un
qualunque individuo, o la costituzione di un notevole rischio per la salute e la sicurezza
della società, o di parte di essa». Nel corpo del testo si precisava, poi, che un atto era
93() Sulla differenza tra norma interpretative e norme pseudo-interpretative e sulla sottoposizione solo di quest’ultime al principio di irretroattività della legge penale, cfr. F. RAMACCI, Corso di diritto penale, IV ed., Torino, 2007, p. 208. 94() In questi termini, v. anche F.R. FULVI, I terroristi: criminali o nemici?, in Arch. Pen., 2009, p. 89. 95() Per una analisi della legislazione britannica prima dell’11 settembre 2001, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E i relativi strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, Roma, 2006, p. 125. 96() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2005, p. 121. 97() Sul punto, v. P. LEYLAND, Lotta al terrorismo e tutela dei diritti individuali nel regno Unito: la ricerca di un equilibrio tra disposizioni di legge, potere esecutivo e controllo giurisdizionale , in T. Groppi (a cura di), Democrazia e terrorismo, Napoli, 2006, p. 243.
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considerato terroristico sia se fosse stato commesso nel Regno Unito, sia al di fuori di
esso ed a prescindere dal fatto che fosse realizzato nei confronti del Governo della Gran
Bretagna o di un altro Stato (98). Si precisava, inoltre, come la collettività destinataria
dell’atto terroristico potesse essere anche quella di uno Stato diverso dal Regno Unito;
per proprietà, dovesse intendersi qualsiasi tipo di possesso, indipendentemente
dall’ubicazione del bene e dalla nazionalità del soggetto titolare di esso e che, per
popolazione, dovesse intendersi qualsiasi popolazione, non solo quella del Regno Unito,
ma anche di qualsiasi altro Paese sovrano e che, per Governo, devesse intendersi
qualsiasi Governo legittimo, riconosciuto dalla Comunità internazionale (99).
Nonostante ciò, all’indomani dell’11 settembre 2001, tale normativa risultò presto
inadeguata ed anche il Governo del Regno Unito ha ritenuto opportuno approvare un
nuovo provvedimento legislativo, idoneo ad efficacemente fronteggiare il moderno
atteggiarsi del fenomeno del terrorismo internazionale, così come era emerso a seguito
degli attacchi agli Stati Uniti. Sicché il Governo britannico, il 12 novembre 2001, ha
approvato l’Anti-Terrorism Crime and Security Act (ATCSA 2001). Tale normativa
presentava taluni aspetti eccezionali ed aveva carattere temporaneo, in quanto
originariamente destinata a rimanere in vigore fino al 10 novembre 2006. Il
provvedimento normativo in questione si proponeva, in particolare, di emendare il
Terrorism Act 2000, dando altresì attuazione all’allora Titolo VI del trattato sull’Unione
europea.
98() In tal senso, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E i relativi strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 130.99() È bene precisare che già la disciplina di cui al Terrorism Act 2000 aveva ricevuto numerose critiche da parte di quelle organizzazioni che si occupano della tutela dei diritti civili. Amnesty International, in particolare, aveva evidenziato come le disposizioni in esso contenute entrassero in conflitto con le Convenzioni internazionali in materia di tutela dei diritti umani e ratificate dal Regno Unito. Amplius, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E i relativi strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 131.
53
Fin da subito, tuttavia, si sono posti problemi di compatibilità della nuova
disciplina con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (Cedu), (100) posto che la normativa anti-terrorismo britannica
adottata dopo l’11 settembre 2001 presentava significativi caratteri di cd. diritto penale
del nemico.
In particolare, la section 21 dell’ATCSA 2001 conferiva al Segretario di Stato il
potere di emettere un certificate (101), nel quale avrebbe dovuto motivare i propri sospetti
in merito al coinvolgimento di un cittadino straniero in attività legate al terrorismo
internazionale ed autorizzare, in tal modo, l’esercizio dei poteri eccezionali di detenzione
nei suoi confronti. La section 23 del medesimo provvedimento legislativo, invece,
prevedeva che i «sospetti terroristi» fossero soggetti alla carcerazione preventiva per un
periodo potenzialmente indefinito ed in assenza di un processo legale. Il provvedimento
in questione, inoltre, poteva essere soggetto ad un giudizio di controllo da parte della
Special Immigration Appeals Commission (SIAC), istituita dallo Special Immigration
Appeals Commission Act del 1997 al fine di contrastare l’immigrazione clandestina. Tale
organo para-giurisdizionale era composto da tre giudici della High Court (102). Si trattava
di un foro legale speciale (103), destinato ad occuparsi esclusivamente di casi di sospetti
terroristi. La straordinarietà di questa Commissione risiedeva nel fatto che né i sospetti
100() Sull’impatto della legislazione anti-terrorismo britannica sulla tematica della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, v. R. CRESTANI, Stati di eccezione, misure anti-terrorsimo e tutela dei diritti umani. Il caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna dopo l’11 settembre 2001, in Pace e diritti umani, 2005, p. 69 ss.; nonché M. ROSENFELD, Judicial balancing in time of stress. La risposta di Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele alla “guerra al terrore”, in T. Groppi (a cura di), Democrazia e terrorismo, Napoli, 2006, p. 121 ss.101() in tal senso, v. F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, in Dir. pen. proc., 2003, p. 646. 102() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, cit., p. 122. 103() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, cit., p. 122.
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terroristi, né i loro avvocati erano resi edotti degli elementi per i quali era stato effettuato
l’arresto. Tali elementi erano comunicati in via esclusiva ad un avvocato di fiducia del
Governo, che, peraltro, aveva la rappresentanza di ogni soggetto. Inoltre, la maggior parte
delle udienze si teneva a porte chiuse (104). La SIAC aveva, quindi, il potere di annullare
(105) il certificate del Segretario di Stato nel caso in cui avesse ritenuto che le condizioni
per la sua emissione non fossero state rispettate.
Per attuare l’ATCSA 2001, si è resa però necessaria in Gran Bretagna
l’approvazione del decreto n. 3644 del 2001: l’Human Rights Act Designated
Derogation. Esso prevedeva una deroga espressa alla Cedu, che era stata recepita in Gran
Bretagna con lo Human Rights Act del 1998. È proprio l’art. 15 della Cedu a prevedere
che «in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della Nazione, ogni
Alta Parte Contraente può prendere misure in deroga agli obblighi di cui alla presente
Convenzione nella stretta misura in cui la situazione lo esiga e a condizione che tali
misure non siano in contraddizione con gli altri obblighi derivanti dal diritto
internazionale». In omaggio a tale disposizione, l’art. 1, comma 2, dello Human Rights
Act del 1998 aveva previsto, quindi, che il Segretario di Stato, con una propria ordinanza,
potesse derogare alla Convenzione ogniqualvolta sussistessero i dovuti presupposti di
necessità ed urgenza. La Cedu, tuttavia, esclude la derogabilità – tra gli altri –
dell’articolo 3, in virtù del quale nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o
trattamenti inumani o degradanti.
L’art. 15, comma 3, della Cedu prevede, poi, che «ogni Alta Parte Contraente che
eserciti il diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale
104() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, cit., p. 122. 105() F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 646.
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del Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate». La
Gran Bretagna ha, quindi, notificato al Consiglio d’Europa un rapporto (il Public
emergency in the United Kingdom) in cui si è fatto riferimento espresso agli attentati
dell’11 settembre e alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che
hanno definito tali attacchi come una seria e reale minaccia per la sicurezza
internazionale, chiedendo agli Stati di adottare nuove misure per prevenire il compimento
di ulteriori attacchi terroristici. Tuttavia, il Governo britannico aveva reso noto come la
propria legislazione avrebbe derogato la Cedu solo con riferimento al suo art. 5 par. 1 lett.
f. Infatti, la normativa anti-terrorismo del 2001 prevedeva la possibilità di detenere, a
tempo indeterminato, cittadini stranieri sospettati di essere terroristi, qualora e fino a
quando la loro espulsione, per motivi di sicurezza nazionale, non fosse in concreto
possibile, poiché, ad esempio, i soggetti in questione rischiavano di essere seriamente
sottoposti a persecuzione e tortura nel loro Paese d’origine (106). La legislazione anti-
terrorismo, tuttavia, prevedeva la possibilità per lo straniero di mettere fine alla
detenzione decidendo spontaneamente di tornare nel proprio Paese ed accettando, quindi,
il rischio per la propria incolumità (107).
In virtù del disposto di cui agli artt. 3 e 15 Cedu, il Governo britannico ha poi
sostenuto che la carcerazione preventiva nei confronti di cittadini extracomunitari, senza
incriminazione formale e senza processo, si rendesse necessaria al fine di evitare che i
soggetti arrestati subissero trattamenti contrari all’art. 3 Cedu nei loro Paesi d’origine, in
cui non era assicurato il rispetto dei diritti fondamentali.
106() F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 642. 107() F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 642.
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La deroga alla Convenzione, tuttavia, poteva essere ritenuta valida nei limiti
imposti dalla Cedu stessa. L’art. 30, comma 2 e 5, ATCSA 2001 prevedeva, quindi, che i
detenuti potessero contestare le deroghe non consentite alla normativa convenzionale e da
essi ritenuti sussistenti.
Sulla legittimità della legislazione britannica antiterrorismo si è pronunciata la
Camera dei Lords, straordinariamente composta per l’occasione da nove giudici, anziché
cinque, per la rilevanza costituzionale della questione. La Law Lords ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale delle sections 21 e 23 dell’ATCSA 2001 per violazione della
Cedu. La normativa britannica di contrasto al terrorismo internazionale, adottata
sull’onda emotiva dei fatti dell’11 settembre, entrava, infatti, in collisione con la Cedu,
sotto il profilo del divieto di discriminazione di cui all’art. 14 Cedu (108) e sotto il profilo
del diritto di libertà di cui all’art. 5 Cedu (109).
108() L’art. 14 Cedu prevede che «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato, senza distinzione di alcuna specie, come di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione». 109() A mente dell’art. 5 Cedu: «Diritto alla libertà e alla sicurezza. – Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà salvo che nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: - a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente; - b) se è in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento legittimamente adottato da un tribunale ovvero per garantire l’esecuzione di un obbligo imposto dalla legge; - c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato o ci sono motivi fondati per ritenere necessario di impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso; - d) se si tratta di detenzione regolare di un minore, decisa per sorvegliare la sua educazione, o di una sua legale detenzione al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente; - e) se si tratta della detenzione regolare di una persona per prevenire la propagazione di una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; - f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di penetrare irregolarmente nel territorio, o contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione; - 2. Ogni persona che venga arrestata deve essere informata al più presto e in una lingua a lei comprensibile dei motivi dell’arresto e di ogni accusa elevata a suo carico. – 3. Ogni persona arrestata o detenuta nelle condizioni prevista dal paragrafo 1 c) del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o a un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere posta i libertà durante l’istruttoria. La scarcerazione può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione della persona all’udienza. – 4. Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha diritto di indirizzare un ricorso ad un tribunale affinché esso decida, entro brevi termini, sulla legalità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegale. – 5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione a una delle disposizioni di questo articolo ha diritto ad una riparazione».
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Il ricorso che ha dato origine alla pronuncia della Camera dei Lords era stato
presentato da nove «sospetti terroristi», detenuti presso il carcere londinese di Belmarsh.
Essi, tutti cittadini extracomunitari, erano stati arrestati da ormai tre anni in base alle
disposizioni dell’ATCSA 2001 e, da allora, erano ristretti, senza che fossero rese note le
accuse a loro carico e senza alcun processo. I «sospetti terroristi» contestavano, quindi, la
legittimità di tale carcerazione preventiva, in quanto erano trattenuti in virtù delle sole
informazioni in possesso dei servizi di intelligence, in base alle quali erano sospettati di
essere in vario modo legati al terrorismo internazionale.
Subito dopo il loro arresto, i soggetti sospettati di essere terroristi avevano
proposto istanza di revisione alla SIAC, la quale si era pronunciata il 30 giugno 2002. In
tale pronuncia, la Commissione aveva evidenziato come la legge antiterrorismo
prevedesse un’ingiustificata discriminazione degli stranieri, posto che un trattamento
siffatto non era, invece, contemplato dalla legislazione nei confronti dei cittadini. Si era
messo in evidenza, quindi, come ciò costituisse una evidente violazione del divieto di
discriminazione di cui all’art. 14 Cedu. Inoltre, l’art. 1 Cedu prevede che «le Alti Parti
contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà
definiti al Titolo primo della presente Convenzione». In tal modo, sancendo
l’applicabilità della tutela di cui alla Cedu ad ogni individuo presente sul territorio di uno
Stato Parte, a prescindere dalla sua nazionalità. I cittadini britannici, invece,
conservavano immutati i diritti loro garantiti dalla Cedu e, in particolare, quello di cui
all’art. 6 di vedere determinata la fondatezza delle accuse a loro carico in un processo
penale rispettoso delle garanzie di equità (110).
110() F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 642.
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Più nel dettaglio, la SIAC aveva evidenziato come una siffatta detenzione nei
confronti degli stranieri fosse contraria alla Convenzione, posto che il Governo
britannico, nel Public emergency in the United Kingdom Act, non aveva espresso la
volontà di derogare all’art. 14 Cedu.
In otto, dei nove casi, tuttavia, la SIAC ha ritenuto che fossero legittimi i sospetti
di terrorismo nei confronti degli arrestati ed ha, quindi, statuito che gli stessi dovessero
continuare ad essere assoggetti ad un regime di detenzione. Uno di essi, invece, è stato
scarcerato, ma sol perché non era stata ravvisata la presenza di idonei elementi che ne
giustificassero l’internamento. In linea generale, quindi, la SIAC non ha ritenuto
illegittima tale forma di detenzione, indefinita, senza una formale accusa e senza un
processo.
Dopo questo caso, è stato introdotto un emendamento all’ATCSA 2001, in virtù
del quale le pronunce della SIAC avrebbero potuto essere appellate avanti alla High
Court. Nel caso di specie, quest’ultima, interpellata a seguito del ricorso proposto dal
Segretario di Stato, è giunta a conclusioni del tutto opposte rispetto la SIAC ed ha
annullato la decisione di quest’ultima. In particolare, la High Court ha affermato che le
misure di cui alle sections 21 e 23 dell’ATSCSA 2001 erano legittime in quanto dettate
dalla situazione di emergenza in cui versava il Paese. Sarebbe, infatti, legittimo reagire a
minacce eccezionali alla sicurezza dello Stato, con misure altrettanto eccezionali. Dopo
l’11 settembre, la minaccia alla sicurezza della Gran Bretagna sarebbe stata tanto grave
da rendere inevitabile una deroga all’art. 5 Cedu. La legge anti-terrorismo, peraltro,
prevederebbe efficaci procedure per controllare la legittimità delle detenzioni al di fuori
dall’instaurazione di un processo legale, proprio in virtù della possibilità di sottoporre
alla SIAC il provvedimento adottato dal Segretario di Stato che attribuisce all’arrestato la 59
qualifica di «sospetto terrorista». Inoltre, non vi sarebbe alcuna discriminazione tra
cittadini e stranieri, in violazione dell’art. 14 Cedu, posto che, dal punto di vista
giuridico, i primi non potrebbero essere equiparati ai secondi.
Ed infatti, ad avviso della Corte, mentre i cittadini britannici non sarebbero
assoggettabili a misure d’espulsione, in quanto titolari del cd. right to remain (111), ossia
del diritto di rimanere nel proprio Paese, quelli stranieri, invece, nell’ipotesi in cui
possano essere legittimamente espulsi, sono solo titolari del diritto di non vedere eseguita
tale misura (right not to be removed) (112) fintanto che la sua esecuzione costituisca un
serio rischio per la loro stessa incolumità.
L’Attonery General presso l’High Court, nelle sue motivazioni che sono state poi
accolte dalla Corte stessa, aveva messo in evidenza come i prigionieri fossero in realtà
liberi di lasciare la Gran Bretagna in qualsiasi momento, nel caso in cui un Paese
straniero fosse stato disposto ad accoglierli. Ciò, del resto, era già avvenuto in passato,
quando due persone arrestate ai sensi della section 23 dell’ATCSA 2001 avevano lasciato
il Paese per recarsi in Marocco ed in Francia. Tuttavia, l’espulsione di terroristi dal
territorio britannico non è mai apparsa come una soluzione risolutiva, poiché, in tal
modo, il problema del terrorismo internazionale veniva semplicemente spostato
all’estero, da dove i soggetti estradati avrebbero potuto tranquillamente continuare ad
ideare attentati terroristici, anche contro la Gran Bretagna stessa.
La pronuncia della High Court è stata, quindi, immediatamente appellata alla
Camera dei Lords che ha adottato una decisione di segno opposto rispetto a quella fatta
propria dall’organo giurisdizionale di grado inferiore. Le censure sollevate avanti alla
111() Sul punto, v. F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 642.112() Cfr. F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 642.
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House of Lords hanno riguardato soprattutto la violazione degli artt. 14 e 5 della Cedu a
degli artt. 9 e 26 del Patto sui Diritti Civili e Politici del 1966. L’ATCSA 2001, infatti,
come più volte evidenziato, non prevedeva alcun controllo dell’autorità giudiziaria sui
provvedimenti restrittivi della libertà personale i quali, oltretutto, erano applicati nei
confronti dei soli stranieri, in palese violazione anche del divieto di discriminazione. I
giudici sono, quindi, giunti alla conclusione che l’ATCSA 2001 contemplava un
trattamento discriminatorio nei confronti degli stranieri, in tal modo collidendo con
l’apparato di garanzie affermato in materia di libertà personale. La sentenza conteneva,
quindi, un monito al Governo, in virtù del quale quest’ultimo era invitato a sostituire la
normativa in questione con un’altra che non contemplasse alcuna deroga alla Cedu, né
alcuna discriminazione in ragione della nazionalità.
D’altra parte, una tale discriminazione era stata possibile per effetto dell’ATCSA
2001, poiché cittadini e stranieri possedevano in Gran Bretagna diversi diritti in base alla
legislazione sull’immigrazione. Tuttavia, l’ATSCA 2001 collideva anche con tale
normativa poiché andava a preveder un trattamento differenziato tra cittadini e stranieri in
tema di diritto di libertà personale che, invece, attiene all’individuo in quanto tale e non
deve perciò essere trattato in maniera diversa a seconda della nazionalità del soggetto.
L’aspetto che, però, è stato più attentamente criticato da parte della Camera dei
Lords è quello afferente il carattere indefinito della detenzione del sospetto terrorista. In
passato, infatti, l’Immigration Act del 1971 prevedeva che il Segretario di Stato potesse
trattenere in reclusione un cittadino non britannico, ma solo per il tempo strettamente
necessario all’attuazione di un ordine di estradizione nei suoi confronti. La
giurisprudenza formatasi sul punto aveva poi affermato che un tale tipo di detenzione
sarebbe stata legittima solo se temporalmente limitata e strettamente necessaria 61
all’espletamento delle operazioni di espatrio. Tale normativa, a differenza di quella di cui
all’ATSCA 2001, era perfettamente compatibile con la Cedu (113). L’Immigration Act,
inoltre, prevedeva che tale tipo di detenzione avesse comunque durata limitata, nel senso
che dovesse durare solo per il periodo strettamente necessario a portare a termine il
processo di espulsione. In caso contrario, infatti, sarebbero stati violati i diritti dei
detenuti.
I detenuti appellanti, avanti alla House of Lords, avevano posto l’accento su tre
elementi che, a loro dire, avrebbero testimoniato l’assenza di una minaccia effettiva nei
confronti della Gran Bretagna. In primo luogo, il Governo britannico non avrebbe fornito
la prova di una minaccia effettiva nei confronti del Paese. In secondo luogo, l’emergenza,
per essere davvero tale, avrebbe dovuto essere limitata nel tempo e, nel caso in questione,
invece, non era stato indicato alcun elemento di temporaneità. Infine, l’assenza di un
pericolo pubblico attuale sarebbe stato evidenziato dal fatto che nessun altro dei Paesi
europei aveva ritenuto necessario derogare alla Cedu.
È stato, quindi, evidenziato come la minaccia terroristica non potesse essere
considerata seria e pericolosa per le istituzioni britanniche (114) e come, in passato, tutte le
volte in cui uno Stato aveva derogato alla Cedu, i singoli Governi avessero sempre
dimostrato l’esistenza di una situazione di emergenza, legittimante la deroga all’art. 5, in
quanto costituente una vera e propria minaccia per la vita della Nazione. Al contrario, il
Governo di Londra non aveva fornito prove sufficienti a sostegno di una deroga in tal
senso.
113() L’art. 5, comma 1, Cedu prevede che «ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge». La lett. f) della medesima disposizione prevede poi che tale deroga è consentita «se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione». 114() Così, Law Lord Hoffmann
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In dottrina, è stato evidenziato come questa pronuncia della Camera dei Lords
abbia costituito un freno per provvedimenti come l’ATCSA 2001 che, al fine di tutelare
la sicurezza pubblica, comportavano vistose deroghe alle garanzie costituzionali tali da
determinare una violazione dei diritti fondamentali di libertà (115). Bisogna, quindi,
trovare un giusto punto di equilibrio tra esigenze di pubblica sicurezza e salvaguardia dei
diritti fondamentali e la sentenza dei Law Lords costituisce un passo in tale direzione
(116).
A seguito di questa pronuncia della House of Lords del 16 dicembre 2004, il
Governo del Regno Unito ha emanato il Prevenction of Terrorism Act 2005 (PTA 2005)
(117), con il quale è stata sostituita l’intera Parte IV dell’ATCSA 2001. Tale atto aveva
introdotto i control orders, ossia una nuova categoria di provvedimenti amministrativi, di
natura cautelare, che comprendevano diverse tipologie di misure di sicurezza. Questi
erano emessi dal Segretario di Stato, quando non avrebbero comportato misure restrittive
della libertà personale. Al contrario, erano emessi dall’autorità giudiziaria, su richiesta
del Segretario di Stato, in tutti gli altri casi. Inoltre, i control orders erano soggetti a
controllo di legittimità da parte dell’High Court. Il giudizio si articolava in due diverse
fasi, la prima delle quali doveva essere incardinata entro sette giorni dall’emissione del
provvedimento. La Corte poteva, quindi, annullare l’ordine ovvero imporre
all’Amministrazione delle modifiche. Ad ogni modo, con una decisione presa a giugno
del 2009, l’House of Lords inglese ha, all’unanimità, decretato la fine anche dei control
115() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, cit., p. 125.116() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, cit., p. 125117() Il testo del Prevention of Terrorism Act 2005, approvato dal Parlamento inglese l’11 marzo 2005, è pubblicato in appendice a Gnosis. Rivista italiana di intelligence, 2006.
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orders (118). Infatti, tali provvedimenti amministrativi - che comportavano pesanti
restrizioni della libertà nei confronti di chi fosse sospettato di porre in essere attività
terroristiche – implicavano sostanzialmente che il destinatario del medesimo non potesse
essere processato a causa della segretezza imposta sulle fonti di prova ovvero di sospetto
a uso carico. Per tale ragione, però, i sospetti terroristi non potevano difendersi neppure
dalla procedura di applicazione dei control orders stessi.
Dopo gli attentati di Londra del luglio 2005, la legislazione antiterrorismo
britannica ha subìto un ulteriore inasprimento. Il 21 ottobre è stato, infatti, approvato il
Terrorism Act 2006 (119), entrato in vigore il 30 marzo 2006 (120). Tale provvedimento
normativo ha introdotto nuove figure criminose connesse al fenomeno terroristico. Nella
seconda parte del provvedimento, inoltre, sono state riviste ed inasprite alcune procedure
restrittive della libertà personale. I responsabili della polizia a livello locale possono
privare della libertà personale i sospetti terroristi, a scopo preventivo, per un tempo
superiore alle 48 ore, come invece previsto dalla normativa vigente in tutti gli altri casi.
Inoltre, la versione originaria del Terrorsim Act 2006 prevedeva che le misure detentive
extragiudiziarie da applicarsi nei confronti dei soggetti sospettati di essere terroristi
potessero avere una durata massima di 90 giorni. Tuttavia, tale disposizione ha avuto un
118() In argomento, v. A. SPATARO, Otto anni dopo l’11 settembre. (Il modello anglosassone e quello europeo nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale), cit., p. 161. 119() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 134.120() Per un commento alla politica del Governo britannico a seguito degli attentati del luglio 2005, v. D. COLAROSSI, La difficile convivenza tra regimi emergenziali e diritto di espressione: le ultime misure predisposte dal Governo di Tony Blair contro la minaccia del terrorismo, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2005, p. 121 ss. Altro provvedimento normativo strettamente connesso al tema della sicurezza nazionale ed approvato dal Parlamento inglese dopo gli attentati di Londra, è l’Identity Cards Act 2006. Sul punto, v. S. PENNICINO, Approvato l’Identity Cards Act 2006, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2006, p. 1113.
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considerevole impatto nell’opinione pubblica e nella dottrina (121), cosicché la durata
massima è stata ridimensionata a 28 giorni.
4. La Germania.
A seguito dei fatti dell’11 settembre, il 9 gennaio 2002, in Germania è stata
adottata la legge sulla lotta al terrorismo internazionale
(Terrorismusbekaempfungsgesetz) (122). Tale provvedimento normativo ha introdotto
nuove fattispecie di reato ed una serie di disposizioni volte ad accrescere i poteri di
indagine nei confronti di banche, gestori di telecomunicazioni, società finanziarie e
compagnie aeree. È stato introdotto un penetrante potere di controllo sui cittadini,
essendo stato previsto un sistema di raccolta dei dati personali all’insaputa
dell’interessato, a discapito del segreto di corrispondenza e del segreto bancario. Ai fini
di una più certa identificazione delle persone, è stato previsto che nei documenti di
identità e nei passaporti venissero inseriti i dati biometrici. È stata poi introdotta una
normativa in tema di associazioni per far si che le autorità di sicurezza avessero un più
incisivo controllo nei riguardi dei gruppi religiosi, delle associazioni fondate su base
ideologica, nonché sui gruppi facenti capo al fondamentalismo islamico. Tali
121() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 135. 122() Sul punto, v. G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza fra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, in Rass. parl., 2004, p. 442 ss.; nonché C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 170 ss.
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disposizioni, avrebbero dovuto avere un’efficacia limitata a cinque anni, salva la facoltà
di proroga esercitabile dal legislatore.
Inoltre, sono stat introdotte due importanti modifiche: l’una, al codice penale,
l’altra, al codice di procedura penale. Per quanto riguarda la prima, con legge federale del
22 agosto 2002, è stata introdotta la fattispecie criminosa dell’associazione terroristica
all’estero. Per quel che riguarda la seconda, con la legge federale del 6 agosto 2002, sono
stati introdotti degli adeguamenti procedurali.
Il 26 luglio 2002 è stato, poi, modificato l’art. 96 della Legge fondamentale. In
particolare, al comma 5, è stato previsto che, nell’ambito dei procedimenti penali relativi
alla sicurezza dello Stato di cui all’art. 26 GG, un legge federale avrebbe potuto
demandare alle corti dei Länder l’esercizio della giustizia federale in materia di
genocidio, crimini contro l’umanità di diritto penale internazionale, crimini di guerra,
altri atti suscettibili di turbare la coesistenza pacifica dei popoli e la sicurezza dello Stato.
Quel che più specificamente interessa ai fini di un diritto penale del nemico, in
quanto entra in collisione con i diritti fondamentali dell’individuo, è la cd. Legge sulla
Sicurezza Aerea (Luftsicherheitsgesetz) dell’11 gennaio 2005 (123). Tale legge, da subito
al centro del dibattito istituzionale, è stata infine dichiarata incostituzionale dal Tribunale
costituzionale federale tedesco (Bundesverfassungsgericht) con la sentenza 1 BvR 357/05
del 15 febbraio 2006, con cui la Consulta tedesca ha riaffermato la primazia della dignità
umana. La Luftsicherheitsgesetz, in particolare, era stata emanata al fine di adeguare
l’ordinamento giuridico tedesco alla nuova disciplina comunitaria in materia di sicurezza
dell’aviazione civile (124). Più esattamente, si fa riferimento al regolamento (CE) n.
123() A. DE PETRIS, Dignità umana e federalismo nella tutela delle sicurezza collettiva in Germania, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2006, p. 729. 124() Appare opportuno sottolineare come anche in Italia sia stato adottato un provvedimento dall’analogo tenore. Tuttavia, nel nostro Paese, anziché utilizzare lo strumento del provvedimento legislativo, come in
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849/2004 del 29.4.2004, che aveva a sua volta modificato il regolamento (CE) n.
2320/2002 del 16.12.2002, istitutivo di norme comuni per la sicurezza dell’aviazione
civile.
Tale testo normativo era destinato a disciplinare l’ipotesi in cui, come avvenuto
negli Stati Uniti l’11 settembre, un gruppo di terroristi avesse dirottato un aeromobile
civile all’interno dello spazio aereo tedesco, per usarlo come arma impropria verso
obiettivi civili o militari. Il par. 1 di tale articolato prendeva, quindi, in considerazione
l’ipotesi di dirottamenti, sabotaggi ed attacchi terroristici.
La parte della Legge sulla Sicurezza Aerea che ha avuto rilevanza ai fini del
ricorso di costituzionalità è il Titolo III (parr. 13-15). Ad ogni modo, in via preliminare,
pare opportuno precisare che il par. 16 II di tale legge prevedeva che i Länder avessero
competenza generale a gestire le questioni inerenti la sicurezza aerea, per conto della
Federazione. Il par. 5, invece, prevedeva che la protezione contro gli attacchi alla
sicurezza aerea spettasse alla polizia federale, fin quando ricorressero le condizioni di cui
al par. 16 III 2 e 3 della stessa legge, in virtù del quale le funzioni delle autorità di
sicurezza aerea avrebbero potuto essere svolte da enti federali nominati dal Ministro degli
Germania, è stato tale normativa è stata introdotta con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 2 aprile 2004, segretato per ragioni di sicurezza. All’esito di un’interrogazione parlamentare, è emerso che tale disciplina sarebbe stata adottata nel nostro Paese al fine di dare attuazione al cd. «renegade Concept», ossia un documento elaborato dalla Nato nella direttiva MCM-062-02. Secondo la normativa italiana, sarebbero di competenza dell’esecutivo l’individuazione dei criteri e delle procedure la cui osservanza legittimerebbe l’abbattimento dell’aereo civile. La decisione finale sull’abbattimento spetterebbe, invece, ad una «Autorità nazionale governativa», individuata dal medesimo decreto e la cui composizione non è chiara. In dottrina (D. SICILIANO, L’abbattimento di aerei civili per contrastare atti terroristici e il diritto. (La situazione italiana e quella della Repubblica federale tedesca) , in Quest. Giust., 2008, p. 175) è stato messo in evidenza come la disciplina italiana sia stata inserita all’interno del nostro ordinamento con una fonte sub-legislativa segretata, in tal modo sottraendola al controllo democratico del parlamento e dell’opinione pubblica. In tal modo differenziandosi nettamente da quanto avvenuto in Germania, ove la Legge sulla Sicurezza Aerea è stata poi oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale tedesca. Ciò, ovviamente, non sarebbe possibile nel nostro Paese.
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Interni, ogni volta che ciò si fosse reso necessario per assicurare l’unitarietà dell’esercizio
delle misure di sicurezza.
Più nello specifico, il par. 13 I prevedeva che, quando a seguito di eventi
straordinari connessi al traffico aereo si potesse lecitamente sospettare di rischiare una
«catastrofe emergenziale di portata regionale» (regionaler Katastrophennotstand) ex art.
35 II 2 LF, allora le forze di sicurezza federali avrebbero potuto essere impiegate per
coadiuvare le forze di polizia dei Länder, al fine di impedire la verificazione di tale
incidente. In tale circostanza, il Ministro della difesa federale (o, in sua vece, il membro
del Governo federale, incaricato di sostituirlo) avrebbe dovuto decidere circa l’impego
delle forze di sicurezza federali, a seguito di esplicita richiesta in tal senso da parte del
Länd interessato. Al contrario, tutte le volte in cui la «catastrofe emergenziale» avesse
avuto portata «sovra-regionale» (überregionaler Katastrophennotstand) ai sensi dell’art.
35 III LF, avrebbe dovuto essere il Governo federale a decidere circa l’intervento delle
strutture di sicurezza del Bund, di concerto con i Länder interessati. Tuttavia, se i tempi
fossero stati troppo stretti perché la decisione venisse presa dall’esecutivo nel suo
complesso, allora essa sarebbe spettata, anche in tal caso, al Ministro della difesa, o al
suo collega di gabinetto incaricato di sostituirlo, in collaborazione con il Ministero degli
Interni (art. 13 III 2 LuftSiG).
Tuttavia, la norma tacciata di illegittimità costituzionale è stata quella di cui al par.
14 delle legge, il quale autorizzava l’aviazione militare ad abbattere un aereo civile,
dirottato dai terroristi, e destinato ad essere usato come arma impropria verso specifici
obiettivi. In tal modo, veniva in sostanza attribuito alle autorità statali competenti il
potere di ordinare l’uccisione di passeggeri e membri dell’equipaggio innocenti. È bene
precisare che l’abbattimento dell’aereo civile dirottato era previsto solo come extrema 68
ratio. Infatti, innanzitutto, l’intervento dell’aviazione militare era consentito solo ove
l’aereo dirottato fosse stato individuato all’interno dello spazio aereo tedesco e la
medesima avesse già tentato di mettere in guardia l’apparecchio ovvero di porlo sotto
controllo (par. 15 I). In subordine, l’aviazione militare avrebbe dovuto provare ad
allontanare il velivolo dallo spazio aereo interno ovvero costringerlo all’atterraggio
ovvero ancora minacciare l’uso di armi o sparare colpi di avvertimento (par. 14 I). Il
tutto, nel rispetto del principio di proporzionalità (par. 14 II). Solo nel caso in cui tali
misure si fossero rivelate inidonee a prevenire una della catastrofi di cui sopra, allora
sarebbe stato possibile adoperare armamenti militari contro l’aeromobile (par. 14 III), ma
solo nel caso in cui, dalle circostanze del caso concreto, fosse possibile desumere che
l’aereo sarebbe stato in concreto utilizzato per attentare alla vita umana e che il diretto
impiego di tali armamenti sarebbe stato, inoltre, l’unico modo per l’eliminazione concreta
di tale minaccia. La competenza a decidere in un senso piuttosto che nell’altro, inoltre,
spettava in via esclusiva al Ministro della difesa ovvero, in caso di impossibilità di
quest’ultimo, al collega di gabinetto che ne faceva le veci (par. 14 IV 1 LuftSiG).
Il par. 14 III LuftSiG è stato, quindi, impugnato avanti alla Consulta tedesca,
poiché, nella misura in cui consentiva allo Stato di uccidere individui innocenti presenti
sull’aereo (passeggeri ed equipaggio), avrebbe violato il diritto alla dignità umana ed il
diritto alla vita di cui agli artt. 1 I e 2 II 1 LF, in combinato disposto con l’art. 19 II della
medesima Legge fondamentale tedesca, il quale tutela il contenuto sostanziale di un
diritto fondamentale. La norma in oggetto, infatti, avrebbe violato il diritto fondamentale
alla vita ed alla dignità dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio innocenti, coinvolti,
loro malgrado, nel dirottamento. Nel ricorso, infatti, è stato messo in evidenza come i
pubblici poteri non sono affatto legittimati ad effettuare una ponderazione di vite umane 69
contro vite umane, cosa che sarebbe accaduta nella misura in cui lo Stato avesse deciso di
proteggere una maggioranza dei propri cittadini, ossia le potenziali vittime dell’attentato
terroristico, a discapito di una minoranza di essi, ossia i passeggeri e l’equipaggio
presenti sull’aereo. Lo Stato, infatti, non avrebbe il potere uccidere degli individui, solo
perché di numero inferiore rispetto a quelli che sperava di salvare con il suo intervento.
Il Bundesverfassungsgericht ha, quindi, dichiarato l’illegittimità della Legge sulla
Sicurezza Aerea, sotto un duplice punto di vista. Il primo è connesso alla struttura
federale della Germania ed alla ripartizione della competenza legislativa tra Bund e
Länder in materia, rispettivamente, di difesa, l’una, e di sicurezza, l’altra, così come
previsto dalla disciplina costituzionale tedesca (in particolare, si fa riferimento all’art. 35
II 2 III 1 LF). Infatti, l’attività dei militari e delle forze armate, afferente alla difesa dello
Stato da attacchi militari, è di competenza del Bund, ossia della Federazione; al contrario,
l’attività di sicurezza e di prevenzione dei pericoli è di competenza delle forze di polizia,
che sono, invece, organizzate sul piano regionale dai singoli Länder. Secondo la Consulta
tedesca, quindi, l’attività di prevenzione dagli attacchi terroristici, in quanto trattasi di
pericolo non derivante da attacco militare, è di competenza delle forze di polizia dei
singoli Länder, posto che attiene al piano della sicurezza e non a quello della difesa. Ne
consegue che i militari del Bund possono intervenire solo in funzione sussidiaria rispetto
alla polizia dei Länder e non, quindi, con armi specificamente militari, come sarebbe in
caso di aereo da guerra armato di missili, da utilizzare contro l’aereo civile dirottato dai
terroristi, a norma del par. 14 III (125).
