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Ai miei Genitori 1

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Ai miei Genitori

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La presente opera esamina la tematica del terrorismo internazionale nell’ottica,

dapprima, del diritto penale del nemico, per poi passare ad affrontare il punto nevralgico

in tema di rispetto dei diritti fondamentali. A questo punto si è constatata la necessità di

aprire la ricerca verso il fenomeno dell’immigrazione, anche non clandestina, per i

collegamenti che sociologi e criminologi hanno opportunamente evidenziato. La

connessione col tema dei diritti umani ha posto in rilievo, in giurisprudenza, il fenomeno

dell’overruling, dal quale si trae spunto per valutare la possibilità di comparsa di un

fenomeno analogo, nell’ottica antitetica al cd. diritto penale del nemico.

Più nel dettaglio, il lavoro considera l’attualità del terrorismo internazionale

(Capitolo Primo) a seguire dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 agli Stati

Uniti d’America e, negli anni immediatamente successivi, ai Paesi europei.

Il succedersi di eventi di tale portata ha indotto gli Stati, anche quelli non

direttamente aggrediti, a intraprendere un’adeguata azione di contrasto munendosi di

nuovi strumenti giuridici (Capitolo Secondo). La ricerca passa così ad esaminare gli

apparati normativi adottati in Europa e negli USA, confrontando il modello europeo con

quello anglosassone ed evidenziando che il secondo entra in conflitto con decenni di

progressi in tema di rispetto dei diritti umani. L’esame della legislazione italiana analizza

in particolare la modifica apportata dalla l. n. 438 del 2001 all’art. 270-bis c.p. Questa

legge ha esplicitato nel testo della norma la menzione della finalità di terrorismo,

chiarendo, nel nuovo terzo comma dell’art. 270-bis, che essa sussiste anche allorché le

attività progettate dall’associazione siano rivolte contro uno Stato estero, un’istituzione o

un organismo internazionale. Le questioni interpretative sull’esatta portata da attribuire

alla espressione “finalità di terrorismo” sono esaminate a fondo e confrontate con quelle

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intervenute dopo le modifiche apportate al codice penale dalla l. n. 155 del 2005, con

particolare riguardo all’art. 270-sexies c.p.

Dopo la ricostruzione della legislazione innovata e del conseguente dibattito

dottrinario italiano, la ricerca tratta la disciplina antiterrorismo adottata nei principali

Paesi europei: Regno Unito, Germania, Spagna, Francia, Belgio. Il lavoro analizza,

quindi, la legislazione degli USA, soprattutto con riguardo al rispetto dei diritti

fondamentali, per come garantiti dalla costituzione federale.

Nel prosieguo dell’indagine (Capitolo Terzo) è trattato ampiamente il dibattito

dottrinario relativo alla tesi di G. Jakobs, secondo la contrapposizione del diritto penale

del cittadino (Bürgerstrafrecht) al diritto penale del nemico (Feindstrafrecht), e, con

l’occasione, si allarga l’orizzonte verso rilevazioni storiografiche e filosofiche pertinenti.

Subito dopo aver ricostruito la teoria di G. Jakobs e le sue radici storiche, la

ricerca prende in considerazione le critiche ad essa mosse con riferimento ai suoi tratti

più significativi, per concludere che la differenza tra diritto penale comune e diritto

penale del nemico non sarebbe di tipo quantitativo - ossia una mera flessione dello

standard di garanzie rispetto al diritto penale comune -, bensì di tipo qualitativo, perché

esso presenta vere e proprie diversità strutturali, che lo rendono ”altro” rispetto al diritto

penale post-illuminista: tipo d’autore, tendenziale degiurisdizionalizzazione; risposta

sanzionatoria che tende all’annientamento (Vernichtung), esclusione ovvero

neutralizzazione del nemico. Torna così alla ribalta la tutela dei diritti fondamentali

dell’uomo e si chiarisce che essa si estende al catalogo delle garanzie proprie dei sistemi

processual-penalistici liberali.

A questo punto, la ricerca si concentra sul ruolo che l’autorità giudiziaria tende ad

assumere in un sistema non esente da slittamenti verso il tipo d’autore, in particolare per 3

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lo straniero (Capitolo Quarto). Tale rilievo porta all’esame della recente giurisprudenza

italiana che, nell’ottica di una più penetrante tutela dei diritti fondamentali, ha recepito la

giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (casi Scoppola, Previti e Gruppo

Danone). In particolare, si esamina la sentenza della sezioni unite della Corte di

Cassazione n. 18288 del 21.01.2010, Beschi, che, facendo applicazione del principio di

legalità in senso sostanziale - così come enunciato dalla Corte di Strasburgo nelle

succitate pronunce - ha ritenuto di poter concedere, in sede esecutiva, l’indulto in

precedenza negato, e ciò sulla base del mutamento giurisprudenziale favorevole nel

frattempo intervenuto (sentenza a sezioni unite n. 36527 del 10.07.2008, Napoletano).

L’indagine si sofferma, quindi, sull’ordinanza del Tribunale di Torino del

27.6.2011 e su quella del G.u.p. del medesimo Tribunale del 30 gennaio 2012,

relativamente alla revoca ex art. 673 c.p.p. della precedente sentenza di condanna inflitta

all’imputato, da effettuarsi in forza di un mutamento giurisprudenziale in bonam partem.

Ciò perché, a seguito della modifica dell’art. 6, comma 3, D.lgs 286/1998 operata dalla

legge n. 94 del 2009, la Cassazione aveva, dapprima, confermato l’interpretazione

precedente alla novella legislativa, per poi mutare orientamento con SS.UU n. 16453 del

2011, Alacev. Sul punto, come è noto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 230 del

2012, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p.

sollevata dal Tribunale di Torino e ha riaffermato il principio di legalità in senso formale,

mettendo in evidenza che il principio di legalità accolto dalla nostra Costituzione è

diverso da quello di cui all’art. 7 CEDU così come interpretato dalla Corte di Strasburgo

in quanto uno dei suoi corollari è la riserva di legge e sancendo che è incostituzionale la

revoca di un giudicato di condanna in caso di sopravvenienza di un overruling

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giurisprudenziale che escluda la rilevanza penale del fatto per il quale la condanna stessa

è stata inflitta.

La suddetta pronuncia della Corte costituzionale non fa, comunque, venir meno

l’attualità del dibattito, perché una futuribile legislazione antiterrorismo adottata dal

nostro Paese sull’esempio degli USA potrebbe portare ad analoghi fenomeni di

overruling ispirati dal primato dei diritti fondamentali.

Un sentito ringraziamento va al Prof. Fabrizio Ramacci. In primo luogo, per le

importanti linee guida fornite ai fini della redazione della presente opera. Inoltre, - e

soprattutto - per la passione per il Diritto Penale trasmessa alla sottoscritta fin dalle

lezioni del Corso di diritto penale, frequentato nel lontano 2004 durante il secondo anno

d’università.

Roma, ottobre 2013

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INDICE-SOMMARIO

pag.

CAPITOLO PRIMO

L’attualità del terrorismo internazionale.

1. Libertà versus Sicurezza nelle moderne democrazie

occidentali………………………………………………………..……………….12

2. La prima fase: il terrorismo internazionale a seguito degli attacchi dell’11

settembre 2001 e le reazioni normative dei Paesi occidentali.

………………………………………………………………..………17

3. La seconda fase: gli attacchi terroristici dopo il 2007.……….……...……19

CAPITOLO SECONDO

L’azione di contrasto.

In particolare: gli strumenti normativi in Europa e negli Usa.

1. Il modello anglosassone e quello europeo di lotta al terrorismo

internazionale……………………………………………………………………..21

2. La legislazione antiterrorismo in Italia. Il quadro normativo antecedente

l’11 settembre…………………………………………...………………………..22

2.1. Segue. Il d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni nella

legge 15 dicembre 2001, n. 374: la nuova formulazione dell’art. 270-bis c.p.

………………………………..……………………………………28

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2.2. Segue. Le questioni interpretative in tema di «finalità di

terrorismo»……………………………………………………….………..30

2.3. Segue. La Convenzione internazionale per la soppressione del

finanziamento del terrorismo del 1999 e la Decisione Quadro del Consiglio

dell’Unione europea del 13 giugno 2002 (2002/475/GAI)

……………………………………………….…………..39

2.4. Segue. Il d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, nella l.

31 luglio 2005, n. 155: l’art. 270-sexies e le «condotte con finalità di

terrorismo»……………...…………………………………………............42

2.5. Segue. Le prime applicazioni giurisprudenziali dell’art. 270-sexies

c.p………………………………………………………………………….46

2.6. Segue. Considerazioni conclusive: tendenze del nostro ordinamento verso

un diritto penale del nemico…………………………...

………………………………………...52

3. La legislazione anti-terrorrismo nel Regno Unito…………………............53

4. La Germania……………………………………………………………….67

5. La Spagna…………………………………...……………….…………….73

6. La Francia……………………………………………….…………...........79

7. Il Belgio……………………………………………………………………81

8. La legislazione anti-terrorismo negli USA………………………………..82

9. La prima fase. La dichiarazione dello stato di emergenza e l’Autorizzazione

all’uso della forza: le basi per la successiva creazione di un vero e proprio diritto

penale del nemico……………………………….………………………………..84

10. La seconda fase. L’U.S.A. Patriot Act…………………………………….877

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10.1. Segue. Il President Military Order……………………….…...........92

10.2. Segue. Ambito soggettivo di applicazione dell’ordinanza presidenziale: gli

enemy aliens o enemy combatants…...…………............93

10.3. Segue. Il campo di prigionia di Guantánamo e le garanzie giurisdizionali

negate agli enemy aliens…………..………………............98

10.4. Segue. Le Commissioni militari ad hoc……………………..........101

10.5. Segue. Il Detainee Act………………….…………………………103

11. La terza fase. La giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati

Uniti……………………………………………………………………..………104

12. La quarta fase. Il Military Commission Act……….……………………..105

13. Considerazioni conclusive: i tratti di un vero e proprio diritto penale del

nemico nell’ordinamento statunitense………………………………..................109

CAPITOLO TERZO

Il dibattito dottrinario. La teoria del diritto penale del nemico e le critiche.

1. Il dibattito contemporaneo: la ricostruzione del pensiero di Günter

Jakobs……………………………………………………………….……….….105

2. Le radici storiche e filosofiche del fenomeno…………………….……...113

3. Le critiche della dottrina alla concezione di Jakobs……………………..117

4. Le classificazioni dottrinarie in tema di diritto penale del

nemico…………………………………………………………………………...128

5. Il contenuto del diritto penale del nemico………………………….…….131

6. Il diritto processuale penale del nemico…………………………….……1368

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6.1. Segue. La tortura………………………………………………….137

7. Il rispetto dei diritti fondamentali………………………………….…….140

8. Le garanzie processual-penalistiche dei sistemi penali liberali…….……143

9. Le ragioni dell’inammissibilità di una dicotomia diritto penale

tradizionale/diritto penale del nemico…………………………………………..145

CAPITOLO QUARTO

Il mutamento di giurisprudenza in materia penale.

Prospettive di apertura del nostro ordinamento all’overruling.

1. Il ruolo del giudice ed il rispetto dei diritti fondamentali………..………147

2. I termini della questione: l’overruling in materia penale………………...148

3. Il reato di omessa esibizione dei documenti di identificazione e di soggiorno (art.

6, comma 3, D.lgs. 286/98) e la riforma apportata dalla l. 15 luglio 2009, n. 94 quale

espressione del diritto penale del nemico “in senso debole” ovvero “in senso

ampio”……………………………………………………..……………...152

4. Il principio di legalità “materiale” o “sostanziale” e la giurisprudenza della Corte

Edu e della Corte di giustizia dell’Unione europea………………………155

5. Il caso Beschi (Sezioni unite della Corte di Cassazione n. 18288 del 21.01.2010)

……………………………………………………………………...159

6. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. (ordinanza del

Tribunale di Torino del 27.6.2011)……………………………………………...163

7. L’ordinanza del G.u.p. del Tribunale di Torino del 30 gennaio 2012...…166

8. Il principio di legalità formale……………………………...……………1689

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9. La pronuncia della Corte costituzionale n. 230 del 2012………………...169

10. La possibilità di un fenomeno analogo in materia di terrorismo. L’esempio degli

USA…………………………………………………...…………………..179

11. Prospettive futuribili e possibili esiti………………………………...…..182

Bibliografia…………………………………………………………...…………185

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CAPITOLO PRIMO

L’attualità del terrorismo internazionale

1. Libertà versus Sicurezza nelle moderne democrazie occidentali.

Dopo l’11 settembre 2001 il mondo occidentale ha dovuto fare i conti con una nuova

esigenza da fronteggiare, ossia il terrorismo, di matrice islamica ed avente portata

transnazionale. Sono a tutti noti, infatti, gli eventi catastrofici che, a partire dall’11

settembre 2001, hanno colpito le democrazie più evolute. Si fa, in particolare, riferimento

agli attacchi terroristici dell’11 settembre alle Twin Towers di New York ed al Pentagono

di Washington D.C.; a quello dell’11 marzo 2004 presso alcune stazioni ferroviarie di

Madrid; a quelli del 7 e del 21 luglio 2005 all’interno della metropolitana e a bordo di un

autobus a Londra; nonché, infine, a quelli del 30 giugno 2007 contro un terminal

dell’aeroporto di Glasgow (1).

Il nuovo fenomeno ha fatto da subito paura, poiché, da un lato, come tutte le forme di

terrorismo, si basa sulla depersonalizzazione della vittima (2), ossia sulla scelta di colpire

vittime innocenti nel mucchio, la cui identità è quindi indifferente (3); dall’altro lato,

però, esso si distingue da altre forme di terrorismo note in passato, in quanto si

caratterizza per l’elevato tasso di ideologizzazione, il fanatismo, il fondamentalismo, la

non negoziabilità degli obiettivi politici proclamati, il rifiuto di ogni possibile dialogo (4).

1() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, Torino, 2008, p. 1. 2() A tal riguardo, infatti, anche in giurisprudenza è stato osservato che «La connotazione tipica degli atti di terrorismo è la “depersonalizzazione della vittima” in ragione del normale anonimato delle persone colpite dalle azioni violente, il cui vero obiettivo è costituito dal fine di seminare indiscriminata paura nella collettività». Così, Cass. n. 1072/2006.3() G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, in Giur. it., 2008, p. 782. 4() G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 783.

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Le roccaforti giuridiche più evolute del pianeta – e, in primis, gli Stati Uniti

d’America – hanno, quindi, avvertito una seria minaccia alle fondamenta stesse dello

Stato di diritto e, per garantire la sicurezza del Paese, hanno adottato legislazioni che

collidono con i diritti fondamentali dell’individuo, nonché con i principi classici dei

sistemi penalistici liberal-democratici, affermatisi dall’Illuminismo in poi (5). In alcuni

casi, addirittura sospendendo tali diritti e garanzie, come avvenuto, appunto negli Stati

Uniti e, per certi versi, in Gran Bretagna; in altri casi, come in Italia e Spagna, entrando

semplicemente in frizione con essi.

A tali attacchi, infatti, si è reagito, dal punto di vista del diritto interno, con gli

strumenti classici del diritto penale. In particolare, è stato fatto proprio l’assunto per cui,

in situazioni di emergenza, le libertà dei cittadini e dei terroristi avrebbero potuto essere

sacrificate per assicurare il bene primario della sicurezza dello Stato, che è presupposto

per fruire delle stesse libertà nel moderno Stato democratico. E così, al fine di tutelare la

sicurezza del Paese e, con essa, quella dei suoi cittadini, si è allo stesso tempo finito per

sacrificare quei diritti fondamentali e quei principi cardine dello Stato di diritto che si

volevano tutelare (6). Si è corso in tal modo il rischio di degenerare in una vera e propria

normalizzazione dell’emergenza, poiché quegli strumenti normativi, introdotti con un

efficacia temporalmente limitata, avrebbero però potuto essere prorogati e, di fatto, lo

sono stati. Senza contare, peraltro, la contemporanea introduzione, nella maggior parte

5() In dottrina, è stato efficacemente sottolineato come l’emergenza rappresenti una vera e propria prova di resistenza per i diritti fondamentali. In questo senso, cfr. G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 781. 6() Un tale modo di pensare le reazione, tuttavia, è deprecabile all’interno di uno Stato di diritto. A tal proposito, infatti, in dottrina (G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 782) si è osservato «Da tutto ciò scaturisce, dunque, il rischio che a tale acme di terrore, finiscano per corrispondere […] deprecabili rimedi, per così dire, uguali e contrari, che finirebbero per travolgere i valori su cui si fonda il concetto stesso di Stato di diritto».

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degli ordinamenti, di misure a tempo indeterminato, come, ad esempio, la previsione di

nuove fattispecie incriminatrici in tema di terrorismo internazionale.

La conseguenza di tale incedere normativo è stata, quindi, la lesione dei diritti

fondamentali, da un lato, del terrorista-nemico (ad es., vita, dignità umana, libertà

personale) e, dall’altro, del cittadino (riservatezza, libertà di circolazione, di associazione

e di informazione).

Sul piano delle garanzie proprie degli Stati democratici, invece, si è assistito, dal

punto di vista del diritto penale sostanziale, alla lesione dei principi di legalità,

determinatezza, tassatività, offensività e necessaria materialità del reato, colpevolezza e

personalità della responsabilità penale, della funzione retributiva della pena e di

prevenzione generale e speciale; dal punto di vista del diritto penale processuale, inoltre,

si è avuta la violazione del divieto di tortura – che, per altro verso, può essere inteso

come manifestazione del più generale principio nemo tenetur contra se detegere -, del

diritto di difesa, del principio del contraddittorio e, più in generale, del giusto processo.

Il terrorismo internazionale, in sostanza, ha comportato in alcuni Paesi una

militarizzazione del diritto penale, sconfinando nel c.d. diritto penale del nemico.

Ma la storia si ripete (7). Nell’autunno del 68 a.C. la prima superpotenza militare del

mondo fu, infatti, colpita da un attacco terroristico (8): i pirati, che ormai imperversavano

7() In tal senso, R. HARRIS, Pirates of Mediterranean, in The New York Times, 30 settembre 2006. 8() In Dione Cassio, infatti, si parla dei pirati, come di coloro che «terrorizzavano» i popoli. Cfr. CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 22.2. Dione Cassio, storico e senatore romano, è stato autore di una “Storia romana” in lingua greca. Cfr. G. NORCIO, Introduzione, in CASSIO DIONE, Storia Romana, Milano, 1995, passim.

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minacciosi in tutto il Mediterraneo (9), arrivarono a saccheggiare e bruciare Ostia (10), il

porto di Roma. Per il panico causato dall’attacco, i Romani presero una decisione che

minava alla loro stessa Costituzione, alla loro democrazia, alla loro stessa libertà (11). Fu,

infatti, approvata nel 67 a.C. la Lex Gabinia (12) (detta anche Lex de piratis

persequendis), che concesse a Pompeo Magno (13) i più ampi poteri possibili per condurre

la lotta contro i pirati, che ormai da decenni infestavano il Mediterraneo e le sue coste,

rendendo difficile perfino l’approvvigionamento di grano per Roma (14).

Alla fine, Pompeo impiegò meno di tre mesi per scacciare tutti i pirati dal

mediterraneo, ma – come è stato efficacemente sottolineato (15) – la Lex Gabinia è stata

l’inizio della fine per la Repubblica romana, perché ha costituito il precedente sulla cui

9() «[I pirati] non navigavano più a piccoli gruppi, ma in grosse schiere, e avevano i loro capi, che si acquistarono grande fama [per le loro imprese]. Depredavano e saccheggiavano in primo luogo e innanzi tutto coloro che navigavano (non li lasciavano in pace neppure durante l’inverno, ma anche in questa stagione facevano scorrerie spinti dal loro coraggio, dalla perizia e dal successo); poi anche coloro che stavano nei porti. E se uno osava affrontarli in mare, di solito era vinto e distrutto; se poi otteneva la vittoria, non riusciva a catturare nessuno dei nemici, a causa della velocità delle loro navi. Così i pirati tornavano subito indietro come vincitori, e saccheggiavano e bruciavano non solo villaggi e fattorie, ma anche intere città, e alcune se le rendevano alleata tanto da istituire in esse quartieri d’inverno e basi per le loro operazioni, come in un paese amico». Così, CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 21.1-3. 10() CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 22.2. 11() Infatti, le singole iniziative sino ad allora intraprese sulla spinta emozionale dei singoli eventi non avevano sortito alcun effetto. In argomento, v. CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 23.2. 12() Tale legge prese il nome del tribuno della plebe che la propose, Aulo Gabinio, appunto. Quest’ultimo, in particolare, propose che si eleggesse tra gli ex-consoli, per una durata di tre anni, un condottiero con pieni poteri contro tutti i pirati e che gli si desse un forte esercito. Cfr. CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 23.4. 13() Alla fine, la legge fu approvata nonostante le remore presentate in Senato dai più e nonostante la consapevolezza per la sua illegalità da parte di tutti. Soprattutto, il profilo che destava maggiore preoccupazione era quello di attribuire un così vasto potere ad un solo uomo e, addirittura, per un periodo di tre anni. Sul punto, v. il dibattito sorto in Senato a seguito della proposta di Aulo Gabinio, in CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 24-36. 14() Tale legge attribuiva all’ex-console il comando della guerra contro i pirati per tre anni, con un ampio potere che gli assicurava il controllo assoluto sul mare e sulle coste per 400 stadi all’interno (70 Km circa), ponendolo al di sopra di ogni capo militare in Oriente. Gli si dava, inoltre, il potere di scegliere 15 legati dal Senato, da distribuire nelle principali zone di mare, di prendere il denaro che desiderava dal tesoro pubblico e dagli esattori di tasse, nonché 200 navi armate ed equipaggiate di tutto punto, con soldati e rematori. Cfr. CASSIO DIONE, Storia romana, XXXVI, 36-37.1.15() R. HARRIS, Pirates of Mediterranean, cit.

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base, meno di una decade più tardi, sono stati attribuiti analoghi poteri a Giulio Cesare

per la campagna in Gallia.

A tal proposito, appare opportuno evidenziare che, negli Stati Uniti, non è mancato

chi (16) ha effettuato un vero e proprio parallelismo tra l’attacco dei pirati al porto di Ostia

nel 68 a.C. e quello di Al Qaeda alle Torri Gemelle ed al Pentagono dell’11 settembre

2001. In primo luogo, perché così come nessuna Nazione aveva mai avuto il coraggio di

sferrare un attacco diretto a Roma, del pari nessuno Stato avrebbe mai avuto il coraggio

di ideare un assolato così spettacolare al cuore degli Stati Uniti, la superpotenza del

mondo. In secondo luogo, perché in entrambi i casi, in realtà, l’attacco non era stato

sferrato né da una Nazione, né da uno Stato, bensì da un insieme di uomini riuniti,

appartenenti a tutte le Nazioni: i pirati, in un caso, i terroristi islamici, nell’altro.

Analogamente a quanto accaduto a Roma, anche il Governo degli Stati Uniti ha

reagito, adottando strumenti normativi che hanno messo in discussione i diritti e le libertà

da sempre garantite negli Stati Uniti. La Lex Gabinia, infatti, è un classico esempio di

legge dalle conseguenze non volute, in quanto ha fatalmente sovvertito quelle stesse

istituzioni che essa intendeva proteggere. A questo punto appare opportuno chiedersi se

un simile effetto potrebbe determinarsi anche in quelle moderne democrazie occidentali

che si sono piegate al diritto penale del nemico ovvero se tale stesso effetto possa essere

evitato riconducendo anche siffatta species di «diritto super-penale» (17) entro i binari

della legalità.

2. La prima fase: il terrorismo internazionale a seguito degli attacchi dell’11

settembre 2001 e le reazioni normative dei Paesi occidentali.16() R. HARRIS, Pirates of Mediterranean, cit.17() F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, in Soc., 3, 2009, p. 18

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Gli attentati terroristici posti in essere dai fondamentalisti islamici a danno del mondo

e degli ordinamenti giuridici occidentali possono essere sostanzialmente suddivisi in due

fasi. La prima di esse è quella che va dall’11 settembre 2001 al 30 giugno 2007, in cui

tali fatti sono stati posti in essere nei territori degli Stati occidentali. La seconda fase,

invece, è quella che si estende da tale ultima data ed è tutt’ora in corso, in cui, invece,

nessun attacco diretto è stato più perpetrato nel territorio occidentale, ma solo al di fuori

di esso, in quegli stessi Paesi caratterizzati da una forte matrice islamica.

Dal punto di vista strettamente giuridico, la prima fase è stata caratterizzata da

un’immediata reazione normativa per fronteggiare la nuova emergenza terroristica, da

parte di tutti gli Stati, anche da quelli non direttamente interessati dagli attacchi. Questo,

soprattutto, dopo gli attentati di New York nel 2001 e quelli di Londra nel 2005.

In questa sede è sufficiente anticipare che, negli Stati Uniti il 14 settembre 2001 è

stato dichiarato, con efficacia retroattiva, lo stato di emergenza nazionale ed il Presidente

è stato autorizzato dal Congresso all’uso della forza. Il 26 ottobre è stato, poi, approvato

l’USA Patriot Act 2001 e, il 13 novembre, il President Military Order. In Gran Bretagna,

il 12 novembre 2001 è stato adottato l’Anti-terrorism Crime and Security Act (ATCSA

2001), con cui è stata sostituita la disciplina di cui al precedente Terrorism Act 2000.

Immediatamente dopo gli attentati di Londra, il 20 ottobre 2005, è stato invece approvato

il Terrorism Act 2006, entrato in vigore il 30 marzo 2006, con cui la previgente disciplina

è stata ulteriormente inasprita.

In Germania, il 9 gennaio 2002 è stata approvata la Terrorismusbekaempfunggesetz,

ossia la legge sulla lotta al terrorismo internazionale e, l’11 gennaio 2005, la

Luftsicherheitsgesetz: la legge sulla sicurezza aerea. In Francia, il 15 novembre 2001, è 16

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stata approvata la legge 2001-1062 sulla sicurezza quotidiana, mentre, successivamente

agli attentati di Londra, è stato adottato il cd. progetto di legge Sarkozy, ossia una nuova

legge contro il terrorismo. In Belgio, con la legge del 19 dicembre 2003, è stato

modificato l’art 137 c.p., facendo propria la definizione di terrorismo internazionale di

cui alla Decisione quadro 2002/475/GAI. In Spagna, invece, dopo gli attenti in questione

è stata approvata una disciplina per lo più marginale e di attuazione degli obblighi assunti

a livello internazionale ed europeo, posto che l’ordinamento giuridico spagnolo, ormai da

tempo abituato a fare i conti con il terrorismo, era munito di un’efficace disciplina di

contrasto.

In Italia, immediatamente dopo gli attentati alle Twin Towers, è stato approvato il d.l.

18 ottobre 2001, n. 374, conv. con modif. in l. 15 dicembre 2001, n. 374, con cui è stato

modificato l’art. 270-bis c.p., in tema di associazioni terroristiche od eversive. In

particolare, la novella ha inserito nella rubrica della norma un espresso riferimento alla

finalità di terrorismo «anche internazionale» ed ha specificato, al terzo comma, che la

finalità di terrorismo ricorre anche quando l’atto di violenza è posto in essere non solo

contro l’Italia, ma anche contro uno Stato estero, un’istituzione ovvero un’organizzazione

internazionale. Inoltre, è stato inserito nel codice penale l’art. 270-ter, che incrimina la

condotta di assistenza agli associati. Successivamente agli attentati di Londra, invece, è

stato approvato il d.l. 27 luglio 2005, n. 144, conv. con modif., nella l. 31 luglio 2005, n.

155, recante il cd. pacchetto anti-terrorismo, con cui sono state introdotte nel codice

penale nuove fattispecie criminose e, segnatamente, l’art. 270-quater che incrimina la

condotta di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale; l’art. 270-

quinquies che punisce la condotta di addestramento ad attività di terrorismo anche

internazionale; infine, all’art. 270-sexies, è stata configurata una definizione di condotte 17

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con finalità di terrorismo, così ponendo fine alle difficoltà ermeneutiche in precedenza

sorte a causa dell’indeterminatezza sul punto della fattispecie di cui all’art. 270-bis c.p.

In seguito a tali eventi, il fervore legislativo in materia di terrorismo internazionale

sembrerebbe aver subito una battuta d’arresto, così come il conseguente dibattito

dottrinario.

3. La seconda fase: gli attacchi terroristici dopo il 2007.

Nella seconda fase, invece, non si sono più registrati attacchi diretti nel territorio

americano od europeo. Tuttavia, per ciò solo, non si può certo legittimamente ritenere che

la problematica del terrorismo internazionale abbia perso rilevanza per gli ordinamenti

giuridici occidentali. Si consideri, infatti, che solo nell’ultimo bimestre del 2012 si sono

verificati ben novantasette atti terroristici (18) nei Paesi islamici.

Tali fatti criminosi, sebbene commessi all’Estero, infatti, potrebbero assumere

rilevanza anche per l’Occidente. Volendoci limitare all’Italia, potrebbe accadere, ad

esempio, che una “cellula” islamica radicata nel nostro territorio organizzi in Italia un

atto terroristico da compiere all’Estero e colpire così obiettivi sensibili, quali militari

impegnati in operazioni di pacekeeping ovvero ambasciate. Del resto, i fatti venuti

all’attenzione delle nostre Corti hanno riguardato proprio ipotesi in cui cellule islamiche

insediate nel nostro territorio stavano reclutando militanti e raccogliendo finanziamenti

per commettere atti di violenza all’Estero. Inoltre, non può neppure essere tralasciata la

non marginale ipotesi in cui i fatti di terrorismo vengano di nuovo perpetrati direttamente

nel territorio occidentale. 18() Sul punto, cfr. la cronologia degli episodi di terrorismo internazionale, in Gnosis. Rivista italiana di intelligence, 4, 2012, pp. 153-159.

18

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Appare, pertanto, opportuno procedere ad esaminare gli strumenti giuridici adottati

negli Stati Uniti ed in Europa sull’ondata emotiva degli eventi ed analizzare, quindi, i vari

punti di frizione che essi hanno presentato rispetto ai diritti fondamentali dell’uomo ed ai

principi processual-penalistici propri dello Stato liberale, fino a sfociare, in taluni casi, in

vere e proprie forme di cd. diritto penale del nemico. L’indagine consentirà, quindi, di

prospettare, almeno per il nostro Paese, una soluzione che possa essere valida una volta

per tutte e non già dettata dalle contingenze del momento che, appunto, a causa

dell’emergenza, spesso hanno portano a tralasciare le acquisizione fatte proprie dal

moderno Stato di diritto, in più di due secoli di elaborazioni teoriche.

CAPITOLO SECONDO

L’azione di contrasto.

In particolare: gli strumenti normativi in Europa e negli Usa.

19

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1. Il modello anglosassone e quello europeo di lotta al terrorismo internazionale.

A Seguito degli attacchi terroristici negli Stati Uniti ed al successivo divampare del

fenomeno del terrorismo internazionale di matrice islamica, i Paesi occidentali, anche

quelli non direttamente interessati dagli attacchi, hanno sentito il bisogno di munirsi di

nuovi strumenti normativi per contrastare gli eventi. Infatti, la legislazione allora in

vigore si è mostrata fin da subito inadeguata, presentando il nuovo fenomeno una portata

transnazionale, del tutto sconosciuta alle pregresse forme di criminalità, anche

organizzata.

Nel mondo occidentale, si sono, quindi, venuti delineando due diversi modelli (19): da

un lato, quello dei Paesi anglosassoni (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e, in parte,

Australia); dall’altro lato, quello dei Paesi dell’Europa continentale, ove soprattutto

nell’immediatezza dell’11 settembre, non sono mancate tendenze verso le prassi

anglosassoni (20), con il conseguente rafforzamento degli apparati di polizia e di

intelligence.

Il primo di tali modelli presenta i tratti di un vero e proprio diritto penale del nemico

e, almeno per quanto riguarda il sistema normativo affermatosi negli Stati Uniti, è

denominato “modello Guantánamo”. Anche in Gran Bretagna è stato adottato un sistema

per molti aspetti similare a quello statunitense. Tuttavia, questo Paese, a differenza degli

USA, doveva fare i conti con la tutela dei diritti fondamentali prevista dalla Cedu ed è

stato così che la House of Lords ha ricondotto, in breve tempo, entro i binari della legalità

la legislazione antiterrorismo britannica.

19() Sul punto, v. A. SPATARO, Otto anni dopo l’11 settembre. (Il modello anglosassone e quello europeo nell’azione di contrasto al terrorismo internazionale, in Quest. giust., 5, 2009, p. 151. 20() Ibidem.

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Il secondo modello, invece, è risultato essere maggiormente rispettoso dei diritti

fondamentali dell’individuo e dei principi liberal-democratici del moderno Stato di

diritto, anche se, almeno in un primo momento, anche nel Continente si sono registrati

strappi più o meno profondi al principio di legalità. In Europa, però, il fallimento del

sistema anglosassone di lotta al terrorismo internazionale si è mostrato fin da subito ed in

maniera ancora più evidente. In Italia ed in Spagna, poi, il terrorismo internazionale è

stato affrontato con procedure rispettose della tradizione giuridica europea. In particolare,

gli strumenti adottati da noi si sono mantenuti nel solco dei principi tracciati dallo Stato

di diritto, anche quando si è potuto individuare al loro interno singoli aspetti eccepibili

dal punto di vista del rispetto della Costituzione (21).

2. La legislazione antiterrorismo in Italia. Il quadro normativo antecedente l’11

settembre.

È possibile ripartire l’evoluzione della legislazione italiana in tema di terrorismo

internazionale in tre diverse fasi (22): la prima, antecedente gli attacchi terroristici alle

Twin Towers di New York dell’11 settembre 2001; la seconda, immediatamente

successiva a tale evento catastrofico e che vede l’approvazione, in tempi rapidissimi, del

d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni nella legge 15 dicembre 2001,

n. 374; la terza fase, infine, prende le mosse con l’approvazione del cd. pacchetto

antiterrorismo del luglio del 2005 (23), subito dopo gli attentati di Londra.

21() R.E. KASTORIS, Processo penale, delitto politico e «diritto penale del nemico», in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 7. 22() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, in Cass. pen., 2006, p. 3366.23() Si fa, in particolare, riferimento al d.d.l. presentato dall’allora Ministro dell’interno Giuseppe Pisanu e che ha portato all’approvazione del d.l. 27 luglio 2005, n. 144, conv. in l. 31 luglio 2005, n. 155.

21

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Per quel che concerne il primo dei succitati periodi, è noto che il terrorismo non è un

fenomeno nuovo (24) all’interno del nostro ordinamento. Fin dall’Ottocento l’Italia ha,

infatti, conosciuto forme di terrorismo interno. Si fa, in particolare, riferimento ai

movimenti anarchici della fine dell’Ottocento (25), ai quali il legislatore aveva reagito con

l’adozione delle cd. leggi Crispi del 1894, che prevedevano norme più severe in tema di

istigazione ed apologia e di attentati con l’uso di esplosivi (26). Fu, poi, prevista una

normativa in tema di stati d’assedio, che militarizzava la disciplina penale e processuale

in presenza di straordinarie esigenze di turbamento dell’ordine pubblico in determinate

zone del territorio italiano.

Il terrorismo interno, tuttavia, è imperversato nel nostro Paese negli anni Settanta ed

Ottanta del secolo scorso (27). Il legislatore è, quindi, intervenuto con la cd. legislazione

penale d’emergenza, connotata da veri e propri caratteri d’eccezionalità. La nuova

strategia di contrasto presentava, infatti, una maggiore complessità rispetto al pregresso

intervento di un secolo prima, in quanto si sviluppava non solo sul fronte sostanziale, ma

anche su quello sanzionatorio, processuale, penitenziario e preventivo. È con tale

legislazione che il sistema di tutela penale contro la criminalità politico-terroristica aveva

progressivamente acquisito i tratti di un vero e proprio sotto-sistema penale,

caratterizzato da regole parzialmente derogatorie rispetto alla disciplina generale. La

chiave d’accesso a tale plesso normativo fu assicurata da un elemento normativo, ossia la

24() Tra tutti, v. M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, in Studium Juris, 2005, p. 1279. 25() M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1279 26() Ibidem. 27() È di tutta evidenza come il fenomeno terroristico desti particolare allarme sociale, posto che – come è stato efficacemente osservato - «la “pericolosità del delinquente è direttamente proporzionale alla fungibilità della vittima” – il massimo grado di pericolosità collettiva, poiché a “vittima indeterminata”, avendo l’atto terroristico come fine il “clamore terroristico”, a prescindere dall’identità e dal numero delle vittime». Così, F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 482.

22

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«finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico», che era stato inserito nel

sistema sia come elemento costitutivo di autonome fattispecie di reato (artt. 270-bis, 280,

289-bis c.p.), sia come circostanza aggravante comune, applicabile quindi a qualsiasi

fattispecie criminosa (art. 1, legge n. 15 del 1980): la finalità terroristica o eversiva

determinava l’applicazione della disciplina settoriale, caratterizzata da un cospicuo

aumento di pena; misure premiali di incentivazione alla collaborazione; alcune deroghe

sul piano processuale e penitenziario.

In particolare, il d.l. 15 dicembre 1980, n. 15, conv. in l. 6 febbraio 1980 n. 15 ha

introdotto nel codice penale l’art. 270-bis (28) che, sin da subito, aveva sollevato problemi

interpretativi. Anzitutto, si erano poste difficoltà di coordinamento con la disciplina dei

reati associativi. Soprattutto, però, la norma presentava perplessità sui limiti del suo

ambito applicativo. Infatti, mentre nella rubrica compariva il riferimento sia alla «finalità

di terrorismo» che di «eversione dell’ordine democratico», al contrario, nel testo della

stessa – che, com’è noto, solo vincola l’interprete -, si faceva menzione del solo «fine di

eversione dell’ordine democratico». Si era, dunque, sviluppato un acceso dibattito volto a

chiarire se le due finalità, di terrorismo, da un lato, e di eversione, dall’altro, fossero una

endiadi, come poteva evincersi dalla rubrica della norma, oppure costituissero

espressione di due concetti diversi, come invece ritenevano dottrina e giurisprudenza

prevalenti.

28() Il testo originario della norma, inserito dall’art. 3, d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, conv. In l. 6 febbraio 1980, n. 15, disponeva «270-bis. Associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico. – Chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni. – Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da quattro a otto anni».

23

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La finalità eversiva (29), inoltre, a seguito della legge di interpretazione autentica n.

304/1982, andava intesa come eversione dell’ordinamento costituzionale (30). Questa

equiparazione ha, così, delineato in maniera più precisa il bene giuridico tutelato dalla

norma (31), ancorandolo ad una fonte normativa, la Costituzione, anziché ad un concetto

politico (l’ordine democratico) che, in quanto tale, si prestava a letture ideologicamente

orientate.

Si pose, quindi, il problema di stabilire quale tipo di organizzazione fosse sanzionata

ai sensi della norma in esame. Una prima interpretazione, più restrittiva, vi includeva solo

le associazioni terroristiche con finalità eversiva. Si obiettava, però, che era possibile

concepire sia associazioni con scopi terroristici, indipendentemente da un programma

politico di sovversione dell’ordine costituzionale, sia associazioni sovversive non

necessariamente connotate da una finalità terroristica, come nel caso in cui esse fossero

rivolte ad organizzare un colpo di Stato incruento. Il concetto di terrorismo, infatti, non

era espressamente definito nel diritto penale italiano. La mancanza di una definizione

normativa, tuttavia, non aveva creato particolari problemi agli interpreti nel corso degli

anni Ottanta, posto che i gruppi terroristici interni allora operanti si proponevano altresì

una finalità eversiva dell’ordine democratico (32).

In passato, quindi, il problema di definire l’esatta portata della «finalità di terrorismo»

ed i suoi rapporti con quella di «eversione dell’ordine democratico» appariva più teorico

29() La finalità di terrorismo indica il fine di provocare il panico nella collettività mediante atti indiscriminati di violenza, rivolti a soggetti del tutto estranei alle finalità perseguite dall’associazione.30() In particolare, l’art. 11 della l. 29 maggio 1982, n. 304 aveva statuito che «all’espressione “eversione dell’ordine democratico” usata nelle disposizioni di legge precedenti alla presente, corrisponde, per ogni effetto giuridico, l’espressione “eversione dell’ordinamento costituzionale”.».31() A. VALSECCHI, Sub art. 270-bis, in E. Dolcini-G. Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, Milano, 2010, p. 2622.32() F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, in Cass. pen., 2007, p. 3954

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che pratico (33), posto che l’art. 270-bis era in grado di riflettere la realtà storica delle

associazioni terroristiche di allora, che si proponevano un programma eversivo

dell’ordinamento interno, da attuare ricorrendo alla violenza terroristica (34).

A partire dagli anni Novanta del XX secolo (35), però, nel nostro Paese si sono

manifestate forme di terrorismo internazionale. Ci si riferisce, in particolare, a quelle

“cellule” a specifica connotazione etnico-religiosa che, utilizzando il territorio italiano

come base logistica, sostenevano l’azione di organizzazioni terroristiche operanti in altri

Paesi (36). Alcune tipologie di associazioni terroristiche, infatti, avevano assunto una

dimensione sempre meno interna e sempre più transnazionale, rispetto alla quale l’art.

270-bis c.p. si presentava troppo ristretto (37).

Ad essere nuova per l’ordinamento italiano, non era, pertanto, la criminalità

terroristica, quanto piuttosto la sua concreta fisionomia (38). Il processo di

internazionalizzazione della criminalità aveva impresso anche al terrorismo tratti del tutto

nuovi sotto il profilo oggettivo e soggettivo, tanto che il vecchio art. 270-bis era risultato

presto inadeguato.

33() M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 128234() Secondo la giurisprudenza della Corte suprema formatasi sul punto, per “terrorismo interno” doveva intendersi “qualsiasi azione qualificata dal fine di porre in essere atti idonei a destare panico nella popolazione” (cfr. Cass., Sez. Un., 23 novembre 1995, n. 2110), nel senso che può parlarsi di finalità terroristica in presenza di condotte violente dirette ad ingenerare paura e panico, nonché ad incutere terrore nella collettività con azioni criminose indiscriminate, dirette cioè non contro le singole persone ma contro quello che esse rappresentano o, se dirette contro la persona indipendentemente dalla sua funzione nella società, miranti a incutere terrore per scuotere la fiducia nell’ordinamento costituito e indebolirne le strutture” (Cass., Sez. I, 11 luglio 1987, n. 11382) 35() Per un’attenta ricostruzione delle problematiche inerenti all’emergere in Italia di nuove forme di terrorismo, con caratteri di transnazionalità, v. G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3367.36() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3367.37() M. PELLISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1282.38() Così, M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1279.

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Infatti, il riferimento nel testo della norma alla sola eversione dell’ordinamento

costituzionale, unitamente alla collocazione della fattispecie tra i delitti contro la

personalità dello Stato, escludeva la possibilità di ravvisare gli estremi del delitto de quo

in alcune associazioni che avevano fissato la propria base operativa in Italia, ma con

finalità eversive di un ordinamento straniero. Ancora più difficile era poi ricondurre alla

fattispecie in esame le associazioni rivolte a commettere atti di terrorismo internazionale,

ma prive di finalità di eversione dell’ordine costituzionale.

In tale contesto, la Corte di cassazione, nel rispetto del principio di stretta legalità,

aveva interpretato in maniera restrittiva il vecchio art. 270-bis c.p., sottolineando che il

bene giuridico protetto da tale norma, collocata tra i delitti contro la personalità dello

Stato, era solo l’ordinamento costituzionale dello Stato italiano, dovendosi escludere un

suo ambito di applicabilità ad associazioni che avessero avuto come obiettivo quello di

programmare atti violenti contro l’ordinamento di uno Stato straniero cui appartenevano i

suoi componenti ovvero contro un’istituzione internazionale (39). Tali condotte avrebbero

dovuto, quindi, essere considerate penalmente irrilevanti (40) all’interno del nostro

ordinamento, in quanto dirette a sovvertire l’ordine costituzionale di Paesi stranieri, di cui

il nostro non poteva certo farsi garante.

Tuttavia, secondo la Corte di legittimità l’indubbio riflesso che una siffatta condotta

aveva comunque nell’ordinamento giuridico italiano andava sanzionato contestando

semplicemente reati di diritto comune, quali, appunto, l’associazione per delinquere (art.

416 c.p.) - aggravata, peraltro, dalla finalità di terrorismo, che nell’art. 1 legge n. 15 del

1980 compare disgiunta dalla finalità eversiva -, nonché gli eventuali reati strumentali,

39() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3376. In giurisprudenza, cfr. Cass., Sez. VI, 24 febbraio 1999, n. 737; Cass., Sez. V, 26 maggio 1998, n. 3292; Cass., Sez. VI, 1° marzo 1996, n. 973.40() Così, Cass., Sez. IV, 30 gennaio 1996, n. 561, in Cass. pen., 1997, p. 1332.

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quali quelli di falsificazione, con una innegabile ricaduta, però, sulla possibilità di

utilizzare gli strumenti investigativi e processuali – intercettazioni, termini di custodia,

trattamento penitenziario e così via – più idonei ad affrontare in modo efficace il nuovo

fenomeno emergente (41).

La norma, quindi, presentava i limiti tangibili di una gestione solo “domestica” (42) del

terrorismo, inadeguata al nuovo atteggiarsi del fenomeno, la cui impronta, ora

transnazionale, evidenziava una capacità offensiva che andava al di là dell’ordinamento

costituzionale dei singoli Stati nazionali.

2.1. Segue. Il d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni

nella legge 15 dicembre 2001, n. 374: la nuova formulazione

dell’art. 270-bis c.p.

A seguito degli attentati terroristici agli USA dell’11 settembre 2001 si rendeva,

pertanto, necessario un intervento normativo volto a contrastare il terrorismo

transnazionale. La portata catastrofica di tale attentati ha, infatti, indotto gli Stati, anche

quelli non direttamente aggrediti, ad intraprendere un’adeguata azione di contrasto,

munendosi di appropriati strumenti giuridici.

Il legislatore italiano, quindi, nel dichiarato intento di dare attuazione agli impegni

assunti sul piano internazionale, per una strategia unitaria contro forme violente di

41() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3367.42() M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1278.

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attacco alle istituzioni, con l’art. 1, comma 1, d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, conv. con

modif. dalla l. 15 dicembre 2001, n. 438, ha sostituito il testo dell’art. 270-bis c.p. (43).

Nella rubrica è stato, anzitutto, inserito un espresso riferimento ai nuovi caratteri

del fenomeno terroristico. La norma è, infatti, diretta ad incriminare, tra l’altro, le

«associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale». La novità più significativa

riguarda certamente l’eliminazione della difformità tra rubrica e testo dell’articolo, posto

che ora la finalità di terrorismo compare anche in quest’ultimo, così confermando quanto

ritenuto in passato da dottrina e giurisprudenza prevalenti, ossia che i concetti di

“eversione” e “terrorismo” erano da ritenersi tra loro distinti.

Il secondo comma della norma in esame ha aggravato il trattamento sanzionatorio

nei confronti dei partecipi all’associazione, innalzando il minimo edittale da quattro a

cinque anni ed il massimo da otto a dieci.

Al terzo comma dell’art. 270-bis il legislatore ha introdotto una norma

interpretativa definitoria la quale, agli effetti della legge penale, specifica che la «finalità

di terrorismo» sussiste anche quando «gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato

estero, un’istituzione ed un organismo internazionale».

Infine, all’ultimo comma è stata inserita la confisca obbligatoria nei confronti del

condannato.

2.2. Segue. Le questioni interpretative in tema di «finalità di terrorismo».43() Il nuovo testo della norma prevede: «270-bis. Associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico. – Chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni. – Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. – Ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione e un organismo internazionale. – Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego».

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Fin da subito, il problema interpretativo di più importante rilievo è stato quello di

definire l’esatto ambito applicativo del dolo specifico contemplato dalla norma, ossia la

«finalità di terrorismo», posto che, fino al successivo intervento normativo di cui al d.l.

27 luglio 2005, n. 144, conv. in l. 31 luglio 2005, n. 155, è mancata nel nostro

ordinamento una definizione normativa di “terrorismo” (44).

Il legislatore del 2001 ha, infatti, specificato, al comma 3 dell’art. 270-bis c.p., che

la finalità di terrorismo sussiste anche quando gli atti di violenza sono posti in essere

contro uno «Stato estero», «un’istituzione» ed un «organismo internazionale» (45). La

fattispecie incriminatrice in questione è, dunque, applicabile anche quando destinatario

degli atti di violenza non sia lo Stato italiano, come invece avveniva in passato. Tuttavia,

con la novella del 2001, il legislatore ha mancato l’occasione per dare una definizione

dell’atto di terrorismo in quanto tale. Questione, peraltro, di importanza cruciale (46),

atteso che dall’esatta definizione del “terrorismo” dipende anche la delimitazione

44 Un contributo fondamentale per la ricostruzione del dibattito dottrinario e giurisprudenziale ai fini dell’esatta interpretazione da dare alla «finalità di terrorismo» è dato da L.D. CERQUA, La definizione di «terrorismo internazionale» alla luce delle fonti internazionali e della normativa interna , in Giur. mer., 2007, p. 788 ss. 45() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3368. In particolare, l’A. mette in evidenza come, dalla nuova formulazione dell’art. 270-bis c.p., rimanga esclusa rilevante forma di «illecito associativo politicamente orientato e cioè l’associazione che si ponga come obiettivo la sovversione, intesa come rovesciamento con mezzi violenti dell’ordinamento costituzionale di uno Stato estero. – Infatti, l’art. 270-bis comma 3 c.p. estende agli Stati esteri la finalità di terrorismo ma non la finalità eversiva.». 46() Nei primi anni immediatamente successivi gli attacchi agli USA, l’intensificarsi delle indagini in tale settore, mise in evidenza le presenza nel territorio italiano di numerose cellule islamiche, non più affiliate, come in passato, a specifiche organizzazioni eversive nazionali. Tali cellule, appartenenti all’area del fondamentalismo islamico, parevano svolgere compiti di supporto ad organizzazioni terroristiche sovrannazionali, diversamente affiliate con Al Qaeda. L’attività posta in essere nel nostro Paese era perlopiù di reclutamento di combattenti da inviare presso i campi di addestramento dislocati nei vari Paesi fondamentalisti, nonché di raccogliere finanziamenti da inviare all’estero. Sul punto, v. amplius, F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, in Cass. pen., 2007, p. 3955.

