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FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA Tesi di Dottorato in Diritto Processuale Civile EFFICACIA DEL PRINCIPIO DI DIRITTO E POTERI DEL GIUDICE DI RINVIO Tutor Dottoranda Prof. Roberto POLI Carmelita RIZZA Dottorato di ricerca in Diritto Processuale Civile XXIV CICLO Coordinatore Prof. Antonio CARRATTA

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FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

Tesi di Dottorato in Diritto Processuale Civile

EFFICACIA DEL PRINCIPIO DI DIRITTO

E POTERI DEL GIUDICE DI RINVIO

Tutor Dottoranda

Prof. Roberto POLI Carmelita RIZZA

Dottorato di ricerca in

Diritto Processuale Civile

XXIV CICLO

Coordinatore

Prof. Antonio CARRATTA

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«La tigre dei nostri giorni deve essere tigre

come se non fosse mai esistita prima alcun’altra tigre;

non si giova delle esperienze millenarie

fatte dalle sue simili nel profondo fragore delle foreste.

Ogni tigre è una prima tigre;

deve cominciare dal principio la sua professione di tigre.

L’uomo di oggi al contrario non deve

cominciare ad essere uomo, ma eredita

i modi di esistere, le idee, le esperienze vitali dei suoi predecessori,

e parte quindi dal livello del passato umano

che è andato accumulandosi sotto i suoi piedi.

Davanti a un qualsiasi problema

l’uomo non si trova solo con la sua reazione personale,

con ciò che gli viene in mente senza pensarci su,

ma dispone di tutte o molte delle reazioni, idee,

invenzioni dei suoi antenati.

Per questo la sua vita è il risultato dell’accumulazione di altre vite;

per questo la sua vita è sostanzialmente progresso;

non discuteremo ora se progresso verso il meglio, verso il peggio

o verso il nulla».

José Ortega y Gasset, La missione del bibliotecario (1935)

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SOMMARIO

Sommario ................................................................................................................. 2

Premessa …………………………………………………………………………5

Capitolo primo - L’enunciazione del principio di diritto nell’evoluzione del giudizio

di cassazione ............................................................................................. 8

§ 1. Il problema del raccordo tra la fase della cassazione e quella del rinvio:

l’esperienza francese e la sua importazione in Italia. ............................................... 8

§ 2. Dalla decisione sul punto di diritto alla enunciazione del principio di

diritto….. ................................................................................................................ 31

§ 3. L’incidenza dell’efficacia del principio di diritto sulla struttura e sulla

funzione del giudizio di cassazione e la sua strumentalità rispetto alle diverse

opzioni ricostruttive sulla Cassazione. ................................................................... 48

3.1. L’immediata efficacia vincolante del principio di diritto nel codice del 1940

come punto di emersione normativa di una tendenza del legislatore a connotare il

ricorso per cassazione come giudizio di impugnazione. ..................................... 48

3.2. Il vincolo del principio di diritto tra il modello «puro» di Cassazione e quello

della terza istanza. ........................................................................................... 70

3.3. Il principio di diritto nel quadro del recupero della funzione nomofilattica

nella riforma di cui al d.lgs. n. 40 del 2006 e a seguito della novella del 2009: la

pretesa «restaurazione» della Cassazione come giudice di legittimità. ............... 76

Capitolo secondo - Orientamenti interpretativi sulla natura e l’efficacia del vincolo

del principio di diritto ............................................................................. 95

§ 1. L’inquadramento del vincolo del giudice di rinvio alla pronuncia in punto di

diritto della Cassazione nel dibattito anteriore alla riforma del codice di rito del

1940. ....................................................................................................................... 95

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1.1. La tesi che attribuisce al principio di diritto natura ed efficacia di

preclusione. ..................................................................................................... 97

1.2. La tesi che attribuisce al principio di diritto natura ed efficacia di

giudicato…. ................................................................................................... 107

§ 2. Le proposte interpretative intorno alla natura del vincolo del giudice di rinvio

al principio di diritto enunciato dalla Cassazione nella dottrina successiva

all’introduzione del codice di rito. ....................................................................... 128

2.1. Il giudicato sul punto di diritto. ................................................................ 133

2.2. Il principio di diritto nella teoria dei giudicati sulle fattispecie. Critiche e

posizioni intermedie. ...................................................................................... 137

2.3. Il principio di diritto come ratio decidendi. ............................................... 154

2.4. A proposito dell’«ambiente processuale» in cui opera il vincolo: l’incidenza

dell’art. 393 c.p.c. nelle ipotesi ricostruttive circa la natura del principio di

diritto. Considerazioni minime sull’efficacia «interna» di accertamento. .......... 175

Capitolo terzo - Il principio di diritto e gli ambiti decisori del giudizio di rinvio .... 182

§ 1. Il principio di diritto in rapporto al sistema delle impugnazioni. .................. 182

1.1. Le preclusioni nel giudizio di rinvio: premessa. ....................................... 182

§ 2. La cognizione del giudice di rinvio. .............................................................. 216

2.1. Sulla vincolatività delle pronunce di annullamento che riconoscono vizi in

procedendo. .................................................................................................. 216

2.2. L’esame della giurisprudenza: la preclusione al rilievo di questioni su cui si

sia formato il giudicato interno, anche implicito. Le preclusioni in merito alle

questioni di nullità. ........................................................................................ 232

2.3. Preclusioni sui punti di merito dopo l’annullamento della sentenza per

violazione o falsa applicazione di norme di diritto. .......................................... 262

2.4. Riguardo al metodo del giudice di rinvio .................................................. 268

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2.5. Poteri del giudice di rinvio nel caso in cui la sentenza di annullamento ha

accolto la censura di cui al n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. ......................... 276

2.6. Considerazioni brevi sulla resistenza del principio di diritto allo ius

superveniens.................................................................................................. 297

Conclusioni ........................................................................................................... 306

Bibliografia ........................................................................................................... 313

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PREMESSA

Il presente lavoro è dedicato allo studio della portata del principio di

diritto che la Corte di cassazione enuncia ai sensi dell’art. 384 c.p.c. quando

decide un ricorso proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. «ed in

ogni altro caso in cui, decidendo su altri motivi di ricorso, risolve una

questione di diritto di particolare importanza»; quando, cioè, essa è chiamata

– secondo un metodo connaturato ed interno all’esercizio della giurisdizione

ma che nel rarefatto giudizio di cassazione diviene esigenza e funzione

obiettiva – a dispiegare in via ultimativa il significato della norma giuridica:

instar pugni et palmae, potrebbe dirsi, col sussidio della retorica baconiana1.

Non è facile giustificare un tema di indagine così poco modesto, se non

con una scelta dettata dall’inclinazione personale e dall’evidenza della

intrinseca espressività e fecondità del suo oggetto.

Si tratta infatti di una materia di rilevanza centrale, perché è evidente

che le questioni connesse all’enunciazione del principio di diritto ad opera

dell’organo di cassazione costituiscono un delicatissimo momento di

ricostruzione dell’intero sistema di impugnazioni, nel quale quell’organo

sorge proprio come garante della corretta interpretazione del diritto applicato

dalle magistrature di merito, col suo sindacato sugli errori in iure lamentati

dal ricorrente posto a sutura dei rimedi esperibili avverso la sentenza; e la

storia della Cassazione, allo stesso modo che i suoi attuali problemi,

dimostrano come, in effetti, la soluzione di quelle questioni fosse fin dagli

1 La metafora della mano, chiusa e aperta, per esprimere la relazione tra legge e

processo, utilizzata da BACONE, Tractatus de «Justitia Universali» sive de «Fontibus Juris»,

in uno titulo, per aphorismos, in De dignitate et augmentis scientiarum, app. al libro VII,

aph. n. 88, in The Works of Francis Bacon, London, 1858 (rist. anastatica del 1963, vol. I,

824), viene ripresa dal GIULIANI, Il modello di legislatore ragionevole, in Legislazione –

Profili giuridici e politici (Atti del XII Congresso nazionale di Napoli, 29-31 maggio 1989),

Milano 1992, 14, nt. 3.

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inizi ed è tuttora gravida di implicazioni sistematiche, in grado di

ripercuotersi in maniera determinante sulla struttura e sulla funzione

dell’istituto del ricorso per cassazione e delle impugnazioni ordinarie in

generale.

Chiunque, arrischiando a chiedersi cosa rappresenti la Cassazione nel

nostro ordinamento, sa di dover fare innanzitutto i conti con l’attuale

consistenza della «giurisdizione d’interpretazione» assegnatale dall’art. 65

della legge sull’ordinamento giudiziario; di doversi misurare, quindi, con il

problema dell’estensione della cognizione della Corte investita delle censure

ad opera del ricorrente, da un lato, e, dall’altro lato, con la complessa

ricostruzione dei confini della residua cognizione del giudice di rinvio.

Nel mezzo, tramite tra l’una e l’altra magistratura, sta il principio di

diritto, quale enunciato a cui, dice il nostro codice di rito civile, il giudice di

rinvio deve uniformarsi: e non si può non intravedere, dietro alla formula

apparentemente semplice adoperata dal legislatore nella scrittura dell’art. 384

c.p.c., l’ambizione di un progetto, nato oltre due secoli fa, di far dire ad un

organo istituito ad hoc il «puro» diritto del caso concreto, affinché altri lo

applichino correttamente alle contingenze storiche emergenti dalla singola

vicenda portata nel processo.

L’evoluzione della Cassazione ha condotto inesorabilmente al

disvelamento della natura impugnatoria del ricorso, che i suoi padri tanto

paventavano, al punto che per molto tempo, in quella fucina in cui venne

forgiato il prototipo moderno della nostra Cassazione che fu la Francia

rivoluzionaria, si è creduto nella possibilità di dissociare il potere di

censurare l’errore in punto di diritto con l’annullamento della sentenza che si

ritenesse esserne inficiata dal potere di emanare una decisione vincolante in

ordine al persistente dissidio interpretativo sul punto di diritto medesimo:

affidando l’un potere all’organo di cassazione, l’altro, all’assemblea

legislativa, quale unico detentore della funzione nomopoietica. Ma in seguito,

inesorabilmente anche se con fatica, le esigenze pratiche hanno prevalso sulle

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petizioni di principio, cosicché la sovraordinazione logica della funzione di

annullamento ha indotto a riconoscere alla Cassazione il potere di emanare

un principio di diritto con efficacia vincolante per il giudice chiamato a

decidere nel merito della causa nella quale il dubbio di legge abbia avuto

occasione di manifestarsi.

Com’è evidente, l’enunciazione del principio di diritto ad opera della

Corte di cassazione, in quanto momento di concretizzazione dell’attività di

interpretazione della norma e struttura archetipica del ragionamento giuridico

che muove dalla stessa, è argomento che investe profili di teoria generale, di

filosofia e di sociologia del diritto.

Tali aspetti non verranno trattati in questa sede, neanche in via mediata

o approssimativa, poiché è più sommesso scopo del presente studio tentare di

rispondere ad interrogativi di stretto interesse processuale, relativi ai riflessi

che si producono sul giudizio di rinvio a partire dall’enunciazione del

principio di diritto da parte della Suprema Corte.

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CAPITOLO PRIMO

L’ENUNCIAZIONE DEL PRINCIPIO DI DIRITTO NELL’EVOLUZIONE DEL

GIUDIZIO DI CASSAZIONE

§ 1. Il problema del raccordo tra la fase della cassazione e quella

del rinvio: l’esperienza francese e la sua importazione in Italia.

Sebbene contestasse a Piero Calamandrei – al cui monumentale

contributo di studî sulla cassazione1 la scienza giuridica italiana non cessa di

essere debitrice – di aver sopravvalutato il dato storico per fondare un sistema

delle impugnazioni2, Salvatore Satta non poteva esimersi dal riconoscere

validità a quel metodo di ricerca3, quando ribadiva che «la disciplina della

Cassazione non si può intendere senza conoscere la sua storia»4;

ammonimento che evidentemente supera il senso di un richiamo al magistero

del passato quale effetto di un riflesso condizionato di ordine intellettuale.

1 CALAMANDREI, La Cassazione civile, voll. I-II, Torino 1920 è l’opera che all’estero

ha fatto dire che la dottrina italiana ha studiato il problema della cassazione più

profondamente di quanto non sia stato fatto in tutti i paesi in cui vige questo sistema: il

riferimento è, in particolare, a SCHÖNKE, Bindung des Berufungsgerichts an das Urteil des

Revisionsgericht gemäss § 565, II, ZPO, in Prozessrechtliche Abhandlungen, dirette da

Goldschmidt, Heft IX, Berlin 1934. 2 SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano 1962, vol. II, t. 2, 9.

3 L’opera di Calamandrei costituisce ancora un limite per chi voglia “intentare” un

inquadramento delle impugnazioni sul suo modello: la consapevolezza di incorrere in

un’inutile duplicazione è dichiarata da CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili. Struttura e

funzione, Padova 1973, 6: «Ad una ricerca storica, però, si può solo opporre che uno

svolgimento compiuto di essa è stato già autorevolmente perfezionato, seppure non in tempi

recentissimi. D’altra parte, una rimeditazione acquisisce un proprio significato, se propone

dati più ampi e numerosi di quella, cui la precedente trattazione si è informata»: come a dire

che, dopo Calamandrei, non vale la pena di tornare sulla ricostruzione storica della

Cassazione. Che i due metodi (quello storico e quello sistematico) possano essere abbinati (e

forse debbano esserlo, quanto meno rispetto al tema che ci occupa) oggi è dimostrato, in

maniera non superabile, da PANZAROLA, La Cassazione civile giudice del merito, voll. I-II,

Torino 2005. 4 SATTA, Passato e avvenire della Cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1962, 946

ss.

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La Cassazione rappresenta infatti un’anomalia nel campo della

giurisdizione che non può essere compresa neanche superficialmente senza

una scomposizione degli elementi che essa sintetizza, una sorta di processo di

elementarizzazione che riparta da dove la Cassazione ancora non c’era ed è

stata costruita in certe contingenze e per rispondere a precise esigenze

storiche5.

5 Tale approccio sembra esporsi frontalmente al rilievo che, nella cultura

processualistica contemporanea, segnata – per via dell’introduzione del metodo sistematico

ad opera di Chiovenda – dalla netta prevalenza dell’atteggiamento concettualistico e

positivistico, «lo spazio che viene concesso alla storia non è … soltanto ristretto: è uno

spazio che si concede casualmente a qualcosa che si avverte come forse non del tutto

inutile»: così, TARUFFO, in DENTI-TARUFFO, La Rivista di diritto processuale civile, in

Quaderni fiorentini, XVI, Milano 1987, 663 (ove anche l’osservazione che – al di là di uno

schema culturale ben radicato nella nostra processualistica, per il quale «il senso della ricerca

storica sembra essere nella ricerca delle radici romane degli istituti processuali» – come

argomento contrario all’idea che tra i processualisti italiani difetti lo storicismo, con tutto

quanto di utile si porta dietro, viene addotta proprio «l’imponente ricostruzione storica

contenuta nel primo volume della Cassazione Civile di Calamandrei»: ID., op. loc. ult. cit.).

Ma, all’addebito per cui, nella nostra cultura giuridica, la ricerca storica «tende a divenire

erudizione, talvolta elegante, ma difficilmente integrabile in un approccio complessivo ai

problemi del processo» (ID., op. cit., 662) si sottrae, per sua natura, proprio il tema oggetto

della presente analisi, che sfugge ad inquadramenti dogmatici separati dalla considerazione

degli effetti che il cambiamento di ruolo, le contingenze storiche e le prassi di

autodeterminazione istituzionale sperimentate concretamente della Cassazione vi imprimono;

considerazione che costituisce il fil rouge di questo primo capitolo introduttivo. Un tema,

questo del principio di diritto enunciato dalla Cassazione, che forse proprio a causa della

segnalata trasversalità e permeabilità rispetto agli istituti di contorno è apparso non del tutto

compiuto ed autonomo, dal punto di vista scientifico, sì da essere, a quanto consta, poco

affrontato ex professo in maniera sistematica; fa eccezione il recente scritto di DALFINO,

Natura ed efficacia del «principio di diritto» enunciato dalla Cassazione, in Studi in onore di

Carmine Punzi, vol. III, Torino 2008, 41 ss., che interviene però a distanza di decenni dagli

ultimi contributi sul tema: MAZZARELLA, Appunti a proposito di «principio di diritto» e

«cassazione sostitutiva», in Riv. trim. dir. proc. civ. 1963, 1477 ss.; prima di lui, sollecitati

dall’introduzione del vincolo del giudice di rinvio al principio di diritto ad opera del

codificatore del ’42, ANDRIOLI, Il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, in

Riv. dir. proc. 1952, I, 279 ss.; COSTA, Sull’effetto vincolante della sentenza della Corte di

cassazione per violazione di legge, nota a Trib. Sassari, 12 luglio 1948, in Riv. dir. proc.