Alla federazione, quindi, mancherebbe la necessaria competenza legislativa per
emanare la norma in oggetto. 125() D. SICILIANO, L’abbattimento di aerei civili per contrastare atti terroristici e il diritto. (La situazione italiana e quella della Repubblica federale tedesca), cit., p. 173.
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Inoltre, il par. 14 III LuftSiG collide con la legge fondamentale tedesca. In
particolare, l’art. 35 III 1 LF prevede che, in caso di emergenza di portata extra-regionale,
solo il Governo federale possa decidere in merito all’impiego delle forze armate. Al
contrario, la Legge sulla Sicurezza Aerea prevede che sia il Ministro della Difesa, di
concerto con il Ministro degli Interni, a deliberare in materia, qualora non sia possibile
ottenere un provvedimento tempestivo da parte dell’esecutivo nel suo complesso (126).
Ai nostri fini, l’aspetto più interessante della decisione è sicuramente quello
afferente alla tutela della vita e della dignità umana. La Corte costituzionale tedesca,
infatti, ha statuito che il par. 14 III LuftSiG contrasta con il diritto alla vita di cui all’art. 2
II LF e con il diritto alla dignità umana di cui all’art. 1 I LF, nella misura in cui l’utilizzo
di armi da guerra contro l’aereo dirottato dai terroristi metterebbe a repentaglio la vita di
passeggeri e membri dell’equipaggio innocenti, presenti sullo stesso. Nella sentenza in
questione si mette, quindi, in evidenza come, diversamente opinando, tali civili innocenti
verrebbero considerati alla stregua di oggetti – e non più soggetti – non solo nei confronti
dei terroristi, autori dell’aggressione, ma anche nei confronti degli organi statali, sia pur
nell’ambito di un intervento a tutela di altri individui. Ciò lederebbe gli individui
sequestrati, in quanto soggetti dotati di dignità e diritti inalienabili. Non è ammissibile
alcun bilanciamento che possa sacrificare la loro vita a favore della vita altrettanto
innocente delle possibili future vittime degli attentati terroristici (127).
La consulta tedesca, invece, giudica la norma costituzionalmente legittima nella
parte in cui prevede l’intervento degli aerei militari per abbattere un velivolo privo di
occupanti ovvero occupato da soli terroristi. [Cfr. Donini p. 770]
126() A. DE PETRIS, Dignità umana e federalismo nella tutela della sicurezza collettiva in Germania , cit., p. 733. 127() D. SICILIANO, L’abbattimento di aerei civili per contrastare atti terroristici e il diritto. (La situazione italiana e quella della Repubblica federale tedesca), cit., p. 176.
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5. La Spagna.
La legislazione spagnola, invece, ha storicamente “metabolizzato” (128) il
fenomeno terroristico al punto da prevedere già nella propria Costituzione, promulgata il
26 dicembre 1978, la possibilità di derogare a taluni diritti fondamentali nei confronti di
soggetti accusati di terrorismo. In altri termini, in Spagna, la Costituzione menziona
espressamente il terrorismo (129). Diversamente da quanto accaduto in altri Paesi, quindi,
né gli attentati terroristici agli Usa dell’11 settembre 2001, prima, e neppure quelli di
Madrid dell’11 marzo 2004, poi, hanno portato all’adozione di una legislazione a
carattere emergenziale (130). Più esattamente, l’attività di contrasto al terrorismo era già
talmente radicata (131) nel substrato socio-politico spagnolo da essere diventata costante
oggetto di attenzione da parte del legislatore fin dagli anni ’70 (132). Dopo la 128() Così, C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 160.129() E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, T. Groppi (a cura di), Democrazia e terrorismo, Napoli, 2006, p. 356. 130() Ibidem.131() Il fenomeno terroristico era talmente diffuso in Spagna, che già da tempo si prospettava anche l’eventualità di una responsabilità patrimoniale dello Stato per gli attentati terroristici. In materia, v. V.G. MAYOL, La responsabilità patrimoniale dello Stato per atti terroristici, in T. Groppi (a cura di), Democrazia e terrorismo, Napoli, 2006, p. 307 ss. 132() Tra i diversi provvedimenti legislativi che si sono succeduti in Spagna nel corso degli anni, appare opportuno segnalare due decreti legge, l’uno, approvato nel 1975, l’altro, nel 1977, i quali si connotano per presentare tratti di un vero e proprio diritto penale del nemico. In tal modo, si vuole evidenziare come, ogniqualvolta si presenti una situazione di emergenza che metta a repentaglio la sicurezza dello Stato di diritto, quest’ultimo, anche prima degli attentati terroristici agli USA del settembre 2001, ha reagito con misure che comprimono talune libertà fondamentali dell’individuo. In particolare, nell’agosto del 1975, in Spagna è stato emanato il decreto legge anti-terrorismo che autorizzava la polizia a trattenere in stato di fermo i sospetti terroristi, fino ad un massimo di dieci giorni e senza l’assistenza di un difensore. Tale corpo normativo, inoltre, configurava la possibilità di effettuare perquisizioni domiciliari, senza un preventivo mandato dell’autorità giudiziaria. Il 4 gennaio del 1977 è stato, poi, approvato un altro decreto legge con il quale è stata confermata, in riferimento ai reati di banda armata e di terrorismo, la possibilità di isolare l’indiziato durante la detenzione preventiva; la proroga dello stato di fermo oltre le 48 ore; l’istituzione di una giurisdizione speciale. Per un attento esame della legislazione anti-terrorismo spagnola antecedente all’11 settembre 2001, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 164 ss.
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recrudescenza del fenomeno del terrorismo, questa volta di respiro internazionale, sono
state certo adottate nuove disposizioni, le quali, tuttavia, non presentano carattere
eccezionale, essendo piuttosto attuazione degli obblighi imposti dalle Nazioni Unite e
dall’Unione europea (133).
Tuttavia, nonostante la Spagna non sia stata interessata da quel fervore legislativo
che si è avuto negli altri Paesi europei a seguito dell’attacco di Al-Queda al mondo
occidentale, ciò non ha impedito, anche in questo Paese, lo svilupparsi, in via autonoma,
del dibattito dottrinario (134) sulla necessaria primazia della libertà ovvero della sicurezza,
all’interno di un moderno Stato di diritto, in situazioni d’emergenza.
Più in particolare, la Costituzione spagnola (135) promulgata il 26 dicembre 1978
(136), - in un’epoca, quindi, in cui imperversava il terrorismo basco - demanda ad una
legge organica (137) il compito di individuare casi e forme in cui, con garanzie
giurisdizionali e parlamentari, taluni diritti da essa contemplati possano essere sospesi «a
carico di persone determinate, in relazione a indagini relative a bande armate o elementi
terroristi» (art. 55, comma 2). Tale norma, nata da un’esigenza di difesa dal terrorismo
interno, ben può attagliarsi a quello di matrice islamica, avente carattere internazionale.
Così come previsto dall’art. 116 della Costituzione spagnola, presupposto affinché
taluni diritti fondamentali degli individui vengano sospesi è la sussistenza di uno stato di
allarme (estado de alarma), di eccezione (estado de exceptión) ovvero di assedio (estado 133() Ibidem. 134() Sul punto, v. E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 335 ss. 135() In argomento, v. G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza tra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, cit., p. 440. 136() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 164. 137() La dottrina distingue in tre diverse fasi la legislazione di attuazione della clausola d’emergenza contemplata dalla costituzione spagnola. Sul punto, v. E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 350. In particolare, l’A. individua una prima fase, che va fino alle leggi del 1988; una seconda, che si estende fino agli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004; una terza ed ultima che arriva fino ad oggi.
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de sitio). In caso di estado de exceptión e di estado de sitio, possono essere sospesi taluni
diritti specificamente indicati al momento dell’adozione della relativa delibera di
instaurazione. Tale sospensione di diritti si applica a ben specifiche aree territoriali ed
interessa quindi una generalità di cittadini (art 55, comma 1). Tuttavia, l’art. 55, comma
2, della Costituzione prevede che una legge organica possa determinare i casi di
sospensione individualizzata dei diritti contemplati agli artt. 17, comma 2 (durata della
detenzione preventiva) (138), 18, commi 2 e 3 (inviolabilità del domicilio e della
corrispondenza), in relazione a indagini per i reati di terrorismo e banda armata. È bene
segnalare che l’art. 55, comma 2 ha trovato in concreto applicazione nella prassi
applicativa (139).
L’art. 55 della Costituzione spagnola configura, quindi, il cd. diritto d’eccezione
che, in un moderno Stato di diritto, deve essere anch’esso “normativizzato” (140). In altri
termini, nei Paesi democratici, anche l’eccezione deve essere sottoposta a corrispondente
normazione.
Così, con la legge organica n. 11 del 1980 (141) sono state, innanzitutto, individuate
quelle garanzie che avrebbero potuto essere oggetto di sospensione, nei termini indicati 138() In particolare, l’art. 17 della Costituzione spagnola prevede che: «Ogni persona ha diritto alla libertà ed alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo quanto disposto da questo articolo e nei casi e nelle forme previste dalla legge. – La detenzione preventiva non potrà durare più del tempo strettamente necessario per gli accertamenti intesi a chiarire i fatti e, in ogni caso, entro il termine massimo di 72 ore la persona arrestata dovrà essere messa in libertà o a disposizione dell’autorità giudiziaria. – Ogni persona detenuta deve essere informata immediatamente e in modo comprensibile dei suoi diritti e dei motivi della detenzione, e non può essere costretta a fare dichiarazioni. Nel corso delle indagini di polizia e giudiziarie al detenuto viene garantita l’assistenza di un avvocato, nei termini di legge. – La legge disporrà una procedura di Habeas Corpus affinché qualunque persona detenuta illegalmente sia messa immediatamente a disposizione dell’autorità giudiziaria. La legge stabilirà, inoltre, la durata massima della carcerazione provvisoria». Sul punto, cfr. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit. p. 164.139() In argomento, G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza tra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, cit., p. 443. 140() Così, E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 349. 141() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 165.
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dalla norma costituzionale. Si fa, in particolare, riferimento, al diritto di essere rimesso in
libertà o posto a disposizione dell’autorità giudiziaria entro le 72 ore dal fermo; al diritto
all’inviolabilità del domicilio in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria; al
diritto all’inviolabilità ed al segreto delle comunicazioni postali, telegrafiche e
telefoniche (142). Questa legge è stata poi modificata dalla legge organica n. 9 del 26
dicembre 1984, dichiarata però parzialmente incostituzionale con la sentenza n. 199 del
1987 (143). La legge del 1984, infatti, ampliava sensibilmente, sia dal punto di vista
oggettivo che soggettivo, i diritti e le libertà possibile oggetto di sospensione, anche al di
là dei limiti di cui all’art. 55, comma 2. Tale legge, infatti, andava ad incidere anche su
altri diritti fondamentali, contemplando l’ampliamento del periodo di fermo fino a 10
giorni, l’impossibilità per il detenuto di comunicare, la chiusura dei mass media, la
sospensione di cariche pubbliche, la dichiarazione di illiceità e lo scioglimento di
associazioni (144). La dichiarazione di incostituzionalità da parte della Consulta spagnola
era, quindi, inevitabile.
La legge organica n. 2 del 1981 ha poi introdotto nel codice penale spagnolo l’art.
174-bis che incriminava l’appartenenza a bande armate o gruppi terroristici (145). La legge
organica n. 6 del 1985 ne aveva, quindi, esteso l’applicabilità, a talune condizioni (146), ai
fatti di terrorismo commessi al di fuori del territorio nazionale.
Con l’ingresso della Spagna nella allora Comunità Economica Europea nel 1986,
il Governo spagnolo ha ritenuto opportuno adeguare ai parametri europei l’eccessiva
142() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 165. 143() Cfr., E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 351.144() E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 351. 145() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 166.146() In argomento, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 166.
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rigidità delle legislazione antiterrorismo nazionale. Il periodo di fermo in deroga all’art.
17, comma 2, della Costituzione è stato così limitato ad un massimo di cinque giorni ed è
stato, altresì, previsto che l’isolamento di un detenuto disposto dalla polizia avrebbe
dovuto essere ratificato dal giudice istruttore centrale entro 24 ore (147).
Nel 1995 è stato poi promulgato il codice penale attualmente vigente che
disciplina in maniera analitica i reati di banda armata e di terrorismo agli artt. 571-579.
Tuttavia, non è stata riproposta la disposizione del codice previgente che puniva fatti di
terrorismo anche se commessi all’estero.
Inoltre, anche la legge sui diritti degli stranieri (legge organica n. 8 del 2000) e la
legge sui partiti politici (legge organica n. 6 del 2002) contemplano norme antiterrorismo
che consentono la limitazione di taluni diritti (148).
Così delineato il quadro normativo vigente al momento degli attentati terroristici
negli Stati Uniti l’11 settembre 2001, è facile comprendere per quali motivi il legislatore
spagnolo non sia immediatamente intervenuto, introducendo nuove norme all’interno del
proprio ordinamento, così come hanno fatto i legislatori degli altri Paesi europei.
L’ordinamento giuridico spagnolo, infatti, già contemplava un’esaustiva disciplina in
materia. Gli interventi normativi successivi al divampare del fenomeno del terrorismo
internazionale si segnalano per essere, per lo più, attuazione degli obblighi assunti a
livello internazionale e comunitario.
A tal proposito, va menzionata la legge n. 12 del 2003 che ha introdotto una serie
di norme per il contrasto del finanziamento al terrorismo. Dopo l’attentato di Madrid
dell’11 marzo del 2004, invece, sono state introdotte nuove disposizioni al solo scopo di
147() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 167. 148() G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza tra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, cit., p. 444.
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rafforzare l’organico dei servizi informativi della Guardia Civil e del corpo di polizia
nazionale, il coordinamento delle indagini, mediante l’istituzione di un Centro Nacional
de Coordination Antiterrorista, nonché misure di solidarietà nei confronti delle vittime
(149).
In conclusione, in Spagna, in una prima fase storica, si è optato per una
legislazione avente carattere eccezionale, in cui taluni diritti fondamentali venivano
sacrificati a vantaggio della sicurezza. Tale legislazione è stata poi dichiarata
costituzionalmente illegittima dal Tribunale Costituzionale. Una volta respinta l’ipotesi di
una legislazione avente carattere eccezionale, si è poi tornati a preferire una legislazione
di lotta al terrorismo avente carattere ordinario. Ad esclusione, tuttavia, di alcune
disposizioni normative che continuano ancora a presentare i caratteri di un diritto
d’eccezione. Si fa, in particolare, riferimento, alla legge sui partiti politici, per la quale il
sostegno al terrorismo diventa l’unica causa per porre fuori legge un partito, nonché ad
alcune norme che contemplano fattispecie penali aperte, l’espiazione completa della pena
ed un inasprimento eccessivo della stessa. Di tale disposizioni, la dottrina spagnola ha
auspicato da tempo una sollecita modifica (150).
6. La Francia.
149() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 169. 150() E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 358.
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In Francia, a partire dalla legge 3 aprile 1955, è possibile la sospensione dei diritti
nel caso in cui il presidente attivi i poteri diretti a proteggere le istituzioni (art. 16) ed in
caso di instaurazione dello stato d’assedio (art. 36) e di urgenza (151).
A seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre, è stata adottata la legge
2001-1062 del 15 novembre, sulla cd. sicurezza quotidiana (152), che ha modificato il
codice penale e quello di procedura penale, ampliando la tutela offerta dagli artt. 421-1
(153) e 421-2 (154) contro gli atti di terrorismo (155). In particolare, è stato esteso lo spettro
di quei comportamenti che possono essere considerati terroristici. In tale ottica, è stata
attribuita rilevanza penale anche alle condotte di finanziamento (si fa, in particolare,
riferimento al riciclaggio di denaro e all’insider trading). Questa legge sarebbe dovuta
rimanere in vigore fino al 31 dicembre 2003. Tuttavia, è stata prorogata sino al 31
dicembre 2005, con la legge 2003-239 del 18 marzo.
151() G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza tra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, cit., p. 444. 152() E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 346. 153() Secondo il novellato art. 421-1 del codice penale francese, costituiscono «reato di terrorismo» i seguenti reati, posti in essere, mediante l’intimidazione o il panico, allo scopo di turbare gravemente l’ordine pubblico: 1. gli attacchi volontari alla vita e all’integrità della persona, il sequestro di persona ed il sequestro di un aereo, di una imbarcazione o di ogni altro mezzo di trasporto; 2. i furti, le estorsioni, le distruzioni, il danneggiamento, nonché i reati informatici previsti dal Libro III del codice penale; 3. i crimini relativi ai gruppi eversivi e ai movimenti non organizzati definiti dagli articoli da 431-12 a 431-17, 434-6, e da 441-2 a 441-5 del codice penale; 4. La fabbricazione, il possesso e la detenzione di meccanismi, dispositivi micidiali definiti all’art. 2 della legge 19 giugno 1871 che ha derogato al decreto del 4 settembre 1870 sulla fabbricazione delle armi da guerra […]; 5. la dissimulazione del risultato di una delle infrazioni previste ai n. 1 e 4 di cui sopra; 6. i crimini in materia di riciclaggio previsti dai capitoli IV del titolo II del libro III del codice penale; 7. i delitti previsti dall’art. L 465 del codice monetario francese. Sul punto, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 163. 154() L’art. 421-2 prevede che costituisce reato di terrorismo anche la condotta di chi introduca nell’atmosfera, nel suolo, nel sottosuolo, negli alimenti o nei composti alimentari, nelle acque, comprese quelle del mare territoriale, sostanze che possono mettere in pericolo la salute di uomini o animali o dell’ambiente naturale, posto in essere con un’azione individuale o collettiva, al fine di turbare gravemente l’ordine pubblico con intimidazione o con il terrore. Infine, l’art. 421-2-2 incrimina il reato di finanziamento di associazioni terroristiche. Così, C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 163.155() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 162.
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Successivamente agli attentati di Londra, invece, è stata approvata una nuova
legge contro il terrorismo, il cd. progetto di legge Sarkozy. Essa ha incrementato i
controlli su ogni tipo di comunicazione e sino ad un anno dopo la comunicazione stessa.
Inoltre, ha ampliato i poteri che gli organi di polizia possono esercitare in mancanza del
controllo da parte dell’autorità giudiziaria; sono state inasprite le pene contro i capi ed i
componenti di gruppi terroristici; è stato prolungato il periodo di fermo da quattro a sei
giorni, consentendo anche di differire l’assistenza di un legale (156); è stata consentita
l’espulsione di soggetti non desiderati; è stata autorizzata l’installazione di telecamere in
luoghi pubblici e senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
Infine, la legge costituzionale 2003-267 del 25 marzo ha modificato l’art. 88,
comma 2, della Costituzione, in tema di mandato di arresto europeo (157).
7. Il Belgio.
La Carta costituzionale belga, al contrario di molte costituzioni dei moderni Stati
di diritto, vieta espressamente una sua sospensione totale o parziale (art. 187).
A seguito dell’11 settembre 2001 e, al fine di contrastare il fenomeno del
terrorismo internazionale, con la legge del 19 dicembre 2003, il legislatore belga ha
modificato l‘art. 137 del codice penale, facendo propria le definizione di reato terroristico
di cui alla Decisione quadro 2002/475/GAI dell’Unione europea.
156() G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza tra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, cit., p. 445. In particolare, è stato introdotto l’istituto del gerde à vue che consente alla polizia di detenere e interrogare i fermati per terrorismo per 4 giorni, in assenza di intervento di magistrati e avvocati, ciononostante ottenendo prove valide nei processi. Sul punto, v. A. SPATARO, Otto anni dopo l’11 settembre. (Il modello anglosassone e quello europeo nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale), cit., p. 159. 157() E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 347.
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Terroristiche sono, dunque, una serie di condotte che per la loro natura e contesto,
sono in grado di arrecare danno ad un Paese ovvero ad una organizzazione internazionale
e sono, altresì, poste in essere con lo scopo di intimidire gravemente una popolazione
ovvero costringere indebitamente un Governo, i pubblici poteri o un’organizzazione
internazionale a tenere o ad astenersi dal tenere una determinata condotta, destabilizzare
gravemente o distruggere le strutture fondamentali politiche, costituzionali, economiche o
sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale.
I paragrafi 2 e 3 della medesima norma prendono poi in considerazione una serie
di reati che, se posti in essere nelle condizioni e nei termini di cui al comma 1,
costituiscono reato terroristico (158).
8. La legislazione anti-terrorismo negli USA.
In dottrina (159), è stato messo in evidenza come la legislazione anti-terrorismo
statunitense possa essere divisa in quattro diverse fasi, caratterizzate, da un lato,
dall’adozione di provvedimenti legislativi e di Orders - ossia una sorta di decreti
158() In particolare, secondo i paragrafi 2 e 3 dell’art. 137 del codice penale belga, costituiscono atto terroristico, se commessi con le finalità di cui al paragrafo 1 della medesima norma, i seguenti reati: l’omicidio volontario e le lesioni personali volontarie; il sequestro; la rapina; la distruzione di cose o il danneggiamento di proporzioni considerevoli; la cattura di un aeromobile; la cattura di una nave con inganno, violenza o minaccia; la fabbricazione e l’uso di sostanze esplosive; l’uso di armi; la provocazione di un’inondazione di una infrastruttura, di un sistema di trasporto, di una proprietà pubblica o privata, con l’effetto di mettere in pericolo vite umane o produrre perdite economiche considerevoli; la fabbricazione, il possesso, l’acquisizione, il trasporto o la fornitura di sostanze chimiche o nucleari; l’uso di armi nucleari, biologiche o chimiche; la liberazione di sostanze pericolose con l’effetto di mettere a repentaglio vite umane; la turbativa o l’interruzione dell’approvvigionamento di acqua, elettricità e tutte le altre risorse fondamentali; nonché la minaccia di compiere uno degli atti sopra elencati. In tal senso, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 161.159() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 68.
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d’urgenza, emanati dal Presidente, anche nella sua veste di capo delle forze armate (160) –
che si inseriscono nel solco del diritto penale del nemico; dall’altro, da una seria di
pronunce giurisprudenziali che, invece, hanno segnato un passo in avanti nell’ottica della
tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. La prima delle citate fasi ha carattere
prodromico e si estende dagli attentati di Al Qaeda dell’11 settembre fino all’inizio della
risposta bellica degli Stati Uniti d’America contro l’Afghanistan (161); la seconda (162),
invece, coincide con la creazione, per la lotta al terrorismo internazionale, di un sistema
penale speciale per effetto dell’approvazione, il 26 ottobre 2001, del cd. USA Patriot Act
e della successiva Ordinanza militare, istitutiva di Commissioni militari ad hoc; la terza
fase (163) prende le mosse con una serie di importanti pronunce da parte della Corte
Suprema degli Stati Uniti d’America; la quarta (164), infine, è la fase del Military
Commission Act che, allineandosi da un punto di vista meramente formale alle pronunce
di cui si è detto, ha invece consacrato, questa volta in via legislativa, la figura del
combattente straniero nemico illegittimo (165).
In particolare, tra i molti diritti fondamentali del moderno Stato di diritto che
risultano calpestati dalla nuova legislazione anti-terrorismo statunitense spicca il
principio costituzionale del due process of law, che tutela i cittadini e stranieri
160() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’USA Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, in Quest. giust., 2006, p. 283. 161() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 68.162() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 76. 163() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 88.164() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 93. 165() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 93.
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dall’arbitraria privazione della libertà personale, della vita e della proprietà da parte dei
pubblici poteri, assicurando a tutti il diritto ad un “giusto processo” (166).
9. La prima fase. La dichiarazione dello stato di emergenza e l’Autorizzazione all’uso
della forza: le basi per la successiva creazione di un vero e proprio diritto penale del
nemico.
Per quel che concerne la prima fase, successivamente agli attacchi alle Twin
Towers di New York ed al Pentagono di Washington D.C., il 14 settembre 2001 sono
stati adottati due provvedimenti di primaria importanza e che hanno avuto carattere
preliminare per l’adozione della successiva legislazione statunitense, volta
all’annientamento del nemico assoluto (167).
Si fa, in particolare, riferimento, in primo luogo, alla dichiarazione, con efficacia
retroattiva, dello stato di emergenza nazionale (168) da parte dell’allora Presidente degli
Stati Uniti (169). In secondo luogo, all’approvazione da parte del Congresso
dell’Autorizzazione all’uso della forza (Athorization for Use of Military Force Act, cd.
AUMF) (170). Tale atto consente al Presidente di «ricorrere a ogni mezzo che sia
necessario e utile al fine di contrastare tutte le Nazioni, organizzazioni o persone che egli
166() Tale principio è contenuto nella Costituzione degli Stati Uniti del 1787. In particolare, il V emendamento prevede che: «Nor shall (any person) be deprived of life, liberty or porperty, without due process of law». Il XIV emendamento, invece, prevede che: «Nor shall any State deprive any person of life, liberty or property, without due process of law; nor deny to any person within its jurisdiction the equal protection of the laws». 167() In tal senso, v. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 67.168() Declaration of National Emergency by Reason of Certain Terrorist Attacks , Proclamation 7453, 14 Settembre 2001. 169() Com’è noto, all’epoca, il Presidente degli USA era George W. Bush. 170() Più esattamente, Public Law 107-40, 17th Congress, Joint Resolution to Authorize the Use of the United States Armed Forces against Those Responsibles for the Recent Attacks Launched against the United States, 14 Settember 2001.
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ritenga aver pianificato, autorizzato o favorito gli attacchi terroristici dell’11 settembre
2001» (171). Il 7 ottobre 2001, poi, è stato sferrato il primo atto bellico della spedizione
militare statunitense, inviata in Afghanistan per la guerra contro il terrore.
Ad ogni modo, già questa prima fase presenta aspetti interessanti sotto il profilo
giuridico per quel che concerne la tutela dei diritti fondamentali, sia dal punto di vista del
diritto interno che dal punto di vista del diritto internazionale.
Sotto il profilo del diritto interno, la Costituzione degli USA, all’art. 1, par. 9,
contempla una cd. clausola d’emergenza, dai contorni, però, assai vaghi e indeterminati
(172). In particolare, tale norma prevede che «il privilegio del mandato di Habeas Corpus
non potrà essere sospeso, se non quando, in casi di rivolta o di invasione, la Sicurezza
pubblica lo richieda» (173). È bene evidenziare fin da subito che, con la proclamazione
dello stato d’emergenza nazionale da parte del Presidente il 14 settembre 2001, non è
stato però sospeso il diritto di presentare un habeas corpus (174). Tale istituto (175) è uno
dei fondamentali baluardi del due process of law (176) e costituisce la più importante
salvaguardia della libertà personale (177). Consacrato nella Magna Charta, è stato recepito
dal diritto statunitense per diretta discendenza del Common Law (178). Esso garantisce a
qualsiasi persona detenuta o, comunque, ristretta nella sua libertà di essere 171() Sul punto, cfr. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 68. 172() Così R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 73. 173() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 73. 174() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, in Dir. pubbl. comp. eur., 2005, cit., p. 1663. 175() Sulla garanzia dell’habeas corpus negli USA, v. A.M. DE CESARIS, voce Habeas Corpus, in Enc. giur., p. 1 ss.; nonché P. BISCARETTI DI RUFFIA, voce Habeas Corpus, in Enc. dir., p. 941 ss. 176() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, in Cass. pen., 2005, p. 2827. 177() A.M DE CESARIS, voce Habeas, cit., p. 3. 178() Cfr. G. BUONOMO, Obiettivo. L’ordinamento giuridico internazionale dopo Guatánamo, in Quest. giust., 2005, p. 341.
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immediatamente portata davanti ad un giudice, affinché sia vagliata la conformità a legge
del suo arresto e, in caso contrario, sia rimessa in libertà (179). È rimedio a sé stante, che
può essere azionato nei confronti di errori o vizi giurisdizionali e costituzionali e senza
limiti di tempo, tanto presso i giudici ordinari che presso quelli speciali (180). Un habeas
corpus petition può, quindi, essere presentata, innanzitutto, da coloro i quali ritengano di
essere stati incarcerati in modo illegale (181). Tale strumento, tuttavia, nella pratica, ha una
portata assai ampia (182), in quanto può essere utilizzato anche per obbligare le autorità di
polizia a formulare una precisa accusa nei confronti di un arrestato ovvero a rilasciarlo;
per ottenere la liberazione di un detenuto in attesa di giudizio; infine, per liberare un
carcerato dopo la scadenza della pena detentiva cui era stato condannato.
Per quel che concerne il piano del diritto internazionale, invece, gli USA hanno
aderito e ratificato al loro interno il Patto sui diritti civili e politici del 1966 ( 183).
Conseguentemente, anche nei loro confronti, trova applicazione l’art. 4 del Patto che
contempla anch’esso una propria disciplina sugli stati d’emergenza, rigorosa e vincolante
sia sul piano sostanziale che procedurale. Ebbene, la proclamazione dello “stato
d’emergenza” da parte del Presidente nel 2001 pone una serie di problemi. In primo
luogo, è possibile dubitare della stessa sussistenza dei presupposti oggettivi per la
dichiarazione dello stato d’emergenza. In altri termini, sembrerebbe difettare un legame
stretto tra pericolo e reazione, la necessità assoluta e la proporzione della reazione (184). In
179() A.M. DE CESARIS, voce Habeas, cit., p. 3. 180() A.M. DE CESARIS, voce Habeas, cit., p. 3. 181() A.M. DE CESARIS, voce Habeas, cit., p. 3. 182() A tal proposito, v. P. BISCARETTI DI RUFFIA, voce Habeas, cit. p. 645. 183() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 73. 184() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 73.
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secondo luogo, il Governo statunitense non ha neppure provveduto ad informare le altre
Parti contraenti del Patto attraverso il Segretario generale delle Nazioni Unite.
10. La seconda fase. L’U.S.A. Patriot Act.
Il 26 ottobre 2001 il Congresso statunitense ha approvato l’USA Patriot Act
(acronimo per Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools
Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act) (185), con lo scopo di prevenire futuri
attentati terroristici (186), ma sostanzialmente ampliando, da un punto di vista più
generale, i poteri dell’Esecutivo.
Tale provvedimento normativo, dal carattere complesso ed articolato, ha apportato
numerose modifiche al sistema penale di molti Stati, sia dal punto di vista sostanziale che
procedurale. Sul piano sostanziale (187), tale atto ha introdotto una definizione di
terrorismo nazionale, nonché una serie di nuove fattispecie speciali di aiuto al terrorismo,
prima inesistenti. Sul piano processuale (188), invece, sono stati ampliati i poteri
185() In particolare, sull’USA Patriot Act, in dottrina, v. D.M. AMANN, Le leggi americane contro il terrorismo, in Crit. dir., 2003 p. 27; C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, in T. Groppi (a cura di), Democrazia e terrorismo, Napoli, 2006, p. 428; R. CRESTANI, Stati di eccezione, misure anti-terrorsimo e tutela dei diritti umani. Il caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna dopo l’11 settembre 2001, cit., p. 75; V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 283; E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 344; L. SALAS, Primi appunti sul “Patriot Act” statunitense, in Legisl. pen., p. 474; J.A.E. VERVALE, La legislazione anti-terrorismo negli Stati Uniti: inter arma silent leges?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 737; nonché ID, La legislazione anti-terrorismo negli Stati Uniti: un diritto penale del nemico?, in C. De Maglia-S. Seminara (a cura di), Terrorismo internazionale e diritto penale, Padova, 2007, p. 237. 186() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 284. 187() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 76. 188() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, p. 77.
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investigativi della polizia e, in una prospettiva più ampia, dell’intero potere esecutivo, a
discapito di quello giurisdizionale.
Più nel dettaglio, l’Usa Patriot Act si compone di due sezioni e 160 articoli. La
section 1, costituita da 159 articoli, si articola in dieci diversi titoli. Il primo titolo (189) è
diretto a potenziare la sicurezza interna in una prospettiva di lotta al terrorismo, anche
con l’incremento dei finanziamenti alle forze di intelligence. Il secondo titolo (190),
invece, è diretto a disciplinare il settore della sorveglianza delle comunicazioni via cavo,
orali ed elettroniche, con notevoli limitazioni al diritto alla privacy (191), una delle sfere
tradizionalmente più garantite all’interno dell’ordinamento statunitense (192). Sono state
dettate nuove regole per lo svolgimento di perquisizioni, sequestri, arresti ed
intercettazioni. In particolare, ad alcuni organi di polizia federali (193) è stato consentito di
non informare l’interessato della perquisizione effettuata, in tal modo precludendogli la
189() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 284. 190() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 285. 191() Ne è conseguita una sostanziale riduzione delle garanzie individuali tradizionalmente riconosciute dalla disciplina processual-penalistica dell’ordinamento giuridico statunitense, con specifico riferimento a quanto stabilito dal IV Emendamento della Costituzione americana, in virtù del quale: «il diritto delle persone a godere della sicurezza per quanto riguarda la loro persona, la loro casa, i loro documenti e le loro cose, contro perquisizioni e sequestri irragionevoli, non potrà essere violato; e nessun mandato giudiziario potrà essere emesso, se non in base a probable cause, sostenuta da una dichiarazione giurata o sull’onore, contenente la descrizione specifica dei luoghi da perquisire, delle persone da arrestare o degli oggetti da sequestrare». Cfr. M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2821. In particolare, l’A. evidenzia come l’ordinamento giuridico statunitense, quando si debba procedere ad un atto di polizia, rende necessaria: «la richiesta di un mandato ad un giudice “neutral and detached”, sulla base della sussistenza della probable cause, ovvero la probabilità che il destinatario abbia commesso uno specifico reato; la notificazione all’interessato del mandato ottenuto, prima dell’esecuzione dello stesso, in modo da consentire una difesa; l’inutilizzabilità processuale, invocando l’exclusionary rule, degli elementi di prova raccolti illegittimamente». L’A. passa, quindi, in rassegna tutti i punti del Patriot Act che si pongono, invece, in controtendenza rispetto a tali norme che si sono affermate, nl moderno Stato di diritto, a seguito di decenni elaborazioni teoriche. 192() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2822. Sulle sorti del diritto alla privacy nell’ordinamento statunitense a seguito degli eventi dell’11 settembre, v. E. PEDILARCO, Privacy e sicurezza dopo l’11 settembre 2001. Il trattamento dei dati dei passeggeri aerei tra Unione europea, Stati Uniti e Canada , in T. Groppi (a cura di), Democrazia e Terrorismo, Napoli, 2006, p. 471.193() Tra cui INS (Immigration & Naturalization Service) e la CIA.
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possibilità di attivare tempestivamente una verifica di legittimità (sec. 213). Inoltre, sono
stati incrementati i modi e gli strumenti di intercettazione (sec 214), degradando a mere
formalità, prive di ogni controllo preventivo, le autorizzazioni da parte dell’autorità
giudiziaria che, nella specie, non sarebbe stata neppure quella ordinaria, bensì la Foreign
Intelligence Surveillance Court, ossia un organo speciale, istituito nel 1978 e le cui
decisioni sono destinate a rimanere segrete. In tale ottica, è stato reso possibile il
sequestro di ogni cosa tangibile utile alle indagini per la lotta al terrorismo (194). È stata,
inoltre, estesa la disciplina semplificata dell’autorizzazione alle intercettazioni di e-mails
(sec. 216).
Il terzo titolo (195) contiene disposizioni volte a reprimere i finanziamenti ai gruppi
terroristici. Il quarto (196) contempla restrizioni in tema di immigrazione e, nell’ambito di
esso, va segnalata quella disposizione che prevede la detenzione obbligatoria di sospetti
terroristi (sec. 412). Sulla scorta di tale norma, è stato poi dato il via alla riforma della
disciplina in tema di immigrazione (197).
Il quinto titolo (198) è destinato alla rimozione di ostacoli per le indagini contro il
terrorismo, prevedendo, tra l’altro, l’istituzione di una banca dati del DNA dei presunti
terroristi (sec. 503). Il sesto titolo (199) è dedicato alle vittime del terrorismo ed ai loro
familiari; il settimo si occupa, invece, di potenziare lo scambio di informazioni tra
organismi federali, statali e locali.
194() In tale ottica, sono sequestrabili schede di prestito librario e ricevute di libri acquistati. Inoltre, è prevista la possibilità di ordinare agli internet service providers di rendere note informazioni sui clienti e sull’oggetto delle comunicazioni da essi effettuate. Sono, inoltre, accessibili agli investigatori le liste dei siti internet consultati dalle biblioteche pubbliche. 195() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 285. 196() Ibidem.197() Ibidem.198() Ibidem.199() Ibidem.