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dell’ambito applicativo (47) della disciplina in materia, caratterizzata da un abbassamento

del normale livello di garanzie rispetto al diritto penale comune.

Il vuoto normativo ha lasciato alla giurisprudenza l’improbo compito di riempire

di significato la «finalità di terrorismo» di cui all’art. 270-bis c.p. Si sono, dunque,

succedute una serie di pronunce giurisprudenziali, discordanti tra loro, e che sono state,

poi, ampiamente criticate in dottrina. Questa querelle tra autorità giudiziarie, da un lato, e

tra dottrina e giurisprudenza, dall’altro ha portato, infine, il legislatore ad introdurre nel

nostro ordinamento una definizione di terrorismo all’art. 270-sexies c.p., recependo in

gran parte la definizione datane dalla decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea

del 13 giugno 2002 (2202/475/GAI). Ma procediamo con ordine.

La mancanza di una definizione normativa ha portato, fin da subito, dottrina e

giurisprudenza a ricercarne il contenuto nelle convenzioni internazionali e nelle fonti

europee. Tuttavia, almeno in questa prima fase, mancava accordo su quale fosse la fonte

da prendere a referente ermeneutico principale.

Dato per assodato che atto terroristico era quello destinato a creare il panico nella

popolazione civile, il punctum dolens ha riguardato principalmente la qualità della vittima

della condotta terroristica: se dovesse essere solo ed esclusivamente un civile oppure

potesse anche essere un militare. E, se militare, si poneva l’ulteriore problema di chiarire

se dovesse essere un militare direttamente ovvero non direttamente impegnato nel

conflitto. Ebbene, in una prima fase, si è ritenuto che atto terroristico fosse solo ed

esclusivamente quello posto in essere contro vittime civili. Successivamente, invece, si è

ritenuto che tale fosse anche l’atto posto in essere nei confronti di vittime militari, a

prescindere dal fatto se fossero o meno direttamente impegnate nelle ostilità.47() In questo deficit di determinatezza era possibile ravvisare un tratto di diritto penale del nemico. In argomento, v. amplius, infra.

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I primi anni duemila sono stati, quindi, caratterizzati da una grave incertezza nella

prassi applicativa. Evidenziano plasticamente i termini del dibattito due pronunce della

giurisprudenza di merito (48) che si sono succedute a pochi giorni di distanza l’una

dall’altra.

La prima di esse è la sentenza del G.u.p. di Milano del 24 gennaio 2005 (49), con la

quale, all’esito del giudizio abbreviato, sono stati assolti dall’imputazione per il reato di

cui all’art. 270-bis c.p. tre soggetti sospettati di appartenere ad una cellula islamica. A tal

fine, il giudice si è basato sulla distinzione tra atto terroristico, illegittimo, ed atto di

guerriglia, invece legittimo, in quanto diretto a debellare l’invasione straniera.

In particolare, il G.u.p. milanese ha fondato tale distinzione sull’art. 18/2 del

progetto di Convenzione globale dell’O.N.U. del 1999 sul terrorismo, il quale prevede

che gli episodi di guerriglia posti in essere nell’ambito di contesti bellici, anche da forze

armate diverse da quelle istituzionali, non possono essere perseguite neppure sul piano

del diritto internazionale, a meno che non venga violato il diritto internazionale

umanitario. Da tale inciso il G.u.p. ha dedotto che atti di terrorismo penalmente rilevanti

sul piano del diritto internazionale e, quindi, di riflesso, anche sul piano del diritto

interno, sono solo quelli diretti a seminare terrore indiscriminato nei confronti della

popolazione civile in nome di un credo ideologico e/o religioso, con esclusione quindi di

48() Venivano tratti a giudizio avanti all’autorità giudiziaria di Milano, alcuni soggetti che, secondo la ricostruzione dell’accusa, si sarebbero associati per commettere atti di violenza con finalità di terrorismo internazionale sia in Italia che all’estero. Ebbene, il G.u.p. di Milano, all’esito del giudizio abbreviato, ha assolto dall’imputazione di cui all’art. 270-bis tre degli imputati, facenti parte della cellula milanese, dichiarandosi invece territorialmente incompetente per altri due imputati facenti parte della cellula cremonese. Conseguentemente, ha rimesso gli atti avanti all’autorità giudiziaria di Brescia (territorialmente competente), revocando, tuttavia, la misura cautelare in atto per difetto dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui all’art. 270-bis c.p. Il G.i.p. di Brescia, dal canto suo, ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza del reato in questione. Per una più ampia ricostruzione della vicenda processuale, v. F. CERQUA, Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale: un contrasto giurisprudenziale, in Cass. pen., 2005, p. 3130. 49() G.u.p. Milano, 24 gennaio 2005, Bouyahia Maher, inedita.

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quegli atti posti in essere contro appartenenti alle forze armate. Il G.u.p. di Milano è

giunto a tale conclusione perché estendere la tutela di cui all’art. 270-bis c.p. anche agli

atti di guerriglia posti in essere nell’ambito di conflitti bellici in atto in altri Stati, ed a

prescindere dall’obiettivo preso di mira, avrebbe voluto dire prendere inevitabilmente

posizione per una delle forze in campo. Nel caso di specie, il giudice ne ha ricavato,

quindi, l’insussistenza della finalità di terrorismo di cui all’art. 270-bis c.p., posto che

dalle emergenze processuali appariva piuttosto che i combattenti reclutati nel nostro

Paese dagli imputati fossero certo diretti nei campi di addestramento siti in Paesi

fondamentalisti islamici, tuttavia per essere utilizzati in combattimenti contro le forze

armate della coalizione alleata (50).

50() L’impianto motivazionale della pronuncia in commento è il seguente: «[…] Non risulta invece provato, nonostante gli encomiabili sforzi investigativi compiuti, che tali strutture paramilitari prevedessero la concreta programmazione di obiettivi trascendenti attività di guerriglia da innescare in detti o in altri prevedibili contesti bellici e dunque incasellabili nell’ambito delle attività di tipo terroristico di cui all’art. 270-bis c.p. come novellato all’indomani dei noti e tragici fatti dell’11.9.2001. – La nozione di terrorismo, com’è noto, diverge da quella di eversione e come questa non è definita in via normativa, dovendosi dunque ricavare in via ermeneutica, sia sulla base del contenuto delle convenzioni internazionali sul punto, sia, soprattutto, riflettendo sulla ratio e sulla genesi della norma penale in questione. – Emblematico sotto il primo profilo appare il tenore della Convenzione Globale dell’O.N.U. sul Terrorismo, progettata nel 1999, che all’art. 18/2 prevede un’esimente in ordine alle sanzioni in essa previste, in forza della quale le stesse non riguardano le forze armate ed i gruppi armati o movimenti diversi dalle forze armate di uno Stato nella misura in cui si attengano alle norme di diritto internazionale umanitario. – Proprio da tale normativa, ed in particolare da detta esimente, si ricava che le attività violente o di guerriglia poste in essere nell’ambito di contesti bellici, anche se poste in essere da parte di forze armate diverse da quelle istituzionali, non possono essere perseguite neppure sul piano del diritto internazionale, a meno che – ed ecco che in tal caso l’esimente in questione non opera – non venga violato il diritto internazionale umanitario. Da tale ultimo limite può ricavarsi dunque che le attività di tipo terroristico rilevanti e dunque perseguibili sul piano del diritto internazionale siano quelle dirette a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo ideologico e/o religioso, ponendosi dunque come delitti contro l’umanità. – A confortare tale impostazione interviene la ratio della norma di cui all’art. 270-bis c.p., com’è noto novellato a seguito dei noti e tragici fatti dell’11.9.2001. – La modifica che ha appunto esteso il rilievo penale dei fatti in tale norma già previsti anche ai casi in cui gli stessi fossero posti ai danni di uno Stato estero, voluta d’emergenza all’indomani di tali fatti, parallelamente ad analoghi interventi legislativi posti in essere in altri paesi, ha evidentemente perseguito la finalità di creare una sorta di diritto penale sovrannazionale con il quale tutelare i singoli Stati da attentai terroristici di ampio spettro, speculari di strategie politiche autonome e risolutive. – L’estendere tale tutela penale anche agli atti di guerriglia, per quanto violenti, posti in essere nell’ambito di conflitti bellici in atto in altri Stati ed a prescindere dall’obiettivo preso di mira, porterebbe inevitabilmente ad un’ingiustificata presa di posizione per una delle forze in campo, essendo peraltro notorio che nel conflitto bellico in questione, come in tutti i conflitti dell’era contemporanea, strumenti di altissima potenzialità offensiva sono stati innescati da tutte le forze in campo. – Tanto premesso, va rilevato come in punto di fatto non può ritenersi provato, neppure in termini di gravità indiziaria, che le due “cellule” in

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In pari data è stata, altresì, emessa dal G.i.p di Milano un’ordinanza con la quale è

stata revocata la misura cautelare ad altri due imputati nel medesimo procedimento, in

quanto, basandosi sulle medesima distinzione tra atti di guerriglia ed atti terroristici, il

giudice ne ha ricavato l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui

all’art. 270-bis c.p.. Gli atti, inoltre, sono stati contestualmente trasmessi all’A.G. di

Brescia, territorialmente competente per la “cellula cremonese”.

I provvedimenti del G.i.p./G.u.p. di Milano sono stati ampiamente criticati (51)

sotto diversi profili (52). Per quel che più propriamente interessa la presente indagine, è

stata oggetto di critiche la fonte internazionale cui il giudicante è ricorso per ricavare la

definizione di «finalità di terrorismo», ossia l’art. 18/2 del progetto di Convenzione

globale contro il terrorismo delle Nazioni unite del 1999. Tale strumento normativo

internazionale, infatti, non è mai stato approvato dall’O.N.U. (53) ed è rimasto nella forma

embrionale di mero progetto, come del resto lo stesso giudicante pare evidenziare nelle

pronunce in commento. La dottrina ha, quindi, messo in evidenza come, sebbene, nel

questione, pur gravitando in aree notoriamente contrassegnate da propensioni al terrorismo, avessero obiettivi trascendenti quelli di guerriglia come sopra delineati. – Al riguardo non può dirsi sufficiente a fondare l’ipotizzata responsabilità penale, la comune appartenenza a realtà eversive ed a strutture, quale quella denominata “Ansar Al Islam” – peraltro bombardata e distrutta nel corso di tale conflitto – dalla composizione tutt’altro che omogenea ed anzi alquanto articolata e complessa. […]». Così, G.i.p. Milano, ord. 24 gennaio 2005, Drissi, in Foro it., II, c. 219, con nota di G. IUZZOLINO e U. PIOLETTI.51() In tal senso, tra i tanti, v. F. CERQUA, Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale: un contrasto giurisprudenziale, cit., p. 3136; nonché M. MANTOVANI, Brevi note in materia di terrorismo internazionale, in Giur. mer., 2005, p. 1370.52() La decisione in commento è stata oggetto di critiche sotto diversi profili. In primo luogo, per il discrimen tra “atto di guerriglia” ed “atto terroristico” su cui essa fonda l’applicabilità o meno dell’art. 270-bis c.p. In secondo luogo, perché qualifica, del tutto arbitrariamente, la disposizione di cui all’art. 18/2 della Convezione contro il terrorismo quale esimente. Infine, è stata oggetto di aspre critiche anche l’ordinanza, adottata in pari data, e con la quale il medesimo G.i.p. si è dichiarato territorialmente incompetente rispetto ad altri due imputati nel medesimo procedimento ed ha trasmesso gli atti al Tribunale di Brescia. Con tale ordinanza, basandosi sulla medesima distinzione tra atto di guerriglia ed atto di terrorismo di cui alla sentenza di assoluzione, è stata, altresì, contestualmente revocata la misura cautelare della custodia in carcere per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui all’art. 270-bis c.p. Tale provvedimento è stato oggetto di critiche per gli aspetti più prettamente processuali. In particolare, nella misura in cui, con un’ordinanza di trasmissione degli atti al giudice territorialmente competente, il G.i.p. ha, altresì, revocato la misura custodiale. Per le critiche, v. F. CERQUA, Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale: un contrasto giurisprudenziale, cit., p. 3136.53() In tal senso, v. M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1288.

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perdurante silenzio del legislatore, la strada giusta per ricavare l’esatta portata della

nozione di “terrorismo” fosse certamente il ricorso a fonti internazionali e

sovrannazionali, sarebbe stato più opportuno ricorre a Convenzioni invece in vigore per il

nostro ordinamento.

Di appena qualche giorno successivo è il provvedimento, di segno opposto,

emesso dal G.i.p. di Brescia il 31 gennaio 2005 (54) ed al quale erano stati rinviati per

competenza gli atti nei confronti dei due imputati, sospettati di appartenere alla cellula

cremonese.

Il giudicante prende le mosse da un’accesa critica (55) nei confronti dell’impianto

motivazionale dell’ordinanza (56) del G.i.p. di Milano, per ritenere, invece, sussistenti gli

estremi del delitto di cui all’art. 270-bis c.p. Volendosi soffermare sui soli profili che

riguardano la nozione di terrorismo, in primo luogo, il G.i.p. di Brescia mette in rilievo

come lo stesso giudice milanese, nella sua ordinanza, sia perfettamente consapevole che

la Convenzione globale del 1999 fosse stata soltanto progettata e mai approvata dalle

Nazioni unite. Non si vede, pertanto, come possa essere validamente tratta da essa una

definizione di terrorismo che sia espressione del diritto internazionale vigente, posto che

54() G.i.p. Brescia, ord. 31 gennaio 2005, in Foro it., 2005, II, c. 218 ss. Il provvedimento in parola è stato emesso dall’autorità giudiziaria proprio in sede di rinnovazione della misura cautelare e di custodia cautelare in carcere ex artt. 27, 272 e ss. e 285 c.p.p., a seguito della caducazione della misura da parte del G.i.p. di Milano con la succitata ordinanza del 24 gennaio 2005. Per un esame approfondito delle ordinanze del G.i.p di Milano e di quello di Brescia, nonché dell’ampio clamore mediatico da esse suscitato, v. F. VIGANÒ, Profili di diritto penale sostanziale dell’azione di contrasto al terrorismo (relazione all’incontro di formazione organizzato dal CSM a Roma il 14 aprile 2005, disponibile sul sito http://appinter.csm.it/incontri/incontri/dll).55() «Questa A.G. intende discostarsi in modo radicale da tale ragionamento, che, a proprio giudizio, appare frutto di erronea applicazione di norme, nonché di una valutazione bidimensionale delle carte processuali e, più i generale, del fenomeno terroristico nel suo complesso.»; così, G.i.p. Brescia, ord. 31 gennaio 2005, cit.56() Ovviamente, le critiche del G.i.p. di Brescia si appuntano contro l’ordinanza di trasmissione degli atti all’A.G. territorialmente e competente e di contestuale revoca della misura della custodia cautelare in carcere. Tuttavia, posto che il G.i.p. di Milano aveva utilizzato la medesima distinzione tra “atto di guerriglia” ed “atto di terrorismo” anche per revocare la misura custodiale, la querelle tra i due giudicanti assume comunque rilievo ai nostri fini.

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la medesima non è mai stata approvata proprio per il disaccordo degli Stati sui suoi

contenuti.

In secondo luogo, il giudice bresciano evidenzia come la distinzione tra

“giustificata guerriglia” e “terrorismo” sia opinabile, in quanto implica inevitabilmente,

ove la distinzione venga fatta in ragione della natura tirannica o meno dell’antagonista,

proprio quella presa di posizione per una delle forze in campo che il G.i.p. di Milano

vuole evitare.

In terzo luogo, il G.i.p di Brescia afferma che, tutte le volte in cui non può essere

fornita la prova dell’obiettivo in concreto preso di mira dagli indagati, qualificare come

terroristico un atto a seconda se la condotta sia posta in essere contro vittime civili ovvero

militari entrerebbe in contrasto con la natura dell’art. 270-bis, così come riconosciuta

dalla Suprema Corte, secondo cui il reato di associazione transnazionale sarebbe un reato

a pericolo presunto de iure.

Infine, il giudice bresciano evidenzia che l’inadeguatezza di una netta distinzione

tra “guerriglia” e “terrorismo” è dimostrata anche dal rilievo pratico per cui non può

prevedersi con anticipo se una data organizzazione, pur costituita per il compimento di

atti di violenza con una determinata finalità, agisca poi in concreto verso specifici

obiettivi militari ovvero nei confronti di civili inermi, ben potendo mutare tipologia di

bersaglio in extremis.

Il G.i.p. di Brescia ritiene, quindi, che, per attribuire significato all’espressione

«finalità di terrorismo» di cui all’art. 270-bis c.p,. debba farsi ricorso all’«intenzione del

legislatore», secondo quanto previsto dall’art. 12, comma 1, delle disposizioni sulla legge

in generale. E, ciò, perché le leggi vanno interpretate, non secondo la propria opinione

personale, bensì secondo le scelte politiche che hanno indotto il legislatore del passato ad 35

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emanarle e quello del presente a mantenerle in vigore. Solo in questo senso le leggi sono

espressione del comune modo di sentire di una comunità in una determinata zona ed in un

determinato periodo storico. Sulla base di tali premesse, il giudice bresciano giunge,

pertanto, alla conclusione che il comune modo di sentire, secondo l’intenzione del

legislatore che ha introdotto l’art. 270-bis c.p., è quella di ritenere quali veri e propri atti

terroristici anche quelli posti in essere con il ricorso a kamikaze da parte di portatori di

ideologie estremistiche islamiche, nei confronti di unità militari. Se ne deve, quindi,

dedurre la finalità terroristica delle condotte in concreto poste in essere dagli imputati,

anche alla luce del fatto che l’organizzazione terroristica cui gli stessi risultano

appartenere (Ansar Al Islam) è stata inserita dal Governo degli Sati Uniti nella lista delle

organizzazioni terroristiche collegate ad Al Qaeda (57).

Anche tale decisione è stata ampiamente criticata in dottrina (58). In primo luogo,

per il richiamo all’intenzione del legislatore di cui all’art. 12 delle Preleggi. Si è messo, in

particolare, in evidenza come in tal modo si rischi di ricadere in quel giudizio politico

che, proprio il G.i.p. di Brescia, nelle sue premesse, aveva inteso evitare (59). Altri,

57() «L’unica valutazione “politica” che spetta al giudice nell’attribuire un significato alla espressione “finalità di terrorismo” contemplata nell’art. 270-bis c.p. è pertanto quella indicata nell’articolo 12, comma 1, delle disposizioni sulla legge in generale, che eleva a principale criterio ermeneutico la “intenzione del legislatore”. – Le leggi vanno dunque interpretate non secondo la propria opinione personale, bensì in conformità alle scelte politiche di fondo che hanno indotto il legislatore del passato ad emanarle ed il legislatore del presente a mantenerle in vigore. Le leggi in questo senso sono espressione del comune modo di sentire di una comunità radicata in un determinato contesto storico e geografico. – Alla luce del comune modo di sentire della comunità politica (o delle comunità politiche) che ha prodotto l’art. 270 bis c.p. (o altre norme equivalenti) deve ritenersi che azioni violente condotte anche con il ricorso a “kamikaze” da portatori di ideologie estremistiche islamiche nei confronti di unità militari attualmente impiegate in Asia (tra cui un contingente italiano) non possono qualificarsi come atti di legittima “guerriglia”, ma vanno senz’altro definiti ad ogni effetto come atti di “terrorismo”. Non può ignorarsi al proposito che l’organizzazione Ansar Al Islam, cui gli imputati sono riconducibili è stata inserita dal governo degli stati Uniti tra le organizzazioni terroristiche che intrattengono fecondi rapporti con la temibile “Al Qaeda”».58() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3380; nonché M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit., p. 1288.59() G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3380.

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invece, hanno sottolineato come, seguendo il ragionamento del G.i.p. bresciano, si

rischierebbe di riempire il vuoto di determinatezza della norma con le istanze punitive

dell’opinione pubblica, che portano inevitabilmente alterazione dell’equilibrata

interpretazione delle norme (60). In secondo luogo, l’ordinanza in parola è stata criticata

per il ricorso ad una lista predisposta da un Paese straniero, peraltro neppure appartenete

all’Unione europea, quale prova del carattere terroristico dell’organizzazione

transnazionale de qua.

Per quel che concerne il ricorso alle liste per dedurre il carattere terroristico di una

data organizzazione internazionale, è bene osservare che da tempo la dottrina (61) e, più

recentemente, la giurisprudenza (62) hanno messo in evidenza come le liste di

organizzazioni terroristiche stilate dal Consiglio dell’Unione europea, sulla base delle

analoghe liste predisposte dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, siano

semplicemente il presupposto per l’applicazione di una serie di misure di carattere solo

amministrativo (63). Esse non hanno alcun valore, invece, per il giudice penale. Possono

al più fornire uno spunto investigativo agli organi della pubblica accusa. La tesi contraria,

infatti, trasformerebbe il delitto di cui all’art. 270-bis in una sorta di norma penale in

bianco (64). Se questo discorso è valido per le liste predisposte da organizzazioni

internazionali, a maggior ragione esso lo è per la validità, all’interno del nostro

ordinamento e del nostro processo, di liste stilate da un Paese straniero.

60() In tal senso, M. PELISSERO, Terrorismo internazionale e diritto penale, cit. p. 1288. 61() A. VALSECCHI, Il problema della definizione di terrorismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 1144.62() Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006 (dep. 17.1.2007), n. 1072, in Cass. pen., 2007, p. 1462, su cui v., più ampiamente, infra.63() Si pensi, ad esempio, al congelamento dei beni.64() A. VALSECCHI, Il problema della definizione di terrorismo, cit., p. 1114.

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2.3. Segue. La Convenzione internazionale per la soppressione del

finanziamento del terrorismo del 1999 e la Decisione Quadro del

Consiglio dell’Unione europea del 13 giugno 2002 (2002/475/GAI).

Soprattutto, però, si è messo in evidenza in dottrina (65) come le due succiate

pronunce abbiano omesso di considerare, tra le fonti internazionali e sovranazionali (66)

da cui trarre la nozione di terrorismo, le due principali in materia. Più esattamente, si fa

riferimento, da un lato, alla Convenzione internazionale per la soppressione del

finanziamento del terrorismo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni unite il 9

dicembre 1999 ed entrata in vigore il 10 aprile 2002 (67); dall’altro, alla Decisione Quadro

adottata dal Consiglio dell’Unione europea il 13 giugno 2002 (2002/475/GAI) (68).

In particolare, l’art. 2 della Convenzione ONU del 1999 (69) è già da tempo

integrativa delle fattispecie incriminatrici, in quanto ratificata dal nostro ordinamento con

65() F. CERQUA, Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale: un contrasto giurisprudenziale, cit., p. 3136. 66() Per una ricostruzione della nozione di terrorismo nelle convenzioni e negli atti normativi delle organizzazioni internazionali, nonché nell’ambito dell’Unione europea, v. O. VILLONI, Il reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale e la nozione di terrorismo negli strumenti normativi e nelle convenzioni internazionali, in Giur. merito, 2005, p. 1358;67() Aveva messo in evidenza l’importanza della Convenzione ONU del 1999 per la determinazione della nozione di terrorismo internazionale, L.D. CERQUA, Sulla nozione di terrorismo internazionale, in Cass. pen., 2007, p. 1580 ss.. In particolare, l’A. era intervenuto in senso critico a Cass., Sez. I, 21 giugno 2005, n. 35427.68() La dottrina, criticando le decisioni del G.i.p di Milano e di quello di Brescia, aveva messo in evidenza come, al fine di definire esattamente la portata della «finalità di terrorismo» di cui all’art. 270-bis c.p., avessero importanza fondamentale la Convenzione ONU del 1999 e della Decisione quadro 2002/475/GAI. In particolare, si era espresso in tal senso, A. VALSECCHI, La definizione di terrorismo dopo l’introduzione del nuovo art. 270-sexies c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 1007. La prima pronuncia ad esprimersi in tal senso è stata: Ass. Milano, 9 maggio 2005, Bouyahia Hammadi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 821. Con tale sentenza, la Corte d’Assise di Milano ha accolto le indicazioni provenienti dalla dottrina, utilizzando gli strumenti internazionali più appropriati. In tale ottica, cfr. A. VALSECCHI, Il problema della definizione di terrorismo, cit., p. 1150; nonché F. VIGANÒ, Riflessioni in tema di terrorismo internazionale e diritto penale, in Corr. mer., 2005, p. 429; 69() Per una prima significativa valorizzazione, in giurisprudenza, della Convenzione ONU del 1999 ai fini dell’esatta delimitazione della porta del terrorismo internazionale, v. Ass. Milano, 9 maggio 2005, Bouyahia Hammadi, cit., p. 821; nonché G.u.p. Brescia, 13 luglio 2005, Rafik, inedita. Un commento a tali decisione è anche presente in G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3380 e 3384.

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la legge 14 gennaio 2003, n. 7. Ad avviso di tale disposizione, è terroristica, in primo

luogo, ogni attività indicata come tale da specifiche convenzioni internazionali di settore

che incriminino singole attività tipicamente terroristiche (70). È, altresì, terroristica

qualsiasi altra condotta che presenti un duplice requisito, l’uno di carattere oggettivo,

l’altro di natura soggettiva. Dal punto di vista oggettivo, l’azione violenta deve essere

diretta a cagionare la morte o le lesioni gravi ad un civile oppure, in contesti di conflitto

armato, ad una persona che non partecipi direttamente alle ostilità. Dal punto di vista

soggettivo, invece, deve essere sorretta dalla finalità di intimidire la popolazione, ovvero

da quella di costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere od

omettere un determinato atto (71).

La formulazione della Convenzione del 1999 ha, dunque, una portata così ampia

da assumere il valore di una definizione generale, applicabile sia in tempo di pace che in

tempo di guerra. Essa è comprensiva di qualsiasi condotta diretta contro la vita o

l’incolumità di civili ovvero, in contesti bellici, contro ogni altra persona che non prenda

parte attiva alle ostilità in una situazione di conflitto armato. In quest’ultimo caso, sempre

70() In particolare, l’art. 2 della Convenzione ONU del 1999 prevede che «commette un’infrazione ai sensi della presente Convenzione chiunque con ogni mezzo, direttamente o indirettamente, illecitamente e intenzionalmente eroghi o raccolga fondi con l’intenzione che vengano usati o nella consapevolezza che saranno usati, in tutto o in parte, allo scopo di compiere: a) un atto che costituisce una condotta inclusa nel campo di applicazione di uno dei trattati che figurano in allegato e come in esso definito». In allegato alla Convenzione, figurano quindi i seguenti trattati: 1. Convenzione sulla repressione del sequestro illecito di aeromobili, fatta a l’Aja il 16 dicembre 1970; 2. Convenzione per la repressione di atti illeciti contrari alla sicurezza dell’Aviazione civile, fatta a Montreal il 23 settembre 1971; 3. Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei reati contro le persone internazionalmente protette, inclusi gli agenti diplomatici, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni unite il 14 dicembre 1979; 5. Convenzione sulla protezione fisica del materiale nucleare, adottata a Vienna il 3 marzo 1980; 6. Protocollo per la repressione di atti illeciti contrari alla sicurezza delle Piattaforme fisse situate nella Piattaforma continentale, fatta a Roma il 10 marzo 1988; 9. Convenzione internazionale per la repressione di attentati terroristici dinamitardi, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni unite il 15 dicembre 1997.71() Più esattamente l’art. 2, lett. b) della Convenzione configura una clausola di chiusura a mente della quale è da considerarsi terroristico «qualsiasi altro atto inteso a provocare la morte o gravi lesioni fisiche a civili o a qualsiasi altra persona che non prenda attivamente parte alle ostilità in una situazione di conflitto armato, quando lo scopo di tale atto per sua natura o contesto, è quello di intimorire la popolazione, o costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un atto qualsiasi».

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al fine di diffondere il terrore tra la popolazione e di costringere uno Stato oppure

un’organizzazione internazionale a compiere oppure omettere un determinato atto. Le

vittime devono, quindi, essere dei civili ovvero persone non direttamente impegnate nelle

operazioni militari.

Anche la Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione europea del 13 giugno

2002, già prima della novella normativa ad opera della legge n. 144 del 2005, sebbene

non direttamente vincolante all’interno del nostro ordinamento, costituiva senza dubbio

un referente esegetico di primaria importanza per l’applicazione dell’art. 270-bis c.p.

In particolare, l’art. 1 della Decisione prevede che ciascuno Stato membro adotti

idonee misure affinché siano considerati come terroristici alcuni reati ivi specificamente

individuati (72). La norma prosegue configurando come terroristiche anche tutte quelle

condotte che, per loro natura o contesto, possono recare grave danno ad un Paese o ad

una organizzazione internazionale, quando però siano commesse con il triplice dolo

alternativo ivi specificato, ossia al fine di: intimidire gravemente la popolazione;

costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere

o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, destabilizzare gravemente o distruggere le

strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di

un’organizzazione internazionale.

72() Tali condotte sono: 1) attentati alla vita di una persona che possono causarne il decesso; 2) attentati gravi all’integrità fisica di una persona; 3) sequestro di persona e cattura di ostaggi; 4) distruzioni di vasta portata di strutture governative o pubbliche, sistemi di trasporto, infrastrutture, compresi i sistemi informatici, piattaforme fisse situate sulla piattaforma continentale ovvero di luoghi pubblici o di proprietà private che possono mettere a repentaglio vite umane o causare perdite economiche considerevoli; 5) sequestro di aeromobili o navi o di altri mezzi di trasporto collettivo di passeggeri o di trasporto di merci; 6) fabbricazione, detenzione, acquisto, trasporto, fornitura uso di armi da fuoco, esplosivi, armi atomiche, biologiche e chimiche, nonché per le armi biologiche e chimiche, ricerca e sviluppo; 7) diffusione di sostanze pericolose, il cagionare incendi, inondazioni o esplosioni i cui effetti mettono in pericolo vite umane; 8) manomissione o interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse naturali fondamentali il cui effetto metta in pericolo vite umane; 9) minaccia di realizzazione di uno dei comportamenti di cui ai numeri precedenti.

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L’area applicativa della Decisione quadro è più limitata rispetto a quella della

Convenzione ONU del 1999, riguardando solo i fatti commessi in tempo di pace.

L’undicesimo considerando introduttivo, infatti, esclude dalla sua disciplina le attività

delle forze armate in tempo di conflitto armato.

2.4. Segue. Il d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni,

nella l. 31 luglio 2005, n. 155: l’art. 270-sexies e le «condotte con

finalità di terrorismo».

Subito dopo gli attentati di Londra del 7 e del 22 luglio 2005, il legislatore italiano,

con l’art. 15, comma 1, del d.l. 27 luglio 2005, conv. con. modif. in l. 31 luglio 2005, n.

155 (73), ha finalmente introdotto nel codice penale una propria definizione di terrorismo,

recependo per lo più l’art. 1 della succitata Decisione quadro 2002/475/GAI. Il nuovo art.

270-sexies c.p. costituisce, dunque, una vera e propria attuazione della fonte comunitaria.

Al pari dell’art. 1 della Decisione quadro, infatti, l’art. 270-sexies c.p. prevede che

la condotta si connota come terroristica ogniqualvolta presenti determinati requisiti

oggettivi e soggettivi. Sul piano oggettivo, è necessario che le condotte, «per loro natura

o contesto, possano recare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione

internazionale». Sul piano soggettivo, tali condotte debbono essere poste in essere allo

scopo alternativo: a) di «intimidire la popolazione», b) di «costringere i poteri pubblici o 73() Per un commento alle modifiche normative introdotte dalla l. 155 del 2005, v. S. REITANO, Riflessioni in margine alle nuove fattispecie antiterrorismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 217; nonchè A. MARTINI, La nuova definizione di terrorismo: il D.L. n. 144 del 2005, come convertito con modificazioni in legge 31 luglio 2005, n. 155, in Studium Juris, 2006, p. 1219. L’intervento di cui al d.l. 27 luglio 2005, n. 144, recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale», convertito con modificazioni nella legge 31 luglio 2005, n. 155, è stato di ampio respiro. Per un esame dell’ampliamento dei compiti della polizia giudiziaria in tale materia, v. A. SCAGLIONE, Misure urgenti per il contrasto al terrorismo internazionale e polizia giudiziaria, in Cass. pen., 2006, p. 316.

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un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto»,

ovvero c) a «destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali,

costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale».

La norma codicistica contempla, infine, una clausola di chiusura, a mente della

quale sono altresì considerate con finalità di terrorismo tutte quelle condotte definite

terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto

internazionale vincolanti per l’Italia. In tal modo, l’art. 270-sexies c.p. finisce con l’essere

una vera e propria fonte aperta, destinata ad estendersi o restringersi per effetto, non solo

delle convenzioni internazionali già ratificate, ma anche di quelle future, in modo tale da

assicurare un’armonizzazione automatica dell’ordinamento giuridico dello Stato a quello

internazionale.

A differenza dell’art. 1 della Decisione quadro, quindi, l’art. 270-sexies c.p. non

elenca specificamente quali reati di diritto comune siano suscettibili di essere qualificati

come terroristici, in presenza del necessario dolo specifico. Ad avviso della dottrina (74),

il legislatore italiano potrebbe aver ritenuto superflua una tale elencazione, in quanto la

maggior parte delle condotte di cui all’art. 1 della Decisione quadro sono già contemplate

quali autonome fattispecie criminose dal nostro ordinamento, se sorrette da una finalità

terroristica (artt. 280, 820-bis, 289-bis), mentre le altre condotte sono reati comuni ai

quali è applicabile l’aggravante della finalità di terrorismo di cui all’art. 1 della l. 15 del

1980.

L’art. 270-sexies c.p. presenta, inoltre, significative differenze rispetto alla

definizione di cui alla Convenzione di New York del 1999. Sul versante oggettivo,

74() A. VALSECCHI, Misure urgenti per il contrasto al terrorismo internazionale. Brevi osservazioni di diritto penale sostanziale, in Dir. pen. proc., 2005, p. 1224; F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, cit., p. 3957.

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infatti, è carente di qualsivoglia riferimento alla qualità della vittima. Per la nuova

disposizione, sembrerebbe, quindi, irrilevante che la vittima dell’attentato terroristico sia

un civile piuttosto che un militare anche attivamente impegnato nel conflitto armato. Sul

versante soggettivo, invece, alle due finalità espressamente contemplate dalla

Convenzione – ossia quella terroristica in senso proprio e quella coercitiva della volontà

dell’autorità – si aggiunge una terza finalità: ossia l’eversione di qualsiasi Paese straniero

od organizzazione internazionale. In tal modo, la finalità eversiva diventa una vera e

propria “sottoipotesi” (75) della finalità terroristica e non più un quid aliud, come era stato

fino ad ora nel nostro ordinamento.

Ebbene, giova effettuare qualche precisazione circa la qualità della vittima

dell’attentato terroristico. Nel diritto internazionale, è pacifico che l’atto terroristico possa

essere posto in essere anche in un contesto di conflitto armato, purché la vittima sia un

civile o comunque un soggetto non direttamente impegnato nelle ostilità. Diversamente

opinando, infatti, si tratterebbe di un vero e proprio atto di guerra, in quanto tale, soggetto

allo ius in bello. Nello stesso senso, del resto, si esprime la decisione quadro

2002/475/GAI la quale – come si è detto - all’undicesimo considerando specifica che essa

non si applica ai fatti commessi dalle forze armate in tempo di conflitto armato. Posto che

l’art. 270-sexies c.p. è norma attuativa della decisione quadro, esso dovrà essere

interpretato in un senso ad essa conforme, in omaggio ai principi valevoli in tema di

interpretazione delle norme interne, attuative di fonti comunitarie. Ne consegue che la

definizione di terrorismo di cui all’art. 270-sexies c.p. sarà applicabile ai soli fatti

commessi in tempo di pace. Al contrario, ai fatti commessi in tempo di guerra sarà

applicabile la definizione di cui all’art. 2 della Convenzione di New York, con la 75() F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, cit., p. 3957.

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conseguenza che non saranno considerati terroristici i fatti commessi contro militari

attivamente impegnati nelle operazioni militari in contesti di conflitto armato.

È stata criticata, invece, in dottrina (76), la scelta del legislatore italiano di

ricondurre la finalità eversiva a quella terroristica. Soluzione, peraltro, imposta dagli

obblighi comunitari. Si è messo, infatti, in evidenza che in tal modo, il giudice italiano

potrebbe essere chiamato a difendere l’ordine costituito di qualsiasi Stato estero, anche di

quelli retti da regimi tirannici e dittatoriali (77).

2.5. Segue. Le prime applicazioni giurisprudenziali dell’art. 270-sexies

c.p.

La prima sentenza a fare applicazione della definizione di condotte con finalità di

terrorismo di cui all’art. 270-sexies c.p. è stata quella resa il 28 novembre 2005 dalla

Corte d’assise d’Appello di Milano (78).

Con tale pronuncia, la Corte di merito ha ritenuto applicabile l’art. 270-sexies c.p.,

e la definizione di «condotte con finalità di terrorismo» ivi contenuta, pur essendo detta 76() F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, p. 3958.77() F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, p. 3958; l’A., in senso critico, evidenzia che tale «conclusione potrà magari lasciare insoddisfatti: ma mi pare che l’interprete non possa fare altro che rassegnarvisi, nell’impossibilità di correggere in via interpretativa l’inequivoca volontà del legislatore».78() Ass. app. Milano, 28 novembre 2005, Bouyahia Maher, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 1097. Il processo d’appello, in particolare, ha ad oggetto la sentenza resa all’esito del giudizio abbreviato dal G.u.p di Milano il 24 gennaio 2005, cit., e di cui già si è detto, v. retro § 2.2.

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disposizione entrata in vigore dopo i fatti di causa. E ciò perché – ad avviso dei giudici

d’appello – la norma sarebbe priva di contenuto sanzionatorio. Al contrario, preciserebbe

solo in termini più restrittivi il concetto di terrorismo di cui all’art. 270-bis c.p.

Ai fini di una più corretta interpretazione dell’art. 270-bis c.p., la Corte passa,

quindi, in rassegna le fonti internazionali in materia di terrorismo. In particolare, esamina,

innanzitutto, l’art. 2 lett. b) della Convenzione del 1999 per la repressione del

finanziamento al terrorismo e la decisione quadro 2002/475/GAI, concernente il

terrorismo in tempo di pace. Successivamente, prende in considerazione anche la quattro

Convenzioni di Ginevra del 1949, rese esecutive con l. n. 1739 del 1951 e i due Protocolli

aggiuntivi, resi esecutivi con l. n. 762 del 1985, le cui disposizioni, facenti parte del

diritto internazionale umanitario, contengono la definizione di conflitto armato e degli

obblighi dei combattenti anche non facenti parte di truppe regolari, nonché il divieto di

colpire intenzionalmente la popolazione civile e di dirigere attacchi militari contro

obiettivi civili.

Partendo da tali premesse, i giudici d’appello giungono, quindi, alla conclusione

secondo cui, dalle fonti normative internazionali, si ricava che un atto può definirsi

terroristico quando sia idoneo a diffondere il terrore nella popolazione civile ed a

provocare un grave danno ad uno Stato avvero ad un’organizzazione internazionale,

purché sia stato commesso nel corso di un conflitto armato o di una situazione equiparata

(come ad esempio, l’occupazione militare ad opera di uno Stato straniero), sia qualificato

da una finalità politica o ideologica e, soprattutto, sia diretto contro un obiettivo civile.

Dunque, ad avviso della Corte d’assise d’appello, anche dopo la novella legislativa

di cui alla l. 155 del 2005, è fondamentale che l’atto di violenza sia posto in essere contro

una vittima civile, affinché esso possa essere qualificato come terroristico. 45

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Applicando i suesposti principi di diritto al caso di specie, i giudici d’appello

hanno condannato due dei tre imputati per il reato di cui all’art. 416 c.p. ( 79), così

derubricata l’originaria imputazione per il reato di cui all’art. 270-bis c.p. (80), in quanto,

nel caso di specie, si è ritenuta non raggiunta la prova circa la natura dell’obiettivo in

concreto preso di mira dai militanti dell’organizzazione, in un Paese peraltro straniero.

La Corte di cassazione (81) ha successivamente annullato con rinvio la sentenza

della Corte d’assise d’appello milanese. La Corte di legittimità ha censurato proprio la

nozione di condotte terroristiche fatta propria dalla corte territoriale. La pronuncia della

Suprema Corte, in particolare, va apprezzata in quanto pone un punto fermo nella

definizione della finalità di terrorismo, così mettendo fine al dibattito dottrinario e

giurisprudenziale sviluppatosi a seguito della novella del 2001.

La Cassazione, innanzitutto, evidenzia l’inesattezza di quanto ritenuto dalla Corte

d’appello nell’impugnata sentenza, secondo la quale l’art. 270-sexies c.p. sarebbe privo di

contenuto direttamente sanzionatorio. Al contrario, esso contempla – ad avviso della

Suprema Corte - una norma definitoria con diretta incidenza sull’effettiva portata della

disposizione incriminatrice di cui all’art. 270-bis c.p. Oltretutto, la nuova definizione

introdotta dalla l. 155 del 2005 risulta in realtà, da un lato, più ampia di quella in

precedenza fatta propria nel nostro ordinamento, avendo essa esteso all’eversione di

qualsiasi ordinamento, anche straniero, le finalità terroristiche; dall’altro, invece, la 79() In particolare, gli imputati sono stati condannati per il delitto di associazione per delinquere finalizzata alle uniche condotte penalmente rilevanti per l’ordinamento italiano e debitamente provate in sede processuale, ossia la falsificazione dei documenti di identità ed il procurato ingresso illegale in altri Stati europei.80() Nel caso di specie, era emersa la prova del coinvolgimento di almeno due degli imputati in un’attività di reclutamento dei combattenti da inviare in Iraq nell’imminenza dell’invasione americana nel marzo del 2003. Tuttavia, la Corte territoriale ha che l’accusa non avesse, invece, fornito la prova che detti combattenti, una volta giunti in Iraq, sarebbero stati impiegati esclusivamente in operazioni contro obiettivi civili e non anche contro obiettivi militari della coalizione, come, ad esempio, con l’uso di kamikaze. 81() Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006, cit.

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nozione di terrorismo internazionale di cui all’art. 270-sexies c.p. è più restrittiva di

quella in precedenza ricavabile dall’art. 270-bis c.p., così come integrato dalla

Convenzione di New York del 1999, in quanto applicabile ai soli fatti commessi in tempo

di pace. In virtù di tale carattere, in parte restrittivo ed in parte ampliativo, la nuova

disciplina deve, quindi, essere assoggettata ai dettami di cui all’art. 2 c.p. L’errore in cui è

incorsa la Corte d’assise d’appello, tuttavia, non ha prodotto conseguenze, posto che i

principi da essa applicati erano stati comunque tratti dalla Convenzione ONU del 1999.

Il secondo errore in cui è incorsa la Corte ha avuto, invece, delle conseguenze sul

piano pratico. La Corte d’assise d’appello di Milano aveva, infatti, considerato come

terroristici solo gli atti posti in essere esclusivamente contro la popolazione civile. Tale

ricostruzione, ad avviso della Cassazione, non è condivisibile, in quanto restrittiva della

Convenzione ONU del 1999 che, invece, certamente comprende tra gli atti di terrorismo

anche gli attacchi diretti contro militari impegnati in compiti del tutto estranei alle

operazioni belliche, quali ad esempio lo svolgimento di aiuti umanitari. Inoltre, ad avviso

della Cassazione, bisogna includere tra gli atti terroristici anche quegli atti violenti posti

in essere in un contesto di conflitto armato e che siano contemporaneamente rivolti sia

contro militari che contro la popolazione civile, tutte le volte in cui essi risultino

produttivi di gravi danni non solo nei confronti dei militari, ma anche dei civili (82). 82() In particolare, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto «l’art. 270 sexies c.p. rinvia, quanto alla definizione delle condotte terroristiche o commesse con finalità di terrorismo, agli strumenti internazionali vincolanti per l’Italia, e, in tal modo, introduce un meccanismo idoneo ad assicurare automaticamente l’armonizzazione degli ordinamenti degli Stati facenti parte della comunità internazionale in vista di una comune azione di repressione del fenomeno del terrorismo transnazionale. Ne consegue che, a seguito della integrazione della citata norma da parte della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, fatta a New York l’8 dicembre 1999 e ratificata dall’Italia con legge 14 gennaio 2003, n. 7, costituiscono atto terroristico anche gli atti di violenza compiuti nel contesto di conflitti armati rivolti contro un obiettivo militare, quando le peculiari e concrete situazioni fattuali facciano apparire certe ed inevitabili le gravi conseguenze in danno della vita e dell’incolumità fisica della popolazione civile, contribuendo a diffondere nella collettività paura e panico. (In applicazione di tale principio, la Corte ha affermato che, in base all’art. 270 sexies, che contiene una norma definitoria incidente sulla portata della disposizione incriminatrice di cui all’art. 270-bis c.p., sono qualificabili come atti terroristici anche le zioni suicide commesse da cd. “kamikaze” nel contesto di un

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Emblematico è il caso in cui, ad esempio, un cd. kamikaze si faccia esplodere contro un

automezzo militare in un mercato affollato (83).

La Corte di Cassazione ha, quindi, annullato la sentenza della Corte d’assise

d’appello, disponendo, in sede di rinvio, di procedere ad un nuovo vaglio delle prove

acquisite al fine di ravvisare o meno la finalità di terrorismo contestata agli imputati.

Al di là della singola vicenda processuale, la sentenza della Cassazione va

apprezzata per l’attenta ricostruzione dei rapporti tra l’art. 270-sexies c.p. e la

Convenzione del 1999. In particolare, la Corte evidenzia come l’art. 270-sexies c.p., in

quanto attuativo della decisione quadro 2002/475/GAI, debba essere letto alla luce di

essa. Ne consegue che il campo di applicazione della norma è il medesimo della citata

fonte europea: essa è applicabile ai soli fatti commessi in tempo di pace. Al contrario, in

caso di atto commesso in tempo di guerra, la definizione della finalità di terrorismo deve

essere tratta dalla Convenzione ONU contro il finanziamento del terrorismo del 1999, ad

avviso della quale è terroristica – è bene ribadirlo – ogni condotta posta in essere contro

civili o militari non attivamente impegnati nel conflitto (84). Sono, invece, certamente

estranee alla nozione di terrorismo le condotte poste in essere contro militari combattenti

(85). conflitto armato)». Così, Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006, cit.83() Così Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006, cit.84() In particolare, ad avviso della Suprema Corte «la definizione dell’art. 270 sexies deve essere coordinata con quella della Convenzione del 1999, resa esecutiva con la l. n. 7 del 2003, e che, di riflesso, gli elementi costitutivi delle condotte con finalità di terrorismo – indicati dalla norma nazionale sulla scia della Decisione quadro dell’Unione europea – devono essere integrati facendo riferimento anche alle previsioni della predetta convenzione. Deve trarsene il corollario che dall’integrazione della normativa interna con l’anzidetta fonte internazionale deriva che la finalità di terrorismo è altresì configurabile quando le condotte siano compiute nel contesto di conflitti armati – qualificati tali dal diritto internazionale anche se consistenti in guerre civili interne – e siano rivolte, oltre che contro civili, contro persone non attivamente impegnate nelle ostilità, con l’esclusione, perciò, delle sole azioni dirette contro i combattenti, che restano soggette alla disciplina del diritto internazionale umanitario» (Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006, cit.).85() Per una breve analisi dei nodi interpretativi ancora in essere a seguito della novella normativa di cui alla l. 155 del 2005, v. S. REITANO, Riflessioni in margine alle nuove fattispecie antiterrorismo, cit., p. 263.

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Tale approdo interpretativo cui è giunta la Corte di legittimità è stato, peraltro,

accolto con favore dalla dottrina (86), la quale ha messo in evidenza come, attualmente, le

forze militari straniere ancora presenti nei Paesi islamici siano per lo più impegnate in

un’attività di pacekeeping e di polizia internazionale. Conseguentemente, qualsiasi

attacco terroristico contro di esse ricadrebbe certamente nell’ambito applicativo di cui

all’art. 270-bis c.p. (87).

Una volta esattamente definito l’ambito di applicazione dell’art. 270-sexies c.p.,

permane, tuttavia, il problema fondamentale per il contrasto al terrorismo internazionale,

ossia quello probatorio. Infatti, pur definita la finalità terroristica a seconda della vittima

(civile o militare non impegnato nelle operazioni belliche) e del contesto (atti commessi

in tempo di pace ovvero in tempo di guerra) in cui la condotta viene posta in essere,

risulta arduo raggiungere la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, di quale sia

l’obiettivo in concreto preso di mira dagli imputati in un processo in Italia, per fatti che,

per giunta, essi programmano di compiere all’estero (88).

Così definito l’ambito applicativo delle fattispecie in tema di terrorismo

internazionale, è bene precisare quale sia il bene giuridico protetto delle nuove norme,

che, ovviamente, non può più essere identificato nell’ordinamento costituzionale italiano,

dovendosi ritenere che la collocazione sistematica delle norme de quibus all’interno del

86() Ex pluribus, v. G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3378; nonché F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, cit., p. 3960. 87() In tal senso, v. G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3378. L’A., facendo particolare riferimento alla situazione presente in Iraq, ha affermato: «Le forze militari straniere pur ancora presenti lo sono ormai nella veste di forze impegnate in un’attività di pacekeeping e in operazioni di polizia internazionale su richiesta di quello che è certamente un Governo legittimo che ha la libera sovranità sul Paese e ne consegue che qualsiasi attacco contro di esse e qualsiasi forma di reclutamenti dei militanti da inviare in Iraq ricadrebbe certamente nella fattispecie di azione terroristica». 88() Del resto, già Ass. Milano, 9 maggio 2005, cit., si era posta il problema del «ragionevole dubbio» in merito ai concreti proponimenti degli associati. In tal senso, v. G. SALVINI, L’associazione finalizzata al terrorismo: problemi di definizione e prova della finalità terroristica, cit., p. 3380.