1949, 131; e MICHELI, L’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di

Cassazione nel nuovo codice di procedura civile, in Annuario dir. comp studi legisl., vol.

XVI, 1942, 255 ss.; ID., «L’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di

Cassazione e il giudicato sul punto di diritto», in Riv. dir. proc. 1955, I, 26 ss. Il tema del

vincolo ebbe ad attrarre anche l’attenzione di Enrico REDENTI, Il giudicato sul punto di

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«L’indagine sullo svolgimento storico della Cassazione»6 – osservava

Piero Calamandrei – «è una delle più fruttuose e appassionanti che si possano

svolgere nel campo delle istituzioni giudiziarie; perché essa mostra dalle più

remote origini la nascita autonoma, in momenti diversi e separati, dei suoi

vari elementi costitutivi, la cui aggregazione e la cui sintesi è un fatto

relativamente recente, maturatosi soltanto nello Stato moderno»7.

Di qui, la descrizione del ricorso per cassazione, quale mezzo per

provocare dal giudice superiore l’annullamento di una sentenza viziata da

un’ingiustizia in iure, come somma di due diversi concetti, stratificatisi in

momenti storici diversi: «(a) che il giudice, il quale pronuncia una sentenza

ingiusta, contravvenga più gravemente al suo ufficio quando l’ingiustizia sia

l’effetto di un errore di diritto che non quando derivi da un errore di fatto, e

che di conseguenza la sentenza viziata per un errore di diritto debba

considerarsi più gravemente viziata che non quella ingiusta per un errore di

fatto» – concetto che già si rinviene nel diritto romano e che si sviluppa, nel

diritto statutario italiano e nel diritto comune, nell’istituto della querela

nullitatis – e «(b) che, contro la sentenza ingiusta per errore di diritto, debba

esser concesso alle parti un rimedio esperimentabile oltre ed in più di quelli

dati contro la semplice ingiustizia»8: concetto di acquisizione più recente,

propria dello Stato moderno, che pone le basi per l’istituzione dell’organo di

cassazione nella Francia della Rivoluzione.

Anche l’oggetto della presente ricerca, che si concentra sull’efficacia

della pronuncia di cassazione nel sistema processuale civile italiano e

diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1949, 257 ss. e poi in Scritti giuridici in onore di

Francesco Carnelutti, vol. II, Padova 1950, 689 ss.; e di Vittorio DENTI, I giudicati sulle

fattispecie, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1957, 1326 ss. (poi ripubblicato in Studi in memoria

di Piero Calamandrei, vol. III, Padova 1958, 199 ss. ed in DENTI, Dall’azione al giudicato,

Padova 1983, 361 ss.). 6 Vedi già, di CALAMANDREI, la voce “storica” «Cassazione civile», in Nuovo Dig. It.,

Torino 1937, vol. II, 981 ss. 7 Conclusione con quella di Mortara: CALAMANDREI, La Cassazione civile, vol. I. cit.,

771. 8 CALAMANDREI, voce «Cassazione civile», cit., 986.

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specialmente sulle modalità con cui questa incide su e governa gli ambiti

decisori del giudizio di rinvio9, pertanto, non può prescindere da una pur

sommaria panoramica sull’evoluzione che precede l’attuale sistemazione

normativa della materia; evoluzione che rivela la complessità dietro

l’apparenza ineludibile della regola codificata nell’art. 384 del codice di rito

del 1940, la quale assegna all’organo di cassazione il compito di enunciare un

principio di diritto10

che, in caso di accoglimento del ricorso, vincolerà il

9 Per la ricostruzione del «sistema» cassazione anteriore all’entrata in vigore del

codice del 1940, si vedano, tra molti, i classici MORTARA, Manuale della procedura civile,

Torino 1910, 111 ss.; ID., Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, voll. I-II,

Milano s.d.; CALAMANDREI, La Cassazione civile, voll. I-II, Torino 1920; ID., voce

Cassazione civile, cit., 981 ss.; CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, vol. IV,

Padova 1926, 234 ss.; ID., Sistema del diritto processuale civile, vol. II, Padova 1938, 651

ss.; CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1936, 520 ss. e 589 ss.; ID.

Principii di diritto processuale civile, Napoli, rist. 1980, 1019 ss.; PROVINCIALI, Il giudizio di

rinvio, Padova 1936; PAVANINI, Contributo allo studio del giudizio civile di rinvio, Padova

1937. Nella vasta area di studiosi classici di seconda e terza generazione che si sono occupati

della materia, si rinvia, per ora, a FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, Milano 1960;

SATTA, Commentario al codice di procedura civile, vol. II, Milano 1962; ID., voce Corte di

cassazione, in Enc. dir., vol. X, Milano 1962, 811 ss.; ZANZUCCHI, Diritto processuale

civile, vol. II, Milano 1962, 267 ss.; CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit.;

ANDRIOLI, Diritto processuale civile, vol. I, Napoli 1979, 842 ss.; LIEBMAN, Manuale di

diritto processuale civile, vol. II, Milano 1984, 315 ss.; REDENTI, Diritto processuale civile,

Milano 1997, 491 ss.; alla monografia di E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, Milano 1967.

Quanto alla dottrina contemporanea, non può prescindersi oggi da PANZAROLA, La

Cassazione civile…, cit., voll. I-II, e, con riferimento alla ricostruzione degli ambiti decisori

nelle fasi di impugnazione, da POLI, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova

2002; da ultimo, sullo specifico inquadramento del giudizio di rinvio, si veda GAMBINERI,

Giudizio di rinvio e preclusione di questioni, Milano 2008. 10

Originariamente, la norma dell’art. 384 c.p.c. collegava l’enunciazione del principio

di diritto all’accoglimento di un ricorso proposto per violazione o falsa applicazione di

norme di diritto, mentre la formulazione attuale dell’art. 384, quale risulta a seguito della

riforma operata con l’art. 12 del d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, prevede che la Suprema Corte

enunci il principio di diritto in esito alla decisione di ricorsi proposti a norma dell’art. 360,

comma 1, n. 3 c.p.c. ed «ed in ogni altro caso in cui, decidendo su altri motivi di ricorso,

risolve una questione di diritto di particolare importanza». Quanto all’enunciazione del

principio di diritto, l’art. 143 disp. att. c.p.c., aggiunge che essa deve essere fatta

«specificatamente» nella sentenza di accoglimento, anche se tale precetto, nella pratica,

veniva sistematicamente disatteso dalla Suprema Corte, restando il più delle volte il principio

di diritto implicitamente racchiuso nella motivazione del provvedimento cassatorio. La

questione dell’esplicitazione del principio di diritto ad opera della Corte ha ripreso quota con

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giudice di rinvio nella definizione del merito della controversia; e dietro

l’altra norma, simmetrica, dell’art. 393 c.p.c., ove si prevede che l’effetto

vincolante delle pronunce della Cassazione si conserva malgrado l’estinzione

del processo (dovuta alla mancata riassunzione della causa davanti al giudice

di rinvio nel termine stabilito dall’art. 392 c.p.c. ovvero al prodursi di una

la riforma del 2005/2006 (realizzata dalla legge n. 80 del 14 maggio 2005 – di delega al

governo dell’attuazione della riforma al processo civile e, contestualmente, di conversione

del decreto-legge n. 35 del 2005, recante una prima tranche di modifiche al codice di rito – e

dal conseguente decreto legislativo di attuazione n. 40 del 2 febbraio 2006). Tre le

innovazioni più rilevanti, nel senso del rafforzamento dell’onere di esplicitazione del

principio di diritto. Oltre all’innovazione appena vista, apportata dall’art. 12 del d.lgs. n. 40

sull’art. 384 c.p.c. che, come detto, attualmente esige che la Corte enunci il principio di

diritto quando «decide» il ricorso a norma dell’art. 360, primo comma, n. 3 (dunque sia in

caso di accoglimento, sia in caso di rigetto delle censure) ma anche «in ogni altro caso in cui,

decidendo su altri motivi di ricorso, risolve una questione di diritto di particolare

importanza», viene in evidenza la previsione introdotta dall’art. 4 del ridetto d.lgs. n. 40, che

ha dato rinnovato vigore all’istituto del principio di diritto nell’interesse della legge

modificando l’art. 363 del codice di rito nel senso di prevedere che «il principio di diritto può

essere pronunciato dalla Corte anche d’ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è

dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare

importanza». Infine, nella prospettiva del rafforzamento dell’onere di specificazione del

principio di diritto, come noto, il legislatore della riforma del 2005/2006 aveva previsto

l’introduzione del quesito di diritto come requisito di ammissibilità del motivo di ricorso; su

tale istituto, però, la novella del 2009 ha fatto marcia indietro. In proposito, l’art. 6 del d.lgs.

n. 40, che inseriva nel codice di rito l’ormai abrogato art. 366-bis, recava la previsione per

cui «nei casi previsti dall’articolo 360, primo comma, numeri 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di

ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un

quesito di diritto». L’onere di formulazione del quesito, a pena di inammissibilità del motivo,

si poneva in corrispondenza del diritto del ricorrente ad ottenere dalla Suprema Corte una

risposta in termini di principio di diritto, espressamente esplicativa della logica di sistema. Il

volume esorbitante di casi in cui la Corte si è trovata impigliata nel lavoro di ricostruzione e

concretizzazione di un requisito richiesto sotto la sanzione gravissima di ammissibilità del

motivo di ricorso ha indotto il legislatore a tornare sui suoi passi con la riforma del 2009, che

ha abrogato il sistema del quesito di diritto ed introdotto un altro presupposto di

ammissibilità del ricorso, con la previsione del meccanismo del c.d. «filtro in cassazione», di

cui al nuovo art. 360 bis c.p.c.: non è più la carenza del requisito formale del quesito di

diritto a determinare l’inammissibilità del motivo di impugnazione ma invece la circostanza

che 1) il provvedimento impugnato abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme alla

giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare

l’orientamento della stessa; oppure che 2) sia manifestamente infondata la censura relativa

alla violazione dei principî regolatori del giusto processo: così, il nuovo art. 360 bis c.p.c.,

che mira a sbarrare l’accesso al giudizio dinanzi alla Corte a ricorsi sostanzialmente privi di

carattere interrogativo o di reale problematicità. Su tali riforme, v, infra, § 3.

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– 13 –

causa di estinzione del giudizio di rinvio già avviato) ed è destinato ad

esplicarsi «nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della

domanda»: ossia nell’eventualità che venga instaurato un nuovo processo

sullo stesso rapporto giuridico che formava oggetto del giudizio di rinvio

tardivamente intrapreso o estinto.

Il potere di emettere pronunce su questioni di diritto con efficacia

vincolante per il prosieguo della causa in sede di rinvio o per il processo

riproposto appare come un addentellato naturale della funzione della Corte di

cassazione quale organo istituito al dichiarato scopo di assicurare, secondo la

nota formula dell’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario (R.D. 30

gennaio 1941, n. 12), «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della

legge», nonché «l’unità del diritto oggettivo nazionale».

Eppure, proprio sul terreno della disciplina positiva dei rapporti tra

giudizio di cassazione e giudizio di rinvio11

, le premesse ideologiche da cui

origina l’istituto della Corte di cassazione hanno giocato un ruolo

11

Mentre, sul versante della scienza giuridica, pur nell’ampiezza di studi sul giudizio

di cassazione, la tematica dei rapporti tra cassazione e giudizio di rinvio – con la collaterale

considerazione del legame tra principio di diritto e processo riproposto – ha faticato ad

imporsi nella sua centralità nell’ambito delle trattazioni sistematiche del ricorso per

cassazione: per tale osservazione, MAZZARELLA, Analisi del giudizio civile di cassazione,

Padova 2003, 35-36: «(…) a parte alcuni pregevoli contributi (forniti per lo più sotto il

passato codice)» – non può qui l’a. non alludere, per lo meno, con riguardo al processo

civile, alle monografie sul giudizio di rinvio di Pavanini e di Provinciali, già citate – «il

rinvio è stato trattato dalla dottrina come una semplice appendice o come un completamento

di indagini sulla Cassazione, e, in ogni caso strettamente condizionato dalle premesse,

espresse o tacite, del singolo ricercatore circa la natura e la funzione di questa. Mentre, quasi

completamente ignorato, nella elaborazione teorica degli schemi del giudizio di cassazione e

del giudizio di rinvio, nonché dei loro rapporti, è stato il processo riproposto a norma

dell’art. 393 cit. È accaduto così che conclusioni sulla natura e funzione della Cassazione

siano state prese a prescindere dalla puntuale considerazione delle norme positive sugli

eventi che conseguono, o possono conseguire, alla cassazione della sentenza, ma pronte

tuttavia, quelle conclusioni, a proiettare se stesse sull’interpretazione di dette norme,

condizionandone a priori il risultato. È andata perduta, in altri termini, la percezione della

biunivocità del rapporto che unisce Cassazione e ripresa del giudizio in una medesima

istituzione di giustizia, e, quindi, la visione di insieme che dovrebbe impedire che la

considerazione dell’uno aspetto sia già compromessa da posizioni aprioristiche raggiunte in

ordine all’altro, e viceversa».

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– 14 –

determinante a che la soluzione del problema del raccordo tra le due fasi

venisse impostato sull’esclusione della forza vincolante della pronuncia della

Cassazione, così che per lungo tempo il giudice di rinvio ha conservato la

libertà di decidere la causa anche in modo difforme rispetto alla pronuncia

della Corte.

Notoriamente, le ragioni di questo scollamento tra giudizio di

cassazione e giudizio di rinvio sono da rintracciarsi nel taglio nettamente

antigiurisdizionale impresso dai legislatori della Francia rivoluzionaria a

quell’organo che rappresenta – come ormai è pacificamente riconosciuto – il

più immediato antecedente storico della nostra Suprema Corte, ossia il

Tribunal de Cassation, e nelle propaggini che anche da noi è stata in grado di

produrre l’idea originaria di dare al vertice della giustizia una rassicurante

connotazione politica12

.

Nella temperie rivoluzionaria, l’istituzione del Tribunal muoveva

dall’ideologia della separazione dei poteri e dall’esigenza di tutelare le

insindacabili scelte del potere legislativo contro applicazioni eversive delle

leggi da parte dei giudici, sempre teoricamente possibili; nonché, al fondo, da

una profonda diffidenza nei confronti del potere giudiziario13

, cui, con il

titolo III del Decreto sull’organizzazione giudiziaria 16-24 agosto 1790,

veniva fatto divieto di interpretare le leggi14

.