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L’ottavo titolo è dedicato, quindi, al rafforzamento della legislazione penale contro
il terrorismo. Si segnala, in particolare, per la riformulazione, in termini più ampi, del
reato di terrorismo, aggiungendo anche la nuova fattispecie del reato di terrorismo
interno. Tale disposizione prevede una serie di attività dai contorni piuttosto vaghi e si
presta ad essere applicata anche a forme di disobbedienza civile. Infine, il titolo nono
dell’USA Patriot Act è volto al potenziamento delle strutture di intelligence. L’ultimo
contiene una serie di disposizioni finali.
L’ultimo articolo (art. 160) di tale testo normativo, unico della section 2, contiene
una disposizione di chiusura, in forza della quale «qualsiasi disposizione dell’Act
dichiarata invalida o inapplicabile per i suoi termini, oppure per come viene applicata a
qualsiasi persona o circostanza, sarà interpretata in modo da attribuire il massimo effetto
permesso dalla legge, a meno che tale dichiarazione ne sancisca espressamente
l’invalidità o l’inapplicabilità, nel qual caso tale disposizione sarà considerata separabile
dal presente Act e non inciderà sul resto di quest’ultimo né sull’applicazione di tale
disposizione ad altre persone che si trovino nella stessa situazione o ad altre di diverse
circostanze». In dottrina (200), è stato evidenziato come tale disposizione costituisca una
vera e propria “blindatura” del Patriot Act, nel senso che essa crea dei veri e propri
“compartimenti stagni” tra un articolo e l’altro di tale testo normativo, al fine di impedire
possibili “attentati” da parte della magistratura.
L’USA Patriot Act, quindi, nell’inseguire il baluardo della guerra preventiva
contro il terrorismo a difesa della sicurezza dei cittadini americani, ha sacrificato decenni
di elaborazioni teoriche in tema si diritti fondamentali. Ulteriore caratteristica dell’Act,
diretta conseguenza di quella di cui si è appena dato conto, è di essere stato redatto in 200() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 287.
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modo particolarmente complesso (201), fino al punto da renderne addirittura impossibile la
lettura ai non addetti ai lavori.
Come anticipato, tale provvedimento legislativo ha dato inizio ad una nuova fase,
caratterizzata dal sacrificio, sull’altare di una maggiore sicurezza nazionale, delle libertà
fondamentali degli individui (202). A partire da tale atto, infatti, si è innescata negli Stati
Uniti una reazione a catena che ha portato alla lesione grave, se non addirittura al crollo,
del Bill of Right, ossia dell’insieme delle garanzie in tema di diritti e libertà individuali,
previste dalla costituzione statunitense. Allo stesso tempo il Patriot Act ha consolidato la
primazia dell’Esecutivo, a discapito di qualsivoglia controllo su di esso da parte del
potere giudiziario.
Come evidenziato, particolarmente rilevante ai nostri fini è la section 412
dell’USA Patriot Act. Essa ha attribuito all’Attorney General poteri di portata inedita e di
eccezionale rilevanza, tra i quali va segnalato il potere di trattenere in reclusione, per un
tempo indefinito, qualunque soggetto straniero da questi classificato come sospetto
terrorista (203). La sezione in parola – lo si è detto – ha riformato anche l’Immigration
and Nationality Act (204). Il Patriot Act ha, inoltre, conferito alle autorità
dell’immigrazione ed alla polizia di frontiera la facoltà di arrestare e trattenere
immigranti per un ragionevole periodo di tempo - senza però specificare cosa si intenda
201() Ibidem. 202() La dottrina, in particolare, ha evidenziato che «I provvedimenti legislativi e amministrativi nonché le prassi investigative adottati negli Stati Uniti dopo gli attentati […] sono riconducibili ad una matrice comune dai connotati allarmanti per il loro carattere liberticida, ove discutibili compromessi tra l’esigenza di sicurezza e di tutela delle garanzie individuali (cioè tra i due parametri cui occorre far riferimento per valutare le misure adottate) si intrecciano con l’uso strumentale degli eventi dell’11 settembre allo scopo di adottare misure emergenziali non ricollegabili ad essi né da essi necessitate, producendo un ampliamento smisurato, privo di controlli esterni e, anzi, tendenzialmente incontrollabile e in buona misura arbitrario, delle attribuzioni del potere esecutivo». Così V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 288.203() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, cit., p. 429. 204() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 293.
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con tale espressione - , senza che nei loro confronti sia formulata alcuna accusa e senza il
rispetto di alcuna particolare procedura (205). Ebbene, anche tali disposizione hanno
portata considerevolmente innovativa rispetto al passato. Infatti, in precedenza, il potere
delle autorità dell’immigrazione di detenere stranieri era limitato al periodo di tempo
strettamente necessario all’espletamento delle formalità di espulsione (206). In base al
Patriot Act, invece, il Governo avrebbe avuto la facoltà di detenere anche individui che
non possono essere soggetti a deportazione.
Tuttavia, in dottrina (207) è stato evidenziato come, nonostante l’ USA Patriot Act
presenti una forte tendenza alla degiurisdizionalizzazione, esso contenga soltanto tracce
del cd. diritto penale del nemico, per il resto, rispettando i diritti fondamentali.
10.1. Segue. Il President Military Order.
Il 13 novembre 2001, facendo leva su quei poteri che gli erano stati attribuiti in
virtù dell’Autorizzazione all’uso della forza, il Presidente degli USA ha adottato
un’ordinanza militare, in tema di «detenzione, trattamento e procedimento nei confronti
di alcuni non-cittadini nella guerra al terrorismo» (President Issues Military Order.
Detention, Treatment, and Trial of Certain Non-Citizens in the War Against Terrorism,
detta anche Novembre Order) (208). Ad essa hanno poi fatto seguito nove istruzioni ed
altre due ordinanze dettagliate, adottate dal Dipartimento della difesa, con cui si è inteso
205() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, cit. p. 429. 206() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, cit., p.430. 207() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 77. 208() Sull’ordinanza presidenziale del novembre del 2001, v. C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, cit., p. 431; T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1654; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2826.
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integrare e specificare la relativa disciplina e si è voluto così creare un vero e proprio
sistema penale speciale, articolato e di fonte esclusivamente esecutiva (209).
In dottrina, è stato efficacemente sottolineato (210) come l’ordinanza presidenziale
in parola abbia sostanzialmente violato il principio di separazione dei poteri. Infatti, essa
ha, nello stesso tempo, esercitato poteri che, in linea di principio, spettano al potere
legislativo, al potere esecutivo, ed al potere giudiziario. Più nel dettaglio, ha esercitato
competenze usualmente spettanti al potere legislativo nella misura in cui ha istituito
organi giudiziari, ha introdotto nuove fattispecie penali ed ha modificato norme
processuali esistenti. Ha tenuto le veci del potere esecutivo, relativamente alla disciplina
ed alla nomina dei nuovi organi giudiziari. Ha fatto propri compiti del potere giudiziario,
nel momento in cui ha riservato a tali commissioni la funzione di organo di ultima istanza
nei procedimenti giudiziari a carico dei prigionieri.
In virtù dei provvedimenti in parola, è stato, quindi, introdotto un trattamento
particolare e speciale nei confronti di chi venisse qualificato enemy alien ovvero enemy
combatant da parte dell’Esecutivo.
10.2. Segue. Ambito soggettivo di applicazione dell’ordinanza presidenziale: gli
enemy aliens o enemy combatants.
La disciplina contenuta nell’ordinanza presidenziale del novembre 2001 si applica
ad ogni individuo, non cittadino degli Stati Uniti, che sia stato unilateralmente qualificato
209() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 76. 210() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1648.
91
come terrorista da parte del Presidente degli Stati Uniti. In particolare, la Sez. 2
dell’ordinanza militare prevede che:
«il termine “individuo soggetto alla presente ordinanza” va
inteso come ogni individuo non cittadino degli Stati Uniti nei
confronti del quale io stesso (Presidente degli Stati Uniti) determino
con disposizione formale, caso per caso, che 1. Vi siano ragioni per
ritenere che tale individuo, in circostanze diverse: a) è o è stato
membro di un’organizzazione denominata “Al Qaeda”; b) ha preso
parte, ha aiutato o sostenuto o progettato di commettere atti o azioni
in preparazione di atti di terrorismo internazionale che hanno
provocato danni o effetti nocivi agli Stati Uniti, ai loro cittadini, alla
sicurezza nazionale, alla politica estera, all’economia; c) ha
consapevolmente offerto rifugio o si è reso complice di uno o più
individui di cui ai paragrafi a) e b) e di cui alla sub-sezione 2 A di
questa ordinanza; 2. È interesse degli Stati Uniti che tale individuo
sia soggetto alla presente ordinanza» (211).
Si tratta degli enemy aliens ovvero degli enemy combatants che il Governo
statunitense pretende di poter legittimamente detenere, a tempo indeterminato e in stato
di isolamento, senza formulare un’accusa nei loro confronti e senza consentire loro alcun
contatto con l’esterno, neppure con il loro difensore. E, ciò, fino al termine delle ostilità
211() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1648. 92
che, però, solo formalmente coincide con la fine della guerra in Afghanistan,
corrispondendo, invece, sostanzialmente, alla guerra infinita contro il terrorismo.
Secondo l’ordinanza in parola, poi, i non-cittadini, qualificati come terroristi in
base all’atto unilaterale ed insindacabile del Presidente, avrebbero dovuto essere detenuti
in un luogo appropriato che, in base alla Sez. 3, il Segretario alla Difesa avrebbe dovuto
individuare al di fuori del territorio degli Stati Uniti (212) e che, solo in seguito ad un
accurato studio commissionato dal Governo (213), è stato individuato nella base navale di
Guantánamo, sull’isola di Cuba. Sul piano processuale, invece, ogni individuo soggetto
all’ordinanza avrebbe dovuto essere processato da Commissioni militari appositamente
costituite, nominate dal Segretario alla Difesa e con una disciplina speciale (Sez. 4 e 5)
(214).
L’intento ufficiale di questa custodia cautelare indefinita era quello di impedire ai
sospetti terroristi di tornare sul campo di battaglia (215). In realtà, la vera intenzione
dell’esecutivo era di sottoporre i catturati ad interrogatorio per estorcere loro
informazioni a scopo di intelligence, senza alcun limite sul piano temporale, né alcuna
forma di controllo in termini modali, tanto da sfociare in vere e proprie forme di tortura
(216).
Alla fine, la disciplina in parola è stata applicata anche a cittadini statunitensi:
anche costoro, se sospettati di essere in vario modo collegati al terrorismo internazionale, 212() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 78. 213() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit. p. 2831. 214() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 78. 215() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2820. 216() Sulla riapertura del dibattito, dopo l’11 settembre, sull’utilizzabilità o meno della tortura quale tecnica di interrogatorio, v. F. RESTA, Choice among evils. L’ossimoro della “tortura democratica”, in Ind. pen., 2007, p. 827.
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sono stati qualificati enemy combatants, con un’unica differenza rispetto ai non-cittadini.
Essi, infatti, venivano sottoposti a custodia cautelare presso le basi militari situate sul
territorio degli Stati Uniti, con le stesse modalità previste per gli stranieri.
La categoria dell’enemy alien (217) non era del tutto sconosciuta all’ordinamento
giuridico statunitense. Più esattamente, nel 1942, la Corte Suprema era stata chiamata a
sindacare la legittimità di un processo speciale, tenutosi dinanzi a commissioni militari a
carico di alcuni sabotatori tedeschi (218). Nella specie, aveva dichiarato la propria
incompetenza a giudicare sui prigionieri di guerra. Tuttavia, nello stesso tempo aveva
affermato che gli imputati non potevano essere considerati tali, bensì «combattenti
nemici». La Corte si è, quindi, ritenuta legittimata a pronunciarsi nel merito e
condannarli. Il medesimo appellativo era poi stato utilizzato durante la Seconda Guerra
Mondiale nei confronti di alcuni cittadini giapponesi (219) residenti negli Stati Uniti,
accusati di infedeltà nei confronti della Costituzione americana a causa della loro origine
etnica e, per questo, privati della libertà personale per tutta la durata del conflitto. Accusa
poi rivelatasi infondata.
Quella degli enemy aliens o enemy combatants è una categoria a sé, creata
appositamente dal Governo degli Stati Uniti al fine di sottrarre i sospetti terroristi sia alle
garanzie previste dalla Costituzione americana per i delinquenti comuni, sia a quelle
previste dal diritto internazionale e, segnatamente dalle Convenzioni di Ginevra, per i
prigionieri di guerra. Tali individui rimangono, quindi, assoggettati ad una disciplina del
tutto peculiare che è rimessa in via esclusiva alla “volontà dell’ideatore” (220).
217() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti,, cit., p. 431. 218() Ibidem.219() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti,, cit., p. 432. 220() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti,, cit., p. 433.
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Più esattamente, dal punto di vista del diritto interno, la detenzione di tali soggetti,
sia stranieri che cittadini, è stata posta in essere in spregio a qualsiasi diritto riconosciuto
agli arrestati nell’ambito di qualsivoglia procedimento penale ordinario (221). Ai sospetti
terroristi in stato di custodia cautelare è stato negato, in primis, il diritto di incontrare un
difensore (222). Inoltre, sono stati privati del diritto di accedere all’unico strumento che
avrebbe consentito un controllo circa la legittimità della loro detenzione, ossia l’habeas
corpus (223). In virtù di tale istituto, infatti, l’arrestato avrebbe potuto chiedere ad una
Corte imparziale che venissero resi noti gli elementi su cui si basava la sua detenzione e
quindi ottenere un controllo giurisdizionale circa la legittimità della stessa, nonché circa
la legittimità dell’attribuzione della qualifica di enemy alien o enemy combatant.
La negazione di tale diritto, del resto, è stata ideata proprio al fine di evitare un
sindacato giurisdizionale sulle scelte dell’esecutivo circa l’attribuzione della qualifica di
“nemico”. A tal proposito, è stato efficacemente osservato (224) come «qualificare il
combattente che di per sé è nemico, come “nemico” (nemico-nemico) non significa altro
che considerare l’avversario un nemico assoluto da annientare». Per quanto riguarda i
cittadini statunitensi, tale obiettivo è stato perseguito, sostenendo che essi non avevano
alcun diritto ad un sindacato giurisdizionale sul punto, posto che tale status era comunque
imposto (225) dal Presidente, in virtù dell’atto del Congresso di autorizzazione all’uso
della forza. Per quel che riguarda gli stranieri, invece, il medesimo obiettivo è stato
221() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit. p. 2821 222() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2825. 223() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2825. 224() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 87. 225() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit. p. 2827.
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perseguito in base al criterio della extra-territorialità (226), in forza del quale si è sostenuto
che le corti americane non avevano alcuna giurisdizione sul luogo di detenzione di tali
individui: Guantánamo, sull’isola di Cuba.
10.3. Segue. Il campo di prigionia di Guantánamo e le garanzie giurisdizionali
negate agli enemy aliens.
Come anticipato, il Governo statunitense, solo dopo un attento studio (227), ha
individuato la base navale di Guantánamo a Cuba (228) come luogo idoneo per detenere
gli enemy aliens, ossia i non-cittadini, sospettati di connivenza con Al Qaeda.
In via preliminare, appare opportuno chiarire come mai a Cuba, «uno degli
avamposti del socialismo reale da sempre in lotta contro gli Stati Uniti d’America» ( 229),
si trovi addirittura una prigione di massima sicurezza, adoperata per detenere i sospetti
terroristi.
A tal proposito, occorre risalire al 1903 quando il Presidente di Cuba e quello degli
Stati Uniti d’America firmarono un duplice accordo “per l’affitto di basi navali o per il
rifornimento del carbone” (230). Tale accordo costituiva il riconoscimento per l’aiuto che
226() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2827. 227() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2831. 228() Sul campo di prigionia di Guantánamo, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1644; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 1232; A. CASSESE, Guantanamo, I principi della civiltà americana e gli imperativi del diritto internazionale, in I diritti dell’uomo, 2001, p. 46; E. SCISO, La condizione dei detenuti di Guantánamo fra diritto umanitario e garanzie dei diritti umani fondamentali, in Riv. dir. int., 2003, p. 111; G. BUONOMO, Obiettivo. L’ordinamento giuridico internazionale dopo Guantanamo, in Quest. giust., p. 311; M. BOUCHARD, Morte del processo e inizio dell’apocalisse, in Quest. giust., 2003, p. 1005. 229() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1645.230() In argomento, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1646.
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gli Stati Uniti avevano fornito ai cubani durante la guerra di indipendenza dalla Spagna
nel 1898 (231) e che ebbe un riconoscimento addirittura nella costituzione cubana del
1902, ove l’art. VII dell’appendice prevedeva espressamente: «Che, per mettere in
condizione gli Stati Uniti di mantenere l’indipendenza di Cuba, proteggere il suo popolo
e di garantire la propria difesa, il governo di Cuba venda o conceda in affitto agli Stati
Uniti i terreni necessari per le basi navali o per il rifornimento di carbone, in determinati
punti che verranno concordati con il Presidente degli Stati Uniti» (232).
Il contratto di affitto concluso tra USA e Cuba nel 1903 prevede, quindi, che «Gli
Stati Uniti riconoscono la continuità della sovranità della Repubblica di Cuba sulle zone
terrestri e marittime precedentemente descritte, ma la Repubblica di Cuba permette agli
Stati Uniti, per tutto il periodo in cui occuperanno le suddette aree ai sensi di questo
accordo, di esercitare completa giurisdizione e controllo su di esse» (233). In altri termini,
la piena sovranità su Guantánamo continuava a spettare a Cuba, tuttavia, durante tutta la
durata del contratto, gli Stati Uniti avrebbero avuto su di essa totale giurisdizione e
controllo. Inoltre, secondo l’interpretazione autentica data dal Governo statunitense, tale
disposizione dell’accordo doveva essere intesa nel senso che la sovranità di Cuba (234) su
Guantánamo sarebbe rimasta sospesa fintanto che fosse perdurata l’occupazione
statunitense - posto che gli USA esercitano su di essa piena giurisdizione e controllo – ma
sarebbe stata destinata a riespandersi pienamente in caso di cessazione dell’occupazione
stessa.
231() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., 1646. 232() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit. p. 1646. 233() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1646. 234() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1646.
97
Dopo l’11 settembre, quindi, è stato svolto un attento studio (235) da parte del
governo statunitense volto ad individuare l’area più appropriata per detenere gli enemy
aliens. Alla fine, l’attenzione è ricaduta su Guantánamo, poiché in virtù delle
caratteristiche dell’accordo di cui si è detto e della indubbia extra-territorialità della base
navale, tale terra era sottratta alla giurisdizione delle Corti federali degli Stati Uniti (236).
Lo scopo perseguito, infatti, era proprio quello di privare i detenuti ivi ristretti sia della
garanzie proprie del diritto internazionale che di quelle del diritto interno. A tale ultimo
riguardo, il riferimento è al diritto all’habeas corpus, che i detenuti avrebbero potuto
proporre durante il periodo di custodia cautelare indefinita. In tal modo, è stato impedito
qualsiasi controllo giurisdizionale sulla legittimità della loro detenzione e, quindi, sulla
fondatezza dell’attribuzione della qualifica di enemy alien, che doveva rimanere un atto
unilaterale ed inoppugnabile dell’esecutivo (237).
L’intento era, quindi, quello di creare una no man’s land ovvero un legal black
hole, così come Guantánamo è stata definita (238). E bisogna dire che, fino all’intervento
della Corte Suprema nel 2004, il Governo statunitense vi era pienamente riuscito.
Al di là della negazione delle garanzie giurisdizionali, è bene sottolineare come le
condizioni dei detenuti di Guantánamo siano terribili (239): gli Sti Uniti non hanno mai
reso note le identità dei soggetti catturati; fin dal momento dell’arresto i prigionieri sono
235() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2831. 236() Sulla detenzione presso il campo di prigionia di Gauntánamo si è anche pronunciata una Corte britannica, in un caso in cui, ovviamente, in cui era interessato un cittadino britannico ivi recluso. Sul punto, v. ampiamente, L. VIERUCCI, Il caso Abbasi: la detenzione arbitraria a Guantanamo davanti al giudice inglese, in Riv. dir. int. priv. proc., 2003, p. 911. 237() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2831.238() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1650; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2831. 239() Sulla condizione disumane dei detenuti di Guantánamo, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1652; nonché C. BONINI, Usa, viaggio nella prigione del terrore, Torino, 2004, p. 3 ss.
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stati sottoposti a ripetuti interrogatori in assenza di avvocati; non è stato consentito loro
di comunicare con i familiari ovvero di usufruire di consulenza legale.
10.4. Segue. Le Commissioni militari ad hoc.
La negazione della tutela giurisdizionale delle Corti federali statunitensi ha
riguardato gli enemy aliens o gli enemy combatants non solo – come si è visto - nella fase
della custodia cautelare, ma anche nella vera e propria fase processuale (240). La
competenza in materia è stata, infatti, attribuita a delle Commissioni militari ad hoc,
anch’esse istituite con l’ordinanza militare del novembre 2001, e presso le quali è stata
disposta la «non applicabilità dei principi di legge e delle regole di valutazione della
prova generalmente vigenti nei processi penali celebrati nelle corti distrettuali degli Stati
Uniti» (241). A tal proposito, è stato efficacemente sottolineato come, in forza
dell’ordinanza in parola, sia stato istituito uno speciale sistema giudiziario, un vero e
proprio codice di procedura penale speciale (242).
Attribuendo i processi sui detenuti di Guantánamo a speciali commissioni militari,
il Governo statunitense ha voluto escludere la competenza dei Tribunali del Paese a
giudicare della legalità delle azioni da esso stesso intraprese nei confronti dei soggetti
ritenuti collegati ad organizzazioni terroristiche.
240() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2834 241() In tal senso, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1649. 242() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit. p. 1655.
99
Tali commissioni si caratterizzano, innanzitutto, per la loro composizione. Esse
sono costituite da militari nominati dall’esecutivo, in numero variabile da tre a sette (243).
Anche il pubblico ministero è un militare (244).
L’imputato, inoltre, ha il diritto di essere assistito da un avvocato militare,
assegnatogli d’ufficio dall’esecutivo (245). Può affiancargli, tuttavia, un avvocato civile,
ma a sue spese; sono dettate, però, una serie di disposizioni che ne disincentivano
fortemente la nomina. Infatti, l’avvocato civile non ha il diritto di partecipare alle udienze
che si svolgono a porte chiuse e che sono la maggior parte; non può lasciare Guantánamo
senza il consenso del Dipartimento della difesa; non può parlare con nessuno del
processo e del suo contenuto; può avere solo colloqui sorvegliati e registrati con il suo
assistito e deve, altresì, accettare di rivelare quelle parti dei colloqui che servono a
prevenire la commissione di nuovi reati, pena, in caso contrario, un’autonoma
incriminazione a suo carico.
Il Presidente della commissione può qualificare talune prove (246) come segrete ed
impedirne così la conoscenza sia all’imputato che al suo difensore civile. Può, inoltre,
ordinare che, per ragioni di sicurezza nazionale, l’intero processo si svolga a porte chiuse
con conseguente esclusione dell’imputato e del suo difensore civile.
Al fine di addivenire ad una condanna, non è necessario che le prove dimostrino la
colpevolezza dell’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio”; al contrario, è
sufficiente che esse siano “convincenti per una persona ragionevole” (247).
243() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2835. 244() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1654. 245() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2835. 246() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2835. 247() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1655.
100
Non è prevista una vera e propria impugnazione delle sentenze. La decisione
finale, infatti, viene semplicemente verificata da un review penal (248) i cui membri hanno
il compito di valutare l’opportunità di una revisione. L’ultima decisione sul punto spetta
al Presidente degli Stati Uniti che però non ha neanche l’obbligo di motivare il suo
provvedimento.
È bene precisare che la celebrazione delle udienze di fronte alle Commissioni di
Guantánamo è iniziata solo nel 2004 (249) ed è stata subito sospesa per effetto del
sopraggiungere della decisione della District Court sul caso Hamdan (250), di cui appresso
si dirà.
10.5. Segue. Il Detainee Act.
In questa seconda fase dell’evoluzione della legislazione statunitense contro il
terrorismo, è stato, altresì, approvato dal Congresso il Detainee Act (251). Esso precisa che
nessuna persona in stato di custodia ovvero sotto il controllo fisico del Governo degli
Stati Uniti possa essere soggetta a trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti
( Sec. 1003a).
Tuttavia, nello stesso tempo, esso prevede che nessuno può essere sottoposto a
trattamenti o a tecniche di interrogatorio non autorizzati da e non contenuti nel United
States Army Field Manual on Intelligence Interrogation (Sec. 1002a), il quale però
248() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2835. 249() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2835250() Ibidem. 251() Sul punto, v. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 88
101
configura proprio la possibilità di condurre interrogatori con modalità lesive dei diritti
inviolabili dell’uomo (252).
11. La terza fase. La giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti.
La terza fase è quella in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha
emesso una serie di pronunce, con le quali è intervenuta a tutela dei diritti fondamentali
dell’individuo, fino a quel momento pregiudicati dall’egemonia dell’Esecutivo.
Già a partire dal 2001 erano state intraprese numerose azioni di habeas corpus da
parte ovvero per conto dei detenuti di Guantánamo. Tuttavia, in un primo momento (253),
tali istanze erano state rigettate da parte delle Corti federali, sulla base dell’assunto per
cui l’extra-territorialità della base di Guantánamo rispetto al territorio statunitense le
avrebbe rese incompetenti in materia. Solo in un secondo momento (254), quindi, i ricorsi
per habeas corpus sono stati ammessi.
Un passo decisivo è stato compiuto il 28 giugno 2004, quando la Corte Suprema
ha emesso tre sentenze: Rasul v. Bush, Hamdi v. Rumsfeld, Rumsfeld v. Padilla.
Fondamentale è stata anche la sentenza Hamdan v. Rumsfeld del 29 giugno 2006. Con le
sentenze del giugno del 2004 è stata riaffermata la primazia del diritto di difesa per
americani e stranieri. È stato, infatti, sostenuto che ogni detenuto, a prescindere dalla sua
nazionalità, possa contestare la legittimità della sua detenzione avanti ad un tribunale
degli Stati Uniti. La Corte ha, dunque, affermato l’illegittimità (255) dell’azione del
Governo degli Stati Uniti, poiché la Costituzione non prevede la possibilità di trattenere 252() Ibidem. 253() In argomento, v. amplius T.E. FROSINI Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1658. 254() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1659.255() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, cit., p. 436.
102
persone per un tempo indefinito, senza una formale incriminazione e senza le tradizionali
garanzie del processo statunitense, a meno che esse non siano qualificate come
prigioniere di guerra. In tale ultimo caso, comunque, queste dovrebbero beneficiare delle
garanzie previste dal diritto internazionale e, in particolare, dalle Convenzioni di Ginevra.
In tutti e tre i processi, la posizione del Governo statunitense (256) è stata quella di
rivendicare con fermezza la propria autorità di poter arrestate i nemici combattenti, che
siano essi stranieri o cittadini, fino al termine delle ostilità e, quindi, a tempo indefinito.
Ha, altresì, rivendicato il potere di negare loro le garanzie del giusto processo e,
segnatamente, il diritto di essere assistito da un avvocato; il diritto ad impugnare la
propria causa avanti ad un Tribunale americano; il diritto ad essere giudicati da una giuria
popolare; il diritto a non autoincriminarsi; il diritto all’habeas corpus.
La sentenza Rasul v. Bush (257) ha affrontato il problema del diritto dei detenuti di
Guantánamo di adire le Corti federali statunitensi. Tale diritto era stato negato dalla Corte
distrettuale della Columbia sulla base dell’assunto per cui Cuba non fa parte del territorio
degli Stati Uniti. La giurisdizione e la competenza territoriale delle Corti statunitensi,
invece, sarebbe circoscritta solo al territorio degli USA. La Corte Suprema degli Stati
Uniti, invece, è giunta alla conclusione opposta: tutti i detenuti a Guantánamo, siano essi
cittadini o stranieri, hanno comunque il diritto di ricorrere ad una Corte federale degli
Stati Uniti con una richiesta di habeas corpus, poiché comunque gli Stati Uniti, pur non
avendo vera e propria sovranità, esercitano piena giurisdizione e controllo sulla base di
Guantánamo, in tal modo rifiutando la posizione del Governo che aveva sostenuto
256() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1660. 257() In argomento, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1661; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2830; nonché R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 90.
103
l’extra-territorialità della base navale. A tal fine, la Corte ha utilizzato un principio di
diritto che era già stato affermato nel 1973 nel caso Braden (258), quando era stato ritenuto
che non sarebbe stata necessaria la presenza fisica del prigioniero sul territorio dove fosse
esercitata la giurisdizione di una corte federale. Al contrario, per proporre un’istanza di
habeas corpus sarebbe stato sufficiente che colui che tiene in custodia il detenuto fosse
subordinato alle garanzie processuali in materia di habeas corpus e che, dunque, la Corte
federale potesse giudicare della legittimità della sua condotta.
La più importante e interessante delle tre decisioni è certamente la sentenza Hamdi
v. Rumsfeld (259). Essa ha chiarito cosa, nell’ambito dell’habeas corpus resta inderogabile
anche in uno stato d’emergenza e cosa, invece, può essere derogato. La Corte ha
individuato un nocciolo duro di diritti (core rights) dell’individuo rispetto al due process
of law. In particolare, ha affermato che un cittadino-detenuto che voglia modificare
l’imputazione di combattente nemico ha il diritto essere esattamente informato del capo
di imputazione e delle prove a suo carico. Deve altresì avere la possibilità di effettuare
tale impugnazione avanti ad un giudice neutro. Ciò perché non possono essere messe in
discussione le garanzie del giusto processo. Non può essere leso il diritto di conoscere
l’imputazione mossa a carico dell’imputato. Inderogabili sono, altresì, il diritto alla
notificazione ed il diritto di essere ascoltati, in un margine di tempo apprezzabile ed in
maniera significativa. Ne consegue che una detenzione a tempo indeterminato può essere
considerata legittima solo se l’attribuzione della qualifica di enemy combatants sia
previamente sottoposta al vaglio di un giudice imparziale
258() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1661. 259() Cfr. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1663; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre , cit., p. 2828; R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 90.
104
La sentenza Rumsfeld v. Padilla (260) ha solo apparentemente un risvolto
meramente processuale. Infatti, l’istanza viene respinta. Tuttavia, la Corte dichiara che il
detenuto avrebbe dovuto adire la Corte federale del distretto ove era recluso e non la
Corte federale di New York, come invece aveva fatto. Al di là del rigetto preliminare, tale
pronuncia si apprezza per ciò che dice implicitamente. La Corte, infatti, ha
implicitamente dichiarato che il carcerato ha comunque il diritto di adire una Corte:
quella del distretto in cui si trova detenuto. A tal proposito, la dottrina (261) ha evidenziato
come in tal modo si corra però il rischio che il Governo federale detenga il terrorista nel
distretto in cui le Corti sono più compiacenti (262).
Per quel che riguarda, infine, la sentenza Hamdan v. Rumsfeld (263) del 2006, in via
preliminare, è bene precisare che Hamdan era uno dei pochi detenuti a Guantánamo nei
confronti del quale era stata formulata un’accusa ed era iniziato un processo di fronte ad
una Miliatry Commission. Nel frattempo, il detenuto aveva, però, proposto un’istanza di
habeas corpus per vedersi riconosciuto lo status prigioniero di guerra. Nel caso di specie,
la corte distrettuale (264) aveva affermato che le Convenzioni di Ginevra hanno carattere
self-executing e, quindi, avrebbe trovato automatica applicazione l’art. 5 della III CG.
260() Sul caso Padilla, in particolare, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1666; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2832; R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 90. 261() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 90. 262() In un certo senso, questo è proprio ciò che è accaduto a Padilla. Il medesimo, infatti, detenuto nel distretto di New York, dopo che aveva presentato il ricorso è stato dichiarato combattente nemico e trasferito nel carcere del South Carolina, dove la Corte del distretto è tradizionalmente più vicina alle posizioni governative. Sul punto, v. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 90. 263() Sul punto, v. M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2836; nonché R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 91. 264() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2836.
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Tale norma prevede che, in caso di dubbio, la verifica circa l’effettiva sussistenza dello
status di prigioniero di guerra spetta ad un Tribunale competente e, fino a quando questo
non si pronunci, il detenuto non può che essere giudicato come prigioniero di guerra. Il
giudice, in sostanza, aveva ordinato alla Military Comisssion, che stava processando
Hamdam come enemy alien, la sospensione del procedimento in corso, fino a quando un
Tribunale competente non si fosse pronunciato sulla sussistenza o meno delle condizioni
affinché il ricorrente potesse essere ritenuto prigioniero di guerra.
Sul caso del detenuto Hamdan era stata poi chiamata a pronunciarsi la Suprema
Corte (265). La sentenza in questione si apprezza soprattutto perché ha, infine, dichiarato
l’illegittimità delle Military Commissions. Tale pronuncia ha avuto un’importanza
decisiva. In primo luogo, poiché ha riaffermato il principio della separazione dei poteri.
La Corte, infatti, ritiene che Commissioni militari possano essere istituite solo per legge,
a seguito quindi di autorizzazione del Congresso. Cosa non avvenuta nel caso di specie,
posto che le commissioni di cui trattasi erano state istituite - come abbiamo visto - con
un’ordinanza presidenziale. Dal punto di vista del diritto internazionale e del rispetto dei
diritti umani, invece, la Corte ha affermato che il detenuto ha diritto ad essere processato
da una Corte regolarmente costituita e capace di assicurare tutte quelle garanzie offerte
normalmente ad una popolazione civile. Nella lotta al terrorismo, infatti, dovrebbe
comunque essere garantito il rispetto delle Convenzioni di Ginevra, ed in particolare
dell’art. 3 ad esse comune (266).
265() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 91. 266() In particolare, l’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 stabilisce che nei confronti delle persone che non sono combattenti rimangono vietate: a) le violazioni contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assasinio in tutte le forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi; b) la cattura di ostaggi; c) gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti inumani e degradanti; d) le condanne pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito, che offra le garanzie giudiziarie ritenute indispensabili dai popoli civili.
106
12. La quarta fase. Il Military Commission Act.
A seguito di queste pronunce, il 17 ottobre 2006, il Presidente degli Stati Uniti ha
firmato il Military Commission Act (267), con il quale, questa volta il Congresso con un
provvedimento legislativo - in adempimento quindi del monito contenuto nella sentenza
della Corte Suprema - ha di nuovo attribuito alle Commissioni militari ad hoc la
competenza per gli atti commessi dagli stranieri combattenti nemici illegittimi. Tuttavia,
tale provvedimento, dal punto di vista sostanziale perpetra comunque una violazione dei
diritti fondamentali dell’individuo, in quanto esso costituisce niente più che una razionale
sistemazione della disciplina volta all’annientamento del nemico assoluto.
Per quel che concerne l’ambito applicativo, la nuova disciplina è destinata a
trovare applicazione solo in tempo di guerra e non anche in tempo di pace. Tuttavia, è
bene evidenziare che, allo stesso tempo, tale atto ha dettato una nozione del tutto
peculiare di guerra, che si distingue da quella tradizionalmente riconosciuta dal diritto
internazionale e si identifica, sostanzialmente, con quella infinita contro il terrore. Lo
status di enemy alien o enemy combatant continua a non essere coperto dalle garanzie
offerte dal diritto internazionale, né da quelle costituzionali previste dal diritto interno.
Sotto il primo profilo, infatti, si è stabilito che, davanti alle commissioni militari, non
possano essere invocate le Convenzioni di Ginevra come fonte del diritto ed è stato
attribuito al Presidente degli Stati Uniti il compito esclusivo di interpretare le
Convenzioni stesse. Dal punto di vista del diritto interno, invece, è stata riprodotta quella
formula già contenuta nell’ordinanza presidenziale del novembre 2001, in base alla quale 267() In argomento, v. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 93.
107
nessuna Corte o giudice ha giurisdizione su una richiesta di habeas corpus proposta da
una straniero definito, ovvero in attesa di essere definito, dagli Stati Uniti come enemy
alien.
L’atto, inoltre, ha previsto una serie di nuove fattispecie incriminatrici (par.
950v(b)), punite tutte mediante confinamento ed applicabili anche a condotte poste in
essere prima della data di entrata in vigore dell’atto, posto che – ad avviso del medesimo
provvedimento - si tratterebbe di norme meramente esplicative di previsioni vigenti.
Dal punto di vista del diritto processuale, invece, è stato nuovamente previsto che i
soggetti processuali (giudice, pubblici ministeri e difensori) dei processi che si svolgono
davanti alle Commissioni militari siano nominati dall’Esecutivo. È stata, inoltre,
praticamente ammessa l’utilizzabilità, ai fini della decisione, di informazioni che sono
state estorte con la tortura o, comunque, con tecniche di interrogatorio che utilizzano
mezzi coercitivi. Solo da un punto di vista meramente formale, infatti, la Sec. 3, par.