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codice penale sia un mero retaggio storico. Dunque, secondo alcuni, il bene protetto

sarebbe l’ordine pubblico mondiale ovvero la sicurezza pubblica mondiale (89). Tale

impostazione è stata criticata da altri (90), i quali, invece, hanno messo in evidenza come

le norme in questione siano fattispecie plurioffensive. Più esattamente, esse tutelerebbero,

in via diretta, i beni della vita, dell’incolumità fisica, della libertà personale delle vittime

degli attentati, così come della proprietà individuale o collettiva dei beni materiali colpiti.

In via mediata, invece, le condotte terroristiche mirerebbero a colpire beni giuridici

diversi a seconda della specifica finalità, tra quelle indicate dall’art. 270-sexies, che

l’agente intenda perseguire, ossia, in via alternativa ovvero congiunta: la libertà di

autodeterminazione dei funzionari pubblici di qualsiasi Stato od organizzazione

internazionale; la tutela degli ordinamenti esistenti di Stati o di organizzazioni

internazionali; il diritto di ciascuno di vivere libero dalla paura. Recentemente, tuttavia, la

giurisprudenza ha ritenuto che il bene giuridico tutelato dalle disposizioni in materia di

terrorismo sia solo la personalità internazionale dello Stato (91), trattandosi quindi di reati

monoffensivi.

2.6. Segue. Considerazioni conclusive: tendenze del nostro ordinamento

verso un diritto penale del nemico.

89() E. ROSI, Terrorismo internazionale: le nuove norme interne di prevenzione e repressione, in Dir. pen. proc., 2002, p. 157. 90() F. VIGANÒ, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, cit., p. 3968.91() Così Cass., Sez. I, 23 febbraio 2012, n. 12252. In passato, invece la giurisprudenza aveva ritenuto che i reati in questione fossero plurioffensivi, nel senso che tutelassero, da un lato, la vita e l’incolumità delle vittime, dall’altro, la «libertà di autodeterminazione degli Stati e delle organizzazioni internazionali» (Cass., Sez. I, 11 ottobre 2006, cit.).

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Come messo in evidenza nell’incipit della presente indagine, la legislazione anti-

terrorismo italiana appartiene al modello europeo degli strumenti di contrasto al

terrorismo islamico. Ne consegue che, al di là di singoli punti di frizione che essa possa

eventualmente presentare con i principi costituzionali, essa non appartiene alla categoria

del diritto penale del nemico.

Certamente è pur vero che l’art. 270-bis c.p., così come modificato dalla d.l. 374

del 2001, conv. in l. 438 del 2001, presentava, almeno fino all’intervento del d.l. 144 del

2005, conv. in l. 155 del 2005, un deficit di determinatezza (92) che avrebbe potuto

attrarlo in quella species di diritto penale. Come abbiamo visto, infatti, il legislatore del

2001 aveva omesso di inserire all’interno del nostro ordinamento una nozione di

terrorismo internazionale, rendendo i confini della fattispecie assai ampi e generici. Tale

punctum dolens della norma in esame, del resto, è emerso in tutta la sua evidenza fin da

subito, come si è visto dalle opposte pronunce del gip di Milano e di quello di Brescia

che si sono succedute a distanza di poco tempo l’una dall’altra.

Agli inconvenienti derivanti dall’indeterminatezza della fattispecie ha, appunto,

voluto ovviare il legislatore del 2005 per il tramite dell’introduzione di una definizione di

terrorismo internazionale all’art. 270-sexies. A quel punto, però si sarebbe potuto

verificare uno sconfinamento nel diritto penale del nemico sotto un altro punto di vista,

ossia dando seguito a quell’interpretazione, almeno in principio, fatta propria dalla

giurisprudenza di merito, secondo cui la nuova norma avrebbe avuto portata meramente

interpretativa e, in quanto tale, avrebbe, quindi, potuto avere efficacia retroattiva.

Tuttavia, sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione che, con la succitata pronuncia,

92() E’ bene sottolineare come parte della dottrina ritenga che, anche a seguito della novella di cui alla. l. 155 del 2005, la definizione di terrorismo di cui all’art. 270-sexies pecchi per determinatezza. In tal senso, cfr. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, Torino, 2008, p. 101.

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ha ricondotto la norma in questione nell’alveo del principio di legalità, chiarendo che essa

non è una vera e propria norma interpretativa, bensì una norma pseudo-interpretativa (93)

e, in quanto tale, soggetta alla disciplina di cui all’art. 2 c.p. (94).

3. La legislazione anti-terrorrismo nel Regno Unito.

Quando gli USA sono stati colpiti dagli attentati terroristici dell’11 settembre

2001, la Gran Bretagna (95) si era da poco munita di un nuovo strumento di contrasto al

terrorismo. Si fa, in particolare, riferimento al Terrorism Act 2000, entrato in vigore il 19

febbraio 2001, con lo scopo di rivedere e rafforzare la legislazione in materia e far, così,

fronte al crescente fenomeno del terrorismo internazionale (96).

Il Terrorism Act 2000, in particolare, era diretto a reprimere il terrorismo in una

prospettiva internazionale. Secondo la definizione contenuta nel preambolo di tale

provvedimento, infatti, la nozione di terrorismo (97), era da intendere come «uso della

violenza, o anche solo minaccia, contro persone, o proprietà, al fine di promuovere una

causa politica, religiosa o ideologica; nonché la messa a repentaglio della vita di un

qualunque individuo, o la costituzione di un notevole rischio per la salute e la sicurezza

della società, o di parte di essa». Nel corpo del testo si precisava, poi, che un atto era

93() Sulla differenza tra norma interpretative e norme pseudo-interpretative e sulla sottoposizione solo di quest’ultime al principio di irretroattività della legge penale, cfr. F. RAMACCI, Corso di diritto penale, IV ed., Torino, 2007, p. 208. 94() In questi termini, v. anche F.R. FULVI, I terroristi: criminali o nemici?, in Arch. Pen., 2009, p. 89. 95() Per una analisi della legislazione britannica prima dell’11 settembre 2001, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E i relativi strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, Roma, 2006, p. 125. 96() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2005, p. 121. 97() Sul punto, v. P. LEYLAND, Lotta al terrorismo e tutela dei diritti individuali nel regno Unito: la ricerca di un equilibrio tra disposizioni di legge, potere esecutivo e controllo giurisdizionale , in T. Groppi (a cura di), Democrazia e terrorismo, Napoli, 2006, p. 243.

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considerato terroristico sia se fosse stato commesso nel Regno Unito, sia al di fuori di

esso ed a prescindere dal fatto che fosse realizzato nei confronti del Governo della Gran

Bretagna o di un altro Stato (98). Si precisava, inoltre, come la collettività destinataria

dell’atto terroristico potesse essere anche quella di uno Stato diverso dal Regno Unito;

per proprietà, dovesse intendersi qualsiasi tipo di possesso, indipendentemente

dall’ubicazione del bene e dalla nazionalità del soggetto titolare di esso e che, per

popolazione, dovesse intendersi qualsiasi popolazione, non solo quella del Regno Unito,

ma anche di qualsiasi altro Paese sovrano e che, per Governo, devesse intendersi

qualsiasi Governo legittimo, riconosciuto dalla Comunità internazionale (99).

Nonostante ciò, all’indomani dell’11 settembre 2001, tale normativa risultò presto

inadeguata ed anche il Governo del Regno Unito ha ritenuto opportuno approvare un

nuovo provvedimento legislativo, idoneo ad efficacemente fronteggiare il moderno

atteggiarsi del fenomeno del terrorismo internazionale, così come era emerso a seguito

degli attacchi agli Stati Uniti. Sicché il Governo britannico, il 12 novembre 2001, ha

approvato l’Anti-Terrorism Crime and Security Act (ATCSA 2001). Tale normativa

presentava taluni aspetti eccezionali ed aveva carattere temporaneo, in quanto

originariamente destinata a rimanere in vigore fino al 10 novembre 2006. Il

provvedimento normativo in questione si proponeva, in particolare, di emendare il

Terrorism Act 2000, dando altresì attuazione all’allora Titolo VI del trattato sull’Unione

europea.

98() In tal senso, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E i relativi strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 130.99() È bene precisare che già la disciplina di cui al Terrorism Act 2000 aveva ricevuto numerose critiche da parte di quelle organizzazioni che si occupano della tutela dei diritti civili. Amnesty International, in particolare, aveva evidenziato come le disposizioni in esso contenute entrassero in conflitto con le Convenzioni internazionali in materia di tutela dei diritti umani e ratificate dal Regno Unito. Amplius, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E i relativi strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 131.

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Fin da subito, tuttavia, si sono posti problemi di compatibilità della nuova

disciplina con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle

libertà fondamentali (Cedu), (100) posto che la normativa anti-terrorismo britannica

adottata dopo l’11 settembre 2001 presentava significativi caratteri di cd. diritto penale

del nemico.

In particolare, la section 21 dell’ATCSA 2001 conferiva al Segretario di Stato il

potere di emettere un certificate (101), nel quale avrebbe dovuto motivare i propri sospetti

in merito al coinvolgimento di un cittadino straniero in attività legate al terrorismo

internazionale ed autorizzare, in tal modo, l’esercizio dei poteri eccezionali di detenzione

nei suoi confronti. La section 23 del medesimo provvedimento legislativo, invece,

prevedeva che i «sospetti terroristi» fossero soggetti alla carcerazione preventiva per un

periodo potenzialmente indefinito ed in assenza di un processo legale. Il provvedimento

in questione, inoltre, poteva essere soggetto ad un giudizio di controllo da parte della

Special Immigration Appeals Commission (SIAC), istituita dallo Special Immigration

Appeals Commission Act del 1997 al fine di contrastare l’immigrazione clandestina. Tale

organo para-giurisdizionale era composto da tre giudici della High Court (102). Si trattava

di un foro legale speciale (103), destinato ad occuparsi esclusivamente di casi di sospetti

terroristi. La straordinarietà di questa Commissione risiedeva nel fatto che né i sospetti

100() Sull’impatto della legislazione anti-terrorismo britannica sulla tematica della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, v. R. CRESTANI, Stati di eccezione, misure anti-terrorsimo e tutela dei diritti umani. Il caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna dopo l’11 settembre 2001, in Pace e diritti umani, 2005, p. 69 ss.; nonché M. ROSENFELD, Judicial balancing in time of stress. La risposta di Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele alla “guerra al terrore”, in T. Groppi (a cura di), Democrazia e terrorismo, Napoli, 2006, p. 121 ss.101() in tal senso, v. F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, in Dir. pen. proc., 2003, p. 646. 102() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, cit., p. 122. 103() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, cit., p. 122.

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terroristi, né i loro avvocati erano resi edotti degli elementi per i quali era stato effettuato

l’arresto. Tali elementi erano comunicati in via esclusiva ad un avvocato di fiducia del

Governo, che, peraltro, aveva la rappresentanza di ogni soggetto. Inoltre, la maggior parte

delle udienze si teneva a porte chiuse (104). La SIAC aveva, quindi, il potere di annullare

(105) il certificate del Segretario di Stato nel caso in cui avesse ritenuto che le condizioni

per la sua emissione non fossero state rispettate.

Per attuare l’ATCSA 2001, si è resa però necessaria in Gran Bretagna

l’approvazione del decreto n. 3644 del 2001: l’Human Rights Act Designated

Derogation. Esso prevedeva una deroga espressa alla Cedu, che era stata recepita in Gran

Bretagna con lo Human Rights Act del 1998. È proprio l’art. 15 della Cedu a prevedere

che «in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della Nazione, ogni

Alta Parte Contraente può prendere misure in deroga agli obblighi di cui alla presente

Convenzione nella stretta misura in cui la situazione lo esiga e a condizione che tali

misure non siano in contraddizione con gli altri obblighi derivanti dal diritto

internazionale». In omaggio a tale disposizione, l’art. 1, comma 2, dello Human Rights

Act del 1998 aveva previsto, quindi, che il Segretario di Stato, con una propria ordinanza,

potesse derogare alla Convenzione ogniqualvolta sussistessero i dovuti presupposti di

necessità ed urgenza. La Cedu, tuttavia, esclude la derogabilità – tra gli altri –

dell’articolo 3, in virtù del quale nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o

trattamenti inumani o degradanti.

L’art. 15, comma 3, della Cedu prevede, poi, che «ogni Alta Parte Contraente che

eserciti il diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale

104() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, cit., p. 122. 105() F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 646.

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del Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate». La

Gran Bretagna ha, quindi, notificato al Consiglio d’Europa un rapporto (il Public

emergency in the United Kingdom) in cui si è fatto riferimento espresso agli attentati

dell’11 settembre e alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che

hanno definito tali attacchi come una seria e reale minaccia per la sicurezza

internazionale, chiedendo agli Stati di adottare nuove misure per prevenire il compimento

di ulteriori attacchi terroristici. Tuttavia, il Governo britannico aveva reso noto come la

propria legislazione avrebbe derogato la Cedu solo con riferimento al suo art. 5 par. 1 lett.

f. Infatti, la normativa anti-terrorismo del 2001 prevedeva la possibilità di detenere, a

tempo indeterminato, cittadini stranieri sospettati di essere terroristi, qualora e fino a

quando la loro espulsione, per motivi di sicurezza nazionale, non fosse in concreto

possibile, poiché, ad esempio, i soggetti in questione rischiavano di essere seriamente

sottoposti a persecuzione e tortura nel loro Paese d’origine (106). La legislazione anti-

terrorismo, tuttavia, prevedeva la possibilità per lo straniero di mettere fine alla

detenzione decidendo spontaneamente di tornare nel proprio Paese ed accettando, quindi,

il rischio per la propria incolumità (107).

In virtù del disposto di cui agli artt. 3 e 15 Cedu, il Governo britannico ha poi

sostenuto che la carcerazione preventiva nei confronti di cittadini extracomunitari, senza

incriminazione formale e senza processo, si rendesse necessaria al fine di evitare che i

soggetti arrestati subissero trattamenti contrari all’art. 3 Cedu nei loro Paesi d’origine, in

cui non era assicurato il rispetto dei diritti fondamentali.

106() F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 642. 107() F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 642.

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La deroga alla Convenzione, tuttavia, poteva essere ritenuta valida nei limiti

imposti dalla Cedu stessa. L’art. 30, comma 2 e 5, ATCSA 2001 prevedeva, quindi, che i

detenuti potessero contestare le deroghe non consentite alla normativa convenzionale e da

essi ritenuti sussistenti.

Sulla legittimità della legislazione britannica antiterrorismo si è pronunciata la

Camera dei Lords, straordinariamente composta per l’occasione da nove giudici, anziché

cinque, per la rilevanza costituzionale della questione. La Law Lords ha dichiarato

l’illegittimità costituzionale delle sections 21 e 23 dell’ATCSA 2001 per violazione della

Cedu. La normativa britannica di contrasto al terrorismo internazionale, adottata

sull’onda emotiva dei fatti dell’11 settembre, entrava, infatti, in collisione con la Cedu,

sotto il profilo del divieto di discriminazione di cui all’art. 14 Cedu (108) e sotto il profilo

del diritto di libertà di cui all’art. 5 Cedu (109).

108() L’art. 14 Cedu prevede che «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato, senza distinzione di alcuna specie, come di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione». 109() A mente dell’art. 5 Cedu: «Diritto alla libertà e alla sicurezza. – Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà salvo che nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: - a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente; - b) se è in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento legittimamente adottato da un tribunale ovvero per garantire l’esecuzione di un obbligo imposto dalla legge; - c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato o ci sono motivi fondati per ritenere necessario di impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso; - d) se si tratta di detenzione regolare di un minore, decisa per sorvegliare la sua educazione, o di una sua legale detenzione al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente; - e) se si tratta della detenzione regolare di una persona per prevenire la propagazione di una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; - f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di penetrare irregolarmente nel territorio, o contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione; - 2. Ogni persona che venga arrestata deve essere informata al più presto e in una lingua a lei comprensibile dei motivi dell’arresto e di ogni accusa elevata a suo carico. – 3. Ogni persona arrestata o detenuta nelle condizioni prevista dal paragrafo 1 c) del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o a un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere posta i libertà durante l’istruttoria. La scarcerazione può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione della persona all’udienza. – 4. Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha diritto di indirizzare un ricorso ad un tribunale affinché esso decida, entro brevi termini, sulla legalità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegale. – 5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione a una delle disposizioni di questo articolo ha diritto ad una riparazione».

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Il ricorso che ha dato origine alla pronuncia della Camera dei Lords era stato

presentato da nove «sospetti terroristi», detenuti presso il carcere londinese di Belmarsh.

Essi, tutti cittadini extracomunitari, erano stati arrestati da ormai tre anni in base alle

disposizioni dell’ATCSA 2001 e, da allora, erano ristretti, senza che fossero rese note le

accuse a loro carico e senza alcun processo. I «sospetti terroristi» contestavano, quindi, la

legittimità di tale carcerazione preventiva, in quanto erano trattenuti in virtù delle sole

informazioni in possesso dei servizi di intelligence, in base alle quali erano sospettati di

essere in vario modo legati al terrorismo internazionale.

Subito dopo il loro arresto, i soggetti sospettati di essere terroristi avevano

proposto istanza di revisione alla SIAC, la quale si era pronunciata il 30 giugno 2002. In

tale pronuncia, la Commissione aveva evidenziato come la legge antiterrorismo

prevedesse un’ingiustificata discriminazione degli stranieri, posto che un trattamento

siffatto non era, invece, contemplato dalla legislazione nei confronti dei cittadini. Si era

messo in evidenza, quindi, come ciò costituisse una evidente violazione del divieto di

discriminazione di cui all’art. 14 Cedu. Inoltre, l’art. 1 Cedu prevede che «le Alti Parti

contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà

definiti al Titolo primo della presente Convenzione». In tal modo, sancendo

l’applicabilità della tutela di cui alla Cedu ad ogni individuo presente sul territorio di uno

Stato Parte, a prescindere dalla sua nazionalità. I cittadini britannici, invece,

conservavano immutati i diritti loro garantiti dalla Cedu e, in particolare, quello di cui

all’art. 6 di vedere determinata la fondatezza delle accuse a loro carico in un processo

penale rispettoso delle garanzie di equità (110).

110() F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 642.

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Più nel dettaglio, la SIAC aveva evidenziato come una siffatta detenzione nei

confronti degli stranieri fosse contraria alla Convenzione, posto che il Governo

britannico, nel Public emergency in the United Kingdom Act, non aveva espresso la

volontà di derogare all’art. 14 Cedu.

In otto, dei nove casi, tuttavia, la SIAC ha ritenuto che fossero legittimi i sospetti

di terrorismo nei confronti degli arrestati ed ha, quindi, statuito che gli stessi dovessero

continuare ad essere assoggetti ad un regime di detenzione. Uno di essi, invece, è stato

scarcerato, ma sol perché non era stata ravvisata la presenza di idonei elementi che ne

giustificassero l’internamento. In linea generale, quindi, la SIAC non ha ritenuto

illegittima tale forma di detenzione, indefinita, senza una formale accusa e senza un

processo.

Dopo questo caso, è stato introdotto un emendamento all’ATCSA 2001, in virtù

del quale le pronunce della SIAC avrebbero potuto essere appellate avanti alla High

Court. Nel caso di specie, quest’ultima, interpellata a seguito del ricorso proposto dal

Segretario di Stato, è giunta a conclusioni del tutto opposte rispetto la SIAC ed ha

annullato la decisione di quest’ultima. In particolare, la High Court ha affermato che le

misure di cui alle sections 21 e 23 dell’ATSCSA 2001 erano legittime in quanto dettate

dalla situazione di emergenza in cui versava il Paese. Sarebbe, infatti, legittimo reagire a

minacce eccezionali alla sicurezza dello Stato, con misure altrettanto eccezionali. Dopo

l’11 settembre, la minaccia alla sicurezza della Gran Bretagna sarebbe stata tanto grave

da rendere inevitabile una deroga all’art. 5 Cedu. La legge anti-terrorismo, peraltro,

prevederebbe efficaci procedure per controllare la legittimità delle detenzioni al di fuori

dall’instaurazione di un processo legale, proprio in virtù della possibilità di sottoporre

alla SIAC il provvedimento adottato dal Segretario di Stato che attribuisce all’arrestato la 59

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qualifica di «sospetto terrorista». Inoltre, non vi sarebbe alcuna discriminazione tra

cittadini e stranieri, in violazione dell’art. 14 Cedu, posto che, dal punto di vista

giuridico, i primi non potrebbero essere equiparati ai secondi.

Ed infatti, ad avviso della Corte, mentre i cittadini britannici non sarebbero

assoggettabili a misure d’espulsione, in quanto titolari del cd. right to remain (111), ossia

del diritto di rimanere nel proprio Paese, quelli stranieri, invece, nell’ipotesi in cui

possano essere legittimamente espulsi, sono solo titolari del diritto di non vedere eseguita

tale misura (right not to be removed) (112) fintanto che la sua esecuzione costituisca un

serio rischio per la loro stessa incolumità.

L’Attonery General presso l’High Court, nelle sue motivazioni che sono state poi

accolte dalla Corte stessa, aveva messo in evidenza come i prigionieri fossero in realtà

liberi di lasciare la Gran Bretagna in qualsiasi momento, nel caso in cui un Paese

straniero fosse stato disposto ad accoglierli. Ciò, del resto, era già avvenuto in passato,

quando due persone arrestate ai sensi della section 23 dell’ATCSA 2001 avevano lasciato

il Paese per recarsi in Marocco ed in Francia. Tuttavia, l’espulsione di terroristi dal

territorio britannico non è mai apparsa come una soluzione risolutiva, poiché, in tal

modo, il problema del terrorismo internazionale veniva semplicemente spostato

all’estero, da dove i soggetti estradati avrebbero potuto tranquillamente continuare ad

ideare attentati terroristici, anche contro la Gran Bretagna stessa.

La pronuncia della High Court è stata, quindi, immediatamente appellata alla

Camera dei Lords che ha adottato una decisione di segno opposto rispetto a quella fatta

propria dall’organo giurisdizionale di grado inferiore. Le censure sollevate avanti alla

111() Sul punto, v. F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 642.112() Cfr. F. DE SANCTIS, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, cit., p. 642.

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House of Lords hanno riguardato soprattutto la violazione degli artt. 14 e 5 della Cedu a

degli artt. 9 e 26 del Patto sui Diritti Civili e Politici del 1966. L’ATCSA 2001, infatti,

come più volte evidenziato, non prevedeva alcun controllo dell’autorità giudiziaria sui

provvedimenti restrittivi della libertà personale i quali, oltretutto, erano applicati nei

confronti dei soli stranieri, in palese violazione anche del divieto di discriminazione. I

giudici sono, quindi, giunti alla conclusione che l’ATCSA 2001 contemplava un

trattamento discriminatorio nei confronti degli stranieri, in tal modo collidendo con

l’apparato di garanzie affermato in materia di libertà personale. La sentenza conteneva,

quindi, un monito al Governo, in virtù del quale quest’ultimo era invitato a sostituire la

normativa in questione con un’altra che non contemplasse alcuna deroga alla Cedu, né

alcuna discriminazione in ragione della nazionalità.

D’altra parte, una tale discriminazione era stata possibile per effetto dell’ATCSA

2001, poiché cittadini e stranieri possedevano in Gran Bretagna diversi diritti in base alla

legislazione sull’immigrazione. Tuttavia, l’ATSCA 2001 collideva anche con tale

normativa poiché andava a preveder un trattamento differenziato tra cittadini e stranieri in

tema di diritto di libertà personale che, invece, attiene all’individuo in quanto tale e non

deve perciò essere trattato in maniera diversa a seconda della nazionalità del soggetto.

L’aspetto che, però, è stato più attentamente criticato da parte della Camera dei

Lords è quello afferente il carattere indefinito della detenzione del sospetto terrorista. In

passato, infatti, l’Immigration Act del 1971 prevedeva che il Segretario di Stato potesse

trattenere in reclusione un cittadino non britannico, ma solo per il tempo strettamente

necessario all’attuazione di un ordine di estradizione nei suoi confronti. La

giurisprudenza formatasi sul punto aveva poi affermato che un tale tipo di detenzione

sarebbe stata legittima solo se temporalmente limitata e strettamente necessaria 61

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all’espletamento delle operazioni di espatrio. Tale normativa, a differenza di quella di cui

all’ATSCA 2001, era perfettamente compatibile con la Cedu (113). L’Immigration Act,

inoltre, prevedeva che tale tipo di detenzione avesse comunque durata limitata, nel senso

che dovesse durare solo per il periodo strettamente necessario a portare a termine il

processo di espulsione. In caso contrario, infatti, sarebbero stati violati i diritti dei

detenuti.

I detenuti appellanti, avanti alla House of Lords, avevano posto l’accento su tre

elementi che, a loro dire, avrebbero testimoniato l’assenza di una minaccia effettiva nei

confronti della Gran Bretagna. In primo luogo, il Governo britannico non avrebbe fornito

la prova di una minaccia effettiva nei confronti del Paese. In secondo luogo, l’emergenza,

per essere davvero tale, avrebbe dovuto essere limitata nel tempo e, nel caso in questione,

invece, non era stato indicato alcun elemento di temporaneità. Infine, l’assenza di un

pericolo pubblico attuale sarebbe stato evidenziato dal fatto che nessun altro dei Paesi

europei aveva ritenuto necessario derogare alla Cedu.

È stato, quindi, evidenziato come la minaccia terroristica non potesse essere

considerata seria e pericolosa per le istituzioni britanniche (114) e come, in passato, tutte le

volte in cui uno Stato aveva derogato alla Cedu, i singoli Governi avessero sempre

dimostrato l’esistenza di una situazione di emergenza, legittimante la deroga all’art. 5, in

quanto costituente una vera e propria minaccia per la vita della Nazione. Al contrario, il

Governo di Londra non aveva fornito prove sufficienti a sostegno di una deroga in tal

senso.

113() L’art. 5, comma 1, Cedu prevede che «ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge». La lett. f) della medesima disposizione prevede poi che tale deroga è consentita «se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione». 114() Così, Law Lord Hoffmann

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In dottrina, è stato evidenziato come questa pronuncia della Camera dei Lords

abbia costituito un freno per provvedimenti come l’ATCSA 2001 che, al fine di tutelare

la sicurezza pubblica, comportavano vistose deroghe alle garanzie costituzionali tali da

determinare una violazione dei diritti fondamentali di libertà (115). Bisogna, quindi,

trovare un giusto punto di equilibrio tra esigenze di pubblica sicurezza e salvaguardia dei

diritti fondamentali e la sentenza dei Law Lords costituisce un passo in tale direzione

(116).

A seguito di questa pronuncia della House of Lords del 16 dicembre 2004, il

Governo del Regno Unito ha emanato il Prevenction of Terrorism Act 2005 (PTA 2005)

(117), con il quale è stata sostituita l’intera Parte IV dell’ATCSA 2001. Tale atto aveva

introdotto i control orders, ossia una nuova categoria di provvedimenti amministrativi, di

natura cautelare, che comprendevano diverse tipologie di misure di sicurezza. Questi

erano emessi dal Segretario di Stato, quando non avrebbero comportato misure restrittive

della libertà personale. Al contrario, erano emessi dall’autorità giudiziaria, su richiesta

del Segretario di Stato, in tutti gli altri casi. Inoltre, i control orders erano soggetti a

controllo di legittimità da parte dell’High Court. Il giudizio si articolava in due diverse

fasi, la prima delle quali doveva essere incardinata entro sette giorni dall’emissione del

provvedimento. La Corte poteva, quindi, annullare l’ordine ovvero imporre

all’Amministrazione delle modifiche. Ad ogni modo, con una decisione presa a giugno

del 2009, l’House of Lords inglese ha, all’unanimità, decretato la fine anche dei control

115() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, cit., p. 125.116() C. BASSU, I Law Lords ritengono illegittime le misure antiterroristiche del Governo Blair, cit., p. 125117() Il testo del Prevention of Terrorism Act 2005, approvato dal Parlamento inglese l’11 marzo 2005, è pubblicato in appendice a Gnosis. Rivista italiana di intelligence, 2006.

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orders (118). Infatti, tali provvedimenti amministrativi - che comportavano pesanti

restrizioni della libertà nei confronti di chi fosse sospettato di porre in essere attività

terroristiche – implicavano sostanzialmente che il destinatario del medesimo non potesse

essere processato a causa della segretezza imposta sulle fonti di prova ovvero di sospetto

a uso carico. Per tale ragione, però, i sospetti terroristi non potevano difendersi neppure

dalla procedura di applicazione dei control orders stessi.

Dopo gli attentati di Londra del luglio 2005, la legislazione antiterrorismo

britannica ha subìto un ulteriore inasprimento. Il 21 ottobre è stato, infatti, approvato il

Terrorism Act 2006 (119), entrato in vigore il 30 marzo 2006 (120). Tale provvedimento

normativo ha introdotto nuove figure criminose connesse al fenomeno terroristico. Nella

seconda parte del provvedimento, inoltre, sono state riviste ed inasprite alcune procedure

restrittive della libertà personale. I responsabili della polizia a livello locale possono

privare della libertà personale i sospetti terroristi, a scopo preventivo, per un tempo

superiore alle 48 ore, come invece previsto dalla normativa vigente in tutti gli altri casi.

Inoltre, la versione originaria del Terrorsim Act 2006 prevedeva che le misure detentive

extragiudiziarie da applicarsi nei confronti dei soggetti sospettati di essere terroristi

potessero avere una durata massima di 90 giorni. Tuttavia, tale disposizione ha avuto un

118() In argomento, v. A. SPATARO, Otto anni dopo l’11 settembre. (Il modello anglosassone e quello europeo nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale), cit., p. 161. 119() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 134.120() Per un commento alla politica del Governo britannico a seguito degli attentati del luglio 2005, v. D. COLAROSSI, La difficile convivenza tra regimi emergenziali e diritto di espressione: le ultime misure predisposte dal Governo di Tony Blair contro la minaccia del terrorismo, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2005, p. 121 ss. Altro provvedimento normativo strettamente connesso al tema della sicurezza nazionale ed approvato dal Parlamento inglese dopo gli attentati di Londra, è l’Identity Cards Act 2006. Sul punto, v. S. PENNICINO, Approvato l’Identity Cards Act 2006, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2006, p. 1113.

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considerevole impatto nell’opinione pubblica e nella dottrina (121), cosicché la durata

massima è stata ridimensionata a 28 giorni.

4. La Germania.

A seguito dei fatti dell’11 settembre, il 9 gennaio 2002, in Germania è stata

adottata la legge sulla lotta al terrorismo internazionale

(Terrorismusbekaempfungsgesetz) (122). Tale provvedimento normativo ha introdotto

nuove fattispecie di reato ed una serie di disposizioni volte ad accrescere i poteri di

indagine nei confronti di banche, gestori di telecomunicazioni, società finanziarie e

compagnie aeree. È stato introdotto un penetrante potere di controllo sui cittadini,

essendo stato previsto un sistema di raccolta dei dati personali all’insaputa

dell’interessato, a discapito del segreto di corrispondenza e del segreto bancario. Ai fini

di una più certa identificazione delle persone, è stato previsto che nei documenti di

identità e nei passaporti venissero inseriti i dati biometrici. È stata poi introdotta una

normativa in tema di associazioni per far si che le autorità di sicurezza avessero un più

incisivo controllo nei riguardi dei gruppi religiosi, delle associazioni fondate su base

ideologica, nonché sui gruppi facenti capo al fondamentalismo islamico. Tali

121() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 135. 122() Sul punto, v. G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza fra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, in Rass. parl., 2004, p. 442 ss.; nonché C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 170 ss.

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disposizioni, avrebbero dovuto avere un’efficacia limitata a cinque anni, salva la facoltà

di proroga esercitabile dal legislatore.

Inoltre, sono stat introdotte due importanti modifiche: l’una, al codice penale,

l’altra, al codice di procedura penale. Per quanto riguarda la prima, con legge federale del

22 agosto 2002, è stata introdotta la fattispecie criminosa dell’associazione terroristica

all’estero. Per quel che riguarda la seconda, con la legge federale del 6 agosto 2002, sono

stati introdotti degli adeguamenti procedurali.

Il 26 luglio 2002 è stato, poi, modificato l’art. 96 della Legge fondamentale. In

particolare, al comma 5, è stato previsto che, nell’ambito dei procedimenti penali relativi

alla sicurezza dello Stato di cui all’art. 26 GG, un legge federale avrebbe potuto

demandare alle corti dei Länder l’esercizio della giustizia federale in materia di

genocidio, crimini contro l’umanità di diritto penale internazionale, crimini di guerra,

altri atti suscettibili di turbare la coesistenza pacifica dei popoli e la sicurezza dello Stato.

Quel che più specificamente interessa ai fini di un diritto penale del nemico, in

quanto entra in collisione con i diritti fondamentali dell’individuo, è la cd. Legge sulla

Sicurezza Aerea (Luftsicherheitsgesetz) dell’11 gennaio 2005 (123). Tale legge, da subito

al centro del dibattito istituzionale, è stata infine dichiarata incostituzionale dal Tribunale

costituzionale federale tedesco (Bundesverfassungsgericht) con la sentenza 1 BvR 357/05

del 15 febbraio 2006, con cui la Consulta tedesca ha riaffermato la primazia della dignità

umana. La Luftsicherheitsgesetz, in particolare, era stata emanata al fine di adeguare

l’ordinamento giuridico tedesco alla nuova disciplina comunitaria in materia di sicurezza

dell’aviazione civile (124). Più esattamente, si fa riferimento al regolamento (CE) n.

123() A. DE PETRIS, Dignità umana e federalismo nella tutela delle sicurezza collettiva in Germania, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2006, p. 729. 124() Appare opportuno sottolineare come anche in Italia sia stato adottato un provvedimento dall’analogo tenore. Tuttavia, nel nostro Paese, anziché utilizzare lo strumento del provvedimento legislativo, come in

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849/2004 del 29.4.2004, che aveva a sua volta modificato il regolamento (CE) n.

2320/2002 del 16.12.2002, istitutivo di norme comuni per la sicurezza dell’aviazione

civile.

Tale testo normativo era destinato a disciplinare l’ipotesi in cui, come avvenuto

negli Stati Uniti l’11 settembre, un gruppo di terroristi avesse dirottato un aeromobile

civile all’interno dello spazio aereo tedesco, per usarlo come arma impropria verso

obiettivi civili o militari. Il par. 1 di tale articolato prendeva, quindi, in considerazione

l’ipotesi di dirottamenti, sabotaggi ed attacchi terroristici.

La parte della Legge sulla Sicurezza Aerea che ha avuto rilevanza ai fini del

ricorso di costituzionalità è il Titolo III (parr. 13-15). Ad ogni modo, in via preliminare,

pare opportuno precisare che il par. 16 II di tale legge prevedeva che i Länder avessero

competenza generale a gestire le questioni inerenti la sicurezza aerea, per conto della

Federazione. Il par. 5, invece, prevedeva che la protezione contro gli attacchi alla

sicurezza aerea spettasse alla polizia federale, fin quando ricorressero le condizioni di cui

al par. 16 III 2 e 3 della stessa legge, in virtù del quale le funzioni delle autorità di

sicurezza aerea avrebbero potuto essere svolte da enti federali nominati dal Ministro degli

Germania, è stato tale normativa è stata introdotta con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 2 aprile 2004, segretato per ragioni di sicurezza. All’esito di un’interrogazione parlamentare, è emerso che tale disciplina sarebbe stata adottata nel nostro Paese al fine di dare attuazione al cd. «renegade Concept», ossia un documento elaborato dalla Nato nella direttiva MCM-062-02. Secondo la normativa italiana, sarebbero di competenza dell’esecutivo l’individuazione dei criteri e delle procedure la cui osservanza legittimerebbe l’abbattimento dell’aereo civile. La decisione finale sull’abbattimento spetterebbe, invece, ad una «Autorità nazionale governativa», individuata dal medesimo decreto e la cui composizione non è chiara. In dottrina (D. SICILIANO, L’abbattimento di aerei civili per contrastare atti terroristici e il diritto. (La situazione italiana e quella della Repubblica federale tedesca) , in Quest. Giust., 2008, p. 175) è stato messo in evidenza come la disciplina italiana sia stata inserita all’interno del nostro ordinamento con una fonte sub-legislativa segretata, in tal modo sottraendola al controllo democratico del parlamento e dell’opinione pubblica. In tal modo differenziandosi nettamente da quanto avvenuto in Germania, ove la Legge sulla Sicurezza Aerea è stata poi oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale tedesca. Ciò, ovviamente, non sarebbe possibile nel nostro Paese.

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Interni, ogni volta che ciò si fosse reso necessario per assicurare l’unitarietà dell’esercizio

delle misure di sicurezza.

Più nello specifico, il par. 13 I prevedeva che, quando a seguito di eventi

straordinari connessi al traffico aereo si potesse lecitamente sospettare di rischiare una

«catastrofe emergenziale di portata regionale» (regionaler Katastrophennotstand) ex art.

35 II 2 LF, allora le forze di sicurezza federali avrebbero potuto essere impiegate per

coadiuvare le forze di polizia dei Länder, al fine di impedire la verificazione di tale

incidente. In tale circostanza, il Ministro della difesa federale (o, in sua vece, il membro

del Governo federale, incaricato di sostituirlo) avrebbe dovuto decidere circa l’impego

delle forze di sicurezza federali, a seguito di esplicita richiesta in tal senso da parte del

Länd interessato. Al contrario, tutte le volte in cui la «catastrofe emergenziale» avesse

avuto portata «sovra-regionale» (überregionaler Katastrophennotstand) ai sensi dell’art.

35 III LF, avrebbe dovuto essere il Governo federale a decidere circa l’intervento delle

strutture di sicurezza del Bund, di concerto con i Länder interessati. Tuttavia, se i tempi

fossero stati troppo stretti perché la decisione venisse presa dall’esecutivo nel suo

complesso, allora essa sarebbe spettata, anche in tal caso, al Ministro della difesa, o al

suo collega di gabinetto incaricato di sostituirlo, in collaborazione con il Ministero degli

Interni (art. 13 III 2 LuftSiG).

Tuttavia, la norma tacciata di illegittimità costituzionale è stata quella di cui al par.

14 delle legge, il quale autorizzava l’aviazione militare ad abbattere un aereo civile,

dirottato dai terroristi, e destinato ad essere usato come arma impropria verso specifici

obiettivi. In tal modo, veniva in sostanza attribuito alle autorità statali competenti il

potere di ordinare l’uccisione di passeggeri e membri dell’equipaggio innocenti. È bene

precisare che l’abbattimento dell’aereo civile dirottato era previsto solo come extrema 68

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ratio. Infatti, innanzitutto, l’intervento dell’aviazione militare era consentito solo ove

l’aereo dirottato fosse stato individuato all’interno dello spazio aereo tedesco e la

medesima avesse già tentato di mettere in guardia l’apparecchio ovvero di porlo sotto

controllo (par. 15 I). In subordine, l’aviazione militare avrebbe dovuto provare ad

allontanare il velivolo dallo spazio aereo interno ovvero costringerlo all’atterraggio

ovvero ancora minacciare l’uso di armi o sparare colpi di avvertimento (par. 14 I). Il

tutto, nel rispetto del principio di proporzionalità (par. 14 II). Solo nel caso in cui tali

misure si fossero rivelate inidonee a prevenire una della catastrofi di cui sopra, allora

sarebbe stato possibile adoperare armamenti militari contro l’aeromobile (par. 14 III), ma

solo nel caso in cui, dalle circostanze del caso concreto, fosse possibile desumere che

l’aereo sarebbe stato in concreto utilizzato per attentare alla vita umana e che il diretto

impiego di tali armamenti sarebbe stato, inoltre, l’unico modo per l’eliminazione concreta

di tale minaccia. La competenza a decidere in un senso piuttosto che nell’altro, inoltre,

spettava in via esclusiva al Ministro della difesa ovvero, in caso di impossibilità di

quest’ultimo, al collega di gabinetto che ne faceva le veci (par. 14 IV 1 LuftSiG).

Il par. 14 III LuftSiG è stato, quindi, impugnato avanti alla Consulta tedesca,

poiché, nella misura in cui consentiva allo Stato di uccidere individui innocenti presenti

sull’aereo (passeggeri ed equipaggio), avrebbe violato il diritto alla dignità umana ed il

diritto alla vita di cui agli artt. 1 I e 2 II 1 LF, in combinato disposto con l’art. 19 II della

medesima Legge fondamentale tedesca, il quale tutela il contenuto sostanziale di un

diritto fondamentale. La norma in oggetto, infatti, avrebbe violato il diritto fondamentale

alla vita ed alla dignità dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio innocenti, coinvolti,

loro malgrado, nel dirottamento. Nel ricorso, infatti, è stato messo in evidenza come i

pubblici poteri non sono affatto legittimati ad effettuare una ponderazione di vite umane 69

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contro vite umane, cosa che sarebbe accaduta nella misura in cui lo Stato avesse deciso di

proteggere una maggioranza dei propri cittadini, ossia le potenziali vittime dell’attentato

terroristico, a discapito di una minoranza di essi, ossia i passeggeri e l’equipaggio

presenti sull’aereo. Lo Stato, infatti, non avrebbe il potere uccidere degli individui, solo

perché di numero inferiore rispetto a quelli che sperava di salvare con il suo intervento.

Il Bundesverfassungsgericht ha, quindi, dichiarato l’illegittimità della Legge sulla

Sicurezza Aerea, sotto un duplice punto di vista. Il primo è connesso alla struttura

federale della Germania ed alla ripartizione della competenza legislativa tra Bund e

Länder in materia, rispettivamente, di difesa, l’una, e di sicurezza, l’altra, così come

previsto dalla disciplina costituzionale tedesca (in particolare, si fa riferimento all’art. 35

II 2 III 1 LF). Infatti, l’attività dei militari e delle forze armate, afferente alla difesa dello

Stato da attacchi militari, è di competenza del Bund, ossia della Federazione; al contrario,

l’attività di sicurezza e di prevenzione dei pericoli è di competenza delle forze di polizia,

che sono, invece, organizzate sul piano regionale dai singoli Länder. Secondo la Consulta

tedesca, quindi, l’attività di prevenzione dagli attacchi terroristici, in quanto trattasi di

pericolo non derivante da attacco militare, è di competenza delle forze di polizia dei

singoli Länder, posto che attiene al piano della sicurezza e non a quello della difesa. Ne

consegue che i militari del Bund possono intervenire solo in funzione sussidiaria rispetto

alla polizia dei Länder e non, quindi, con armi specificamente militari, come sarebbe in

caso di aereo da guerra armato di missili, da utilizzare contro l’aereo civile dirottato dai

terroristi, a norma del par. 14 III (125).

Alla federazione, quindi, mancherebbe la necessaria competenza legislativa per

emanare la norma in oggetto. 125() D. SICILIANO, L’abbattimento di aerei civili per contrastare atti terroristici e il diritto. (La situazione italiana e quella della Repubblica federale tedesca), cit., p. 173.

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Inoltre, il par. 14 III LuftSiG collide con la legge fondamentale tedesca. In

particolare, l’art. 35 III 1 LF prevede che, in caso di emergenza di portata extra-regionale,

solo il Governo federale possa decidere in merito all’impiego delle forze armate. Al

contrario, la Legge sulla Sicurezza Aerea prevede che sia il Ministro della Difesa, di

concerto con il Ministro degli Interni, a deliberare in materia, qualora non sia possibile

ottenere un provvedimento tempestivo da parte dell’esecutivo nel suo complesso (126).

Ai nostri fini, l’aspetto più interessante della decisione è sicuramente quello

afferente alla tutela della vita e della dignità umana. La Corte costituzionale tedesca,

infatti, ha statuito che il par. 14 III LuftSiG contrasta con il diritto alla vita di cui all’art. 2

II LF e con il diritto alla dignità umana di cui all’art. 1 I LF, nella misura in cui l’utilizzo

di armi da guerra contro l’aereo dirottato dai terroristi metterebbe a repentaglio la vita di

passeggeri e membri dell’equipaggio innocenti, presenti sullo stesso. Nella sentenza in

questione si mette, quindi, in evidenza come, diversamente opinando, tali civili innocenti

verrebbero considerati alla stregua di oggetti – e non più soggetti – non solo nei confronti

dei terroristi, autori dell’aggressione, ma anche nei confronti degli organi statali, sia pur

nell’ambito di un intervento a tutela di altri individui. Ciò lederebbe gli individui

sequestrati, in quanto soggetti dotati di dignità e diritti inalienabili. Non è ammissibile

alcun bilanciamento che possa sacrificare la loro vita a favore della vita altrettanto

innocente delle possibili future vittime degli attentati terroristici (127).

La consulta tedesca, invece, giudica la norma costituzionalmente legittima nella

parte in cui prevede l’intervento degli aerei militari per abbattere un velivolo privo di

occupanti ovvero occupato da soli terroristi. [Cfr. Donini p. 770]

126() A. DE PETRIS, Dignità umana e federalismo nella tutela della sicurezza collettiva in Germania , cit., p. 733. 127() D. SICILIANO, L’abbattimento di aerei civili per contrastare atti terroristici e il diritto. (La situazione italiana e quella della Repubblica federale tedesca), cit., p. 176.

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5. La Spagna.

La legislazione spagnola, invece, ha storicamente “metabolizzato” (128) il

fenomeno terroristico al punto da prevedere già nella propria Costituzione, promulgata il

26 dicembre 1978, la possibilità di derogare a taluni diritti fondamentali nei confronti di

soggetti accusati di terrorismo. In altri termini, in Spagna, la Costituzione menziona

espressamente il terrorismo (129). Diversamente da quanto accaduto in altri Paesi, quindi,

né gli attentati terroristici agli Usa dell’11 settembre 2001, prima, e neppure quelli di

Madrid dell’11 marzo 2004, poi, hanno portato all’adozione di una legislazione a

carattere emergenziale (130). Più esattamente, l’attività di contrasto al terrorismo era già

talmente radicata (131) nel substrato socio-politico spagnolo da essere diventata costante

oggetto di attenzione da parte del legislatore fin dagli anni ’70 (132). Dopo la 128() Così, C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 160.129() E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, T. Groppi (a cura di), Democrazia e terrorismo, Napoli, 2006, p. 356. 130() Ibidem.131() Il fenomeno terroristico era talmente diffuso in Spagna, che già da tempo si prospettava anche l’eventualità di una responsabilità patrimoniale dello Stato per gli attentati terroristici. In materia, v. V.G. MAYOL, La responsabilità patrimoniale dello Stato per atti terroristici, in T. Groppi (a cura di), Democrazia e terrorismo, Napoli, 2006, p. 307 ss. 132() Tra i diversi provvedimenti legislativi che si sono succeduti in Spagna nel corso degli anni, appare opportuno segnalare due decreti legge, l’uno, approvato nel 1975, l’altro, nel 1977, i quali si connotano per presentare tratti di un vero e proprio diritto penale del nemico. In tal modo, si vuole evidenziare come, ogniqualvolta si presenti una situazione di emergenza che metta a repentaglio la sicurezza dello Stato di diritto, quest’ultimo, anche prima degli attentati terroristici agli USA del settembre 2001, ha reagito con misure che comprimono talune libertà fondamentali dell’individuo. In particolare, nell’agosto del 1975, in Spagna è stato emanato il decreto legge anti-terrorismo che autorizzava la polizia a trattenere in stato di fermo i sospetti terroristi, fino ad un massimo di dieci giorni e senza l’assistenza di un difensore. Tale corpo normativo, inoltre, configurava la possibilità di effettuare perquisizioni domiciliari, senza un preventivo mandato dell’autorità giudiziaria. Il 4 gennaio del 1977 è stato, poi, approvato un altro decreto legge con il quale è stata confermata, in riferimento ai reati di banda armata e di terrorismo, la possibilità di isolare l’indiziato durante la detenzione preventiva; la proroga dello stato di fermo oltre le 48 ore; l’istituzione di una giurisdizione speciale. Per un attento esame della legislazione anti-terrorismo spagnola antecedente all’11 settembre 2001, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 164 ss.

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recrudescenza del fenomeno del terrorismo, questa volta di respiro internazionale, sono

state certo adottate nuove disposizioni, le quali, tuttavia, non presentano carattere

eccezionale, essendo piuttosto attuazione degli obblighi imposti dalle Nazioni Unite e

dall’Unione europea (133).

Tuttavia, nonostante la Spagna non sia stata interessata da quel fervore legislativo

che si è avuto negli altri Paesi europei a seguito dell’attacco di Al-Queda al mondo

occidentale, ciò non ha impedito, anche in questo Paese, lo svilupparsi, in via autonoma,

del dibattito dottrinario (134) sulla necessaria primazia della libertà ovvero della sicurezza,

all’interno di un moderno Stato di diritto, in situazioni d’emergenza.

Più in particolare, la Costituzione spagnola (135) promulgata il 26 dicembre 1978

(136), - in un’epoca, quindi, in cui imperversava il terrorismo basco - demanda ad una

legge organica (137) il compito di individuare casi e forme in cui, con garanzie

giurisdizionali e parlamentari, taluni diritti da essa contemplati possano essere sospesi «a

carico di persone determinate, in relazione a indagini relative a bande armate o elementi

terroristi» (art. 55, comma 2). Tale norma, nata da un’esigenza di difesa dal terrorismo

interno, ben può attagliarsi a quello di matrice islamica, avente carattere internazionale.

Così come previsto dall’art. 116 della Costituzione spagnola, presupposto affinché

taluni diritti fondamentali degli individui vengano sospesi è la sussistenza di uno stato di

allarme (estado de alarma), di eccezione (estado de exceptión) ovvero di assedio (estado 133() Ibidem. 134() Sul punto, v. E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 335 ss. 135() In argomento, v. G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza tra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, cit., p. 440. 136() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 164. 137() La dottrina distingue in tre diverse fasi la legislazione di attuazione della clausola d’emergenza contemplata dalla costituzione spagnola. Sul punto, v. E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 350. In particolare, l’A. individua una prima fase, che va fino alle leggi del 1988; una seconda, che si estende fino agli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004; una terza ed ultima che arriva fino ad oggi.