12

V., per tutti, SATTA, voce Corte di cassazione, cit., 797 ss. 13

Per ragioni istintive, prima ancora che ideologiche: cfr. MONTESQUIEU, Esprit de

lois, livre XI, ch. V: «la puissance de juger, si terrible parmi les hommes». 14

Cfr., ora, PUNZI, Il processo civile – Sistema e problematiche, Torino 2010, vol. II,

§ 8.1. Alla base di questa costruzione, evidentemente, sta il «feticismo» (CALAMANDREI, La

Cassazione civile, vol. I, cit., 436), «il senso mistico» o «l’utopia» della legge, «della sua

personificazione ed entificazione, della sua capacità di informare e regolare la realtà senza

intermediazione di alcuno, della sua onnipotenza e più della sua autosufficienza» (SATTA,

op. cit., 798): utopia, propria del secolo dei lumi, nella quale si radicava la convinzione che

la legge, in sé perfettamente autosufficiente, andasse protetta da possibili contraventions ad

opera dei giudici (termine che allude più alla ribellione che non all’errore), non da se stessa e

dalla molteplicità delle sue articolazioni interpretative sagomate sui casi concreti. È proprio a

questa utopia, a questa fiducia nella Loi con la elle maiuscola, che debbono farsi risalire sia

le imponenti opere di codificazione, celebrative dell’attitudine razionalizzante della legge,

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– 15 –

Tale esigenza di protezione della legge, esasperata dalla ideologia della

separazione dei poteri, indusse il costituente francese a costruire il nuovo

Tribunal de Cassation, sfruttando l’archetipo del Conseil des parties

dell’Ancien Régime15

, con i connotati che emergono dal decreto 27

sia la creazione di un organo meramente politico posto a presidio della legge stessa qual è

l’istituto del Tribunal de Cassation, un edificio che riposa tutto sulla contrapposizione tra

giudizio di diritto e giudizio di fatto, quindi sull’idea che si possa conoscere della legge

senza conoscere del caso e che, nel far ciò, si possa non essere giudici: «È veramente

paradossale questo voler divincolarsi dal giudice e dal giudizio per assicurare l’osservanza

della legge che solo il giudice e il giudizio possono assicurare»: SATTA, op. loc. ult. cit. Ma è

stata infine la storia a incaricarsi di smentire quell’utopia: da un lato, valorizzandone

l’intuizione di fondo, e cioè che la legge che viene fuori dai casi concreti, sottoposta alla

verifica sperimentale dell’applicazione da parte dei giudici, va conservata come bene a sé,

nella sua astrattezza di ordinamento; dall’altro lato, restituendo all’organo che a questa

fondamentale opera di vigilanza è chiamato «la qualità che solo può avere un organo

destinato a conservare la legge nel concreto, cioè la qualità di giudice» (ID., op. loc. ult. cit.). 15

Nell’ambito del conflitto secolare che oppose in Francia il potere accentratore del

sovrano e le tendenze autonomistiche dei Parlamenti sorti in varie città quali organi

giudiziari di ultima istanza (Cours souveraines), si inserisce il sistema, normativizzato da

Enrico III di Valois con l’ordinanza di Blois del 1579, e riconfermato nell’ordinanza del

1667, del controllo del Re sulla corretta attuazione delle proprie disposizioni normative, con

l’introduzione di una norma «ch’è veramente la consacrazione della Cassazione come istituto

generale a tutela della legge», ovvero la norma che riconosce al Re il potere di dichiarare

«nuls et de nul effet et valeur» «les jugemens, sentences et arrestes qui seront donnez contre

la forme et teneur» delle ordinanze regie (art. 208 ord. di Blois del maggio 1579): così,

CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 300 ss. Onde ovviare all’impossibilità pratica che

il Re esercitasse d’ufficio, «de son propre mouvement», il potere di annullamento delle

sentenze viziate da «contravention aux ordonnances», viene istituita un’apposita sezione del

Conseil d’Etat, il Conseil des parties, specializzato nella decisione sulle «demandes en

cassation», ovvero le istanze con cui qualsiasi interessato, soccombente in un giudizio «en

dernier ressort», di ultima istanza, poteva segnalare al Re eventuali infedeltà di una Cour

souverain alle ordinanze regie: queste costituiscono l’unico parametro di legittimità della

demande en cassation, nell’impianto di cui all’ordinanza di Blois, mentre l’Ordinanza del

1667 comminerà la nullità delle pronunce delle giurisdizioni souverains per violazione delle

ordinanze, degli editti e delle dichiarazioni del sovrano, ossia di qualsiasi disposizione

normativa promanante dal potere regio, con esclusione quindi delle regole del diritto romano

o del droit coutumier (nonché degli arrêts de règlement dei Parlamenti, con efficacia

eccedente il singolo caso nell’ambito dei singoli distretti); per l’assunzione della funzione di

tutela del diritto obiettivo si dovrà dunque attendere il periodo rivoluzionario:

CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 307; 355 ss.

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– 16 –

novembre-1° dicembre 179016

: quelli di un organo non appartenente

all’ordine giudiziario, bensì configurato come giunta del corpo legislativo

(établi auprès du Corps législatif), deputato a custodire la legge attraverso

l’esplicazione di un’attività di controllo sull’operato dei giudici, e al quale era

conferito il compito di annullare le sentenze pronunciate «en dernier ressort»

per «contravention expresse au texte de la loi», ma senza incursioni nel

merito della causa – il «fond des affaires» –, la cui cognizione restava

affidata all’esclusiva competenza del potere giudiziario17

.

Coerente con questa prospettiva era il mancato riconoscimento

dell’efficacia vincolante all’interpretazione che nella decisione rescindente

del Tribunal veniva data alla legge applicata nel giudizio di merito e,

correlativamente, il macchinoso sistema congegnato per raccordare, in

assenza del vincolo, la fase della cassazione della sentenza con la ripresa del

processo innanzi al giudice di rinvio: all’annullamento della sentenza da parte

del Tribunal poteva infatti seguire una pronuncia del giudice di rinvio

conforme a quella già cassata, dunque un nuovo ricorso al Tribunal ad opera

della parte interessata e una nuova pronuncia rescindente, anch’essa, così

come la prima, sprovvista di effetto vincolante per il giudice di rinvio, e

dunque suscettibile di essere da questi disattesa, quanto al punto di diritto,

con una decisione concorde con le due precedenti sentenze cassate.

Solo sulla soglia del terzo ricorso al Tribunal, a fronte dell’ennesima

impugnazione della parte interessata, la «navette» fra giudici di merito e

Tribunal subiva una definitiva battuta d’arresto, grazie all’istituto del référé

cd. obligatoire, così chiamato per contrapposizione al référé facultatif18

,

16

«… cioè il testo di diritto positivo rispecchiante nella forma più genuina l’originaria

concezione che del Tribunal de cassation ebbero i suoi fondatori»: CALAMANDREI, La

Cassazione civile, cit., 432-433. 17

Per la ricostruzione del modello francese, si veda, ancora, CALAMANDREI, La

Cassazione civile, cit., 429 ss. e gli Autori ivi citati; CALAMANDREI-FURNO, voce Cassazione

civile, in Noviss. Dig. It., II, Torino 1957, 1052 ss. V., ora, PUNZI, op. loc. ult. cit. 18

Su cui v. CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 442.

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– 17 –

quest’ultimo consistente nella possibilità, riconosciuta ai giudici di merito, di

provocare, in pendenza del giudizio, un provvedimento interpretativo da

parte del legislatore ogniqualvolta riconoscessero sussistente la necessità di

chiarire il significato di una legge o quella di emanare una nuova norma, a

causa della non perfetta coincidenza tra fattispecie concreta e schema legale o

comunque dell’irreperibilità nel diritto positivo di una disposizione che

potesse letteralmente attagliarsi alla fattispecie da definire: ciò in quanto,

come abbiamo visto, ai giudici di merito era fatto divieto di interpretare la

legge19

.

Il référé obligatoire consisteva in ciò, che dopo la duplice «ribellione»

dei giudici di rinvio alla decisione del Tribunal, questi, investito per la terza

volta del ricorso, avrebbe dovuto necessariamente sottoporre la questione al

Corp Legislatif, prima di pronunciarsi. All’organo legislativo, dunque, in

ultima istanza, veniva affidato il compito di risolvere il conflitto, attraverso

l’emanazione di un décret déclaratoire de la loi, questo sì vincolante, sia per

il Tribunal che per l’eventuale terzo giudice di rinvio (nell’eventualità, cioè,

che ad essere misconosciuta fosse proprio l’opzione applicativa della legge

reiteratamente sostenuta dai giudici di merito)20

.

Tale farraginoso meccanismo doveva valere, nelle intenzioni dei

rivoluzionari francesi, a salvaguardare il principio della separazione dei

poteri, assicurando che al Tribunal fosse inibito di incidere sulla decisione

del merito della causa e di ingerirsi, in tal modo, nel campo riservato al

potere giudiziario; e si tratta, com’è evidente, di una soluzione dettata dalla

necessità di non delegittimare l’apriorismo ideologico della natura

19

V. Titolo II, art. 10, del Decreto 16-24 agosto 1790: «Le tribunaux ne pourront

prendre directement ou indirectement aucune part à l’exercise du pouvoir législatif, ni

empêcher ou suspendre l’exécution des décrets du Corp Législatif sanctionnés par le Roi»:

cfr. CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 435. In argomento, v. ALVAZZI DEL FRATE,

L’interpretazione autentica nel XVIII secolo: divieto di interpretatio e riferimento al

legislatore nell’illuminismo giuridico, Torino 2000. 20

V., ancora, CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 473 ss.; sul punto, v. PUNZI,

op. cit., 451-452.

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– 18 –

esclusivamente politica dell’organo concepito come «sentinella della legge»,

secondo una fortunata formula che è passata storicamente ad indicare il ruolo

dell’organo di cassazione nel sistema francese21

.

Sennonché, lasciando da parte le dispute intorno al quadro

evoluzionistico dell’istituto della Cassazione22

, ai nostri fini è sufficiente dare

21

Fu Pierre-Louis Prieur, alla seduta dell’Assemblea Nazionale dell’11 novembre

1790, a definire il Tribunal de Cassation come una «sentinelle établie pour le mantien des

lois»: CALAMANDREI-FURNO, voce Cassazione civile, cit., 1061. 22

Su cui v. CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 500. La tesi di Calamandrei,

per cui la Cassazione nasce in Francia come organo effettivamente caratterizzato da una

natura tout court politica, per poi assumere solo in un secondo momento quella connotazione

giurisdizionale che costituisce ormai un tratto essenziale e imprescindibile dell’istituto, viene

fortemente criticata da MAZZARELLA, Passato e presente della Cassazione, in Scritti dedicati

ad Alessandro Raselli, Milano 1971. Il titolo dell’articolo, che, secondo l’esplicita premessa

dell’a., vuole riverentemente parafrasare il sopracitato scritto di Satta (nel quale peraltro

viene svolta una delle prime e più compiute formulazioni delle obiezioni sviluppate dallo

stesso Mazzarella), intende sottolineare il rischio che si arrivi, seguendo gli argomenti posti

alla base dell’evoluzione prospettata da Piero Calamandrei, a «non poter raccordare il

presente al passato della Cassazione, vale a dire (…) la giurisdizionalità attuale della Corte

alle sue affermate origini». Mazzarella nega che si possa postulare, come fa Calamandrei, un

radicale mutamento di natura dell’organo e afferma, di contro, che, a dispetto degli enfatici

proclami dei legislatori rivoluzionari, il sistema della cassazione si trova fin dal principio

nell’area della giurisdizione. Sarebbe una tesi priva di rispondenza storica, secondo l’a.,

quella che pone l’epicentro dell’istituto originario della Cassazione nel ricorso nell’interesse

della legge e relega a un ruolo marginale il ricorso su impulso di parte, considerato, secondo

la ricostruzione calamandreiana, come «un’astuzia dell’ordinamento» per sfruttare l’interesse

del privato a fini di soddisfazione generale. All’idea che l’un tipo di ricorso rappresenti un

prius rispetto all’altro non autorizzano né la genesi dei dati positivi, dal momento che nel

decreto istitutivo del Tribunal del 1790 figurano tanto il ricorso nell’interesse della legge

quanto il ricorso del privato, né l’analisi razionale di quei dati, se è vero che, nel caso del

ricorso del privato, trattandosi della verifica della coincidenza tra l’interesse astratto della

legge e l’interesse concreto della parte, non si pone neppure un problema di strumentalità,

mentre sempre e comunque si pone un problema di giudizio. Neanche convincente, ad avviso

di Mazzarella, è l’altro argomento che fa leva sul carattere puramente negativo delle

pronunce del Tribunal, essendo queste volte a cassare le sentenze senza però pronunciarsi

sull’interpretazione della legge con efficacia vincolante rispetto al caso concreto. Se, riflette

l’A, l’improduttività di effetti positivi immediatamente incidenti sul rapporto dedotto in

giudizio costituisce, nell’impostazione ricostruttiva di Calamandrei, la prova irrefutabile

dell’originaria natura non giurisdizionale dell’organo di cassazione, si può far cadere il

basamento della tesi in esame sol che si apprezzi nella giusta misura il fatto che, considerato

nel suo insieme, il sistema della cassazione includeva fin dall’inizio la possibilità che,

proprio per il tramite dell’attività ostruzionistica del Tribunal, si arrivasse all’emanazione di

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– 19 –

brevemente conto delle correzioni che furono via via apportate al sistema

della cassazione quanto al problema del raccordo tra la fase rescindente

presso la Suprema Corte e il procedimento dopo cassazione presso il giudice

del rinvio.

L’evidenza dell’impraticabilità della strada additata a tal proposito dal

decreto istitutivo del Tribunal de Cassation si era fin da subito manifestata,

perché la sospensione della soluzione della lite fino all’emanazione di una

legge interpretativa, a fronte dell’insanabile dissidio tra cassazione e giudici

di merito, comportava un allungamento intollerabile dei tempi della giustizia.

E il legislatore rivoluzionario non tardò a correre ai ripari: abolito l’istituto

del référé, introdusse la regola per cui, qualora contro la sentenza di merito

venisse presentato un secondo ricorso per cassazione sulla base degli stessi

motivi, il Tribunal de Cassation, anziché riferire all’Assemblea Nazionale

per l’interpretazione legislativa, avrebbe dovuto decidere a sezioni riunite.

L’inconveniente stava in ciò, che la regola del référé obligatoire e quella

della decisione a sezioni unite non erano equipollenti, laddove nulla la legge

diceva sull’efficacia dell’intervento censorio delle sezione unite stesse

rispetto al secondo giudice di rinvio.

Invero, al fine di evitare di immettere il Tribunal nel giudizio, non era

stato sancito il necessario adeguamento dell’autorità di rinvio all’opinione del

Tribunal resa in adunanza plenaria, ma si confidava nel fatto che

l’autorevolezza della fonte del responso avrebbe dissuaso i giudici di merito

dal ribellarsi.

In realtà, la prassi si dimostrò insensibile alla persuasività morale della

decisione resa in adunanza plenaria, e il legislatore francese dovette di nuovo

un décret déclaratorie de la loi – quello che Mazzarella non esita a definire «un vero e

proprio intervento giurisdizionale del nuovo sovrano, cioè il Corpo dei legislatori

rivoluzionari» – in grado di esplicare i suoi effetti nella controversia pendente inter partes. A

sostegno di questa tesi, l’a. riporta anche l’opinione di SATTA, voce Corte di cassazione, cit.,

800, che liquida il preteso carattere negativo dell’attività del Tribunal come «una

elucubrazione dottrinaria e politica».

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– 20 –

porre mano alla disciplina dei rapporti tra l’organo di cassazione e i giudici di

merito per evitare la palese inutilità della funzione di annullamento attribuita

alla giurisdizione di legittimità.

In forza della legge 16 settembre 1807 venne ripristinato l’istituto del

référé, che assumeva però diverse modulazioni e una nuova veste.

Da un lato, l’organo di cassazione – il quale, a partire da un

senatoconsulto del maggio del 1803, aveva assunto il nome di Cour in luogo

di quello di Tribunal – aveva la facoltà, in sede di secondo ricorso, di

provocare in anticipo un’interpretazione legislativa per dirimere il conflitto

manifestatosi tra la Corte stessa e il giudice del primo rinvio, fermo restando

l’obbligo di provvedere in tal senso in sede di terzo ricorso, nell’ipotesi in cui

fosse stato il giudice del secondo rinvio a trovarsi in disaccordo con la Cour.

Nel contempo, si stabiliva che l’interpretazione legislativa andava resa «dans

la forme des règlements d’administration publique», cioè, in sostanza, con

decreto del Consiglio di Stato, organo del potere esecutivo che

successivamente, con la Restaurazione, si convertirà in Consiglio del Re.