948r(b) sancisce che le informazioni carpite per mezzo della tortura non sono
ammissibili. Nei paragrafi successivi, tuttavia, è dettata una disciplina che distingue a
seconda del momento in cui la dichiarazione stessa è stata resa. Infatti, se è stata ottenuta
prima dell’entrata in vigore del Detainee Treatment Act del 30 dicembre 2005 - che rende
legittime alcune tecniche di interrogatorio basate sulla coercizione - allora la
dichiarazione può essere ammessa solo qualora il giudice militare la ritenga, da un lato,
attendibile e dotata di sufficiente valore probatorio, dall’altro, funzionale al miglior
soddisfacimento degli interessi della giustizia. Al contrario, se la dichiarazione è stata
resa dopo il 30 dicembre 2005, la medesima può essere ammessa solo se, oltre a ricorrere
le due condizioni di cui si è detto, il giudice militare ritenga, altresì, che il metodo di
108
interrogatorio utilizzato non sia un trattamento crudele inumano o degradante, vietato
dall’art. 1003 del Detainee Treatment Act.
Al di là delle mere dichiarazioni di intenti, è bene precisare come, in tal modo, sia
stata ammessa la tortura come prova regina per i processi avanti le commissioni militari.
La maggior parte degli episodi di terrorismo, infatti, sono stati posti in essere prima della
fine del 2005. Con riferimento, invece, alle dichiarazioni rese dopo il dicembre 2005, è
opportuno ricordare che le pratiche legittime in base al Detainee Treatment Act sono veri
e proprio trattamenti crudeli, inumani e degradanti: ossia vere e proprie torture.
Ad ogni modo, la Corte Suprema degli Stati Uniti, con una sentenza del 2008, ha
di nuovo bocciato le Commissioni militari, affermando il diritto dei detenuti di
Guantánamo a ricorrere alla giustizia ordinaria (268) sulla base dell’assunto per cui «le
leggi e la Costituzione sono state definite proprio per sopravvivere e non per piegarsi in
tempi straordinari. Perché libertà e sicurezza possono essere riconciliate nella cornice
dello Stato di diritto» (269).
13. Considerazioni conclusive: i tratti di un vero e proprio diritto penale del nemico
nell’ordinamento statunitense.
Il modello Guantánamo presenta i caratteri di un vero e proprio diritto penale del
nemico, più esattamente, di quel diritto penale del nemico “in senso stretto” o “in senso
268() In argomento, v. A SPATARO, Otto anni dopo l’11 settembre. (Il modello anglosassone e quello europeo nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale), cit., p. 152. 269() Così si è espressa la Corte suprema degli Stati Uniti con la sentenza de 12 giugno del 2008, nei casi Boumedine vs. Bush e Al Odah vs. United States.
109
forte”, che si caratterizza per la lesione dei diritti fondamentali dell’individuo e per la
messa in discussione delle stesse garanzie penal-processualistiche proprie dei moderni
sistemi giuridici. In questa sede, appare sufficiente anticipare semplicemente quali siano i
tratti distintivi di questa specie di diritto super-penale, per meglio chiarire la precedente
affermazione.
Dal punto di vista sostanziale, il diritto penale del nemico si caratterizza per essere
un diritto penale d’autore; per l’appartenenza delle fattispecie criminose, per lo più, alla
categoria dei reati di pericolo; per la previsione di reati associativi ed a dolo specifico;
per la configurazione ed applicazione di pene o misure di sicurezza sproporzionate al
fatto e alla pericolosità del suo autore, in quanto volte alla neutralizzazione del reo; per la
contemplazione della pena di morte. Dal punto di vista processuale, inoltre, il diritto
penale del nemico si caratterizza per la previsione di un potere assoluto di indagine in
capo agli organi di polizia, in assenza di un controllo giudiziario; per la detenzione dei
prigionieri a tempo indeterminato; per l’ammissibilità della tortura quale tecnica di
interrogatorio; per la degiurisdizionalizzazione; per l’irrogazione della pena senza
possibilità di rimedio, impugnazione o riesame. Dal punto di vista penitenziario, esso,
infine, si contraddistingue per il regime penitenziario inumano.
Logico corollario dei succitati caratteri è la lesione dei diritti fondamentali
dell’individuo (vita, dignità umana, libertà, riservatezza, etc.), non solo del nemico che
intende neutralizzare, ma anche del cittadino che intende proteggere. Tale lesione si
estende anche ai principi cardine dello Stato di diritto, primo fra tutti il principio di
separazione dei poteri, del giusto processo e del connesso diritto di difesa.
Ebbene, come l’indagine fino ad ora condotta ha messo in evidenza, il modello
Guantánamo presenta tutti i suesposti tratti distintivi. Più nel dettaglio, dal punto di vista 110
sostanziale, esso è un diritto penale d’autore, poiché si applica al terrorista di ideologia
islamica che, per lo più, è straniero ed è etichettato emeny alien o enemy combatant dal
Governo; inoltre, il titolo VIII dell’USA Patriot Act ha ampliato il campo di applicazione
del reato di terrorismo, rendendo la fattispecie quasi indeterminata. Dal punto di vista
processuale, il modello Guantánamo si contraddistingue per un generale ampliamento dei
poteri di perquisizione, sequestro, intercettazione e arresto da parte delle forze
dell’ordine, senza informare l’interessato e senza previa autorizzazione dell’autorità
giudiziaria (titolo II, USA Patriot Act); per la detenzione obbligatoria dei terroristi, a
tempo indeterminato e senza una formale accusa a loro carico; per il ricorso alla tortura,
quale tecnica di interrogatorio; per la possibilità di procedere al prelievo coattivo di
DNA, con conseguente istituzione di una relativa banca dati (titolo V, USA Patriot Act);
per l’attribuzione della competenza giurisdizionale a giudicare dei reati commessi dai
terroristi detenuti a Guantánamo a Tribunali militari specializzati, di nomina esecutiva.
Dal punto di vista penitenziario, la legislazione adottata egli Stati Uniti post 11 settembre
si caratterizza, infine, per la previsione di un regime detentivo inumano presso il campo
di prigionia di Guantánamo.
Evidente è, quindi, la lesione dei diritti fondamentali dell’uomo e, segnatamente:
del diritto alla vita, nella misura in cui la sottoposizione del terrorista al regime detentivo
inumano ed a forme di tortura possono comportarne il venir meno; della dignità umana,
lesa dalle torture cui i detenuti sono sottoposti per estorcere loro informazioni; della
libertà, di cui il nemico è privato senza limiti di tempo e senza controllo dell’autorità
giudiziaria, al pari di quanto avviene, sotto quest’ultimo, per il cittadino; della
riservatezza e della libertà di movimento del cittadino, la cui vita privata può essere
oggetto di penetranti controlli da parte dei pubblici poteri e senza preventiva 111
autorizzazione, ove occorra, da parte dell’autorità giudiziaria. Evidente è, altresì, la
frizione del modello Guantánamo con i principi cardine dello Stato di diritto. E, così, il
principio di separazione dei poteri è violato dalla stessa ordinanza presidenziale del 13
novembre 2001, che – come visto – ha esercitato, ad un tempo, i poteri spettanti al potere
legislativo, esecutivo e giudiziario. Tale principio, tuttavia, è stato violato anche nella
misura il cui il compito di amministrare la giustizia è stato attribuito al potere esecutivo
per mezzo delle Commissioni militari. Conseguentemente, è stato violato il principio del
giusto processo ed il diritto di difesa dell’imputato, il diritto al contraddittorio ed il diritto
al silenzio, nella misura in cui è stato dato ingresso nell’ordinamento statunitense alla
tortura quale tecnica di interrogatorio. Altro diritto che i terroristi hanno visto ledere è
stato quello di presentare una petizione di habeas corpus.
Tutto ciò, tuttavia, era inaccettabile all’interno di un moderno Stato di diritto e,
proprio per questo, la Corte suprema degli Stati Uniti ha ricondotto il sistema
Guantánamo nei binari della legalità.
A questo punto, appare opportuno chiedersi se la categoria del diritto penale del
nemico, portata alla ribalta sul piano internazionale per descrivere un fenomeno
storicamente esistente, ossia la legislazione antiterrorismo adottata da alcuni Paesi
occidentali e, segnatamente, dagli Stati Uniti immediatamente dopo l’11 settembre, possa
- ed in che limiti - essere assurta a paradigma di diritto penale, avente portata generale, in
aggiunta e addirittura a salvaguardia del diritto penale del cittadino (270).
270() L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico”: un’abdicazione della ragione, cit., p. 162.112
CAPITOLO TERZO
Il dibattito dottrinario. La teoria del diritto penale del nemico e le critiche
1. Il dibattito contemporaneo: la ricostruzione del pensiero di Günter Jakobs.
113
Da subito è apparsa a tutti evidente la frizione degli strumenti normativi adottati da
alcuni Paesi occidentali dopo l’11 settembre con i principi cardine del diritto penale
liberale, così come si sono venuti stratificando in oltre due secoli di elaborazione
giuridica, dall’Illuminismo in poi (271).
Tuttavia, non è mancato chi ha colto l’occasione per sostenere la più generale
ammissibilità (272) di un cd. diritto penale del nemico (Feindstrafrecht), contrapposto ad
un diritto penale del cittadino (Burgerstrafrecht). Si fa, in particolare, riferimento allo
271() A tal proposito, appare opportuno precisare che gran parte delle leggi promulgate in Europa e, soprattutto, negli Stati Uniti dopo gli attacchi dei terroristi islamici, così come la stessa teoria del diritto penale del nemico di Jakobs, minano alle fondamenta stesse dello Stato di diritto (Rechtstaat), ossia di quello Stato volto alla salvaguardia della supremazia del diritto e delle connesse libertà dell’uomo. Più esattamente, lo Stato di diritto esige che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti. Ne consegue che lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, innanzitutto, per mezzo di una Costituzione scritta. Nell’ambito del concetto di Stato di diritto, poi, è possibile distinguere due diverse accezioni: da un lato, lo Stato di diritto in senso formale; dall’altro, lo Stato di diritto in senso materiale. In senso formale, lo Stato di diritto implica la separazione dei poteri, il principio di legalità, la giurisdizione ordinaria e amministrativa. Dal punto di vista sostanziale, lo Stato di diritto, invece, comporta la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Infatti, un vincolo dello Stato all’osservanza delle leggi sarebbe poca cosa senza la garanzia per i diritti umani. Sul punto, v. amplius, M. FIORAVANTI, VOCE Stato (storia), in Enc. dir., p. 678 ss. A tale ultimo riguardo, sono un emblema per quel che concerne la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo nel nostro ordinamento, in primis, gli artt. 2 e 3 della Costituzione, i quali, rispettivamente, recitano «art. 2 – La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»; «art. 3 – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali . – È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».272() In dottrina è stato messo in evidenza come il più grave vizio della concettualizzazione di Jakobs sia stato proprio quello di aver postulato un vero e proprio programma di politica criminale. In questi termini, v. K. AMBOS, Il diritto penale del nemico, in M. Donini-M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, 2007, p. 30.
114
studioso tedesco, Günter Jakobs (273), che ha così riaperto il dibattito internazionale sul
tema.
A tal riguardo, è bene precisare che Jakobs, in realtà, aveva già accennato al diritto
penale del nemico in un suo intervento del 1985 (274). Nel 1999 (275), poi, aveva esposto
compitamente la sua dottrina. Più nel dettaglio, egli ha riesumato da un passato, più o
meno antico, l’idea di un nemico del diritto penale e ne ha costruito una teoria,
rintracciandone manifestazioni nella legislazione di lotta, già da molto tempo in vigore in
Germania. Ha così astratto i tratti essenziali di un nuovo modello di diritto penale,
destinato ad affiancarsi a quello tradizionale, al fine di difendersi da un’aggressione
nemica in atto ovvero temuta (276). L’argomento è stato poi ripreso in modo approfondito
a partire dal 2003, quando ormai il diritto penale del nemico era diritto vigente almeno
negli Stati Uniti d’America, a seguito degli attacchi sferrati dai terroristici islamici l’11
settembre 2001.
273() Per la teorizzazione di tale Autore in tema di diritto penale del nemico, v. G. JAKOBS, Kriminalisierung im Vorfeld einer Rechtsgutsverletzung (Referat auf der Strafrechtslehrertagung in Frankfurt a.M. im Mai 1985), in ZStW 97, 1985, p. 753 ss.; ID., Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, in A. Gamberini-R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico. Nuovo revisionismo penale, Bologna, 2007, p. 109 ss.; ID., Das Selbstverständnis der Strafrechtswissenschaft for den Herausforderungen der Gegenwart (Kommentar), in A. Eser-W. Hassemer-B. Burkhardt (a cura di), Die deutsche Strafrechtswissenschaft vor der Jahratausendwende. Rückbesinnung und Ausblick, München, 2000, p. 47 ss.; ID., Staatliche Strafe: Bedeutung und Zweck, Paderborn, 2004; ID., Terroristen als Personen im Recht?, in ZStW, 2005, p. 839 ss.; ID., Diritto penale del nemico, in M. Donini-M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, 2007, p. 5 ss.; ID., I terroristi non hanno diritti, in R.E. Kostoris-R. Orlandi (a cura di), Contrasto al terrorismo interno e internazionale, Torino, 2006, p. 8 ss.; ID., ¿Terroristas como personas en derecho?, in Derecho penal del enemigo, Cizur Menor, 2006, p. 68 ss.274() Sull’evoluzione del concetto di nemico in Günter Jakobs, v. ampiamente K. AMBOS, Il diritto penale del nemico, cit., p. 42. 275() L’occasione per la compiuta prospettazione di tale teorica fu un incontro tenutosi a Berlino sulla scienza del diritto penale a fine millennio. In argomento, cfr. G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, in S. Moccia (a cura di), I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, Napoli, 2008, p. 20. 276() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 19.
115
In particolare, l’Autore parte dal presupposto (277) che, per quanto possa risultare
sconveniente in un moderno Stato di diritto, non ad ogni consociato, all’interno
dell’ordinamento giuridico, spetta il riconoscimento dello status di “persona di diritto”, in
virtù del quale egli possa essere legittimamente riconosciuto fruitore dei “diritti umani”.
L’attribuzione di tale qualifica, infatti, dipenderebbe dal comportamento del soggetto con
cui l’ordinamento ha di volta in volta a che fare (278). Più nel dettaglio, affinché sia
possibile ritenere un soggetto persona di diritto, è necessario – ad avviso del penalista
tedesco - che egli adempia ai suoi doveri nei confronti dello Stato, ovvero, in alternativa,
che lo si tenga in pugno per evitare che diventi pericoloso per l’ordinamento giuridico
stesso. Al contrario, «laddove invece egli imperversi, lo si deve combattere, e laddove
egli potrebbe imperversare, ci si deve cautelare» (279). Infatti, «essere-persona-in-diritto è
qualcosa di reciproco: nel senso che l’altro deve “cooperare”, oppure lo si deve avere in
pugno, dunque egli deve essere sufficientemente innocuo» (280). Tutto ciò si comprende
sol ove si consideri che ogni persona è tradizionalmente intesa come portatrice sia di
diritti, che di doveri nei confronti dello Stato.
A tal proposito, è bene precisare che, secondo l’Autore, occorre distinguere l’ipotesi
in cui il soggetto non adempia ai suoi obblighi nei confronti dell’ordinamento una sola o
poche volte, dall’ipotesi in cui egli non vi adempia ripetutamente ovvero si ponga, più in
generale, contro il sistema. Ebbene, se il soggetto non adempie all’obbligo una sola volta
o poche volte, non vi sarebbero ancora i presupposti sufficienti per estrometterlo
dall’ordinamento come non-persona. Egli, infatti, rimarrebbe persona in diritto, ossia
cittadino. In tal caso, infatti, il bene primario della sicurezza dello Stato potrebbe essere 277() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 109. 278() In questi termini, v. anche G. JAKOBS, I terroristi non hanno diritti, cit., p. 8. 279() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 110. 280() Ibidem.
116
di nuovo riaffermato con l’inflizione della pena. Ne consegue che, per Jakobs, chi mostra
fedeltà sistemica nei confronti dell’ordinamento può essere trattato come persona in
diritto.
Diverso sarebbe, invece, il discorso per il “nemico per principio” (281), ossia il nemico
della società costituzionalmente fondata sulla libertà. In tale ottica, il riferimento
d’obbligo è, appunto, al terrorista islamico che, per ragioni religiose od ideologiche, si
pone contro l’ordinamento giuridico costituito dei Paesi occidentali. Nei confronti di tali
individui, quindi, la cui vita è improntata al crimine in maniera duratura, si infrangerebbe
la presunzione di comportamento fedele al diritto. In tal modo, verrebbe automaticamente
meno la condizione principale per riconoscere loro lo status di persona in diritto. Chi non
mostra fedeltà nei confronti dell’ordinamento, infatti, merita – ad avviso dell’Autore - di
essere trattato come non-cittadino, non persona in diritto, non titolare di diritti: è nemico
per l’ordinamento. Nello Stato di diritto, dunque, l’esclusione dall’ordinamento sarebbe
pur sempre autoesclusione, ossia conseguenza di un comportamento dell’individuo
stesso.
L’espressione diritto penale del nemico, quindi, significa – a dire di Jakobs - che il
nemico viene escluso dall’ordinamento come consociato, viene escluso dal godimento di
alcuni suoi diritti. Esso, tuttavia, sarebbe pur sempre diritto nella misura in cui vincola lo
Stato nella lotta contro il nemico (282) per difendere i suoi cittadini. Comunque, il
Feindstrafrecht costituirebbe una extrema ratio nel moderno Stato di diritto, una
disciplina eccezionale, destinata a rimanere in vigore a tempo determinato.
Per Jakobs, il “nemico” del diritto penale del nemico è il delinquente e non l’hostis,
ossia il nemico esistenziale di Carl Schmitt. Nei confronti del medesimo, però, a 281() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 117. 282() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 119
117
differenza di ciò che accade nell’ambito del diritto penale del cittadino per il delinquente
comune, non sarebbe sufficiente l’inflizione di una pena proporzionata alla colpevolezza.
Al contrario, bisognerebbe procedere nei suoi confronti prima della commissione del
fatto, in un’ottica di anticipazione della tutela, ovvero in aggiunta alla pena,
predisponendo un idoneo apparato di sicurezza.
Prima caratteristica del diritto penale del nemico secondo lo studioso è, quindi,
l’anticipazione della punibilità ovvero l’incriminazione in via preventiva (283). Esempio
emblematico si avrebbe, appunto, in materia di terrorismo, con la norma che incrimina la
formazione di associazioni terroristiche (284). Il diritto penale del nemico – ritiene lo
studioso - si contrappone, pertanto, al diritto penale del cittadino (285), nell’ambito del
quale la pena viene inflitta per il fatto commesso ed è proporzionata alla colpevolezza del
reo.
Altri caratteri del diritto penale del nemico sarebbero, poi, la custodia preventiva
legittima ovvero una pena privativa della libertà personale particolarmente afflittiva (286).
Il Feidstrfrecht avrebbe, inoltre, risvolti sul piano del diritto processuale (287). Anche
in tale ambito, infatti, bisognerebbe distinguere, da un lato, il processo per l’”imputato”,
ossia per la persona di diritto, corredato da tutte le garanzie classiche del processo penale
di tipo accusatorio, dall’altro lato, invece, il processo penale nei confronti
dell’”individuo”, ossia del nemico. Tale ultima forma di processo sarebbe caratterizzata 283() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 121. 284() Nell’ordinamento tedesco, v. §§ 129 a, 129 b StGB. 285() In particolare, circa le diverse funzioni che caratterizzano, da un lato, il diritto penale del nemico, dall’altro, il diritto penale del cittadino, l’A. osserva che, a differenza del diritto penale del cittadino che assicura la vigenza del diritto, «il diritto penale del nemico, in particolare il diritto direzionato contro i terroristi, ha più il compito di garantire sicurezza che quello di mantenere la vigenza del diritto, il che è rilevabile a livello dello scopo della pena e delle fattispecie criminose pertinenti». Così G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 124. In termini analoghi, v. anche G. JAKOBS, Diritto penale del nemico, cit., p. 19. 286() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 123. 287() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 124.
118
da alcune frizioni con i principi classici del processo penale che, tuttavia, sarebbero
legittime, in quanto rivolte ad un soggetto che non è più persona di diritto per
l’ordinamento, ma individuo e, in quanto tale, privo di diritti umani. La privazione di tali
garanzie sarebbe, quindi, legittima per garantire il bene superiore della sicurezza, che lo
Stato deve comunque assicurare ai propri cittadini.
Principi propri del moderno processo penale accusatorio – precisa il giurista - sono,
com’è noto, il diritto ad essere ascoltato in giudizio, il diritto a richiedere l’acquisizione
di prove; ad essere presente agli interrogatori e, specialmente, il diritto a non essere né
ingannato, né costretto, né soggetto a forme di induzione, al fine di rendere dichiarazioni
(ossia il divieto di tortura).
Al contrario, il sistema processual-penale del nemico si caratterizza, per Jakobs,
innanzitutto, per la carcerazione preventiva, sub species di custodia cautelare, la quale,
però, non si basa, in tal caso, sui classici presupposti normativi, quali il pericolo di fuga o
il pericolo di inquinamento delle prove. Essa è invece rivolta contro l’individuo in quanto
tale, depauperato dei diritti umani, sottoposto a carcerazione preventiva perché «diviene
pericoloso per l’ordinato andamento del processo, vale a dire si comporta, in questa
contingenza, come nemico».
Altre fattispecie riconducibili al paradigma del diritto processuale penale del nemico
sono – ad avviso del penalista tedesco - tutte quelle ipotesi in cui un individuo è coartato
dall’intervento dello Stato. Questo avverrebbe, ad esempio, in caso di (288): estrazione di
sangue (289), misure di vigilanza, controllo delle telecomunicazioni (290), investigazioni
288() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità o, cit., p. 124.289() Il riferimento normativo, in tal caso, è al § 81 a StPO. 290() La norma è il § 100 a StPO.
119
segrete (291), impiego di investigatori nascosti (292). In tutte questi casi disciplinati
dall’ordinamento giuridico tedesco, infatti, il soggetto rimane all’oscuro dell’attività di
indagine che lo Stato sta svolgendo nei suoi confronti. In tal modo verrebbe violato il suo
diritto alla riservatezza, nonché il suo diritto ad essere informato circa l’attività di
investigazione posta in essere, la quale non potrebbe neanche essere così sottoposta al
vaglio dell’autorità giudiziaria. Il diritto processuale penale del nemico avrebbe, dunque,
come scopo l’eliminazione dei pericoli derivanti da terrorismo (293). Un esempio delle
misure prese a tal fine sarebbe, in Germania, quella che vieta i contatti tra presunto
terrorista e proprio avvocato al fine di impedire pericoli per la vita, l’integrità fisica o la
libertà di altre persone (294).
Gli istituti di diritto processuale penale “del nemico” sopradescritti – ritiene lo
studioso - non devono essere considerati come cose orribili. Essi, infatti, servirebbero per
difendere la società dai suoi nemici. Anche in questo caso, infatti, tali misure sarebbero
legittime in quanto non si rivolgono nei confronti di un cittadino, bensì nei confronti di
un individuo, che non è più soggetto di diritto, poiché ha violato i suoi obblighi di fedeltà
nei confronti dello Stato.
Tuttavia, anche nell’ambito del diritto penale (e processual-penale) del nemico, a
mente del penalista tedesco, devono essere accordate una serie di garanzie (295), affinché
esso diventi tollerabile nello Stato di diritto e ne vengano, altresì, attenuate le differenze 291() L’istituto è previsto dal § 100 c StPO.292() È il § 110 a StPO.293() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 125. 294() Si fa riferimento ai §§ 31 ss. EGGVG. 295() È bene precisare come, al di là della mera affermazione di principio, Jakobs, nell’elaborazione della sua teoria, non si preoccupa minimamente di individuare una serie di garanzie che non possono essere violate neppure dal diritto penale del nemico, affinché questo permanga legittimo all’interno del moderno Stato di diritto. Questa, infatti, è una delle maggiori critiche che è stata rivolta allo studioso. Per converso, il dibattito dottrinario che si sviluppato sul tema è stato principalmente volto all’individuazione di una serie di limiti oltre i quali neanche il diritto penale del nemico può andare, pena la sua illegittimità nel sistema penal-processualistico liberale. Sul punto, v. infra.
120
rispetto al diritto penale del cittadino. Il diritto penale del nemico sarebbe, così, legittimo,
ma entro certi limiti. Esso andrebbe limitato allo stretto necessario e sarebbe, anzitutto,
necessario privare il terrorista della propria libertà di comportamento, mediante la
carcerazione preventiva (296).
La teorica del diritto penale del nemico è stata elaborata da Jakobs non in senso
descrittivo, ossia per descrivere un tipo di legislazione storicamente esistente, bensì in
senso normativo, ossia al fine di elaborare una dottrina, avente portata generale (297), che
si attagliasse a diverse fattispecie concrete. Essa, quindi, è destinata a trovare
applicazione – secondo lo studioso - anche nei confronti di altro tipo di criminalità,
specie se organizzata, come nel caso di criminalità economica, traffico illecito di sostanze
stupefacenti ovvero di alcuni tipi di delinquenti sessuali. Il nemico per l’ordinamento,
infatti, non sarebbe solo il nemico totale, come appunto il terrorista islamico, ma anche il
nemico parziale, come ad esempio, il criminale economico, lo spacciatore, il mafioso, lo
stupratore e tutte quelle altre figure di criminale, riconducibili alla legislazione “di lotta”
tedesca (298).
Poste queste premesse sui caratteri generali del diritto penale del nemico, l’Autore si
esprime, poi, su quelle manifestazioni che esso ha avuto in Germania. In primo luogo, per
quanto riguarda la Luftsicheeheitsgesetz, ossia la Legge sulla Sicurezza Aerea, egli
osserva che, all’interno del moderno Stato di diritto, «non si addice che alcuni debbano
sacrificare se stessi e così dismettere tutte le proprie aspettative di fortuna» (299). Tale
legge, infatti, non prevede solo il sacrificio delle vite dei terroristi dirottatori, che però
non hanno diritto ad alcuna tutela da parte dello Stato. Essa, infatti, sacrifica anche le vite 296() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 126. 297() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p.117. 298() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 117.299() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 127.
121
di cittadini che si sono sempre comportati fedelmente nei confronti dell’ordinamento ed
hanno perciò diritto di essere tutelati come persone in diritto. Non è, quindi, ammissibile
il sacrificio della loro vita a vantaggio di altre.
In secondo luogo, il penalista tedesco si esprime in merito alla tortura. A tal proposito
egli ritiene che non sono consentite nell’ordinamento vere e proprie forme di tortura, ma
solo un uso moderato - sebbene doloroso - di coercizione, al fine di estorcere dai terroristi
informazioni ed impedire così la commissione di quei reati e quegli attentati che essi
avevano programmato con altri (300). Questa forma blanda di coercizione non avrebbe
nulla a che fare con il vero e proprio diritto penale del nemico, poiché essa sarebbe
utilizzata al solo fine di ottenere dai terroristi l’adempimento del dovere di fedeltà nei
confronti dello Stato e consentire corrispondentemente a quest’ultimo di adempiere al suo
obbligo di protezione nei confronti dei suoi cittadini. Tale misura non avrebbe carattere
depersonalizzante. In caso di terrorismo, infatti, che è un caso eccezionale, potrebbe
essere ottenuto l’adempimento di un obbligo nel diritto processuale mediante l’uso della
forza, cosa che normalmente non accade (301).
2. Le radici storiche e filosofiche del fenomeno.
300() È di tutta evidenza che questa forma moderata di coercizione che, secondo l’Autore non sarebbe tortura, in realtà, è essa stessa vera e propria forma di tortura. 301() In particolare, l’A. afferma: «[…] di fronte ad un moderato, quantunque doloroso impego della forza, tutto ciò non ha nulla a che fare con un diritto penale del nemico, piuttosto si tratta semplicemente di coercizione, ma di coercizione diretta a ottenere l’adempimento di obblighi e non depersonalizzante. Certo l’adempimento degli obblighi nel processo penale non viene usualmente strappato con la forza, ma in casi eccezionali ci si può ben comportare in maniera diversa». Così, G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 128.
122
Ricostruita nel dettaglio la teorica di Jakobs, appare opportuno, a questo punto,
soffermarsi sulle radici filosofiche (302) e sui precedenti storici del diritto penale del
nemico. In particolare, dal punto di vista dell’elaborazione teorica, ne sono state ravvisate
tracce addirittura in Aristotele (303) e Cicerone (304) – il quale aveva appellato i pirati come
hostes humani generis – e, via via, discendendo fino a Rousseau, Fichte, Hobbes e Kant.
Si può ritenere, infatti, che il diritto penale del nemico abbia basi filosofiche (305),
essendo scaturito, in particolare, dal giusnaturalismo del Sei-settecento (306). Più nel
dettaglio, durante l’Illuminismo giuridico, si sosteneva che la Costituzione dello Stato
sarebbe da identificarsi con il patto sociale, generato dalla transizione dallo stato di natura
allo stato civile. Il delinquente, con la commissione del crimine, si svincolerebbe dal
contratto sociale e ricadrebbe nello stato di natura.
Jakobs si rifà, quindi, a quella tradizione filosofica moderna (307) che ha riconosciuto
al diritto penale un ruolo di legittima risposta, in termini di intervento contro i nemici
della cosa pubblica, che, almeno a certe condizioni, perderebbero il ruolo ed i diritti dei
cittadini. L’Autore, infatti, esamina espressamente il pensiero di Leibniz, Fichte e Kant,
evidenziando come, per quest’ultimo, il delinquente, con la commissione del reato,
perderebbe il suo status di cittadino, quindi la sua personalità di diritto, ma non la sua
personalità innata che sarebbe, invece, incancellabile. Più nel dettaglio, lo studioso 302() Sul conetto di nemico nella filosofia del diritto e dello Stato, v. ampiamente K. AMBOS, Il diritto penale del nemico, cit., p. 31. 303() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 21. 304() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 21.305() Per una approfondita analisi della genesi filosofica del diritto penale del nemico, v. V. SCORDAMAGLIA, Il “diritto penale del nemico”, e le misure di prevenzione in Italia: a sessant’anni dalla Costituzione, in Giust. pen., II, 2008, c. 193; nonché G.P. FLETCHER, I fondamenti filosofico-giuridici della repressione del terrorismo, in M. Donini-M. Papa, Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, 2007, p. 363. 306() In tal senso, v. V. SCORDAMAGLIA, Il “diritto penale del nemico”, e le misure di prevenzione in Italia: a sessant’anni dalla Costituzione, cit., p. 203. 307() Una vasta esplicazione delle basi filosofiche di questa nuova species di diritto penale si trova in G. JAKOBS, Diritto penale del nemico, cit., p. 9.
123
tedesco prende le mosse dal pensiero contrattualistico di Rousseau e Fichte, nei quali la
rottura del contratto sociale attuata con il delitto fa perdere al cittadino il suo status,
rendendolo nemico della società. Jakobs, tuttavia, rigetta questa concezione radicale che
farebbe di ogni delinquente un nemico. Egli, al contrario, ritiene più adeguata l’idea di
Hobbes e Kant che riconnettono la perdita dei diritti di cittadino solo al caso di alto
tradimento, per Hobbes, ovvero al caso di minaccia costante alla sicurezza, per Kant (308).
Poste queste premesse, è bene evidenziare come Jakobs si rifaccia principalmente al
pensiero di Hobbes (309). Quest’ultimo - come si è detto - distingue tra il cittadino che
delinque ed il reo di alto tradimento. Il primo viene condannato secondo la legge; il
secondo, invece, viene combattuto come nemico. Questa differenza di trattamento si
giustificherebbe in considerazione del fatto che il primo cerca semplicemente un singolo
vantaggio. Questo ovviamente non può essere tollerato dallo Stato, ma egli non mette
comunque in discussione il contratto sociale. Al contrario, il reo di alto tradimento
combatte contro il principio che, per Hobbes, è il potere concreto.
Nel corso del XX secolo, il diritto penale del nemico è poi transitato dall’elaborazione
meramente teorica alla manifestazione nella concreta realtà fenomenica, per mezzo di
leggi lesive dei diritti umani fondamentali (310). Questo è accaduto nel sistema comunista
sovietico e durante la dominazione nazista. Non ne è andata esente nemmeno l’Italia
fascista, ove ne sono state un esempio quelle leggi che hanno privato della cittadinanza
308() Sulle radici filosofiche della teoria del diritto penale del nemico in Günter Jakobs, v. M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, in A. Gamberini-R. Orlandi, Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, p. 142. 309() Cfr. G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 116. 310() In argomento, v. G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 21.
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gli esuli politici, nonché quelle norme panali speciali del 1926 in cui si parlava di difesa
dello Stato (311)
Il diritto penale del nemico non era del tutto sconosciuto neanche nell’ambito
dell’elaborazione giuridica tedesca (312). In tale ottica, le origini della teorizzazione
amico-nemico risalgono all’opera di un famoso costituzionalista d’oltralpe. Di questo ne
è conscio lo stesso Jakobs che, dichiaratamente, si rifà al pensiero di Carl Schmitt ( 313),
per poi, certo, differenziarsene, creando – come si è detto - un proprio concetto di nemico
e di diritto penale del nemico (314).
In particolare, per Schmitt il nemico era l’hostis, l’avversario esistenziale. Più
esattamente, egli distingue nettamente tra l’amico (Freund) ed il nemico (Feind). Il
nemico politico è l’altro, lo straniero. Nei confronti del medesimo, in casi di emergenza, 311() Nei mass media, invece, non era infrequente che si parlasse di «nemici dello Stato». Sul punto, v. amplius, G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, p. 21. 312() È stato efficacemente osservato (E.R. ZAFFARONI, Alla ricerca del nemico: da Satana al diritto penale cool, in E. Dolcini-C.E. Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, I, Milano, 2006, passim) come la ricerca e l’identificazione dei nemici abbia rappresentato la funzione costante del potere punitivo, nell’arco degli ultimi otto secoli. Per limitarsi agli esempi più recenti, basti pensare al marxismo in Russia, all’idealismo in Italia ed al razzismo in Germania.
In tutti e tre i regimi, infatti, i soggetti pericolosi furono assoggettati ad un sistema penale parallelo, a tribunali inquisitori o di polizia: così fu per i “parassiti” nel regime sovietico, i “subumani” nel regime fascista, i “nemici” in quello fascista. Veri e propri sistemi penali sotterranei, caratterizzati da scomparse, torture ed esecuzioni di polizia, individuali e di massa, prive di qualsivoglia base legale. La legislazione penale di questi regimi autoritari presentava solo esteriormente la facciata di un sistema penale formale ed alcuni tratti di un sistema penale parallelo. Ad un livello più profondo, tuttavia, operava un sistema sotterraneo, privo di leggi e di limiti.
In questi regimi autoritari si aveva una legislazione speciale del nemico per profonde ragioni ideologiche. Da un lato, infatti, tale legislazione penale, dal carattere autoritario e volta a reprimere l’altro, si rivolgeva agli autocrati, che gli ideatori dei testi legislativi del regime dovevano compiacere; dall’altro lato, si rivolgevano al pubblico, ai cittadini, per fini propagandistici. In via soltanto secondaria, tale legislazione era rivolta a reprimere i nemici, identificati con gli stranieri o hostes. Il carattere di tali norme era la loro spettacolarità. Il diritto penale del nemico non è, quindi, una novità assoluta: si vuole con esso stimolare nella collettività la ricerca del nemico di turno. 313() Per una compiuta ricostruzione del pensiero dell’Autore, v. C. SCHMITT, Le categorie del politico, Bologna, 1972. In particolare, circa l’elaborazione teorica di tale costituzionalista tedesco, è stato osservato in dottrina, che: «Fu Schmitt a disvelare, come nessun altro prima, l’intima essenza del potere consistente nella potestà di identificare ed escludere il nemico, lo straniero, l’hostis. Sulla base della premessa – hobbesiana – che lo Stato sia l’unica istituzione idonea a garantire la pace, affermò come ad esso competa necessariamente la facoltà di identificare ed escludere il nemico, non potendosi attribuire ad alcun soggetto terzo la potestà di decidere sul conflitto». Così E.R. ZAFFARONI, Alla ricerca del nemico: da Satana al diritto penale cool, cit., p. 770.314() Sul punto, v. supra § 1.
125
sarebbe ammissibile intervenire al di là delle norme prestabilite e senza l’intervento del
giudice, quale arbitro terzo e imparziale (315). Tuttavia, secondo Schmitt, il nemico non è
non-persona, bensì colui che deve essere combattuto per ragioni riguardanti la cosa
pubblica (316).