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de sitio). In caso di estado de exceptión e di estado de sitio, possono essere sospesi taluni

diritti specificamente indicati al momento dell’adozione della relativa delibera di

instaurazione. Tale sospensione di diritti si applica a ben specifiche aree territoriali ed

interessa quindi una generalità di cittadini (art 55, comma 1). Tuttavia, l’art. 55, comma

2, della Costituzione prevede che una legge organica possa determinare i casi di

sospensione individualizzata dei diritti contemplati agli artt. 17, comma 2 (durata della

detenzione preventiva) (138), 18, commi 2 e 3 (inviolabilità del domicilio e della

corrispondenza), in relazione a indagini per i reati di terrorismo e banda armata. È bene

segnalare che l’art. 55, comma 2 ha trovato in concreto applicazione nella prassi

applicativa (139).

L’art. 55 della Costituzione spagnola configura, quindi, il cd. diritto d’eccezione

che, in un moderno Stato di diritto, deve essere anch’esso “normativizzato” (140). In altri

termini, nei Paesi democratici, anche l’eccezione deve essere sottoposta a corrispondente

normazione.

Così, con la legge organica n. 11 del 1980 (141) sono state, innanzitutto, individuate

quelle garanzie che avrebbero potuto essere oggetto di sospensione, nei termini indicati 138() In particolare, l’art. 17 della Costituzione spagnola prevede che: «Ogni persona ha diritto alla libertà ed alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo quanto disposto da questo articolo e nei casi e nelle forme previste dalla legge. – La detenzione preventiva non potrà durare più del tempo strettamente necessario per gli accertamenti intesi a chiarire i fatti e, in ogni caso, entro il termine massimo di 72 ore la persona arrestata dovrà essere messa in libertà o a disposizione dell’autorità giudiziaria. – Ogni persona detenuta deve essere informata immediatamente e in modo comprensibile dei suoi diritti e dei motivi della detenzione, e non può essere costretta a fare dichiarazioni. Nel corso delle indagini di polizia e giudiziarie al detenuto viene garantita l’assistenza di un avvocato, nei termini di legge. – La legge disporrà una procedura di Habeas Corpus affinché qualunque persona detenuta illegalmente sia messa immediatamente a disposizione dell’autorità giudiziaria. La legge stabilirà, inoltre, la durata massima della carcerazione provvisoria». Sul punto, cfr. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit. p. 164.139() In argomento, G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza tra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, cit., p. 443. 140() Così, E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 349. 141() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 165.

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dalla norma costituzionale. Si fa, in particolare, riferimento, al diritto di essere rimesso in

libertà o posto a disposizione dell’autorità giudiziaria entro le 72 ore dal fermo; al diritto

all’inviolabilità del domicilio in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria; al

diritto all’inviolabilità ed al segreto delle comunicazioni postali, telegrafiche e

telefoniche (142). Questa legge è stata poi modificata dalla legge organica n. 9 del 26

dicembre 1984, dichiarata però parzialmente incostituzionale con la sentenza n. 199 del

1987 (143). La legge del 1984, infatti, ampliava sensibilmente, sia dal punto di vista

oggettivo che soggettivo, i diritti e le libertà possibile oggetto di sospensione, anche al di

là dei limiti di cui all’art. 55, comma 2. Tale legge, infatti, andava ad incidere anche su

altri diritti fondamentali, contemplando l’ampliamento del periodo di fermo fino a 10

giorni, l’impossibilità per il detenuto di comunicare, la chiusura dei mass media, la

sospensione di cariche pubbliche, la dichiarazione di illiceità e lo scioglimento di

associazioni (144). La dichiarazione di incostituzionalità da parte della Consulta spagnola

era, quindi, inevitabile.

La legge organica n. 2 del 1981 ha poi introdotto nel codice penale spagnolo l’art.

174-bis che incriminava l’appartenenza a bande armate o gruppi terroristici (145). La legge

organica n. 6 del 1985 ne aveva, quindi, esteso l’applicabilità, a talune condizioni (146), ai

fatti di terrorismo commessi al di fuori del territorio nazionale.

Con l’ingresso della Spagna nella allora Comunità Economica Europea nel 1986,

il Governo spagnolo ha ritenuto opportuno adeguare ai parametri europei l’eccessiva

142() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 165. 143() Cfr., E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 351.144() E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 351. 145() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 166.146() In argomento, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 166.

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rigidità delle legislazione antiterrorismo nazionale. Il periodo di fermo in deroga all’art.

17, comma 2, della Costituzione è stato così limitato ad un massimo di cinque giorni ed è

stato, altresì, previsto che l’isolamento di un detenuto disposto dalla polizia avrebbe

dovuto essere ratificato dal giudice istruttore centrale entro 24 ore (147).

Nel 1995 è stato poi promulgato il codice penale attualmente vigente che

disciplina in maniera analitica i reati di banda armata e di terrorismo agli artt. 571-579.

Tuttavia, non è stata riproposta la disposizione del codice previgente che puniva fatti di

terrorismo anche se commessi all’estero.

Inoltre, anche la legge sui diritti degli stranieri (legge organica n. 8 del 2000) e la

legge sui partiti politici (legge organica n. 6 del 2002) contemplano norme antiterrorismo

che consentono la limitazione di taluni diritti (148).

Così delineato il quadro normativo vigente al momento degli attentati terroristici

negli Stati Uniti l’11 settembre 2001, è facile comprendere per quali motivi il legislatore

spagnolo non sia immediatamente intervenuto, introducendo nuove norme all’interno del

proprio ordinamento, così come hanno fatto i legislatori degli altri Paesi europei.

L’ordinamento giuridico spagnolo, infatti, già contemplava un’esaustiva disciplina in

materia. Gli interventi normativi successivi al divampare del fenomeno del terrorismo

internazionale si segnalano per essere, per lo più, attuazione degli obblighi assunti a

livello internazionale e comunitario.

A tal proposito, va menzionata la legge n. 12 del 2003 che ha introdotto una serie

di norme per il contrasto del finanziamento al terrorismo. Dopo l’attentato di Madrid

dell’11 marzo del 2004, invece, sono state introdotte nuove disposizioni al solo scopo di

147() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 167. 148() G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza tra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, cit., p. 444.

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rafforzare l’organico dei servizi informativi della Guardia Civil e del corpo di polizia

nazionale, il coordinamento delle indagini, mediante l’istituzione di un Centro Nacional

de Coordination Antiterrorista, nonché misure di solidarietà nei confronti delle vittime

(149).

In conclusione, in Spagna, in una prima fase storica, si è optato per una

legislazione avente carattere eccezionale, in cui taluni diritti fondamentali venivano

sacrificati a vantaggio della sicurezza. Tale legislazione è stata poi dichiarata

costituzionalmente illegittima dal Tribunale Costituzionale. Una volta respinta l’ipotesi di

una legislazione avente carattere eccezionale, si è poi tornati a preferire una legislazione

di lotta al terrorismo avente carattere ordinario. Ad esclusione, tuttavia, di alcune

disposizioni normative che continuano ancora a presentare i caratteri di un diritto

d’eccezione. Si fa, in particolare, riferimento, alla legge sui partiti politici, per la quale il

sostegno al terrorismo diventa l’unica causa per porre fuori legge un partito, nonché ad

alcune norme che contemplano fattispecie penali aperte, l’espiazione completa della pena

ed un inasprimento eccessivo della stessa. Di tale disposizioni, la dottrina spagnola ha

auspicato da tempo una sollecita modifica (150).

6. La Francia.

149() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 169. 150() E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 358.

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In Francia, a partire dalla legge 3 aprile 1955, è possibile la sospensione dei diritti

nel caso in cui il presidente attivi i poteri diretti a proteggere le istituzioni (art. 16) ed in

caso di instaurazione dello stato d’assedio (art. 36) e di urgenza (151).

A seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre, è stata adottata la legge

2001-1062 del 15 novembre, sulla cd. sicurezza quotidiana (152), che ha modificato il

codice penale e quello di procedura penale, ampliando la tutela offerta dagli artt. 421-1

(153) e 421-2 (154) contro gli atti di terrorismo (155). In particolare, è stato esteso lo spettro

di quei comportamenti che possono essere considerati terroristici. In tale ottica, è stata

attribuita rilevanza penale anche alle condotte di finanziamento (si fa, in particolare,

riferimento al riciclaggio di denaro e all’insider trading). Questa legge sarebbe dovuta

rimanere in vigore fino al 31 dicembre 2003. Tuttavia, è stata prorogata sino al 31

dicembre 2005, con la legge 2003-239 del 18 marzo.

151() G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza tra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, cit., p. 444. 152() E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 346. 153() Secondo il novellato art. 421-1 del codice penale francese, costituiscono «reato di terrorismo» i seguenti reati, posti in essere, mediante l’intimidazione o il panico, allo scopo di turbare gravemente l’ordine pubblico: 1. gli attacchi volontari alla vita e all’integrità della persona, il sequestro di persona ed il sequestro di un aereo, di una imbarcazione o di ogni altro mezzo di trasporto; 2. i furti, le estorsioni, le distruzioni, il danneggiamento, nonché i reati informatici previsti dal Libro III del codice penale; 3. i crimini relativi ai gruppi eversivi e ai movimenti non organizzati definiti dagli articoli da 431-12 a 431-17, 434-6, e da 441-2 a 441-5 del codice penale; 4. La fabbricazione, il possesso e la detenzione di meccanismi, dispositivi micidiali definiti all’art. 2 della legge 19 giugno 1871 che ha derogato al decreto del 4 settembre 1870 sulla fabbricazione delle armi da guerra […]; 5. la dissimulazione del risultato di una delle infrazioni previste ai n. 1 e 4 di cui sopra; 6. i crimini in materia di riciclaggio previsti dai capitoli IV del titolo II del libro III del codice penale; 7. i delitti previsti dall’art. L 465 del codice monetario francese. Sul punto, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 163. 154() L’art. 421-2 prevede che costituisce reato di terrorismo anche la condotta di chi introduca nell’atmosfera, nel suolo, nel sottosuolo, negli alimenti o nei composti alimentari, nelle acque, comprese quelle del mare territoriale, sostanze che possono mettere in pericolo la salute di uomini o animali o dell’ambiente naturale, posto in essere con un’azione individuale o collettiva, al fine di turbare gravemente l’ordine pubblico con intimidazione o con il terrore. Infine, l’art. 421-2-2 incrimina il reato di finanziamento di associazioni terroristiche. Così, C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 163.155() C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 162.

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Successivamente agli attentati di Londra, invece, è stata approvata una nuova

legge contro il terrorismo, il cd. progetto di legge Sarkozy. Essa ha incrementato i

controlli su ogni tipo di comunicazione e sino ad un anno dopo la comunicazione stessa.

Inoltre, ha ampliato i poteri che gli organi di polizia possono esercitare in mancanza del

controllo da parte dell’autorità giudiziaria; sono state inasprite le pene contro i capi ed i

componenti di gruppi terroristici; è stato prolungato il periodo di fermo da quattro a sei

giorni, consentendo anche di differire l’assistenza di un legale (156); è stata consentita

l’espulsione di soggetti non desiderati; è stata autorizzata l’installazione di telecamere in

luoghi pubblici e senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria.

Infine, la legge costituzionale 2003-267 del 25 marzo ha modificato l’art. 88,

comma 2, della Costituzione, in tema di mandato di arresto europeo (157).

7. Il Belgio.

La Carta costituzionale belga, al contrario di molte costituzioni dei moderni Stati

di diritto, vieta espressamente una sua sospensione totale o parziale (art. 187).

A seguito dell’11 settembre 2001 e, al fine di contrastare il fenomeno del

terrorismo internazionale, con la legge del 19 dicembre 2003, il legislatore belga ha

modificato l‘art. 137 del codice penale, facendo propria le definizione di reato terroristico

di cui alla Decisione quadro 2002/475/GAI dell’Unione europea.

156() G. DE VERGOTTINI, La difficile convivenza tra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo, cit., p. 445. In particolare, è stato introdotto l’istituto del gerde à vue che consente alla polizia di detenere e interrogare i fermati per terrorismo per 4 giorni, in assenza di intervento di magistrati e avvocati, ciononostante ottenendo prove valide nei processi. Sul punto, v. A. SPATARO, Otto anni dopo l’11 settembre. (Il modello anglosassone e quello europeo nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale), cit., p. 159. 157() E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 347.

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Terroristiche sono, dunque, una serie di condotte che per la loro natura e contesto,

sono in grado di arrecare danno ad un Paese ovvero ad una organizzazione internazionale

e sono, altresì, poste in essere con lo scopo di intimidire gravemente una popolazione

ovvero costringere indebitamente un Governo, i pubblici poteri o un’organizzazione

internazionale a tenere o ad astenersi dal tenere una determinata condotta, destabilizzare

gravemente o distruggere le strutture fondamentali politiche, costituzionali, economiche o

sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale.

I paragrafi 2 e 3 della medesima norma prendono poi in considerazione una serie

di reati che, se posti in essere nelle condizioni e nei termini di cui al comma 1,

costituiscono reato terroristico (158).

8. La legislazione anti-terrorismo negli USA.

In dottrina (159), è stato messo in evidenza come la legislazione anti-terrorismo

statunitense possa essere divisa in quattro diverse fasi, caratterizzate, da un lato,

dall’adozione di provvedimenti legislativi e di Orders - ossia una sorta di decreti

158() In particolare, secondo i paragrafi 2 e 3 dell’art. 137 del codice penale belga, costituiscono atto terroristico, se commessi con le finalità di cui al paragrafo 1 della medesima norma, i seguenti reati: l’omicidio volontario e le lesioni personali volontarie; il sequestro; la rapina; la distruzione di cose o il danneggiamento di proporzioni considerevoli; la cattura di un aeromobile; la cattura di una nave con inganno, violenza o minaccia; la fabbricazione e l’uso di sostanze esplosive; l’uso di armi; la provocazione di un’inondazione di una infrastruttura, di un sistema di trasporto, di una proprietà pubblica o privata, con l’effetto di mettere in pericolo vite umane o produrre perdite economiche considerevoli; la fabbricazione, il possesso, l’acquisizione, il trasporto o la fornitura di sostanze chimiche o nucleari; l’uso di armi nucleari, biologiche o chimiche; la liberazione di sostanze pericolose con l’effetto di mettere a repentaglio vite umane; la turbativa o l’interruzione dell’approvvigionamento di acqua, elettricità e tutte le altre risorse fondamentali; nonché la minaccia di compiere uno degli atti sopra elencati. In tal senso, v. C.M. POLIDORI, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali. E relative strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, cit., p. 161.159() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 68.

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d’urgenza, emanati dal Presidente, anche nella sua veste di capo delle forze armate (160) –

che si inseriscono nel solco del diritto penale del nemico; dall’altro, da una seria di

pronunce giurisprudenziali che, invece, hanno segnato un passo in avanti nell’ottica della

tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. La prima delle citate fasi ha carattere

prodromico e si estende dagli attentati di Al Qaeda dell’11 settembre fino all’inizio della

risposta bellica degli Stati Uniti d’America contro l’Afghanistan (161); la seconda (162),

invece, coincide con la creazione, per la lotta al terrorismo internazionale, di un sistema

penale speciale per effetto dell’approvazione, il 26 ottobre 2001, del cd. USA Patriot Act

e della successiva Ordinanza militare, istitutiva di Commissioni militari ad hoc; la terza

fase (163) prende le mosse con una serie di importanti pronunce da parte della Corte

Suprema degli Stati Uniti d’America; la quarta (164), infine, è la fase del Military

Commission Act che, allineandosi da un punto di vista meramente formale alle pronunce

di cui si è detto, ha invece consacrato, questa volta in via legislativa, la figura del

combattente straniero nemico illegittimo (165).

In particolare, tra i molti diritti fondamentali del moderno Stato di diritto che

risultano calpestati dalla nuova legislazione anti-terrorismo statunitense spicca il

principio costituzionale del due process of law, che tutela i cittadini e stranieri

160() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’USA Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, in Quest. giust., 2006, p. 283. 161() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 68.162() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 76. 163() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 88.164() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 93. 165() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 93.

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dall’arbitraria privazione della libertà personale, della vita e della proprietà da parte dei

pubblici poteri, assicurando a tutti il diritto ad un “giusto processo” (166).

9. La prima fase. La dichiarazione dello stato di emergenza e l’Autorizzazione all’uso

della forza: le basi per la successiva creazione di un vero e proprio diritto penale del

nemico.

Per quel che concerne la prima fase, successivamente agli attacchi alle Twin

Towers di New York ed al Pentagono di Washington D.C., il 14 settembre 2001 sono

stati adottati due provvedimenti di primaria importanza e che hanno avuto carattere

preliminare per l’adozione della successiva legislazione statunitense, volta

all’annientamento del nemico assoluto (167).

Si fa, in particolare, riferimento, in primo luogo, alla dichiarazione, con efficacia

retroattiva, dello stato di emergenza nazionale (168) da parte dell’allora Presidente degli

Stati Uniti (169). In secondo luogo, all’approvazione da parte del Congresso

dell’Autorizzazione all’uso della forza (Athorization for Use of Military Force Act, cd.

AUMF) (170). Tale atto consente al Presidente di «ricorrere a ogni mezzo che sia

necessario e utile al fine di contrastare tutte le Nazioni, organizzazioni o persone che egli

166() Tale principio è contenuto nella Costituzione degli Stati Uniti del 1787. In particolare, il V emendamento prevede che: «Nor shall (any person) be deprived of life, liberty or porperty, without due process of law». Il XIV emendamento, invece, prevede che: «Nor shall any State deprive any person of life, liberty or property, without due process of law; nor deny to any person within its jurisdiction the equal protection of the laws». 167() In tal senso, v. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 67.168() Declaration of National Emergency by Reason of Certain Terrorist Attacks , Proclamation 7453, 14 Settembre 2001. 169() Com’è noto, all’epoca, il Presidente degli USA era George W. Bush. 170() Più esattamente, Public Law 107-40, 17th Congress, Joint Resolution to Authorize the Use of the United States Armed Forces against Those Responsibles for the Recent Attacks Launched against the United States, 14 Settember 2001.

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ritenga aver pianificato, autorizzato o favorito gli attacchi terroristici dell’11 settembre

2001» (171). Il 7 ottobre 2001, poi, è stato sferrato il primo atto bellico della spedizione

militare statunitense, inviata in Afghanistan per la guerra contro il terrore.

Ad ogni modo, già questa prima fase presenta aspetti interessanti sotto il profilo

giuridico per quel che concerne la tutela dei diritti fondamentali, sia dal punto di vista del

diritto interno che dal punto di vista del diritto internazionale.

Sotto il profilo del diritto interno, la Costituzione degli USA, all’art. 1, par. 9,

contempla una cd. clausola d’emergenza, dai contorni, però, assai vaghi e indeterminati

(172). In particolare, tale norma prevede che «il privilegio del mandato di Habeas Corpus

non potrà essere sospeso, se non quando, in casi di rivolta o di invasione, la Sicurezza

pubblica lo richieda» (173). È bene evidenziare fin da subito che, con la proclamazione

dello stato d’emergenza nazionale da parte del Presidente il 14 settembre 2001, non è

stato però sospeso il diritto di presentare un habeas corpus (174). Tale istituto (175) è uno

dei fondamentali baluardi del due process of law (176) e costituisce la più importante

salvaguardia della libertà personale (177). Consacrato nella Magna Charta, è stato recepito

dal diritto statunitense per diretta discendenza del Common Law (178). Esso garantisce a

qualsiasi persona detenuta o, comunque, ristretta nella sua libertà di essere 171() Sul punto, cfr. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 68. 172() Così R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 73. 173() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 73. 174() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, in Dir. pubbl. comp. eur., 2005, cit., p. 1663. 175() Sulla garanzia dell’habeas corpus negli USA, v. A.M. DE CESARIS, voce Habeas Corpus, in Enc. giur., p. 1 ss.; nonché P. BISCARETTI DI RUFFIA, voce Habeas Corpus, in Enc. dir., p. 941 ss. 176() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, in Cass. pen., 2005, p. 2827. 177() A.M DE CESARIS, voce Habeas, cit., p. 3. 178() Cfr. G. BUONOMO, Obiettivo. L’ordinamento giuridico internazionale dopo Guatánamo, in Quest. giust., 2005, p. 341.

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immediatamente portata davanti ad un giudice, affinché sia vagliata la conformità a legge

del suo arresto e, in caso contrario, sia rimessa in libertà (179). È rimedio a sé stante, che

può essere azionato nei confronti di errori o vizi giurisdizionali e costituzionali e senza

limiti di tempo, tanto presso i giudici ordinari che presso quelli speciali (180). Un habeas

corpus petition può, quindi, essere presentata, innanzitutto, da coloro i quali ritengano di

essere stati incarcerati in modo illegale (181). Tale strumento, tuttavia, nella pratica, ha una

portata assai ampia (182), in quanto può essere utilizzato anche per obbligare le autorità di

polizia a formulare una precisa accusa nei confronti di un arrestato ovvero a rilasciarlo;

per ottenere la liberazione di un detenuto in attesa di giudizio; infine, per liberare un

carcerato dopo la scadenza della pena detentiva cui era stato condannato.

Per quel che concerne il piano del diritto internazionale, invece, gli USA hanno

aderito e ratificato al loro interno il Patto sui diritti civili e politici del 1966 ( 183).

Conseguentemente, anche nei loro confronti, trova applicazione l’art. 4 del Patto che

contempla anch’esso una propria disciplina sugli stati d’emergenza, rigorosa e vincolante

sia sul piano sostanziale che procedurale. Ebbene, la proclamazione dello “stato

d’emergenza” da parte del Presidente nel 2001 pone una serie di problemi. In primo

luogo, è possibile dubitare della stessa sussistenza dei presupposti oggettivi per la

dichiarazione dello stato d’emergenza. In altri termini, sembrerebbe difettare un legame

stretto tra pericolo e reazione, la necessità assoluta e la proporzione della reazione (184). In

179() A.M. DE CESARIS, voce Habeas, cit., p. 3. 180() A.M. DE CESARIS, voce Habeas, cit., p. 3. 181() A.M. DE CESARIS, voce Habeas, cit., p. 3. 182() A tal proposito, v. P. BISCARETTI DI RUFFIA, voce Habeas, cit. p. 645. 183() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 73. 184() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 73.

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secondo luogo, il Governo statunitense non ha neppure provveduto ad informare le altre

Parti contraenti del Patto attraverso il Segretario generale delle Nazioni Unite.

10. La seconda fase. L’U.S.A. Patriot Act.

Il 26 ottobre 2001 il Congresso statunitense ha approvato l’USA Patriot Act

(acronimo per Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools

Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act) (185), con lo scopo di prevenire futuri

attentati terroristici (186), ma sostanzialmente ampliando, da un punto di vista più

generale, i poteri dell’Esecutivo.

Tale provvedimento normativo, dal carattere complesso ed articolato, ha apportato

numerose modifiche al sistema penale di molti Stati, sia dal punto di vista sostanziale che

procedurale. Sul piano sostanziale (187), tale atto ha introdotto una definizione di

terrorismo nazionale, nonché una serie di nuove fattispecie speciali di aiuto al terrorismo,

prima inesistenti. Sul piano processuale (188), invece, sono stati ampliati i poteri

185() In particolare, sull’USA Patriot Act, in dottrina, v. D.M. AMANN, Le leggi americane contro il terrorismo, in Crit. dir., 2003 p. 27; C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, in T. Groppi (a cura di), Democrazia e terrorismo, Napoli, 2006, p. 428; R. CRESTANI, Stati di eccezione, misure anti-terrorsimo e tutela dei diritti umani. Il caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna dopo l’11 settembre 2001, cit., p. 75; V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 283; E.A. CONDE, Stato di diritto e terrorismo. Il caso spagnolo, cit., p. 344; L. SALAS, Primi appunti sul “Patriot Act” statunitense, in Legisl. pen., p. 474; J.A.E. VERVALE, La legislazione anti-terrorismo negli Stati Uniti: inter arma silent leges?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 737; nonché ID, La legislazione anti-terrorismo negli Stati Uniti: un diritto penale del nemico?, in C. De Maglia-S. Seminara (a cura di), Terrorismo internazionale e diritto penale, Padova, 2007, p. 237. 186() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 284. 187() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 76. 188() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, p. 77.

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investigativi della polizia e, in una prospettiva più ampia, dell’intero potere esecutivo, a

discapito di quello giurisdizionale.

Più nel dettaglio, l’Usa Patriot Act si compone di due sezioni e 160 articoli. La

section 1, costituita da 159 articoli, si articola in dieci diversi titoli. Il primo titolo (189) è

diretto a potenziare la sicurezza interna in una prospettiva di lotta al terrorismo, anche

con l’incremento dei finanziamenti alle forze di intelligence. Il secondo titolo (190),

invece, è diretto a disciplinare il settore della sorveglianza delle comunicazioni via cavo,

orali ed elettroniche, con notevoli limitazioni al diritto alla privacy (191), una delle sfere

tradizionalmente più garantite all’interno dell’ordinamento statunitense (192). Sono state

dettate nuove regole per lo svolgimento di perquisizioni, sequestri, arresti ed

intercettazioni. In particolare, ad alcuni organi di polizia federali (193) è stato consentito di

non informare l’interessato della perquisizione effettuata, in tal modo precludendogli la

189() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 284. 190() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 285. 191() Ne è conseguita una sostanziale riduzione delle garanzie individuali tradizionalmente riconosciute dalla disciplina processual-penalistica dell’ordinamento giuridico statunitense, con specifico riferimento a quanto stabilito dal IV Emendamento della Costituzione americana, in virtù del quale: «il diritto delle persone a godere della sicurezza per quanto riguarda la loro persona, la loro casa, i loro documenti e le loro cose, contro perquisizioni e sequestri irragionevoli, non potrà essere violato; e nessun mandato giudiziario potrà essere emesso, se non in base a probable cause, sostenuta da una dichiarazione giurata o sull’onore, contenente la descrizione specifica dei luoghi da perquisire, delle persone da arrestare o degli oggetti da sequestrare». Cfr. M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2821. In particolare, l’A. evidenzia come l’ordinamento giuridico statunitense, quando si debba procedere ad un atto di polizia, rende necessaria: «la richiesta di un mandato ad un giudice “neutral and detached”, sulla base della sussistenza della probable cause, ovvero la probabilità che il destinatario abbia commesso uno specifico reato; la notificazione all’interessato del mandato ottenuto, prima dell’esecuzione dello stesso, in modo da consentire una difesa; l’inutilizzabilità processuale, invocando l’exclusionary rule, degli elementi di prova raccolti illegittimamente». L’A. passa, quindi, in rassegna tutti i punti del Patriot Act che si pongono, invece, in controtendenza rispetto a tali norme che si sono affermate, nl moderno Stato di diritto, a seguito di decenni elaborazioni teoriche. 192() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2822. Sulle sorti del diritto alla privacy nell’ordinamento statunitense a seguito degli eventi dell’11 settembre, v. E. PEDILARCO, Privacy e sicurezza dopo l’11 settembre 2001. Il trattamento dei dati dei passeggeri aerei tra Unione europea, Stati Uniti e Canada , in T. Groppi (a cura di), Democrazia e Terrorismo, Napoli, 2006, p. 471.193() Tra cui INS (Immigration & Naturalization Service) e la CIA.

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possibilità di attivare tempestivamente una verifica di legittimità (sec. 213). Inoltre, sono

stati incrementati i modi e gli strumenti di intercettazione (sec 214), degradando a mere

formalità, prive di ogni controllo preventivo, le autorizzazioni da parte dell’autorità

giudiziaria che, nella specie, non sarebbe stata neppure quella ordinaria, bensì la Foreign

Intelligence Surveillance Court, ossia un organo speciale, istituito nel 1978 e le cui

decisioni sono destinate a rimanere segrete. In tale ottica, è stato reso possibile il

sequestro di ogni cosa tangibile utile alle indagini per la lotta al terrorismo (194). È stata,

inoltre, estesa la disciplina semplificata dell’autorizzazione alle intercettazioni di e-mails

(sec. 216).

Il terzo titolo (195) contiene disposizioni volte a reprimere i finanziamenti ai gruppi

terroristici. Il quarto (196) contempla restrizioni in tema di immigrazione e, nell’ambito di

esso, va segnalata quella disposizione che prevede la detenzione obbligatoria di sospetti

terroristi (sec. 412). Sulla scorta di tale norma, è stato poi dato il via alla riforma della

disciplina in tema di immigrazione (197).

Il quinto titolo (198) è destinato alla rimozione di ostacoli per le indagini contro il

terrorismo, prevedendo, tra l’altro, l’istituzione di una banca dati del DNA dei presunti

terroristi (sec. 503). Il sesto titolo (199) è dedicato alle vittime del terrorismo ed ai loro

familiari; il settimo si occupa, invece, di potenziare lo scambio di informazioni tra

organismi federali, statali e locali.

194() In tale ottica, sono sequestrabili schede di prestito librario e ricevute di libri acquistati. Inoltre, è prevista la possibilità di ordinare agli internet service providers di rendere note informazioni sui clienti e sull’oggetto delle comunicazioni da essi effettuate. Sono, inoltre, accessibili agli investigatori le liste dei siti internet consultati dalle biblioteche pubbliche. 195() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 285. 196() Ibidem.197() Ibidem.198() Ibidem.199() Ibidem.

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L’ottavo titolo è dedicato, quindi, al rafforzamento della legislazione penale contro

il terrorismo. Si segnala, in particolare, per la riformulazione, in termini più ampi, del

reato di terrorismo, aggiungendo anche la nuova fattispecie del reato di terrorismo

interno. Tale disposizione prevede una serie di attività dai contorni piuttosto vaghi e si

presta ad essere applicata anche a forme di disobbedienza civile. Infine, il titolo nono

dell’USA Patriot Act è volto al potenziamento delle strutture di intelligence. L’ultimo

contiene una serie di disposizioni finali.

L’ultimo articolo (art. 160) di tale testo normativo, unico della section 2, contiene

una disposizione di chiusura, in forza della quale «qualsiasi disposizione dell’Act

dichiarata invalida o inapplicabile per i suoi termini, oppure per come viene applicata a

qualsiasi persona o circostanza, sarà interpretata in modo da attribuire il massimo effetto

permesso dalla legge, a meno che tale dichiarazione ne sancisca espressamente

l’invalidità o l’inapplicabilità, nel qual caso tale disposizione sarà considerata separabile

dal presente Act e non inciderà sul resto di quest’ultimo né sull’applicazione di tale

disposizione ad altre persone che si trovino nella stessa situazione o ad altre di diverse

circostanze». In dottrina (200), è stato evidenziato come tale disposizione costituisca una

vera e propria “blindatura” del Patriot Act, nel senso che essa crea dei veri e propri

“compartimenti stagni” tra un articolo e l’altro di tale testo normativo, al fine di impedire

possibili “attentati” da parte della magistratura.

L’USA Patriot Act, quindi, nell’inseguire il baluardo della guerra preventiva

contro il terrorismo a difesa della sicurezza dei cittadini americani, ha sacrificato decenni

di elaborazioni teoriche in tema si diritti fondamentali. Ulteriore caratteristica dell’Act,

diretta conseguenza di quella di cui si è appena dato conto, è di essere stato redatto in 200() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 287.

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modo particolarmente complesso (201), fino al punto da renderne addirittura impossibile la

lettura ai non addetti ai lavori.

Come anticipato, tale provvedimento legislativo ha dato inizio ad una nuova fase,

caratterizzata dal sacrificio, sull’altare di una maggiore sicurezza nazionale, delle libertà

fondamentali degli individui (202). A partire da tale atto, infatti, si è innescata negli Stati

Uniti una reazione a catena che ha portato alla lesione grave, se non addirittura al crollo,

del Bill of Right, ossia dell’insieme delle garanzie in tema di diritti e libertà individuali,

previste dalla costituzione statunitense. Allo stesso tempo il Patriot Act ha consolidato la

primazia dell’Esecutivo, a discapito di qualsivoglia controllo su di esso da parte del

potere giudiziario.

Come evidenziato, particolarmente rilevante ai nostri fini è la section 412

dell’USA Patriot Act. Essa ha attribuito all’Attorney General poteri di portata inedita e di

eccezionale rilevanza, tra i quali va segnalato il potere di trattenere in reclusione, per un

tempo indefinito, qualunque soggetto straniero da questi classificato come sospetto

terrorista (203). La sezione in parola – lo si è detto – ha riformato anche l’Immigration

and Nationality Act (204). Il Patriot Act ha, inoltre, conferito alle autorità

dell’immigrazione ed alla polizia di frontiera la facoltà di arrestare e trattenere

immigranti per un ragionevole periodo di tempo - senza però specificare cosa si intenda

201() Ibidem. 202() La dottrina, in particolare, ha evidenziato che «I provvedimenti legislativi e amministrativi nonché le prassi investigative adottati negli Stati Uniti dopo gli attentati […] sono riconducibili ad una matrice comune dai connotati allarmanti per il loro carattere liberticida, ove discutibili compromessi tra l’esigenza di sicurezza e di tutela delle garanzie individuali (cioè tra i due parametri cui occorre far riferimento per valutare le misure adottate) si intrecciano con l’uso strumentale degli eventi dell’11 settembre allo scopo di adottare misure emergenziali non ricollegabili ad essi né da essi necessitate, producendo un ampliamento smisurato, privo di controlli esterni e, anzi, tendenzialmente incontrollabile e in buona misura arbitrario, delle attribuzioni del potere esecutivo». Così V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 288.203() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, cit., p. 429. 204() V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’Usa Patriot Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, cit., p. 293.

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con tale espressione - , senza che nei loro confronti sia formulata alcuna accusa e senza il

rispetto di alcuna particolare procedura (205). Ebbene, anche tali disposizione hanno

portata considerevolmente innovativa rispetto al passato. Infatti, in precedenza, il potere

delle autorità dell’immigrazione di detenere stranieri era limitato al periodo di tempo

strettamente necessario all’espletamento delle formalità di espulsione (206). In base al

Patriot Act, invece, il Governo avrebbe avuto la facoltà di detenere anche individui che

non possono essere soggetti a deportazione.

Tuttavia, in dottrina (207) è stato evidenziato come, nonostante l’ USA Patriot Act

presenti una forte tendenza alla degiurisdizionalizzazione, esso contenga soltanto tracce

del cd. diritto penale del nemico, per il resto, rispettando i diritti fondamentali.

10.1. Segue. Il President Military Order.

Il 13 novembre 2001, facendo leva su quei poteri che gli erano stati attribuiti in

virtù dell’Autorizzazione all’uso della forza, il Presidente degli USA ha adottato

un’ordinanza militare, in tema di «detenzione, trattamento e procedimento nei confronti

di alcuni non-cittadini nella guerra al terrorismo» (President Issues Military Order.

Detention, Treatment, and Trial of Certain Non-Citizens in the War Against Terrorism,

detta anche Novembre Order) (208). Ad essa hanno poi fatto seguito nove istruzioni ed

altre due ordinanze dettagliate, adottate dal Dipartimento della difesa, con cui si è inteso

205() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, cit. p. 429. 206() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, cit., p.430. 207() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 77. 208() Sull’ordinanza presidenziale del novembre del 2001, v. C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, cit., p. 431; T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1654; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2826.

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integrare e specificare la relativa disciplina e si è voluto così creare un vero e proprio

sistema penale speciale, articolato e di fonte esclusivamente esecutiva (209).

In dottrina, è stato efficacemente sottolineato (210) come l’ordinanza presidenziale

in parola abbia sostanzialmente violato il principio di separazione dei poteri. Infatti, essa

ha, nello stesso tempo, esercitato poteri che, in linea di principio, spettano al potere

legislativo, al potere esecutivo, ed al potere giudiziario. Più nel dettaglio, ha esercitato

competenze usualmente spettanti al potere legislativo nella misura in cui ha istituito

organi giudiziari, ha introdotto nuove fattispecie penali ed ha modificato norme

processuali esistenti. Ha tenuto le veci del potere esecutivo, relativamente alla disciplina

ed alla nomina dei nuovi organi giudiziari. Ha fatto propri compiti del potere giudiziario,

nel momento in cui ha riservato a tali commissioni la funzione di organo di ultima istanza

nei procedimenti giudiziari a carico dei prigionieri.

In virtù dei provvedimenti in parola, è stato, quindi, introdotto un trattamento

particolare e speciale nei confronti di chi venisse qualificato enemy alien ovvero enemy

combatant da parte dell’Esecutivo.

10.2. Segue. Ambito soggettivo di applicazione dell’ordinanza presidenziale: gli

enemy aliens o enemy combatants.

La disciplina contenuta nell’ordinanza presidenziale del novembre 2001 si applica

ad ogni individuo, non cittadino degli Stati Uniti, che sia stato unilateralmente qualificato

209() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 76. 210() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1648.

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come terrorista da parte del Presidente degli Stati Uniti. In particolare, la Sez. 2

dell’ordinanza militare prevede che:

«il termine “individuo soggetto alla presente ordinanza” va

inteso come ogni individuo non cittadino degli Stati Uniti nei

confronti del quale io stesso (Presidente degli Stati Uniti) determino

con disposizione formale, caso per caso, che 1. Vi siano ragioni per

ritenere che tale individuo, in circostanze diverse: a) è o è stato

membro di un’organizzazione denominata “Al Qaeda”; b) ha preso

parte, ha aiutato o sostenuto o progettato di commettere atti o azioni

in preparazione di atti di terrorismo internazionale che hanno

provocato danni o effetti nocivi agli Stati Uniti, ai loro cittadini, alla

sicurezza nazionale, alla politica estera, all’economia; c) ha

consapevolmente offerto rifugio o si è reso complice di uno o più

individui di cui ai paragrafi a) e b) e di cui alla sub-sezione 2 A di

questa ordinanza; 2. È interesse degli Stati Uniti che tale individuo

sia soggetto alla presente ordinanza» (211).

Si tratta degli enemy aliens ovvero degli enemy combatants che il Governo

statunitense pretende di poter legittimamente detenere, a tempo indeterminato e in stato

di isolamento, senza formulare un’accusa nei loro confronti e senza consentire loro alcun

contatto con l’esterno, neppure con il loro difensore. E, ciò, fino al termine delle ostilità

211() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1648. 92

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che, però, solo formalmente coincide con la fine della guerra in Afghanistan,

corrispondendo, invece, sostanzialmente, alla guerra infinita contro il terrorismo.

Secondo l’ordinanza in parola, poi, i non-cittadini, qualificati come terroristi in

base all’atto unilaterale ed insindacabile del Presidente, avrebbero dovuto essere detenuti

in un luogo appropriato che, in base alla Sez. 3, il Segretario alla Difesa avrebbe dovuto

individuare al di fuori del territorio degli Stati Uniti (212) e che, solo in seguito ad un

accurato studio commissionato dal Governo (213), è stato individuato nella base navale di

Guantánamo, sull’isola di Cuba. Sul piano processuale, invece, ogni individuo soggetto

all’ordinanza avrebbe dovuto essere processato da Commissioni militari appositamente

costituite, nominate dal Segretario alla Difesa e con una disciplina speciale (Sez. 4 e 5)

(214).

L’intento ufficiale di questa custodia cautelare indefinita era quello di impedire ai

sospetti terroristi di tornare sul campo di battaglia (215). In realtà, la vera intenzione

dell’esecutivo era di sottoporre i catturati ad interrogatorio per estorcere loro

informazioni a scopo di intelligence, senza alcun limite sul piano temporale, né alcuna

forma di controllo in termini modali, tanto da sfociare in vere e proprie forme di tortura

(216).

Alla fine, la disciplina in parola è stata applicata anche a cittadini statunitensi:

anche costoro, se sospettati di essere in vario modo collegati al terrorismo internazionale, 212() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 78. 213() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit. p. 2831. 214() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 78. 215() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2820. 216() Sulla riapertura del dibattito, dopo l’11 settembre, sull’utilizzabilità o meno della tortura quale tecnica di interrogatorio, v. F. RESTA, Choice among evils. L’ossimoro della “tortura democratica”, in Ind. pen., 2007, p. 827.

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sono stati qualificati enemy combatants, con un’unica differenza rispetto ai non-cittadini.

Essi, infatti, venivano sottoposti a custodia cautelare presso le basi militari situate sul

territorio degli Stati Uniti, con le stesse modalità previste per gli stranieri.

La categoria dell’enemy alien (217) non era del tutto sconosciuta all’ordinamento

giuridico statunitense. Più esattamente, nel 1942, la Corte Suprema era stata chiamata a

sindacare la legittimità di un processo speciale, tenutosi dinanzi a commissioni militari a

carico di alcuni sabotatori tedeschi (218). Nella specie, aveva dichiarato la propria

incompetenza a giudicare sui prigionieri di guerra. Tuttavia, nello stesso tempo aveva

affermato che gli imputati non potevano essere considerati tali, bensì «combattenti

nemici». La Corte si è, quindi, ritenuta legittimata a pronunciarsi nel merito e

condannarli. Il medesimo appellativo era poi stato utilizzato durante la Seconda Guerra

Mondiale nei confronti di alcuni cittadini giapponesi (219) residenti negli Stati Uniti,

accusati di infedeltà nei confronti della Costituzione americana a causa della loro origine

etnica e, per questo, privati della libertà personale per tutta la durata del conflitto. Accusa

poi rivelatasi infondata.

Quella degli enemy aliens o enemy combatants è una categoria a sé, creata

appositamente dal Governo degli Stati Uniti al fine di sottrarre i sospetti terroristi sia alle

garanzie previste dalla Costituzione americana per i delinquenti comuni, sia a quelle

previste dal diritto internazionale e, segnatamente dalle Convenzioni di Ginevra, per i

prigionieri di guerra. Tali individui rimangono, quindi, assoggettati ad una disciplina del

tutto peculiare che è rimessa in via esclusiva alla “volontà dell’ideatore” (220).

217() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti,, cit., p. 431. 218() Ibidem.219() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti,, cit., p. 432. 220() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti,, cit., p. 433.

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Più esattamente, dal punto di vista del diritto interno, la detenzione di tali soggetti,

sia stranieri che cittadini, è stata posta in essere in spregio a qualsiasi diritto riconosciuto

agli arrestati nell’ambito di qualsivoglia procedimento penale ordinario (221). Ai sospetti

terroristi in stato di custodia cautelare è stato negato, in primis, il diritto di incontrare un

difensore (222). Inoltre, sono stati privati del diritto di accedere all’unico strumento che

avrebbe consentito un controllo circa la legittimità della loro detenzione, ossia l’habeas

corpus (223). In virtù di tale istituto, infatti, l’arrestato avrebbe potuto chiedere ad una

Corte imparziale che venissero resi noti gli elementi su cui si basava la sua detenzione e

quindi ottenere un controllo giurisdizionale circa la legittimità della stessa, nonché circa

la legittimità dell’attribuzione della qualifica di enemy alien o enemy combatant.

La negazione di tale diritto, del resto, è stata ideata proprio al fine di evitare un

sindacato giurisdizionale sulle scelte dell’esecutivo circa l’attribuzione della qualifica di

“nemico”. A tal proposito, è stato efficacemente osservato (224) come «qualificare il

combattente che di per sé è nemico, come “nemico” (nemico-nemico) non significa altro

che considerare l’avversario un nemico assoluto da annientare». Per quanto riguarda i

cittadini statunitensi, tale obiettivo è stato perseguito, sostenendo che essi non avevano

alcun diritto ad un sindacato giurisdizionale sul punto, posto che tale status era comunque

imposto (225) dal Presidente, in virtù dell’atto del Congresso di autorizzazione all’uso

della forza. Per quel che riguarda gli stranieri, invece, il medesimo obiettivo è stato

221() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit. p. 2821 222() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2825. 223() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2825. 224() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 87. 225() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit. p. 2827.

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perseguito in base al criterio della extra-territorialità (226), in forza del quale si è sostenuto

che le corti americane non avevano alcuna giurisdizione sul luogo di detenzione di tali

individui: Guantánamo, sull’isola di Cuba.

10.3. Segue. Il campo di prigionia di Guantánamo e le garanzie giurisdizionali

negate agli enemy aliens.

Come anticipato, il Governo statunitense, solo dopo un attento studio (227), ha

individuato la base navale di Guantánamo a Cuba (228) come luogo idoneo per detenere

gli enemy aliens, ossia i non-cittadini, sospettati di connivenza con Al Qaeda.

In via preliminare, appare opportuno chiarire come mai a Cuba, «uno degli

avamposti del socialismo reale da sempre in lotta contro gli Stati Uniti d’America» ( 229),

si trovi addirittura una prigione di massima sicurezza, adoperata per detenere i sospetti

terroristi.

A tal proposito, occorre risalire al 1903 quando il Presidente di Cuba e quello degli

Stati Uniti d’America firmarono un duplice accordo “per l’affitto di basi navali o per il

rifornimento del carbone” (230). Tale accordo costituiva il riconoscimento per l’aiuto che

226() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2827. 227() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2831. 228() Sul campo di prigionia di Guantánamo, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1644; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 1232; A. CASSESE, Guantanamo, I principi della civiltà americana e gli imperativi del diritto internazionale, in I diritti dell’uomo, 2001, p. 46; E. SCISO, La condizione dei detenuti di Guantánamo fra diritto umanitario e garanzie dei diritti umani fondamentali, in Riv. dir. int., 2003, p. 111; G. BUONOMO, Obiettivo. L’ordinamento giuridico internazionale dopo Guantanamo, in Quest. giust., p. 311; M. BOUCHARD, Morte del processo e inizio dell’apocalisse, in Quest. giust., 2003, p. 1005. 229() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1645.230() In argomento, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1646.

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gli Stati Uniti avevano fornito ai cubani durante la guerra di indipendenza dalla Spagna

nel 1898 (231) e che ebbe un riconoscimento addirittura nella costituzione cubana del

1902, ove l’art. VII dell’appendice prevedeva espressamente: «Che, per mettere in

condizione gli Stati Uniti di mantenere l’indipendenza di Cuba, proteggere il suo popolo

e di garantire la propria difesa, il governo di Cuba venda o conceda in affitto agli Stati

Uniti i terreni necessari per le basi navali o per il rifornimento di carbone, in determinati

punti che verranno concordati con il Presidente degli Stati Uniti» (232).

Il contratto di affitto concluso tra USA e Cuba nel 1903 prevede, quindi, che «Gli

Stati Uniti riconoscono la continuità della sovranità della Repubblica di Cuba sulle zone

terrestri e marittime precedentemente descritte, ma la Repubblica di Cuba permette agli

Stati Uniti, per tutto il periodo in cui occuperanno le suddette aree ai sensi di questo

accordo, di esercitare completa giurisdizione e controllo su di esse» (233). In altri termini,

la piena sovranità su Guantánamo continuava a spettare a Cuba, tuttavia, durante tutta la

durata del contratto, gli Stati Uniti avrebbero avuto su di essa totale giurisdizione e

controllo. Inoltre, secondo l’interpretazione autentica data dal Governo statunitense, tale

disposizione dell’accordo doveva essere intesa nel senso che la sovranità di Cuba (234) su

Guantánamo sarebbe rimasta sospesa fintanto che fosse perdurata l’occupazione

statunitense - posto che gli USA esercitano su di essa piena giurisdizione e controllo – ma

sarebbe stata destinata a riespandersi pienamente in caso di cessazione dell’occupazione

stessa.

231() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., 1646. 232() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit. p. 1646. 233() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1646. 234() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1646.

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Dopo l’11 settembre, quindi, è stato svolto un attento studio (235) da parte del

governo statunitense volto ad individuare l’area più appropriata per detenere gli enemy

aliens. Alla fine, l’attenzione è ricaduta su Guantánamo, poiché in virtù delle

caratteristiche dell’accordo di cui si è detto e della indubbia extra-territorialità della base

navale, tale terra era sottratta alla giurisdizione delle Corti federali degli Stati Uniti (236).

Lo scopo perseguito, infatti, era proprio quello di privare i detenuti ivi ristretti sia della

garanzie proprie del diritto internazionale che di quelle del diritto interno. A tale ultimo

riguardo, il riferimento è al diritto all’habeas corpus, che i detenuti avrebbero potuto

proporre durante il periodo di custodia cautelare indefinita. In tal modo, è stato impedito

qualsiasi controllo giurisdizionale sulla legittimità della loro detenzione e, quindi, sulla

fondatezza dell’attribuzione della qualifica di enemy alien, che doveva rimanere un atto

unilaterale ed inoppugnabile dell’esecutivo (237).

L’intento era, quindi, quello di creare una no man’s land ovvero un legal black

hole, così come Guantánamo è stata definita (238). E bisogna dire che, fino all’intervento

della Corte Suprema nel 2004, il Governo statunitense vi era pienamente riuscito.

Al di là della negazione delle garanzie giurisdizionali, è bene sottolineare come le

condizioni dei detenuti di Guantánamo siano terribili (239): gli Sti Uniti non hanno mai

reso note le identità dei soggetti catturati; fin dal momento dell’arresto i prigionieri sono

235() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2831. 236() Sulla detenzione presso il campo di prigionia di Gauntánamo si è anche pronunciata una Corte britannica, in un caso in cui, ovviamente, in cui era interessato un cittadino britannico ivi recluso. Sul punto, v. ampiamente, L. VIERUCCI, Il caso Abbasi: la detenzione arbitraria a Guantanamo davanti al giudice inglese, in Riv. dir. int. priv. proc., 2003, p. 911. 237() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2831.238() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1650; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2831. 239() Sulla condizione disumane dei detenuti di Guantánamo, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1652; nonché C. BONINI, Usa, viaggio nella prigione del terrore, Torino, 2004, p. 3 ss.

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stati sottoposti a ripetuti interrogatori in assenza di avvocati; non è stato consentito loro

di comunicare con i familiari ovvero di usufruire di consulenza legale.

10.4. Segue. Le Commissioni militari ad hoc.

La negazione della tutela giurisdizionale delle Corti federali statunitensi ha

riguardato gli enemy aliens o gli enemy combatants non solo – come si è visto - nella fase

della custodia cautelare, ma anche nella vera e propria fase processuale (240). La

competenza in materia è stata, infatti, attribuita a delle Commissioni militari ad hoc,

anch’esse istituite con l’ordinanza militare del novembre 2001, e presso le quali è stata

disposta la «non applicabilità dei principi di legge e delle regole di valutazione della

prova generalmente vigenti nei processi penali celebrati nelle corti distrettuali degli Stati

Uniti» (241). A tal proposito, è stato efficacemente sottolineato come, in forza

dell’ordinanza in parola, sia stato istituito uno speciale sistema giudiziario, un vero e

proprio codice di procedura penale speciale (242).