Il sistema del règlement affidava potere decisivo in materia di

interpretazione legislativa ad un organo dell’esecutivo, peraltro ad una

struttura cui la carta statutaria del 1814 non dedicherà alcuno specifico

riconoscimento, di fatto riconsegnando «nelle mani del principe l’ultimo fato

delle liti»23

: per tale ragione, la scelta del legislatore del 1807 si palesava

radicalmente incompatibile con la costituzione politica francese, secondo cui

l’attribuzione del compito di fare leggi interpretative doveva spettare

unicamente alle assemblee legislative.

Si comprende così, dopo un tentativo del Parlamento di riportare in

vigore il vecchio sistema, bloccato dal diniego della sanzione regia, la

soluzione adottata forse in maniera poco meditata con la legge del 30 luglio

1828: essa interviene, da un lato, a sancire che, dopo due cassazioni, contro la

23

Così, MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, vol. I,

Milano, s. d., 78, richiamato da CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 522.

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– 21 –

sentenza del secondo magistrato di rinvio non potesse essere consentito alcun

ricorso in cassazione, sebbene la decisione assunta dal secondo magistrato

fosse conforme a quelle già annullate dalla Cour (per giunta con decisione

resa a sezioni riunite, in seconda battuta). Dall’altro lato, introduce la

previsione per cui del conflitto irrisolto doveva essere data comunicazione al

Re affinché formulasse un rapporto e presentasse all’Assemblea, nella prima

sessione utile, una proposta di legge interpretativa, valevole solo per i casi

futuri.

In tal modo, veniva sì garantito il principio di separazione dei poteri

che il precedente sistema aveva gravemente compromesso, ma – poiché nel

perdurante conflitto tra la Cour e l’autorità giudiziaria di merito sarebbe stata

senz’altro quest’ultima a prevalere, nella definizione del caso concreto – sul

piano pratico la pronuncia dell’organo di cassazione veniva ad essere privata

di ogni efficacia ed autorevolezza, poiché «l’autorità giudiziaria sapeva che il

mezzo migliore per aver ragione contro l’intervento censorio di quest’organo

era quello di perseverare nell’errore»24

.

Con l’approvazione della legge del 1° aprile 1837 si arrivava

finalmente alla svolta: tale legge inaugura un sistema basato sul principio per

cui la piena libertà di decidere dopo la rescissione di una sentenza per errore

di giudizio da parte dell’organo di cassazione dovesse essere garantita solo al

magistrato di primo rinvio.

Abrogando la legge del 1828, la riforma del 1837 provvedeva a

cancellare definitivamente le vestigia del référé obligatoire, e stabiliva che

24

CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 523. L’Autore osserva come, dopo il

timido tentativo iniziale di favorire l’influsso positivo dell’organo di cassazione sulla

risoluzione definitiva delle liti, e di riconoscerne l’ufficio di regolatore e unificatore

dell’interpretazione giurisprudenziale, dietro i provvedimenti del 1807 e del 1828 occhieggi

il rinnovato vigore dell’idea di evitare proprio il consolidarsi di un simile compito in capo

alla Corte, tanto che tornano in voga i toni della retorica contro l’usurpazione del potere di

interpretare la legge, e l’enfatizzazione dell’attitudine delle norme a spiegarsi con i loro

stessi termini e non con «le glosse arbitrarie» della Corte: il Cornudet, nel discorso alla

Camera dei Pari il 22 luglio 1828, in Moniteur 1828, 1195, citato da CALAMANDREI, La

Cassazione civile, cit., 525.

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– 22 –

nell’ipotesi in cui si manifestasse una divergenza tra giudici di merito e Corte

di cassazione (qualora, cioè, venisse censurata in Cassazione la decisione

della magistratura di merito novellata, dopo l’annullamento della pronuncia

del giudice di primo rinvio, per le stesse ragioni per cui la decisione

precedente era stata annullata in accoglimento del ricorso alle sezioni

semplici), la pronuncia della Suprema Corte, resa questa volta a sezioni unite,

avrebbe avuto efficacia vincolante, quanto alla dottrina giuridica ivi

enunciata, nei confronti del secondo giudice di rinvio, il quale, secondo la

prescrizione contenuta all’articolo 2, «se conformera à la décision de la Cour

de Cassation sur le point de droit jugé par cette Cour»25

.

Tale soluzione consentiva di contemperare l’esigenza di conservare alla

magistratura di merito un margine di libertà nella decisione sul punto di

diritto all’interno del procedimento successivo alla rescissione (laddove

risultava in grado di imporsi al giudice investito del rinvio soltanto una

pronuncia delle sezioni unite che ribadisse quanto già assunto dalle sezioni

semplici nell’annullare una sentenza di altro giudice di rinvio per gli stessi

motivi per i quali la cassazione era stata effettuata, al primo approdo della

controversia presso la Suprema Corte, ad opera delle sezioni semplici stesse),

con l’altra ineludibile esigenza di creare un collegamento tra la fase di

cassazione e quella del rinvio e di evitare gli eccessivi dispendi di attività

inevitabilmente implicati nella procedura del référé obligatoire.

Si consolidava, in tal modo, la versione più moderna dell’istituto della

cassazione che, così configurato, dall’ordinamento francese veniva importato

25

CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 526. Questa legge, che riconosce alla

Corte di cassazione il potere di prevalere nei dissidi con i giudici di merito, e alle sue

pronunce un’efficacia di diritto sulla decisione del caso concreto e un’efficacia di fatto

sull’eventuale decisione dei casi simili, sancisce, ad avviso di Calamandrei, l’avvento del

nuovo corso della Cassazione, il passaggio, cioè, secondo l’impostazione criticata dal

Mazzarella, v. supra, nota n. 11, dall’esercizio di funzioni di controllo costituzionale a

carattere negativo, connesse alla sua origine di organo squisitamente politico, all’esercizio

della funzione giurisdizionale «francamente positiva» di regolatrice della giurisprudenza.

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– 23 –

in vari Stati subalpini nel periodo rivoluzionario e napoleonico, penetrando in

Italia insieme con l’occupazione francese.

In seguito, sebbene la caduta di Napoleone comportò ovunque – tranne

che nel Regno di Napoli26

– la reviviscenza delle leggi processuali vigenti

prima dell’occupazione, ben lontane dalla dottrina della separazione dei

poteri che in Francia era stata la base ideologica sui cui era sorta l’istituzione

della cassazione, l’esperienza della cassazione non andò perduta.

Quando, a poco a poco, quasi tutti gli Stati della penisola scelsero di

darsi nuove codificazioni in materia giudiziaria, l’istituto della cassazione,

forgiato sul prototipo francese, potè essere adottato spontaneamente: in

particolare, a recepirlo appieno furono le costituzioni del Regno delle due

Sicilie27

, della Toscana28

e del Piemonte29

.

In tal modo, al momento dell’unificazione del Regno, l’organo di

Cassazione era ormai naturalizzato, per così dire e, nonostante qualche

contrasto, passò in eredità all’ordinamento del neonato stato italiano.

La tendenza all’autonomia decentratrice, che sopravvisse per molto

tempo ad un amalgama di popolazioni ottenuto ratione imperii, determinò il

permanere a lungo di una pluralità di Cassazioni regionali30

, in luogo di

26

CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 709. 27

Ove con la Restaurazione non vennero spazzate via le leggi francesi, e l’organo di

Cassazione venne mantenuto per essere poi confermato, come Corte Suprema di Giustizia a

Napoli, con la legge 29 maggio 1817; la legge organica dell’ordine giudiziario pe’ reali

domini oltre il Faro del 7 giugno 1819 istituì poi la Corte di Giustizia a Palermo; furono poi

le Leggi della procedura nei giudizî civili del 26 marzo 1819 a perfezionare la disciplina

organica del ricorso per cassazione: cfr. CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 720 ss. 28

Riforma giudiziaria di Leopoldo II, con Motuproprio 6 agosto 1838:

CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 723 ss. 29

Regio editto di Carlo Alberto 30 ottobre 1847; mentre il Codice di procedura civile

per gli Stati Sardi del 16 luglio 1854 regolava solo il concorso del ricorso per cassazione con

altri rimedi, il Codice di procedura riveduto, del 20 novembre 1859, conterrà una disciplina

specifica ed organica del ricorso per cassazione CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit.,

726 ss. 30

Ché, alle quattro Corti esistenti, quella di Torino – trasferita a Milano con R.D. 27

ottobre 1859 e poi da lì rientrata nel 1864 – e quelle di Firenze, Napoli e Palermo, venne ad

aggiungersene, in forza della legge 12 dicembre 1875, una quinta a Roma, sorta con

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– 24 –

un’unica Corte al vertice della gerarchia giudiziaria, come sarebbe stato più

logico in considerazione della funzione di disciplina e uniformazione della

giurisprudenza che l’organo andava progressivamente consolidando31

: se nel

188832

si sarebbe pervenuti all’unificazione, a Roma, della Cassazione

penale, si dovette attendere il 192333

per vedere unificata, sempre con sede

nella capitale, anche la Cassazione civile.

Sotto questo aspetto, la Cassazione in Italia presentava inizialmente una

evidentissima dissomiglianza rispetto all’omologo francese.

Ma l’impressione che si riceve dal codice post-unitario è che i

conditores, senza preoccuparsi troppo della realtà di fatto della pluralità delle

Cassazioni territoriali, disciplinarono l’istituto sul modello francese come se

l’unificazione della Cassazione fosse già compiuta34

.

Del paradigma francese fu infatti ripreso l’impianto35

pure in assenza

dei presupposti che ne costituivano la base, e, ai fini che qui interessano, da

quel modello fu mutuata la soluzione del problema del collegamento della

fase della cassazione con quella del rinvio: sia l’art. 547 del codice di

procedura civile del 1865 che l’art. 683 del codice di procedura penale dello

stesso anno accoglievano proprio il sistema che, già al primo profilarsi del

dissenso tra la Corte e la magistratura di rinvio – dal momento, cioè, che

fosse stato il giudice del primo rinvio a non aderire al criterio di diritto

l’apparenza modesta di due sezioni temporanee, ma destinata a consolidarsi fino a

soppiantare ed assorbire le altre: cfr. CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 735 ss. 31

CALAMANDREI, op. loc. ult. cit.; Cfr. CALAMANDREI-FURNO, voce Cassazione

civile, cit., 1061. 32

L. 6 dicembre 1888, n. 5825. 33

L. 24 marzo 1923, n. 601. 34

Cfr. TARUFFO, Il vertice ambiguo - Saggi sulla Cassazione civile, Bologna 1991,

40. 35

Benché, indubbiamente, anche il modello della Revision germanica esercitasse una

certa attrattiva e fosse destinato a far sentire la sua influenza, nei tentativi di riforma che si

susseguirono dall’unificazione in poi e, più in generale, nella teoria e nella pratica della

Cassazione in Italia. Ma, più diffusamente sul punto, v. infra, par. 3.

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– 25 –

enunciato nella pronuncia rescindente della Corte – rendeva le sezioni riunite

giudici di quel dissenso e autrici della regola del caso concreto36

.

Tale sistema venne battezzato come della c.d. «doppia conforme»:

espressione che allude alla circostanza che, per aversi un dictum vincolante

per il giudice di rinvio sul punto di diritto – o «articolo», come preferiva dire

l’art. 683 c.p.p. del 186537

– occorreva che la Suprema Corte lo affermasse

due volte, enunciandolo a sezioni semplici e ribadendolo a sezioni unite38

.

36

Le ragioni che giustificano questa scelta del legislatore del 1865 vengono

efficacemente esposte da MORTARA, Commentario, vol. II, cit., 64, che sostanzialmente le

riconduce ai due preconcetti posti a base della matrice francese: all’estraneità della

Cassazione al giudizio sul caso concreto, totalmente riservato al giudice del caso stesso, e al

contenuto puramente negativo, di mera invalidazione della sentenza impugnata, delle

pronunce di accoglimento della Suprema Corte. 37

Recita infatti l’art. 683 del c.p.p. 1865: «Allorquando, dopo la cassazione di una

prima sentenza pronunciata inappellabilmente, la seconda sentenza proferita nella medesima

causa, fra le stesse parti che agiscono nella medesima qualità, sarà impugnata per gli stessi

motivi proposti contro la prima, la Corte di Cassazione si pronunzierà a sezioni unite. Se la

seconda sentenza è annullata per gli stessi motivi proposti contro la prima, la Corte, il

Tribunale o il Pretore al quale è stata rimandata la causa, si uniformerà alla sentenza della

Corte di Cassazione sull’articolo di diritto da essa deciso»: la formulazione è ripresa da

BORSANI-CASORATI, Codice di procedura penale italiano commentato, vol. VI, Milano

1878. 38

V. FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, cit., 158. Per la verità, la locuzione,

per tradizione passata ad indicare lo schema dei rapporti tra Cassazione e giurisdizione di

rinvio inaugurato in Francia con la legge del 1837 nel senso sopra indicato, ha reso servizio a

molteplici varianti di significato, tutte orbitanti intorno al concetto per cui, nel processo

moderno nel quale, con la pluralità dei gradi di giurisdizione, domina il principio del

riesame, occorre la convergenza di opinione di due magistrature per dare irretrattabilità ad un

enunciato di diritto: si veda, a titolo esemplificativo, MATTIROLO, Trattato di diritto

giudiziario civile italiano, quinta edizione, vol. IV, Torino 1904, 1148-1149, che cita al

riguardo Piccaroli, riferendo la doppia conforme alla circostanza di avere «sullo stesso punto,

sulla medesima questione due pronunciati conformi, l’uno del giudice del merito, l’altro della

Cassazione» (corsivo nel testo; nello stesso senso si esprimerà CARNELUTTI, Lezioni di

diritto processuale civile, vol. IV, Padova 1930, 290-291). In BORSANI-CASORATI, Codice di

procedura penale italiano commentato, vol. VI, cit., 313, la locuzione viene utilizzata per

indicare un principio che inerirebbe, ad avviso degli AA., al sistema della terza istanza, il

principio per il quale «la cosa giudicata non si possa avere se non precedettero due sentenze

conformi; sicché sol quando le sentenze de’ primi giudici sieno discordanti, si apre la via al

terzo giudizio, affinché il magistrato di terza istanza, uniformandosi all’una od all’altra delle

due sentenze, ne faccia nascere due conformi». Questo stesso significato emerge dalle parole

di MORTARA, Commentario, vol. II, cit., 15-16: nell’ottica di una critica de iure condendo al

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Secondo lo schema adottato dal legislatore del 1865, pressoché identico

nei due codici di rito, le sezioni unite della Cassazione potevano addivenire

ad una pronuncia in punto di diritto dotata di efficacia vincolante in quanto

conforme ad una precedente sentenza delle sezioni semplici qualora

ricorressero alcuni presupposti: i) che le due sentenze impugnate

successivamente con ricorso per cassazione fossero state pronunciate fra le

stesse parti agenti nella medesima qualità (presupposto, questo dell’identità

delle parti e delle qualità delle stesse, che ovviamente va inteso come identità

giuridica, non come medesimezza degli individui o permanenza nella stessa

condizione civile39

); ii) che la sentenza pronunciata dal giudice di rinvio

venisse impugnata per gli stessi motivi che erano stati fatti valere con il

ricorso per cassazione contro la precedente sentenza poi cassata:

implicitamente, con ciò si riconosceva che, per potersi dar luogo al giudizio

solenne delle sezioni riunite, il giudice di rinvio, nella traiettoria dei

ragionamenti in cui si snoda il giudizio, doveva aver affrontato e risolto una

questione di diritto nello stesso modo, ossia per gli stessi motivi, con cui

l’estensore della sentenza cassata aveva affrontato e risolto quella medesima

questione di diritto40

, ritenuta da entrambi passaggio obbligato per giungere

alla soluzione del caso e tale da determinare due dispositivi conformi41

.

sistema della terza istanza e al suo supporto ideologico, cioè il discutibile «concetto che in

tre successivi esami possa venire garantita, mediante la formazione di una maggioranza (due

sentenze conformi) la più sicura giustizia della decisione» (non si dimentichi che l’Autore si

manifesta a favore della soppressione dell’appello), egli sottolinea come il fatto di