Tra le critiche che sono state mosse nei confronti di Jakobs vi è, tra le altre, quella di
aver fatto rivivere un passato recente, per mezzo del riferimento a Carl Schmitt, filosofo e
giurista dello Stato nazionalsocialista tedesco e di aver mostrato, in tal modo,
un’implicita adesione non solo per il suo diritto penale del nemico, ma anche per la sua
ideologia. Altri (317), tuttavia, hanno escluso in radice che Jakobs possa aver avuto anche
propensione per quella ideologia, poiché egli, in realtà, è sempre stato un attento e fine
giurista.
3. Le critiche della dottrina alla concezione di Jakobs.
La concezione di Jakobs - che postula accanto al diritto penale tradizionale, ispirato ai
principi liberal-democratici dello Stato di diritto, la validità, in via generale, di un diritto
penale del nemico (318), volto all’annientamento (Vernichtung) (319) del nemico assoluto –
315() Più esattamente, secondo Schmitt, «la specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni ed i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind). Il significato della distinzione di amico e nemico è di indicare l’estremo grado di intensità di una unione o di una separazione, di una associazione o di una dissociazione. Il nemico politico è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde), per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possono venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”». Così, C. SCHMITT, Il concetto, cit., p. 108316() Sulla ricostruzione del pensiero di Schmitt, v. M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», in Cass. pen., 2006, p. 739. 317() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 22. 318() Alcuni hanno addirittura messo in evidenza come parlare di un diritto penale del nemico sia un ossimoro, poiché «la figura del nemico appartiene alla logica della guerra, che del diritto è la negazione». Così, L. FERRAJOLI, Il «diritto penale del nemico» e la dissoluzione del diritto penale, in Quest. giust., 4, 2006, p. 799.319() Così, F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, in Soc., 3, 2009, p. 18.
126
è stata apprezzata nella misura in cui ha avuto il merito di riaprire il dibattito (320) circa la
generale ammissibilità di una siffatta forma di diritto penale. Tuttavia, nel merito, tale
ricostruzione è stata ampiamente criticata dalla dottrina sotto molteplici punti di vista,
primo fra tutti, sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e delle
garanzie proprie dei sistemi processual-penalistici liberali.
Innanzitutto, in dottrina è stato mostrato disappunto per le stesse premesse teoriche da
cui il penalista tedesco parte per l’elaborazione della sua teoria. Sotto tale profilo, è stato
criticato lo stesso binomio nemico/cittadino prospettato da Jakobs. In particolare, si è
320() Negli ultimi anni è proliferata, anche in Italia la letteratura sul diritto penale del nemico: T. PADOVANI, Il nemico politico e il suo delitto, in A. Gamberini – R. Orlandi ( a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, p. 73; F. MUÑOZ CONDE, Delitto politico e diritto penale del nemico, ivi, p. 85; G. LOSAPPIO, Diritto penale del nemico, diritto penale dell’amico, nemici del diritto penale, ivi, p. 251; A. CAVALIERE, Diritto penale “del nemico” e “di lotta”: due insostenibili legittimazioni per una differenziazione secondo tipi d’autore, della vigenza dei principi costituzionali , ivi, p. 265; nonché in Crit. dir., 2006, 4, p. 295; K. AMBOS, Il diritto penale del nemico, cit., p. 29; M. CANCIO MELÍA, “Diritto panale” del nemico?, in M. Donini-M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, 2007, p. 65; T. Hörnle, Dimensioni descrittive e normative del concetto di “diritto penale del nemico”, ivi, p. 105; F. MUÑOZ CONDE, Il nuovo diritto penale: considerazioni sul così detto diritto penale del nemico, ivi, p. 129; C. PRITTWITZ, “Diritto penale del nemico”, ivi, p. 139; D. PULITANÒ, Lo sfaldamento del sistema penale e l’ottica amico-nemico, in Quest. giust., 4, 2006, p. 741. In particolare, quest’ultimo Autore trae spunto dal dibattito sorto in tema di diritto penale del nemico per riscontrare la sussistenza di una logica binaria amico-nemico nell’ambito della legislazione italiana degli ultimi anni, molto al di là della mera problematica del terrorismo internazionale. In quest’ottica, per delitto penale dell’amico – che sarebbe qualcosa di ancora diverso dal diritto penale del cittadino – si dovrebbe intendere quella legislazione penale ad personam in senso lato, che si caratterizzerebbe, poiché, a differenza del diritto penale del cittadino, non sarebbe ispirata al principio di responsabilità. Esempi ne sarebbero le riforme in tema di diritto penale societario, legittima difesa (l. n. 59/2006), prescrizione (legge ex-Cirielli, n. 251/2005), reati d’opinione e diritto penale politico. Sarebbero, invece, espressione di diritto penale del nemico, quale legislazione penale contra personas, le riforme in tema di: recidiva (legge ex-Cirielli, n. 251/2005), associazioni mafiose, pedofilia, terrorismo, misure di prevenzione, omicidi colposi derivanti dalla circolazione stradale o sul lavoro, traffico o detenzione di sostanze stupefacenti. Insomma, saremmo in un’epoca del vero e proprio «diritto penale della disuguaglianza». Così D. PULITANÒ, Lo sfaldamento del sistema penale e l’ottica amico-nemico, cit., p. 746. In verità, molta parte della dottrina si è mostrata favorevole ad una logica espansiva del diritto penale del nemico, ricomprendendo nel suo ambito legislazioni del tutto diverse da quella di contrasto al terrorismo internazionale, come ad esempio in tema di recidiva, prescrizione del reato, misure alternative. In tal senso, cfr. L. EUSEBI, Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, in Arch. Giur., 2009, p. 448. Tuttavia, scopo della presente indagine è quello di analizzare in via esclusiva la problematica “del diritto penale del nemico in senso stretto” ovvero “in senso forte” (su cui v., ampiamente, infra), depurandolo da forme ibride, che “del nemico”, non sono. In quest’ottica, del resto, si è mossa la gran parte della dottrina. In tal senso, è stato efficacemente sottolineato come «l’emergenza» che mette alla prova «i diritti fondamentali» non sia quella «falsa» dei fenomeni microsociali e della paura sociale che essi generano, bensì quella derivante dal terrorismo internazionale. Così, G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, in Giur. it., p. 782.
127
messo in evidenza come, in una prospettiva duale, al nemico, in realtà, non si
contrapponga il cittadino, bensì l’amico (321) e, correlativamente, al cittadino non si
contrapponga il nemico, bensì lo straniero (322). Ma nelle opere di Jakobs non vi sarebbe
alcuna traccia della contrapposizione diritto penale del nemico/diritto penale dell’amico
(323) ovvero diritto penale del cittadino/diritto penale dello straniero. Nonostante ciò, di
fatto il nemico di Jakobs sfocerebbe apertamente verso il concetto di straniero (324).
Sempre nell’ottica delle basi su cui la teoria del penalista tedesco si fonda, è stato
evidenziato (325) che, ad essere inaccettabile, - questa volta dal punto di vista della teoria
generale del diritto - è la stessa accezione di “persona” fatta propria da Jakobs
(espressione che, poi, si identifica, tra l’altro, con il concetto di “cittadino”), posto che
egli utilizza tale termine in senso atecnico. Com’è noto, infatti, per “persona”,
nell’ambito della teoria generale del diritto, si intende il titolare di diritti soggettivi e,
unica condizione per essere tale, è quella di essere uomo. Ne consegue che persone
fisiche sono tutti gli individui appartenenti al genere umano (326). Per Jakobs, invece, non
tutti i soggetti sono persone, ma bisogna distinguere, da un lato, le “persone” e, dall’altro
lato, gli “individui”: solo i primi sono titolari di diritti umani. Quindi, lo status di persona
sarebbe precondizione per veder tutelati i propri diritti fondamentali e non già per essere
semplicemente fruitore di diritti soggettivi. Sotto tale profilo, Jakobs è stato criticato (327)
anche perché, definendo il nemico “non-persona” (Unperson), egli sottintende che il
Feind possa essere spogliato di tutti quei diritti che il diritto penale tradizionalmente 321() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, in Cass. pen., 2010, p. 1460.322() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2461.323() Com’è noto, invece, il binomio amico/nemico risale a Carl Schmitt. Sul punto, v. supra § 2. 324() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2461.325() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2463.326() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2464. 327() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 22.
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riconosce alla persona, per essere addirittura trattato come “cosa”. Il che è ovviamente
inaccettabile nel moderno Stato di diritto, ove nessuno può essere privato di quelle
garanzie riconosciutegli dal diritto interno ed internazionale.
Altra parte della dottrina (328) ha messo in evidenza come, nell’elaborazione teorica di
Jakobs, non vi sia neppure corrispondenza tra la nozione generale di nemico, da un lato, e
le fattispecie concrete che poi vengono ad essa ricondotte, dall’altro. Infatti, il concetto di
nemico sembrerebbe ritagliato sulla figura del terrorista internazionale: il nemico “per
principio”, che mina in radice l’esistenza stesso dello Stato. Tuttavia, poi gli esempi di
nemico non corrispondo più al tipo di autore che ha ispirato il concetto: le misure di
sicurezza, la legislazione penale economica e sessuale, presenterebbero, infatti, solo
alcuni caratteri di diritto penale del nemico, ma in realtà – secondo questa dottrina - sono
più correttamente espressione della legislazione penale di lotta.
In tale prospettiva, è stato, quindi, sottolineato (329) come Jakobs sarebbe incorso
nell’errore di aver ricompreso nell’ambito del diritto penale del nemico anche fattispecie
che sono più propriamente espressione del diritto penale di lotta. Al contrario,
quest’ultimo sarebbe assolutamente diverso dal primo, essendo inammissibile il primo,
ammissibile a certe condizioni il secondo (330). Altri (331), invece, hanno semplicemente
evidenziato come la portata degli istituti ricondotti da Jakobs sotto il nomen di diritto
penale del nemico sia troppo estesa, avendovi fatto egli rientrare anche fattispecie che, in
realtà, con esso non hanno nulla a che vedere, come, ad esempio, le misure di sicurezza
328() M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 144.329() M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. ?. 330() Sui limiti di ammissibilità del diritto penale di lotta, v. M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 768. 331() È di tale opinione G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 22.
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personali. In tal modo, i confini del diritto penale del nemico diventerebbero troppo ampi
e, soprattutto, fumosi.
Altro errore in cui sarebbe incorso Jakobs è – ad avviso di autorevole dottrina (332) -
quello di aver contrapposto il diritto penale del nemico al diritto penale del cittadino,
come se i medesimi fossero due aree del diritto penale di uguale peso ed estensione. Al
contrario, così non può essere, perché anche a voler ammettere l’ammissibilità di un
diritto penale del nemico, questo non può che essere solo una piccola species del genus
diritto penale, occupandone, pertanto, uno spazio limitato, delimitato dall’emergenza,
poiché comunque caratterizzato dalla violazione dei diritti fondamentali dell’uomo.
La dottrina è, pertanto, pressoché unanime (333) nel rimproverare al penalista tedesco
di non essersi assolutamente preoccupato di ricercare – al di là delle mere affermazioni di
principio - i limiti di legittimità alle categorie introdotte, manifestando così indifferenza
ai profili costituzionali del problema.
Al di là delle specifiche critiche rivolte nei confronti dell’impianto di Jakobs, l’aspetto
più interessante del dibattito dottrinario sorto è stato sicuramente quello che ha
riguardato, più in generale, l’ammissibilità o meno di un diritto penale del nemico
all’interno del moderno Stato di diritto.
Sotto tale profilo, è possibile distinguere in dottrina tre diversi orientamenti. Alcuni
ritengono che il diritto penale del nemico sia assolutamente incompatibile con il diritto
penale classico, sia altro rispetto al vero e proprio diritto penale e debba, quindi, essere
bandito dagli ordinamenti giuridici di epoca contemporanea. Altri, invece, distinguono tra
un diritto penale del nemico ed un diritto penale di lotta, ritenendo ammissibile – a certe
condizioni – solo il secondo. Altri ancora ritengono che il vero e proprio diritto penale 332() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 24. 333() Ex pluribus, cfr. M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 146.
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del nemico possa trovare spazio, nel nostro ordinamento, solo in presenza di una
situazione di emergenza. In tale ottica, parte della dottrina prende atto del fatto che tale
forma di diritto è ormai diritto vigente nell’attuale momento storico e si preoccupa,
quindi, di tratteggiarne i limiti entro i quali esso possa essere ritenuto legittimo e
compatibile con i principi liberal-democratici.
La maggior parte degli Autori (334) ritiene che il diritto penale del nemico sia
assolutamente incompatibile con i principi cardine dello Stato di diritto in materia di
diritti fondamentali e di garanzie penali e processuali liberali. Di conseguenza, esso
andrebbe bandito tuot court dai moderni ordinamenti giuridici. Nell’ambito di questo
orientamento, poi, alcuni (335) precisano che non si può neanche ritenere, come fa parte
della dottrina, che fenomeni cruenti come il terrorismo internazionale possano essere
fronteggiati con gli strumenti classici del diritto penale (336), ma, essendo il diritto penale
del nemico comunque inammissibile, bisognerebbe trovare una strada ancora diversa.
Più esattamente, un diritto penale di tal fatta non potrebbe esistere, poiché il nemico
indica colui contro il quale lo Stato è in guerra, ma il diritto penale non è in guerra contro
nessuno. Pertanto, bisognerebbe respingere la dizione diritto penale del nemico (337).
334() Per la dottrina che nega in radice l’ammissibilità di un diritto penale del nemico, v. K. AMBOS, Diritto penale del nemico, cit., p. 58; nonché E.R. ZAFFARONI, El enemigo en el derecho penal, Ciudad de Mèxico, 2006, passim. Più esattamente, quest’ultimo Autore ritiene che la categoria giuridico-politica del nemico proposta da Jakobs sia incompatibile con il modello di diritto penale liberale. Infatti, ad avviso dell’A., tra Stato di diritto e Stato di polizia, non vi sarebbe un tertium genus. E ciò perché, se si cercassero dei limiti di ammissibilità al diritto penale del nemico anche all’interno del moderno Stato di diritto, si rischierebbe di sfociare in una vera e propria normalizzazione dello stato d’eccezione, con il rischio di una completa deriva autoritaria. Anche altra parte della dottrina (G. INSOLERA, Terrorismo internazionale tra delitto politico e diritto penale del nemico, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 899; nonché – in termini analoghi – ID., Terrorismo internazionale tra delitto politico e diritto penale del nemico, in A. Gamberini –R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, p. 241) è contraria alla logica del diritto penale del nemico nell’ambito della lotta al terrorismo internazionale, poiché esso costituisce la negazione dello stesso diritto penale, quale prodotto storicamente e culturalmente determinato. 335() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2467. 336() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2468. 337() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2469.
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Diverso sarebbe il discorso per il diritto penale di lotta - esempi, in Italia, ne sono la lotta
contro la mafia o il terrorismo rosso degli anni Settanta - che è, invece, ammissibile,
purché venga inteso nel senso che la lotta non è contro qualcuno, bensì “per il diritto”. In
caso di mafia, associazioni criminali e terrorismo, infatti, si tratterebbe pur sempre di una
lotta che lo Stato porta avanti contro altre istituzioni. In questa affermazione starebbe
quel po’ di verità rintracciabile nella teoria di Jakobs: il terrorista è nemico per principio,
contrapposto alle istituzioni dello Stato. Tuttavia, ad avviso di tale orientamento, Jakobs
erra nella misura in cui vede il nemico dello Stato nel singolo terrorista e non già
nell’istituzione cui questi fa riferimento (338). Ebbene, l’errore risiederebbe nel fatto di
ravvisare il diritto penale quale strumento che lo Stato può utilizzare per combattere
contro l’istituzione nemica. Al contrario, tale scopo è estraneo al diritto penale. A questi
attacchi alle istituzioni bisognerebbe rispondere in maniera che sia di volta in volta
adeguata, senza che si possa individuare aprioristicamente una soluzione valida per tutti i
tempi e tutti i luoghi. Un esempio, nell’attuale momento storio, potrebbe essere il ricorso
alla legittima difesa, secondo i dettami del diritto internazionale.
Ad avviso di un secondo orientamento (339), invece, bisogna distinguere nettamente tra
diritto penale del nemico, da un lato, e diritto penale di lotta (340), dall’altro. Il primo 338() Ibidem. 339() M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 741. 340() Secondo l’A. (M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 742), sarebbe possibile distinguere tre diverse accezioni di diritto penale del nemico. Le prime due sarebbero diritto penale del nemico solo in senso debole, poiché, in realtà, esse corrisponderebbero ad altrettante forme di diritto penale di lotta o dell’emergenza, il quale presenta solo alcuni tratti del vero e proprio diritto penale del nemico. Solo la terza accezione, invece, sarebbe vero e proprio diritto penale del nemico e, quindi, inammissibile. Tale ultima forma sarebbe, dal punto di vista dogmatico, il diritto penale del nemico elaborato da Jakobs; dal punto di vista concreto, quello vigente negli Stati Uniti. Tale forma di vero e proprio diritto penale del nemico sarebbe, quindi, inammissibile, in quanto lederebbe i diritti fondamentali dell’uomo e negherebbe quelle garanzie penal-processualistiche che il diritto penale classico assicura al delinquente e all’imputato. Settori di diritto penale di lotta sono – secondo l’A. – le misure di sicurezza personali, le emergenze criminali dipendenti da eccezionali tipi d’autore (terrorismo, mafia e criminalità organizzata), la guerra come reato e la guerra come pena. In tal caso, il diritto penale di lotta verrebbe utilizzato per colpire peculiari tipologie d’autore, secondo scopi di marcata neutralizzazione. Nella seconda accezione, il diritto penale del nemico - che è ancora, lo si ribadisce,
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sempre inammissibile, poiché incompatibile con i principi cardine del sistema penal-
processualistico liberale, il secondo ammissibile, ma entro limiti ben precisi e, del resto,
fenomeno storicamente esistente negli ordinamenti giuridici contemporanei, soprattutto
nel nostro, che è uno dei primi ad aver sperimentato forme di diritto penale di lotta fin
dagli anni Settanta (341). Più nel dettaglio, il diritto penale del nemico in senso proprio è
solo quello teorizzato da Jakobs ed affermatosi negli Stati Uniti dopo l’11 settembre
2001. Esso sarebbe assolutamente inaccettabile, poiché entra in collisione con i diritti
fondamentali dell’individuo e con le garanzie proprie degli ordinamenti processual-
penalistici liberali. Il diritto penale, infatti, è già di per sé lo strumento più autoritario di
cui lo Stato dispone per fronteggiare il fenomeno criminoso ed ha portata escludente nei
confronti del delinquente comune. Proprio al fine di evitare gli effetti negativi che tale
tipo di diritto può produrre, esso si è munito, nel corso dei secoli, di una serie di garanzie:
il diritto del nemico è, pertanto, un diritto non penale e, per questo, non dovrebbe esistere
(342). Esclusa la tollerabilità di un vero e proprio diritto penale del nemico, tale
orientamento ammette solo il diritto penale di lotta, ma entro certi limiti. In via
preliminare, sarebbe, infatti, necessario un controllo democratico su di esso, che potrebbe
attuarsi solo mediante una previsione a livello costituzionale di uno stato d’eccezione, in
diritto penale di lotta – ricomprenderebbe, invece, tutte quelle fattispecie in cui il diritto penale ordinario viene utilizzato nella sua portata stigmatizzante nei confronti di determinati fatti malvisti, per ragioni contingenti, dall’opinione pubblica: in tal caso, per colpire determinati fatti, si etichettano come nemici i loro autori.341() Si fa, in particolare, riferimento al terrorismo politico degli anni Settanta, alla mafia, alla criminalità organizzata, a Tangentopoli, all’immigrazione. Cfr. M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit. p. 135. 342() In particolare, l’A. afferma «Il diritto penale che, da sempre, è lo strumento più autoritario dello Stato, realizza forme legali di esclusione sociale. Esattamente per questo esso ha accentuato nel grado più elevato e raffinato le garanzie. Chi oggi propone di affievolirle dentro allo stesso diritto penale per meglio combattere i “nemici”, prospetta un obiettivo contraddittorio: il diritto del nemico più “efficiente”, quello che combatte o neutralizza come “non persona” […] resta non penale, perché non è costruito sul fatto, ma appunto sull’autore. […] questo tipo di diritto del nemico, oltre a non dover esistere, certo non deve comunque entrare ad inquinare, anziché a preservare surrettiziamente, le garanzie del sistema punitivo ordinario». Così, M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 758.
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virtù del quale sarebbe possibile la deroga ai diritti fondamentali ed alle garanzie
classiche dello Stato liberale (343). Dunque, per rendere legittima la legislazione penale di
lotta, sarebbe necessaria una previsione espressa di stati di eccezione, con una previa
disposizione legislativa di rango costituzionale. La legislazione di lotta, tuttavia, non
dovrebbe mai riguardare la fase del processo ed, in particolare, il dibattimento. Una
legislazione d’emergenza in diritto processuale penale potrebbe al più riguardare la sola
fase delle indagini, munendo gli organi inquirenti di strumenti investigativi più incisivi.
Nel terzo orientamento, infine, rientrano coloro i quali accantonano il problema
dell’ammissibilità in via generale di un diritto penale del nemico così come teorizzato da
Jakobs, poiché prendono atto del fatto che esso è diritto attualmente vigente negli Stati
Uniti per effetto della legislazione post 11 settembre. Depurato, quindi, il fenomeno da
forme ibride, che presentano solo taluni tratti del diritto penale del nemico e che, invece,
rientrano più correttamente nel diritto penale di lotta, costoro passano ad individuare i
limiti di legittimità entro cui il diritto penale del nemico andrebbe ricondotto per renderlo
compatibile con il moderno Stato di diritto.
Nell’ambito di questo orientamento, è stato, così, messo in evidenza (344), innanzitutto,
come il diritto penale del nemico debba essere inteso in senso omnicomprensivo, in
quanto al suo interno rientrano tanto istituti di diritto sostanziale, quanto altri di diritto
processuale ovvero penitenziario. Si è, poi, sottolineato come il sistema postulato da
Jakobs si sia affermato nella nostra epoca nell’ambito della guerra contro il terrorismo
internazionale.
343() È bene sottolineare come questo secondo orientamento si distingua nettamente dal terzo, di cui appresso si dirà. Infatti, ad avviso dell’ipotesi ricostruttiva qui esaminata, la clausola legalitaria di rango costituzionale che disciplina lo stato d’emergenza è configurata per il diritto penale di lotta e non già per il diritto penale del nemico, la cui ammissibilità è esclusa in radice. 344() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 24.
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Per quanto riguarda, inoltre, le condizioni di ammissibilità, secondo tale orientamento
(345), il diritto penale del nemico è legittimo solo se utilizzato per far fronte ad una vera e
propria esigenza difensiva e, quindi, per tutelare il bene primario della sicurezza dello
Stato (346). Conseguentemente, dovrebbe avere una durata limitata all’esigenza difensiva
da fronteggiare. Dovrebbe essere, pertanto, un diritto eccezionale, avente durata
temporanea (347). In tale ottica, è stato altresì messo in evidenza come ulteriore limite per
il diritto penale del nemico sarebbe quello della proporzionalità dell’intervento dello
Stato, ispirata, peraltro, dal principio di ragionevolezza (348).
Altri (349), invece, sono partiti dalla premessa per cui, per il giurista, non vi sarebbero
spazi di ammissibilità di un diritto penale del nemico, al di fuori delle garanzie classiche
del diritto penale comune (350). Tuttavia, posto che esso è di fatto vigente in alcuni
ordinamenti, allora sarebbe opportuno che fosse legislativamente disciplinato per evitare
345() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 32. 346() Non sarebbe, invece, ammissibile un diritto penale del nemico, servente rispetto a motivazioni di carattere ideologico ovvero razziale. Cfr. G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 32. 347() L’A., inoltre, sottolinea come, sebbene il diritto penale del nemico sia anche diritto penale dell’emergenza, non è però vero il contrario, ossia che tutto il diritto penale dell’emergenza è anche diritto penale del nemico. Alcuni settori del diritto penale dell’emergenza, infatti, conserverebbero inalterati i caratteri del diritto penale tradizionale, come, ad es., avviene per la funzione rieducativa della pena. Cfr. G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 34. Anche altri Autori hanno messo in evidenza come il requisito di un ammissibile diritto penale del nemico debba essere la temporaneità. A tal proposito, è stata citata la sentenza della Corte costituzionale n. 15 del 1982 che, in tema di legislazione dell’emergenza, pur riconoscendo il diritto-dovere del Governo e del Parlamento ad incrementare i termini complessivi di durata della custodia cautelare, ha ritenuto requisito indefettibile la temporaneità dell’emergenza. In questi termini, v. G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 784. 348() In questi termini, cfr. G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 785. In particolare, l’A. ricava il limite della proporzionalità dalla giurisprudenza della Corte Suprema d’Israele, Stato, quest’ultimo, ove «l’emergenza è perenne». 349() F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 19. 350() Più nel dettaglio, il diritto penale del nemico è definito quale «diritto super-penale» che presenta una nuova ideologia «contraria a quella per cui il diritto penale liberale è un sistema di garanzie contro gli arbitri del potere». In questi termini si è espresso F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 18.
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«scivoloni nell’illegalità» (351). Bisognerebbe, quindi, creare una legalità ad hoc, ancorata
ad una premessa legalitaria speciale di rango costituzionale (352).
Altri, infine, hanno evidenziato come il diritto penale del nemico in senso proprio sia,
in realtà, un non-diritto, poiché si pone al di fuori dell’assetto di garanzie tracciato dalla
nostra Costituzione e degli obblighi imposti dai trattati internazionali (353). Esso viola i
diritti inderogabili dell’uomo, diventando vero e proprio strumento di annientamento del
destinatario e tale fenomeno è ancor più preoccupante nella misura in cui si manifesta, al
di là di regimi totalitari, all’interno dei moderni Stati di diritto. Esso, dunque, sarebbe
ammissibile solo in presenza di una clausola che disciplini - a livello costituzionale – lo
stato d’eccezione o lo stato d’emergenza (354), al pari di quanto avviene in altri
ordinamenti (355), ove, proprio in virtù di essa, è possibile derogare a taluni diritti
fondamentali, solo ad essi e non a tutti gli altri, diversi da quelli legislativamente
individuati che, quindi, rimangono invalicabili (356).
351() F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 19. 352() In particolare, è stato osservato a tal proposito che «[…] proprio per evitare scivoloni nell’illegalità, si potrebbe ancorare la costruzione settoriale di un super-diritto penale dalla parte della vittima a una premessa legalitaria speciale, meglio se di rango costituzionale. […] se per il successo [nella lotta al terrorismo] è di ostacolo rimanere nella legalità della strategia di contrasto alla criminalità comune, allora occorre creare una legalità ad hoc». Così F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 19. 353() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 25.354() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 26. 355() A tal proposito, l’A. precisa come all’interno del nostro ordinamento manchi una norma costituzionale che disciplina gli stati d’eccezione. Una clausola espressa è prevista solo in caso di guerra difensiva ed è certamente insufficiente a rendere eventualmente legittimo un diritto penale del nemico. In tal senso, v. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 26. 356() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 28.
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4. Le classificazioni dottrinarie in tema di diritto penale del nemico.
Come abbiamo visto, Jakobs fa propria una nozione ampia di diritto penale del
nemico, in quanto ricomprende al suo interno non solo la disciplina volta
all’annientamento del terrorista, quale nemico assoluto, ma anche quella contro il nemico
parziale, espressione del diritto penale di lotta. Tale accezione – lo si è anche visto – è
stata ampiamente criticata dalla dottrina, la quale ha evidenziato come in tal modo si
rischi di far diventare i confini del diritto penale del nemico troppo ampi e fumosi.
Poste tali premesse, è facile comprendere come in dottrina siano emerse diverse
accezioni di nemico e di diritto penale del nemico. In particolare, è stato messo in
evidenza (357) l’emergere di un concetto di nemico in senso debole, in contrapposizione
ad uno, invece, in senso forte. In tale ottica, è stato, peraltro, precisato (358) che il nemico
del diritto penale del nemico è il nemico pubblico (hostis) (359), ossia il nemico delle
istituzioni, della società, dello Stato, il quale si colloca in una prospettiva di rottura
definitiva del patto sociale, e non già, invece, il mero avversario privato (inimicus).
Nemico in senso debole è, quindi, colui il quale presenta ancora i caratteri del mero
criminale. In tale prospettiva, il nemico viene individuato in colui che viola in modo
continuativo le comuni norne di convivenza, ma che non appartiene, però, ad una data
collettività organizzata che si contrappone a quella dei cittadini, come accade invece per
357() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 13. 358() In tal senso, cfr. M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 738. 359() Così anche F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 18. In particolare, l’A. si è espresso nei seguenti termini «La teoria del cd. diritto penale del nemico esclude che il terrorismo sia un reato comune, perché ravvisa in esso un atto di guerra non dichiarata ma di fatto in corso; dunque, la belligeranza esclude che il terrorista possa essere considerato un civis dal momento che è di fatto un hostis; contro di lui serve più imperium e meno jurisdictio e se lo si considera una non-persona si può non riconoscergli la generale garanzia dei diritti umani. L’obiettivo di questa teoria è dunque l’annientamento – Vernichtung – del nemico».
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l’accezione di nemico in senso forte. Nell’ottica debole, infatti, i singoli nemici
mantengono la loro individualità ed autonomia gli uni con gli altri, venendosi a creare tra
di essi solo un legame ex post, derivante dall’appartenenza degli stessi alla categoria.
Secondo l’accezione debole, quindi, il nemico da combattere viene individuato di
volta in volta secondo criteri diversi, ma egli esprime pur sempre un tipo di criminalità
reiterata, avente elevato allarme sociale e, proprio per questo, da stigmatizzare. Sono,
pertanto, qualificati nemici gli autori di reati aventi una certa ricorrenza statistica, come,
ad esempio, gli spacciatori e gli autori di violenza negli stadi, nei confronti dei quali si
deve intervenire come nemici. Oppure si considerano nemici coloro i quali commettono
fatti contrassegnati da particolare disvalore sociale, come gli autori di reati sessuali su
minori. Sono considerati nemici, inoltre, quei soggetti pericolosi, in virtù di un loro
status, come gli immigrati, oppure in forza del loro modus vivendi, come accade per i
recidivi, i delinquenti abituali o per tendenza (360).
Il concetto di nemico in senso forte, invece, presuppone l’adesione ad un gruppo di
persone che mette in discussione l’esistenza di una data comunità ed esprime quindi i
caratteri di una comunità alternativa. In tale ottica, il concetto di nemico assume una
valenza selettiva, in quanto designa l’appartenenza dell’individuo ad una categoria di
soggetti che sono organizzati e diretti a dissolvere l’esistenza stessa della comunità
precostituita. Pertanto, solo se si aderisce alla collettività si appartiene alla categoria del
nemico, secondo una qualificazione ex ante.
Ne consegue che nemico in senso forte è colui che appartiene a forme di criminalità in
vario modo organizzata, che si contrappone all’ordinamento giuridico precostituito,
contestandone la sua stessa esistenza. In tale ambito, si può ulteriormente distinguere tra 360() Così, R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 15.
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quelle organizzazioni che, nonostante il perseguimento di scopi illeciti, continuano
comunque ad integrarsi con lo Stato e con le sue istituzioni, come accade nel caso di
organizzazioni mafiose. Dall’altro lato, invece, vi sono quelle organizzazioni dirette
all’annientamento dello Stato stesso, in quanto si fanno portatrici di un sistema di valori
alternativo e contrapposto, com’è, appunto, in caso di terrorismo internazionale.
Correlativamente, è stato messo in evidenza (361) come a tali diverse accezioni di
nemico corrispondano, nella sostanza, tre diverse accezioni di diritto penale del nemico.
Una prima, per così dire, debole, in cui il diritto penale del nemico altro non è se non il
diritto penale tradizionale, caratterizzato però da una maggiore esaltazione della
componente preventiva e, conseguentemente, da una prima forma di tensione con i
principi di garanzia. Una seconda accezione, invece, si basa già su un concetto forte di
nemico e con essa si indica il diritto penale dell’emergenza, in parte derogatorio rispetto
ad alcune garanzie classiche del diritto penale. La terza accezione, invece, indica forme di
diritto penale che tendono all’annientamento del nemico/criminale assoluto, violano i
diritti fondamentali e sono, quindi, discipline non giuridiche. La prima forma si muove
nel pieno rispetto dei diritti della persona; la seconda deroga ad alcuni diritti
fondamentali; la terza prescinde del tutto dalle garanzie, degrada la persona ad individuo
e, perciò, non è neppure diritto (362).
Tradizionalmente, il diritto penale classico, quello pienamente garantista, è sempre
stato tipico degli ordinamenti pluralisti e democratici (363). Il diritto penale del nemico,
361() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 59. 362() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 60. 363() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 60.
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invece, si è manifestato negli ordinamenti assoluti e nei regimi totalitari (364), nei quali si
è giunti, addirittura, alla consapevole violazione dei diritti umani (365). La novità
dell’attuale fase storica (366) risiede, quindi, nel fatto che il diritto penale del nemico si è
manifestato non già all’interno di regimi totalitari, bensì nell’ambito di sistemi pluralisti e
democratici che avrebbero dovuto caratterizzarsi, invece, per un diritto penale mite (367).
Ciò è potuto accadere proprio in ragione delle peculiarità del fenomeno del terrorismo
internazionale. Il terrorista, infatti, contesta in maniera assoluta i valori, attacca al cuore
le istituzioni democratiche e l’ordinamento giuridico, per riaffermare tali valori, ha
ritenuto opportuno ricorre al diritto penale del nemico (368).
5. Il contenuto del diritto penale del nemico.
364() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 60. 365() Anche F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 473 ha messo in evidenza come, storicamente, il diritto penale del nemico abbia costituito la regola e non già l’eccezione negli «Stati non di diritto», con tale espressione intendendosi sia il “vecchio” Stato monarchico assoluto, sia i “nuovi” Stati totalitari e dittatoriali. 366() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 61. 367() F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, cit., p. 477. 368() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 62.
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È stato messo in evidenza (369) come, dal punto di vista contenutistico, il diritto penale
del nemico si caratterizzi per: l’irrogazione della pena di morte senza possibilità di
rimedio, impugnazione ovvero riesame della decisione; detenzione del prigioniero a
tempo indeterminato; previsione ed applicazione di pene o misure di sicurezza
sproporzionate rispetto al fatto ed alla pericolosità dell’agente; regime penitenziario
inumano; potere assoluto di indagine senza controllo giudiziario. Altri (370), invece, hanno
sottolineato come caratteri del diritto penale del nemico siano: la pena di morte, il terzo
strike, la tortura, le detenzioni amministrative segrete, il regime carcerario duro ed il
differenziamento in funzione di neutralizzazione; la mancanza o l’elusione dei controlli
giurisdizionali (371). Altra parte della dottrina (372) ha, infine, evidenziato come, oltre ai
369() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2460; nonché G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 34-35. In particolare, quest’ultimo Autore ha evidenziato come i contenuti del diritto penale del nemico, che lo distinguono dal diritto penale tradizionale, siano i seguenti: «irrogazione della pena di morte senza possibilità di rimedio, impugnazione o riesame; detenzione del prigioniero a tempo indeterminato, sia che si tratti di carcerazione preventiva in vista di un futuro processo penale (che si farà o non si farà) o di quella che taluno chiama la detenzione esecutiva o che addirittura sia assunta come misura militare di internamento o a qualunque altro titolo; previsione (e applicabilità) di pene o misure di sicurezza assolutamente sproporzionate rispetto all’entità del fatto al grado di pericolosità del soggetto; regime penitenziario inumano caratterizzato dalla incomunicabilità totale del prigioniero con l’ambiente esterno e privazione totale di assistenza difensiva, tortura sia punitiva che diretta a raccogliere confessioni o informazioni; poteri assoluti di indagine riservati a servizi facenti capo alla sola amministrazione senza lo spiraglio di qualsivoglia controllo giudiziario». 370() M. DONINI, Diritto penale di lotta. Ciò che il dibattito sul diritto penale del nemico non deve limitarsi a esorcizzare, in Studi sulla questione criminale, 2007, p. 65. 371() Altra parte della dottrina, invece, ha evidenziato come il diritto penale del nemico presenti caratteristiche peculiari rispetto al diritto penale classico o tradizionale sotto il profilo della formulazione della fattispecie, nonché sotto il profilo sanzionatorio, processuale, penitenziario e preventivo. In tale ottica, è stato affermato (F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, cit., pp. 471-472) che tale forma di diritto si caratterizza: «1) sotto il profilo delle fattispecie, nell’anticipazione della tutela secondo i modelli dei delitti di attentato, di pericolo indiretto o presunto (con conseguente incriminazione anche di condotte inidonee a generare situazioni di pericolo per i beni giuridici), dei delitti di associazione e a dolo specifico di offesa (ove il disvalore si esaurisce nella mera finalità propostasi dall’agente); 2) sotto il profilo sanzionatorio, nella esemplarità della pena e nella prevalenza della segregazione e neutralizzazione del reo su ogni istanza dialogico-rieducativa; 3) sotto il profilo processuale, in certe distorsioni in materia di perquisizioni, sequestri, confische, intercettazioni, misure cautelari personali, di garanzie probatorie, in accelerazione dei tempi processuali, in meccanismi di pressione-compensazione verso forme di collaborazione; 4) sotto il profilo penitenziario, nella sottoposizione a regime di sorveglianza speciale e nella non applicazione delle misure alternative o riduttive della detenzione; 5) sotto il profilo preventivo, nella applicazione delle misure di prevenzione, personali e patrimoniali ». 372() F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 18.