Attribuendo i processi sui detenuti di Guantánamo a speciali commissioni militari,

il Governo statunitense ha voluto escludere la competenza dei Tribunali del Paese a

giudicare della legalità delle azioni da esso stesso intraprese nei confronti dei soggetti

ritenuti collegati ad organizzazioni terroristiche.

240() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2834 241() In tal senso, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1649. 242() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit. p. 1655.

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Tali commissioni si caratterizzano, innanzitutto, per la loro composizione. Esse

sono costituite da militari nominati dall’esecutivo, in numero variabile da tre a sette (243).

Anche il pubblico ministero è un militare (244).

L’imputato, inoltre, ha il diritto di essere assistito da un avvocato militare,

assegnatogli d’ufficio dall’esecutivo (245). Può affiancargli, tuttavia, un avvocato civile,

ma a sue spese; sono dettate, però, una serie di disposizioni che ne disincentivano

fortemente la nomina. Infatti, l’avvocato civile non ha il diritto di partecipare alle udienze

che si svolgono a porte chiuse e che sono la maggior parte; non può lasciare Guantánamo

senza il consenso del Dipartimento della difesa; non può parlare con nessuno del

processo e del suo contenuto; può avere solo colloqui sorvegliati e registrati con il suo

assistito e deve, altresì, accettare di rivelare quelle parti dei colloqui che servono a

prevenire la commissione di nuovi reati, pena, in caso contrario, un’autonoma

incriminazione a suo carico.

Il Presidente della commissione può qualificare talune prove (246) come segrete ed

impedirne così la conoscenza sia all’imputato che al suo difensore civile. Può, inoltre,

ordinare che, per ragioni di sicurezza nazionale, l’intero processo si svolga a porte chiuse

con conseguente esclusione dell’imputato e del suo difensore civile.

Al fine di addivenire ad una condanna, non è necessario che le prove dimostrino la

colpevolezza dell’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio”; al contrario, è

sufficiente che esse siano “convincenti per una persona ragionevole” (247).

243() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2835. 244() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1654. 245() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2835. 246() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2835. 247() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1655.

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Non è prevista una vera e propria impugnazione delle sentenze. La decisione

finale, infatti, viene semplicemente verificata da un review penal (248) i cui membri hanno

il compito di valutare l’opportunità di una revisione. L’ultima decisione sul punto spetta

al Presidente degli Stati Uniti che però non ha neanche l’obbligo di motivare il suo

provvedimento.

È bene precisare che la celebrazione delle udienze di fronte alle Commissioni di

Guantánamo è iniziata solo nel 2004 (249) ed è stata subito sospesa per effetto del

sopraggiungere della decisione della District Court sul caso Hamdan (250), di cui appresso

si dirà.

10.5. Segue. Il Detainee Act.

In questa seconda fase dell’evoluzione della legislazione statunitense contro il

terrorismo, è stato, altresì, approvato dal Congresso il Detainee Act (251). Esso precisa che

nessuna persona in stato di custodia ovvero sotto il controllo fisico del Governo degli

Stati Uniti possa essere soggetta a trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti

( Sec. 1003a).

Tuttavia, nello stesso tempo, esso prevede che nessuno può essere sottoposto a

trattamenti o a tecniche di interrogatorio non autorizzati da e non contenuti nel United

States Army Field Manual on Intelligence Interrogation (Sec. 1002a), il quale però

248() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2835. 249() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2835250() Ibidem. 251() Sul punto, v. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 88

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configura proprio la possibilità di condurre interrogatori con modalità lesive dei diritti

inviolabili dell’uomo (252).

11. La terza fase. La giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti.

La terza fase è quella in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha

emesso una serie di pronunce, con le quali è intervenuta a tutela dei diritti fondamentali

dell’individuo, fino a quel momento pregiudicati dall’egemonia dell’Esecutivo.

Già a partire dal 2001 erano state intraprese numerose azioni di habeas corpus da

parte ovvero per conto dei detenuti di Guantánamo. Tuttavia, in un primo momento (253),

tali istanze erano state rigettate da parte delle Corti federali, sulla base dell’assunto per

cui l’extra-territorialità della base di Guantánamo rispetto al territorio statunitense le

avrebbe rese incompetenti in materia. Solo in un secondo momento (254), quindi, i ricorsi

per habeas corpus sono stati ammessi.

Un passo decisivo è stato compiuto il 28 giugno 2004, quando la Corte Suprema

ha emesso tre sentenze: Rasul v. Bush, Hamdi v. Rumsfeld, Rumsfeld v. Padilla.

Fondamentale è stata anche la sentenza Hamdan v. Rumsfeld del 29 giugno 2006. Con le

sentenze del giugno del 2004 è stata riaffermata la primazia del diritto di difesa per

americani e stranieri. È stato, infatti, sostenuto che ogni detenuto, a prescindere dalla sua

nazionalità, possa contestare la legittimità della sua detenzione avanti ad un tribunale

degli Stati Uniti. La Corte ha, dunque, affermato l’illegittimità (255) dell’azione del

Governo degli Stati Uniti, poiché la Costituzione non prevede la possibilità di trattenere 252() Ibidem. 253() In argomento, v. amplius T.E. FROSINI Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1658. 254() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1659.255() C. BASSU, Libertà personale e lotta al terrorismo: i casi di Canada e Stati Uniti, cit., p. 436.

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persone per un tempo indefinito, senza una formale incriminazione e senza le tradizionali

garanzie del processo statunitense, a meno che esse non siano qualificate come

prigioniere di guerra. In tale ultimo caso, comunque, queste dovrebbero beneficiare delle

garanzie previste dal diritto internazionale e, in particolare, dalle Convenzioni di Ginevra.

In tutti e tre i processi, la posizione del Governo statunitense (256) è stata quella di

rivendicare con fermezza la propria autorità di poter arrestate i nemici combattenti, che

siano essi stranieri o cittadini, fino al termine delle ostilità e, quindi, a tempo indefinito.

Ha, altresì, rivendicato il potere di negare loro le garanzie del giusto processo e,

segnatamente, il diritto di essere assistito da un avvocato; il diritto ad impugnare la

propria causa avanti ad un Tribunale americano; il diritto ad essere giudicati da una giuria

popolare; il diritto a non autoincriminarsi; il diritto all’habeas corpus.

La sentenza Rasul v. Bush (257) ha affrontato il problema del diritto dei detenuti di

Guantánamo di adire le Corti federali statunitensi. Tale diritto era stato negato dalla Corte

distrettuale della Columbia sulla base dell’assunto per cui Cuba non fa parte del territorio

degli Stati Uniti. La giurisdizione e la competenza territoriale delle Corti statunitensi,

invece, sarebbe circoscritta solo al territorio degli USA. La Corte Suprema degli Stati

Uniti, invece, è giunta alla conclusione opposta: tutti i detenuti a Guantánamo, siano essi

cittadini o stranieri, hanno comunque il diritto di ricorrere ad una Corte federale degli

Stati Uniti con una richiesta di habeas corpus, poiché comunque gli Stati Uniti, pur non

avendo vera e propria sovranità, esercitano piena giurisdizione e controllo sulla base di

Guantánamo, in tal modo rifiutando la posizione del Governo che aveva sostenuto

256() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1660. 257() In argomento, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1661; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2830; nonché R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 90.

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l’extra-territorialità della base navale. A tal fine, la Corte ha utilizzato un principio di

diritto che era già stato affermato nel 1973 nel caso Braden (258), quando era stato ritenuto

che non sarebbe stata necessaria la presenza fisica del prigioniero sul territorio dove fosse

esercitata la giurisdizione di una corte federale. Al contrario, per proporre un’istanza di

habeas corpus sarebbe stato sufficiente che colui che tiene in custodia il detenuto fosse

subordinato alle garanzie processuali in materia di habeas corpus e che, dunque, la Corte

federale potesse giudicare della legittimità della sua condotta.

La più importante e interessante delle tre decisioni è certamente la sentenza Hamdi

v. Rumsfeld (259). Essa ha chiarito cosa, nell’ambito dell’habeas corpus resta inderogabile

anche in uno stato d’emergenza e cosa, invece, può essere derogato. La Corte ha

individuato un nocciolo duro di diritti (core rights) dell’individuo rispetto al due process

of law. In particolare, ha affermato che un cittadino-detenuto che voglia modificare

l’imputazione di combattente nemico ha il diritto essere esattamente informato del capo

di imputazione e delle prove a suo carico. Deve altresì avere la possibilità di effettuare

tale impugnazione avanti ad un giudice neutro. Ciò perché non possono essere messe in

discussione le garanzie del giusto processo. Non può essere leso il diritto di conoscere

l’imputazione mossa a carico dell’imputato. Inderogabili sono, altresì, il diritto alla

notificazione ed il diritto di essere ascoltati, in un margine di tempo apprezzabile ed in

maniera significativa. Ne consegue che una detenzione a tempo indeterminato può essere

considerata legittima solo se l’attribuzione della qualifica di enemy combatants sia

previamente sottoposta al vaglio di un giudice imparziale

258() T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1661. 259() Cfr. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1663; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre , cit., p. 2828; R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 90.

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La sentenza Rumsfeld v. Padilla (260) ha solo apparentemente un risvolto

meramente processuale. Infatti, l’istanza viene respinta. Tuttavia, la Corte dichiara che il

detenuto avrebbe dovuto adire la Corte federale del distretto ove era recluso e non la

Corte federale di New York, come invece aveva fatto. Al di là del rigetto preliminare, tale

pronuncia si apprezza per ciò che dice implicitamente. La Corte, infatti, ha

implicitamente dichiarato che il carcerato ha comunque il diritto di adire una Corte:

quella del distretto in cui si trova detenuto. A tal proposito, la dottrina (261) ha evidenziato

come in tal modo si corra però il rischio che il Governo federale detenga il terrorista nel

distretto in cui le Corti sono più compiacenti (262).

Per quel che riguarda, infine, la sentenza Hamdan v. Rumsfeld (263) del 2006, in via

preliminare, è bene precisare che Hamdan era uno dei pochi detenuti a Guantánamo nei

confronti del quale era stata formulata un’accusa ed era iniziato un processo di fronte ad

una Miliatry Commission. Nel frattempo, il detenuto aveva, però, proposto un’istanza di

habeas corpus per vedersi riconosciuto lo status prigioniero di guerra. Nel caso di specie,

la corte distrettuale (264) aveva affermato che le Convenzioni di Ginevra hanno carattere

self-executing e, quindi, avrebbe trovato automatica applicazione l’art. 5 della III CG.

260() Sul caso Padilla, in particolare, v. T.E. FROSINI, Lo Stato di diritto si è fermato a Guantánamo, cit., p. 1666; M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2832; R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 90. 261() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 90. 262() In un certo senso, questo è proprio ciò che è accaduto a Padilla. Il medesimo, infatti, detenuto nel distretto di New York, dopo che aveva presentato il ricorso è stato dichiarato combattente nemico e trasferito nel carcere del South Carolina, dove la Corte del distretto è tradizionalmente più vicina alle posizioni governative. Sul punto, v. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 90. 263() Sul punto, v. M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2836; nonché R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 91. 264() M. MIRAGLIA, Una nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, cit., p. 2836.

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Tale norma prevede che, in caso di dubbio, la verifica circa l’effettiva sussistenza dello

status di prigioniero di guerra spetta ad un Tribunale competente e, fino a quando questo

non si pronunci, il detenuto non può che essere giudicato come prigioniero di guerra. Il

giudice, in sostanza, aveva ordinato alla Military Comisssion, che stava processando

Hamdam come enemy alien, la sospensione del procedimento in corso, fino a quando un

Tribunale competente non si fosse pronunciato sulla sussistenza o meno delle condizioni

affinché il ricorrente potesse essere ritenuto prigioniero di guerra.

Sul caso del detenuto Hamdan era stata poi chiamata a pronunciarsi la Suprema

Corte (265). La sentenza in questione si apprezza soprattutto perché ha, infine, dichiarato

l’illegittimità delle Military Commissions. Tale pronuncia ha avuto un’importanza

decisiva. In primo luogo, poiché ha riaffermato il principio della separazione dei poteri.

La Corte, infatti, ritiene che Commissioni militari possano essere istituite solo per legge,

a seguito quindi di autorizzazione del Congresso. Cosa non avvenuta nel caso di specie,

posto che le commissioni di cui trattasi erano state istituite - come abbiamo visto - con

un’ordinanza presidenziale. Dal punto di vista del diritto internazionale e del rispetto dei

diritti umani, invece, la Corte ha affermato che il detenuto ha diritto ad essere processato

da una Corte regolarmente costituita e capace di assicurare tutte quelle garanzie offerte

normalmente ad una popolazione civile. Nella lotta al terrorismo, infatti, dovrebbe

comunque essere garantito il rispetto delle Convenzioni di Ginevra, ed in particolare

dell’art. 3 ad esse comune (266).

265() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 91. 266() In particolare, l’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 stabilisce che nei confronti delle persone che non sono combattenti rimangono vietate: a) le violazioni contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assasinio in tutte le forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi; b) la cattura di ostaggi; c) gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti inumani e degradanti; d) le condanne pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito, che offra le garanzie giudiziarie ritenute indispensabili dai popoli civili.

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12. La quarta fase. Il Military Commission Act.

A seguito di queste pronunce, il 17 ottobre 2006, il Presidente degli Stati Uniti ha

firmato il Military Commission Act (267), con il quale, questa volta il Congresso con un

provvedimento legislativo - in adempimento quindi del monito contenuto nella sentenza

della Corte Suprema - ha di nuovo attribuito alle Commissioni militari ad hoc la

competenza per gli atti commessi dagli stranieri combattenti nemici illegittimi. Tuttavia,

tale provvedimento, dal punto di vista sostanziale perpetra comunque una violazione dei

diritti fondamentali dell’individuo, in quanto esso costituisce niente più che una razionale

sistemazione della disciplina volta all’annientamento del nemico assoluto.

Per quel che concerne l’ambito applicativo, la nuova disciplina è destinata a

trovare applicazione solo in tempo di guerra e non anche in tempo di pace. Tuttavia, è

bene evidenziare che, allo stesso tempo, tale atto ha dettato una nozione del tutto

peculiare di guerra, che si distingue da quella tradizionalmente riconosciuta dal diritto

internazionale e si identifica, sostanzialmente, con quella infinita contro il terrore. Lo

status di enemy alien o enemy combatant continua a non essere coperto dalle garanzie

offerte dal diritto internazionale, né da quelle costituzionali previste dal diritto interno.

Sotto il primo profilo, infatti, si è stabilito che, davanti alle commissioni militari, non

possano essere invocate le Convenzioni di Ginevra come fonte del diritto ed è stato

attribuito al Presidente degli Stati Uniti il compito esclusivo di interpretare le

Convenzioni stesse. Dal punto di vista del diritto interno, invece, è stata riprodotta quella

formula già contenuta nell’ordinanza presidenziale del novembre 2001, in base alla quale 267() In argomento, v. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico, ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 93.

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nessuna Corte o giudice ha giurisdizione su una richiesta di habeas corpus proposta da

una straniero definito, ovvero in attesa di essere definito, dagli Stati Uniti come enemy

alien.

L’atto, inoltre, ha previsto una serie di nuove fattispecie incriminatrici (par.

950v(b)), punite tutte mediante confinamento ed applicabili anche a condotte poste in

essere prima della data di entrata in vigore dell’atto, posto che – ad avviso del medesimo

provvedimento - si tratterebbe di norme meramente esplicative di previsioni vigenti.

Dal punto di vista del diritto processuale, invece, è stato nuovamente previsto che i

soggetti processuali (giudice, pubblici ministeri e difensori) dei processi che si svolgono

davanti alle Commissioni militari siano nominati dall’Esecutivo. È stata, inoltre,

praticamente ammessa l’utilizzabilità, ai fini della decisione, di informazioni che sono

state estorte con la tortura o, comunque, con tecniche di interrogatorio che utilizzano

mezzi coercitivi. Solo da un punto di vista meramente formale, infatti, la Sec. 3, par.

948r(b) sancisce che le informazioni carpite per mezzo della tortura non sono

ammissibili. Nei paragrafi successivi, tuttavia, è dettata una disciplina che distingue a

seconda del momento in cui la dichiarazione stessa è stata resa. Infatti, se è stata ottenuta

prima dell’entrata in vigore del Detainee Treatment Act del 30 dicembre 2005 - che rende

legittime alcune tecniche di interrogatorio basate sulla coercizione - allora la

dichiarazione può essere ammessa solo qualora il giudice militare la ritenga, da un lato,

attendibile e dotata di sufficiente valore probatorio, dall’altro, funzionale al miglior

soddisfacimento degli interessi della giustizia. Al contrario, se la dichiarazione è stata

resa dopo il 30 dicembre 2005, la medesima può essere ammessa solo se, oltre a ricorrere

le due condizioni di cui si è detto, il giudice militare ritenga, altresì, che il metodo di

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interrogatorio utilizzato non sia un trattamento crudele inumano o degradante, vietato

dall’art. 1003 del Detainee Treatment Act.

Al di là delle mere dichiarazioni di intenti, è bene precisare come, in tal modo, sia

stata ammessa la tortura come prova regina per i processi avanti le commissioni militari.

La maggior parte degli episodi di terrorismo, infatti, sono stati posti in essere prima della

fine del 2005. Con riferimento, invece, alle dichiarazioni rese dopo il dicembre 2005, è

opportuno ricordare che le pratiche legittime in base al Detainee Treatment Act sono veri

e proprio trattamenti crudeli, inumani e degradanti: ossia vere e proprie torture.

Ad ogni modo, la Corte Suprema degli Stati Uniti, con una sentenza del 2008, ha

di nuovo bocciato le Commissioni militari, affermando il diritto dei detenuti di

Guantánamo a ricorrere alla giustizia ordinaria (268) sulla base dell’assunto per cui «le

leggi e la Costituzione sono state definite proprio per sopravvivere e non per piegarsi in

tempi straordinari. Perché libertà e sicurezza possono essere riconciliate nella cornice

dello Stato di diritto» (269).

13. Considerazioni conclusive: i tratti di un vero e proprio diritto penale del nemico

nell’ordinamento statunitense.

Il modello Guantánamo presenta i caratteri di un vero e proprio diritto penale del

nemico, più esattamente, di quel diritto penale del nemico “in senso stretto” o “in senso

268() In argomento, v. A SPATARO, Otto anni dopo l’11 settembre. (Il modello anglosassone e quello europeo nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale), cit., p. 152. 269() Così si è espressa la Corte suprema degli Stati Uniti con la sentenza de 12 giugno del 2008, nei casi Boumedine vs. Bush e Al Odah vs. United States.

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forte”, che si caratterizza per la lesione dei diritti fondamentali dell’individuo e per la

messa in discussione delle stesse garanzie penal-processualistiche proprie dei moderni

sistemi giuridici. In questa sede, appare sufficiente anticipare semplicemente quali siano i

tratti distintivi di questa specie di diritto super-penale, per meglio chiarire la precedente

affermazione.

Dal punto di vista sostanziale, il diritto penale del nemico si caratterizza per essere

un diritto penale d’autore; per l’appartenenza delle fattispecie criminose, per lo più, alla

categoria dei reati di pericolo; per la previsione di reati associativi ed a dolo specifico;

per la configurazione ed applicazione di pene o misure di sicurezza sproporzionate al

fatto e alla pericolosità del suo autore, in quanto volte alla neutralizzazione del reo; per la

contemplazione della pena di morte. Dal punto di vista processuale, inoltre, il diritto

penale del nemico si caratterizza per la previsione di un potere assoluto di indagine in

capo agli organi di polizia, in assenza di un controllo giudiziario; per la detenzione dei

prigionieri a tempo indeterminato; per l’ammissibilità della tortura quale tecnica di

interrogatorio; per la degiurisdizionalizzazione; per l’irrogazione della pena senza

possibilità di rimedio, impugnazione o riesame. Dal punto di vista penitenziario, esso,

infine, si contraddistingue per il regime penitenziario inumano.

Logico corollario dei succitati caratteri è la lesione dei diritti fondamentali

dell’individuo (vita, dignità umana, libertà, riservatezza, etc.), non solo del nemico che

intende neutralizzare, ma anche del cittadino che intende proteggere. Tale lesione si

estende anche ai principi cardine dello Stato di diritto, primo fra tutti il principio di

separazione dei poteri, del giusto processo e del connesso diritto di difesa.

Ebbene, come l’indagine fino ad ora condotta ha messo in evidenza, il modello

Guantánamo presenta tutti i suesposti tratti distintivi. Più nel dettaglio, dal punto di vista 110

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sostanziale, esso è un diritto penale d’autore, poiché si applica al terrorista di ideologia

islamica che, per lo più, è straniero ed è etichettato emeny alien o enemy combatant dal

Governo; inoltre, il titolo VIII dell’USA Patriot Act ha ampliato il campo di applicazione

del reato di terrorismo, rendendo la fattispecie quasi indeterminata. Dal punto di vista

processuale, il modello Guantánamo si contraddistingue per un generale ampliamento dei

poteri di perquisizione, sequestro, intercettazione e arresto da parte delle forze

dell’ordine, senza informare l’interessato e senza previa autorizzazione dell’autorità

giudiziaria (titolo II, USA Patriot Act); per la detenzione obbligatoria dei terroristi, a

tempo indeterminato e senza una formale accusa a loro carico; per il ricorso alla tortura,

quale tecnica di interrogatorio; per la possibilità di procedere al prelievo coattivo di

DNA, con conseguente istituzione di una relativa banca dati (titolo V, USA Patriot Act);

per l’attribuzione della competenza giurisdizionale a giudicare dei reati commessi dai

terroristi detenuti a Guantánamo a Tribunali militari specializzati, di nomina esecutiva.

Dal punto di vista penitenziario, la legislazione adottata egli Stati Uniti post 11 settembre

si caratterizza, infine, per la previsione di un regime detentivo inumano presso il campo

di prigionia di Guantánamo.

Evidente è, quindi, la lesione dei diritti fondamentali dell’uomo e, segnatamente:

del diritto alla vita, nella misura in cui la sottoposizione del terrorista al regime detentivo

inumano ed a forme di tortura possono comportarne il venir meno; della dignità umana,

lesa dalle torture cui i detenuti sono sottoposti per estorcere loro informazioni; della

libertà, di cui il nemico è privato senza limiti di tempo e senza controllo dell’autorità

giudiziaria, al pari di quanto avviene, sotto quest’ultimo, per il cittadino; della

riservatezza e della libertà di movimento del cittadino, la cui vita privata può essere

oggetto di penetranti controlli da parte dei pubblici poteri e senza preventiva 111

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autorizzazione, ove occorra, da parte dell’autorità giudiziaria. Evidente è, altresì, la

frizione del modello Guantánamo con i principi cardine dello Stato di diritto. E, così, il

principio di separazione dei poteri è violato dalla stessa ordinanza presidenziale del 13

novembre 2001, che – come visto – ha esercitato, ad un tempo, i poteri spettanti al potere

legislativo, esecutivo e giudiziario. Tale principio, tuttavia, è stato violato anche nella

misura il cui il compito di amministrare la giustizia è stato attribuito al potere esecutivo

per mezzo delle Commissioni militari. Conseguentemente, è stato violato il principio del

giusto processo ed il diritto di difesa dell’imputato, il diritto al contraddittorio ed il diritto

al silenzio, nella misura in cui è stato dato ingresso nell’ordinamento statunitense alla

tortura quale tecnica di interrogatorio. Altro diritto che i terroristi hanno visto ledere è

stato quello di presentare una petizione di habeas corpus.

Tutto ciò, tuttavia, era inaccettabile all’interno di un moderno Stato di diritto e,

proprio per questo, la Corte suprema degli Stati Uniti ha ricondotto il sistema

Guantánamo nei binari della legalità.

A questo punto, appare opportuno chiedersi se la categoria del diritto penale del

nemico, portata alla ribalta sul piano internazionale per descrivere un fenomeno

storicamente esistente, ossia la legislazione antiterrorismo adottata da alcuni Paesi

occidentali e, segnatamente, dagli Stati Uniti immediatamente dopo l’11 settembre, possa

- ed in che limiti - essere assurta a paradigma di diritto penale, avente portata generale, in

aggiunta e addirittura a salvaguardia del diritto penale del cittadino (270).

270() L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico”: un’abdicazione della ragione, cit., p. 162.112

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CAPITOLO TERZO

Il dibattito dottrinario. La teoria del diritto penale del nemico e le critiche

1. Il dibattito contemporaneo: la ricostruzione del pensiero di Günter Jakobs.

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Da subito è apparsa a tutti evidente la frizione degli strumenti normativi adottati da

alcuni Paesi occidentali dopo l’11 settembre con i principi cardine del diritto penale

liberale, così come si sono venuti stratificando in oltre due secoli di elaborazione

giuridica, dall’Illuminismo in poi (271).

Tuttavia, non è mancato chi ha colto l’occasione per sostenere la più generale

ammissibilità (272) di un cd. diritto penale del nemico (Feindstrafrecht), contrapposto ad

un diritto penale del cittadino (Burgerstrafrecht). Si fa, in particolare, riferimento allo

271() A tal proposito, appare opportuno precisare che gran parte delle leggi promulgate in Europa e, soprattutto, negli Stati Uniti dopo gli attacchi dei terroristi islamici, così come la stessa teoria del diritto penale del nemico di Jakobs, minano alle fondamenta stesse dello Stato di diritto (Rechtstaat), ossia di quello Stato volto alla salvaguardia della supremazia del diritto e delle connesse libertà dell’uomo. Più esattamente, lo Stato di diritto esige che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti. Ne consegue che lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, innanzitutto, per mezzo di una Costituzione scritta. Nell’ambito del concetto di Stato di diritto, poi, è possibile distinguere due diverse accezioni: da un lato, lo Stato di diritto in senso formale; dall’altro, lo Stato di diritto in senso materiale. In senso formale, lo Stato di diritto implica la separazione dei poteri, il principio di legalità, la giurisdizione ordinaria e amministrativa. Dal punto di vista sostanziale, lo Stato di diritto, invece, comporta la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Infatti, un vincolo dello Stato all’osservanza delle leggi sarebbe poca cosa senza la garanzia per i diritti umani. Sul punto, v. amplius, M. FIORAVANTI, VOCE Stato (storia), in Enc. dir., p. 678 ss. A tale ultimo riguardo, sono un emblema per quel che concerne la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo nel nostro ordinamento, in primis, gli artt. 2 e 3 della Costituzione, i quali, rispettivamente, recitano «art. 2 – La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»; «art. 3 – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali . – È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».272() In dottrina è stato messo in evidenza come il più grave vizio della concettualizzazione di Jakobs sia stato proprio quello di aver postulato un vero e proprio programma di politica criminale. In questi termini, v. K. AMBOS, Il diritto penale del nemico, in M. Donini-M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, 2007, p. 30.

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studioso tedesco, Günter Jakobs (273), che ha così riaperto il dibattito internazionale sul

tema.

A tal riguardo, è bene precisare che Jakobs, in realtà, aveva già accennato al diritto

penale del nemico in un suo intervento del 1985 (274). Nel 1999 (275), poi, aveva esposto

compitamente la sua dottrina. Più nel dettaglio, egli ha riesumato da un passato, più o

meno antico, l’idea di un nemico del diritto penale e ne ha costruito una teoria,

rintracciandone manifestazioni nella legislazione di lotta, già da molto tempo in vigore in

Germania. Ha così astratto i tratti essenziali di un nuovo modello di diritto penale,

destinato ad affiancarsi a quello tradizionale, al fine di difendersi da un’aggressione

nemica in atto ovvero temuta (276). L’argomento è stato poi ripreso in modo approfondito

a partire dal 2003, quando ormai il diritto penale del nemico era diritto vigente almeno

negli Stati Uniti d’America, a seguito degli attacchi sferrati dai terroristici islamici l’11

settembre 2001.

273() Per la teorizzazione di tale Autore in tema di diritto penale del nemico, v. G. JAKOBS, Kriminalisierung im Vorfeld einer Rechtsgutsverletzung (Referat auf der Strafrechtslehrertagung in Frankfurt a.M. im Mai 1985), in ZStW 97, 1985, p. 753 ss.; ID., Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, in A. Gamberini-R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico. Nuovo revisionismo penale, Bologna, 2007, p. 109 ss.; ID., Das Selbstverständnis der Strafrechtswissenschaft for den Herausforderungen der Gegenwart (Kommentar), in A. Eser-W. Hassemer-B. Burkhardt (a cura di), Die deutsche Strafrechtswissenschaft vor der Jahratausendwende. Rückbesinnung und Ausblick, München, 2000, p. 47 ss.; ID., Staatliche Strafe: Bedeutung und Zweck, Paderborn, 2004; ID., Terroristen als Personen im Recht?, in ZStW, 2005, p. 839 ss.; ID., Diritto penale del nemico, in M. Donini-M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, 2007, p. 5 ss.; ID., I terroristi non hanno diritti, in R.E. Kostoris-R. Orlandi (a cura di), Contrasto al terrorismo interno e internazionale, Torino, 2006, p. 8 ss.; ID., ¿Terroristas como personas en derecho?, in Derecho penal del enemigo, Cizur Menor, 2006, p. 68 ss.274() Sull’evoluzione del concetto di nemico in Günter Jakobs, v. ampiamente K. AMBOS, Il diritto penale del nemico, cit., p. 42. 275() L’occasione per la compiuta prospettazione di tale teorica fu un incontro tenutosi a Berlino sulla scienza del diritto penale a fine millennio. In argomento, cfr. G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, in S. Moccia (a cura di), I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, Napoli, 2008, p. 20. 276() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 19.

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In particolare, l’Autore parte dal presupposto (277) che, per quanto possa risultare

sconveniente in un moderno Stato di diritto, non ad ogni consociato, all’interno

dell’ordinamento giuridico, spetta il riconoscimento dello status di “persona di diritto”, in

virtù del quale egli possa essere legittimamente riconosciuto fruitore dei “diritti umani”.

L’attribuzione di tale qualifica, infatti, dipenderebbe dal comportamento del soggetto con

cui l’ordinamento ha di volta in volta a che fare (278). Più nel dettaglio, affinché sia

possibile ritenere un soggetto persona di diritto, è necessario – ad avviso del penalista

tedesco - che egli adempia ai suoi doveri nei confronti dello Stato, ovvero, in alternativa,

che lo si tenga in pugno per evitare che diventi pericoloso per l’ordinamento giuridico

stesso. Al contrario, «laddove invece egli imperversi, lo si deve combattere, e laddove

egli potrebbe imperversare, ci si deve cautelare» (279). Infatti, «essere-persona-in-diritto è

qualcosa di reciproco: nel senso che l’altro deve “cooperare”, oppure lo si deve avere in

pugno, dunque egli deve essere sufficientemente innocuo» (280). Tutto ciò si comprende

sol ove si consideri che ogni persona è tradizionalmente intesa come portatrice sia di

diritti, che di doveri nei confronti dello Stato.

A tal proposito, è bene precisare che, secondo l’Autore, occorre distinguere l’ipotesi

in cui il soggetto non adempia ai suoi obblighi nei confronti dell’ordinamento una sola o

poche volte, dall’ipotesi in cui egli non vi adempia ripetutamente ovvero si ponga, più in

generale, contro il sistema. Ebbene, se il soggetto non adempie all’obbligo una sola volta

o poche volte, non vi sarebbero ancora i presupposti sufficienti per estrometterlo

dall’ordinamento come non-persona. Egli, infatti, rimarrebbe persona in diritto, ossia

cittadino. In tal caso, infatti, il bene primario della sicurezza dello Stato potrebbe essere 277() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 109. 278() In questi termini, v. anche G. JAKOBS, I terroristi non hanno diritti, cit., p. 8. 279() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 110. 280() Ibidem.

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di nuovo riaffermato con l’inflizione della pena. Ne consegue che, per Jakobs, chi mostra

fedeltà sistemica nei confronti dell’ordinamento può essere trattato come persona in

diritto.

Diverso sarebbe, invece, il discorso per il “nemico per principio” (281), ossia il nemico

della società costituzionalmente fondata sulla libertà. In tale ottica, il riferimento

d’obbligo è, appunto, al terrorista islamico che, per ragioni religiose od ideologiche, si

pone contro l’ordinamento giuridico costituito dei Paesi occidentali. Nei confronti di tali

individui, quindi, la cui vita è improntata al crimine in maniera duratura, si infrangerebbe

la presunzione di comportamento fedele al diritto. In tal modo, verrebbe automaticamente

meno la condizione principale per riconoscere loro lo status di persona in diritto. Chi non

mostra fedeltà nei confronti dell’ordinamento, infatti, merita – ad avviso dell’Autore - di

essere trattato come non-cittadino, non persona in diritto, non titolare di diritti: è nemico

per l’ordinamento. Nello Stato di diritto, dunque, l’esclusione dall’ordinamento sarebbe

pur sempre autoesclusione, ossia conseguenza di un comportamento dell’individuo

stesso.

L’espressione diritto penale del nemico, quindi, significa – a dire di Jakobs - che il

nemico viene escluso dall’ordinamento come consociato, viene escluso dal godimento di

alcuni suoi diritti. Esso, tuttavia, sarebbe pur sempre diritto nella misura in cui vincola lo

Stato nella lotta contro il nemico (282) per difendere i suoi cittadini. Comunque, il

Feindstrafrecht costituirebbe una extrema ratio nel moderno Stato di diritto, una

disciplina eccezionale, destinata a rimanere in vigore a tempo determinato.

Per Jakobs, il “nemico” del diritto penale del nemico è il delinquente e non l’hostis,

ossia il nemico esistenziale di Carl Schmitt. Nei confronti del medesimo, però, a 281() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 117. 282() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 119

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differenza di ciò che accade nell’ambito del diritto penale del cittadino per il delinquente

comune, non sarebbe sufficiente l’inflizione di una pena proporzionata alla colpevolezza.

Al contrario, bisognerebbe procedere nei suoi confronti prima della commissione del

fatto, in un’ottica di anticipazione della tutela, ovvero in aggiunta alla pena,

predisponendo un idoneo apparato di sicurezza.

Prima caratteristica del diritto penale del nemico secondo lo studioso è, quindi,

l’anticipazione della punibilità ovvero l’incriminazione in via preventiva (283). Esempio

emblematico si avrebbe, appunto, in materia di terrorismo, con la norma che incrimina la

formazione di associazioni terroristiche (284). Il diritto penale del nemico – ritiene lo

studioso - si contrappone, pertanto, al diritto penale del cittadino (285), nell’ambito del

quale la pena viene inflitta per il fatto commesso ed è proporzionata alla colpevolezza del

reo.

Altri caratteri del diritto penale del nemico sarebbero, poi, la custodia preventiva

legittima ovvero una pena privativa della libertà personale particolarmente afflittiva (286).

Il Feidstrfrecht avrebbe, inoltre, risvolti sul piano del diritto processuale (287). Anche

in tale ambito, infatti, bisognerebbe distinguere, da un lato, il processo per l’”imputato”,

ossia per la persona di diritto, corredato da tutte le garanzie classiche del processo penale

di tipo accusatorio, dall’altro lato, invece, il processo penale nei confronti

dell’”individuo”, ossia del nemico. Tale ultima forma di processo sarebbe caratterizzata 283() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 121. 284() Nell’ordinamento tedesco, v. §§ 129 a, 129 b StGB. 285() In particolare, circa le diverse funzioni che caratterizzano, da un lato, il diritto penale del nemico, dall’altro, il diritto penale del cittadino, l’A. osserva che, a differenza del diritto penale del cittadino che assicura la vigenza del diritto, «il diritto penale del nemico, in particolare il diritto direzionato contro i terroristi, ha più il compito di garantire sicurezza che quello di mantenere la vigenza del diritto, il che è rilevabile a livello dello scopo della pena e delle fattispecie criminose pertinenti». Così G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 124. In termini analoghi, v. anche G. JAKOBS, Diritto penale del nemico, cit., p. 19. 286() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 123. 287() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 124.

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da alcune frizioni con i principi classici del processo penale che, tuttavia, sarebbero

legittime, in quanto rivolte ad un soggetto che non è più persona di diritto per

l’ordinamento, ma individuo e, in quanto tale, privo di diritti umani. La privazione di tali

garanzie sarebbe, quindi, legittima per garantire il bene superiore della sicurezza, che lo

Stato deve comunque assicurare ai propri cittadini.

Principi propri del moderno processo penale accusatorio – precisa il giurista - sono,

com’è noto, il diritto ad essere ascoltato in giudizio, il diritto a richiedere l’acquisizione

di prove; ad essere presente agli interrogatori e, specialmente, il diritto a non essere né

ingannato, né costretto, né soggetto a forme di induzione, al fine di rendere dichiarazioni

(ossia il divieto di tortura).

Al contrario, il sistema processual-penale del nemico si caratterizza, per Jakobs,

innanzitutto, per la carcerazione preventiva, sub species di custodia cautelare, la quale,

però, non si basa, in tal caso, sui classici presupposti normativi, quali il pericolo di fuga o

il pericolo di inquinamento delle prove. Essa è invece rivolta contro l’individuo in quanto

tale, depauperato dei diritti umani, sottoposto a carcerazione preventiva perché «diviene

pericoloso per l’ordinato andamento del processo, vale a dire si comporta, in questa

contingenza, come nemico».

Altre fattispecie riconducibili al paradigma del diritto processuale penale del nemico

sono – ad avviso del penalista tedesco - tutte quelle ipotesi in cui un individuo è coartato

dall’intervento dello Stato. Questo avverrebbe, ad esempio, in caso di (288): estrazione di

sangue (289), misure di vigilanza, controllo delle telecomunicazioni (290), investigazioni

288() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità o, cit., p. 124.289() Il riferimento normativo, in tal caso, è al § 81 a StPO. 290() La norma è il § 100 a StPO.

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segrete (291), impiego di investigatori nascosti (292). In tutte questi casi disciplinati

dall’ordinamento giuridico tedesco, infatti, il soggetto rimane all’oscuro dell’attività di

indagine che lo Stato sta svolgendo nei suoi confronti. In tal modo verrebbe violato il suo

diritto alla riservatezza, nonché il suo diritto ad essere informato circa l’attività di

investigazione posta in essere, la quale non potrebbe neanche essere così sottoposta al

vaglio dell’autorità giudiziaria. Il diritto processuale penale del nemico avrebbe, dunque,

come scopo l’eliminazione dei pericoli derivanti da terrorismo (293). Un esempio delle

misure prese a tal fine sarebbe, in Germania, quella che vieta i contatti tra presunto

terrorista e proprio avvocato al fine di impedire pericoli per la vita, l’integrità fisica o la

libertà di altre persone (294).

Gli istituti di diritto processuale penale “del nemico” sopradescritti – ritiene lo

studioso - non devono essere considerati come cose orribili. Essi, infatti, servirebbero per

difendere la società dai suoi nemici. Anche in questo caso, infatti, tali misure sarebbero

legittime in quanto non si rivolgono nei confronti di un cittadino, bensì nei confronti di

un individuo, che non è più soggetto di diritto, poiché ha violato i suoi obblighi di fedeltà

nei confronti dello Stato.

Tuttavia, anche nell’ambito del diritto penale (e processual-penale) del nemico, a

mente del penalista tedesco, devono essere accordate una serie di garanzie (295), affinché

esso diventi tollerabile nello Stato di diritto e ne vengano, altresì, attenuate le differenze 291() L’istituto è previsto dal § 100 c StPO.292() È il § 110 a StPO.293() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 125. 294() Si fa riferimento ai §§ 31 ss. EGGVG. 295() È bene precisare come, al di là della mera affermazione di principio, Jakobs, nell’elaborazione della sua teoria, non si preoccupa minimamente di individuare una serie di garanzie che non possono essere violate neppure dal diritto penale del nemico, affinché questo permanga legittimo all’interno del moderno Stato di diritto. Questa, infatti, è una delle maggiori critiche che è stata rivolta allo studioso. Per converso, il dibattito dottrinario che si sviluppato sul tema è stato principalmente volto all’individuazione di una serie di limiti oltre i quali neanche il diritto penale del nemico può andare, pena la sua illegittimità nel sistema penal-processualistico liberale. Sul punto, v. infra.

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rispetto al diritto penale del cittadino. Il diritto penale del nemico sarebbe, così, legittimo,

ma entro certi limiti. Esso andrebbe limitato allo stretto necessario e sarebbe, anzitutto,

necessario privare il terrorista della propria libertà di comportamento, mediante la

carcerazione preventiva (296).

La teorica del diritto penale del nemico è stata elaborata da Jakobs non in senso

descrittivo, ossia per descrivere un tipo di legislazione storicamente esistente, bensì in

senso normativo, ossia al fine di elaborare una dottrina, avente portata generale (297), che

si attagliasse a diverse fattispecie concrete. Essa, quindi, è destinata a trovare

applicazione – secondo lo studioso - anche nei confronti di altro tipo di criminalità,

specie se organizzata, come nel caso di criminalità economica, traffico illecito di sostanze

stupefacenti ovvero di alcuni tipi di delinquenti sessuali. Il nemico per l’ordinamento,

infatti, non sarebbe solo il nemico totale, come appunto il terrorista islamico, ma anche il

nemico parziale, come ad esempio, il criminale economico, lo spacciatore, il mafioso, lo

stupratore e tutte quelle altre figure di criminale, riconducibili alla legislazione “di lotta”

tedesca (298).

Poste queste premesse sui caratteri generali del diritto penale del nemico, l’Autore si

esprime, poi, su quelle manifestazioni che esso ha avuto in Germania. In primo luogo, per

quanto riguarda la Luftsicheeheitsgesetz, ossia la Legge sulla Sicurezza Aerea, egli

osserva che, all’interno del moderno Stato di diritto, «non si addice che alcuni debbano

sacrificare se stessi e così dismettere tutte le proprie aspettative di fortuna» (299). Tale

legge, infatti, non prevede solo il sacrificio delle vite dei terroristi dirottatori, che però

non hanno diritto ad alcuna tutela da parte dello Stato. Essa, infatti, sacrifica anche le vite 296() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 126. 297() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p.117. 298() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 117.299() G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 127.

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di cittadini che si sono sempre comportati fedelmente nei confronti dell’ordinamento ed

hanno perciò diritto di essere tutelati come persone in diritto. Non è, quindi, ammissibile

il sacrificio della loro vita a vantaggio di altre.

In secondo luogo, il penalista tedesco si esprime in merito alla tortura. A tal proposito

egli ritiene che non sono consentite nell’ordinamento vere e proprie forme di tortura, ma

solo un uso moderato - sebbene doloroso - di coercizione, al fine di estorcere dai terroristi

informazioni ed impedire così la commissione di quei reati e quegli attentati che essi

avevano programmato con altri (300). Questa forma blanda di coercizione non avrebbe

nulla a che fare con il vero e proprio diritto penale del nemico, poiché essa sarebbe

utilizzata al solo fine di ottenere dai terroristi l’adempimento del dovere di fedeltà nei

confronti dello Stato e consentire corrispondentemente a quest’ultimo di adempiere al suo

obbligo di protezione nei confronti dei suoi cittadini. Tale misura non avrebbe carattere

depersonalizzante. In caso di terrorismo, infatti, che è un caso eccezionale, potrebbe

essere ottenuto l’adempimento di un obbligo nel diritto processuale mediante l’uso della

forza, cosa che normalmente non accade (301).

2. Le radici storiche e filosofiche del fenomeno.

300() È di tutta evidenza che questa forma moderata di coercizione che, secondo l’Autore non sarebbe tortura, in realtà, è essa stessa vera e propria forma di tortura. 301() In particolare, l’A. afferma: «[…] di fronte ad un moderato, quantunque doloroso impego della forza, tutto ciò non ha nulla a che fare con un diritto penale del nemico, piuttosto si tratta semplicemente di coercizione, ma di coercizione diretta a ottenere l’adempimento di obblighi e non depersonalizzante. Certo l’adempimento degli obblighi nel processo penale non viene usualmente strappato con la forza, ma in casi eccezionali ci si può ben comportare in maniera diversa». Così, G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 128.

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Ricostruita nel dettaglio la teorica di Jakobs, appare opportuno, a questo punto,

soffermarsi sulle radici filosofiche (302) e sui precedenti storici del diritto penale del

nemico. In particolare, dal punto di vista dell’elaborazione teorica, ne sono state ravvisate

tracce addirittura in Aristotele (303) e Cicerone (304) – il quale aveva appellato i pirati come

hostes humani generis – e, via via, discendendo fino a Rousseau, Fichte, Hobbes e Kant.

Si può ritenere, infatti, che il diritto penale del nemico abbia basi filosofiche (305),

essendo scaturito, in particolare, dal giusnaturalismo del Sei-settecento (306). Più nel

dettaglio, durante l’Illuminismo giuridico, si sosteneva che la Costituzione dello Stato

sarebbe da identificarsi con il patto sociale, generato dalla transizione dallo stato di natura

allo stato civile. Il delinquente, con la commissione del crimine, si svincolerebbe dal

contratto sociale e ricadrebbe nello stato di natura.

Jakobs si rifà, quindi, a quella tradizione filosofica moderna (307) che ha riconosciuto

al diritto penale un ruolo di legittima risposta, in termini di intervento contro i nemici

della cosa pubblica, che, almeno a certe condizioni, perderebbero il ruolo ed i diritti dei

cittadini. L’Autore, infatti, esamina espressamente il pensiero di Leibniz, Fichte e Kant,

evidenziando come, per quest’ultimo, il delinquente, con la commissione del reato,

perderebbe il suo status di cittadino, quindi la sua personalità di diritto, ma non la sua

personalità innata che sarebbe, invece, incancellabile. Più nel dettaglio, lo studioso 302() Sul conetto di nemico nella filosofia del diritto e dello Stato, v. ampiamente K. AMBOS, Il diritto penale del nemico, cit., p. 31. 303() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 21. 304() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 21.305() Per una approfondita analisi della genesi filosofica del diritto penale del nemico, v. V. SCORDAMAGLIA, Il “diritto penale del nemico”, e le misure di prevenzione in Italia: a sessant’anni dalla Costituzione, in Giust. pen., II, 2008, c. 193; nonché G.P. FLETCHER, I fondamenti filosofico-giuridici della repressione del terrorismo, in M. Donini-M. Papa, Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, 2007, p. 363. 306() In tal senso, v. V. SCORDAMAGLIA, Il “diritto penale del nemico”, e le misure di prevenzione in Italia: a sessant’anni dalla Costituzione, cit., p. 203. 307() Una vasta esplicazione delle basi filosofiche di questa nuova species di diritto penale si trova in G. JAKOBS, Diritto penale del nemico, cit., p. 9.

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tedesco prende le mosse dal pensiero contrattualistico di Rousseau e Fichte, nei quali la

rottura del contratto sociale attuata con il delitto fa perdere al cittadino il suo status,

rendendolo nemico della società. Jakobs, tuttavia, rigetta questa concezione radicale che

farebbe di ogni delinquente un nemico. Egli, al contrario, ritiene più adeguata l’idea di

Hobbes e Kant che riconnettono la perdita dei diritti di cittadino solo al caso di alto

tradimento, per Hobbes, ovvero al caso di minaccia costante alla sicurezza, per Kant (308).

Poste queste premesse, è bene evidenziare come Jakobs si rifaccia principalmente al

pensiero di Hobbes (309). Quest’ultimo - come si è detto - distingue tra il cittadino che

delinque ed il reo di alto tradimento. Il primo viene condannato secondo la legge; il

secondo, invece, viene combattuto come nemico. Questa differenza di trattamento si

giustificherebbe in considerazione del fatto che il primo cerca semplicemente un singolo

vantaggio. Questo ovviamente non può essere tollerato dallo Stato, ma egli non mette

comunque in discussione il contratto sociale. Al contrario, il reo di alto tradimento

combatte contro il principio che, per Hobbes, è il potere concreto.

Nel corso del XX secolo, il diritto penale del nemico è poi transitato dall’elaborazione

meramente teorica alla manifestazione nella concreta realtà fenomenica, per mezzo di

leggi lesive dei diritti umani fondamentali (310). Questo è accaduto nel sistema comunista

sovietico e durante la dominazione nazista. Non ne è andata esente nemmeno l’Italia

fascista, ove ne sono state un esempio quelle leggi che hanno privato della cittadinanza

308() Sulle radici filosofiche della teoria del diritto penale del nemico in Günter Jakobs, v. M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, in A. Gamberini-R. Orlandi, Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, p. 142. 309() Cfr. G. JAKOBS, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, cit., p. 116. 310() In argomento, v. G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 21.

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gli esuli politici, nonché quelle norme panali speciali del 1926 in cui si parlava di difesa

dello Stato (311)

Il diritto penale del nemico non era del tutto sconosciuto neanche nell’ambito

dell’elaborazione giuridica tedesca (312). In tale ottica, le origini della teorizzazione

amico-nemico risalgono all’opera di un famoso costituzionalista d’oltralpe. Di questo ne

è conscio lo stesso Jakobs che, dichiaratamente, si rifà al pensiero di Carl Schmitt ( 313),

per poi, certo, differenziarsene, creando – come si è detto - un proprio concetto di nemico

e di diritto penale del nemico (314).

In particolare, per Schmitt il nemico era l’hostis, l’avversario esistenziale. Più

esattamente, egli distingue nettamente tra l’amico (Freund) ed il nemico (Feind). Il

nemico politico è l’altro, lo straniero. Nei confronti del medesimo, in casi di emergenza, 311() Nei mass media, invece, non era infrequente che si parlasse di «nemici dello Stato». Sul punto, v. amplius, G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, p. 21. 312() È stato efficacemente osservato (E.R. ZAFFARONI, Alla ricerca del nemico: da Satana al diritto penale cool, in E. Dolcini-C.E. Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, I, Milano, 2006, passim) come la ricerca e l’identificazione dei nemici abbia rappresentato la funzione costante del potere punitivo, nell’arco degli ultimi otto secoli. Per limitarsi agli esempi più recenti, basti pensare al marxismo in Russia, all’idealismo in Italia ed al razzismo in Germania.