«organizzare il sistema della terza istanza in base al principio della maggioranza collegiale,

ossia della doppia conforme» procuri semplicemente «il vantaggio esteriore di abbreviare la

durata di alcuni giudizi interdicendo il ricorso in terza istanza dopo due sentenze conformi di

primo e di secondo grado». 39

V. Cass. Torino 16 febbraio 1870. 40

Sia l’art. 547 che l’art. 683 dei codici di rito del 1865 non stabilivano un

collegamento specifico tra l’efficacia vincolante della pronuncia della Corte e la devoluzione

alla Corte della cognizione sul tipico error iuris in iudicando, cioè la violazione o falsa

applicazione della legge, come faceva l’art. 384 c.p.c. del codice del 1940 nella versione

vigente fino alla riforma del 2006. Infatti le suddette norme si limitavano a richiedere che il

dissidio tra la Corte di cassazione e il tribunale di rinvio cadesse su un principio di diritto, sul

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– 27 –

quale soltanto poteva formarsi il vincolo nei confronti del giudice di secondo rinvio. Il nesso

tra la doglianza di un errore di giudizio di merito e la vincolatività della pronuncia in iure

della Corte, tuttavia, andava evidenziandosi, sia da parte della dottrina applicata al dibattito

sulla riforma, che da parte della giurisprudenza, anche se non sempre in modo consapevole:

in Cass. Roma 15 luglio 1902 si afferma che, poiché il conflitto tra la Cassazione e il giudice

di rinvio, per potersi far luogo al solenne procedimento davanti alle sezioni unite, deve

vertere sopra un principio di diritto, se l’annullamento viene pronunciato per difetto di

motivazione, e la sentenza di rinvio venga denunciata per lo stesso vizio, la competenza a

conoscere del nuovo ricorso non spetterà alle sezioni unite (della Cassazione territoriale,

stante ancora la pluralità di Corti nel regno), bensì alle sezioni semplici. 41

Si sta in sostanza dicendo che, ancorché in assenza di norme esplicite sul punto, al

sistema della cassazione fosse inerente il principio della causalità dell’errore, in virtù del

quale in tanto può aversi cassazione per errore di diritto in quanto quell’errore di diritto abbia

avuto influenza sul dispositivo. Si veda, in proposito, CALAMANDREI, La Cassazione civile,

vol. II, cit., 155 ss., il quale correla l’operatività del principio della causalità dell’errore di

diritto all’impugnazione di parte: ad avviso dell’a., nel caso in cui si scorga un errore

d’interpretazione nei motivi, che tuttavia non è in rapporto di causa ad effetto col dispositivo,

pur non mancando l’interesse dello Stato alla riprovazione dell’errore stesso, difetta

l’interesse della parte a far annullare la sentenza che resta sorretta da altri motivi corretti. Ne

consegue che non si può dubitare del fatto che nel sistema della cassazione italiana

inaugurato nel 1865 viga la regola, che il diritto processuale tedesco codificherà

esplicitamente per la Revision, per la quale non può pronunciarsi l’annullamento della

sentenza che contenga nella motivazione un errore di diritto, quando la sentenza sia,

ciononostante, giusta, perché l’errore non ha prodotto sul dispositivo quelle conseguenze

pratiche da cui solo il privato può risultare pregiudicato: dovendosi riconoscere che, se il

ricorso per cassazione si fonda su «una inscindibile cooperazione tra l’interesse pubblico

coll’interesse privato», venendo meno uno dei due coefficienti, viene a cessare la ragion

d’essere dell’istituto. In realtà, se nel suo contenuto minimo il principio della causalità

poteva apparire come una necessità intrinseca del giudizio di cassazione, la sua deduzione

per via esclusivamente sistematica era in grado di sollevare molti e spinosi problemi, come

evidenziato in maniera sintetica ed efficace da FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione,

cit., 19 ss. Elio Fazzalari osserva che, sotto la vigenza del codice di rito del 1865, la tendenza

della Corte ad utilizzare il criterio della causalità nell’esame della quaestio iuris ad essa

sottoposta per assolvere al «pur lodevole intento di non esercitare il proprio potere di

annullamento contro giudizi di merito che fossero conformi al diritto nella conclusione, pur

risultando erroneamente motivati», aveva spinto la Corte a varcare i confini assegnati dalla

legge alla sua cognizione in iudicando, e a slabbrare la regola basilare per cui la Corte

conosce solo delle questioni dedotte dal ricorrente quali coerenziate dai motivi di censura.

Perché, se è vero che risultava compatibile con i poteri della Corte sul sindacato degli errori

di giudizio andare a verificare se l’errore denunciato fosse reale o solo apparente, se, cioè, il

vizio sorpreso nei motivi fosse solo un difetto nella catena argomentativa del giudice

incapace di ripercuotersi in maniera decisiva sull’iter logico complessivo, il fatto invece di

controllare se, in presenza di un errore reale, altri profili giuridici confermassero l’esattezza

del dispositivo, significava già forzare l’ambito del devoluto, il quale è segnato non già

dall’ampiezza della questione dibattibile in sede di merito, ma piuttosto dagli specifici profili

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– 28 –

di quella questione che il ricorrente ha individuato nel ricorso. Il potere di correggere i

motivi tenendo fermo il dispositivo esulava, poi, decisamente dalla cognizione della Corte

quando essa non si limitava ad allargare i confini della quaestio iuris dedotta, alla ricerca di

altri profili giuridici che fossero in grado di sorreggere il dispositivo, ma passava a valutare

una questione diversa da quella che le era stata deferita, «riconoscibile nella sua autonomia

per essere costituita non solo da un’altra componente di diritto, ma da un’altra componente di

fatto», sebbene risultante ex actis: come avveniva, ad esempio, quando la Corte passava

all’esame dei motivi concorrenti concernenti un’altra questione di diritto o anche dei motivi

decampati nella sentenza di merito, e che la Corte andava a riabilitare ritenendoli influenti e

idonei a sostenere il dispositivo; o, addirittura, quando essa procedeva al vaglio di nuove

questioni di diritto, neanche affrontate dal giudice di merito. Per un’agile analisi del

fenomeno di progressiva emersione normativa, in ambito penale, del principio della causalità

dell’errore e del potere correttivo della Corte, e del perfezionarsi del collegamento fra le

discipline relative all’accertamento della causalità e alla determinazione del vincolo del

giudice di rinvio al dictum della Corte, si veda SIRACUSANO, Il principio di diritto nel

giudizio penale di rinvio, in Studi in onore di F. Antolisei, vol. III, Milano 1965, 283 ss., ove

la regola del vincolo al dictum della Corte viene apprezzata come «il solo congegno» idoneo

a saggiare concretamente la possibilità, ritenuta in via d’ipotesi dalla Corte nell’annullare una

sentenza, che, se nella fase di merito l’errore non fosse stato commesso, il giudizio avrebbe

potuto essere diverso. Per una decisa opposizione alla prassi degli interventi correttivi della

Corte, di cui viene anche fornita un’ampia – e in qualche evenienza paradossale – casistica,

v. PROVINCIALI, Il giudizio di rinvio, cit., 15 ss., il quale considera con estremo sospetto la

sostituzione dei motivi della sentenza impugnata ad opera della Corte, sulla base del

semplice – e forse semplicistico – rilievo che «o l’errore è tale (anche per la sua necessaria

relazione col dispositivo), da giustificare la cassazione della sentenza (…) o l’errore non è

tale da determinare la cassazione, non rientrando nei casi indicati dalla legge, ed allora il

giudice di cassazione non può neppure interloquire perché non vi era neppure possibilità di

adirlo»: tertium non datur. Da questa premessa, dunque, deriverebbe la conseguenza della

negazione dell’efficacia vincolante alle pronunce di rettifica della Corte, in quanto afferenti

la parte meramente ragionativa della sentenza. Tale efficacia va esclusa, ad avviso dell’a.,

anche a voler ritenere decisiva la considerazione della funzione di tutela dell’esatta

applicazione del diritto che l’ordinamento assegna alla Corte. Infatti, se la manifestazione più

appariscente di questa funzione è rappresentata dal ricorso nell’interesse della legge, che non

ha effetti inter partes e che si risolve in una «platonica dichiarazione del diritto», analogo

trattamento deve essere riservato alle rettifiche che la Corte voglia apportare alle sentenze di

merito il cui dispositivo sia conforme al diritto: «l’efficacia della correzione dei motivi non è

diversa, in definitiva, da quella propria dell’auctoritas rerum similiter judicatarum». Questa

conclusione circa l’efficacia della correzione dei motivi sotto l’impero del codice Pisanelli è

del resto conforme a quella offerta da Calamandrei. Questi, come sappiamo, nel momento in

cui afferma l’inerenza al sistema della cassazione della necessaria verifica della causalità

dell’errore nell’ambito della cognizione dischiusa dalla censura per violazione o falsa

applicazione di legge, ritiene pienamente legittimo il potere della Corte di correggere i

motivi della sentenza di merito contestualmente al rigetto del ricorso contro la stessa, e di

esprimere così una parziale disapprovazione di quel giudicato. Quando però si sofferma sul

valore della correzione, già significativo è il fatto che la consideri come espressione di un

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– 29 –

La disciplina dettata in tema di efficacia della pronuncia della

Cassazione in punto di diritto, trattando espressamente solo l’ipotesi di

ribellione manifesta – o resistenza, come da taluni si diceva – del giudice di

rinvio all’enunciato della Corte, per integrare la quale occorreva che

ricorresse il duplice presupposto del totale disconoscimento, da parte del

magistrato di rinvio, della soluzione offerta dalla Cassazione, da un lato, e

dell’integrale accoglimento della soluzione prospettata nella sentenza

annullata, dall’altro, lasciava aperti numerosi interrogativi circa la

proponibilità del secondo ricorso in una serie di ipotesi intermedie42

: i) il caso

in cui difettasse l’estremo del ripudio del dictum della Corte ad opera del

giudice di rinvio, per effetto di un ricollocamento della fattispecie concreta

fuori dall’area di sussunzione sotto la regola individuata dalla Suprema

Corte; ii) il caso in cui mancasse l’adesione alla tesi sostenuta dalla sentenza

di merito poi cassata, ad esempio quando il giudice di rinvio disattendesse

entrambe le soluzioni interpretative adottate dal giudice di merito precedente

e dalla Suprema Corte e ne scegliesse una terza; ed infine, iii) l’eventualità

più semplice, antitetica a quella disciplinata, in cui il giudice di primo rinvio

si attenesse alla dottrina contenuta nella sentenza rescindente delle sezioni

semplici.

«dissenso teorico» della Corte dall’argomentazione erronea del giudice di merito; poi,

postosi di fronte all’interrogativo se la correzione debba considerarsi suscettibile di sostituire

la motivazione errata con efficacia positiva e obbligatoria, se, in sostanza, il giudicato debba

coprire la sentenza di merito così come integrata dai rilievi rettificativi della Corte, l’a. non

esita a dare a tale quesito una perentoria risposta negativa, e a concludere che la rettifica

operata dalla Corte nel rigettare il ricorso altro non può avere che un’autorità di fatto. Contro

questa opinione, la presa di posizione più netta è quella espressa da CARNELUTTI,

Interpretazione autentica delle sentenze, in Riv. dir. proc. civ. 1933, II, 53 ss. e ivi 1934, I,

121 ss.: qui l’a. considera il potere di rettifica con contestuale rigetto del ricorso quale

particolare emanazione di un potere di interpretazione autentica delle sentenze di merito

spettante alla Corte Suprema, dal che trae la conclusione che la correzione apportata dalla

Cassazione alla sentenza erroneamente motivata è assistita da una vera e propria autorità

obbligatoria di diritto. 42

In tema, si veda la ricognizione effettuata da MATTIROLO, Trattato, cit., 1146 ss., a

cui si rimanda anche per la giurisprudenza in materia.

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– 30 –

In particolare, poteva darsi il caso che, stante l’ammissibilità di nuove

prove e di nuove questioni nel giudizio di rinvio, al giudice di rinvio si

prospettasse una situazione tale da far risultare il dictum della Corte del tutto

inconferente. Per un’ipotesi del genere, in cui egli, risolvendo una questione

di fatto nuova con influenza sul dispositivo, lasciasse inapplicata la massima

di diritto enunciata dalla Cassazione, senza con ciò contraddirla, si era

consolidata la soluzione secondo cui le doglianze del soccombente non

trovavano aperto il varco per le sezioni unite, potendo piuttosto essere

ospitate da un nuovo ricorso alle sezioni semplici, che risultavano non essersi

ancora pronunciate sul punto43

.

Ad analoga conclusione la giurisprudenza perveniva per l’ipotesi in cui

il magistrato di rinvio, sempre senza disattendere la pronuncia della Corte,

giudicasse in modo conforme al giudice di merito la cui sentenza era stata

cassata, fondando, però, il dispositivo su motivi diversi rispetto a quella44

e

nel caso in cui il giudice di rinvio si discostasse sia dalla sentenza cassata che

da quella della Corte, scegliendo un’ulteriore soluzione interpretativa.

Nel caso, invece, dell’adesione completa del giudice di rinvio al

pronunciato della Corte, la questione che si poneva, nel silenzio della legge,

era di ammettere oppure no la possibilità di sottoporre al vaglio delle sezioni

unite della Cassazione la questione di diritto che era stata uniformemente

risolta dalla Corte e dal giudice di rinvio. Tale quesito riceveva

costantemente risposta negativa soprattutto da parte della Suprema Corte di

Torino, ma anche da parte delle Corti di Palermo, di Firenze e di Roma, alle

quali solo in un secondo momento si accodò la Cassazione di Napoli.

La motivazione generalmente addotta era che il testo legislativo,

preoccupandosi solo di subordinare l’efficacia vincolante della pronuncia

43

In questo senso, Cass. Roma 29 dicembre 1902; Cass. Torino 3 febbraio 1903. 44

Un’operazione, questa, speculare all’intervento correttivo della Corte sulla

sentenza, ampiamente inteso, che trovava spazio in sede di rinvio in quanto la Corte avesse

annullato la sentenza anziché correggerne i motivi.

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della Corte a sezioni unite alla condizione che la sentenza di merito fosse

stata denunciata – e venisse quindi cassata – per gli stessi motivi per i quali

era stata impugnata e annullata una precedente sentenza, in maniera indiretta

riconosceva che il secondo ricorso era ammissibile in quanto esistesse una

divergenza tra il pronunciato della Corte Suprema e quello del giudice del

rinvio.

All’opinione contraria, infatti, che faceva leva sull’assenza di un

esplicito divieto sul punto45

, era facile opporre l’obiezione che, non potendo

dedursi per via d’interpretazione sistematica un potere rilevantissimo quale

quello di impugnativa, in mancanza di una specifica previsione che

espressamente accordasse alla parte la facoltà di impugnare, con nuovo

ricorso alle sezioni unite46

, la sentenza del giudice di rinvio che si fosse

uniformato alla decisione della Corte, tale facoltà era da escludersi47

.

§ 2. Dalla decisione sul punto di diritto alla enunciazione del

principio di diritto.

Il passaggio dai vari sistemi di ultima istanza, presenti al momento

dell’unificazione nelle diverse regioni della penisola, ed eterogenei sotto

molteplici profili, all’accoglimento di un ordinamento di cassazione unitario

45

Opinione prevalente nella dottrina e nella giurisprudenza francesi, e in Italia pur

autorevolmente rappresentata, tra gli altri, dall’On. De Falco: questi, fautore del progetto

ministeriale di riforma dell’ordinamento della Cassazione presentato al Senato il 1° febbraio

1872, era tra coloro che si dichiaravano, come si evince dalla relazione preliminare, propensi

ad ammettere il secondo ricorso nell’ipotesi di specie. Fu il Senato che, in occasione della

discussione del progetto, avvertì l’esigenza di inserire una disposizione che riconosceva

inammissibile, nel caso in cui la sentenza di rinvio fosse conforme alla decisione della

Cassazione, un ricorso per annullamento sul punto di diritto deciso. 46

Il MATTIROLO, Trattato, vol. IV, cit., 1150, evidenziava, semmai ce ne fosse

bisogno, che, esclusa la possibilità di proporre il nuovo ricorso alle sezioni unite, per

incompatibilità di una simile interpretazione con la lettera della legge, l’ammissibilità del

nuovo ricorso veniva in radice eliminata, ostando alla proposizione del medesimo alle

sezioni semplici l’aver queste già pronunciato sulla questione. 47

Cfr., in tal senso, MATTIROLO, Trattato, vol. IV, cit., 1150, e poi CHIOVENDA,

Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 1024-1025, 1028; e nella dottrina

processualpenalistica, BORSANI-CASORATI, Cod. proc. pen., cit., 457.