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succitati caratteri, il diritto penale del nemico si contraddistingua anche per il sacrificio
che esso comporta alla libertà dei cittadini, quali la libertà di locomozione ovvero la loro
privacy (373).
La maggior parte degli Autori (374) ritiene che tratto significativo del diritto penale del
nemico sia quello di essere un vero e proprio diritto penale d’autore (375): il nemico è
annientato per il semplice fatto di appartenere alla categoria di soggetti stigmatizzata
dall’ordinamento, molto prima e, addirittura, a prescindere dalla commissione di un fatto.
Evidente è quindi il richiamo, sotto tale profilo, al “tipo normativo d’autore” (Tätertyp),
proprio del modello penale dello Stato nazionalsocialista tedesco.
Tale impostazione, tuttavia, è stata criticata da dottrina minoritaria, secondo la quale
(376), invece, il diritto penale del nemico non presenta i tratti del diritto penale d’autore.
Al contrario, presenterebbe i caratteri di un ”reato proprio” (377), ossia di quella tipologia
373() Più nel dettaglio, circa la ratio che ispira il sacrificio dei diritti dei “cittadini” nella lotta contro il terrorismo internazionale, è stato osservato quanto segue: «Dunque, l’emergenza di un male particolarmente virulento ha prodotto l’esigenza di incrementare le strategie giuridiche difensive e di rafforzare l’armamentario dissuasivo, che risulti costituito da garanzie affievolite, dalla penalizzazione del sospetto, da regimi detentivi speciali. […] anche qui la penalizzazione si giustifica come extrema ratio, perché per la collettività i beni aggrediti da quel male risultano irrinunciabili e dunque la loro protezione deve essere rafforzata. Nel caso del terrorismo – che è il male demonizzato – l’extrema ratio, unita alla ragion di Stato dell’esigenza di sicurezza, consente addirittura il sacrificio dei beni dei cives – la loro libertà di locomozione, ad esempio, o parte della loro privacy -: così al male si oppone un altro male, ma questo male minore si giustifica in quanto strumentale rispetto all’eliminazione del male primario». In questi termini, cfr. F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 18374() Sul punto, v. L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico”: un’abdicazione della ragione, cit., p. 167; M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 760; F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale , cit., p. 471; Allo stesso risultato, del resto, sono giunti anche altri Autori. Si fa, in particolare, riferimento a MUÑOZ CONDE, Delitto politico e diritto penale del nemico, in A. Gamberini-R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, p. 90; G. FIANDACA, Diritto penale del nemico. Una teorizzazione da evitare, una realtà da non rimuovere, ivi, p. 183; D. PULITANÒ, Il problema del diritto penale del nemico, fra descrizione e ideologia, ivi, p. 233. 375() Fra tutti, v. G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 20. Il quale, in particolare, evidenzia che: «Una nuova forma quest’ultima [il diritto penale del nemico] di diritto penale d‘autore dominata dall’ossessione per la pericolosità del soggetto e dalla volontà di estirparlo». 376() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 6 (?).377() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 7. In particolare, l’A. afferma: «Del resto, se si ripercorrono con attenzione le cadenze argomentative di Jakobs, ci si accorge che – a dispetto delle apparenze legate alla dizione “diritto penale del nemico” mai
142
di reati che ai fini della loro integrazione richiedono, oltre alla commissione di un fatto,
anche una specifica qualità del suo autore (378). Il diritto penale del nemico, infatti,
accanto alla tipicità del fatto, richiederebbe anche la tipicità del suo autore.
Coloro i quali, invece, distinguono tra un’accezione debole ed un’accezione forte di
nemico ritengono poi che, alle due diverse accezioni di diritto penale del nemico (379),
corrisponda una diversità contenutistica. Ne consegue che il diritto penale del nemico in
senso debole si differenzierebbe dal diritto penale classico dal punto di vista quantitativo,
ossia per il quantum di garanzie che vengono compromesse (380); il diritto penale del
nemico in senso forte, invece, si distinguerebbe dal diritto penale liberale dal punto di
vista qualitativo (381). In tale ottica, esso è qualcosa di radicalmente diverso rispetto al
diritto penale che si è affermato dall’Illuminismo in poi.
Il diritto penale del nemico in senso debole, infatti, sarebbe ancora funzionale alla
prevenzione generale e alla prevenzione speciale, come accade per il diritto penale
comune. Esso, quindi, si differenzierebbe dal diritto penale tradizionale solo per una
maggiore anticipazione della tutela (382), una pena maggiormente afflittiva ed un
la tipicità del fatto vi è sostituita da una tipicità dell’autore. Le due tipicità sono affiancate: il diritto penale del nemico si configura quando un fatto tipico (per es., una strage) è commesso da un autore tipico (per es., il terrorista). Ma, allora, dal punto di vista dogmatico si delinea una figura ben nota agli studiosi del diritto penale, e concordemente accettata: quella del “reato proprio”, ossia del reato che richiede, oltre alla commissione di un fatto, anche una specifica qualità del suo autore». L’A. poi prosegue evidenziando che i reati propri del diritto penale del nemico sono reati propri a struttura diretta (fatti tipici commessi da soggetti che rivestono una qualità determinata per altra via). Perciò, a voler dar credito alla teorica del diritto penale del nemico, si avrebbero nuove ipotesi di reato proprio a struttura diretta, ma non già scivolamenti verso un diritto penale d’autore. 378() Sul reato proprio, v. tra gli altri E. BOZHEKU, L’infanticidio. Spunti e rilievi di parte generale, Napoli, 2012, p. 77 e ss.379() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 10. 380() In questo senso, v. F. PALAZZO, Contrasto al terrorismo, diritto penale del nemico e principi fondamentali, in Quest. Giust., 4, 2006, p. 675; 381() Ibidem. 382() Autorevole dottrina ha, invece, messo in evidenza come il carattere dell’anticipazione della tutela non sia caratteristica propria del diritto penale del nemico, poiché essa è usualmente riscontrabile nell’ambito del diritto penale tradizionale, come ad esempio le fattispecie di cui agli artt. 460 e 461 c.p. (Contraffazione di carta filigranata in uso per la fabbricazione di carte di pubblico credito o di valori di
143
affievolimento delle garanzie processuali (383). Sotto il profilo della pena, in particolare,
la maggiore afflittività si sostanzierebbe sia nel quantum - sproporzione nel momento
della comminatoria edittale e nel momento della commisurazione - sia in regimi di
esecuzione particolarmente rigorosi. Inoltre, sarebbe possibile registrare un amento delle
misure di sicurezza e delle misure di prevenzione (384). Sotto il profilo della struttura del
reato, vi sarebbe un incremento dei reati di pericolo astratto e presunto, volti a punire atti
meramente preparatori. L’attenuazione delle garanzie processuali, invece, si
manifesterebbe sia sotto il profilo delle misure cautelari personali, la cui funzione
verrebbe distorta in quella di prevenire la commissione di reati, sia sotto il profilo
dell’attenuazione delle garanzie difensive, come, ad esempio, tramite la previsione di
tecniche investigative particolarmente invasive, volte ad assicurare il buon esito delle
indagini (385).
Il diritto penale del nemico in senso forte, invece, presenta caratteristiche ben diverse
che lo rendono altro rispetto al diritto penale tradizionale. La pena non svolgerebbe più la
sua funzione di prevenzione generale e speciale, ma degraderebbe a vera e propria
neutralizzazione della pericolosità sociale, sulla base della mera appartenenza del reo a
determinate categorie di persone ovvero sulla base del compimento di singoli atti ben
lontani dalla fase esecutiva. Sul piano della struttura del reato, verrebbero meno la
materialità e la colpevolezza, giungendosi alla incriminazione sulla base della mera
bollo ovvero fabbricazione o detenzione di filigrane o di strumenti destinati alla falsificazione di monete, di valor di bollo o di carta filigranata). In particolare, l’A. afferma: «Come si fa ad includere nel supposto diritto del nemico la cosiddetta anticipazione della soglia di tutela (o di punibilità)? I reati autonomi di preparazione sono sempre esistiti e lo sono sulla base di una logica di normalità penale». Così, G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 33. 383() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 11. 384() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 11. 385() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 11.
144
manifestazione del pensiero ovvero sulla base della mera associazione (386). Sul piano
processuale, si avrebbe poi una vera e propria degiurisdizionalizzazione, nel senso che la
competenza a giudicare di reati commessi dal nemico in senso forte verrebbe attribuita ad
autorità non giudiziarie, di nomina esecutiva.
Una delle caratteristiche salienti del diritto penale del nemico in senso forte è, quindi,
la degiurisdizionalizzazione. Nel senso che la reazione da parte dell’ordinamento è
inflitta non già da parte dell’autorità giudiziaria, ossia da un soggetto terzo rispetto alle
parti in causa, bensì dall’autorità amministrativa, ossia da una delle parti in conflitto che
assume essere dalla parte del giusto. Infatti, nel momento in cui la ratio del diritto penale
del nemico è l’annientamento del nemico assoluto, non è più necessario un processo da
parte di un organo terzo ed imparziale, essendo sufficiente un soggetto, anche parte
dell’esecutivo, che vada o scovare il nemico.
Il vero e proprio diritto penale del nemico è, dunque, solo quello in senso forte (387).
Nell’accezione debole di diritto penale del nemico, infatti, è ancora possibile ravvisare le
funzioni preventive proprie del diritto penale comune e, in tale ottica, esso si pone ancora
in una prospettiva dialogica con il reo. Al contrario, invece, il vero e proprio diritto
penale del nemico ha portata escludente, in quanto ha l’obiettivo di neutralizzare il
nemico.
386() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 12. 387() Altri, invece, mettono in evidenza come dal diritto penale del nemico in senso stretto vadano espunte discipline che, talvolta, la dottrina ad esso riconduce. Infatti, non avrebbero nulla a che vedere con il vero e proprio diritto penale del nemico: le misure di sicurezza personali, il diritto penale della recidiva, la legislazione penale in materia di detenzione di sostanza stupefacenti per uso personale, delinquenza a sfondo sessuale. Secondo tale orientamento, invece, rientrerebbero nel diritto penale del nemico le legislazioni adottate per reprimere fenomeni quali: la «criminalità organizzata, in forma associativa, [di] mafia, narcotraffico e terrorismo», nonché la «legislazione sull’emigrazione». In questi termini, si è espresso F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, cit., passim.
145
6. Il diritto processuale penale del nemico.
In una visione classica, il processo è un mezzo di accertamento dei reati e di
individuazione degli autori (388). Nell’ottica di un diritto penale del nemico, invece, anche
il processo penale – lo si è visto – diventa strumento per l’annientamento del nemico
assoluto. Strumenti tipici del diritto processuale penale del nemico (389) sono, quindi,
l’attribuzione di un potere assoluto di indagine agli organi di polizia, al di fuori di ogni
controllo giudiziario; l’applicazione della custodia cautelare in funzione preventiva ed a
tempo indeterminato; la negazione del diritto di difesa nei confronti dell’arrestato, previa
limitazione dei colloqui con il suo avvocato; la degiurisdizionalizzazione, nel senso che
l’accertamento del fatto e della responsabilità dell’accusato è compito assegnato ad
organi amministrativi, di nomina esecutiva, e non già all’autorità giudiziaria. L’aspetto
che, più di tutti, preme evidenziare nella presente indagine è quello relativo all’uso della
tortura, quale tecnica di interrogatorio, ossia quale strumento per estorcere informazioni
dal singolo arrestato, e quale strumento di indagine, al fine di prevenire e reprimere la
commissione di reati che il terrorista - o sospetto tale - aveva programmato.
6.1.Segue. La tortura.
388() M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 775. 389() Sui riverberi processuali del diritto penale del nemico, v. R.E. KASTORIS, Processo penale, delitto politico e «diritto penale del nemico», in Riv. dir. proc., 2007, p. 7; G. SANTALUCIA, Processo, ordine pubblico e sicurezza, in Quest. giust., 4, 2006, p. 761; N. ROSSI, Ordine pubblico, apparati della sicurezza, sistema giudiziario, ivi, p. 813; L. PEPINO, La giustizia, i giudici e il «paradigma del nemico», ivi, p. 844. Per i risvolti nell’ordinamento giuridico statunitense, cfr., M. BOUCHARD, Guantanamo. Morte del processo e inizio dell’apocalisse, in Quest. giust., 5, 2003, p. 1012.
146
Ancora una volta, una tale forma di manifestazione del diritto penal-processuale del
nemico ha trovato concreta estrinsecazione nel “modello Guantánamo”. Al riguardo, la
dottrina – statunitense e non solo – si è, quindi, interrogata sulla legittimità ed
ammissibilità di un siffatto strumento d’indagine per estorcere informazione dai terroristi
già segregati e scampare così gli attentati che essi avevano o stavano ideando con altri.
Parte della dottrina statunitense (390) ha proposto addirittura di introdurre un «mandato
di tortura» sotto il controllo giurisdizionale. Tale misura sarebbe servita – a dire di detta
dottrina – a limitare l’impiego di tali mezzi, di fatto già praticati, e renderli così più
controllabili ed utili nei confronti di forme estreme di terrorismo. L’idea sarebbe quella di
ricorrere a forme blande di tortura, puramente dolorose (ad es., aghi sterili sotto le
unghie) su terroristi, in caso di minacce gravi e attuali alla vita di più persone, evitabili
appunto con l’impiego di tali mezzi (391). È il caso della ticking time bomb di Jeremy
Bentham, già da tempo elaborato per legittimare forme di moderata pressione fisica ed
indurre così il terrorista a confessare dove si trovi la bomba già innescata e che senza
quella informazione esploderebbe, provocando molti morti (392). In una logica di diritto
processuale penale del nemico non si ipotizza, certo, una tortura generalizzata, bensì solo
contro il terrorista - e, quindi, nei confronti del nemico di tutti per salvare molti innocenti
-, comunque, sempre secondo una logica di extrema ratio (393), di selettività chirurgica, di
rigorosi controlli giudiziari sull’operato della polizia.
Tale posizione, tuttavia è stata ampiamente criticata non tanto e non solo poiché
prospetta la generale ammissibilità della tortura nel moderno Stato di diritto, ma anche e
soprattutto poiché a tale affermazione di principio non fa seguito una delimitazione della 390() A.M. DERSHOWITZ, Why Terrorism works (2002), tr. it. Terrorismo, Roma, 2003, pp- 125-155. 391() M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 159. 392() M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 160. 393() M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 161
147
stessa entro spazi ben precisi, quali sarebbero potuti essere uno stato di necessità statale,
la configurazione come scriminante speciale proceduralizzata ovvero l’espressa
previsione di una procedura ad hoc.
In ogni caso, prevedendo una tortura solo per il terrorista si corre il rischio, ancor più
grave, che poi tale tecnica di interrogatorio trovi un campo di applicazione più ampio,
anche nella normalità dei casi della vita quotidiana (394).
A tal proposito, è bene rammentare come proliferino le fonti internazionali che
contemplano il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti e, a volerne citare
qualcuna, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta (395). Senza tralasciare, peraltro, le fonti
interne che hanno recepito tale principio ed il correlativo divieto, com’è, all’interno del
nostro ordinamento, per l’art. 13, comma 4, della Costituzione (396). Del resto, nel
dibattito occidentale sviluppatosi a seguito dell’11 settembre, non si è discusso tanto
dell’esistenza di tale principio e del relativo divieto, bensì della sua assolutezza. In altri
termini, ci si è chiesti se tale principio possa subire delle eccezioni, dovute allo stato di
necessità. La conclusione, tuttavia, non può che essere una sola: il divieto di tortura non
può che essere assoluto ed inderogabile, posto che la dignità umana, che esso tutela, ha
valore assoluto.
394() Esempio emblematico è il “caso Daschner” verificatosi a Francoforte nel 2002. Il figlio undicenne di un banchiere fu rapito. Fu arrestato il suo autore che non rivelava il luogo dove era ristretto il ragazzo. Nell’ottica di poter ottenere le rivelazione di tale luogo il capo della polizia di Francoforte (Daschner) autorizzò la minaccia di tortura, che è già tortura essa stessa, in quanto opera sul piano psicologico. Il sequestratore, a quel punto, rivelò il luogo dove era segregato il ragazzo, ma troppo tardi poiché il medesimo era già morto, essendo stato ucciso subito dopo il rapimento. M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 161. 395() L’art. 5 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo del 1948, l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, l’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984 (ratificata in Italia con l. 3 novembre 1988, n. 498), l’art. 5, comma 2, della Convenzione americana sui diritti umani. Sul punto, v. M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 773. 396() Com’è noto, la disposizione in esame prevede che «È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».
148
Limitandosi al nostro ordinamento, nell’ambito del dibattito italiano sono state
assunte a tal riguardo due diverse posizioni (397). Secondo alcuni sarebbe ammissibile
produrre un danno ad una sola persona, il terrorista, per tutelare tutti gli altri individui.
Secondo la maggior parte della dottrina, al contrario, una tale soluzione è inammissibile
(398). In tale ottica, c’è chi (399), per legittimare la tortura, ha prospettato la possibilità di
far ricorso alla scriminante di cui all’art. 54 c.p. In realtà, - è stato immediatamente
precisato - il ricorso a tale norma non sarebbe praticabile. Ammettendo l’operatività in
tale ambito dell’art. 54 c.p., infatti, in primo luogo, verrebbe disconosciuto il contenuto
precettivo della Convenzione sulla tortura. In secondo luogo, lo stato di necessità non
sarebbe invocabile dallo Stato e dai suoi organi. Lo Stato, infatti, già dispone del
monopolio giuridico dell’uso della forza e, dunque, non può invocare la necessità, posto
che, potenzialmente, esso può già avvalersi di tutta la forza necessaria.
7. Il rispetto dei diritti fondamentali.
Così tratteggiati i caratteri essenziali del diritto penale del nemico in senso ampio -
ossia comprensivo del diritto sostanziale, processuale e penitenziario (400) - ed in senso
forte – in quanto tendente all’annientamento del nemico assoluto - appare di tutta
evidenza quali siano i diritti fondamentali dell’uomo che tale forma aberrante di diritto va
a ledere. Esso attenta, da un lato, ai diritti fondamentali dell’individuo che intende
397() Sul punto, v. F.R. FULVI, I terroristi: criminali o nemici?, in Arch. pen., 2009, p. 87. 398() G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 784; L. EUSEBI, Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, cit. p. 447. 399() M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 771. 400() F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, cit., p. 472.
149
neutralizzare, dall’altro lato, però, anche a quelli del cittadino che vuole proteggere. Sotto
quest’ultimo punto di vista, infatti, lo Stato, al fine di tutelare il bene primario della
sicurezza contro attentati provenienti dal mondo esterno, dal terrorista islamico, ritiene
sia un sacrificio tollerabile quello della libertà dei propri cittadini. In quest’ottica, il
diritto penale del nemico lede la loro libertà di movimento, di associazione ed il loro
diritto alla riservatezza, come tutt’ora avviene in quasi tutti i Paesi occidentali sulla scorta
delle legislazioni adottate post 11 settembre, e, in casi estremi, anche il diritto alla vita ed
alla dignità umana dei cittadini, come avvenuto in Germania per effetto della
Luftsicherheitsgesetz.
Dal punto di vista del nemico, invece, il diritto penale del nemico si pone in contrasto
con il diritto alla vita e alla dignità umana, con il diritto alla libertà personale, con il
diritto di difesa ed il diritto ad un equo processo. E, ciò, nella misura in cui: si dà ingresso
a forme blande di tortura; si consente la privazione della libertà personale in via
amministrativa, senza formale accusa, a tempo indeterminato e senza possibilità di
controllo da parte dell’autorità giudiziaria; si istituisco Tribunali militari ad hoc e si nega
all’incarcerato di comunicare con il suo difensore, come avvenuto in parte nel Regno
Unito e come avvenuto e tutt’ora avviene negli Stati Uniti.
In una prospettiva più generale, peraltro, il diritto penale del nemico potrebbe porsi
potenzialmente in contrato con tutti i diritti fondamentali dell’uomo, posto che, secondo
la teoria di Jakobs, il nemico è non-persona e, in quanto tale, privo di qualsivoglia diritto
umano. In tale ottica, quindi, in una futura legislazione, dettata da ignote contingenze
storiche, egli potrebbe venir privato di ogni diritto, anche altri e diversi rispetto a quelli di
cui, in base alla legislazione vigente, egli è già stato privato. Secondo Jakobs (401), infatti,
401() G. JAKOBS - M. CANCIO MELIÁ , Derecho penale del enemigo, Madrid, 2003, p. 51. 150
il limite dei diritti fondamentali non può essere opposto nei confronti di coloro che li
violano, come fanno appunto i nemici.
A questo punto, però, bisogna domandarsi se i diritti fondamentali possano essere essi
stessi violati allo scopo di tutelarli. Il rischio che si corre, infatti, per fronteggiare il
terrorismo internazionale, è che vengano travolti i valori stessi su cui le democrazie
contemporanee si fondano. La risposta a tale interrogativo non può che essere negativa
(402) nel moderno Stato di diritto, ispirato a principi liberal-democratici, e nell’attuale
ordinamento giuridico internazionale, ove proliferano le Convenzioni a tutela dei diritti
umani (403). Infatti, qualsiasi ordinamento costituzionale non può rinunciare ad
individuare una soglia minima di garanzie a protezione dell’individuo in quanto tale (404).
I diritti inviolabili spettano a ciascun individuo in virtù della sua mera esistenza in vita,
sono “riconosciuti” dall’ordinamento giuridico quali diritti ad esso preesistenti e, proprio,
per tale motivo, sfuggano a qualsiasi logica potestativa. In tal senso, del resto, si esprime
anche la nostra Costituzione che, all’art. 2 e 3, rispettivamente, riconosce i diritti
inviolabili dell’uomo ed esprime il principio di uguaglianza il quale, in senso sostanziale,
vuol dire appunto che tutti sono uguali, poiché la titolarità dei diritti umani ha come
unico presupposto l’essere uomo.
Anche nell’ottica della lotta al terrorismo internazionale, quindi, non ci si può
distaccare dalle acquisizioni proprie della civiltà giuridica che si è andata affermando nei
402() Sull’invalicabilità del limite dei diritti fondamentali nel moderno Stato democratico, anche dinnanzi alla logica del “nemico”, v. G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 783, nonché L. EUSEBI, Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, cit., p. 436. 403() M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 755; nonché F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 18. 404() G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 782.
151
millenni e soprattutto negli ultimi secoli, grazie alle conquiste dell’illuminismo in tema di
diritti umani.
8. Le garanzie processual-penalistiche dei sistemi penali liberali.
Il diritto penale del nemico - lo si è visto – viola anche alcuni dei principi cardine dei
sistemi processual-penalistici liberali (405). Esso, in particolare, si pone in stridente
contraddizione con i principi di legalità, determinatezza, tassatività, offensività e
necessaria materialità del reato, colpevolezza e personalità della responsabilità penale,
nonché con le funzioni della pena, retributiva e di prevenzione generale e speciale (406).
Più nel dettaglio, collide con il principio di necessaria determinatezza della fattispecie
penale, nella misura in cui le norme che incriminano le condotte di terrorismo delineano
la fattispecie in maniera vaga e generica. Si pone in contrasto con il principio di
irretroattività, nel momento in cui le nuove norme vengono applicate a fatti commessi
prima della loro entrata in vigore. Viola il principio di offensività e necessaria materialità
del reato (407), poiché incrimina determinati tipi di autore e non determinati tipi di fatto
405() Ex pluribus, cfr. G. FIANDACA, Diritto penale del nemico. Una teorizzazione da evitare, una realtà da rimuovere, cit., p. 183 406() Sulla frizione tra i principi costituzionali in materia penale ed il diritto penale del nemico, v. A. CAVALIERE, Diritto penale “del nemico” e “di lotta”: due insostenibili legittimazioni per una differenziazione, secondo tipi d’autore, della vigenza dei principi costituzionali, cit., p. 272; G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 784; L. EUSEBI, Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico , cit., p. 442. 407() F. PALAZZO, Contrasto al terrorismo, diritto penale del nemico e principi fondamentali, cit., p. 676; nonché, nello stesso senso, R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 22.
152
(408), nonché nella misura in cui prevede un’anticipazione della tutela rispetto alla
commissione del fatto o, addirittura, a prescindere da esso. Lede il principio di
colpevolezza, in quanto viene inflitta una pena sproporzionata rispetto al fatto commesso
e la colpevolezza del suo autore non costituisce un limite al quantum di risposta
sanzionatoria irrogato. Lede il principio di personalità della responsabilità penale, nella
misura in cui incrimina il soggetto per la mera appartenenza all’associazione. È violata la
finalità rieducativa della pena, poiché essa è applicata in funzione di misura di sicurezza,
ossia al fine di prevenire la pericolosità sociale del reo, nonché nella misura in cui essa
stessa tende alla neutralizzazione del nemico assoluto. Sotto tale ultimo profilo, poi, è
violata anche la funzione di prevenzione generale e speciale della pena (409).
A tal proposito, giova rammentare come ogni norma penale, con la comminatoria
della pena assolva, infatti, ad una funzione di prevenzione sia generale che speciale.
Questo vale e deve valere sia nei confronti del cittadino che nei confronti dello straniero
(410). Non si può ritenere, invece, come fa Jakobs, che tale funzione sia propria del solo
diritto penale del cittadino e non anche di quello del nemico, posto che è proprio nei
confronti del nemico che l’ordinamento dovrebbe riaffermare la validità della norma
penale violata.
408() Parte della dottrina (L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico”: un’abdicazione della ragione, cit., p. 166), invece, evidenzia come sia violato il principio di legalità nella misura in cui la potestà punitiva dello Stato è esercitata, nell’ambito del diritto penale del nemico, in relazione a tipi di autori e non a tipi di fatti.409() Sotto il profilo della violazione dei principi classici del diritto penale da parte del diritto penale del nemico, in dottrina, è stato osservato che esso è «un diritto penale non tanto del “fatto colpevole” quanto dell’”autore pericoloso”, o, comunque, orientato all’autore pericoloso, non della colpevolezza, ma della pericolosità, non della retribuzione proporzionale ma della neutralizzazione, presentando esso come denominatore comune un trattamento discriminatorio, legislativo o prasseologico, rispetto al diritto penale normale, nel senso di un’attuazione delle garanzie, sostanziali e processuali, in ragione del tipo pericoloso d’autore. E, quindi, una soggettivizzazione del diritto penale». In questi termini, si è espresso F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, cit., p. 471410() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 4(?).
153
Altra stortura è il crollo di tutte le garanzie processuali (411). Se il processo viene
condotto nei confronti del nemico allora il giudice diventa nemico del reo, nel senso che
perde ogni carattere di imparzialità. Il processo, innanzitutto, viene utilizzato come uno
strumento di lotta nei confronti della criminalità terroristica, organizzata o qualsiasi altra
essa sia. In secondo luogo, il processo contro il nemico si caratterizza per l’alterazione
dell’oggetto processuale: oggetto del processo non è più il fatto, bensì l’autore e quindi il
processo da accusatorio torna ad essere inquisitorio. Volto ad inquisire la personalità
amica o nemica del suo autore (412).
È ovvio che, al pari dei diritti fondamentali, non può essere tollerata neppure la
violazione ovvero la deroga sistematica di quelle garanzie penal-processualistiche (413) di
cui gli ordinamenti democratici si sono muniti fin da epoca Illumunistica. Bisogna allora
individuare i limiti entro cui il diritto penale del nemico - con cui purtroppo il giurista è
chiamato a confrontarsi - possa muoversi per essere ricondotto nei binari della legalità.
9. Le ragioni dell’inammissibilità di una dicotomia diritto penale tradizionale/diritto
penale del nemico.
411() L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico”: un’abdicazione della ragione, cit., p. 167. 412() L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico”: un’abdicazione della ragione, cit., p. 168. 413() In tal seno si è espresso anche L. EUSEBI, Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, cit., p. 444. In particolare, egli attribuendo al principio di cui all’art. 27, comma 1, Cost., una valenza più generale, ha ricavato l’insuperabilità delle garanzie costituzionali in tema di diritto penale anche in caso di emergenza. Testualmente, l’A. afferma: «D’altra parte, lo stesso 1° comma dell’art. 27 Cost., affermando che “la responsabilità penale è personale”, non si limita a istituire di principio di colpevolezza […], ma colloca l’intero sistema della responsabilità penale, anche con riguardo alle strategie sanzionatorie, nell’ambito di modalità relazionali tipiche dei rapporti tra persone, modalità come tali incompatibili con meri obiettivi di coazione psichica o di neutralizzazione. – La legge fondamentale, dunque, identifica con il consenso (e non la forza) come cardine della prevenzione».
154
Proprio perché si pone in contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo e con le
garanzie proprie dei sistemi processual-penalistici liberali, il diritto penale del nemico in
senso forte non può trovare cittadinanza nel moderno Stato di diritto. Tuttavia, posto che
al fenomeno del terrorismo internazionale – che è un fenomeno eccezionale – non si può
certo far fronte con gli strumenti classici del diritto penale, allora bisogna individuare i
limiti di ammissibilità di una siffatta legislazione. E questo non solo per tutelare il
terrorista, ma anche per tutelare la sfera di libertà di tutti gli altri individui ed evitare così
illegittime ingerenze nella loro vita privata da parte dei poteri pubblici.
Una soluzione in tal senso, quindi, si potrebbe avere configurando a livello
costituzionale una clausola d’emergenza, come è appunto previsto in altri ordinamenti, e
poi dettarne la disciplina di dettaglio in una legge costituzionale. In tal modo, i cittadini, e
non solo i nemici, sarebbero tutelati sotto un duplice punto di vista. In primo luogo,
poiché la disciplina degli Stati d’eccezione sarebbe legislativamente predeterminata e non
vi sarebbe quindi spazio per legislazioni estemporanee adottate sull’onda emotiva degli
eventi e, magari, con efficacia retroattiva. In secondo luogo, essendo legislazione vigente,
sarebbe possibile sottoporla al vaglio di legittimità costituzionale da parte della Consulta
ogniqualvolta il giudice ordinario riscontri difformità rispetto ai principi costituzionali. In
tal modo, verrebbe arginato lo strapotere che l’Esecutivo tende ad assumere nella vita dei
cittadini nell’ambito di situazioni d’emergenza. Bisogna, quindi, pienamente concordare
con chi ha affermato che «non c’è sicurezza senza legge: lo Stato di diritto è un elemento
della sicurezza nazionale» (414). La battaglia contro il terrorismo, pertanto, deve essere
combattuta dalla democrazia «con una mano legata».
414() Così, A. BARAK, Diritti umani in tempo di terrorismo. Il punto di vista del giudice, in S. Moccia (a cura di), I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, Napoli, 2009, p. 59.
155
Cosa che certo non potrebbe mai essere legislativamente predeterminata, tuttavia, è la
previsione di organi giudicanti ad hoc, sulla sorta delle Tribunali militari speciali, di
nomina esecutiva, istituiti negli Stati Uniti per giudicare i terroristi. Nel moderno Stato di
diritto, infatti, non si può avallare la degiurisdizionalizzazione, poiché essa contrasta con
l’essenza stessa della tripartizione dei poteri di montesquieuiana memoria.
Capitolo Quarto
Il mutamento di giurisprudenza in materia penale.
Prospettive di apertura del nostro ordinamento all’overruling.
156
1. Il ruolo del giudice ed il rispetto dei diritti fondamentali.
In un sistema non esente da slittamenti verso un tipo di autore, il giudice svolge
l’importante funzione di ricondurre la legislazione – adottata, spesso, sull’ondata emotiva
degli eventi - al rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo ed ai principi cardine
dell’ordinamento giuridico. Questo è avvenuto nel mondo anglosassone, ove sia in Gran
Bretagna (415) che negli Stati Uniti d’America (416) le Corti – lo si è visto – hanno riportato
la legislazione di contrasto al terrorismo internazionale in posizione subordinata rispetto
ai diritti fondamentali dell’individuo, la cui tutela si estende anche al catalogo delle
garanzie cardine degli ordinamenti processual-penalistici liberali.
Il terrorista, infatti, è un tipo di autore, un nemico “in senso forte” (417). Egli
appartiene ad una criminalità, in vario modo organizzata, che vuole dissolvere la
comunità precostituita, contestandone la stessa esistenza. La legislazione penale di
contrasto, in questo caso, tende alla neutralizzazione del nemico assoluto, con
conseguente violazione di tutti i diritti fondamentali. Tra terrorismo ed immigrazione,
però, vi è connessione – i sociologi ed criminologi lo hanno messo in evidenza. E
l’immigrato, anch’egli un tipo d’autore, quando non è terrorista, è un nemico “in senso
debole”. Egli è un soggetto pericoloso per il suo status e, per ciò solo, va stigmatizzato,
destando il fenomeno dell’immigrazione, anche non clandestina, particolare allarme
sociale. La legislazione di contrasto, in tal caso, presenta già una prima forma di tensione
con i principi e le garanzie dello Stato liberale. Un esempio in tal senso è dato dalla legge
15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).415() Sulla tutela apprestata dalla Corti britanniche, cfr. supra Capitolo Secondo, § 3. 416() Sul punto, v. supra Capitolo Secondo, § 11.417() Per la contrapposizione tra un concetto di “nemico in senso forte” ed un altro di “nemico in senso debole”, v. supra Capitolo Terzo, § 4.
157
Ebbene, anche per quanto riguarda lo straniero, la giurisprudenza italiana ha
intrapreso un’opera di riconduzione della legislazione penale di lotta al rispetto dei diritti
e principi fondamentali. In particolare, la tutela dei diritti fondamentali da parte del
giudice può essere meno penetrante ovvero più incisiva. La prima ipotesi ricorre quando
gli interventi sono tesi a garantire il rispetto dei soli diritti fondamentali e della garanzie
classiche previste dalla Costituzione, ossia dall’ordinamento giuridico interno. La
seconda, invece, sussiste quando, essendo già raggiunta tale prima forma di tutela, si
tende a garantire il rispetto, all’interno dello Stato, anche dei principi e delle garanzie
proprie dalle Carte internazionali e, quindi, dell’ordinamento giuridico sovranazionale ed
internazionale. Questo è quanto accaduto, appunto, per lo straniero. Infatti, per garantire
il rispetto del principio di legalità di cui all’art. 7, par. 1 Cedu, la giurisprudenza di merito
ha fornito un’interpretazione avanguardistica del principio di retroattività della norma
penale favorevole al reo, andando ben al di là della stessa interpretazione sul punto,
fornita dalla Corte Edu e dalla Corte di giustizia.
2. I termini della questione: l’overruling in materia penale.
Ebbene, proprio nell’esercizio dell’importante funzione di riconduzione della
legislazione penale vigente al rispetto dei diritti fondamentali, recentemente alcuni
giudici hanno prospettato la possibilità di revocare un precedente giudicato di condanna
ex art. 673 c.p.p. (418) anche in caso di mutamento giurisprudenziale favorevole al reo e
ciò al fine di garantire principaliter il rispetto del principio di uguaglianza e di
retroattività della norma penale favorevole.418() In generale, sull’istituto della revoca per abolizione del reato, cfr. D. VICOLI, La rivisitazione del fatto da parte del giudice dell’esecuzione: il caso dell’abolitio criminis, in Cass. pen., 2010, p. 1689.
158
La Consulta, investita della questione, non ha però statuito l’incostituzionalità di
una siffatta soluzione ermeneutica. Tuttavia, la tematica dell’overruling in materia penale
non perde certo rilievo, poiché già in precedenza la Corte di cassazione (419) vi aveva
riconnesso effetti nel nostro ordinamento. Appare, dunque, opportuno procedere ad
analizzare funditus i termini della questione, così come si è presentata fino a questo
momento all’attenzione delle nostri Corti. Successivamente verrà valutata la possibile
incidenza di un overruling, teso al rispetto dei diritti fondamentali, su una futuristica
legislazione che il nostro Paese potrebbe adottare per combattere il terrorismo
internazionale, sulla scorta di quella fatta propria dagli Stati Uniti d’America. Infatti, ove
il nostro Paese non adotti ex ante una legalità ad hoc, valida una volta per tutte, è sempre
incombente il rischio che, nell’emergenza non codificata, venga promulgata una
legislazione ispirata ai canoni del diritto penale del nemico.
Poste tali premesse, è bene precisare che l’overruling può essere definito come un
contrasto giurisprudenziale di tipo diacronico (420), nel senso che ad un certo indirizzo
giurisprudenziale costante per un dato periodo di tempo, improvvisamente, se ne
sostituisce un altro che costituisce un revirement giurisprudenziale (421).