In tutti e tre i regimi, infatti, i soggetti pericolosi furono assoggettati ad un sistema penale parallelo, a tribunali inquisitori o di polizia: così fu per i “parassiti” nel regime sovietico, i “subumani” nel regime fascista, i “nemici” in quello fascista. Veri e propri sistemi penali sotterranei, caratterizzati da scomparse, torture ed esecuzioni di polizia, individuali e di massa, prive di qualsivoglia base legale. La legislazione penale di questi regimi autoritari presentava solo esteriormente la facciata di un sistema penale formale ed alcuni tratti di un sistema penale parallelo. Ad un livello più profondo, tuttavia, operava un sistema sotterraneo, privo di leggi e di limiti.

In questi regimi autoritari si aveva una legislazione speciale del nemico per profonde ragioni ideologiche. Da un lato, infatti, tale legislazione penale, dal carattere autoritario e volta a reprimere l’altro, si rivolgeva agli autocrati, che gli ideatori dei testi legislativi del regime dovevano compiacere; dall’altro lato, si rivolgevano al pubblico, ai cittadini, per fini propagandistici. In via soltanto secondaria, tale legislazione era rivolta a reprimere i nemici, identificati con gli stranieri o hostes. Il carattere di tali norme era la loro spettacolarità. Il diritto penale del nemico non è, quindi, una novità assoluta: si vuole con esso stimolare nella collettività la ricerca del nemico di turno. 313() Per una compiuta ricostruzione del pensiero dell’Autore, v. C. SCHMITT, Le categorie del politico, Bologna, 1972. In particolare, circa l’elaborazione teorica di tale costituzionalista tedesco, è stato osservato in dottrina, che: «Fu Schmitt a disvelare, come nessun altro prima, l’intima essenza del potere consistente nella potestà di identificare ed escludere il nemico, lo straniero, l’hostis. Sulla base della premessa – hobbesiana – che lo Stato sia l’unica istituzione idonea a garantire la pace, affermò come ad esso competa necessariamente la facoltà di identificare ed escludere il nemico, non potendosi attribuire ad alcun soggetto terzo la potestà di decidere sul conflitto». Così E.R. ZAFFARONI, Alla ricerca del nemico: da Satana al diritto penale cool, cit., p. 770.314() Sul punto, v. supra § 1.

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sarebbe ammissibile intervenire al di là delle norme prestabilite e senza l’intervento del

giudice, quale arbitro terzo e imparziale (315). Tuttavia, secondo Schmitt, il nemico non è

non-persona, bensì colui che deve essere combattuto per ragioni riguardanti la cosa

pubblica (316).

Tra le critiche che sono state mosse nei confronti di Jakobs vi è, tra le altre, quella di

aver fatto rivivere un passato recente, per mezzo del riferimento a Carl Schmitt, filosofo e

giurista dello Stato nazionalsocialista tedesco e di aver mostrato, in tal modo,

un’implicita adesione non solo per il suo diritto penale del nemico, ma anche per la sua

ideologia. Altri (317), tuttavia, hanno escluso in radice che Jakobs possa aver avuto anche

propensione per quella ideologia, poiché egli, in realtà, è sempre stato un attento e fine

giurista.

3. Le critiche della dottrina alla concezione di Jakobs.

La concezione di Jakobs - che postula accanto al diritto penale tradizionale, ispirato ai

principi liberal-democratici dello Stato di diritto, la validità, in via generale, di un diritto

penale del nemico (318), volto all’annientamento (Vernichtung) (319) del nemico assoluto –

315() Più esattamente, secondo Schmitt, «la specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni ed i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind). Il significato della distinzione di amico e nemico è di indicare l’estremo grado di intensità di una unione o di una separazione, di una associazione o di una dissociazione. Il nemico politico è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde), per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possono venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”». Così, C. SCHMITT, Il concetto, cit., p. 108316() Sulla ricostruzione del pensiero di Schmitt, v. M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», in Cass. pen., 2006, p. 739. 317() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 22. 318() Alcuni hanno addirittura messo in evidenza come parlare di un diritto penale del nemico sia un ossimoro, poiché «la figura del nemico appartiene alla logica della guerra, che del diritto è la negazione». Così, L. FERRAJOLI, Il «diritto penale del nemico» e la dissoluzione del diritto penale, in Quest. giust., 4, 2006, p. 799.319() Così, F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, in Soc., 3, 2009, p. 18.

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è stata apprezzata nella misura in cui ha avuto il merito di riaprire il dibattito (320) circa la

generale ammissibilità di una siffatta forma di diritto penale. Tuttavia, nel merito, tale

ricostruzione è stata ampiamente criticata dalla dottrina sotto molteplici punti di vista,

primo fra tutti, sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e delle

garanzie proprie dei sistemi processual-penalistici liberali.

Innanzitutto, in dottrina è stato mostrato disappunto per le stesse premesse teoriche da

cui il penalista tedesco parte per l’elaborazione della sua teoria. Sotto tale profilo, è stato

criticato lo stesso binomio nemico/cittadino prospettato da Jakobs. In particolare, si è

320() Negli ultimi anni è proliferata, anche in Italia la letteratura sul diritto penale del nemico: T. PADOVANI, Il nemico politico e il suo delitto, in A. Gamberini – R. Orlandi ( a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, p. 73; F. MUÑOZ CONDE, Delitto politico e diritto penale del nemico, ivi, p. 85; G. LOSAPPIO, Diritto penale del nemico, diritto penale dell’amico, nemici del diritto penale, ivi, p. 251; A. CAVALIERE, Diritto penale “del nemico” e “di lotta”: due insostenibili legittimazioni per una differenziazione secondo tipi d’autore, della vigenza dei principi costituzionali , ivi, p. 265; nonché in Crit. dir., 2006, 4, p. 295; K. AMBOS, Il diritto penale del nemico, cit., p. 29; M. CANCIO MELÍA, “Diritto panale” del nemico?, in M. Donini-M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, 2007, p. 65; T. Hörnle, Dimensioni descrittive e normative del concetto di “diritto penale del nemico”, ivi, p. 105; F. MUÑOZ CONDE, Il nuovo diritto penale: considerazioni sul così detto diritto penale del nemico, ivi, p. 129; C. PRITTWITZ, “Diritto penale del nemico”, ivi, p. 139; D. PULITANÒ, Lo sfaldamento del sistema penale e l’ottica amico-nemico, in Quest. giust., 4, 2006, p. 741. In particolare, quest’ultimo Autore trae spunto dal dibattito sorto in tema di diritto penale del nemico per riscontrare la sussistenza di una logica binaria amico-nemico nell’ambito della legislazione italiana degli ultimi anni, molto al di là della mera problematica del terrorismo internazionale. In quest’ottica, per delitto penale dell’amico – che sarebbe qualcosa di ancora diverso dal diritto penale del cittadino – si dovrebbe intendere quella legislazione penale ad personam in senso lato, che si caratterizzerebbe, poiché, a differenza del diritto penale del cittadino, non sarebbe ispirata al principio di responsabilità. Esempi ne sarebbero le riforme in tema di diritto penale societario, legittima difesa (l. n. 59/2006), prescrizione (legge ex-Cirielli, n. 251/2005), reati d’opinione e diritto penale politico. Sarebbero, invece, espressione di diritto penale del nemico, quale legislazione penale contra personas, le riforme in tema di: recidiva (legge ex-Cirielli, n. 251/2005), associazioni mafiose, pedofilia, terrorismo, misure di prevenzione, omicidi colposi derivanti dalla circolazione stradale o sul lavoro, traffico o detenzione di sostanze stupefacenti. Insomma, saremmo in un’epoca del vero e proprio «diritto penale della disuguaglianza». Così D. PULITANÒ, Lo sfaldamento del sistema penale e l’ottica amico-nemico, cit., p. 746. In verità, molta parte della dottrina si è mostrata favorevole ad una logica espansiva del diritto penale del nemico, ricomprendendo nel suo ambito legislazioni del tutto diverse da quella di contrasto al terrorismo internazionale, come ad esempio in tema di recidiva, prescrizione del reato, misure alternative. In tal senso, cfr. L. EUSEBI, Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, in Arch. Giur., 2009, p. 448. Tuttavia, scopo della presente indagine è quello di analizzare in via esclusiva la problematica “del diritto penale del nemico in senso stretto” ovvero “in senso forte” (su cui v., ampiamente, infra), depurandolo da forme ibride, che “del nemico”, non sono. In quest’ottica, del resto, si è mossa la gran parte della dottrina. In tal senso, è stato efficacemente sottolineato come «l’emergenza» che mette alla prova «i diritti fondamentali» non sia quella «falsa» dei fenomeni microsociali e della paura sociale che essi generano, bensì quella derivante dal terrorismo internazionale. Così, G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, in Giur. it., p. 782.

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messo in evidenza come, in una prospettiva duale, al nemico, in realtà, non si

contrapponga il cittadino, bensì l’amico (321) e, correlativamente, al cittadino non si

contrapponga il nemico, bensì lo straniero (322). Ma nelle opere di Jakobs non vi sarebbe

alcuna traccia della contrapposizione diritto penale del nemico/diritto penale dell’amico

(323) ovvero diritto penale del cittadino/diritto penale dello straniero. Nonostante ciò, di

fatto il nemico di Jakobs sfocerebbe apertamente verso il concetto di straniero (324).

Sempre nell’ottica delle basi su cui la teoria del penalista tedesco si fonda, è stato

evidenziato (325) che, ad essere inaccettabile, - questa volta dal punto di vista della teoria

generale del diritto - è la stessa accezione di “persona” fatta propria da Jakobs

(espressione che, poi, si identifica, tra l’altro, con il concetto di “cittadino”), posto che

egli utilizza tale termine in senso atecnico. Com’è noto, infatti, per “persona”,

nell’ambito della teoria generale del diritto, si intende il titolare di diritti soggettivi e,

unica condizione per essere tale, è quella di essere uomo. Ne consegue che persone

fisiche sono tutti gli individui appartenenti al genere umano (326). Per Jakobs, invece, non

tutti i soggetti sono persone, ma bisogna distinguere, da un lato, le “persone” e, dall’altro

lato, gli “individui”: solo i primi sono titolari di diritti umani. Quindi, lo status di persona

sarebbe precondizione per veder tutelati i propri diritti fondamentali e non già per essere

semplicemente fruitore di diritti soggettivi. Sotto tale profilo, Jakobs è stato criticato (327)

anche perché, definendo il nemico “non-persona” (Unperson), egli sottintende che il

Feind possa essere spogliato di tutti quei diritti che il diritto penale tradizionalmente 321() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, in Cass. pen., 2010, p. 1460.322() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2461.323() Com’è noto, invece, il binomio amico/nemico risale a Carl Schmitt. Sul punto, v. supra § 2. 324() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2461.325() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2463.326() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2464. 327() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 22.

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riconosce alla persona, per essere addirittura trattato come “cosa”. Il che è ovviamente

inaccettabile nel moderno Stato di diritto, ove nessuno può essere privato di quelle

garanzie riconosciutegli dal diritto interno ed internazionale.

Altra parte della dottrina (328) ha messo in evidenza come, nell’elaborazione teorica di

Jakobs, non vi sia neppure corrispondenza tra la nozione generale di nemico, da un lato, e

le fattispecie concrete che poi vengono ad essa ricondotte, dall’altro. Infatti, il concetto di

nemico sembrerebbe ritagliato sulla figura del terrorista internazionale: il nemico “per

principio”, che mina in radice l’esistenza stesso dello Stato. Tuttavia, poi gli esempi di

nemico non corrispondo più al tipo di autore che ha ispirato il concetto: le misure di

sicurezza, la legislazione penale economica e sessuale, presenterebbero, infatti, solo

alcuni caratteri di diritto penale del nemico, ma in realtà – secondo questa dottrina - sono

più correttamente espressione della legislazione penale di lotta.

In tale prospettiva, è stato, quindi, sottolineato (329) come Jakobs sarebbe incorso

nell’errore di aver ricompreso nell’ambito del diritto penale del nemico anche fattispecie

che sono più propriamente espressione del diritto penale di lotta. Al contrario,

quest’ultimo sarebbe assolutamente diverso dal primo, essendo inammissibile il primo,

ammissibile a certe condizioni il secondo (330). Altri (331), invece, hanno semplicemente

evidenziato come la portata degli istituti ricondotti da Jakobs sotto il nomen di diritto

penale del nemico sia troppo estesa, avendovi fatto egli rientrare anche fattispecie che, in

realtà, con esso non hanno nulla a che vedere, come, ad esempio, le misure di sicurezza

328() M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 144.329() M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. ?. 330() Sui limiti di ammissibilità del diritto penale di lotta, v. M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 768. 331() È di tale opinione G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 22.

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personali. In tal modo, i confini del diritto penale del nemico diventerebbero troppo ampi

e, soprattutto, fumosi.

Altro errore in cui sarebbe incorso Jakobs è – ad avviso di autorevole dottrina (332) -

quello di aver contrapposto il diritto penale del nemico al diritto penale del cittadino,

come se i medesimi fossero due aree del diritto penale di uguale peso ed estensione. Al

contrario, così non può essere, perché anche a voler ammettere l’ammissibilità di un

diritto penale del nemico, questo non può che essere solo una piccola species del genus

diritto penale, occupandone, pertanto, uno spazio limitato, delimitato dall’emergenza,

poiché comunque caratterizzato dalla violazione dei diritti fondamentali dell’uomo.

La dottrina è, pertanto, pressoché unanime (333) nel rimproverare al penalista tedesco

di non essersi assolutamente preoccupato di ricercare – al di là delle mere affermazioni di

principio - i limiti di legittimità alle categorie introdotte, manifestando così indifferenza

ai profili costituzionali del problema.

Al di là delle specifiche critiche rivolte nei confronti dell’impianto di Jakobs, l’aspetto

più interessante del dibattito dottrinario sorto è stato sicuramente quello che ha

riguardato, più in generale, l’ammissibilità o meno di un diritto penale del nemico

all’interno del moderno Stato di diritto.

Sotto tale profilo, è possibile distinguere in dottrina tre diversi orientamenti. Alcuni

ritengono che il diritto penale del nemico sia assolutamente incompatibile con il diritto

penale classico, sia altro rispetto al vero e proprio diritto penale e debba, quindi, essere

bandito dagli ordinamenti giuridici di epoca contemporanea. Altri, invece, distinguono tra

un diritto penale del nemico ed un diritto penale di lotta, ritenendo ammissibile – a certe

condizioni – solo il secondo. Altri ancora ritengono che il vero e proprio diritto penale 332() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 24. 333() Ex pluribus, cfr. M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 146.

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del nemico possa trovare spazio, nel nostro ordinamento, solo in presenza di una

situazione di emergenza. In tale ottica, parte della dottrina prende atto del fatto che tale

forma di diritto è ormai diritto vigente nell’attuale momento storico e si preoccupa,

quindi, di tratteggiarne i limiti entro i quali esso possa essere ritenuto legittimo e

compatibile con i principi liberal-democratici.

La maggior parte degli Autori (334) ritiene che il diritto penale del nemico sia

assolutamente incompatibile con i principi cardine dello Stato di diritto in materia di

diritti fondamentali e di garanzie penali e processuali liberali. Di conseguenza, esso

andrebbe bandito tuot court dai moderni ordinamenti giuridici. Nell’ambito di questo

orientamento, poi, alcuni (335) precisano che non si può neanche ritenere, come fa parte

della dottrina, che fenomeni cruenti come il terrorismo internazionale possano essere

fronteggiati con gli strumenti classici del diritto penale (336), ma, essendo il diritto penale

del nemico comunque inammissibile, bisognerebbe trovare una strada ancora diversa.

Più esattamente, un diritto penale di tal fatta non potrebbe esistere, poiché il nemico

indica colui contro il quale lo Stato è in guerra, ma il diritto penale non è in guerra contro

nessuno. Pertanto, bisognerebbe respingere la dizione diritto penale del nemico (337).

334() Per la dottrina che nega in radice l’ammissibilità di un diritto penale del nemico, v. K. AMBOS, Diritto penale del nemico, cit., p. 58; nonché E.R. ZAFFARONI, El enemigo en el derecho penal, Ciudad de Mèxico, 2006, passim. Più esattamente, quest’ultimo Autore ritiene che la categoria giuridico-politica del nemico proposta da Jakobs sia incompatibile con il modello di diritto penale liberale. Infatti, ad avviso dell’A., tra Stato di diritto e Stato di polizia, non vi sarebbe un tertium genus. E ciò perché, se si cercassero dei limiti di ammissibilità al diritto penale del nemico anche all’interno del moderno Stato di diritto, si rischierebbe di sfociare in una vera e propria normalizzazione dello stato d’eccezione, con il rischio di una completa deriva autoritaria. Anche altra parte della dottrina (G. INSOLERA, Terrorismo internazionale tra delitto politico e diritto penale del nemico, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 899; nonché – in termini analoghi – ID., Terrorismo internazionale tra delitto politico e diritto penale del nemico, in A. Gamberini –R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, p. 241) è contraria alla logica del diritto penale del nemico nell’ambito della lotta al terrorismo internazionale, poiché esso costituisce la negazione dello stesso diritto penale, quale prodotto storicamente e culturalmente determinato. 335() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2467. 336() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2468. 337() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2469.

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Diverso sarebbe il discorso per il diritto penale di lotta - esempi, in Italia, ne sono la lotta

contro la mafia o il terrorismo rosso degli anni Settanta - che è, invece, ammissibile,

purché venga inteso nel senso che la lotta non è contro qualcuno, bensì “per il diritto”. In

caso di mafia, associazioni criminali e terrorismo, infatti, si tratterebbe pur sempre di una

lotta che lo Stato porta avanti contro altre istituzioni. In questa affermazione starebbe

quel po’ di verità rintracciabile nella teoria di Jakobs: il terrorista è nemico per principio,

contrapposto alle istituzioni dello Stato. Tuttavia, ad avviso di tale orientamento, Jakobs

erra nella misura in cui vede il nemico dello Stato nel singolo terrorista e non già

nell’istituzione cui questi fa riferimento (338). Ebbene, l’errore risiederebbe nel fatto di

ravvisare il diritto penale quale strumento che lo Stato può utilizzare per combattere

contro l’istituzione nemica. Al contrario, tale scopo è estraneo al diritto penale. A questi

attacchi alle istituzioni bisognerebbe rispondere in maniera che sia di volta in volta

adeguata, senza che si possa individuare aprioristicamente una soluzione valida per tutti i

tempi e tutti i luoghi. Un esempio, nell’attuale momento storio, potrebbe essere il ricorso

alla legittima difesa, secondo i dettami del diritto internazionale.

Ad avviso di un secondo orientamento (339), invece, bisogna distinguere nettamente tra

diritto penale del nemico, da un lato, e diritto penale di lotta (340), dall’altro. Il primo 338() Ibidem. 339() M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 741. 340() Secondo l’A. (M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 742), sarebbe possibile distinguere tre diverse accezioni di diritto penale del nemico. Le prime due sarebbero diritto penale del nemico solo in senso debole, poiché, in realtà, esse corrisponderebbero ad altrettante forme di diritto penale di lotta o dell’emergenza, il quale presenta solo alcuni tratti del vero e proprio diritto penale del nemico. Solo la terza accezione, invece, sarebbe vero e proprio diritto penale del nemico e, quindi, inammissibile. Tale ultima forma sarebbe, dal punto di vista dogmatico, il diritto penale del nemico elaborato da Jakobs; dal punto di vista concreto, quello vigente negli Stati Uniti. Tale forma di vero e proprio diritto penale del nemico sarebbe, quindi, inammissibile, in quanto lederebbe i diritti fondamentali dell’uomo e negherebbe quelle garanzie penal-processualistiche che il diritto penale classico assicura al delinquente e all’imputato. Settori di diritto penale di lotta sono – secondo l’A. – le misure di sicurezza personali, le emergenze criminali dipendenti da eccezionali tipi d’autore (terrorismo, mafia e criminalità organizzata), la guerra come reato e la guerra come pena. In tal caso, il diritto penale di lotta verrebbe utilizzato per colpire peculiari tipologie d’autore, secondo scopi di marcata neutralizzazione. Nella seconda accezione, il diritto penale del nemico - che è ancora, lo si ribadisce,

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sempre inammissibile, poiché incompatibile con i principi cardine del sistema penal-

processualistico liberale, il secondo ammissibile, ma entro limiti ben precisi e, del resto,

fenomeno storicamente esistente negli ordinamenti giuridici contemporanei, soprattutto

nel nostro, che è uno dei primi ad aver sperimentato forme di diritto penale di lotta fin

dagli anni Settanta (341). Più nel dettaglio, il diritto penale del nemico in senso proprio è

solo quello teorizzato da Jakobs ed affermatosi negli Stati Uniti dopo l’11 settembre

2001. Esso sarebbe assolutamente inaccettabile, poiché entra in collisione con i diritti

fondamentali dell’individuo e con le garanzie proprie degli ordinamenti processual-

penalistici liberali. Il diritto penale, infatti, è già di per sé lo strumento più autoritario di

cui lo Stato dispone per fronteggiare il fenomeno criminoso ed ha portata escludente nei

confronti del delinquente comune. Proprio al fine di evitare gli effetti negativi che tale

tipo di diritto può produrre, esso si è munito, nel corso dei secoli, di una serie di garanzie:

il diritto del nemico è, pertanto, un diritto non penale e, per questo, non dovrebbe esistere

(342). Esclusa la tollerabilità di un vero e proprio diritto penale del nemico, tale

orientamento ammette solo il diritto penale di lotta, ma entro certi limiti. In via

preliminare, sarebbe, infatti, necessario un controllo democratico su di esso, che potrebbe

attuarsi solo mediante una previsione a livello costituzionale di uno stato d’eccezione, in

diritto penale di lotta – ricomprenderebbe, invece, tutte quelle fattispecie in cui il diritto penale ordinario viene utilizzato nella sua portata stigmatizzante nei confronti di determinati fatti malvisti, per ragioni contingenti, dall’opinione pubblica: in tal caso, per colpire determinati fatti, si etichettano come nemici i loro autori.341() Si fa, in particolare, riferimento al terrorismo politico degli anni Settanta, alla mafia, alla criminalità organizzata, a Tangentopoli, all’immigrazione. Cfr. M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit. p. 135. 342() In particolare, l’A. afferma «Il diritto penale che, da sempre, è lo strumento più autoritario dello Stato, realizza forme legali di esclusione sociale. Esattamente per questo esso ha accentuato nel grado più elevato e raffinato le garanzie. Chi oggi propone di affievolirle dentro allo stesso diritto penale per meglio combattere i “nemici”, prospetta un obiettivo contraddittorio: il diritto del nemico più “efficiente”, quello che combatte o neutralizza come “non persona” […] resta non penale, perché non è costruito sul fatto, ma appunto sull’autore. […] questo tipo di diritto del nemico, oltre a non dover esistere, certo non deve comunque entrare ad inquinare, anziché a preservare surrettiziamente, le garanzie del sistema punitivo ordinario». Così, M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 758.

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virtù del quale sarebbe possibile la deroga ai diritti fondamentali ed alle garanzie

classiche dello Stato liberale (343). Dunque, per rendere legittima la legislazione penale di

lotta, sarebbe necessaria una previsione espressa di stati di eccezione, con una previa

disposizione legislativa di rango costituzionale. La legislazione di lotta, tuttavia, non

dovrebbe mai riguardare la fase del processo ed, in particolare, il dibattimento. Una

legislazione d’emergenza in diritto processuale penale potrebbe al più riguardare la sola

fase delle indagini, munendo gli organi inquirenti di strumenti investigativi più incisivi.

Nel terzo orientamento, infine, rientrano coloro i quali accantonano il problema

dell’ammissibilità in via generale di un diritto penale del nemico così come teorizzato da

Jakobs, poiché prendono atto del fatto che esso è diritto attualmente vigente negli Stati

Uniti per effetto della legislazione post 11 settembre. Depurato, quindi, il fenomeno da

forme ibride, che presentano solo taluni tratti del diritto penale del nemico e che, invece,

rientrano più correttamente nel diritto penale di lotta, costoro passano ad individuare i

limiti di legittimità entro cui il diritto penale del nemico andrebbe ricondotto per renderlo

compatibile con il moderno Stato di diritto.

Nell’ambito di questo orientamento, è stato, così, messo in evidenza (344), innanzitutto,

come il diritto penale del nemico debba essere inteso in senso omnicomprensivo, in

quanto al suo interno rientrano tanto istituti di diritto sostanziale, quanto altri di diritto

processuale ovvero penitenziario. Si è, poi, sottolineato come il sistema postulato da

Jakobs si sia affermato nella nostra epoca nell’ambito della guerra contro il terrorismo

internazionale.

343() È bene sottolineare come questo secondo orientamento si distingua nettamente dal terzo, di cui appresso si dirà. Infatti, ad avviso dell’ipotesi ricostruttiva qui esaminata, la clausola legalitaria di rango costituzionale che disciplina lo stato d’emergenza è configurata per il diritto penale di lotta e non già per il diritto penale del nemico, la cui ammissibilità è esclusa in radice. 344() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 24.

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Per quanto riguarda, inoltre, le condizioni di ammissibilità, secondo tale orientamento

(345), il diritto penale del nemico è legittimo solo se utilizzato per far fronte ad una vera e

propria esigenza difensiva e, quindi, per tutelare il bene primario della sicurezza dello

Stato (346). Conseguentemente, dovrebbe avere una durata limitata all’esigenza difensiva

da fronteggiare. Dovrebbe essere, pertanto, un diritto eccezionale, avente durata

temporanea (347). In tale ottica, è stato altresì messo in evidenza come ulteriore limite per

il diritto penale del nemico sarebbe quello della proporzionalità dell’intervento dello

Stato, ispirata, peraltro, dal principio di ragionevolezza (348).

Altri (349), invece, sono partiti dalla premessa per cui, per il giurista, non vi sarebbero

spazi di ammissibilità di un diritto penale del nemico, al di fuori delle garanzie classiche

del diritto penale comune (350). Tuttavia, posto che esso è di fatto vigente in alcuni

ordinamenti, allora sarebbe opportuno che fosse legislativamente disciplinato per evitare

345() G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 32. 346() Non sarebbe, invece, ammissibile un diritto penale del nemico, servente rispetto a motivazioni di carattere ideologico ovvero razziale. Cfr. G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 32. 347() L’A., inoltre, sottolinea come, sebbene il diritto penale del nemico sia anche diritto penale dell’emergenza, non è però vero il contrario, ossia che tutto il diritto penale dell’emergenza è anche diritto penale del nemico. Alcuni settori del diritto penale dell’emergenza, infatti, conserverebbero inalterati i caratteri del diritto penale tradizionale, come, ad es., avviene per la funzione rieducativa della pena. Cfr. G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 34. Anche altri Autori hanno messo in evidenza come il requisito di un ammissibile diritto penale del nemico debba essere la temporaneità. A tal proposito, è stata citata la sentenza della Corte costituzionale n. 15 del 1982 che, in tema di legislazione dell’emergenza, pur riconoscendo il diritto-dovere del Governo e del Parlamento ad incrementare i termini complessivi di durata della custodia cautelare, ha ritenuto requisito indefettibile la temporaneità dell’emergenza. In questi termini, v. G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 784. 348() In questi termini, cfr. G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 785. In particolare, l’A. ricava il limite della proporzionalità dalla giurisprudenza della Corte Suprema d’Israele, Stato, quest’ultimo, ove «l’emergenza è perenne». 349() F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 19. 350() Più nel dettaglio, il diritto penale del nemico è definito quale «diritto super-penale» che presenta una nuova ideologia «contraria a quella per cui il diritto penale liberale è un sistema di garanzie contro gli arbitri del potere». In questi termini si è espresso F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 18.

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«scivoloni nell’illegalità» (351). Bisognerebbe, quindi, creare una legalità ad hoc, ancorata

ad una premessa legalitaria speciale di rango costituzionale (352).

Altri, infine, hanno evidenziato come il diritto penale del nemico in senso proprio sia,

in realtà, un non-diritto, poiché si pone al di fuori dell’assetto di garanzie tracciato dalla

nostra Costituzione e degli obblighi imposti dai trattati internazionali (353). Esso viola i

diritti inderogabili dell’uomo, diventando vero e proprio strumento di annientamento del

destinatario e tale fenomeno è ancor più preoccupante nella misura in cui si manifesta, al

di là di regimi totalitari, all’interno dei moderni Stati di diritto. Esso, dunque, sarebbe

ammissibile solo in presenza di una clausola che disciplini - a livello costituzionale – lo

stato d’eccezione o lo stato d’emergenza (354), al pari di quanto avviene in altri

ordinamenti (355), ove, proprio in virtù di essa, è possibile derogare a taluni diritti

fondamentali, solo ad essi e non a tutti gli altri, diversi da quelli legislativamente

individuati che, quindi, rimangono invalicabili (356).

351() F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 19. 352() In particolare, è stato osservato a tal proposito che «[…] proprio per evitare scivoloni nell’illegalità, si potrebbe ancorare la costruzione settoriale di un super-diritto penale dalla parte della vittima a una premessa legalitaria speciale, meglio se di rango costituzionale. […] se per il successo [nella lotta al terrorismo] è di ostacolo rimanere nella legalità della strategia di contrasto alla criminalità comune, allora occorre creare una legalità ad hoc». Così F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 19. 353() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 25.354() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 26. 355() A tal proposito, l’A. precisa come all’interno del nostro ordinamento manchi una norma costituzionale che disciplina gli stati d’eccezione. Una clausola espressa è prevista solo in caso di guerra difensiva ed è certamente insufficiente a rendere eventualmente legittimo un diritto penale del nemico. In tal senso, v. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 26. 356() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 28.

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4. Le classificazioni dottrinarie in tema di diritto penale del nemico.

Come abbiamo visto, Jakobs fa propria una nozione ampia di diritto penale del

nemico, in quanto ricomprende al suo interno non solo la disciplina volta

all’annientamento del terrorista, quale nemico assoluto, ma anche quella contro il nemico

parziale, espressione del diritto penale di lotta. Tale accezione – lo si è anche visto – è

stata ampiamente criticata dalla dottrina, la quale ha evidenziato come in tal modo si

rischi di far diventare i confini del diritto penale del nemico troppo ampi e fumosi.

Poste tali premesse, è facile comprendere come in dottrina siano emerse diverse

accezioni di nemico e di diritto penale del nemico. In particolare, è stato messo in

evidenza (357) l’emergere di un concetto di nemico in senso debole, in contrapposizione

ad uno, invece, in senso forte. In tale ottica, è stato, peraltro, precisato (358) che il nemico

del diritto penale del nemico è il nemico pubblico (hostis) (359), ossia il nemico delle

istituzioni, della società, dello Stato, il quale si colloca in una prospettiva di rottura

definitiva del patto sociale, e non già, invece, il mero avversario privato (inimicus).

Nemico in senso debole è, quindi, colui il quale presenta ancora i caratteri del mero

criminale. In tale prospettiva, il nemico viene individuato in colui che viola in modo

continuativo le comuni norne di convivenza, ma che non appartiene, però, ad una data

collettività organizzata che si contrappone a quella dei cittadini, come accade invece per

357() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 13. 358() In tal senso, cfr. M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 738. 359() Così anche F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 18. In particolare, l’A. si è espresso nei seguenti termini «La teoria del cd. diritto penale del nemico esclude che il terrorismo sia un reato comune, perché ravvisa in esso un atto di guerra non dichiarata ma di fatto in corso; dunque, la belligeranza esclude che il terrorista possa essere considerato un civis dal momento che è di fatto un hostis; contro di lui serve più imperium e meno jurisdictio e se lo si considera una non-persona si può non riconoscergli la generale garanzia dei diritti umani. L’obiettivo di questa teoria è dunque l’annientamento – Vernichtung – del nemico».

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l’accezione di nemico in senso forte. Nell’ottica debole, infatti, i singoli nemici

mantengono la loro individualità ed autonomia gli uni con gli altri, venendosi a creare tra

di essi solo un legame ex post, derivante dall’appartenenza degli stessi alla categoria.

Secondo l’accezione debole, quindi, il nemico da combattere viene individuato di

volta in volta secondo criteri diversi, ma egli esprime pur sempre un tipo di criminalità

reiterata, avente elevato allarme sociale e, proprio per questo, da stigmatizzare. Sono,

pertanto, qualificati nemici gli autori di reati aventi una certa ricorrenza statistica, come,

ad esempio, gli spacciatori e gli autori di violenza negli stadi, nei confronti dei quali si

deve intervenire come nemici. Oppure si considerano nemici coloro i quali commettono

fatti contrassegnati da particolare disvalore sociale, come gli autori di reati sessuali su

minori. Sono considerati nemici, inoltre, quei soggetti pericolosi, in virtù di un loro

status, come gli immigrati, oppure in forza del loro modus vivendi, come accade per i

recidivi, i delinquenti abituali o per tendenza (360).

Il concetto di nemico in senso forte, invece, presuppone l’adesione ad un gruppo di

persone che mette in discussione l’esistenza di una data comunità ed esprime quindi i

caratteri di una comunità alternativa. In tale ottica, il concetto di nemico assume una

valenza selettiva, in quanto designa l’appartenenza dell’individuo ad una categoria di

soggetti che sono organizzati e diretti a dissolvere l’esistenza stessa della comunità

precostituita. Pertanto, solo se si aderisce alla collettività si appartiene alla categoria del

nemico, secondo una qualificazione ex ante.

Ne consegue che nemico in senso forte è colui che appartiene a forme di criminalità in

vario modo organizzata, che si contrappone all’ordinamento giuridico precostituito,

contestandone la sua stessa esistenza. In tale ambito, si può ulteriormente distinguere tra 360() Così, R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 15.

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quelle organizzazioni che, nonostante il perseguimento di scopi illeciti, continuano

comunque ad integrarsi con lo Stato e con le sue istituzioni, come accade nel caso di

organizzazioni mafiose. Dall’altro lato, invece, vi sono quelle organizzazioni dirette

all’annientamento dello Stato stesso, in quanto si fanno portatrici di un sistema di valori

alternativo e contrapposto, com’è, appunto, in caso di terrorismo internazionale.

Correlativamente, è stato messo in evidenza (361) come a tali diverse accezioni di

nemico corrispondano, nella sostanza, tre diverse accezioni di diritto penale del nemico.

Una prima, per così dire, debole, in cui il diritto penale del nemico altro non è se non il

diritto penale tradizionale, caratterizzato però da una maggiore esaltazione della

componente preventiva e, conseguentemente, da una prima forma di tensione con i

principi di garanzia. Una seconda accezione, invece, si basa già su un concetto forte di

nemico e con essa si indica il diritto penale dell’emergenza, in parte derogatorio rispetto

ad alcune garanzie classiche del diritto penale. La terza accezione, invece, indica forme di

diritto penale che tendono all’annientamento del nemico/criminale assoluto, violano i

diritti fondamentali e sono, quindi, discipline non giuridiche. La prima forma si muove

nel pieno rispetto dei diritti della persona; la seconda deroga ad alcuni diritti

fondamentali; la terza prescinde del tutto dalle garanzie, degrada la persona ad individuo

e, perciò, non è neppure diritto (362).

Tradizionalmente, il diritto penale classico, quello pienamente garantista, è sempre

stato tipico degli ordinamenti pluralisti e democratici (363). Il diritto penale del nemico,

361() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 59. 362() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 60. 363() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 60.

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invece, si è manifestato negli ordinamenti assoluti e nei regimi totalitari (364), nei quali si

è giunti, addirittura, alla consapevole violazione dei diritti umani (365). La novità

dell’attuale fase storica (366) risiede, quindi, nel fatto che il diritto penale del nemico si è

manifestato non già all’interno di regimi totalitari, bensì nell’ambito di sistemi pluralisti e

democratici che avrebbero dovuto caratterizzarsi, invece, per un diritto penale mite (367).

Ciò è potuto accadere proprio in ragione delle peculiarità del fenomeno del terrorismo

internazionale. Il terrorista, infatti, contesta in maniera assoluta i valori, attacca al cuore

le istituzioni democratiche e l’ordinamento giuridico, per riaffermare tali valori, ha

ritenuto opportuno ricorre al diritto penale del nemico (368).

5. Il contenuto del diritto penale del nemico.

364() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 60. 365() Anche F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 473 ha messo in evidenza come, storicamente, il diritto penale del nemico abbia costituito la regola e non già l’eccezione negli «Stati non di diritto», con tale espressione intendendosi sia il “vecchio” Stato monarchico assoluto, sia i “nuovi” Stati totalitari e dittatoriali. 366() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 61. 367() F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, cit., p. 477. 368() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 62.

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È stato messo in evidenza (369) come, dal punto di vista contenutistico, il diritto penale

del nemico si caratterizzi per: l’irrogazione della pena di morte senza possibilità di

rimedio, impugnazione ovvero riesame della decisione; detenzione del prigioniero a

tempo indeterminato; previsione ed applicazione di pene o misure di sicurezza

sproporzionate rispetto al fatto ed alla pericolosità dell’agente; regime penitenziario

inumano; potere assoluto di indagine senza controllo giudiziario. Altri (370), invece, hanno

sottolineato come caratteri del diritto penale del nemico siano: la pena di morte, il terzo

strike, la tortura, le detenzioni amministrative segrete, il regime carcerario duro ed il

differenziamento in funzione di neutralizzazione; la mancanza o l’elusione dei controlli

giurisdizionali (371). Altra parte della dottrina (372) ha, infine, evidenziato come, oltre ai

369() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 2460; nonché G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 34-35. In particolare, quest’ultimo Autore ha evidenziato come i contenuti del diritto penale del nemico, che lo distinguono dal diritto penale tradizionale, siano i seguenti: «irrogazione della pena di morte senza possibilità di rimedio, impugnazione o riesame; detenzione del prigioniero a tempo indeterminato, sia che si tratti di carcerazione preventiva in vista di un futuro processo penale (che si farà o non si farà) o di quella che taluno chiama la detenzione esecutiva o che addirittura sia assunta come misura militare di internamento o a qualunque altro titolo; previsione (e applicabilità) di pene o misure di sicurezza assolutamente sproporzionate rispetto all’entità del fatto al grado di pericolosità del soggetto; regime penitenziario inumano caratterizzato dalla incomunicabilità totale del prigioniero con l’ambiente esterno e privazione totale di assistenza difensiva, tortura sia punitiva che diretta a raccogliere confessioni o informazioni; poteri assoluti di indagine riservati a servizi facenti capo alla sola amministrazione senza lo spiraglio di qualsivoglia controllo giudiziario». 370() M. DONINI, Diritto penale di lotta. Ciò che il dibattito sul diritto penale del nemico non deve limitarsi a esorcizzare, in Studi sulla questione criminale, 2007, p. 65. 371() Altra parte della dottrina, invece, ha evidenziato come il diritto penale del nemico presenti caratteristiche peculiari rispetto al diritto penale classico o tradizionale sotto il profilo della formulazione della fattispecie, nonché sotto il profilo sanzionatorio, processuale, penitenziario e preventivo. In tale ottica, è stato affermato (F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, cit., pp. 471-472) che tale forma di diritto si caratterizza: «1) sotto il profilo delle fattispecie, nell’anticipazione della tutela secondo i modelli dei delitti di attentato, di pericolo indiretto o presunto (con conseguente incriminazione anche di condotte inidonee a generare situazioni di pericolo per i beni giuridici), dei delitti di associazione e a dolo specifico di offesa (ove il disvalore si esaurisce nella mera finalità propostasi dall’agente); 2) sotto il profilo sanzionatorio, nella esemplarità della pena e nella prevalenza della segregazione e neutralizzazione del reo su ogni istanza dialogico-rieducativa; 3) sotto il profilo processuale, in certe distorsioni in materia di perquisizioni, sequestri, confische, intercettazioni, misure cautelari personali, di garanzie probatorie, in accelerazione dei tempi processuali, in meccanismi di pressione-compensazione verso forme di collaborazione; 4) sotto il profilo penitenziario, nella sottoposizione a regime di sorveglianza speciale e nella non applicazione delle misure alternative o riduttive della detenzione; 5) sotto il profilo preventivo, nella applicazione delle misure di prevenzione, personali e patrimoniali ». 372() F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 18.

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succitati caratteri, il diritto penale del nemico si contraddistingua anche per il sacrificio

che esso comporta alla libertà dei cittadini, quali la libertà di locomozione ovvero la loro

privacy (373).

La maggior parte degli Autori (374) ritiene che tratto significativo del diritto penale del

nemico sia quello di essere un vero e proprio diritto penale d’autore (375): il nemico è

annientato per il semplice fatto di appartenere alla categoria di soggetti stigmatizzata

dall’ordinamento, molto prima e, addirittura, a prescindere dalla commissione di un fatto.

Evidente è quindi il richiamo, sotto tale profilo, al “tipo normativo d’autore” (Tätertyp),

proprio del modello penale dello Stato nazionalsocialista tedesco.

Tale impostazione, tuttavia, è stata criticata da dottrina minoritaria, secondo la quale

(376), invece, il diritto penale del nemico non presenta i tratti del diritto penale d’autore.

Al contrario, presenterebbe i caratteri di un ”reato proprio” (377), ossia di quella tipologia

373() Più nel dettaglio, circa la ratio che ispira il sacrificio dei diritti dei “cittadini” nella lotta contro il terrorismo internazionale, è stato osservato quanto segue: «Dunque, l’emergenza di un male particolarmente virulento ha prodotto l’esigenza di incrementare le strategie giuridiche difensive e di rafforzare l’armamentario dissuasivo, che risulti costituito da garanzie affievolite, dalla penalizzazione del sospetto, da regimi detentivi speciali. […] anche qui la penalizzazione si giustifica come extrema ratio, perché per la collettività i beni aggrediti da quel male risultano irrinunciabili e dunque la loro protezione deve essere rafforzata. Nel caso del terrorismo – che è il male demonizzato – l’extrema ratio, unita alla ragion di Stato dell’esigenza di sicurezza, consente addirittura il sacrificio dei beni dei cives – la loro libertà di locomozione, ad esempio, o parte della loro privacy -: così al male si oppone un altro male, ma questo male minore si giustifica in quanto strumentale rispetto all’eliminazione del male primario». In questi termini, cfr. F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 18374() Sul punto, v. L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico”: un’abdicazione della ragione, cit., p. 167; M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 760; F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale , cit., p. 471; Allo stesso risultato, del resto, sono giunti anche altri Autori. Si fa, in particolare, riferimento a MUÑOZ CONDE, Delitto politico e diritto penale del nemico, in A. Gamberini-R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, p. 90; G. FIANDACA, Diritto penale del nemico. Una teorizzazione da evitare, una realtà da non rimuovere, ivi, p. 183; D. PULITANÒ, Il problema del diritto penale del nemico, fra descrizione e ideologia, ivi, p. 233. 375() Fra tutti, v. G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 20. Il quale, in particolare, evidenzia che: «Una nuova forma quest’ultima [il diritto penale del nemico] di diritto penale d‘autore dominata dall’ossessione per la pericolosità del soggetto e dalla volontà di estirparlo». 376() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 6 (?).377() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 7. In particolare, l’A. afferma: «Del resto, se si ripercorrono con attenzione le cadenze argomentative di Jakobs, ci si accorge che – a dispetto delle apparenze legate alla dizione “diritto penale del nemico” mai

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di reati che ai fini della loro integrazione richiedono, oltre alla commissione di un fatto,

anche una specifica qualità del suo autore (378). Il diritto penale del nemico, infatti,

accanto alla tipicità del fatto, richiederebbe anche la tipicità del suo autore.

Coloro i quali, invece, distinguono tra un’accezione debole ed un’accezione forte di

nemico ritengono poi che, alle due diverse accezioni di diritto penale del nemico (379),

corrisponda una diversità contenutistica. Ne consegue che il diritto penale del nemico in

senso debole si differenzierebbe dal diritto penale classico dal punto di vista quantitativo,

ossia per il quantum di garanzie che vengono compromesse (380); il diritto penale del

nemico in senso forte, invece, si distinguerebbe dal diritto penale liberale dal punto di

vista qualitativo (381). In tale ottica, esso è qualcosa di radicalmente diverso rispetto al

diritto penale che si è affermato dall’Illuminismo in poi.

Il diritto penale del nemico in senso debole, infatti, sarebbe ancora funzionale alla

prevenzione generale e alla prevenzione speciale, come accade per il diritto penale

comune. Esso, quindi, si differenzierebbe dal diritto penale tradizionale solo per una

maggiore anticipazione della tutela (382), una pena maggiormente afflittiva ed un

la tipicità del fatto vi è sostituita da una tipicità dell’autore. Le due tipicità sono affiancate: il diritto penale del nemico si configura quando un fatto tipico (per es., una strage) è commesso da un autore tipico (per es., il terrorista). Ma, allora, dal punto di vista dogmatico si delinea una figura ben nota agli studiosi del diritto penale, e concordemente accettata: quella del “reato proprio”, ossia del reato che richiede, oltre alla commissione di un fatto, anche una specifica qualità del suo autore». L’A. poi prosegue evidenziando che i reati propri del diritto penale del nemico sono reati propri a struttura diretta (fatti tipici commessi da soggetti che rivestono una qualità determinata per altra via). Perciò, a voler dar credito alla teorica del diritto penale del nemico, si avrebbero nuove ipotesi di reato proprio a struttura diretta, ma non già scivolamenti verso un diritto penale d’autore. 378() Sul reato proprio, v. tra gli altri E. BOZHEKU, L’infanticidio. Spunti e rilievi di parte generale, Napoli, 2012, p. 77 e ss.379() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 10. 380() In questo senso, v. F. PALAZZO, Contrasto al terrorismo, diritto penale del nemico e principi fondamentali, in Quest. Giust., 4, 2006, p. 675; 381() Ibidem. 382() Autorevole dottrina ha, invece, messo in evidenza come il carattere dell’anticipazione della tutela non sia caratteristica propria del diritto penale del nemico, poiché essa è usualmente riscontrabile nell’ambito del diritto penale tradizionale, come ad esempio le fattispecie di cui agli artt. 460 e 461 c.p. (Contraffazione di carta filigranata in uso per la fabbricazione di carte di pubblico credito o di valori di

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affievolimento delle garanzie processuali (383). Sotto il profilo della pena, in particolare,

la maggiore afflittività si sostanzierebbe sia nel quantum - sproporzione nel momento

della comminatoria edittale e nel momento della commisurazione - sia in regimi di

esecuzione particolarmente rigorosi. Inoltre, sarebbe possibile registrare un amento delle

misure di sicurezza e delle misure di prevenzione (384). Sotto il profilo della struttura del

reato, vi sarebbe un incremento dei reati di pericolo astratto e presunto, volti a punire atti

meramente preparatori. L’attenuazione delle garanzie processuali, invece, si

manifesterebbe sia sotto il profilo delle misure cautelari personali, la cui funzione

verrebbe distorta in quella di prevenire la commissione di reati, sia sotto il profilo

dell’attenuazione delle garanzie difensive, come, ad esempio, tramite la previsione di

tecniche investigative particolarmente invasive, volte ad assicurare il buon esito delle

indagini (385).

Il diritto penale del nemico in senso forte, invece, presenta caratteristiche ben diverse

che lo rendono altro rispetto al diritto penale tradizionale. La pena non svolgerebbe più la

sua funzione di prevenzione generale e speciale, ma degraderebbe a vera e propria

neutralizzazione della pericolosità sociale, sulla base della mera appartenenza del reo a

determinate categorie di persone ovvero sulla base del compimento di singoli atti ben

lontani dalla fase esecutiva. Sul piano della struttura del reato, verrebbero meno la

materialità e la colpevolezza, giungendosi alla incriminazione sulla base della mera

bollo ovvero fabbricazione o detenzione di filigrane o di strumenti destinati alla falsificazione di monete, di valor di bollo o di carta filigranata). In particolare, l’A. afferma: «Come si fa ad includere nel supposto diritto del nemico la cosiddetta anticipazione della soglia di tutela (o di punibilità)? I reati autonomi di preparazione sono sempre esistiti e lo sono sulla base di una logica di normalità penale». Così, G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 33. 383() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 11. 384() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 11. 385() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 11.

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manifestazione del pensiero ovvero sulla base della mera associazione (386). Sul piano

processuale, si avrebbe poi una vera e propria degiurisdizionalizzazione, nel senso che la

competenza a giudicare di reati commessi dal nemico in senso forte verrebbe attribuita ad

autorità non giudiziarie, di nomina esecutiva.

Una delle caratteristiche salienti del diritto penale del nemico in senso forte è, quindi,

la degiurisdizionalizzazione. Nel senso che la reazione da parte dell’ordinamento è

inflitta non già da parte dell’autorità giudiziaria, ossia da un soggetto terzo rispetto alle

parti in causa, bensì dall’autorità amministrativa, ossia da una delle parti in conflitto che

assume essere dalla parte del giusto. Infatti, nel momento in cui la ratio del diritto penale

del nemico è l’annientamento del nemico assoluto, non è più necessario un processo da

parte di un organo terzo ed imparziale, essendo sufficiente un soggetto, anche parte

dell’esecutivo, che vada o scovare il nemico.

Il vero e proprio diritto penale del nemico è, dunque, solo quello in senso forte (387).

Nell’accezione debole di diritto penale del nemico, infatti, è ancora possibile ravvisare le

funzioni preventive proprie del diritto penale comune e, in tale ottica, esso si pone ancora

in una prospettiva dialogica con il reo. Al contrario, invece, il vero e proprio diritto

penale del nemico ha portata escludente, in quanto ha l’obiettivo di neutralizzare il

nemico.

386() R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 12. 387() Altri, invece, mettono in evidenza come dal diritto penale del nemico in senso stretto vadano espunte discipline che, talvolta, la dottrina ad esso riconduce. Infatti, non avrebbero nulla a che vedere con il vero e proprio diritto penale del nemico: le misure di sicurezza personali, il diritto penale della recidiva, la legislazione penale in materia di detenzione di sostanza stupefacenti per uso personale, delinquenza a sfondo sessuale. Secondo tale orientamento, invece, rientrerebbero nel diritto penale del nemico le legislazioni adottate per reprimere fenomeni quali: la «criminalità organizzata, in forma associativa, [di] mafia, narcotraffico e terrorismo», nonché la «legislazione sull’emigrazione». In questi termini, si è espresso F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, cit., passim.