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sagomato sullo schema della cassazione francese non fu del tutto indolore,

sebbene non fossero mancate esperienze preunitarie attinte, in modo più o

meno marcato e consapevole, a quel modello.

Fin dal 185948

, la riflessione sul problema dell’assetto definitivo da

dare all’organo di cassazione nel Regno, oltre che attardarsi sull’annosa

querelle intorno all’opportunità o meno del mantenimento delle Cassazioni

territoriali, la cui soluzione era di là da venire, dovette subire il confronto con

i fautori della terza istanza e con il crescente interesse per il modello della

Revision di tipo germanico.

Nel momento in cui, poco più di vent’anni dopo l’approvazione del

primo codice di rito civile dell’Impero prussiano, nel 1877, dall’infaticabile

laboratorio dei giuristi tedeschi vennero fuori, con rapidità invidiabile, le

leggi sull’ordinamento giudiziario e di riforma del codice di procedura

civile49

, il sistema della Revision ne risultò profondamente modificato quanto

alla cognizione sui vizi in procedendo, essendo stato reso, in questo campo,

più assimilabile allo schema della querela nullitatis che non a quello della

terza istanza50

; e, grazie ai suoi elementi di originalità, esso si impose di

prepotenza all’attenzione della dottrina processualcivilistica e dei

riformatori51

.

Da allora, il dibattito sulla riforma della Cassazione in Italia fu sempre

più inevitabilmente condizionato dal fronte di coloro che subivano la

fascinazione della Revision tedesca: forgiata com’era sulla cd. «freie

48

Anno della promulgazione del primo codice di procedura civile del Regno di

Sardegna, codice che, insieme con la parallela legge sull’ordinamento giudiziario,

considerava la Corte di cassazione come organo giudiziario supremo e unico nello Stato e

recava una disciplina organica del ricorso per cassazione: v. supra, nt. 24. 49

Le nuove leggi sull’ordinamento giudiziario e sulla procedura civile recano la data

di pubblicazione del 20 maggio 1898. 50

Infatti, mentre il codice originario attribuiva al giudice supremo il compito di

rilevare d’ufficio qualunque error in procedendo, la riforma era intervenuta nel senso di

circoscrivere la cognizione del giudice di revisione agli errores in procedendo rilevati dal

ricorrente. 51

V. MATTIROLO, Trattato, vol. IV, cit., 899, specie sub nt. 2, e ss.

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Revisionspraxis», cioè la libertà della magistratura suprema di procedere

all’integrale riesame del giudizio in iure, con una cognizione dunque estesa

anche al di là degli errores in iudicando denunciati dal ricorrente52

, alla quale

faceva da pendant il potere di emanare una nuova pronuncia di merito,

sostitutiva della sentenza del giudice d’appello (salva la predisposizione del

rinvio, con enunciazione vincolante in punto di diritto, in presenza della

necessità di ulteriori accertamenti di fatto: § 565 ZPO), il modello della

Revision tedesca a molti appariva maggiormente in grado, rispetto a quello

della Cassazione francese, di rispondere alle istanze di giustizia.

Dopo l’approvazione e la pubblicazione del codice di rito del Pisanelli,

nel 1865, che riproduceva in Italia il sistema della «doppia conforme»,

numerosissimi si susseguirono i progetti53

, parlamentari ed extraparlamentari,

che, nel quadro di riforme più ampie del codice di procedura civile e, più in

generale, dell’ordinamento giudiziario, miravano a regolare i rapporti tra

giudizio di cassazione e giudizio di rinvio in modo difforme rispetto alla

previsione di cui all’art. 547 c.p.c.

Da parte di molti si propugnava l’idea di eliminare il rinvio nell’ipotesi

in cui la lite si presentasse matura per la decisione, quanto all’accertamento

del sostrato fattuale, e di affidare di conseguenza alla Corte il potere di

applicare essa stessa il punto di diritto alla controversia.

In particolare, in tale direzione si muoveva il disegno di legge

sull’ordinamento della Cassazione presentato dal ministro De Falco il 1°

febbraio 1872 al Senato, il quale da un lato manteneva la possibilità del

giudice di primo rinvio di discostarsi dall’enunciato in punto di diritto della

sentenza di annullamento pronunziata a sezioni semplici, dall’altro, però,

52

Tale principio veniva esplicitamente codificato dal § 559 ZPO, recante la

previsione per cui la Corte suprema avrebbe dovuto esaminare d’ufficio il giudizio di diritto

in tutta la sua ampiezza, anche nei punti non sollevati dalla parte ricorrente come motivi di

ricorso. 53

Per l’analisi dei quali si vedano CALAMANDREI, La Cassazione civile, vol. I, cit.,

742 ss.; MATTIROLO, Trattato, cit., 898 ss.; PROVINCIALI, Il giudizio di rinvio, cit., 117 ss.

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prevedeva che, nel caso in cui venisse proposto un secondo ricorso per gli

stessi motivi dalle medesime parti avverso la sentenza del giudice di rinvio,

le sezioni unite della Corte potessero pronunciarsi nel merito, applicando al

fatto stabilito il punto di diritto deciso (artt. 21-22): approvato dal Senato, il

progetto non riuscì a pervenire alla discussione pubblica presso la Camera dei

Deputati54

.

Nello stesso ordine di idee si collocano il disegno di legge presentato

alla Camera dal ministro Vigliani il 15 aprile 187555

, finalizzato a una

riforma per l’unificazione delle diverse cassazioni territoriali mediante

l’istituzione di una Corte suprema del Regno con sede a Roma, e i successivi

disegni di legge promossi da Tajani56

: questi progetti, nell’aderire al sistema

prospettato dal disegno De Falco che riconosceva alla Corte il potere di

decidere nel merito quando la causa fosse matura, se ne emancipavano nella

misura in cui giungevano a prevedere che la Corte potesse decidere nel

merito sin dal giudizio sul primo ricorso57

.

Nel disegno promosso da Tajani, energico sostenitore della necessità di

sopprimere la libertà sul punto di diritto del giudice di primo rinvio,

presentato prima alla Camera e poi, a distanza di un anno, al Senato, nel

1886, si stabiliva espressamente che, pur quando occorresse il rinvio «per gli

ulteriori accertamenti di giustizia», il giudice di rinvio58

avrebbe dovuto

ritenere irrevocabilmente deciso il punto di diritto sul quale la Corte aveva

statuito. Sia il progetto di Vigliani che il progetto di Tajani del 1886 furono

accantonati. Il primo non venne neanche discusso al secondo ramo del

54

CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 748 s. 55

In Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XII, Sess. 1874-1875, IV, Doc. 116. 56

In Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XXII, Sess. 1885, Docc. 348-39. 57

Un progetto redatto dal ministro Gianturco, redatto con la collaborazione di Carlo

Lessona, che recava innovazioni simili a quelle previste dal disegno Tajani affidando però

alle sezioni regionali il compito di provvedere sul rescissorio, non venne neanche presentato

al Parlamento. 58

Che si prevedeva dovesse essere una diversa sezione del tribunale che aveva

emanato la sentenza poi cassata, e comunque giudici-persone fisiche diversi di quella

medesima autorità.

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Parlamento; quanto al progetto Tajani, non riuscirono a guadagnargli il

necessario consenso politico nemmeno i cospicui rimaneggiamenti apportati

dalla commissione senatoria presieduta dal De Ferraris, i quali, pur lasciando

illesa la regola dell’immediata insorgenza del vincolo al dictum in iure della

Corte in capo alla magistratura di rinvio, avevano provveduto ad espungere

dal testo la previsione che attribuiva alla Corte il potere di emanare pronunce

sostitutive di merito, ritenuto in contrasto con l’essenza e gli scopi

dell’organo.

Il 12 febbraio 1903 venne presentato alla Camera il disegno Zanardelli-

Cocco Ortu59

, come gli altri atteso dall’insuccesso: esso ribadiva la necessità

di mantenere il magistrato di cassazione come puro giudice di legittimità,

anche perché lo immaginava al di sopra di cinque corti di revisione che

avrebbero realizzato un terzo grado pieno di giurisdizione.

In ossequio a questa prospettiva, il progetto Zanardelli-Cocco Ortu non

solo non ammetteva la Corte a pronunciarsi sostitutivamente sul merito, ma

teneva ancora ferma la piena libertà del giudice di primo rinvio che il disegno

Tajani aveva inteso rimuovere, ritenendo con ciò di assicurare, come si legge

nella Relazione che accompagnava la presentazione del progetto, «il

benefizio derivante dall’attrito delle opinioni» tra le sezioni semplici della

Corte e il giudice del rinvio. È interessante notare che la Commissione

parlamentare che aveva posto allo studio questa riforma, credette di contro

opportuna l’introduzione del sistema che attribuiva efficacia vincolante per il

giudice di rinvio alla sentenza della Cassazione fin dal primo ricorso, e

dispose, così come era stato fatto dai progetti precedenti, che il rinvio

dovesse essere commesso alla stessa autorità che aveva emanato la sentenza

cassata, rappresentata però da altri giudici.

Evidentemente, l’idea di vincolare alla pronuncia in iure della Corte il

magistrato di merito fin dal primo rinvio andava via via procurandosi

59

In Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XXI, Sess. 1902-1904, Doc. 294.

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argomenti sempre più convincenti, e ad essa aderì anche il successivo

progetto del ministro Orlando, avanzato una prima volta nel 1908, e una

seconda volta l’anno seguente60

, a distanza di tre anni dalla presentazione del

progetto Gallo61

, che invece manteneva ancora intatta la libertà del giudice di

primo rinvio di disattendere il dictum della Corte.

Lungo la stessa strada, anche il progetto licenziato nel 1918 dalla

Commissione per il dopoguerra62

, alla cui predisposizione attese il fondatore

della nostra dottrina processualcivilistica, Giuseppe Chiovenda, nel suo art.

196 accordava alla Cassazione già in sede di accoglimento del primo ricorso

il binomio di poteri già propugnato dal Tajani, ossia l’abbinamento del potere

di decidere la causa nel merito in assenza di esigenze istruttorie da soddisfare

e quello di emettere, in alternativa, una pronuncia immediatamente

vincolante in punto di diritto per il giudice di rinvio; peraltro, preoccupandosi

di specificare che tali poteri spettavano alla Corte quando questa fosse stata

adita a mezzo della censura della violazione o della falsa applicazione della

legge63

. Come ha osservato, tra gli altri, Calamandrei, e com’è del resto

60

In Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XXII, Sess. 1904-1908, Doc. 968 e in

Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XXIII, Sess. 1909-1913, Doc. 147; v. anche

ORLANDO, Progetto di riforma del codice di procedura civile presentato alla camera dei

deputati il 24 maggio 1909, in Riv. dir. civ. 1909, 518 ss. Progetto, questo dell’Orlando, la

cui notorietà è legata soprattutto all’abbandono dell’idea di ridurre ad unità le cinque Corti di

cassazione in materia civile, e al tentativo di stabilizzare la pluralità attraverso un riordino

generale del sistema delle impugnazioni civili, nel quale il ricorso per cassazione assumesse

la natura di mezzo ordinario di impugnativa: v. CALAMANDREI, La Cassazione civile, vol. I,

cit., 754. 61

In Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XXII, Sess. 1904-1908, Doc. 544. 62 Cfr. CHIOVENDA, La riforma del procedimento civile proposta dalla Commissione

per il dopo guerra. Relazione e testo annotato, Napoli 1920. 63

In ciò, il progetto Chiovenda riprendeva e perfezionava un’intuizione che, in forme

meno precise e consapevoli, aveva cominciato a circolare in progetti precedenti: quella, cioè,

che l’esplicito riconoscimento alla Corte del potere di vincolare il giudice di rinvio non si

giustificava razionalmente in tutti i casi in cui essa era chiamata a pronunciarsi, alla stregua

dell’art. 517 c.p.c. 1865. In particolare, il disegno De Falco, attraverso una ridefinizione dei

motivi di cassazione, che venivano ridotti alle ipotesi di omissione o violazione delle forme

di procedura prescritte a pena di nullità ovvero alla violazione o falsa applicazione della

legge (mentre le ipotesi residue dell’art. 517 venivano destinate alla revocazione), si limitava

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evidente, il dotto estensore dell’art. 196 doveva conoscere molto bene il

sistema tedesco della Revision, e da questo doveva aver tratto ispirazione per

correggere le più evidenti imperfezioni del nostro sistema. L’analisi di quella

norma dimostra chiaramente il fatto che l’anticipazione della regola del

vincolo al pronunciato della Corte al primo giudizio di rinvio era concepita

come un momento decisivo della razionalizzazione del sistema dei rimedi

esperibili avverso la sentenza nella misura in cui, consentendo alla Corte di

resecare i dubbi intorno alle questioni de iure, permettesse una più sicura e

spedita risoluzione della controversia.

In questa prospettiva sembra doversi leggere la previsione in virtù della

quale, per il caso in cui la Corte non potesse statuire sul merito della causa

per la necessità di ulteriori accertamenti di fatto, non era ammesso

a circoscrivere le competenze della Corte, ma non attingeva ancora all’idea di differenziare

le pronunce della Corte, sotto il profilo della vincolatività, a seconda che accedessero alla

cognizione sull’errore di diritto o a quella sugli altri vizi; ma è interessante rilevare come già

in quel progetto compare all’art. 16 la previsione per la quale «il P.M. presso la Corte di

Cassazione, e la Corte stessa, possono, relativamente al capo impugnato della sentenza,

elevare, anche d’ufficio, le nullità che derivano da violazione o da falsa applicazione di

legge»: previsione, questa, evidentemente ispirata dall’esigenza di rendere più completa la

cognizione relativa agli errores in iudicando, seppure nei limiti della contestazione. Il

progetto Vigliani, dal canto suo, che, secondo la relazione stilata dal suo stesso promotore,

aveva l’obiettivo di istituire un’unica magistratura suprema dotata di una natura promiscua,

con caratteristiche in parte ritratte dal tradizionale organo di cassazione, come il divieto del

rifacimento del giudizio di fatto, in parte riconducibili al sistema della terza istanza, come il

potere di applicare al fatto il punto di diritto deciso, adottava le stesse disposizioni restrittive

dei motivi di cassazione del progetto De Falco, e si preoccupava all’art. 11 solamente di

specificare che il potere della Corte di decidere la causa nel merito esulava quando la Corte

pronunciasse l’annullamento per motivi attinenti alla competenza. La stessa limitazione,

contenuta nel progetto Tajani, veniva reputata insignificante dalla commissione senatoria

presieduta dal De Ferraris, la quale, modificando il progetto Tajani nel senso di restituire al

ricorso per cassazione alcuni motivi che già il progetto De Falco e il progetto Vigliani

avevano consegnato alla revocazione, e di escludere il potere della Corte di applicare essa

stessa il diritto al fatto, precisava che la Corte dovesse limitarsi ad annullare la sentenza e

disporre il rinvio della causa con una pronuncia che comunque avrebbe vincolato il giudice

di merito sul punto di diritto deciso nel caso in cui accogliesse un ricorso per violazione o

falsa applicazione di legge: qui, a differenza che negli altri progetti e come avverrà in modo

più consapevole nel progetto Chiovenda, appare distintamente istituita una relazione

peculiare tra la denuncia di un error in iudicando e la pronuncia vincolante della Corte in

punto di diritto.

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l’assorbimento dei motivi che potessero risultare rilevanti per il giudizio di

rinvio: «la sentenza che rinvia deve pronunciare su tutti i motivi di ricorso, in

quanto ciò sia necessario per non lasciare questioni insolute nella

prosecuzione della causa».