Più nel dettaglio, l’overruling può essere sfavorevole ovvero favorevole al reo. In
caso di mutamento giurisprudenziale in malam partem, viene in rilievo uno dei baluardi
del principio di legalità, ossia il principio di irretroattività della norma penale
sfavorevole. In tal caso, infatti, sebbene ad essere sfavorevole al reo sia non una modifica 419() Si fa, in particolare riferimento a Cass., sez. un., 21 ottobre 2010, n. 18288, Beschi, su cui v. infra. 420() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in Dir. pen. cont., 15 ottobre 2012, p. 2. 421() In dottrina, è stato evidenziato come, in realtà, l’overruling si distingua da un normale mutamento di giurisprudenza, poiché è connotato dall’ulteriore requisito dell’”imprevedibilità” rispetto ad un quadro interpretativo precedente e consolidato. Sul punto, v. A. MARI, Mutamento sopravvenuto di giurisprudenza e giudicato: la consulta dichiara infondata la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p. , in Cass. pen., 2013, p. 948.
159
legislativa, bensì una nuova interpretazione giurisprudenziale, riconoscendo ad essa
efficacia retroattiva, si potrebbe determinare un fenomeno di cd. «retroattività occulta»
(422). In altri termini, verrebbe frustrato l’affidamento che i consociati avevano riposto nel
precedente orientamento favorevole nell’ipotesi in cui venga applicata la nuova opzione
ermeneutica anche a chi abbia commesso il fatto anteriormente ad essa. L’interpretazione
giurisprudenziale, che dovrebbe avere portata dichiarativa, avrebbe in questo caso invece
natura creativa (423).
Tuttavia, il nostro ordinamento contempla efficaci rimedi per evitare un simile
effetto, poiché, se il principio di irretroattività è valido per la modifica legislativa
sfavorevole, a maggior ragione esso lo deve essere per il mutamento giurisprudenziale.
Una prima soluzione potrebbe essere il ricorso all’art. 5 c.p., così come integrato dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988. Sarebbe, infatti, un errore inevitabile
circa la liceità della propria condotta quello in cui incorrerebbe colui che ha violato la
norma penale, facendo affidamento sulla precedente interpretazione favorevole.
Soprattutto, però, l’overruling sfavorevole con efficacia retroattiva trova il proprio
ostacolo nel principio di irretroattività della norma penale sfavorevole di cui all’art. 25,
comma 2, Cost. (424). Per effetto di tale norma, si potrebbe avere nel nostro ordinamento 422() A. BALSAMO, La dimensione garantistica del principio di irretroattività e la nuova interpretazione giurisprudenziale “imprevedibile”: una “nuova frontiera” del processo di “europeizzazione” del diritto penale, in Cass. pen., 2007, p. 2202.423() Tuttavia, è bene sottolineare che la dottrina non è unanime nel riconnettere alla giurisprudenza portata solo dichiarativa della norma di legge. A tal proposito, infatti, è stato osservato (V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, in V. Manes -V. Zagrebelsky (a cura di), La convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011, p. 80.) che l’art. 65 ord. giud. sembra riflettere la teoria secondo la quale l’interpretazione giurisprudenziale ha funzione solo dichiarativa. Tuttavia, ritenere che per ogni testo di legge vi sia solo una ed una soltanto interpretazione, come se il giudice fosse “ bouche de la loi” è utopistico. L’attività di interpretazione delle leggi da parte del giudice, infatti, è inevitabilmente in parte anche creativa. Sulla funzione dichiarativa ovvero creativa della giurisprudenza, v. anche R. RORDORF, Stare decisis: osservazioni sul valore del precedente giudiziario nell’ordinamento italiano, in Foro it., V, 2006, p. 279. 424() Com’è noto, l’art. 25, comma 2, Cost. prevede che «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».
160
una soluzione analoga all’istituto di matrice statunitense del prospective overruling, in
virtù del quale la nuova giurisprudenza può avere effetto solo per il futuro e non anche
per il caso che essa stessa decide ovvero per gli altri ad essa antecedenti.
Precluso ogni spazio applicativo all’overruling in malam partem, il vero punctum
dolens riguarda, invece, l’overruling favorevole al reo, fenomeno che si riscontra
nell’ipotesi in cui sopravvenga un nuovo orientamento giurisprudenziale, in base al quale
non è più penalmente illecito il fatto che, secondo la vecchia interpretazione, costituiva
reato. Si pone il problema di verificare se, in base alla nuova interpretazione, possa essere
travolto anche il già intervenuto giudicato di condanna. A tal proposito, ci si è chiesti,
infatti, se il principio di retroattività favorevole al reo - enunciato dalla giurisprudenza
europea e costituzionale con riguardo alla modifica legislativa - possa trovare spazio
anche per il mutamento giurisprudenziale, posto che appare apparentemente lesivo del
principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. che taluni siano stati condannati – e
debbano, quindi, scontare la relativa pena - per un fatto che, secondo una interpretazione
giurisprudenziale successiva, non costituisce più reato.
Più nel dettaglio, l’incognita ha riguardato la possibile equiparazione del
mutamento giurisprudenziale all’abolitio criminis legislativa, con conseguente
sottoposizione anche dell’overruling alla disciplina di cui all’art. 2, comma 2, c.p., in
base alla quale, in tali ipotesi, sarebbe travolto anche il giudicato di condanna. Accedendo
a tale ipotesi ricostruttiva, in fase esecutiva, si potrebbe, quindi, ritenere applicabile il
disposto di cui all’art. 673 c.p.p che, proprio in casi di abrogazione della norma
incriminatrice – ma anche nei casi di declaratoria di illegittimità costituzionale –,
consente la revoca della sentenza penale di condanna (o di altra ad essa equiparata) da
parte del giudice dell’esecuzione. Ed è proprio questo il caso sottoposto all’attenzione 161
della Corte costituzionale dal Tribunale di Torino, in composizione monocratica, con
ordinanza depositata il 21 luglio 2011.
Il giudice a quo, infatti, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art.
673 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o
decreto penale di condanna o di sentenza di concorde richiesta delle parti) in caso di
mutamento giurisprudenziale, intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della
Cassazione, in base al quale il fatto giudicato non è più previsto dalla legge come reato.
3. Il reato di omessa esibizione dei documenti di identificazione e di soggiorno (art.
6, comma 3, D.lgs. 286/98) e la riforma apportata dalla l. 15 luglio 2009, n. 94 quale
espressione del diritto penale del nemico “in senso debole” ovvero “in senso ampio”.
Più esattamente, nel caso di specie, l’overruling favorevole aveva riguardato
l’ambito di applicazione soggettiva dell’art. 6, comma 3, d.lgs. 286 del 1998 (Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero), che contempla la contravvenzione di omessa esibizione dei documenti di
identità e di soggiorno da parte dello straniero (425).
Infatti, a seguito della novella di cui alla l. 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in
materia di sicurezza pubblica), si era posto il problema se la fattispecie incriminatrice ivi
425() In particolare, l’art. 6, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 («Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero») prevede che «Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino ad euro 2.000». in argomento, v. G. BARBUTO, L’obbligo di esibizione dei documenti di viaggio e soggiorno a richiesta degli organi di pubblica sicurezza , in S. Corbetta, A. Della Bella, G.L. Gatta (a cura di), Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Milano, 2009, p. 229; nonché A. CAPUTO, Ingiustificata inosservanza dell’orine di esibizione di documenti identificativi e di documenti relativi al soggiorno, in A. Caputo-G. Fidelbo (a cura di), Reati in materia di immigrazione e stupefacenti, Torino, 2012, 123;
162
prevista fosse ancora applicabile sia agli stranieri regolari che a quelli irregolarmente
presenti sul nostro territorio, come pacificamente ritenuto prima della riforma, oppure si
dovesse ritenere che il campo di applicazione soggettivo della norma fosse cambiato. Gli
stranieri irregolari, in quanto tali, sono ontologicamente sprovvisti del permesso di
soggiorno.
Prima della riforma legislativa, in particolare, la norma puniva con le pene
congiunte dell’ammenda e dell’arresto lo straniero che, senza giustificato motivo, non
esibisse, a richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza, due categorie di
documenti, in via alternativa tra loro: il passaporto o altro documento di identificazione,
«ovvero» il permesso o la carta di soggiorno. La circostanza che l’esibizione di uno
qualsiasi dei documenti valesse ad escludere il reato, dimostrava che l’incriminazione era
diretta solo a consentire la sicura identificazione dello straniero e non anche a verificarne
la regolare presenza sul territorio dello Stato. Conseguentemente la norma incriminatrice
in questione era applicabile anche allo straniero irregolarmente soggiornante nel nostro
territorio (426).
Dopo la riforma legislativa, la Corte di cassazione, con tre pronunce a sezioni
semplici (427), aveva inizialmente ritenuto che il campo applicativo della citata fattispecie
incriminatrice fosse il medesimo e che la stessa dovesse, quindi, continuare ad essere
applicata tanto agli stranieri regolari che a quelli irregolari.
426() La Corte di cassazione, sotto la vigenza del vecchio testo della norma, si era più volte espressa in questo senso. Ex pluribus, cfr. Cass., sez. un., 29 ottobre 2003, n. 45801. Per un commento a tale decisione, v. A. ABUKAR AYO, Sulla esigibilità del possesso ed esibizione di un documento di riconoscimento dello straniero clandestino, in Giust. Pen., II, 2004, p. 337; nonché O. FORLENZA, Il mirino del testo unico dell’immigrazione punta su passaporto e carta d’identità, in Guida dir., 1, 2004, p. 75. Per la posizione della dottrina prima della riforma legislativa, v. F. PALAZZO, Destinatari e limiti dell’obbligo di esibizione del di documenti previsto dal testo unico dell’immigrazione , in Quest. Giust., 2004, p. 783.427() Cass., sez. I, 30 settembre 2010, n. 37060; Cass., sez. I, 20 gennaio 2010, n. 6343; Cass., sez. I, 23 settembre 2009, n. 44157.
163
Successivamente, però, la Corte di legittimità, a sezioni unite (428), aveva adottato
una soluzione del tutto opposta, in virtù della quale la nuova norma sarebbe stata
applicabile ai soli stranieri regolari e non anche a quelli irregolari (429). La novella del
2009, infatti, avrebbe determinato una parziale abolitio criminis, abrogando la fattispecie
contravvenzionale preesistente, nella parte in cui si riferiva agli stranieri irregolari, con
conseguente sottoposizione alla disciplina di cui all’art. 2, comma 2, c.p. Più nel
dettaglio, l’avvenuta sostituzione della disgiuntiva «ovvero» con la congiunzione «e»,
relativamente alle due categorie di documenti da esibire, rendeva palese che, al fine di
adempiere al precetto, fosse necessaria l’esibizione congiunta tanto dei documenti di
identificazione che del titolo di soggiorno. Conseguentemente la ratio della norma era ora
diretta non più all’identificazione dello straniero, bensì alla verifica della sua legittima
presenza sul territorio nazionale. Evidente era, pertanto, l’inapplicabilità della fattispecie
agli stranieri irregolari, ontologicamente privi dei documenti di soggiorno.
La pronuncia in questione aveva, quindi, prodotto un indubbio overruling
favorevole, poiché, per effetto di essa, un fatto che prima era considerato reato – ossia la
mancata esibizione dei documenti da parte dello straniero irregolare – successivamente
non lo era più.
428() Si fa riferimento a Cass, sez. un., 24 febbraio 2011, n. 16543, Alacev, in Cass. pen., 2011, p. 2886, con Osservazioni di V. DI PEPPE. Per un commento a tale decisione, v. G.L. GATTA, Inottemperanza del “clandestino” all’ordine di esibire i documenti: davvero abolitio criminis?, in Dir. pen. e proc., 2011, p. 1348.429() Anche parte della giurisprudenza di merito, prima della Sezioni unite, si era espressa in questo senso. Cfr. Trib. Orvieo, 16 febbraio 2010; Trib. Orvirto, 2 marzo 2010; Trib. Orvieto, 1 giugno 2010; Trib. di Rovereto, 27 luglio 2010; Trib. Bologna, XXX. In dottrina, v. M. GAMBARDELLA, Ancora sulla mancata esibizione dei documenti da parte del cittadino straniero “irregolare” , in Quest. giust., 3, 2010, p. 173; nonché A. GILBERTO, Lo straniero irregolare è ancora punibile per il reato di omessa esibizione dei documenti?, in Corr. mer., 2011, p. 295.
164
4. Il principio di legalità “materiale” o “sostanziale” e la giurisprudenza della Corte
Edu e della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Il principio di legalità è uno dei fondamentali baluardi del moderno Stato di diritto
ed è espressione del più generale principio di separazione dei poteri. Esso è sancito, per
quanto riguarda la materia penale, dall’art. 25, comma 2, Cost. e costituisce suprema
garanzia per la libertà del cittadino, consentendogli di conoscere con anticipo la liceità
del comportamento che intende tenere (430) e, in tale ottica, la legalità si lega
necessariamente all’irretroattività.
Tuttavia, il principio cui ha fatto ricorso la giurisprudenza per ritenere operante
l’overruling nel nostro ordinamento è la legalità “materiale” o “sostanziale” di cui all’art.
7, par. 1, Cedu, così come elaborata dalle Corti europee (431). Più in particolare, la Corte
europea dei diritti dell’uomo ha elaborato una “nozione autonoma” del principio di
legalità, da un lato, e dello stesso concetto di “legge”, dall’altro. In tal modo, essa ha, in
primo luogo, inteso evitare che le diverse qualificazioni interne dei singoli Paesi
consentissero agli Stati di sottrarsi agli obblighi convenzionali. In secondo luogo, ha
voluto ideare una nozione che fosse unitaria sia per gli ordinamenti di common law che
430() F. RAMACCI, Corso di diritto penale, IV ed., Torino, 2007, p. 72. 431() Sul principio di legalità in ambito europeo, cfr. V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, cit., p. 69; F. MAZZACUVA, L’interpretazione evolutiva del nullum crimen nella recente giurisprudenza di Strasburgo, in V. Manes -V. Zagrebelsky (a cura di), La convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano , Milano, 2011, p. 411. Invece, sull’adeguamento del nostro ordinamento giuridico a quello europeo, v. E. APRILE, I meccanismi di adeguamento del sistema penale nella giurisprudenza della Corte di cassazione , ivi, p. 509; nonché V. MANES, Sub art. 7, in Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrbelsky, Padova, 2012, p. 258.
165
per quelli di civil law. In terzo luogo, al fine di abbattere le diversità tra le fonti di
produzione legislativa all’interno degli stessi Paesi di diritto continentale (432).
Per rendere effettivo il principio di legalità, inoltre, la Corte di Strasburgo ha
sempre affermato che ad esso sono coessenziali la ragionevole “conoscibilità” e
“prevedibilità” della disposizione. Ove per «accessibilità» e «prevedibilità» della norma
penale si intende conoscibilità del dato legislativo formale, ma anche prevedibilità della
prassi applicativa. Proprio per tale motivo, anche la “legge” deve essere intesa non in
senso “formale”, bensì “sostanziale”: essa deve ricomprendere non solo qualunque testo
normativo, a qualunque livello della gerarchia nazionale delle fonti, ma anche il diritto
non scritto, di creazione giurisprudenziale (433). Una diversa interpretazione, infatti,
escluderebbe dalla tutela assicurata dalla Cedu i Paesi di common law. D’altra parte, ad
avviso della Corte, il concetto di una giurisprudenza quale fonte del diritto non sarebbe
del tutto estraneo neppure agli ordinamenti di civil law, ove, per quanto chiaro possa
essere un testo di legge, è immancabile una interpretazione giurisprudenziale avente ad
oggetto la singola norma. Dunque, diritto vigente negli ordinamenti giuridici continentali
sarebbe il “diritto vivente”, ossia il diritto come è interpretato dalle corti nazionali (434). In
quest’ottica, è di plastica evidenza il ruolo che i giudici assumono ai fini della
prevedibilità della norma di legge.
Più nel dettaglio, è bene precisare come la legalità sostanziale sia nata in ambito
europeo quale corollario del divieto di retroattività della norma penale sfavorevole, esteso
432() V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, cit., p. 75.433() In argomento, ex pluribus, v. sentenze 8 dicembre 2009, Previti contro Italia; Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri contro Italia. 434() V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, cit., p. 77.
166
anche alle interpretazioni giurisprudenziali in malam partem (435). Solo in un secondo
momento tale principio è stato esteso anche alla retroattività della legge penale
favorevole (436).
Infatti, con la sentenza resa nel caso Scoppola (437), la Corte di Strasburgo ha
affermato l’importante principio secondo cui l’art. 7 Cedu non statuisce solo il principio
di irretroattività delle leggi penali più severe, ma implicitamente anche il principio di
retroattività della legge penale meno favorevole al reo. Nella medesima pronuncia,
inoltre, è stato affermato che la nozione di “diritto” (“law”) di cui all’art. 7 corrisponde a
quella di legge, che compare anche in altri articoli della Convenzione. Tale espressione
comprende il diritto sia di origine legislativa che giurisprudenziale e «implica delle
condizioni qualitative, tra cui quella dell’accessibilità e della prevedibilità». È stato,
altresì, affermato come, nella tradizione giuridica degli Stati parte della Convenzione, la
giurisprudenza contribuisce necessariamente all’evoluzione progressiva del diritto penale
(438). Infatti, per quanto chiaro possa essere il testo di una legge, esso non può mai
presentare una precisione assoluta e deve, perciò, necessariamente servirsi di formule
vaghe, la cui applicazione dipende dalla pratica, con la conseguenza che «in qualsiasi
435() In particolare, la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza 8 febbraio 2007, ricorso C-3/06, Gruppo Danone contro Commissione, ha ritenuto il principio di irretroattività applicabile anche alla nuova interpretazione sfavorevole di una norma incriminatrice, qualora detta interpretazione non fosse ragionevolmente prevedibile nel momento della commissione dell’infrazione. Per un commento a tale decisione, v. A. BALSAMO, La dimensione garantistica del principio di irretroattività e la nuova interpretazione giurisprudenziale “imprevedibile”: una “nuova frontiera” del processo di “europeizzazione” del diritto penale, in Cass. pen., 2007, p. 2202.436() Sul punto v. CGCE, sent. del 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi, ove è stato affermato il principio per il quale «il principio di applicazione retroattiva della pena più mite rientra tra i principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare il diritto comunitario». 437() Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia. Per un commento a tale decisione, cfr. M. Gambardella, Il “caso Scoppola”: per la Corte europea l’art. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole, in Cass. pen., 2010, p. 2020; nonchè, G. ICHINO, “L’affaire Scoppola c. Italia” e l’obbligo dell’Italia di conformarsi alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 2010, p. 841. 438() Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 dicembre 2009, Previti contro Italia.
167
ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione di
legge, anche in materia penale, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione
giudiziaria» (439).
All’interno del nostro ordinamento, invece, il principio di retroattività della legge
penale favorevole al reo non trova aggancio nell’art. 25, comma 2, Cost., che si riferisce
alla sola irretroattività della legge penale sfavorevole. Esso è, invece, espressamente
contemplato dall’art. 2, comma 4, c.p., che però fa salva la sentenza irrevocabile di
condanna. Oltretutto, la norma ha rango di legge ordinaria ed è, quindi, derogabile: non
esprime, pertanto, un principio avente portata generale. Tuttavia, al fine di dare copertura
costituzionale a questo principio - che comunque era stato affermato in ambito europeo e
comunitario - sono state elaborate diverse soluzioni. Infine, la Corte costituzionale (440) ha
ricondotto all’art. 3 Cost. il principio di retroattività della norma penale più favorevole al
reo. Ad avviso della Consulta, infatti, il principio di uguaglianza impone che siano trattati
allo stesso modo soggetti che abbiano commesso i medesimi fatti, a prescindere se li
abbiano commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio
criminis o la modifica mitigatrice. Anche la dottrina italiana si è poi espressa in questo
senso (441). Tuttavia, mentre il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole è
inderogabile, in quanto espressamente sancito dall’art. 25, comma 2, Cost., al contrario,
quello della retroattività della legge penale favorevole, in quanto espressione del più
generale principio di uguaglianza, è derogabile, ogniqualvolta una deroga allo stesso
risulti ragionevole.
439() Così si è espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza dell’8 dicembre 2009, Previti contro Italia. 440() In tal senso, cfr. Corte cost., sent. nn. 393 e 394 del 2006. 441() Sul punto, v. S. DE FLAMMINEIS, Sull’applicazione retroattiva di un’interpretazione giurisprudenziale in favore del reo, in Dir. pen. e proc., 2012, p. 748
168
5. Il caso Beschi (Sezioni unite della Corte di Cassazione n. 18288 del 21.01.2010).
Oltre al principio di legalità materiale, così come elaborato dalle Corti europee, la
giurisprudenza di merito italiana ha fatto perno anche sul principio di diritto enunciato
dalla Cassazione con la sentenza Beschi, per sostenere la revoca del giudicato ex art. 673
c.p.p. Con tale pronuncia, infatti, la Cassazione, seppur in ambito diverso, ha comunque
riconnesso efficacia al mutamento di giurisprudenza favorevole. Più nel dettaglio, la
Corte di cassazione a Sezioni unite (442) ha, nella specie, composto un contrasto
interpretativo precedentemente intercorso tra le sezioni semplici ed ha affermato il
principio – ritenuto rivoluzionario da tutti gli interpreti – secondo cui il mutamento di
giurisprudenza ad opera del supremo organo di nomofilachia può consentire il
superamento del c.d. giudicato esecutivo (443).
Più esattamente, la Cassazione ha affermato che «Il mutamento di giurisprudenza
in materia penale, intervenuto con decisione delle sezioni unite della cassazione,
integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede
esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata (La Corte ha
precisato che tale soluzione è imposta dalla necessità di garantire il rispetto dei diritti 442() Per un commento all’ordinanza di remissione della questione alle Sezioni unite, cfr. R. RUSSO, Il ruolo della law in action e la lezione della Corte europea dei diritti umani al vaglio delle Sezioni unite. Un tema ancora aperto, in Cass. pen., 2011, p. 26. 443() Il «giudicato esecutivo» è un’espressione tecnicamente impropria con la quale solitamente si designa la preclusione di cui all’art. 666, comma 2, c.p.p. In argomento, v. V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 4. Già prima della pronuncia della Cassazione in commento, parte della giurisprudenza di merito aveva ritenuto che il mutamento giurisprudenziale dovuto all’intervento delle Sezioni unite integrasse quel “nuovo elemento” che rendeva ammissibile una nuova istanza avente ad oggetto la concessione dell’indulto in precedenza negato. Si fa, in particolare, riferimento all’ordinanza della Corte d’Appello di Milano, Sezione V penale, del 2 febbraio 2009. Per un commento a tale decisione, v. C. ZANOTTI, L’indiscutibile rilevanza delle norme CEDU e delle sentenze della Corte Europea: il principio di legalità “allargata” e la “vincolatività” dei mutamenti giurisprudenziali, in Foro ambr., 2010, p. 73.
169
fondamentali della persona in linea con i principi della Convezione europea dei diritti
dell’uomo il cui all’art. 7, come interpretato dalle Corte europee, include nel concetto di
legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione
giurisprudenziale».
Appare di tutta evidenza come abbia avuto importanza dirimente l’adesione, da
parte dei giudici di legittimità, al principio di legalità sostanziale fatto proprio dalla
giurisprudenza di Strasburgo, che – come si è visto – equipara al diritto di formazione
legislativa quello di produzione giurisprudenziale.
Il mutamento giurisprudenziale nel caso di specie era quello avente ad oggetto
l’applicabilità o meno dell’indulto anche alle persone condannate all’estero e
successivamente trasferite in Italia per l’esecuzione della pena (444). Mentre in precedenza
la Corte di cassazione aveva sempre aderito all’orientamento negativo, con una pronuncia
del 2008 (445), la Corte di legittimità cambia radicalmente indirizzo ritenendo, invece, che
l’indulto sia applicabile anche a chi è stato condannato all’estero e venga poi trasferito in
Italia per scontare la pena.
A seguito di questo nuovo orientamento interpretativo, Beschi – che già si era
stato visto rigettare la richiesta di indulto in base alla precedente giurisprudenza –
presenta una nuova istanza. Le Sezioni unite vengono, quindi, investite della questione se
il mutamento giurisprudenziale, per effetto di una sentenza promanante dal supremo
organo di nomofilachia, possa costituire quel novum sulla cui base rinnovare, in sede
esecutiva, una domanda già respinta e superare, così, la preclusione di cui all’art. 666,
comma 2, c.p.p.
444() Si trattava di fare applicazione delle disposizioni di cui alla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 334 del 1988.445() Si fa, in particolare, riferimento a Cass., sez. un., 10 luglio 2008, n. 36527, Napoletano.
170
L’orientamento (446) consolidato sul punto, infatti, riteneva che il mutamento di
giurisprudenza non fosse di per sé elemento sufficiente a superare il cd. giudicato
esecutivo (di cui all’art. 666, comma 2, c.p.p) (447), venutosi a formare per effetto del
rigetto dell’istanza precedentemente proposta.
Le Sezioni unite, invece, con la sentenza in commento, aderiscono
all’orientamento minoritario (448). In particolare, enunciano il principio di diritto secondo
cui il mutamento di giurisprudenza per effetto di una sentenza della Corte di cassazione a
Sezioni unite integra un nuovo elemento di diritto e rende perciò ammissibile la
riproposizione in sede esecutiva della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza
rigettata.
L’iter argomentativo seguito dalle Corte di legittimità è, però, del tutto nuovo
rispetto al passato. In particolare, fa riferimento all’obbligo del giudice di interpretare la
norma interna in conformità ai principi enunciati dalla Cedu e, segnatamente, al principio
di legalità di cui all’art. 7, secondo l’interpretazione datane dalla giurisprudenza di
Strasburgo. La Cassazione, nella sentenza in commento, fa, quindi, propria
l’interpretazione secondo la quale fonte legislativa astratta ed interpretazione
giurisprudenziale si fondono in maniera indissolubile nella norma, rendendola solo in
questo modo conoscibile ex ante e, dunque, effettiva.
La Corte, inoltre, afferma che la nomofilachia è espressione del principio di
uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perché assicura che tutti i cittadini siano trattati in
446() Ex pluribus, v. Cass., sez. I, 11 marzo 2009, n. 29669. 447() È bene sottolineare come la Cassazione, nella sentenza Beschi in commento abbia in realtà affermato che è improprio parlare di giudico con riferimento al fenomeno di cui all’art. 666, comma 2, c.p.p., trattandosi piuttosto di una preclusione processuale, stante le peculiarità tipiche della fase esecutiva, caratterizzata dalla provvisorietà e dalla natura rebus sic stantibus dei relativi provvedimenti. 448() In particolare, l’orientamento opposto a quello di cui in precedenza si è detto era stato espresso tra le altre, da Cass., sez. V, 24 febbraio 2004, n. 15099.
171
maniera uniforme davanti alla legge (449). È vero che l’art. 65 dell’ordinamento
giudiziario attribuisce la funzione nomofilattica alla Corte di cassazione nel suo
complesso, anche alle sezioni semplici. Tuttavia, quando le Sezioni unite intervengono a
dirimere un contrasto, hanno un peso particolarmente rilevante tale da generare
affidamento (450) nei consociati circa la futura interpretazione della norma.
Pertanto, posto che l’art. 666, comma 2, c.p.p. deve essere interpretato alla luce
delle norme della Cedu, ne consegue che la decisione delle Sezioni unite che modifichi il
precedente “diritto vivente” può essere considerato quel novum che, ai sensi della norma
da ultimo citata, consente il superamento della preclusione processuale, cui in precedenza
il condannato era incorso e questi possa, così, riproporre l’istanza, senza che con ciò
possa essere messo in discussione il valore del giudicato, posto che l’art. 666, comma 2,
c.p.p. implica in realtà una preclusione solo processuale che, impropriamente, viene
denominata giudicato esecutivo (451).
Fin da subito, gli interpreti hanno messo in evidenza il carattere, per certi versi,
rivoluzionario del principio di diritto affermato dalla Cassazione con tale pronuncia e,
soprattutto, che esso avrebbe potuto avere portata espansiva, applicabile anche in molti e
diversi casi rispetto all’indulto, come di fatto è stato, tant’è che – come si è anticipato –
sulla base di esso si è arrivati a sostenere la revoca ex art. 673 c.p.p. della sentenza di
condanna precedentemente inflitta.449() Nella stessa Relazione al progetto preliminare del codice vigente (pag. 200), infatti, si è affermato che, in ipotesi di decisioni giurisprudenziali contrastanti, viene frustrata l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici e, conseguentemente, il principio di legalità, cui corollario è il principio di tassatività, il quale implica che, uno stesso fatto non possa essere di volta in volta ritenuto penalmente lecito ovvero illecito. Sul punto, V. A. MACCHIA, La modifica interpretativa cambia il “diritto vivente”, in Guid. dir., 2010, n. 27, p. 80.450() A. MACCHIA, La modifica interpretativa cambia il “diritto vivente”, cit., p. 80.451() Nella sentenza Beschi (punto 11) è stato, anzi, espressamente affermato che un sopravvenuto mutamento giurisprudenziale non potrebbe mai incidere sulla cosa giudicata. In questo senso, v. A. MARI, Mutamento sopravvenuto di giurisprudenza e giudicato: la consulta dichiara infondata la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p., in Cass. pen., 2013, p. 952.
172
6. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. (ordinanza del
Tribunale di Torino del 27.6.2011).
Il giudice a quo ha aderito totalmente (452) all’interpretazione fatta propria dalla
Corte di cassazione con la sentenza Beschi (453). Tuttavia, egli ha ritenuto che il principio
di diritto ivi affermato non fosse di per sé sufficiente per consentire al singolo giudice di
spingersi fino a revocare la precedente sentenza di condanna, in base al meccanismo di
cui all’art. 673 c.p.p. (454). Infatti, avrebbe costituito limite invalicabile in tal senso il dato
letterale, posto che la norma limita la revoca del giudicato penale alle sole ipotesi di
abrogazione legislativa ovvero di declaratoria di illegittimità da parte della Corte
costituzionale. Nella fattispecie all’attenzione del giudice a quo, peraltro, non si sarebbe
al cospetto di una vera e propria abolitio criminis, posto che il fatto era stato commesso
l’11 giugno 2010, ossia quando il testo dell’art. 6, comma 3, d.lgs. 286/1998 era già stato
riformulato, sicché si sarebbe più correttamente trattato di una successione di
interpretazioni giurisprudenziali difformi.
452( ) Si esprime in questi termini V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 4. 453() Per un attento esame dei rapporti tra la sentenza Beschi, l’ordinanza di rimessione alla Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p., nonché la sentenza delle Sezioni unite civili n. 15144 del 2011, v. E. VINCENTI, Note minime sul mutamento di giurisprudenza (overruling) come (possibile?) paradigma di un istituto giuridico di carattere generale, in Cass. pen., 2011, p. 4129; 454() Per una approfondita analisi, prima della sentenza della Corte costituzionale n. 230 del 2012, dei possibili effetti del mutamento giurisprudenziale favorevole all’imputato all’interno del nostro ordinamento, cfr. M. GAMBARDELLA, Eius est abrogare cuius est condere. La retroattività del diritto giurisprudenziale favorevole, in Dir. pen. cont., 14 maggio 2012.
173
Da tale considerazione è sorta, pertanto, la necessità di sollevare questione di
legittimità costituzionale per violazione - tra l’altro (455) - dell’art. 117, comma 1, Cost.,
invocando, quali norme interposte (456), gli articoli della Cedu (457).
Più esattamente, il giudice di Torino ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 673 c.p.p., nella parte in cui non prevede la revoca della sentenza
di condanna già passata in giudicato – e delle pronunce ad essa assimilate – anche in caso
di mutamento di giurisprudenza, per effetto di una decisione della Corte di cassazione a
Sezioni unite, in base alla quale un fatto, già giudicato, cessa di essere penalmente
illecito.
Nel caso di specie, il pubblico ministero aveva avanzato, al Tribunale, in funzione
di giudice dell’esecuzione, la richiesta di revoca parziale della precedente sentenza di
patteggiamento con cui un cittadino straniero, irregolare nel nostro territorio, era stato
condannato - tra l’altro - per il reato di cui all’art. 6, d.lgs. 286/1998, per un fatto
455() Nell’ordinanza in parola, infatti, sono stati invocati anche altri parametri di costituzionalità dell’art. 673 c.p.p. e, segnatamente, gli artt. 3, 13, 25, comma 2, e 27, comma 3, della Costituzione. 456() Com’è noto, a partire dalle sentenza della Corte cost. n. 348 e 349 del 2007 ( e, successivamente, cfr. le sentenze n. 78 del 2012; n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011; n. 93 del 2010; nn. 239, 311 e 317 del 2009; n. 39 del 2008), la Corte costituzionale ha affermato il principio per cui in caso di asserito contrasto tra il diritto italiano e le norme della Cedu, nel significato attribuito loro dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il giudice di merito deve, innanzitutto, procedere ad una interpretazione convenzionalmente conforme, ossia ad una interpretazione che sia il più possibile rispettosa dei parametri di cui alla Convenzione. Ove ciò non sia possibile e il dubbio rimanga, il giudice di merito non può procedere a disapplicare egli stesso la normativa interna sospettata di contrasto con la Cedu, ma deve promuovere questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui fa riferimento agli «obblighi internazionali», così come integrato dalla norma Cedu asseritamente violata, quale «norma interposta». La Consulta ha, altresì, precisato che le norme della Cedu, proprio perché «interposte», si collocano pur sempre ad un livello «sub-costituzionale», rimanendo subordinate all’intera Costituzione italiana. Ne consegue che la Corte costituzionale, pur non potendo certo sindacare l’interpretazione data dalla Corte EDU alle norme della Convenzione, è pur sempre tenuta a verificare la conformità a Costituzione della norme Cedu, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo e, nell’ipotesi – pur sempre eccezionale - in cui ravvisi un contrasto, a ritenere che la norma Cedu non sia idonea ad integrare il suddetto parametro costituzionale.457() Più esattamente, le norme Cedu asseritamente violate – secondo il giudice a quo – erano gli artt. 5 (Diritto alla libertà ed alla sicurezza), 6 (Diritto ad un processo equo) e 7 (Nessuna pena senza legge). La Consulta, tuttavia, con la sentenza n. 230 del 2012, ha giudicato inconferenti i riferimenti agli artt. 5 e 6 Cedu.
174
commesso l’11 giugno 2010, basando tale richiesta di revoca proprio sul nuovo
orientamento giurisprudenziale favorevole, di cui alla sentenza Alacev.
L’ordinanza di rimessione della questione alla Corte costituzionale è stata criticata
in dottrina (458) sotto diversi punti di vista. In primo luogo, nella misura in cui
l’overruling che legittimerebbe una revoca ex art. 673 c.p.p. sarebbe solo quello
promanante da una decisione delle Sezioni unite della Cassazione e non anche quello
intervenuto per effetto di una decisione delle sezioni semplici. Infatti, un mutamento di
giurisprudenza potrebbe aversi anche per effetto di una pronuncia della Cassazione a
sezione semplici. Inoltre, la funzione di nomofilachia – si osserva (459) - è riconnessa
dall’art. 65 dell’ord. giud. alla Cassazione nel suo complesso e non solo alle Sezioni
unite.
In secondo luogo, la decisione in commento è stata criticata (460), altresì, perché ha
riconnesso l’effetto di una revoca ex art. 673 c.p.p. alle sole sentenze delle sezioni unite
che determinano un mutamento di giurisprudenza e non anche a quelle che, ad esempio,
risolvono un contrasto giurisprudenziale. Sebbene, infatti, solo le sentenze che
determinano un mutamento giurisprudenziale producono un effetto analogo a quello della
successione di leggi nel tempo, tuttavia, dal punto di vista della tutela dei diritti
fondamentali, la situazione sarebbe pressoché analoga a quella di chi è stato condannato
sulla base di un orientamento giurisprudenziale poi sconfessato.
458() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., pp. 8-9. 459() Ibidem. 460() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 9.
175
È stato, altresì, messo in evidenza come, con la pronuncia in commento, il giudice
a quo avrebbe sostanzialmente chiesto alla Consulta una pronuncia «manipolativa di
sistema» (461), nella misura in cui sembrava preludere all’innesto nel nostro ordinamento
– appartenente agli ordinamenti di civil law – di regole che, per certi versi, richiamavano
logiche proprie degli ordinamenti di common law, come lo stare decisis.
7. L’ordinanza del G.u.p. del Tribunale di Torino del 30 gennaio 2012.
Sebbene fosse stata sollevata questione di legittimità costituzionale, non è mancato
chi, nella giurisprudenza di merito, ha ritenuto di poter procedere direttamente a revocare
la precedente sentenza di condanna, per effetto della sopravvenuta interpretazione
giurisprudenziale favorevole al reo (462). Anche in questo caso, così come in quello
sottoposto all’attenzione della Corte costituzionale con l’ordinanza di remissione di cui si
è detto, la condanna era stata inflitta per il reato di cui all’art. 6, comma 3, d.lgs.