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6. Il diritto processuale penale del nemico.

In una visione classica, il processo è un mezzo di accertamento dei reati e di

individuazione degli autori (388). Nell’ottica di un diritto penale del nemico, invece, anche

il processo penale – lo si è visto – diventa strumento per l’annientamento del nemico

assoluto. Strumenti tipici del diritto processuale penale del nemico (389) sono, quindi,

l’attribuzione di un potere assoluto di indagine agli organi di polizia, al di fuori di ogni

controllo giudiziario; l’applicazione della custodia cautelare in funzione preventiva ed a

tempo indeterminato; la negazione del diritto di difesa nei confronti dell’arrestato, previa

limitazione dei colloqui con il suo avvocato; la degiurisdizionalizzazione, nel senso che

l’accertamento del fatto e della responsabilità dell’accusato è compito assegnato ad

organi amministrativi, di nomina esecutiva, e non già all’autorità giudiziaria. L’aspetto

che, più di tutti, preme evidenziare nella presente indagine è quello relativo all’uso della

tortura, quale tecnica di interrogatorio, ossia quale strumento per estorcere informazioni

dal singolo arrestato, e quale strumento di indagine, al fine di prevenire e reprimere la

commissione di reati che il terrorista - o sospetto tale - aveva programmato.

6.1.Segue. La tortura.

388() M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 775. 389() Sui riverberi processuali del diritto penale del nemico, v. R.E. KASTORIS, Processo penale, delitto politico e «diritto penale del nemico», in Riv. dir. proc., 2007, p. 7; G. SANTALUCIA, Processo, ordine pubblico e sicurezza, in Quest. giust., 4, 2006, p. 761; N. ROSSI, Ordine pubblico, apparati della sicurezza, sistema giudiziario, ivi, p. 813; L. PEPINO, La giustizia, i giudici e il «paradigma del nemico», ivi, p. 844. Per i risvolti nell’ordinamento giuridico statunitense, cfr., M. BOUCHARD, Guantanamo. Morte del processo e inizio dell’apocalisse, in Quest. giust., 5, 2003, p. 1012.

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Ancora una volta, una tale forma di manifestazione del diritto penal-processuale del

nemico ha trovato concreta estrinsecazione nel “modello Guantánamo”. Al riguardo, la

dottrina – statunitense e non solo – si è, quindi, interrogata sulla legittimità ed

ammissibilità di un siffatto strumento d’indagine per estorcere informazione dai terroristi

già segregati e scampare così gli attentati che essi avevano o stavano ideando con altri.

Parte della dottrina statunitense (390) ha proposto addirittura di introdurre un «mandato

di tortura» sotto il controllo giurisdizionale. Tale misura sarebbe servita – a dire di detta

dottrina – a limitare l’impiego di tali mezzi, di fatto già praticati, e renderli così più

controllabili ed utili nei confronti di forme estreme di terrorismo. L’idea sarebbe quella di

ricorrere a forme blande di tortura, puramente dolorose (ad es., aghi sterili sotto le

unghie) su terroristi, in caso di minacce gravi e attuali alla vita di più persone, evitabili

appunto con l’impiego di tali mezzi (391). È il caso della ticking time bomb di Jeremy

Bentham, già da tempo elaborato per legittimare forme di moderata pressione fisica ed

indurre così il terrorista a confessare dove si trovi la bomba già innescata e che senza

quella informazione esploderebbe, provocando molti morti (392). In una logica di diritto

processuale penale del nemico non si ipotizza, certo, una tortura generalizzata, bensì solo

contro il terrorista - e, quindi, nei confronti del nemico di tutti per salvare molti innocenti

-, comunque, sempre secondo una logica di extrema ratio (393), di selettività chirurgica, di

rigorosi controlli giudiziari sull’operato della polizia.

Tale posizione, tuttavia è stata ampiamente criticata non tanto e non solo poiché

prospetta la generale ammissibilità della tortura nel moderno Stato di diritto, ma anche e

soprattutto poiché a tale affermazione di principio non fa seguito una delimitazione della 390() A.M. DERSHOWITZ, Why Terrorism works (2002), tr. it. Terrorismo, Roma, 2003, pp- 125-155. 391() M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 159. 392() M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 160. 393() M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 161

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stessa entro spazi ben precisi, quali sarebbero potuti essere uno stato di necessità statale,

la configurazione come scriminante speciale proceduralizzata ovvero l’espressa

previsione di una procedura ad hoc.

In ogni caso, prevedendo una tortura solo per il terrorista si corre il rischio, ancor più

grave, che poi tale tecnica di interrogatorio trovi un campo di applicazione più ampio,

anche nella normalità dei casi della vita quotidiana (394).

A tal proposito, è bene rammentare come proliferino le fonti internazionali che

contemplano il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti e, a volerne citare

qualcuna, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta (395). Senza tralasciare, peraltro, le fonti

interne che hanno recepito tale principio ed il correlativo divieto, com’è, all’interno del

nostro ordinamento, per l’art. 13, comma 4, della Costituzione (396). Del resto, nel

dibattito occidentale sviluppatosi a seguito dell’11 settembre, non si è discusso tanto

dell’esistenza di tale principio e del relativo divieto, bensì della sua assolutezza. In altri

termini, ci si è chiesti se tale principio possa subire delle eccezioni, dovute allo stato di

necessità. La conclusione, tuttavia, non può che essere una sola: il divieto di tortura non

può che essere assoluto ed inderogabile, posto che la dignità umana, che esso tutela, ha

valore assoluto.

394() Esempio emblematico è il “caso Daschner” verificatosi a Francoforte nel 2002. Il figlio undicenne di un banchiere fu rapito. Fu arrestato il suo autore che non rivelava il luogo dove era ristretto il ragazzo. Nell’ottica di poter ottenere le rivelazione di tale luogo il capo della polizia di Francoforte (Daschner) autorizzò la minaccia di tortura, che è già tortura essa stessa, in quanto opera sul piano psicologico. Il sequestratore, a quel punto, rivelò il luogo dove era segregato il ragazzo, ma troppo tardi poiché il medesimo era già morto, essendo stato ucciso subito dopo il rapimento. M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, cit., p. 161. 395() L’art. 5 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo del 1948, l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, l’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984 (ratificata in Italia con l. 3 novembre 1988, n. 498), l’art. 5, comma 2, della Convenzione americana sui diritti umani. Sul punto, v. M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 773. 396() Com’è noto, la disposizione in esame prevede che «È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».

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Limitandosi al nostro ordinamento, nell’ambito del dibattito italiano sono state

assunte a tal riguardo due diverse posizioni (397). Secondo alcuni sarebbe ammissibile

produrre un danno ad una sola persona, il terrorista, per tutelare tutti gli altri individui.

Secondo la maggior parte della dottrina, al contrario, una tale soluzione è inammissibile

(398). In tale ottica, c’è chi (399), per legittimare la tortura, ha prospettato la possibilità di

far ricorso alla scriminante di cui all’art. 54 c.p. In realtà, - è stato immediatamente

precisato - il ricorso a tale norma non sarebbe praticabile. Ammettendo l’operatività in

tale ambito dell’art. 54 c.p., infatti, in primo luogo, verrebbe disconosciuto il contenuto

precettivo della Convenzione sulla tortura. In secondo luogo, lo stato di necessità non

sarebbe invocabile dallo Stato e dai suoi organi. Lo Stato, infatti, già dispone del

monopolio giuridico dell’uso della forza e, dunque, non può invocare la necessità, posto

che, potenzialmente, esso può già avvalersi di tutta la forza necessaria.

7. Il rispetto dei diritti fondamentali.

Così tratteggiati i caratteri essenziali del diritto penale del nemico in senso ampio -

ossia comprensivo del diritto sostanziale, processuale e penitenziario (400) - ed in senso

forte – in quanto tendente all’annientamento del nemico assoluto - appare di tutta

evidenza quali siano i diritti fondamentali dell’uomo che tale forma aberrante di diritto va

a ledere. Esso attenta, da un lato, ai diritti fondamentali dell’individuo che intende

397() Sul punto, v. F.R. FULVI, I terroristi: criminali o nemici?, in Arch. pen., 2009, p. 87. 398() G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 784; L. EUSEBI, Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, cit. p. 447. 399() M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 771. 400() F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, cit., p. 472.

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neutralizzare, dall’altro lato, però, anche a quelli del cittadino che vuole proteggere. Sotto

quest’ultimo punto di vista, infatti, lo Stato, al fine di tutelare il bene primario della

sicurezza contro attentati provenienti dal mondo esterno, dal terrorista islamico, ritiene

sia un sacrificio tollerabile quello della libertà dei propri cittadini. In quest’ottica, il

diritto penale del nemico lede la loro libertà di movimento, di associazione ed il loro

diritto alla riservatezza, come tutt’ora avviene in quasi tutti i Paesi occidentali sulla scorta

delle legislazioni adottate post 11 settembre, e, in casi estremi, anche il diritto alla vita ed

alla dignità umana dei cittadini, come avvenuto in Germania per effetto della

Luftsicherheitsgesetz.

Dal punto di vista del nemico, invece, il diritto penale del nemico si pone in contrasto

con il diritto alla vita e alla dignità umana, con il diritto alla libertà personale, con il

diritto di difesa ed il diritto ad un equo processo. E, ciò, nella misura in cui: si dà ingresso

a forme blande di tortura; si consente la privazione della libertà personale in via

amministrativa, senza formale accusa, a tempo indeterminato e senza possibilità di

controllo da parte dell’autorità giudiziaria; si istituisco Tribunali militari ad hoc e si nega

all’incarcerato di comunicare con il suo difensore, come avvenuto in parte nel Regno

Unito e come avvenuto e tutt’ora avviene negli Stati Uniti.

In una prospettiva più generale, peraltro, il diritto penale del nemico potrebbe porsi

potenzialmente in contrato con tutti i diritti fondamentali dell’uomo, posto che, secondo

la teoria di Jakobs, il nemico è non-persona e, in quanto tale, privo di qualsivoglia diritto

umano. In tale ottica, quindi, in una futura legislazione, dettata da ignote contingenze

storiche, egli potrebbe venir privato di ogni diritto, anche altri e diversi rispetto a quelli di

cui, in base alla legislazione vigente, egli è già stato privato. Secondo Jakobs (401), infatti,

401() G. JAKOBS - M. CANCIO MELIÁ , Derecho penale del enemigo, Madrid, 2003, p. 51. 150

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il limite dei diritti fondamentali non può essere opposto nei confronti di coloro che li

violano, come fanno appunto i nemici.

A questo punto, però, bisogna domandarsi se i diritti fondamentali possano essere essi

stessi violati allo scopo di tutelarli. Il rischio che si corre, infatti, per fronteggiare il

terrorismo internazionale, è che vengano travolti i valori stessi su cui le democrazie

contemporanee si fondano. La risposta a tale interrogativo non può che essere negativa

(402) nel moderno Stato di diritto, ispirato a principi liberal-democratici, e nell’attuale

ordinamento giuridico internazionale, ove proliferano le Convenzioni a tutela dei diritti

umani (403). Infatti, qualsiasi ordinamento costituzionale non può rinunciare ad

individuare una soglia minima di garanzie a protezione dell’individuo in quanto tale (404).

I diritti inviolabili spettano a ciascun individuo in virtù della sua mera esistenza in vita,

sono “riconosciuti” dall’ordinamento giuridico quali diritti ad esso preesistenti e, proprio,

per tale motivo, sfuggano a qualsiasi logica potestativa. In tal senso, del resto, si esprime

anche la nostra Costituzione che, all’art. 2 e 3, rispettivamente, riconosce i diritti

inviolabili dell’uomo ed esprime il principio di uguaglianza il quale, in senso sostanziale,

vuol dire appunto che tutti sono uguali, poiché la titolarità dei diritti umani ha come

unico presupposto l’essere uomo.

Anche nell’ottica della lotta al terrorismo internazionale, quindi, non ci si può

distaccare dalle acquisizioni proprie della civiltà giuridica che si è andata affermando nei

402() Sull’invalicabilità del limite dei diritti fondamentali nel moderno Stato democratico, anche dinnanzi alla logica del “nemico”, v. G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 783, nonché L. EUSEBI, Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, cit., p. 436. 403() M. DONINI, Il diritto penale di fronte al «nemico», cit., p. 755; nonché F. RAMACCI, Male penale versus male sociale, cit., p. 18. 404() G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 782.

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millenni e soprattutto negli ultimi secoli, grazie alle conquiste dell’illuminismo in tema di

diritti umani.

8. Le garanzie processual-penalistiche dei sistemi penali liberali.

Il diritto penale del nemico - lo si è visto – viola anche alcuni dei principi cardine dei

sistemi processual-penalistici liberali (405). Esso, in particolare, si pone in stridente

contraddizione con i principi di legalità, determinatezza, tassatività, offensività e

necessaria materialità del reato, colpevolezza e personalità della responsabilità penale,

nonché con le funzioni della pena, retributiva e di prevenzione generale e speciale (406).

Più nel dettaglio, collide con il principio di necessaria determinatezza della fattispecie

penale, nella misura in cui le norme che incriminano le condotte di terrorismo delineano

la fattispecie in maniera vaga e generica. Si pone in contrasto con il principio di

irretroattività, nel momento in cui le nuove norme vengono applicate a fatti commessi

prima della loro entrata in vigore. Viola il principio di offensività e necessaria materialità

del reato (407), poiché incrimina determinati tipi di autore e non determinati tipi di fatto

405() Ex pluribus, cfr. G. FIANDACA, Diritto penale del nemico. Una teorizzazione da evitare, una realtà da rimuovere, cit., p. 183 406() Sulla frizione tra i principi costituzionali in materia penale ed il diritto penale del nemico, v. A. CAVALIERE, Diritto penale “del nemico” e “di lotta”: due insostenibili legittimazioni per una differenziazione, secondo tipi d’autore, della vigenza dei principi costituzionali, cit., p. 272; G.M. FLICK, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, cit., p. 784; L. EUSEBI, Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico , cit., p. 442. 407() F. PALAZZO, Contrasto al terrorismo, diritto penale del nemico e principi fondamentali, cit., p. 676; nonché, nello stesso senso, R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale: tra diritto penale del nemico ius in bello criminale e annientamento del nemico assoluto, cit., p. 22.

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(408), nonché nella misura in cui prevede un’anticipazione della tutela rispetto alla

commissione del fatto o, addirittura, a prescindere da esso. Lede il principio di

colpevolezza, in quanto viene inflitta una pena sproporzionata rispetto al fatto commesso

e la colpevolezza del suo autore non costituisce un limite al quantum di risposta

sanzionatoria irrogato. Lede il principio di personalità della responsabilità penale, nella

misura in cui incrimina il soggetto per la mera appartenenza all’associazione. È violata la

finalità rieducativa della pena, poiché essa è applicata in funzione di misura di sicurezza,

ossia al fine di prevenire la pericolosità sociale del reo, nonché nella misura in cui essa

stessa tende alla neutralizzazione del nemico assoluto. Sotto tale ultimo profilo, poi, è

violata anche la funzione di prevenzione generale e speciale della pena (409).

A tal proposito, giova rammentare come ogni norma penale, con la comminatoria

della pena assolva, infatti, ad una funzione di prevenzione sia generale che speciale.

Questo vale e deve valere sia nei confronti del cittadino che nei confronti dello straniero

(410). Non si può ritenere, invece, come fa Jakobs, che tale funzione sia propria del solo

diritto penale del cittadino e non anche di quello del nemico, posto che è proprio nei

confronti del nemico che l’ordinamento dovrebbe riaffermare la validità della norma

penale violata.

408() Parte della dottrina (L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico”: un’abdicazione della ragione, cit., p. 166), invece, evidenzia come sia violato il principio di legalità nella misura in cui la potestà punitiva dello Stato è esercitata, nell’ambito del diritto penale del nemico, in relazione a tipi di autori e non a tipi di fatti.409() Sotto il profilo della violazione dei principi classici del diritto penale da parte del diritto penale del nemico, in dottrina, è stato osservato che esso è «un diritto penale non tanto del “fatto colpevole” quanto dell’”autore pericoloso”, o, comunque, orientato all’autore pericoloso, non della colpevolezza, ma della pericolosità, non della retribuzione proporzionale ma della neutralizzazione, presentando esso come denominatore comune un trattamento discriminatorio, legislativo o prasseologico, rispetto al diritto penale normale, nel senso di un’attuazione delle garanzie, sostanziali e processuali, in ragione del tipo pericoloso d’autore. E, quindi, una soggettivizzazione del diritto penale». In questi termini, si è espresso F. MANTOVANI, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, cit., p. 471410() A. PAGLIARO, «Diritto penale del nemico»: una costruzione illogica e pericolosa, cit., p. 4(?).

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Altra stortura è il crollo di tutte le garanzie processuali (411). Se il processo viene

condotto nei confronti del nemico allora il giudice diventa nemico del reo, nel senso che

perde ogni carattere di imparzialità. Il processo, innanzitutto, viene utilizzato come uno

strumento di lotta nei confronti della criminalità terroristica, organizzata o qualsiasi altra

essa sia. In secondo luogo, il processo contro il nemico si caratterizza per l’alterazione

dell’oggetto processuale: oggetto del processo non è più il fatto, bensì l’autore e quindi il

processo da accusatorio torna ad essere inquisitorio. Volto ad inquisire la personalità

amica o nemica del suo autore (412).

È ovvio che, al pari dei diritti fondamentali, non può essere tollerata neppure la

violazione ovvero la deroga sistematica di quelle garanzie penal-processualistiche (413) di

cui gli ordinamenti democratici si sono muniti fin da epoca Illumunistica. Bisogna allora

individuare i limiti entro cui il diritto penale del nemico - con cui purtroppo il giurista è

chiamato a confrontarsi - possa muoversi per essere ricondotto nei binari della legalità.

9. Le ragioni dell’inammissibilità di una dicotomia diritto penale tradizionale/diritto

penale del nemico.

411() L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico”: un’abdicazione della ragione, cit., p. 167. 412() L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico”: un’abdicazione della ragione, cit., p. 168. 413() In tal seno si è espresso anche L. EUSEBI, Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, cit., p. 444. In particolare, egli attribuendo al principio di cui all’art. 27, comma 1, Cost., una valenza più generale, ha ricavato l’insuperabilità delle garanzie costituzionali in tema di diritto penale anche in caso di emergenza. Testualmente, l’A. afferma: «D’altra parte, lo stesso 1° comma dell’art. 27 Cost., affermando che “la responsabilità penale è personale”, non si limita a istituire di principio di colpevolezza […], ma colloca l’intero sistema della responsabilità penale, anche con riguardo alle strategie sanzionatorie, nell’ambito di modalità relazionali tipiche dei rapporti tra persone, modalità come tali incompatibili con meri obiettivi di coazione psichica o di neutralizzazione. – La legge fondamentale, dunque, identifica con il consenso (e non la forza) come cardine della prevenzione».

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Proprio perché si pone in contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo e con le

garanzie proprie dei sistemi processual-penalistici liberali, il diritto penale del nemico in

senso forte non può trovare cittadinanza nel moderno Stato di diritto. Tuttavia, posto che

al fenomeno del terrorismo internazionale – che è un fenomeno eccezionale – non si può

certo far fronte con gli strumenti classici del diritto penale, allora bisogna individuare i

limiti di ammissibilità di una siffatta legislazione. E questo non solo per tutelare il

terrorista, ma anche per tutelare la sfera di libertà di tutti gli altri individui ed evitare così

illegittime ingerenze nella loro vita privata da parte dei poteri pubblici.

Una soluzione in tal senso, quindi, si potrebbe avere configurando a livello

costituzionale una clausola d’emergenza, come è appunto previsto in altri ordinamenti, e

poi dettarne la disciplina di dettaglio in una legge costituzionale. In tal modo, i cittadini, e

non solo i nemici, sarebbero tutelati sotto un duplice punto di vista. In primo luogo,

poiché la disciplina degli Stati d’eccezione sarebbe legislativamente predeterminata e non

vi sarebbe quindi spazio per legislazioni estemporanee adottate sull’onda emotiva degli

eventi e, magari, con efficacia retroattiva. In secondo luogo, essendo legislazione vigente,

sarebbe possibile sottoporla al vaglio di legittimità costituzionale da parte della Consulta

ogniqualvolta il giudice ordinario riscontri difformità rispetto ai principi costituzionali. In

tal modo, verrebbe arginato lo strapotere che l’Esecutivo tende ad assumere nella vita dei

cittadini nell’ambito di situazioni d’emergenza. Bisogna, quindi, pienamente concordare

con chi ha affermato che «non c’è sicurezza senza legge: lo Stato di diritto è un elemento

della sicurezza nazionale» (414). La battaglia contro il terrorismo, pertanto, deve essere

combattuta dalla democrazia «con una mano legata».

414() Così, A. BARAK, Diritti umani in tempo di terrorismo. Il punto di vista del giudice, in S. Moccia (a cura di), I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, Napoli, 2009, p. 59.

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Cosa che certo non potrebbe mai essere legislativamente predeterminata, tuttavia, è la

previsione di organi giudicanti ad hoc, sulla sorta delle Tribunali militari speciali, di

nomina esecutiva, istituiti negli Stati Uniti per giudicare i terroristi. Nel moderno Stato di

diritto, infatti, non si può avallare la degiurisdizionalizzazione, poiché essa contrasta con

l’essenza stessa della tripartizione dei poteri di montesquieuiana memoria.

Capitolo Quarto

Il mutamento di giurisprudenza in materia penale.

Prospettive di apertura del nostro ordinamento all’overruling.

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1. Il ruolo del giudice ed il rispetto dei diritti fondamentali.

In un sistema non esente da slittamenti verso un tipo di autore, il giudice svolge

l’importante funzione di ricondurre la legislazione – adottata, spesso, sull’ondata emotiva

degli eventi - al rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo ed ai principi cardine

dell’ordinamento giuridico. Questo è avvenuto nel mondo anglosassone, ove sia in Gran

Bretagna (415) che negli Stati Uniti d’America (416) le Corti – lo si è visto – hanno riportato

la legislazione di contrasto al terrorismo internazionale in posizione subordinata rispetto

ai diritti fondamentali dell’individuo, la cui tutela si estende anche al catalogo delle

garanzie cardine degli ordinamenti processual-penalistici liberali.

Il terrorista, infatti, è un tipo di autore, un nemico “in senso forte” (417). Egli

appartiene ad una criminalità, in vario modo organizzata, che vuole dissolvere la

comunità precostituita, contestandone la stessa esistenza. La legislazione penale di

contrasto, in questo caso, tende alla neutralizzazione del nemico assoluto, con

conseguente violazione di tutti i diritti fondamentali. Tra terrorismo ed immigrazione,

però, vi è connessione – i sociologi ed criminologi lo hanno messo in evidenza. E

l’immigrato, anch’egli un tipo d’autore, quando non è terrorista, è un nemico “in senso

debole”. Egli è un soggetto pericoloso per il suo status e, per ciò solo, va stigmatizzato,

destando il fenomeno dell’immigrazione, anche non clandestina, particolare allarme

sociale. La legislazione di contrasto, in tal caso, presenta già una prima forma di tensione

con i principi e le garanzie dello Stato liberale. Un esempio in tal senso è dato dalla legge

15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).415() Sulla tutela apprestata dalla Corti britanniche, cfr. supra Capitolo Secondo, § 3. 416() Sul punto, v. supra Capitolo Secondo, § 11.417() Per la contrapposizione tra un concetto di “nemico in senso forte” ed un altro di “nemico in senso debole”, v. supra Capitolo Terzo, § 4.

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Ebbene, anche per quanto riguarda lo straniero, la giurisprudenza italiana ha

intrapreso un’opera di riconduzione della legislazione penale di lotta al rispetto dei diritti

e principi fondamentali. In particolare, la tutela dei diritti fondamentali da parte del

giudice può essere meno penetrante ovvero più incisiva. La prima ipotesi ricorre quando

gli interventi sono tesi a garantire il rispetto dei soli diritti fondamentali e della garanzie

classiche previste dalla Costituzione, ossia dall’ordinamento giuridico interno. La

seconda, invece, sussiste quando, essendo già raggiunta tale prima forma di tutela, si

tende a garantire il rispetto, all’interno dello Stato, anche dei principi e delle garanzie

proprie dalle Carte internazionali e, quindi, dell’ordinamento giuridico sovranazionale ed

internazionale. Questo è quanto accaduto, appunto, per lo straniero. Infatti, per garantire

il rispetto del principio di legalità di cui all’art. 7, par. 1 Cedu, la giurisprudenza di merito

ha fornito un’interpretazione avanguardistica del principio di retroattività della norma

penale favorevole al reo, andando ben al di là della stessa interpretazione sul punto,

fornita dalla Corte Edu e dalla Corte di giustizia.

2. I termini della questione: l’overruling in materia penale.

Ebbene, proprio nell’esercizio dell’importante funzione di riconduzione della

legislazione penale vigente al rispetto dei diritti fondamentali, recentemente alcuni

giudici hanno prospettato la possibilità di revocare un precedente giudicato di condanna

ex art. 673 c.p.p. (418) anche in caso di mutamento giurisprudenziale favorevole al reo e

ciò al fine di garantire principaliter il rispetto del principio di uguaglianza e di

retroattività della norma penale favorevole.418() In generale, sull’istituto della revoca per abolizione del reato, cfr. D. VICOLI, La rivisitazione del fatto da parte del giudice dell’esecuzione: il caso dell’abolitio criminis, in Cass. pen., 2010, p. 1689.

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La Consulta, investita della questione, non ha però statuito l’incostituzionalità di

una siffatta soluzione ermeneutica. Tuttavia, la tematica dell’overruling in materia penale

non perde certo rilievo, poiché già in precedenza la Corte di cassazione (419) vi aveva

riconnesso effetti nel nostro ordinamento. Appare, dunque, opportuno procedere ad

analizzare funditus i termini della questione, così come si è presentata fino a questo

momento all’attenzione delle nostri Corti. Successivamente verrà valutata la possibile

incidenza di un overruling, teso al rispetto dei diritti fondamentali, su una futuristica

legislazione che il nostro Paese potrebbe adottare per combattere il terrorismo

internazionale, sulla scorta di quella fatta propria dagli Stati Uniti d’America. Infatti, ove

il nostro Paese non adotti ex ante una legalità ad hoc, valida una volta per tutte, è sempre

incombente il rischio che, nell’emergenza non codificata, venga promulgata una

legislazione ispirata ai canoni del diritto penale del nemico.

Poste tali premesse, è bene precisare che l’overruling può essere definito come un

contrasto giurisprudenziale di tipo diacronico (420), nel senso che ad un certo indirizzo

giurisprudenziale costante per un dato periodo di tempo, improvvisamente, se ne

sostituisce un altro che costituisce un revirement giurisprudenziale (421).

Più nel dettaglio, l’overruling può essere sfavorevole ovvero favorevole al reo. In

caso di mutamento giurisprudenziale in malam partem, viene in rilievo uno dei baluardi

del principio di legalità, ossia il principio di irretroattività della norma penale

sfavorevole. In tal caso, infatti, sebbene ad essere sfavorevole al reo sia non una modifica 419() Si fa, in particolare riferimento a Cass., sez. un., 21 ottobre 2010, n. 18288, Beschi, su cui v. infra. 420() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in Dir. pen. cont., 15 ottobre 2012, p. 2. 421() In dottrina, è stato evidenziato come, in realtà, l’overruling si distingua da un normale mutamento di giurisprudenza, poiché è connotato dall’ulteriore requisito dell’”imprevedibilità” rispetto ad un quadro interpretativo precedente e consolidato. Sul punto, v. A. MARI, Mutamento sopravvenuto di giurisprudenza e giudicato: la consulta dichiara infondata la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p. , in Cass. pen., 2013, p. 948.

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legislativa, bensì una nuova interpretazione giurisprudenziale, riconoscendo ad essa

efficacia retroattiva, si potrebbe determinare un fenomeno di cd. «retroattività occulta»

(422). In altri termini, verrebbe frustrato l’affidamento che i consociati avevano riposto nel

precedente orientamento favorevole nell’ipotesi in cui venga applicata la nuova opzione

ermeneutica anche a chi abbia commesso il fatto anteriormente ad essa. L’interpretazione

giurisprudenziale, che dovrebbe avere portata dichiarativa, avrebbe in questo caso invece

natura creativa (423).

Tuttavia, il nostro ordinamento contempla efficaci rimedi per evitare un simile

effetto, poiché, se il principio di irretroattività è valido per la modifica legislativa

sfavorevole, a maggior ragione esso lo deve essere per il mutamento giurisprudenziale.

Una prima soluzione potrebbe essere il ricorso all’art. 5 c.p., così come integrato dalla

sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988. Sarebbe, infatti, un errore inevitabile

circa la liceità della propria condotta quello in cui incorrerebbe colui che ha violato la

norma penale, facendo affidamento sulla precedente interpretazione favorevole.

Soprattutto, però, l’overruling sfavorevole con efficacia retroattiva trova il proprio

ostacolo nel principio di irretroattività della norma penale sfavorevole di cui all’art. 25,

comma 2, Cost. (424). Per effetto di tale norma, si potrebbe avere nel nostro ordinamento 422() A. BALSAMO, La dimensione garantistica del principio di irretroattività e la nuova interpretazione giurisprudenziale “imprevedibile”: una “nuova frontiera” del processo di “europeizzazione” del diritto penale, in Cass. pen., 2007, p. 2202.423() Tuttavia, è bene sottolineare che la dottrina non è unanime nel riconnettere alla giurisprudenza portata solo dichiarativa della norma di legge. A tal proposito, infatti, è stato osservato (V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, in V. Manes -V. Zagrebelsky (a cura di), La convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011, p. 80.) che l’art. 65 ord. giud. sembra riflettere la teoria secondo la quale l’interpretazione giurisprudenziale ha funzione solo dichiarativa. Tuttavia, ritenere che per ogni testo di legge vi sia solo una ed una soltanto interpretazione, come se il giudice fosse “ bouche de la loi” è utopistico. L’attività di interpretazione delle leggi da parte del giudice, infatti, è inevitabilmente in parte anche creativa. Sulla funzione dichiarativa ovvero creativa della giurisprudenza, v. anche R. RORDORF, Stare decisis: osservazioni sul valore del precedente giudiziario nell’ordinamento italiano, in Foro it., V, 2006, p. 279. 424() Com’è noto, l’art. 25, comma 2, Cost. prevede che «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».

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una soluzione analoga all’istituto di matrice statunitense del prospective overruling, in

virtù del quale la nuova giurisprudenza può avere effetto solo per il futuro e non anche

per il caso che essa stessa decide ovvero per gli altri ad essa antecedenti.

Precluso ogni spazio applicativo all’overruling in malam partem, il vero punctum

dolens riguarda, invece, l’overruling favorevole al reo, fenomeno che si riscontra

nell’ipotesi in cui sopravvenga un nuovo orientamento giurisprudenziale, in base al quale

non è più penalmente illecito il fatto che, secondo la vecchia interpretazione, costituiva

reato. Si pone il problema di verificare se, in base alla nuova interpretazione, possa essere

travolto anche il già intervenuto giudicato di condanna. A tal proposito, ci si è chiesti,

infatti, se il principio di retroattività favorevole al reo - enunciato dalla giurisprudenza

europea e costituzionale con riguardo alla modifica legislativa - possa trovare spazio

anche per il mutamento giurisprudenziale, posto che appare apparentemente lesivo del

principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. che taluni siano stati condannati – e

debbano, quindi, scontare la relativa pena - per un fatto che, secondo una interpretazione

giurisprudenziale successiva, non costituisce più reato.

Più nel dettaglio, l’incognita ha riguardato la possibile equiparazione del

mutamento giurisprudenziale all’abolitio criminis legislativa, con conseguente

sottoposizione anche dell’overruling alla disciplina di cui all’art. 2, comma 2, c.p., in

base alla quale, in tali ipotesi, sarebbe travolto anche il giudicato di condanna. Accedendo

a tale ipotesi ricostruttiva, in fase esecutiva, si potrebbe, quindi, ritenere applicabile il

disposto di cui all’art. 673 c.p.p che, proprio in casi di abrogazione della norma

incriminatrice – ma anche nei casi di declaratoria di illegittimità costituzionale –,

consente la revoca della sentenza penale di condanna (o di altra ad essa equiparata) da

parte del giudice dell’esecuzione. Ed è proprio questo il caso sottoposto all’attenzione 161

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della Corte costituzionale dal Tribunale di Torino, in composizione monocratica, con

ordinanza depositata il 21 luglio 2011.

Il giudice a quo, infatti, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art.

673 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o

decreto penale di condanna o di sentenza di concorde richiesta delle parti) in caso di

mutamento giurisprudenziale, intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della

Cassazione, in base al quale il fatto giudicato non è più previsto dalla legge come reato.

3. Il reato di omessa esibizione dei documenti di identificazione e di soggiorno (art.

6, comma 3, D.lgs. 286/98) e la riforma apportata dalla l. 15 luglio 2009, n. 94 quale

espressione del diritto penale del nemico “in senso debole” ovvero “in senso ampio”.

Più esattamente, nel caso di specie, l’overruling favorevole aveva riguardato

l’ambito di applicazione soggettiva dell’art. 6, comma 3, d.lgs. 286 del 1998 (Testo unico

delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione

dello straniero), che contempla la contravvenzione di omessa esibizione dei documenti di

identità e di soggiorno da parte dello straniero (425).

Infatti, a seguito della novella di cui alla l. 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in

materia di sicurezza pubblica), si era posto il problema se la fattispecie incriminatrice ivi

425() In particolare, l’art. 6, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 («Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero») prevede che «Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino ad euro 2.000». in argomento, v. G. BARBUTO, L’obbligo di esibizione dei documenti di viaggio e soggiorno a richiesta degli organi di pubblica sicurezza , in S. Corbetta, A. Della Bella, G.L. Gatta (a cura di), Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Milano, 2009, p. 229; nonché A. CAPUTO, Ingiustificata inosservanza dell’orine di esibizione di documenti identificativi e di documenti relativi al soggiorno, in A. Caputo-G. Fidelbo (a cura di), Reati in materia di immigrazione e stupefacenti, Torino, 2012, 123;

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prevista fosse ancora applicabile sia agli stranieri regolari che a quelli irregolarmente

presenti sul nostro territorio, come pacificamente ritenuto prima della riforma, oppure si

dovesse ritenere che il campo di applicazione soggettivo della norma fosse cambiato. Gli

stranieri irregolari, in quanto tali, sono ontologicamente sprovvisti del permesso di

soggiorno.

Prima della riforma legislativa, in particolare, la norma puniva con le pene

congiunte dell’ammenda e dell’arresto lo straniero che, senza giustificato motivo, non

esibisse, a richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza, due categorie di

documenti, in via alternativa tra loro: il passaporto o altro documento di identificazione,

«ovvero» il permesso o la carta di soggiorno. La circostanza che l’esibizione di uno

qualsiasi dei documenti valesse ad escludere il reato, dimostrava che l’incriminazione era

diretta solo a consentire la sicura identificazione dello straniero e non anche a verificarne

la regolare presenza sul territorio dello Stato. Conseguentemente la norma incriminatrice

in questione era applicabile anche allo straniero irregolarmente soggiornante nel nostro

territorio (426).

Dopo la riforma legislativa, la Corte di cassazione, con tre pronunce a sezioni

semplici (427), aveva inizialmente ritenuto che il campo applicativo della citata fattispecie

incriminatrice fosse il medesimo e che la stessa dovesse, quindi, continuare ad essere

applicata tanto agli stranieri regolari che a quelli irregolari.

426() La Corte di cassazione, sotto la vigenza del vecchio testo della norma, si era più volte espressa in questo senso. Ex pluribus, cfr. Cass., sez. un., 29 ottobre 2003, n. 45801. Per un commento a tale decisione, v. A. ABUKAR AYO, Sulla esigibilità del possesso ed esibizione di un documento di riconoscimento dello straniero clandestino, in Giust. Pen., II, 2004, p. 337; nonché O. FORLENZA, Il mirino del testo unico dell’immigrazione punta su passaporto e carta d’identità, in Guida dir., 1, 2004, p. 75. Per la posizione della dottrina prima della riforma legislativa, v. F. PALAZZO, Destinatari e limiti dell’obbligo di esibizione del di documenti previsto dal testo unico dell’immigrazione , in Quest. Giust., 2004, p. 783.427() Cass., sez. I, 30 settembre 2010, n. 37060; Cass., sez. I, 20 gennaio 2010, n. 6343; Cass., sez. I, 23 settembre 2009, n. 44157.

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Successivamente, però, la Corte di legittimità, a sezioni unite (428), aveva adottato

una soluzione del tutto opposta, in virtù della quale la nuova norma sarebbe stata

applicabile ai soli stranieri regolari e non anche a quelli irregolari (429). La novella del

2009, infatti, avrebbe determinato una parziale abolitio criminis, abrogando la fattispecie

contravvenzionale preesistente, nella parte in cui si riferiva agli stranieri irregolari, con

conseguente sottoposizione alla disciplina di cui all’art. 2, comma 2, c.p. Più nel

dettaglio, l’avvenuta sostituzione della disgiuntiva «ovvero» con la congiunzione «e»,

relativamente alle due categorie di documenti da esibire, rendeva palese che, al fine di

adempiere al precetto, fosse necessaria l’esibizione congiunta tanto dei documenti di

identificazione che del titolo di soggiorno. Conseguentemente la ratio della norma era ora

diretta non più all’identificazione dello straniero, bensì alla verifica della sua legittima

presenza sul territorio nazionale. Evidente era, pertanto, l’inapplicabilità della fattispecie

agli stranieri irregolari, ontologicamente privi dei documenti di soggiorno.

La pronuncia in questione aveva, quindi, prodotto un indubbio overruling

favorevole, poiché, per effetto di essa, un fatto che prima era considerato reato – ossia la

mancata esibizione dei documenti da parte dello straniero irregolare – successivamente

non lo era più.

428() Si fa riferimento a Cass, sez. un., 24 febbraio 2011, n. 16543, Alacev, in Cass. pen., 2011, p. 2886, con Osservazioni di V. DI PEPPE. Per un commento a tale decisione, v. G.L. GATTA, Inottemperanza del “clandestino” all’ordine di esibire i documenti: davvero abolitio criminis?, in Dir. pen. e proc., 2011, p. 1348.429() Anche parte della giurisprudenza di merito, prima della Sezioni unite, si era espressa in questo senso. Cfr. Trib. Orvieo, 16 febbraio 2010; Trib. Orvirto, 2 marzo 2010; Trib. Orvieto, 1 giugno 2010; Trib. di Rovereto, 27 luglio 2010; Trib. Bologna, XXX. In dottrina, v. M. GAMBARDELLA, Ancora sulla mancata esibizione dei documenti da parte del cittadino straniero “irregolare” , in Quest. giust., 3, 2010, p. 173; nonché A. GILBERTO, Lo straniero irregolare è ancora punibile per il reato di omessa esibizione dei documenti?, in Corr. mer., 2011, p. 295.

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4. Il principio di legalità “materiale” o “sostanziale” e la giurisprudenza della Corte

Edu e della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Il principio di legalità è uno dei fondamentali baluardi del moderno Stato di diritto

ed è espressione del più generale principio di separazione dei poteri. Esso è sancito, per

quanto riguarda la materia penale, dall’art. 25, comma 2, Cost. e costituisce suprema

garanzia per la libertà del cittadino, consentendogli di conoscere con anticipo la liceità

del comportamento che intende tenere (430) e, in tale ottica, la legalità si lega

necessariamente all’irretroattività.

Tuttavia, il principio cui ha fatto ricorso la giurisprudenza per ritenere operante

l’overruling nel nostro ordinamento è la legalità “materiale” o “sostanziale” di cui all’art.

7, par. 1, Cedu, così come elaborata dalle Corti europee (431). Più in particolare, la Corte

europea dei diritti dell’uomo ha elaborato una “nozione autonoma” del principio di

legalità, da un lato, e dello stesso concetto di “legge”, dall’altro. In tal modo, essa ha, in

primo luogo, inteso evitare che le diverse qualificazioni interne dei singoli Paesi

consentissero agli Stati di sottrarsi agli obblighi convenzionali. In secondo luogo, ha

voluto ideare una nozione che fosse unitaria sia per gli ordinamenti di common law che

430() F. RAMACCI, Corso di diritto penale, IV ed., Torino, 2007, p. 72. 431() Sul principio di legalità in ambito europeo, cfr. V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, cit., p. 69; F. MAZZACUVA, L’interpretazione evolutiva del nullum crimen nella recente giurisprudenza di Strasburgo, in V. Manes -V. Zagrebelsky (a cura di), La convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano , Milano, 2011, p. 411. Invece, sull’adeguamento del nostro ordinamento giuridico a quello europeo, v. E. APRILE, I meccanismi di adeguamento del sistema penale nella giurisprudenza della Corte di cassazione , ivi, p. 509; nonché V. MANES, Sub art. 7, in Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrbelsky, Padova, 2012, p. 258.

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per quelli di civil law. In terzo luogo, al fine di abbattere le diversità tra le fonti di

produzione legislativa all’interno degli stessi Paesi di diritto continentale (432).

Per rendere effettivo il principio di legalità, inoltre, la Corte di Strasburgo ha

sempre affermato che ad esso sono coessenziali la ragionevole “conoscibilità” e

“prevedibilità” della disposizione. Ove per «accessibilità» e «prevedibilità» della norma

penale si intende conoscibilità del dato legislativo formale, ma anche prevedibilità della

prassi applicativa. Proprio per tale motivo, anche la “legge” deve essere intesa non in

senso “formale”, bensì “sostanziale”: essa deve ricomprendere non solo qualunque testo

normativo, a qualunque livello della gerarchia nazionale delle fonti, ma anche il diritto

non scritto, di creazione giurisprudenziale (433). Una diversa interpretazione, infatti,

escluderebbe dalla tutela assicurata dalla Cedu i Paesi di common law. D’altra parte, ad

avviso della Corte, il concetto di una giurisprudenza quale fonte del diritto non sarebbe

del tutto estraneo neppure agli ordinamenti di civil law, ove, per quanto chiaro possa

essere un testo di legge, è immancabile una interpretazione giurisprudenziale avente ad

oggetto la singola norma. Dunque, diritto vigente negli ordinamenti giuridici continentali

sarebbe il “diritto vivente”, ossia il diritto come è interpretato dalle corti nazionali (434). In

quest’ottica, è di plastica evidenza il ruolo che i giudici assumono ai fini della

prevedibilità della norma di legge.

Più nel dettaglio, è bene precisare come la legalità sostanziale sia nata in ambito

europeo quale corollario del divieto di retroattività della norma penale sfavorevole, esteso

432() V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, cit., p. 75.433() In argomento, ex pluribus, v. sentenze 8 dicembre 2009, Previti contro Italia; Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri contro Italia. 434() V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, cit., p. 77.

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anche alle interpretazioni giurisprudenziali in malam partem (435). Solo in un secondo

momento tale principio è stato esteso anche alla retroattività della legge penale

favorevole (436).

Infatti, con la sentenza resa nel caso Scoppola (437), la Corte di Strasburgo ha

affermato l’importante principio secondo cui l’art. 7 Cedu non statuisce solo il principio

di irretroattività delle leggi penali più severe, ma implicitamente anche il principio di

retroattività della legge penale meno favorevole al reo. Nella medesima pronuncia,

inoltre, è stato affermato che la nozione di “diritto” (“law”) di cui all’art. 7 corrisponde a

quella di legge, che compare anche in altri articoli della Convenzione. Tale espressione

comprende il diritto sia di origine legislativa che giurisprudenziale e «implica delle

condizioni qualitative, tra cui quella dell’accessibilità e della prevedibilità». È stato,

altresì, affermato come, nella tradizione giuridica degli Stati parte della Convenzione, la

giurisprudenza contribuisce necessariamente all’evoluzione progressiva del diritto penale

(438). Infatti, per quanto chiaro possa essere il testo di una legge, esso non può mai

presentare una precisione assoluta e deve, perciò, necessariamente servirsi di formule

vaghe, la cui applicazione dipende dalla pratica, con la conseguenza che «in qualsiasi

435() In particolare, la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza 8 febbraio 2007, ricorso C-3/06, Gruppo Danone contro Commissione, ha ritenuto il principio di irretroattività applicabile anche alla nuova interpretazione sfavorevole di una norma incriminatrice, qualora detta interpretazione non fosse ragionevolmente prevedibile nel momento della commissione dell’infrazione. Per un commento a tale decisione, v. A. BALSAMO, La dimensione garantistica del principio di irretroattività e la nuova interpretazione giurisprudenziale “imprevedibile”: una “nuova frontiera” del processo di “europeizzazione” del diritto penale, in Cass. pen., 2007, p. 2202.436() Sul punto v. CGCE, sent. del 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi, ove è stato affermato il principio per il quale «il principio di applicazione retroattiva della pena più mite rientra tra i principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare il diritto comunitario». 437() Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia. Per un commento a tale decisione, cfr. M. Gambardella, Il “caso Scoppola”: per la Corte europea l’art. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole, in Cass. pen., 2010, p. 2020; nonchè, G. ICHINO, “L’affaire Scoppola c. Italia” e l’obbligo dell’Italia di conformarsi alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 2010, p. 841. 438() Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 dicembre 2009, Previti contro Italia.

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ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione di

legge, anche in materia penale, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione

giudiziaria» (439).

All’interno del nostro ordinamento, invece, il principio di retroattività della legge

penale favorevole al reo non trova aggancio nell’art. 25, comma 2, Cost., che si riferisce

alla sola irretroattività della legge penale sfavorevole. Esso è, invece, espressamente

contemplato dall’art. 2, comma 4, c.p., che però fa salva la sentenza irrevocabile di

condanna. Oltretutto, la norma ha rango di legge ordinaria ed è, quindi, derogabile: non

esprime, pertanto, un principio avente portata generale. Tuttavia, al fine di dare copertura

costituzionale a questo principio - che comunque era stato affermato in ambito europeo e

comunitario - sono state elaborate diverse soluzioni. Infine, la Corte costituzionale (440) ha

ricondotto all’art. 3 Cost. il principio di retroattività della norma penale più favorevole al

reo. Ad avviso della Consulta, infatti, il principio di uguaglianza impone che siano trattati

allo stesso modo soggetti che abbiano commesso i medesimi fatti, a prescindere se li

abbiano commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio

criminis o la modifica mitigatrice. Anche la dottrina italiana si è poi espressa in questo

senso (441). Tuttavia, mentre il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole è

inderogabile, in quanto espressamente sancito dall’art. 25, comma 2, Cost., al contrario,

quello della retroattività della legge penale favorevole, in quanto espressione del più

generale principio di uguaglianza, è derogabile, ogniqualvolta una deroga allo stesso

risulti ragionevole.

439() Così si è espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza dell’8 dicembre 2009, Previti contro Italia. 440() In tal senso, cfr. Corte cost., sent. nn. 393 e 394 del 2006. 441() Sul punto, v. S. DE FLAMMINEIS, Sull’applicazione retroattiva di un’interpretazione giurisprudenziale in favore del reo, in Dir. pen. e proc., 2012, p. 748

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5. Il caso Beschi (Sezioni unite della Corte di Cassazione n. 18288 del 21.01.2010).

Oltre al principio di legalità materiale, così come elaborato dalle Corti europee, la

giurisprudenza di merito italiana ha fatto perno anche sul principio di diritto enunciato

dalla Cassazione con la sentenza Beschi, per sostenere la revoca del giudicato ex art. 673

c.p.p. Con tale pronuncia, infatti, la Cassazione, seppur in ambito diverso, ha comunque

riconnesso efficacia al mutamento di giurisprudenza favorevole. Più nel dettaglio, la

Corte di cassazione a Sezioni unite (442) ha, nella specie, composto un contrasto

interpretativo precedentemente intercorso tra le sezioni semplici ed ha affermato il

principio – ritenuto rivoluzionario da tutti gli interpreti – secondo cui il mutamento di

giurisprudenza ad opera del supremo organo di nomofilachia può consentire il

superamento del c.d. giudicato esecutivo (443).

Più esattamente, la Cassazione ha affermato che «Il mutamento di giurisprudenza

in materia penale, intervenuto con decisione delle sezioni unite della cassazione,

integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede

esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata (La Corte ha

precisato che tale soluzione è imposta dalla necessità di garantire il rispetto dei diritti 442() Per un commento all’ordinanza di remissione della questione alle Sezioni unite, cfr. R. RUSSO, Il ruolo della law in action e la lezione della Corte europea dei diritti umani al vaglio delle Sezioni unite. Un tema ancora aperto, in Cass. pen., 2011, p. 26. 443() Il «giudicato esecutivo» è un’espressione tecnicamente impropria con la quale solitamente si designa la preclusione di cui all’art. 666, comma 2, c.p.p. In argomento, v. V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 4. Già prima della pronuncia della Cassazione in commento, parte della giurisprudenza di merito aveva ritenuto che il mutamento giurisprudenziale dovuto all’intervento delle Sezioni unite integrasse quel “nuovo elemento” che rendeva ammissibile una nuova istanza avente ad oggetto la concessione dell’indulto in precedenza negato. Si fa, in particolare, riferimento all’ordinanza della Corte d’Appello di Milano, Sezione V penale, del 2 febbraio 2009. Per un commento a tale decisione, v. C. ZANOTTI, L’indiscutibile rilevanza delle norme CEDU e delle sentenze della Corte Europea: il principio di legalità “allargata” e la “vincolatività” dei mutamenti giurisprudenziali, in Foro ambr., 2010, p. 73.

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fondamentali della persona in linea con i principi della Convezione europea dei diritti

dell’uomo il cui all’art. 7, come interpretato dalle Corte europee, include nel concetto di

legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione

giurisprudenziale».

Appare di tutta evidenza come abbia avuto importanza dirimente l’adesione, da

parte dei giudici di legittimità, al principio di legalità sostanziale fatto proprio dalla

giurisprudenza di Strasburgo, che – come si è visto – equipara al diritto di formazione

legislativa quello di produzione giurisprudenziale.