Va inoltre osservato che, legando il potere della Corte di pronunciarsi

sostitutivamente sul merito della causa o di statuire in modo vincolante «sui

punti di diritto» – significativamente declinati al plurale – all’accoglimento di

un ricorso presentato sulla base del motivo della violazione o falsa

applicazione di legge, il progetto Chiovenda pareva aspirare alla creazione di

una valvola che mettesse il ricorrente nelle condizioni di eccitare la Corte ad

una revisio in iure della causa. E tuttavia, seguendo questo percorso, il

progetto si fermava un passo prima di trasformare la Cassazione italiana nel

suo corrispettivo tedesco: stante l’impossibilità, per la Corte, di procedere

d’ufficio all’integrale rifacimento del giudizio in diritto, in mancanza di una

norma corrispondente al § 559 ZPO, alla diligenza del ricorrente restava pur

sempre affidato il compito di far emergere dinanzi alla Corte le questioni in

iure da sottoporre a riesame, attraverso una puntuale indicazione delle

censure, così che non risultasse alterata la tradizionale fisionomia del ricorso

per cassazione italiano come impugnazione straordinaria a schema chiuso.

Che tale fosse la preoccupazione più avvertita è confermato dalla modifica

che la commissione che aveva posto allo studio il progetto Chiovenda ritenne

di dover fare all’art. 196, aggiungendo alla proposizione attributiva del potere

della Corte di decidere nel merito la causa «in base ai fatti accertati dalla

sentenza impugnata» l’inciso «ed entro i limiti della contestazione», a scanso

di equivoci che forse il sistema neanche poteva ambire ad autorizzare64

.

64

L’idea di fondo del progetto di Chiovenda di assegnare alla Corte una corsia

differenziale relativamente alla cognizione sui vizi in iudicando si chiarisce meglio alla luce

della contestatissima teoria «dualistica» del ricorso per cassazione formulata dall’Autore, che

a sua volta quell’idea contribuisce a illuminare. Si tratta della teoria per la quale ai due tipi di

ricorso, per errores in procedendo (o vizi di attività, come egli preferisce definirli) e per

errores in iudicando, corrisponderebbero due diverse funzioni che la Cassazione è chiamata

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a svolgere: rispettivamente, la funzione di annullamento, cui si riconnette l’effetto per il

quale «è tolta di mezzo la sentenza anche come atto giuridico, e può dirsi di essa che può

considerarsi come non avvenuta», con la conseguenza che si ha un fenomeno di reviviscenza

della sentenza di primo grado; e la funzione di cassazione semplice, in virtù della quale la

sentenza cassata «cessa d’avere valore come atto d’applicazione della legge, ma rimane

come atto giuridico in sé valido che si è sovrapposto alla sentenza di primo grado e le ha

tolto ogni valore potenziale di sentenza», ragion per cui quest’ultima non rivive (cfr.

CHIOVENDA, Principii, cit., 396-398; ID., Istituzioni di diritto processuale civile, vol. II,

Napoli 1935, 623 ss.). Un simile postulato aveva l’indubbio pregio di valorizzare all’interno

della dinamica dei rimedi la differenza empiricamente incontestabile che intercorre tra una

sentenza difettosa nella sua costruzione processuale – nulla per vizi di forma – e una

sentenza processualmente ineccepibile ma ingiusta nel suo contenuto perché recante un

errore di diritto, e di correlare la diversa ampiezza dell’indagine da svolgersi nei due casi a

una diversità di effetti conseguenti al fruttuoso esperimento del rimedio: a questa stregua, è

agevole comprendere perché il progetto Chiovenda isolasse concettualmente la revisio in

iure della Corte dalle funzioni che alla stessa competono in materia di vizi di attività, e

attribuisse alla Corte medesima, quando investita del ricorso per violazione o falsa

applicazione della legge, poteri e compiti del tutto peculiari. Ma è proprio questa

diversificazione del rimedio che a molti contemporanei di Chiovenda, tra i quali pure

Calamandrei, appare, seppure affascinante in ipotesi, non rispondente alla realtà del sistema

di cassazione del codice Pisanelli, in quanto priva di appigli sia sulla disciplina positiva che

sulla storia dell’istituto. E invero, non poteva non essere, con il solito puntiglio storiografico,

lo stesso Calamandrei, op. cit., vol. II, 332, a ricordare che, ai primordi dell’istituto, la

cassabilità della sentenza ingiusta, concepita in origine come potere dell’autorità di togliere

vigore a sentenze che fossero contra ius constitutionis, in quanto offensive dell’autorità della

legge intesa come volontà dello Stato, venisse equiparata, al fine di sfruttare l’iniziativa

privata a fini di soddisfazione generale, all’annullabilità della sentenza viziata da difetti di

forma, la quale per contro rappresentava un vero e proprio diritto di impugnativa; e che da

allora «tra cassabilità e annullabilità non vi è stata, nel diritto francese e in quello su esso

modellati, nessuna differenza di effetti». Semmai, aggiunge l’a., la teoria chiovendiana si

attaglia bene ad un ordinamento come quello tedesco, nel quale ai vizi in procedendo viene

effettivamente riservato un trattamento diverso rispetto a quello dei vizi in iudicando, nella

misura in cui, concepito il ricorso presso la suprema Corte non come mezzo straordinario di

impugnazione ma come mezzo di gravame, seppure parziale perché circoscritto allo stadio

decisorio, con la riforma del 1898, con la quale viene soppressa la rilevabilità d’ufficio dei

vizi in procedendo, si accoglie l’idea di un terzo grado di cognizione in iure per l’automatica

devoluzione alla Corte del solo giudizio di diritto: un ordinamento del genere, in cui peraltro

talune nullità sopravvivono alla revisione, potendo essere fatte valere attraverso un’apposita

azione (costitutiva) di nullità anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, da

esercitarsi entro certi termini o addirittura imprescrittibile quanto alle nullità insanabili, ha

realmente superato, per dirla con Kolher, quella «confusione» che il diritto romano faceva tra

nullità e ingiustizia della sentenza (la quale costituisce, insieme con l’istituzione, nel diritto

intermedio, della querela nullitatis, cioè di una specifica azione di impugnativa a carattere

costitutivo volta all’invalidazione delle sentenze, il germe del moderno concetto di

cassazione). In critica alla soluzione chiovendiana, si vedano le concise e puntualissime

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– 40 –

Nonostante gli indiscutibili vantaggi che in termini pratici potevano

scaturire dall’introduzione dell’obbligo in capo al giudice di primo rinvio di

attenersi al pronunciato in iure della Corte, la tesi che considerava invece

opportuno il mantenimento dell’assetto della «doppia conforme», suffragata

dal duplice argomento della necessità di tutelare la libertà morale del giudice

di rinvio e dell’esigenza di dare la priorità alle istanze di giustizia sostanziale

piuttosto che a quelle di una più rapida definizione delle liti, continuava a

vantare autorevoli sostenitori: tra gli altri, Francesco Carnelutti, che nel

progetto di legge del 192665

redatto su incarico della Commissione reale per

la riforma dei codici presieduta da Mortara, riconfermava la libertà del

giudice di primo rinvio di disattendere il principio di diritto enunciato dalla

Corte e, contro coloro che caldeggiavano una riforma nella direzione del

rinvio «a processo chiuso», ribadiva – coerentemente, se l’ottica prescelta

considerazioni di SIRACUSANO, I rapporti tra «Cassazione» e «rinvio» nel processo penale,

Milano 1967, 102-103: «Premessa indefettibile dell’impostazione chiovendiana era che

l’annullamento in procedendo colpisse ‘sempre’ la sentenza nella sua interezza: ed invero,

doveva apparire ovvio che in tanto la sentenza poteva ‘togliersi di mezzo … come atto

giuridico’ in quanto la si invalidava ‘totalmente’. Orbene, la correttezza di questa premessa

sarebbe apparsa immediatamente contestabile solo che si fosse considerata la possibilità

dell’‘annullamento parziale’ in procedendo. A questo tipo di annullamento avrebbe potuto,

infatti pervenire la Corte sia nell’ipotesi in cui l’errore di attività fosse stato oggetto di una

‘questione’ risolta nel giudizio di merito e riproposta in sede di Cassazione (nei casi, cioè, di

rilevazione del c.d. errore complesso), sia nelle ipotesi in cui un’omissione formale avesse

invalidato un punto determinato della sentenza». Pur quindi generalmente sconfessata, sotto i

richiamati aspetti, la ricostruzione chiovendiana, a conclusione di questa sovrabbondante

digressione – e volendo tentare una pur miope Wirkungsgeschichte, una «storia degli effetti»,

del pensiero del maestro piemontese – si potrebbe dire, pur senza sottovalutare quelle

proposte di riforma che in oltre un settantennio si sono avvicendate e che in varia misura

avevano circoscritto l’operatività del vincolo del dictum in iure della Corte (v. supra, nt. 58),

che se il vincolo del principio di diritto viene correlato dal legislatore del 1940

all’accoglimento del ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quando il

codice del 1865 lo riconnetteva genericamente alla pronuncia in punto di diritto delle sezioni

unite senza indicare i motivi per i quali il ricorso fosse stato proposto e accolto, ciò è dovuto

probabilmente all’intrinseca forza persuasiva dell’idea chiovendiana di una necessaria

specificazione, all’interno del genus delle cassazioni, delle pronunce rescindenti per errori di

diritto. 65

CARNELUTTI, Progetto del codice di procedura civile presentato alla

Sottocommissione Reale per la riforma del Codice di procedura civile, Padova 1926.

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doveva essere quella del più agevole perseguimento dei fini di giustizia

sostanziale – la possibilità per il giudice di rinvio di esaminare nuove prove e

nuove questioni (artt. 384, cpv., e 386 del progetto).

In ogni caso, se è vero che né il progetto Chiovenda né il progetto

Carnelutti riuscirono laddove avevano fallito i disegni di legge ottocenteschi

per la tanto agognata riforma del processo civile, un dato cominciava a

profilarsi in maniera piuttosto chiara, e cioè che la dottrina che ancora

strenuamente si adoperava a difesa della libertà del giudice di primo rinvio

era destinata a restare emarginata, come profetizzato dagli osservatori più

avveduti del tempo66

, perché in netta controtendenza rispetto alle scelte che il

legislatore andava operando: in primo luogo, nell’ambito del processo penale,

ma anche in alcuni settori disciplinati da leggi speciali.

Quanto a questi ultimi, a conferma della tendenza del legislatore a

superare il meccanismo della doppia conforme, vanno segnalati gli interventi

in materia di giurisdizione e di procedura del contenzioso sulle acque

pubbliche, in materia di disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro e

in materia di usi civici.

Nel primo caso, l’obiettivo di dare immediatamente efficacia vincolante

per la magistratura di rinvio al giudizio della Corte era perseguito attraverso

la previsione che prescriveva che i ricorsi contro le decisioni pronunziate in

grado d’appello dal tribunale superiore delle acque venissero portati

direttamente alle sezioni unite della Corte (art. 110 r.d. 9 ottobre 1919, n.

2161); nel contenzioso dei rapporti collettivi del lavoro e in quello per gli usi

civici, più semplicemente, si utilizzava l’espediente di attribuire alla sentenza

delle sezioni semplici della Cassazione la stessa efficacia delle sentenze

66

Cfr., tra gli altri, D’AMELIO, La sentenza della Corte di Cassazione (Sez. Civ.) e la

sua efficacia per il giudice di rinvio, in Monitore dei Tribunali 1931, e la rassegna ivi

contenuta dei casi previsti da leggi speciali in cui alla pronuncia della Corte era attribuito

immediato effetto vincolante per il giudice di rinvio, sui quali nel testo.

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pronunciate a norma dell’art. 547 c.p.c. dalle sezioni unite (art. 91 r.d. 1°

luglio 1926, n. 1130 e art. 8, cpv., l. 10 luglio 1930, n. 1078).

Per quanto riguarda invece il processo penale, è appena il caso di

ricordare che, lungo la strada delle riforme del diritto processuale, il

legislatore penale si era mosso con maggiore risolutezza rispetto a quello

civile: al momento della riforma del rito civile, nel 1940, il processo penale

italiano si trovava già da un decennio a sperimentare il suo terzo codice (il

codice Rocco, dopo la breve vigenza del codice Finocchiaro-Aprile del

1913).

Nella prospettiva che qui rileva, occorre dire che sul versante del

perseguimento dello scopo di semplificare il raccordo tra la fase rescindente

dinnanzi alla Cassazione e la fase rescissoria presso la magistratura di rinvio,

il codice del 1913 non registrava delle novità, in quanto confermava la

possibilità in capo al giudice di primo rinvio di discostarsi dall’enunciato in

iure della Suprema Corte.

L’art. 532 c.p.p. 1913, infatti, prevedeva la decisione della Corte «a

sezioni unite quando, dopo l’annullamento, la sentenza del giudice di rinvio

sia impugnata per gli stessi motivi proposti col primo ricorso» e che solo la

pronuncia resa dalle Sezioni Unite in accoglimento del ricorso per

l’annullamento della sentenza di rinvio «per gli stessi motivi» per i quali era

stata cassata una precedente sentenza tra le stesse parti, era vincolante quanto

al «punto di diritto deciso». Si riproduceva, in tal modo, il sistema della

doppia conforme introdotto nel 1865; con l’unica rilevante differenza,

rispetto al vecchio art. 683, che ad esprimere la vincolatività della seconda

pronuncia della Corte rispetto alla magistratura di rinvio era preposta la

locuzione «autorità di giudicato irrevocabile»: con quali ripercussioni sulla

disputa intorno alla natura del vincolo del giudice di secondo rinvio,

polarizzatasi sull’antagonismo tra la concezione del giudicato, di Carnelutti, e

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quella della preclusione, di Calamandrei67

, è facile immaginare, sebbene la

scarsa consapevolezza dei redattori del codice delle conseguenze sistematiche

che l’innovazione terminologica potenzialmente trascinava con sé venisse

addotta a sostegno della tesi dell’atecnicità della locuzione stessa68

.

Nel 1930, soggiungeva il codice Rocco a far cadere la riserva di libertà

nell’apprezzamento della quaestio iuris accordata al giudice del primo rinvio,

introducendo, all’art. 546, la secca dicitura che «il giudice di rinvio deve

uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne

ogni questione di diritto con essa decisa».

Veniva così emarginata l’opinione di coloro che persistevano ad

opporsi all’evidenza della maggiore praticità di questo meccanismo ormai

soprattutto con argomenti di carattere teorico, continuando a lodare il sistema

della doppia conforme come l’unico stratagemma atto ad evitare quello che si

presumeva essere l’inconveniente sistematicamente più inaccettabile

dell’obbligo della magistratura di merito di conformarsi alla premessa di

diritto formulata dalla Corte, ossia la coercizione della coscienza del giudice

di rinvio.

Tale opinione continuava infatti a radicarsi sull’assunto che solo nel

sistema della doppia conforme l’attitudine della Corte a sezioni unite ad

emettere pronunce vincolanti per superare il dissidio insorto tra sezioni

semplici e giudici di merito poteva trovare una giustificazione nella naturale

competenza della magistratura superiore a dirimere i conflitti tra gli organi

inferiori; mentre, per converso, l’anticipazione del vincolo del giudice di

rinvio alla prima pronuncia delle sezioni semplici, e dunque in assenza un

67

Su cui infra, capitolo secondo. 68

Di errore del legislatore parla al riguardo CALAMANDREI, La sentenza

soggettivamente complessa, in Riv. dir. proc. 1924, I, 240. La tesi della inattendibilità della

formula appare evidentemente indispensabile per continuare ad accreditare la nota teoria di

Arturo Rocco asserente la natura «ordinatoria», e non definitiva, della sentenza della Corte di

cassazione che accoglie il ricorso e dispone il rinvio: ROCCO, Concetto, specie e valore della

sentenza penale definitiva, Torino, 1905, 56 ss.