286/1998 ed il mutamento giurisprudenziale favorevole era quello di cui alla sentenza
Alacev.
L’ordinanza di revoca si è fondata, da un lato, sui principi affermati dalla
giurisprudenza Cedu e della Corte di Giustizia dell’Unione europea e, dall’altro, sulla
possibilità di procedere all’overruling in materia penale, così come affermato dalla Corte
di cassazione con la sentenza Beschi.
461() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 9. 462() Per un commento a tale pronuncia, v. A. BALSAMO –S. DE FLAMMINEIS, Interpretazione conforme e nuove dimensioni garantistiche in tema di retroattività della norma penale favorevole, in www.archiviopenale.it, 2, 2012.
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Facendo applicazione dei suesposti principi, il giudice, in virtù del nuovo
orientamento favorevole della Cassazione, ha revocato la sentenza di condanna
precedentemente inflitta. In particolare, l’iter argomentativo della pronuncia si è basato
su tre aspetti (463). In primo luogo, sulla considerazione per cui, non consentendo al reo
già condannato di accedere alla nuova opzione interpretativa, si determinerebbe una
grave violazione dei diritti fondamentali della persona, così come sanciti dall’art. 7 della
Cedu. In secondo luogo, sul principio di retroattività della legge penale più favorevole,
che costituisce fondamentale baluardo della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo.
Infine, sull’affermazione secondo cui il termine “diritto”, che compare nell’art. 7 Cedu,
farebbe riferimento sia al diritto di produzione legislativa che di fonte giurisprudenziale.
Da tali affermazioni, il giudice ha tratto la conclusione che, anche all’interno del
nostro ordinamento, il principio di retroattività della norma penale più favorevole al reo
riguarda non solo le modifiche legislative, ma anche l’overruling giurisprudenziale. Con
la conseguenza che anche i nuovi orientamenti interpretativi, se più favorevoli al reo,
producono effetti retroattivi. In altri termini, la pronuncia in parola ha ritenuto principio
fondamentale quello della retroattività favorevole al reo e lo ha applicato anche ai
mutamenti giurisprudenziali, stante l’equiparazione in altre sedi fatta dalla Corte Edu tra
diritto di produzione legislativa e di fonte giurisprudenziale.
8. Il principio di legalità formale.
463() In argomento, v. S. DE FLAMMINEIS, Sull’applicazione retroattiva di un’interpretazione giurisprudenziale in favore del reo, cit., p. 744.
177
Già prima che la Corte costituzionale si pronunciasse sul punto, la dottrina aveva
messo in evidenza (464) che il principio di legalità in senso materiale, così come fatto
proprio dalla Corte Edu, poteva determinare una perdita di protezione del principio di
riserva di legge di cui all’art. 25, comma 2, Cost. Il principio di legalità di cui all’art. 7
Cedu, infatti, è meno ricco di quello contemplato nella nostra Carta costituzionale, in
quanto uno dei suoi fondamentali corollari, nel nostro ordinamento, è anche il principio
di riserva di legge, nel senso che fonte del diritto penale può essere solo la legge del
Parlamento o altra ad esso equiparata. Da tale concetto rimane, quindi, estranea la
giurisprudenza quale fonte del diritto, come sarebbe invece in caso di overruling. In virtù
dei principi espressi dalla nostra Costituzione, dunque, la legge scritta non può essere
equiparata al diritto di produzione giurisprudenziale.
Com’ è noto, il principio di riserva di legge serve a tutelare non tanto l’esigenza di
certezza, quanto piuttosto la garanzia offerta dalla fonte parlamentare (465). Il parlamento
è, infatti, unico detentore del potere legislativo in materia penale e, poiché
rappresentativo dell’intero popolo, si presume che eserciti il potere legislativo in modo
non arbitrario, bensì per il bene e l’interesse di tutti. Il dibattito parlamentare, inoltre,
assicura che la legge sia promulgata solo dopo che sia stata sentita anche la voce
dissenziente della minoranza. Al contrario, l’esigenza di certezza, assicurata dalla
prevedibilità delle conseguenze della propria condotta, è tutelata dai principi di
determinatezza e tassatività (466) delle fattispecie incriminatrici, che proteggono il
464() V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, cit., p. 80. 465() Ibidem. 466() V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, cit., p. 83.
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cittadino, rispettivamente, da arbitri del legislatore e del potere giudiziario. L’esigenza di
certezza, inoltre, è assicurata dal principio di irretroattività della legge penale.
9. La pronuncia della Corte costituzionale n. 230 del 2012.
La Corte costituzionale (467) ha, infine, ritenuto infondata la questione di legittimità
costituzionale sollevata dal giudice a quo, statuendo che non è imposto dalla Costituzione
revocare il giudicato di condanna ex art. 673 c.p.p., in caso di sopravvenuto overruling
giurisprudenziale favorevole, che abbia escluso la rilevanza penale del fatto per il quale
era intervenuta la condanna. La Corte costituzionale ha gelato sul nascere una lettura così
avanguardistica (468) dell’art. 673 c.p.p. che, sulla base di una interpretazione adeguatrice
ai canoni europei, avrebbe portato addirittura a revocare il precedente giudicato.
In particolare, il Giudice delle Leggi ha evidenziato come l’ordinamento giuridico
italiano si fondi su principi non perfettamente coincidenti con quelli espressi dalla Cedu.
Ne consegue che non è possibile attribuire una funzione normativa alla giurisprudenza
penale, seppur proveniente dal supremo organo di nomofilachia, a Sezioni unite.
In via preliminare, è bene sottolineare come la Corte costituzionale abbia ritenuto
la questione di legittimità costituzionale rilevante nel giudizio a quo, così rigettando
l’eccezione sul punto sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato. In particolare, la
difesa erariale aveva sostenuto che, anche nella fattispecie in esame, si sarebbe in realtà,
al cospetto di una successione di leggi penali nel tempo, per effetto della sostituzione
467() Per un commento a tale pronuncia, v. A. MARI, Mutamento sopravvenuto di giurisprudenza e giudicato: la consulta dichiara infondata la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p., cit., p. 945. 468() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 4.
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dell’art. 6, comma 3, d.lgs. 286 del 1998 ad opera della l. 94 del 2009. In altri termini, si
sarebbe stati di fronte ad una successione di norme incriminatrici e non in presenza di una
successione di orientamenti giurisprudenziali, con la conseguenza che il fenomeno
sarebbe già rientrato nel campo di applicazione di cui all’art. 673 c.p.p. Tale tesi, peraltro,
nelle more del giudizio di costituzionalità, era stata fatta propria anche dalla Corte di
legittimità (469).
Più nel dettaglio, la Corte costituzionale ha osservato che, nel caso di specie, il
fatto era stato commesso dopo l’entrata in vigore della l. 94 del 2009, quando il testo
dell’art. 6, comma 3, d.lgs. 286/1998 risultava già formulato nell’attuale versione. Ne
consegue che non potrebbe venire in considerazione la disciplina di cui agli artt. 2,
comma 2, c.p. e 673 c.p.p., la quale fa, invece, riferimento alla diversa ipotesi in cui il
fatto viene commesso sotto la vigenza della vecchia normativa e, solo successivamente,
interviene una nuova norma che abroghi la precedente fattispecie incriminatrice. Non ci
si trova, quindi, in presenza di una successione di leggi penali nel tempo in senso proprio.
Alla luce delle suesposte considerazioni, la Consulta ha ritenuto, quindi, non
implausibile (470) la tesi prospettata dal giudice a quo, secondo la quale si sarebbe di
fronte ad una successione, non già di leggi penali, bensì di diverse interpretazioni
giurisprudenziali: all’orientamento affermatosi immediatamente dopo la riforma
legislativa e recepito, quindi, dalla sentenza di cui era stata chiesta la revoca aveva fatto
seguito quello fatto proprio dalle Sezioni unite con la sentenza Alacev.
469() Cass., sez. I, 21 dicembre 2011, n. 545, che, in una fattispecie analoga a quella sottoposta al giudizio di costituzionalità, aveva ritenuto direttamente applicabile l’art. 673 c.p.p., poiché, nel caso di specie, si sarebbe trattato di una abolitio criminis per via legislativa e, in quanto tale, già direttamente rientrante nel campo di applicazione di cui all’art. 673 c.p.p. 470() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 6.
180
La Corte costituzionale appare, quindi, condividere l’impostazione del giudice a
quo, secondo la quale la sentenza Alacev avrebbe determinato un revirement
giurisprudenziale. Tale punto, peraltro, non era pacifico in dottrina (471) poiché non era
mancato chi aveva sottolineato che, in realtà, prima della sentenza a Sezioni Unite, non
fosse neppure possibile ravvisare l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale
consolidato e di segno opposto (472). A tal proposito, è bene precisare come di overruling
si possa parlare solo nell’ipotesi in cui ad un “diritto vivente” si sostituisca un altro
“diritto vivente” (473). Nel caso degli stranieri irregolari, invece, la Cassazione si era
espressa solo in tre pronunce, oltretutto a sezioni semplici, emesse poco dopo la novella
legislativa. Al contrario, gran parte della giurisprudenza di merito, sia prima che dopo le
suddette sentenze, continuava a sostenere l’esatto contrario. Tanto che – come è stato
efficacemente sottolineato (474) – la sentenza a Sezioni unite era piuttosto valsa a formare
un “diritto vivente” che a mutarlo.
La Corte costituzionale ha poi affrontato un ulteriore profilo di ammissibilità della
questione, non direttamente sollevato, questa volta, dall’Avvocatura dello Stato, bensì
emerso in dottrina.
Si fa, in particolare, riferimento a quell’ipotesi ricostruttiva secondo la quale, pur
volendo accedere all’interpretazione fatta propria dalle sezioni unite, Alacev, - secondo
471() Anche successivamente alla pronuncia della Consulta in commento, in dottrina non è mancato chi ha ribadito che, con la sentenza Beschi, in realtà, non si è avuto un vero e proprio fenomeno di overruling. In tal senso, v. A. MARI, Mutamento sopravvenuto di giurisprudenza e giudicato: la consulta dichiara infondata la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p., cit., p. 948. 472() Con l’ordinanza dell’11 novembre 2010, infatti, la Sezione prima aveva rimesso la questione circa l’esatto ambito applicativo dell’art. 6, comma 3, cit. alle Sezioni unite, al fine di «prevenire» un contrasto giurisprudenziale con precedenti pronunce della stessa sezione.473() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 7. 474() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 7.
181
cui bisognerebbe espungere dal campo di applicazione dell’art. 6, comma 3, d.lgs.
286/1998 gli stranieri irregolari - per effetto della riforma legislativa di cui alla l. 94 del
2009, non si sarebbe verificato un fenomeno di parziale abolitio criminis, bensì di cd.
abragatio sine abolitione. Più nel dettaglio, la condotta dello straniero irregolare, dopo la
novella, sarebbe ricaduta nel campo di applicazione di altra fattispecie contravvenzionale,
avente ambito applicativo più ampio e, rispetto alla quale, il reato di cui al testo unico
sull’immigrazione si pone in rapporto di specialità. Ossia quella di cui al combinato
disposto degli artt. 221 t.u.l.p.s. e 294 reg. t.u.l.p.s., che punisce la mancata esibizione ad
ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza dei documenti identificativi da parte di chiunque
e non solo da parte dello straniero. Aderendo a tale impostazione, la questione di
legittimità costituzionale sarebbe stata irrilevante nel giudizio a quo, poiché la perdurante
illiceità della condotta sarebbe stata estranea al campo di applicazione dell’art. 673 c.p.p.,
in quanto si sarebbe trattato del passaggio da una fattispecie punita più gravemente ad
altra punita meno gravemente (475). In tale ipotesi, infatti, avrebbe trovato spazio il
comma 5 dell’art. 2 c.p., ad avviso del quale la retroattività delle legge penale più
favorevole è ostacolata dal giudicato (476).
Tuttavia, la manca prospettazione di una siffatta soluzione ermeneutica da parte
del giudice a quo – soluzione, peraltro, non profilata neppure dalla Cassazione nella
sentenza Alacev -, non avrebbe comportato ad avviso della Corte costituzionale,
l’inammissibilità della questione, poiché, così come sottoposta dallo stesso giudice a quo,
475() La fattispecie di cui al testo unico di pubblica sicurezza è, infatti, punita con pene alternative anziché con pene congiunte, come invece previsto dal T.U. immigrazione. 476() Sebbene tale profilo di rilevanza della questione non fosse stato prospettato dall’Avvocatura dello Stato, la Corte costituzionale pare affrontarlo al fine di voler dare una soluzione definitiva alla questione, esaminando, pertanto, tutti quei profili che erano stati medio tempore esaminati dalla dottrina. Nella specie, tuttavia, la Consulta giunge alla conclusione per cui l’omessa considerazione, da parte del giudice a quo, di una tale prospettiva interpretativa - non contemplata, peraltro, dalla sentenza Alacev - possa portare ad una declaratoria di inammissibilità della questione.
182
la questione di costituzionalità era proprio quella di una eventuale revoca della
precedente sentenza di condanna, accogliendo sic et simpliciter il sopravvenuto
orientamento giurisprudenziale favorevole, senza alcun margine di scostamento da parte
del giudice dell’esecuzione.
Poste tali premesse, la Consulta è giunta alla conclusione per cui l’overruling è
attualmente estraneo all’istituto della revoca del giudicato di cui all’art. 673 c.p.p. Tale
conclusione è di indubbio rilievo, posto che serve ad arginare quelle tendenze evolutive
verso i canoni europei che – come si è visto – avevano già portato la giurisprudenza di
merito a fare applicazione dell’istituto, sulla base di un overruling favorevole delle
Sezioni unite della Suprema Corte (477).
Più nel dettaglio, il Giudice delle Leggi ha evidenziato come l’art. 673 c.p.p.
prenda in considerazione esclusivamente due eventi, ossia l’abrogazione e la
dichiarazione di illegittimità costituzionale, per effetto dei quali viene espunta
dall’ordinamento la norma incriminatrice. In virtù del carattere similare dell’effetto
prodotto - com’è noto - la Suprema corte aveva inglobato nel campo di applicazione
dell’art. 673 c.p.p. anche l’ipotesi in cui la Corte di giustizia dell’Unione europea, con
una propria sentenza, dichiari l’incompatibilità della norma con il diritto europeo avente
477() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 8
183
effetto diretto (478). In tal caso, infatti, i giudici nazionali non avrebbero potuto comunque
fare più applicazione della norma interna oggetto della pronuncia.
La Corte di Cassazione, del resto, già prima della Consulta, aveva disatteso le
istanze volte a ricondurre all’art. 673 c.p.p. fenomeni ermeneutici, quali il mutamento di
giurisprudenza ovvero la risoluzione di contrasti interpretativi, sebbene riconducili alle
Sezioni unite del supremo organo di nomofilachia. Tali decisioni, infatti, per quanto
autorevoli non vincolano certo i giudici chiamati successivamente ad occuparsi di
fattispecie analoghe, avendo, pertanto, un effetto che nulla ha a che vedere con i diversi
fenomeni espressamente contemplati dall’art. 673 c.p.p.
La Corte costituzionale ha, quindi, ritenuto insussistente la paventata violazione
dell’art. 117, comma 1, Cost. per asserito contrasto della disciplina italiana con l’art. 7
Cedu.
Nella specie, infatti, il giudice a quo aveva dato all’art. 7 Cedu un’interpretazione,
ricavata dal connubio di due differenti affermazioni rese dalla Corte Edu in due diverse
occasioni. Da un lato, quella di cui alla sentenza Scoppola del 2009, secondo la quale, al
di là del dato meramente testuale dell’art. 7 Cedu, evocativo del solo principio di
irretroattività della norma penale sfavorevole, in realtà la norma sancirebbe anche il
principio di irretroattività della norma penale più mite. Dall’altro lato, quell’affermazione 478() Del resto, anche la Corte costituzionale aveva ritenuto che le sentenze della Corte di giustizia fossero idonee a costituire ius superveniens ex artt. 673 c.p.p. Sul punto, v. ordinanze n. 311 del 2011, n. 241 del 2005 e n. 125 del 2004. Inoltre, con la sentenza n. 113 del 2011 la Corte costituzionale aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 46, par. 1, Cedu, l’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo. In tal modo, quindi, la Corte costituzionale ha aperto la strada nella materia che ci occupa anche all’istituto della revisione ex art. 630 c.p.p. Per un commento a tal decisione, cfr. M. GIULAZ, Una sentenza “additiva di istituto”: la Corte costituzionale crea la “revisione europea”, in Cass. pen., 2011, p. 3308; nonché C. MUSIO, La riapertura del processo a seguito di condanna della Corte Edu: la Corte costituzionale conia un nuovo caso di revisione, in Cass. pen., 2011, p. 3321.
184
da tempo oggetto di consolidato orientamento da parte della giurisprudenza di
Strasburgo, secondo cui il principio di legalità di cui all’art. 7 Cedu implica anche che il
concetto di «diritto» ivi contenuto comprende sia il diritto di matrice legislativa che
quello di derivazione giurisprudenziale. Il giudice a quo, partendo da tali premesse, aveva
compiuto l’ulteriore passaggio logico di voler applicare il suddetto principio di
retroattività della legge penale favorevole alla successione nel tempo di interpretazioni
giurisprudenziali.
Tuttavia, la Consulta ha ritenuto che, proprio in virtù del principio di legalità
formale fatto proprio dall’art. 25, comma 2, Cost., nel nostro ordinamento non possa
trovare spazio l’overruling favorevole al reo che, addirittura, legittimi una revoca della
precedente sentenza di condanna ex art. 673 c.p.p. (479). Infatti, l’art. 7 Cedu che -
secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo - ingloba un principio di legalità in
senso materiale, è pur sempre subordinato alle norme della nostra Costituzione. Proprio
per questo, del resto la Consulta aveva elaborato la teoria delle «norme interposte», al
fine di riservare a se stessa il compito di controllare la conformità a Costituzione delle
norme Cedu, senza lasciare che fossero i giudici ordinari a disapplicare le norme interne
apparentemente in contrasto con esse, come del resto è proprio di quegli ordinamenti in
cui il controllo di costituzionalità è accentrato.
479() Più esattamente, il Giudice delle Leggi, nella pronuncia in commento (pag. 15), afferma espressamente «nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il principio convenzionale di legalità penale risult[a] meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale, negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, infatti, estraneo il principio – di centrale rilevanza, per converso, nell’assetto interno – della riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost.; principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dell’intera collettività nazionale (sentenze n. 393 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forza politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione».
185
Inoltre, la Corte costituzionale ha evidenziato anche come mai giudici di
Strasburgo abbiano fatto discendere dai suesposti principi, espressi nella sentenza
Scoppola e in tema di “diritto” ex art. 7 Cedu, la conseguenza che il giudice a quo
vorrebbe trarre, ossia che un mutamento di giurisprudenza favorevole all’imputato
potrebbe altresì determinare la revoca delle precedenti sentenze di condanna rese in altri
giudizi e già passate in giudicato (480).
Del resto, nella stessa sentenza Scoppola si è affermato che il principio
convenzionale della retroattività della legge penale favorevole al reo si riferisce alle sole
leggi entrate in vigore successivamente alla commissione del fatto, ma prima della
condanna definitiva. Tale puntualizzazione serve a far salvo il limite del giudicato. Tale
limite convenzionale, valido per la legge scritta, a maggior ragione lo è per il diritto
giurisprudenziale. Del resto, in altra occasione la Corte di Strasburgo aveva affermato
480() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 10-11. L’A. peraltro precisa che la Corte di Strasburgo, in verità, non si è mai occupata dei mutamenti di giurisprudenza favorevoli al reo, bensì solo di quelli sfavorevoli, sancendone l’inapplicabilità a fatti commessi anteriormente ad essi, salvo l’ipotesi in cui la nuova interpretazione possa considerarsi una interpretazione ragionevolmente prevedibile. Tuttavia, il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole e quello di retroattività della legge penale favorevole non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. Infatti, l’uno si poggia sull’esigenza di far conoscere ai consociati con anticipo l’illiceità penale dei fatti, in modo tale da consentirgli di consapevolmente orientare la propria condotta. L’altro, invece, poggia sulla necessità di assicurare la parità di trattamento, consentendo di estendere la mutata valutazione circa il disvalore penale del fatto anche a chi lo abbia commesso precedentemente. A tal riguardo, la Corte costituzionale, nella pronuncia in commento, ha espressamente affermato: «I due principi [quello di irretroattività della norma penale sfavorevole e quello di retroattività della norma penale favorevole] hanno, infatti, un diverso fondamento. L’irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell’esigenza di “calcolabilità” delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale: esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie. Nessun collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma penale più favorevole, in quanto la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente autodeterminato in base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto in quello di uguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore (sentenza n. 394 del 2006; nonché n. 236 del 2011 e n. 215 del 2008)». Per un commento a Corte cost. n. 236 del 2011, v. C. PINELLI, Retroattività della legge penale più favorevole fra CEDU e diritto nazionale , in Giur. cost., 2011, p. 3047.
186
anche che la composizione di un contrasto giurisprudenziale da parte di un Tribunale
Supremo non impone certo la revisione di tutte le decisioni anteriori definitive adottate in
precedenza da altre Corti, poiché una simile soluzione sarebbe in contrasto con il
principio di certezza giuridica (481).
Alla luce delle considerazioni da ultimo svolte, appare di tutta evidenza come il
giudice a quo abbia sottoposto all’attenzione della Consulta una interpretazione
avanguardistica, non solo per l’ordinamento giuridico italiano, ma anche per lo stesso
ordinamento europeo, posto che i giudici di Strasburgo non erano mai arrivati a dare
all’art. 7 una siffatta interpretazione (482).
La Corte ha ritenuto che non vi sia, peraltro, neppure violazione dell’art. 3 Cost.
Infatti, il nostro ordinamento si distingue profondamente dagli ordinamenti di common
law – ove il precedente è vincolante – essendo da noi semplicemente persuasivo. Proprio
per questo motivo, il legislatore, con la previsione di cui all’art. 673 c.p.p., ha ritenuto di
attribuire un effetto che travolge il giudicato solo ad una serie di vicende dotate di una
certa stabilità, come appunto una declaratoria di illegittimità costituzionale ovvero
un’abrogazione legislativa. Al contrario, un mutamento giurisprudenziale, per quanto a
481() Così, Corte EDU, 28 giugno 2007, Perez Arias c. Spagna. In tal senso cfr. V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 11. 482() A tal proposito, la Corte costituzionale (sent. 230 del 2012, pag. 15) ha affermato che «[…] la Corte europea non risulta avere mai, fino ad oggi, enunciato il corollario che il giudice a quo vorrebbe far discendere dalla combinazione dei due asserti ricordati: e, cioè, che, in base all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole al reo imponga la rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti con il nuovo indirizzo (principio che – se valido – dovrebbe, peraltro, operare non soltanto in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza che escludono la rilevanza penale del fatto – come mostra di ritenere il rimettente – ma anche a quelli che si limitano a rendere più mite la risposta punitiva, negando, ad esempio, l’applicabilità di circostanze aggravanti o riducendo il fatto ad un paradigma sanzionatorio meno grave)». Ed ancora, in maniera ancora più incisiva, la Consulta (pag. 17) conclude che «l’ipotetica “norma convenzionale interposta”, chiamata a fungere da parametro di verifica della legittimità costituzionale della disposizione denunciata, risulta in realtà priva di attuale riscontro nella giurisprudenza della Corte europea».
187
Sezioni unite, continuerebbe ad essere dotato di instabilità, potendo essere rivisto in
qualsiasi momento da ogni giudice ovvero anche dalle stesse Sezioni unite.
Accogliendo la tesi del giudice a quo, peraltro, verrebbe introdotto nel nostro
ordinamento un anomalo effetto di stare decisis, in senso verticale. Tale vincolo,
oltretutto, sarebbe «sbilenco» (483), in quanto destinato ad operare solo in fase esecutiva e
non già sede di cognizione, dinnanzi al giudice che si trovi a giudicare ex novo un fatto.
Del resto, secondo la Consulta, non sarebbe violato neppure il principio di
retroattività della norma penale favorevole al reo, che trovando il suo fondamento
costituzionale non già nell’art. 25, comma 2, Cost., bensì nel principio di uguaglianza di
cui all’art. 3 Cost., è suscettibile di essere derogato quando tali deroghe siano ragionevoli
(484) e, tra tali ragionevoli deroghe, certamente c’è quella di salvaguardare la certezza dei
rapporti giuridici, mediante l‘intangibilità del giudicato.
Senza contare il fatto che il principio di retroattività favorevole concerne le sole
leggi. Non è possibile equiparare la successione di orientamenti giurisprudenziali nel
tempo alla successione di norme incriminatrici. Una tale operazione è, infatti, preclusa
dall’attuale sistema costituzionale che, innanzitutto, all’art. 25, comma 2, Cost.
contempla il principio di riserva di legge in materia penale. In secondo luogo, l’art. 101,
comma 2, Cost. prevede che il giudice sia soggetto solo alla legge, nel senso che egli è
solo interprete e non anche artefice della medesima. Una diversa conclusione sarebbe,
quindi, contraria anche al principio di separazione dei poteri. Ammettere la soluzione
483() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 12 484() Sulla possibilità di derogare al principio di retroattività della legge penale favorevole, purché tali deroghe siano ragionevoli, v., in particolare, Corte cost. n. 236 del 2011.
188
prospettata dal giudice a quo vorrebbe dire attribuire al giudice anche la funzione
legislativa, cosa contraria al nostro ordinamento costituzionale.
La Corte costituzionale, con la succitata pronuncia, ha preso, quindi, le distanze
dalla sentenza Beschi e ha mostrato di aderire maggiormente all’orientamento profilato,
invece, in altra occasione, dalle Sezioni unite civili (485), che hanno ribadito la valenza
solo dichiarativa e non già creativa della giurisprudenza, anche se hanno ammesso la
praticabilità, entro certe condizioni, del prospective overruling, al fine di evitare gli
effetti negativi discendenti da un improvviso mutamento di giurisprudenza in tema di
norme processuali.
10. La possibilità di un fenomeno analogo in materia di terrorismo. L’esempio degli
USA.
La pronuncia della Corte costituzionale non fa, comunque, venir meno l’attualità
del dibattito. Infatti, una futuribile legislazione sull’esempio degli Stati Uniti potrebbe
portare, anche nell’ambito della legislazione di contrasto al terrorismo internazionale, ad
analoghi fenomeni di mutamenti di giurisprudenza, ispirati dal primato dei diritti
fondamentali. Del resto, al di là dell’ipotesi di revoca del precedente giudicato di
condanna ex art 673 c.p.p., che - come si è visto - è stata espressamente negata dalla
485() Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144. In tale pronuncia, la Cassazione ha distinto tra un overruling di carattere “evolutivo” ed un altro di carattere “correttivo”. Il primo è connesso al mutamento del contesto al cui interno si inserisce l’attività interpretativa. Il secondo, invece, prescinde da fenomeni adattativi e dipende solo dall’affermazione di una diversa lettura ritenuta più corretta in rapporto all’ordinamento nel suo complesso. Per un commento a tale pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione civile, v. F. CAVALLA-C. CONSOLO-M. DE CRISTOFARO, Le S.U. aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa della giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipi di overruling, in Corr. Giur., 2011, p. 1392;
189
Consulta, la giurisprudenza di legittimità ha, comunque, riconosciuto effetti
all’overruling in materia penale. Più esattamente, almeno fino ad oggi, ad esso è stato
riconnesso l’effetto di consentire, in sede esecutiva, la concessione dell’indulto in
precedenza negato e così superare la preclusione processuale cui, medio tempore, il
condannato era incorso.
Anche il nostro Paese, per fronteggiare il fenomeno del terrorismo internazionale
potrebbe, quindi, munirsi di una legislazione che – sulla scorta di quella degli Stati Uniti
– presenti i caratteri di un vero e proprio diritto penale del nemico “in senso forte”. In
quest’ottica, tale futuribile legislazione potrebbe essere lesiva dei diritti fondamentali
dell’uomo e, segnatamente: del diritto alla vita, nella misura in cui il terrorista venisse
sottoposto ad regime detentivo inumano ed a forme di tortura che potrebbero
comportarne il venir meno; della dignità umana, che potrebbe venir lesa dalle torture cui i
detenuti venissero sottoposti per estorcere loro informazioni; della libertà, di cui il
nemico potrebbe essere privato senza limiti di tempo e senza controllo dell’autorità
giudiziaria, al pari di quanto potrebbe avvenire, sotto quest’ultimo profilo, per il
cittadino; della riservatezza e della libertà di movimento del cittadino, la cui vita privata
potrebbe essere oggetto di penetranti controlli da parte dei pubblici poteri e senza
preventiva autorizzazione, ove occorresse, da parte dell’autorità giudiziaria. Potrebbero,
altresì, essere violati i principi cardine dello Stato di diritto. E, così, il principio di
separazione dei poteri potrebbe essere violato nella misura in cui il compito di
amministrare la giustizia venisse attribuito al potere esecutivo per mezzo di Tribunali
militari speciali, come, appunto, avvenuto negli Stati Uniti. Conseguentemente, potrebbe
essere violato il principio del giusto processo; il diritto di essere informati riservatamente,
nel più breve tempo possibile, della natura e dei motivi dell’accusa elevati a proprio 190
carico; il diritto di difesa dell’imputato, il diritto al contraddittorio ed il diritto al silenzio,
nella misura in cui venisse dato ingresso nel nostro ordinamento alla tortura quale tecnica
di interrogatorio.
Tuttavia, l’esperienza degli Stati Uniti ci ha insegnato anche che una legislazione
di tal fatta è inaccettabile per un moderno Stato di diritto e, proprio per questo, la Corte
suprema degli Stati Uniti ha ricondotto il modello Guantánamo nei binari della legalità.
Infatti, con le sentenze Rasul v. Bush, Hamdi v. Rumsfeld, Rumsfeld v. Padilla del 28
giugno 2004 e con la sentenza Hamdan v. Rumsfeld del 29 giugno 2006 la Corte Suprema
degli Stati Uniti d’America è intervenuta a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo,
fino a quel momento pregiudicati dall’egemonia dell’Esecutivo.
Ne consegue che, anche nel nostro ordinamento, qualora venisse adottato un diritto
penale del nemico, lesivo dei diritti fondamentali del terrorista, sarebbe scontato un
intervento della giurisprudenza volto a ricondurre la legislazione al rispetto di quei diritti
e principi cardine. Potrebbe accadere, quindi, che, dopo una serie di pronunce che
applichino sic et simpliciter la normativa penale lesiva, intervenga un nuovo
orientamento, che ne costituisca un revirement teso al rispetto dei diritti fondamentali. Si
tratta, allora, di verificare quale spazio potrebbe avere un simile mutamento di
giurisprudenza favorevole al reo, anche alla luce della sentenza n. 230 del 2012 della
Corte costituzionale, che - come si è visto - ne ha negato la riconducibilità all’art. 673
c.p.p. Del resto, l’esperienza britannica ci ha insegnato che la Convenzione europea dei
diritti dell’uomo costituisce un limite invalicabile anche nella lotta al terrorismo
internazionale.
191
11. Prospettive futuribili e possibili esiti.
Abbiamo visto che l’overruling favorevole non consente di revocare il precedente
giudicato di condanna ex art. 673 c.p.p., poiché il principio di retroattività della norma
penale favorevole, anche per la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, conosce il
limite del giudicato (486). La Corte costituzionale – con la sentenza n. 230 del 2012 – ha, a
tal proposito, affermato che il giudicato costituisce quella ragionevole deroga che, ex art.
3 Cost., consente di trattare in maniera diversa soggetti che hanno commesso lo stesso
fatto prima ovvero dopo l’intervenuto mutamento di giurisprudenza favorevole al reo
(487). La Corte di cassazione, invece, ha affermato il principio del superamento del solo
«giudicato esecutivo» (488) ovvero del «giudicato cautelare» (489), che però non sono vere
e proprie forme di giudicato, ma solo altrettante ipotesi di preclusioni processuali,
inerenti a decisioni rese rebus sic stantibus.
Se, dunque, l’unico vero limite è il giudicato, allora la rilevanza del mutamento
giurisprudenziale favorevole al reo non può che essere ricondotto nell’alveo dell’unico
istituto in grado di mettere in discussione il giudicato stesso, ossia la revisione del
processo ex art. 630 c.p.p.
486() Corte europea dei diritti dell’uomo, grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia. Secondo i giudici europei, infatti, il principio di retroattività della lex mitior, ricavabile dall’art. 7, par. 1, della Cedu, «si traduce nella norma per cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli». Facendo riferimento, dunque, alle (sole) «leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva», la Corte europea ha, dunque, escluso che il principio in questione sia destinato ad operare oltre il limite del giudicato, diversamente da quanto prevede, nel nostro ordinamento, l’art. 2, comma 2 e 3, c.p. In tal senso, v. anche sentenza n. 236 del 2011 della Corte costituzionale. 487() Cfr. Corte cost., sent. n. 230 del 2012, par. 9. 488() Cass., sez. un., 21 gennaio 2010, n. 18288, Beschi. 489() Cass., sez. II, 6 maggio, 2010, n. 19716.
192
In tale ottica, qualora fosse una sentenza della Corte di Strasburgo ad aver
accertato la violazione dei diritti fondamentali del terrorista/nemico, allora si potrebbe
accedere direttamente alla nuova ipotesi di revisione coniata dalla Consulta con la
sentenza n. 113 del 2011. In tal modo sarebbe possibile riaprire il processo ex art. 630
c.p.p. per conformarsi alla sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Una seconda soluzione potrebbe essere quella di sollevare questione di legittimità
costituzionale che porti all’introduzione di una nuova ipotesi di revisione, nel caso in cui
risulti che, in virtù di un overruling favorevole, la precedente condanna sia stata inflitta in
violazione dei diritti fondamentali dell’individuo.
Una terza soluzione, infine, potrebbe essere quella di ammettere una revoca ex art.
673 c.p.p. da parte del giudice dell’esecuzione, sulla base dell’assunto per cui un
mutamento giurisprudenziale che riaffermi la primazia dei diritti fondamentali è dotato di
una certa “stabilità”, sia rispetto al pregresso, che a futuri orientamenti sfavorevoli (490).
Del resto, nella vicenda considerata dal giudice a quo (Tribunale di Torino, in
composizione monocratica, ord. del 27 giugno 2011), mancava il crisma della stabilità,
490() A tal proposito, la Corte costituzionale ha affermato che «[…] la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni di fatto è accaduto. – In questa logica si giustifica, dunque, il mancato riconoscimento dell’overruling giurisprudenziale favorevole della capacità di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti: esigenza il cui fondamentale rilievo – come lo stesso rimettente ricorda – è ampiamente riconosciuto anche nell’ambito dell’Unione europea. Al fine di porre nel nulla ciò che, di per sé, dovrebbe rimanere intangibile – il giudicato, appunto – il legislatore esige, non irragionevolmente, una vicenda modificativa che determini la caduta della rilevanza penale di una determinata condotta con connotati di generale vincolatività e di intrinseca stabilità (salvo, nel caso di legge abrogatrice, un eventuale nuovo intervento legislativo di segno ripristinatorio): connotati che la vicenda considerata dal giudice a quo, di contro, non possiede». Il problema, dunque, per la Corte costituzionale, è che qualsiasi intervento giurisprudenziale, anche delle Sezioni unite, è ontologicamente instabile, posto che potrebbe essere rimesso in discussione in ogni momento da qualsiasi altro giudice e dalla stesse Sezioni unite. Argomentando a contrario, si potrebbe allora ritenere che un intervento giurisprudenziale che, invece, riconduca al rispetto dei diritti fondamentali la legislazione antiterrorismo è dotato di stabilità, in quanto insuscettibile di essere rimesso successivamente in discussione.
193
posto che la sentenza Alacev aveva riguardato solo il mutato ambito di applicazione
soggettiva dell’art. 6 e non già la violazione di un diritto fondamentale dello
straniero/immigrato.
Ad ogni modo, all’interno del moderno Stato di diritto è auspicabile che la cultura
di ogni giudice sia tale da prevenire, nell’ambito di una futuribile legislazione
antiterrorismo, qualsivoglia pronuncia lesiva dei diritti fondamentali dell’individuo. Il
giudice, infatti, è tenuto, innanzitutto, a procedere ad una interpretazione
costituzionalmente e convenzionalmente conforme della legislazione vigente. Qualora il
rispetto delle norme costituzionali e convenzionali non sia possibile in via ermeneutica,
allora egli è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale. Ne consegue che
l’incidenza di un overruling favorevole su una precedente sentenza di condanna lesiva dei
diritti fondamentali è pur sempre una fattispecie residuale, comunque, di non trascurabile
rilievo.
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