Il mutamento giurisprudenziale nel caso di specie era quello avente ad oggetto

l’applicabilità o meno dell’indulto anche alle persone condannate all’estero e

successivamente trasferite in Italia per l’esecuzione della pena (444). Mentre in precedenza

la Corte di cassazione aveva sempre aderito all’orientamento negativo, con una pronuncia

del 2008 (445), la Corte di legittimità cambia radicalmente indirizzo ritenendo, invece, che

l’indulto sia applicabile anche a chi è stato condannato all’estero e venga poi trasferito in

Italia per scontare la pena.

A seguito di questo nuovo orientamento interpretativo, Beschi – che già si era

stato visto rigettare la richiesta di indulto in base alla precedente giurisprudenza –

presenta una nuova istanza. Le Sezioni unite vengono, quindi, investite della questione se

il mutamento giurisprudenziale, per effetto di una sentenza promanante dal supremo

organo di nomofilachia, possa costituire quel novum sulla cui base rinnovare, in sede

esecutiva, una domanda già respinta e superare, così, la preclusione di cui all’art. 666,

comma 2, c.p.p.

444() Si trattava di fare applicazione delle disposizioni di cui alla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 334 del 1988.445() Si fa, in particolare, riferimento a Cass., sez. un., 10 luglio 2008, n. 36527, Napoletano.

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L’orientamento (446) consolidato sul punto, infatti, riteneva che il mutamento di

giurisprudenza non fosse di per sé elemento sufficiente a superare il cd. giudicato

esecutivo (di cui all’art. 666, comma 2, c.p.p) (447), venutosi a formare per effetto del

rigetto dell’istanza precedentemente proposta.

Le Sezioni unite, invece, con la sentenza in commento, aderiscono

all’orientamento minoritario (448). In particolare, enunciano il principio di diritto secondo

cui il mutamento di giurisprudenza per effetto di una sentenza della Corte di cassazione a

Sezioni unite integra un nuovo elemento di diritto e rende perciò ammissibile la

riproposizione in sede esecutiva della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza

rigettata.

L’iter argomentativo seguito dalle Corte di legittimità è, però, del tutto nuovo

rispetto al passato. In particolare, fa riferimento all’obbligo del giudice di interpretare la

norma interna in conformità ai principi enunciati dalla Cedu e, segnatamente, al principio

di legalità di cui all’art. 7, secondo l’interpretazione datane dalla giurisprudenza di

Strasburgo. La Cassazione, nella sentenza in commento, fa, quindi, propria

l’interpretazione secondo la quale fonte legislativa astratta ed interpretazione

giurisprudenziale si fondono in maniera indissolubile nella norma, rendendola solo in

questo modo conoscibile ex ante e, dunque, effettiva.

La Corte, inoltre, afferma che la nomofilachia è espressione del principio di

uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perché assicura che tutti i cittadini siano trattati in

446() Ex pluribus, v. Cass., sez. I, 11 marzo 2009, n. 29669. 447() È bene sottolineare come la Cassazione, nella sentenza Beschi in commento abbia in realtà affermato che è improprio parlare di giudico con riferimento al fenomeno di cui all’art. 666, comma 2, c.p.p., trattandosi piuttosto di una preclusione processuale, stante le peculiarità tipiche della fase esecutiva, caratterizzata dalla provvisorietà e dalla natura rebus sic stantibus dei relativi provvedimenti. 448() In particolare, l’orientamento opposto a quello di cui in precedenza si è detto era stato espresso tra le altre, da Cass., sez. V, 24 febbraio 2004, n. 15099.

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maniera uniforme davanti alla legge (449). È vero che l’art. 65 dell’ordinamento

giudiziario attribuisce la funzione nomofilattica alla Corte di cassazione nel suo

complesso, anche alle sezioni semplici. Tuttavia, quando le Sezioni unite intervengono a

dirimere un contrasto, hanno un peso particolarmente rilevante tale da generare

affidamento (450) nei consociati circa la futura interpretazione della norma.

Pertanto, posto che l’art. 666, comma 2, c.p.p. deve essere interpretato alla luce

delle norme della Cedu, ne consegue che la decisione delle Sezioni unite che modifichi il

precedente “diritto vivente” può essere considerato quel novum che, ai sensi della norma

da ultimo citata, consente il superamento della preclusione processuale, cui in precedenza

il condannato era incorso e questi possa, così, riproporre l’istanza, senza che con ciò

possa essere messo in discussione il valore del giudicato, posto che l’art. 666, comma 2,

c.p.p. implica in realtà una preclusione solo processuale che, impropriamente, viene

denominata giudicato esecutivo (451).

Fin da subito, gli interpreti hanno messo in evidenza il carattere, per certi versi,

rivoluzionario del principio di diritto affermato dalla Cassazione con tale pronuncia e,

soprattutto, che esso avrebbe potuto avere portata espansiva, applicabile anche in molti e

diversi casi rispetto all’indulto, come di fatto è stato, tant’è che – come si è anticipato –

sulla base di esso si è arrivati a sostenere la revoca ex art. 673 c.p.p. della sentenza di

condanna precedentemente inflitta.449() Nella stessa Relazione al progetto preliminare del codice vigente (pag. 200), infatti, si è affermato che, in ipotesi di decisioni giurisprudenziali contrastanti, viene frustrata l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici e, conseguentemente, il principio di legalità, cui corollario è il principio di tassatività, il quale implica che, uno stesso fatto non possa essere di volta in volta ritenuto penalmente lecito ovvero illecito. Sul punto, V. A. MACCHIA, La modifica interpretativa cambia il “diritto vivente”, in Guid. dir., 2010, n. 27, p. 80.450() A. MACCHIA, La modifica interpretativa cambia il “diritto vivente”, cit., p. 80.451() Nella sentenza Beschi (punto 11) è stato, anzi, espressamente affermato che un sopravvenuto mutamento giurisprudenziale non potrebbe mai incidere sulla cosa giudicata. In questo senso, v. A. MARI, Mutamento sopravvenuto di giurisprudenza e giudicato: la consulta dichiara infondata la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p., in Cass. pen., 2013, p. 952.

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6. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. (ordinanza del

Tribunale di Torino del 27.6.2011).

Il giudice a quo ha aderito totalmente (452) all’interpretazione fatta propria dalla

Corte di cassazione con la sentenza Beschi (453). Tuttavia, egli ha ritenuto che il principio

di diritto ivi affermato non fosse di per sé sufficiente per consentire al singolo giudice di

spingersi fino a revocare la precedente sentenza di condanna, in base al meccanismo di

cui all’art. 673 c.p.p. (454). Infatti, avrebbe costituito limite invalicabile in tal senso il dato

letterale, posto che la norma limita la revoca del giudicato penale alle sole ipotesi di

abrogazione legislativa ovvero di declaratoria di illegittimità da parte della Corte

costituzionale. Nella fattispecie all’attenzione del giudice a quo, peraltro, non si sarebbe

al cospetto di una vera e propria abolitio criminis, posto che il fatto era stato commesso

l’11 giugno 2010, ossia quando il testo dell’art. 6, comma 3, d.lgs. 286/1998 era già stato

riformulato, sicché si sarebbe più correttamente trattato di una successione di

interpretazioni giurisprudenziali difformi.

452( ) Si esprime in questi termini V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 4. 453() Per un attento esame dei rapporti tra la sentenza Beschi, l’ordinanza di rimessione alla Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p., nonché la sentenza delle Sezioni unite civili n. 15144 del 2011, v. E. VINCENTI, Note minime sul mutamento di giurisprudenza (overruling) come (possibile?) paradigma di un istituto giuridico di carattere generale, in Cass. pen., 2011, p. 4129; 454() Per una approfondita analisi, prima della sentenza della Corte costituzionale n. 230 del 2012, dei possibili effetti del mutamento giurisprudenziale favorevole all’imputato all’interno del nostro ordinamento, cfr. M. GAMBARDELLA, Eius est abrogare cuius est condere. La retroattività del diritto giurisprudenziale favorevole, in Dir. pen. cont., 14 maggio 2012.

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Da tale considerazione è sorta, pertanto, la necessità di sollevare questione di

legittimità costituzionale per violazione - tra l’altro (455) - dell’art. 117, comma 1, Cost.,

invocando, quali norme interposte (456), gli articoli della Cedu (457).

Più esattamente, il giudice di Torino ha sollevato questione di legittimità

costituzionale dell’art. 673 c.p.p., nella parte in cui non prevede la revoca della sentenza

di condanna già passata in giudicato – e delle pronunce ad essa assimilate – anche in caso

di mutamento di giurisprudenza, per effetto di una decisione della Corte di cassazione a

Sezioni unite, in base alla quale un fatto, già giudicato, cessa di essere penalmente

illecito.

Nel caso di specie, il pubblico ministero aveva avanzato, al Tribunale, in funzione

di giudice dell’esecuzione, la richiesta di revoca parziale della precedente sentenza di

patteggiamento con cui un cittadino straniero, irregolare nel nostro territorio, era stato

condannato - tra l’altro - per il reato di cui all’art. 6, d.lgs. 286/1998, per un fatto

455() Nell’ordinanza in parola, infatti, sono stati invocati anche altri parametri di costituzionalità dell’art. 673 c.p.p. e, segnatamente, gli artt. 3, 13, 25, comma 2, e 27, comma 3, della Costituzione. 456() Com’è noto, a partire dalle sentenza della Corte cost. n. 348 e 349 del 2007 ( e, successivamente, cfr. le sentenze n. 78 del 2012; n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011; n. 93 del 2010; nn. 239, 311 e 317 del 2009; n. 39 del 2008), la Corte costituzionale ha affermato il principio per cui in caso di asserito contrasto tra il diritto italiano e le norme della Cedu, nel significato attribuito loro dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il giudice di merito deve, innanzitutto, procedere ad una interpretazione convenzionalmente conforme, ossia ad una interpretazione che sia il più possibile rispettosa dei parametri di cui alla Convenzione. Ove ciò non sia possibile e il dubbio rimanga, il giudice di merito non può procedere a disapplicare egli stesso la normativa interna sospettata di contrasto con la Cedu, ma deve promuovere questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui fa riferimento agli «obblighi internazionali», così come integrato dalla norma Cedu asseritamente violata, quale «norma interposta». La Consulta ha, altresì, precisato che le norme della Cedu, proprio perché «interposte», si collocano pur sempre ad un livello «sub-costituzionale», rimanendo subordinate all’intera Costituzione italiana. Ne consegue che la Corte costituzionale, pur non potendo certo sindacare l’interpretazione data dalla Corte EDU alle norme della Convenzione, è pur sempre tenuta a verificare la conformità a Costituzione della norme Cedu, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo e, nell’ipotesi – pur sempre eccezionale - in cui ravvisi un contrasto, a ritenere che la norma Cedu non sia idonea ad integrare il suddetto parametro costituzionale.457() Più esattamente, le norme Cedu asseritamente violate – secondo il giudice a quo – erano gli artt. 5 (Diritto alla libertà ed alla sicurezza), 6 (Diritto ad un processo equo) e 7 (Nessuna pena senza legge). La Consulta, tuttavia, con la sentenza n. 230 del 2012, ha giudicato inconferenti i riferimenti agli artt. 5 e 6 Cedu.

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commesso l’11 giugno 2010, basando tale richiesta di revoca proprio sul nuovo

orientamento giurisprudenziale favorevole, di cui alla sentenza Alacev.

L’ordinanza di rimessione della questione alla Corte costituzionale è stata criticata

in dottrina (458) sotto diversi punti di vista. In primo luogo, nella misura in cui

l’overruling che legittimerebbe una revoca ex art. 673 c.p.p. sarebbe solo quello

promanante da una decisione delle Sezioni unite della Cassazione e non anche quello

intervenuto per effetto di una decisione delle sezioni semplici. Infatti, un mutamento di

giurisprudenza potrebbe aversi anche per effetto di una pronuncia della Cassazione a

sezione semplici. Inoltre, la funzione di nomofilachia – si osserva (459) - è riconnessa

dall’art. 65 dell’ord. giud. alla Cassazione nel suo complesso e non solo alle Sezioni

unite.

In secondo luogo, la decisione in commento è stata criticata (460), altresì, perché ha

riconnesso l’effetto di una revoca ex art. 673 c.p.p. alle sole sentenze delle sezioni unite

che determinano un mutamento di giurisprudenza e non anche a quelle che, ad esempio,

risolvono un contrasto giurisprudenziale. Sebbene, infatti, solo le sentenze che

determinano un mutamento giurisprudenziale producono un effetto analogo a quello della

successione di leggi nel tempo, tuttavia, dal punto di vista della tutela dei diritti

fondamentali, la situazione sarebbe pressoché analoga a quella di chi è stato condannato

sulla base di un orientamento giurisprudenziale poi sconfessato.

458() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., pp. 8-9. 459() Ibidem. 460() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 9.

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È stato, altresì, messo in evidenza come, con la pronuncia in commento, il giudice

a quo avrebbe sostanzialmente chiesto alla Consulta una pronuncia «manipolativa di

sistema» (461), nella misura in cui sembrava preludere all’innesto nel nostro ordinamento

– appartenente agli ordinamenti di civil law – di regole che, per certi versi, richiamavano

logiche proprie degli ordinamenti di common law, come lo stare decisis.

7. L’ordinanza del G.u.p. del Tribunale di Torino del 30 gennaio 2012.

Sebbene fosse stata sollevata questione di legittimità costituzionale, non è mancato

chi, nella giurisprudenza di merito, ha ritenuto di poter procedere direttamente a revocare

la precedente sentenza di condanna, per effetto della sopravvenuta interpretazione

giurisprudenziale favorevole al reo (462). Anche in questo caso, così come in quello

sottoposto all’attenzione della Corte costituzionale con l’ordinanza di remissione di cui si

è detto, la condanna era stata inflitta per il reato di cui all’art. 6, comma 3, d.lgs.

286/1998 ed il mutamento giurisprudenziale favorevole era quello di cui alla sentenza

Alacev.

L’ordinanza di revoca si è fondata, da un lato, sui principi affermati dalla

giurisprudenza Cedu e della Corte di Giustizia dell’Unione europea e, dall’altro, sulla

possibilità di procedere all’overruling in materia penale, così come affermato dalla Corte

di cassazione con la sentenza Beschi.

461() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 9. 462() Per un commento a tale pronuncia, v. A. BALSAMO –S. DE FLAMMINEIS, Interpretazione conforme e nuove dimensioni garantistiche in tema di retroattività della norma penale favorevole, in www.archiviopenale.it, 2, 2012.

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Facendo applicazione dei suesposti principi, il giudice, in virtù del nuovo

orientamento favorevole della Cassazione, ha revocato la sentenza di condanna

precedentemente inflitta. In particolare, l’iter argomentativo della pronuncia si è basato

su tre aspetti (463). In primo luogo, sulla considerazione per cui, non consentendo al reo

già condannato di accedere alla nuova opzione interpretativa, si determinerebbe una

grave violazione dei diritti fondamentali della persona, così come sanciti dall’art. 7 della

Cedu. In secondo luogo, sul principio di retroattività della legge penale più favorevole,

che costituisce fondamentale baluardo della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo.

Infine, sull’affermazione secondo cui il termine “diritto”, che compare nell’art. 7 Cedu,

farebbe riferimento sia al diritto di produzione legislativa che di fonte giurisprudenziale.

Da tali affermazioni, il giudice ha tratto la conclusione che, anche all’interno del

nostro ordinamento, il principio di retroattività della norma penale più favorevole al reo

riguarda non solo le modifiche legislative, ma anche l’overruling giurisprudenziale. Con

la conseguenza che anche i nuovi orientamenti interpretativi, se più favorevoli al reo,

producono effetti retroattivi. In altri termini, la pronuncia in parola ha ritenuto principio

fondamentale quello della retroattività favorevole al reo e lo ha applicato anche ai

mutamenti giurisprudenziali, stante l’equiparazione in altre sedi fatta dalla Corte Edu tra

diritto di produzione legislativa e di fonte giurisprudenziale.

8. Il principio di legalità formale.

463() In argomento, v. S. DE FLAMMINEIS, Sull’applicazione retroattiva di un’interpretazione giurisprudenziale in favore del reo, cit., p. 744.

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Già prima che la Corte costituzionale si pronunciasse sul punto, la dottrina aveva

messo in evidenza (464) che il principio di legalità in senso materiale, così come fatto

proprio dalla Corte Edu, poteva determinare una perdita di protezione del principio di

riserva di legge di cui all’art. 25, comma 2, Cost. Il principio di legalità di cui all’art. 7

Cedu, infatti, è meno ricco di quello contemplato nella nostra Carta costituzionale, in

quanto uno dei suoi fondamentali corollari, nel nostro ordinamento, è anche il principio

di riserva di legge, nel senso che fonte del diritto penale può essere solo la legge del

Parlamento o altra ad esso equiparata. Da tale concetto rimane, quindi, estranea la

giurisprudenza quale fonte del diritto, come sarebbe invece in caso di overruling. In virtù

dei principi espressi dalla nostra Costituzione, dunque, la legge scritta non può essere

equiparata al diritto di produzione giurisprudenziale.

Com’ è noto, il principio di riserva di legge serve a tutelare non tanto l’esigenza di

certezza, quanto piuttosto la garanzia offerta dalla fonte parlamentare (465). Il parlamento

è, infatti, unico detentore del potere legislativo in materia penale e, poiché

rappresentativo dell’intero popolo, si presume che eserciti il potere legislativo in modo

non arbitrario, bensì per il bene e l’interesse di tutti. Il dibattito parlamentare, inoltre,

assicura che la legge sia promulgata solo dopo che sia stata sentita anche la voce

dissenziente della minoranza. Al contrario, l’esigenza di certezza, assicurata dalla

prevedibilità delle conseguenze della propria condotta, è tutelata dai principi di

determinatezza e tassatività (466) delle fattispecie incriminatrici, che proteggono il

464() V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, cit., p. 80. 465() Ibidem. 466() V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, cit., p. 83.

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cittadino, rispettivamente, da arbitri del legislatore e del potere giudiziario. L’esigenza di

certezza, inoltre, è assicurata dal principio di irretroattività della legge penale.

9. La pronuncia della Corte costituzionale n. 230 del 2012.

La Corte costituzionale (467) ha, infine, ritenuto infondata la questione di legittimità

costituzionale sollevata dal giudice a quo, statuendo che non è imposto dalla Costituzione

revocare il giudicato di condanna ex art. 673 c.p.p., in caso di sopravvenuto overruling

giurisprudenziale favorevole, che abbia escluso la rilevanza penale del fatto per il quale

era intervenuta la condanna. La Corte costituzionale ha gelato sul nascere una lettura così

avanguardistica (468) dell’art. 673 c.p.p. che, sulla base di una interpretazione adeguatrice

ai canoni europei, avrebbe portato addirittura a revocare il precedente giudicato.

In particolare, il Giudice delle Leggi ha evidenziato come l’ordinamento giuridico

italiano si fondi su principi non perfettamente coincidenti con quelli espressi dalla Cedu.

Ne consegue che non è possibile attribuire una funzione normativa alla giurisprudenza

penale, seppur proveniente dal supremo organo di nomofilachia, a Sezioni unite.

In via preliminare, è bene sottolineare come la Corte costituzionale abbia ritenuto

la questione di legittimità costituzionale rilevante nel giudizio a quo, così rigettando

l’eccezione sul punto sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato. In particolare, la

difesa erariale aveva sostenuto che, anche nella fattispecie in esame, si sarebbe in realtà,

al cospetto di una successione di leggi penali nel tempo, per effetto della sostituzione

467() Per un commento a tale pronuncia, v. A. MARI, Mutamento sopravvenuto di giurisprudenza e giudicato: la consulta dichiara infondata la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p., cit., p. 945. 468() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 4.

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dell’art. 6, comma 3, d.lgs. 286 del 1998 ad opera della l. 94 del 2009. In altri termini, si

sarebbe stati di fronte ad una successione di norme incriminatrici e non in presenza di una

successione di orientamenti giurisprudenziali, con la conseguenza che il fenomeno

sarebbe già rientrato nel campo di applicazione di cui all’art. 673 c.p.p. Tale tesi, peraltro,

nelle more del giudizio di costituzionalità, era stata fatta propria anche dalla Corte di

legittimità (469).

Più nel dettaglio, la Corte costituzionale ha osservato che, nel caso di specie, il

fatto era stato commesso dopo l’entrata in vigore della l. 94 del 2009, quando il testo

dell’art. 6, comma 3, d.lgs. 286/1998 risultava già formulato nell’attuale versione. Ne

consegue che non potrebbe venire in considerazione la disciplina di cui agli artt. 2,

comma 2, c.p. e 673 c.p.p., la quale fa, invece, riferimento alla diversa ipotesi in cui il

fatto viene commesso sotto la vigenza della vecchia normativa e, solo successivamente,

interviene una nuova norma che abroghi la precedente fattispecie incriminatrice. Non ci

si trova, quindi, in presenza di una successione di leggi penali nel tempo in senso proprio.

Alla luce delle suesposte considerazioni, la Consulta ha ritenuto, quindi, non

implausibile (470) la tesi prospettata dal giudice a quo, secondo la quale si sarebbe di

fronte ad una successione, non già di leggi penali, bensì di diverse interpretazioni

giurisprudenziali: all’orientamento affermatosi immediatamente dopo la riforma

legislativa e recepito, quindi, dalla sentenza di cui era stata chiesta la revoca aveva fatto

seguito quello fatto proprio dalle Sezioni unite con la sentenza Alacev.

469() Cass., sez. I, 21 dicembre 2011, n. 545, che, in una fattispecie analoga a quella sottoposta al giudizio di costituzionalità, aveva ritenuto direttamente applicabile l’art. 673 c.p.p., poiché, nel caso di specie, si sarebbe trattato di una abolitio criminis per via legislativa e, in quanto tale, già direttamente rientrante nel campo di applicazione di cui all’art. 673 c.p.p. 470() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 6.

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La Corte costituzionale appare, quindi, condividere l’impostazione del giudice a

quo, secondo la quale la sentenza Alacev avrebbe determinato un revirement

giurisprudenziale. Tale punto, peraltro, non era pacifico in dottrina (471) poiché non era

mancato chi aveva sottolineato che, in realtà, prima della sentenza a Sezioni Unite, non

fosse neppure possibile ravvisare l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale

consolidato e di segno opposto (472). A tal proposito, è bene precisare come di overruling

si possa parlare solo nell’ipotesi in cui ad un “diritto vivente” si sostituisca un altro

“diritto vivente” (473). Nel caso degli stranieri irregolari, invece, la Cassazione si era

espressa solo in tre pronunce, oltretutto a sezioni semplici, emesse poco dopo la novella

legislativa. Al contrario, gran parte della giurisprudenza di merito, sia prima che dopo le

suddette sentenze, continuava a sostenere l’esatto contrario. Tanto che – come è stato

efficacemente sottolineato (474) – la sentenza a Sezioni unite era piuttosto valsa a formare

un “diritto vivente” che a mutarlo.

La Corte costituzionale ha poi affrontato un ulteriore profilo di ammissibilità della

questione, non direttamente sollevato, questa volta, dall’Avvocatura dello Stato, bensì

emerso in dottrina.

Si fa, in particolare, riferimento a quell’ipotesi ricostruttiva secondo la quale, pur

volendo accedere all’interpretazione fatta propria dalle sezioni unite, Alacev, - secondo

471() Anche successivamente alla pronuncia della Consulta in commento, in dottrina non è mancato chi ha ribadito che, con la sentenza Beschi, in realtà, non si è avuto un vero e proprio fenomeno di overruling. In tal senso, v. A. MARI, Mutamento sopravvenuto di giurisprudenza e giudicato: la consulta dichiara infondata la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p., cit., p. 948. 472() Con l’ordinanza dell’11 novembre 2010, infatti, la Sezione prima aveva rimesso la questione circa l’esatto ambito applicativo dell’art. 6, comma 3, cit. alle Sezioni unite, al fine di «prevenire» un contrasto giurisprudenziale con precedenti pronunce della stessa sezione.473() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 7. 474() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 7.

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cui bisognerebbe espungere dal campo di applicazione dell’art. 6, comma 3, d.lgs.

286/1998 gli stranieri irregolari - per effetto della riforma legislativa di cui alla l. 94 del

2009, non si sarebbe verificato un fenomeno di parziale abolitio criminis, bensì di cd.

abragatio sine abolitione. Più nel dettaglio, la condotta dello straniero irregolare, dopo la

novella, sarebbe ricaduta nel campo di applicazione di altra fattispecie contravvenzionale,

avente ambito applicativo più ampio e, rispetto alla quale, il reato di cui al testo unico

sull’immigrazione si pone in rapporto di specialità. Ossia quella di cui al combinato

disposto degli artt. 221 t.u.l.p.s. e 294 reg. t.u.l.p.s., che punisce la mancata esibizione ad

ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza dei documenti identificativi da parte di chiunque

e non solo da parte dello straniero. Aderendo a tale impostazione, la questione di

legittimità costituzionale sarebbe stata irrilevante nel giudizio a quo, poiché la perdurante

illiceità della condotta sarebbe stata estranea al campo di applicazione dell’art. 673 c.p.p.,

in quanto si sarebbe trattato del passaggio da una fattispecie punita più gravemente ad

altra punita meno gravemente (475). In tale ipotesi, infatti, avrebbe trovato spazio il

comma 5 dell’art. 2 c.p., ad avviso del quale la retroattività delle legge penale più

favorevole è ostacolata dal giudicato (476).

Tuttavia, la manca prospettazione di una siffatta soluzione ermeneutica da parte

del giudice a quo – soluzione, peraltro, non profilata neppure dalla Cassazione nella

sentenza Alacev -, non avrebbe comportato ad avviso della Corte costituzionale,

l’inammissibilità della questione, poiché, così come sottoposta dallo stesso giudice a quo,

475() La fattispecie di cui al testo unico di pubblica sicurezza è, infatti, punita con pene alternative anziché con pene congiunte, come invece previsto dal T.U. immigrazione. 476() Sebbene tale profilo di rilevanza della questione non fosse stato prospettato dall’Avvocatura dello Stato, la Corte costituzionale pare affrontarlo al fine di voler dare una soluzione definitiva alla questione, esaminando, pertanto, tutti quei profili che erano stati medio tempore esaminati dalla dottrina. Nella specie, tuttavia, la Consulta giunge alla conclusione per cui l’omessa considerazione, da parte del giudice a quo, di una tale prospettiva interpretativa - non contemplata, peraltro, dalla sentenza Alacev - possa portare ad una declaratoria di inammissibilità della questione.

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la questione di costituzionalità era proprio quella di una eventuale revoca della

precedente sentenza di condanna, accogliendo sic et simpliciter il sopravvenuto

orientamento giurisprudenziale favorevole, senza alcun margine di scostamento da parte

del giudice dell’esecuzione.

Poste tali premesse, la Consulta è giunta alla conclusione per cui l’overruling è

attualmente estraneo all’istituto della revoca del giudicato di cui all’art. 673 c.p.p. Tale

conclusione è di indubbio rilievo, posto che serve ad arginare quelle tendenze evolutive

verso i canoni europei che – come si è visto – avevano già portato la giurisprudenza di

merito a fare applicazione dell’istituto, sulla base di un overruling favorevole delle

Sezioni unite della Suprema Corte (477).

Più nel dettaglio, il Giudice delle Leggi ha evidenziato come l’art. 673 c.p.p.

prenda in considerazione esclusivamente due eventi, ossia l’abrogazione e la

dichiarazione di illegittimità costituzionale, per effetto dei quali viene espunta

dall’ordinamento la norma incriminatrice. In virtù del carattere similare dell’effetto

prodotto - com’è noto - la Suprema corte aveva inglobato nel campo di applicazione

dell’art. 673 c.p.p. anche l’ipotesi in cui la Corte di giustizia dell’Unione europea, con

una propria sentenza, dichiari l’incompatibilità della norma con il diritto europeo avente

477() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 8

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effetto diretto (478). In tal caso, infatti, i giudici nazionali non avrebbero potuto comunque

fare più applicazione della norma interna oggetto della pronuncia.

La Corte di Cassazione, del resto, già prima della Consulta, aveva disatteso le

istanze volte a ricondurre all’art. 673 c.p.p. fenomeni ermeneutici, quali il mutamento di

giurisprudenza ovvero la risoluzione di contrasti interpretativi, sebbene riconducili alle

Sezioni unite del supremo organo di nomofilachia. Tali decisioni, infatti, per quanto

autorevoli non vincolano certo i giudici chiamati successivamente ad occuparsi di

fattispecie analoghe, avendo, pertanto, un effetto che nulla ha a che vedere con i diversi

fenomeni espressamente contemplati dall’art. 673 c.p.p.

La Corte costituzionale ha, quindi, ritenuto insussistente la paventata violazione

dell’art. 117, comma 1, Cost. per asserito contrasto della disciplina italiana con l’art. 7

Cedu.

Nella specie, infatti, il giudice a quo aveva dato all’art. 7 Cedu un’interpretazione,

ricavata dal connubio di due differenti affermazioni rese dalla Corte Edu in due diverse

occasioni. Da un lato, quella di cui alla sentenza Scoppola del 2009, secondo la quale, al

di là del dato meramente testuale dell’art. 7 Cedu, evocativo del solo principio di

irretroattività della norma penale sfavorevole, in realtà la norma sancirebbe anche il

principio di irretroattività della norma penale più mite. Dall’altro lato, quell’affermazione 478() Del resto, anche la Corte costituzionale aveva ritenuto che le sentenze della Corte di giustizia fossero idonee a costituire ius superveniens ex artt. 673 c.p.p. Sul punto, v. ordinanze n. 311 del 2011, n. 241 del 2005 e n. 125 del 2004. Inoltre, con la sentenza n. 113 del 2011 la Corte costituzionale aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 46, par. 1, Cedu, l’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo. In tal modo, quindi, la Corte costituzionale ha aperto la strada nella materia che ci occupa anche all’istituto della revisione ex art. 630 c.p.p. Per un commento a tal decisione, cfr. M. GIULAZ, Una sentenza “additiva di istituto”: la Corte costituzionale crea la “revisione europea”, in Cass. pen., 2011, p. 3308; nonché C. MUSIO, La riapertura del processo a seguito di condanna della Corte Edu: la Corte costituzionale conia un nuovo caso di revisione, in Cass. pen., 2011, p. 3321.

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da tempo oggetto di consolidato orientamento da parte della giurisprudenza di

Strasburgo, secondo cui il principio di legalità di cui all’art. 7 Cedu implica anche che il

concetto di «diritto» ivi contenuto comprende sia il diritto di matrice legislativa che

quello di derivazione giurisprudenziale. Il giudice a quo, partendo da tali premesse, aveva

compiuto l’ulteriore passaggio logico di voler applicare il suddetto principio di

retroattività della legge penale favorevole alla successione nel tempo di interpretazioni

giurisprudenziali.

Tuttavia, la Consulta ha ritenuto che, proprio in virtù del principio di legalità

formale fatto proprio dall’art. 25, comma 2, Cost., nel nostro ordinamento non possa

trovare spazio l’overruling favorevole al reo che, addirittura, legittimi una revoca della

precedente sentenza di condanna ex art. 673 c.p.p. (479). Infatti, l’art. 7 Cedu che -

secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo - ingloba un principio di legalità in

senso materiale, è pur sempre subordinato alle norme della nostra Costituzione. Proprio

per questo, del resto la Consulta aveva elaborato la teoria delle «norme interposte», al

fine di riservare a se stessa il compito di controllare la conformità a Costituzione delle

norme Cedu, senza lasciare che fossero i giudici ordinari a disapplicare le norme interne

apparentemente in contrasto con esse, come del resto è proprio di quegli ordinamenti in

cui il controllo di costituzionalità è accentrato.

479() Più esattamente, il Giudice delle Leggi, nella pronuncia in commento (pag. 15), afferma espressamente «nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il principio convenzionale di legalità penale risult[a] meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale, negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, infatti, estraneo il principio – di centrale rilevanza, per converso, nell’assetto interno – della riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost.; principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dell’intera collettività nazionale (sentenze n. 393 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forza politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione».

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Inoltre, la Corte costituzionale ha evidenziato anche come mai giudici di

Strasburgo abbiano fatto discendere dai suesposti principi, espressi nella sentenza

Scoppola e in tema di “diritto” ex art. 7 Cedu, la conseguenza che il giudice a quo

vorrebbe trarre, ossia che un mutamento di giurisprudenza favorevole all’imputato

potrebbe altresì determinare la revoca delle precedenti sentenze di condanna rese in altri

giudizi e già passate in giudicato (480).

Del resto, nella stessa sentenza Scoppola si è affermato che il principio

convenzionale della retroattività della legge penale favorevole al reo si riferisce alle sole

leggi entrate in vigore successivamente alla commissione del fatto, ma prima della

condanna definitiva. Tale puntualizzazione serve a far salvo il limite del giudicato. Tale

limite convenzionale, valido per la legge scritta, a maggior ragione lo è per il diritto

giurisprudenziale. Del resto, in altra occasione la Corte di Strasburgo aveva affermato

480() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 10-11. L’A. peraltro precisa che la Corte di Strasburgo, in verità, non si è mai occupata dei mutamenti di giurisprudenza favorevoli al reo, bensì solo di quelli sfavorevoli, sancendone l’inapplicabilità a fatti commessi anteriormente ad essi, salvo l’ipotesi in cui la nuova interpretazione possa considerarsi una interpretazione ragionevolmente prevedibile. Tuttavia, il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole e quello di retroattività della legge penale favorevole non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. Infatti, l’uno si poggia sull’esigenza di far conoscere ai consociati con anticipo l’illiceità penale dei fatti, in modo tale da consentirgli di consapevolmente orientare la propria condotta. L’altro, invece, poggia sulla necessità di assicurare la parità di trattamento, consentendo di estendere la mutata valutazione circa il disvalore penale del fatto anche a chi lo abbia commesso precedentemente. A tal riguardo, la Corte costituzionale, nella pronuncia in commento, ha espressamente affermato: «I due principi [quello di irretroattività della norma penale sfavorevole e quello di retroattività della norma penale favorevole] hanno, infatti, un diverso fondamento. L’irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell’esigenza di “calcolabilità” delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale: esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie. Nessun collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma penale più favorevole, in quanto la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente autodeterminato in base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto in quello di uguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore (sentenza n. 394 del 2006; nonché n. 236 del 2011 e n. 215 del 2008)». Per un commento a Corte cost. n. 236 del 2011, v. C. PINELLI, Retroattività della legge penale più favorevole fra CEDU e diritto nazionale , in Giur. cost., 2011, p. 3047.

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anche che la composizione di un contrasto giurisprudenziale da parte di un Tribunale

Supremo non impone certo la revisione di tutte le decisioni anteriori definitive adottate in

precedenza da altre Corti, poiché una simile soluzione sarebbe in contrasto con il

principio di certezza giuridica (481).

Alla luce delle considerazioni da ultimo svolte, appare di tutta evidenza come il

giudice a quo abbia sottoposto all’attenzione della Consulta una interpretazione

avanguardistica, non solo per l’ordinamento giuridico italiano, ma anche per lo stesso

ordinamento europeo, posto che i giudici di Strasburgo non erano mai arrivati a dare

all’art. 7 una siffatta interpretazione (482).

La Corte ha ritenuto che non vi sia, peraltro, neppure violazione dell’art. 3 Cost.

Infatti, il nostro ordinamento si distingue profondamente dagli ordinamenti di common

law – ove il precedente è vincolante – essendo da noi semplicemente persuasivo. Proprio

per questo motivo, il legislatore, con la previsione di cui all’art. 673 c.p.p., ha ritenuto di

attribuire un effetto che travolge il giudicato solo ad una serie di vicende dotate di una

certa stabilità, come appunto una declaratoria di illegittimità costituzionale ovvero

un’abrogazione legislativa. Al contrario, un mutamento giurisprudenziale, per quanto a

481() Così, Corte EDU, 28 giugno 2007, Perez Arias c. Spagna. In tal senso cfr. V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 11. 482() A tal proposito, la Corte costituzionale (sent. 230 del 2012, pag. 15) ha affermato che «[…] la Corte europea non risulta avere mai, fino ad oggi, enunciato il corollario che il giudice a quo vorrebbe far discendere dalla combinazione dei due asserti ricordati: e, cioè, che, in base all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole al reo imponga la rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti con il nuovo indirizzo (principio che – se valido – dovrebbe, peraltro, operare non soltanto in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza che escludono la rilevanza penale del fatto – come mostra di ritenere il rimettente – ma anche a quelli che si limitano a rendere più mite la risposta punitiva, negando, ad esempio, l’applicabilità di circostanze aggravanti o riducendo il fatto ad un paradigma sanzionatorio meno grave)». Ed ancora, in maniera ancora più incisiva, la Consulta (pag. 17) conclude che «l’ipotetica “norma convenzionale interposta”, chiamata a fungere da parametro di verifica della legittimità costituzionale della disposizione denunciata, risulta in realtà priva di attuale riscontro nella giurisprudenza della Corte europea».

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Sezioni unite, continuerebbe ad essere dotato di instabilità, potendo essere rivisto in

qualsiasi momento da ogni giudice ovvero anche dalle stesse Sezioni unite.

Accogliendo la tesi del giudice a quo, peraltro, verrebbe introdotto nel nostro

ordinamento un anomalo effetto di stare decisis, in senso verticale. Tale vincolo,

oltretutto, sarebbe «sbilenco» (483), in quanto destinato ad operare solo in fase esecutiva e

non già sede di cognizione, dinnanzi al giudice che si trovi a giudicare ex novo un fatto.

Del resto, secondo la Consulta, non sarebbe violato neppure il principio di

retroattività della norma penale favorevole al reo, che trovando il suo fondamento

costituzionale non già nell’art. 25, comma 2, Cost., bensì nel principio di uguaglianza di

cui all’art. 3 Cost., è suscettibile di essere derogato quando tali deroghe siano ragionevoli

(484) e, tra tali ragionevoli deroghe, certamente c’è quella di salvaguardare la certezza dei

rapporti giuridici, mediante l‘intangibilità del giudicato.

Senza contare il fatto che il principio di retroattività favorevole concerne le sole

leggi. Non è possibile equiparare la successione di orientamenti giurisprudenziali nel

tempo alla successione di norme incriminatrici. Una tale operazione è, infatti, preclusa

dall’attuale sistema costituzionale che, innanzitutto, all’art. 25, comma 2, Cost.

contempla il principio di riserva di legge in materia penale. In secondo luogo, l’art. 101,

comma 2, Cost. prevede che il giudice sia soggetto solo alla legge, nel senso che egli è

solo interprete e non anche artefice della medesima. Una diversa conclusione sarebbe,

quindi, contraria anche al principio di separazione dei poteri. Ammettere la soluzione

483() V. NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, cit., p. 12 484() Sulla possibilità di derogare al principio di retroattività della legge penale favorevole, purché tali deroghe siano ragionevoli, v., in particolare, Corte cost. n. 236 del 2011.

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prospettata dal giudice a quo vorrebbe dire attribuire al giudice anche la funzione

legislativa, cosa contraria al nostro ordinamento costituzionale.

La Corte costituzionale, con la succitata pronuncia, ha preso, quindi, le distanze

dalla sentenza Beschi e ha mostrato di aderire maggiormente all’orientamento profilato,

invece, in altra occasione, dalle Sezioni unite civili (485), che hanno ribadito la valenza

solo dichiarativa e non già creativa della giurisprudenza, anche se hanno ammesso la

praticabilità, entro certe condizioni, del prospective overruling, al fine di evitare gli

effetti negativi discendenti da un improvviso mutamento di giurisprudenza in tema di

norme processuali.

10. La possibilità di un fenomeno analogo in materia di terrorismo. L’esempio degli

USA.

La pronuncia della Corte costituzionale non fa, comunque, venir meno l’attualità

del dibattito. Infatti, una futuribile legislazione sull’esempio degli Stati Uniti potrebbe

portare, anche nell’ambito della legislazione di contrasto al terrorismo internazionale, ad

analoghi fenomeni di mutamenti di giurisprudenza, ispirati dal primato dei diritti

fondamentali. Del resto, al di là dell’ipotesi di revoca del precedente giudicato di

condanna ex art 673 c.p.p., che - come si è visto - è stata espressamente negata dalla

485() Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144. In tale pronuncia, la Cassazione ha distinto tra un overruling di carattere “evolutivo” ed un altro di carattere “correttivo”. Il primo è connesso al mutamento del contesto al cui interno si inserisce l’attività interpretativa. Il secondo, invece, prescinde da fenomeni adattativi e dipende solo dall’affermazione di una diversa lettura ritenuta più corretta in rapporto all’ordinamento nel suo complesso. Per un commento a tale pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione civile, v. F. CAVALLA-C. CONSOLO-M. DE CRISTOFARO, Le S.U. aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa della giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipi di overruling, in Corr. Giur., 2011, p. 1392;

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Consulta, la giurisprudenza di legittimità ha, comunque, riconosciuto effetti

all’overruling in materia penale. Più esattamente, almeno fino ad oggi, ad esso è stato

riconnesso l’effetto di consentire, in sede esecutiva, la concessione dell’indulto in

precedenza negato e così superare la preclusione processuale cui, medio tempore, il

condannato era incorso.

Anche il nostro Paese, per fronteggiare il fenomeno del terrorismo internazionale

potrebbe, quindi, munirsi di una legislazione che – sulla scorta di quella degli Stati Uniti

– presenti i caratteri di un vero e proprio diritto penale del nemico “in senso forte”. In

quest’ottica, tale futuribile legislazione potrebbe essere lesiva dei diritti fondamentali

dell’uomo e, segnatamente: del diritto alla vita, nella misura in cui il terrorista venisse

sottoposto ad regime detentivo inumano ed a forme di tortura che potrebbero

comportarne il venir meno; della dignità umana, che potrebbe venir lesa dalle torture cui i

detenuti venissero sottoposti per estorcere loro informazioni; della libertà, di cui il

nemico potrebbe essere privato senza limiti di tempo e senza controllo dell’autorità

giudiziaria, al pari di quanto potrebbe avvenire, sotto quest’ultimo profilo, per il

cittadino; della riservatezza e della libertà di movimento del cittadino, la cui vita privata

potrebbe essere oggetto di penetranti controlli da parte dei pubblici poteri e senza

preventiva autorizzazione, ove occorresse, da parte dell’autorità giudiziaria. Potrebbero,

altresì, essere violati i principi cardine dello Stato di diritto. E, così, il principio di

separazione dei poteri potrebbe essere violato nella misura in cui il compito di

amministrare la giustizia venisse attribuito al potere esecutivo per mezzo di Tribunali

militari speciali, come, appunto, avvenuto negli Stati Uniti. Conseguentemente, potrebbe

essere violato il principio del giusto processo; il diritto di essere informati riservatamente,

nel più breve tempo possibile, della natura e dei motivi dell’accusa elevati a proprio 190

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carico; il diritto di difesa dell’imputato, il diritto al contraddittorio ed il diritto al silenzio,

nella misura in cui venisse dato ingresso nel nostro ordinamento alla tortura quale tecnica

di interrogatorio.

Tuttavia, l’esperienza degli Stati Uniti ci ha insegnato anche che una legislazione

di tal fatta è inaccettabile per un moderno Stato di diritto e, proprio per questo, la Corte

suprema degli Stati Uniti ha ricondotto il modello Guantánamo nei binari della legalità.

Infatti, con le sentenze Rasul v. Bush, Hamdi v. Rumsfeld, Rumsfeld v. Padilla del 28

giugno 2004 e con la sentenza Hamdan v. Rumsfeld del 29 giugno 2006 la Corte Suprema

degli Stati Uniti d’America è intervenuta a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo,

fino a quel momento pregiudicati dall’egemonia dell’Esecutivo.

Ne consegue che, anche nel nostro ordinamento, qualora venisse adottato un diritto

penale del nemico, lesivo dei diritti fondamentali del terrorista, sarebbe scontato un

intervento della giurisprudenza volto a ricondurre la legislazione al rispetto di quei diritti

e principi cardine. Potrebbe accadere, quindi, che, dopo una serie di pronunce che

applichino sic et simpliciter la normativa penale lesiva, intervenga un nuovo

orientamento, che ne costituisca un revirement teso al rispetto dei diritti fondamentali. Si

tratta, allora, di verificare quale spazio potrebbe avere un simile mutamento di

giurisprudenza favorevole al reo, anche alla luce della sentenza n. 230 del 2012 della

Corte costituzionale, che - come si è visto - ne ha negato la riconducibilità all’art. 673

c.p.p. Del resto, l’esperienza britannica ci ha insegnato che la Convenzione europea dei

diritti dell’uomo costituisce un limite invalicabile anche nella lotta al terrorismo

internazionale.

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11. Prospettive futuribili e possibili esiti.

Abbiamo visto che l’overruling favorevole non consente di revocare il precedente

giudicato di condanna ex art. 673 c.p.p., poiché il principio di retroattività della norma

penale favorevole, anche per la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, conosce il

limite del giudicato (486). La Corte costituzionale – con la sentenza n. 230 del 2012 – ha, a

tal proposito, affermato che il giudicato costituisce quella ragionevole deroga che, ex art.

3 Cost., consente di trattare in maniera diversa soggetti che hanno commesso lo stesso

fatto prima ovvero dopo l’intervenuto mutamento di giurisprudenza favorevole al reo

(487). La Corte di cassazione, invece, ha affermato il principio del superamento del solo

«giudicato esecutivo» (488) ovvero del «giudicato cautelare» (489), che però non sono vere

e proprie forme di giudicato, ma solo altrettante ipotesi di preclusioni processuali,

inerenti a decisioni rese rebus sic stantibus.

Se, dunque, l’unico vero limite è il giudicato, allora la rilevanza del mutamento

giurisprudenziale favorevole al reo non può che essere ricondotto nell’alveo dell’unico

istituto in grado di mettere in discussione il giudicato stesso, ossia la revisione del

processo ex art. 630 c.p.p.

486() Corte europea dei diritti dell’uomo, grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia. Secondo i giudici europei, infatti, il principio di retroattività della lex mitior, ricavabile dall’art. 7, par. 1, della Cedu, «si traduce nella norma per cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli». Facendo riferimento, dunque, alle (sole) «leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva», la Corte europea ha, dunque, escluso che il principio in questione sia destinato ad operare oltre il limite del giudicato, diversamente da quanto prevede, nel nostro ordinamento, l’art. 2, comma 2 e 3, c.p. In tal senso, v. anche sentenza n. 236 del 2011 della Corte costituzionale. 487() Cfr. Corte cost., sent. n. 230 del 2012, par. 9. 488() Cass., sez. un., 21 gennaio 2010, n. 18288, Beschi. 489() Cass., sez. II, 6 maggio, 2010, n. 19716.

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In tale ottica, qualora fosse una sentenza della Corte di Strasburgo ad aver

accertato la violazione dei diritti fondamentali del terrorista/nemico, allora si potrebbe

accedere direttamente alla nuova ipotesi di revisione coniata dalla Consulta con la

sentenza n. 113 del 2011. In tal modo sarebbe possibile riaprire il processo ex art. 630

c.p.p. per conformarsi alla sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Una seconda soluzione potrebbe essere quella di sollevare questione di legittimità

costituzionale che porti all’introduzione di una nuova ipotesi di revisione, nel caso in cui

risulti che, in virtù di un overruling favorevole, la precedente condanna sia stata inflitta in

violazione dei diritti fondamentali dell’individuo.

Una terza soluzione, infine, potrebbe essere quella di ammettere una revoca ex art.

673 c.p.p. da parte del giudice dell’esecuzione, sulla base dell’assunto per cui un

mutamento giurisprudenziale che riaffermi la primazia dei diritti fondamentali è dotato di

una certa “stabilità”, sia rispetto al pregresso, che a futuri orientamenti sfavorevoli (490).

Del resto, nella vicenda considerata dal giudice a quo (Tribunale di Torino, in

composizione monocratica, ord. del 27 giugno 2011), mancava il crisma della stabilità,

490() A tal proposito, la Corte costituzionale ha affermato che «[…] la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni di fatto è accaduto. – In questa logica si giustifica, dunque, il mancato riconoscimento dell’overruling giurisprudenziale favorevole della capacità di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti: esigenza il cui fondamentale rilievo – come lo stesso rimettente ricorda – è ampiamente riconosciuto anche nell’ambito dell’Unione europea. Al fine di porre nel nulla ciò che, di per sé, dovrebbe rimanere intangibile – il giudicato, appunto – il legislatore esige, non irragionevolmente, una vicenda modificativa che determini la caduta della rilevanza penale di una determinata condotta con connotati di generale vincolatività e di intrinseca stabilità (salvo, nel caso di legge abrogatrice, un eventuale nuovo intervento legislativo di segno ripristinatorio): connotati che la vicenda considerata dal giudice a quo, di contro, non possiede». Il problema, dunque, per la Corte costituzionale, è che qualsiasi intervento giurisprudenziale, anche delle Sezioni unite, è ontologicamente instabile, posto che potrebbe essere rimesso in discussione in ogni momento da qualsiasi altro giudice e dalla stesse Sezioni unite. Argomentando a contrario, si potrebbe allora ritenere che un intervento giurisprudenziale che, invece, riconduca al rispetto dei diritti fondamentali la legislazione antiterrorismo è dotato di stabilità, in quanto insuscettibile di essere rimesso successivamente in discussione.

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posto che la sentenza Alacev aveva riguardato solo il mutato ambito di applicazione

soggettiva dell’art. 6 e non già la violazione di un diritto fondamentale dello

straniero/immigrato.

Ad ogni modo, all’interno del moderno Stato di diritto è auspicabile che la cultura

di ogni giudice sia tale da prevenire, nell’ambito di una futuribile legislazione

antiterrorismo, qualsivoglia pronuncia lesiva dei diritti fondamentali dell’individuo. Il

giudice, infatti, è tenuto, innanzitutto, a procedere ad una interpretazione

costituzionalmente e convenzionalmente conforme della legislazione vigente. Qualora il

rispetto delle norme costituzionali e convenzionali non sia possibile in via ermeneutica,

allora egli è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale. Ne consegue che

l’incidenza di un overruling favorevole su una precedente sentenza di condanna lesiva dei

diritti fondamentali è pur sempre una fattispecie residuale, comunque, di non trascurabile

rilievo.

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