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conflitto in atto, col consentire al magistrato supremo di imporre la propria

opinione al magistrato inferiore, avrebbe positivizzato un germe di

imposizione gerarchica, in spregio ad una delle più importanti conquiste

giuridiche della modernità, il principio dell’indipendenza del giudice

«soggetto solo alla legge»69

.

69

Echi di questa polemica si rintracciano, nel codice Rocco, nella regolamentazione,

contenuta all’art. 543, della competenza sul rescissorio: il rinvio, in sintesi, era demandato al

giudice a quo nel caso di annullamento delle ordinanze e ad un giudice diverso nel caso di

annullamento delle sentenze, sulla scorta, evidentemente, dell’idea che la correzione

vincolante ad opera della Corte dello stadio decisorio «a monte» non fosse in grado di

compromettere la libertà morale del magistrato nella risoluzione dell’ulteriore frazione di

giudizio quanto quella effettuata, per così dire, «a valle»: cfr. AUGENTI, Natura e limiti del

giudizio penale di rinvio, Padova 1934, 25 ss. Infatti, il n. 1 dell’art. 543 del codice di rito del

1930, recante la previsione per la quale la Corte Suprema doveva disporre la trasmissione

degli atti al giudice che aveva pronunciato l’ordinanza cassata, il quale si sarebbe di

conseguenza uniformato alla decisione della Corte medesima, venne fin da subito e

pressoché costantemente interpretato non nel senso minimo che sul rescissorio doveva

provvedere lo stesso ufficio giudiziario dal quale proveniva l’ordinanza cassata, ma nel senso

che giudice del rinvio potesse essere la stessa persona fisica che aveva pronunciata

l’ordinanza. Ciò hanno precisato, a titolo esemplificativo, Cass. 18 ottobre 1966 e, in

dottrina, ALOISI, Manuale pratico di procedura penale, vol. III, Milano 1952, 533; G.

PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, vol. II, Milano, 1965, 331; e, da ultimo,

SPANGHER, Problemi di incompatibilità e precedente sentenza istruttoria, in Riv. it. dir. proc.

pen. 1981, 615. Nel codice di procedura penale del 1988, la circostanza che la lettera a

dell’art. 623, in tema di annullamento di un’ordinanza, riproduce anche nel tenore testuale

l’art. 543, n. 1 c.p.p. abrogato, non appare come un caso, e induce a riconfermare le

conclusioni cui erano pervenute la dottrina e la giurisprudenza sotto l’impero del codice

Rocco, le quali ravvisavano in questa differenziazione della competenza funzionale sul

rescissorio una deroga effettiva al principio tendenziale che informa la disciplina del giudizio

di rinvio secondo cui il giudice di rinvio deve essere diverso – perlomeno fisicamente

diverso – dal giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato (principio che in via

generale ispira anche la disciplina delle incompatibilità determinata da atti compiuti nel

procedimento contenuta nel nuovo art. 34). Cfr. CIANI, sub art. 623 c.p.p., in Commentario

Chiavario, vol. VI, Torino 1991, 297. La difficoltà a concepire e trattare come normale

l’ipotesi di una pronuncia vincolante della Suprema Corte serpeggia inoltre al fondo del

dibattito, che attraversa la vigenza di ben tre codici di rito, sul problema dell’individuazione

di un regime diversificato di impugnazione della sentenza del giudice di rinvio nel processo

penale a seconda che la pronuncia di annullamento venisse resa per il riscontro di un error in

procedendo o di un error in iudicando. Nei sistemi dei codici di rito penale del 1865 e del

1915 «le regole che imponevano il ricorso alle sezioni unite della Cassazione riguardavano

solo le ipotesi in cui il precedente annullamento fosse dipeso dall’accertamento di una legge

sostanziale»: così, SIRACUSANO, I rapporti fra «cassazione» e «rinvio» nel processo penale,

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La riforma non mancò di suscitare aspre critiche anche perché andava a

modificare in maniera decisiva il modus operandi della Cassazione nel solo

campo penale, lasciando fuori l’altro grande settore d’intervento della

giurisdizione di legittimità.

A questa schizofrenia si rimedierà, finalmente, con la riforma del 1940,

con la quale il legislatore del processo civile si mette al passo con quello del

processo penale dettando, a disciplina del collegamento tra giudizio di

cit., 125-127. In tal modo, prosegue l’a., «a) il solo rimedio consentito contro le sentenza del

giudice di rinvio era considerato il ricorso sia nel caso in cui l’annullamento fosse stato

dichiarato per una violazione di legge sostanziale e la successiva sentenza del giudice di

rinvio fosse emanata in secondo grado, sia nel caso in cui l’annullamento fosse stato

dichiarato per una violazione di legge processuale e la successiva sentenza del giudice di

rinvio fosse stata emanata in primo grado»; ma: «b) giudice ad quem del ricorso sarebbe stata

la Cassazione a sezioni unite … nel caso in cui l’annullamento fosse stato dichiarato per una

violazione di legge sostanziale ed il giudice di rinvio (di primo o di secondo grado) si fosse

“ribellato” alla “dottrina espressa dalla Corte”», mentre «c) giudice ad quem del ricorso

sarebbe stata la Cassazione a sezione semplice sia nell’ipotesi in cui i motivi di

impugnazione proposti fossero stati “diversi” da quelli proposti contro la sentenza emessa

nel pregresso giudizio di merito, sia nell’ipotesi in cui l’annullamento fosse stato dichiarato

per una violazione di legge processuale». Nel primo caso, sarebbe stato possibile il ricorso in

via ordinaria per mancanza del «conflitto fra la dottrina espressa dalla Corte ed il giudice di

rinvio» da sottoporre alle sezioni unite. Nell’ipotesi di annullamento per violazione di legge

processuale, il ricorso ordinario alle sezioni semplici si sarebbe imposto in quanto «il giudice

di rinvio non avrebbe potuto avere per la sua decisione alcun termine di riferimento nella

sentenza della Corte di Cassazione e quindi nessun vincolo, nemmeno potenziale»: così, ID.,

op. cit., 126-127. Il codice Rocco del 1930 (v. subito dopo nel testo) eredita questo problema,

ma l’inserimento della norma che proclama la vincolatività della pronuncia della Corte di

cassazione già nei confronti del giudice di primo rinvio conduce gli interpreti ad una

soluzione diversa: «Abrogato, però, il congegno del “doppio rinvio” e riconosciuta alla

Cassazione la possibilità di controllare anche la sfera de facto (per il sindacato del vizio

logico) deve necessariamente pervenirsi a tutta una nuova sistemazione del problema relativo

all’impugnabilità della sentenza del giudice di rinvio». Pertanto, secondo Siracusano,

avrebbe dovuto ritenersi: «a) che nell’ipotesi in cui l’annullamento sia stato dichiarato per un

error in procedendo (attinente alla costituzione del rapporto processuale o commesso nel

corso del procedimento), la successiva sentenza del giudice di rinvio, se emessa in primo

grado, potrà anche essere impugnata con il rimedio dell’appello», poiché «in queste ipotesi,

infatti, il processo ritorna nella fase del giudizio di primo grado libero da ogni vincolo,

riprende il suo corso ex novo e la sentenza del giudice di rinvio sarà soggetta al naturale

ordine delle impugnazioni»; mentre «nelle ipotesi in cui l’annullamento sia stato dichiarato

per error in judicando (in jure o in facto), la successiva sentenza emessa nella fase di rinvio

potrà essere soltanto soggetta al ricorso per cassazione»: ID., op. cit., 130-131.

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cassazione e giudizio di rinvio, la regola contenuta dall’art. 384 c.p.c.; quella

regola dalla quale siamo partiti ricavandone un’impressione di “naturalezza”

che, alla luce di un pur sommario excursus storico, si è dimostrata essere,

sebbene ragionevole quanto alla sostanza delle cose70

, fallace o perlomeno

fuorviante, ai fini, invece, della comprensione delle modalità con cui essa ha

trovato sbocco in mezzo alle molteplici e irriducibili contraddizioni che

hanno contrassegnato la nascita e lo sviluppo dell’istituto della Cassazione.

In ogni caso, una volta abbattuto anche nel processo civile quel

«simulacro di libertà in ordine alla questio iuris»71

rappresentato dalla libertà,

in capo al giudice di primo rinvio, di discostarsi dal dictum della Suprema

Corte, e definitivamente archiviata la disputa intorno all’opportunità della

riforma a ciò diretta, l’attenzione degli studiosi poteva concentrarsi ancora

sul dibattito che si trasferiva, nei suoi tratti essenziali immutato, dalla

seconda alla prima pronuncia in iure della Corte, intorno alla natura e dunque

all’efficacia del vincolo in capo al giudice di rinvio.

Intanto, conviene sottolineare che la norma dell’art. 384 del nuovo

codice di rito recava una diversa costruzione sintattica e un’interessante

innovazione lessicale, rispetto al passato: mentre il codice abrogato, all’art.

547, parlava del dovere del giudice di (secondo) rinvio di conformarsi al

«punto di diritto deciso» dalle Sezioni Unite, qui il vincolo del giudice di

rinvio veniva correlato espressamente al «principio di diritto» enunciato dalla

Cassazione all’atto di accogliere il ricorso per violazione o falsa applicazione

di norme di diritto (locuzione, quest’ultima, che riproduceva alla lettera il n.

3 dell’art. 360, nel quale il legislatore aveva trasferito il n. 3 dell’art. 517 del

70

È, questo, il pensiero che SATTA, in Commentario al Codice di procedura civile,

vol. II, parte seconda, cit., 179, esprime con riferimento alla progenitrice francese della

nostra Cassazione: «Anche ammesso che la cassazione non potesse occuparsi du fond des

affaires, sarebbe stato naturale che la sua pronuncia sulla legge fosse vincolante per il

giudice di rinvio: e invece si assiste a ogni sforzo per escludere questo vincolo, e cercare

ogni complicato rimedio (il Référé al corpo legislativo era uno di questi) per giungere alla

definitiva fissazione della volontà della legge». 71

FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, cit., 28.

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vecchio codice, sostituendo al più restrittivo riferimento alla «legge» del

vizio ivi previsto quello, più elastico, alle «norme di diritto», con una

variazione evidentemente preordinata a chiarire che «non la qualità della

fonte, ma la qualità del comando è rilevante ai fini della cassazione»72

).

L’antecedente della nuova disposizione si rintraccia nell’art. 402 del

progetto Solmi, il quale conteneva la previsione testuale secondo cui la Corte

avrebbe dovuto enunciare «la massima alla quale il giudice di rinvio è tenuto

a conformarsi».

Non è mancato chi, a caldo, guardasse con nostalgia alla precedente

dicitura e a quelle, più o meno equipollenti, utilizzate dal c.p.p. del 1930 e

dalle leggi speciali che, in merito all’anticipazione del vincolo al primo

giudizio di rinvio, avevano precorso i tempi rispetto al legislatore del

processo civile73

. Ma, per la verità, la dottrina applicata allo studio della

riforma non si è soffermata troppo a meditare sul passaggio semantico, molto

probabilmente nella consapevolezza che la nuova formulazione scontava in

precisione quello che guadagnava sotto il profilo della coerenza logica, se si è

d’accordo con Mazzarella74

nel ritenere che essa svelava quello che era

sempre stato il vero referente del giudice di rinvio: vale a dire, non la

decisione sul punto di diritto in sé e per sé, quanto la ratio decidendi in essa

72

CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, vol. II, Roma 1951,

185. 73

Cfr. RICCA BARBERIS, Preliminari e commento al codice di procedura civile, vol.

II, Torino, s.d., 153-154, ove si legge che tutte le espressioni che parlano di “questioni” o

“punti di diritto” decisi «indicano ciò che il giudice di rinvio non può toccare, più

chiaramente e sicuramente che non i termini generici di “massime” e di “principi”». Subito,

però, si aggiunge che «importa veder subito la ragione della disposizione. Essa fu vista in ciò

che il giudice di rinvio può sì, per effetto di nuovi accertamenti, dar una sentenza

sostanzialmente uguale a quella cassata; ma non può variare la massima della corte suprema,

dovuta a un giudice superiore. Sarà possibile, per mutate circostanze, non più applicarla, ma

mai modificarla: cosa tanto evidente che non sarebbe stato neppur più da dire se un

legislatore forse troppo rispettoso dell’individuo e troppo diffidente verso gli organi dello

Stato non avesse un tempo stabilito il contrario». 74

Cfr. MAZZARELLA, Appunti a proposito di «principio di diritto» e «cassazione

sostitutiva», cit., 1485 ss.

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contenuta, posto che da tale ratio va irradiata e di tale ratio s’innerva

l’attività di rigoverno del giudizio ai fini dell’emanazione della pronuncia in

merito presso il giudice di rinvio.

L’abbandono della «metonimia»75

, tuttavia, non dice nulla, più di

questo, intorno alla portata del vincolo: ossia, se è vero che chiarisce la

necessità di adeguare il giudizio finale alla regula iuris che si trae dal

ragionamento complessivo effettuato dal giudice supremo nell’accertamento

dell’errore di diritto denunciato, non è, di per sé, probante ai fini

dell’asserzione della sua inidoneità ad essere un conchiuso nucleo, o

frammento, del giudizio vero e proprio. Ciò che è del resto dimostrato dalla

indefessa prosecuzione delle dispute circa la natura del vincolo e il modo

dello stesso di ripercuotersi sull’ulteriore frazione del processo presso la

magistratura di rinvio: dispute che riguarderanno sì l’oggetto “fondamentale”

del vincolo, ossia la questione di diritto sottoposta al vaglio della Corte, e il

modo di atteggiarsi della relativa decisione rispetto ad eventi in grado di

minarne la stabilità, ma anche (e, diremmo, soprattutto) il problema della

riesaminabilità del sostrato degli antecedenti di fatto su cui quel responso di

diritto è stato reso.

§ 3. L’incidenza dell’efficacia del principio di diritto sulla struttura

e sulla funzione del giudizio di cassazione e la sua strumentalità rispetto

alle diverse opzioni ricostruttive sulla Cassazione.

3.1. L’immediata efficacia vincolante del principio di diritto nel codice del

1940 come punto di emersione normativa di una tendenza del legislatore a

connotare il ricorso per cassazione come giudizio di impugnazione.

A nessuno sfugge la centralità che le questioni connesse

all’enunciazione del principio di diritto da parte dell’organo di cassazione

rivestono all’interno di un sistema di impugnazioni nel quale quell’organo

75

Così, MAZZARELLA, Appunti, cit., 1486.

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sorge proprio come garante della corretta interpretazione ed applicazione del

diritto da parte dei giudici di merito, col suo sindacato di legittimità posto a

sutura del sistema dei rimedi ordinari esperibili avverso la sentenza; ed

altrettanto perspicuo è che le risposte che la legge dà a tali questioni sono in

grado di ripercuotersi in maniera determinante sulla fisionomia e sulla

funzione del giudizio di cassazione.

Guardando alla riforma del rito civile del 1940, certamente non si può

dubitare che l’attribuzione dell’efficacia vincolante agli enunciati in iure

della Suprema Corte, sancita dall’art. 384, obbediva sì ad esigenze pratiche,

ma soprattutto alla profonda vocazione giurisdizionale dell’organo di

cassazione; e se su questa elementare verità c’era – e non poteva non esserci

– un sostanziale accordo, è pur vero che la dottrina non ha attribuito la

medesima portata innovativa sull’assetto strutturale e funzionale della

Cassazione a questa modifica, che appare rivoluzionaria o semplicemente

nell’ordine delle cose a seconda dell’angolazione dalla quale la si guardi, se

quella della memoria dei travagli che l’hanno preceduta o quella

dell’esigenza di razionalizzazione del sistema delle impugnazioni che essa

tendeva a soddisfare.

In una prospettiva di lungo periodo, si può dire che a prevalere è stata

l’idea di chi, come Satta, intravedeva nel riconoscimento dell’efficacia

vincolante una conferma della debolezza della concezione tradizionale della

Cassazione come organo tutto imperniato sullo scopo politico di tutela del

diritto obiettivo: concezione che fino ad allora aveva egemonizzato non solo

le configurazioni dogmatiche dell’istituto, ma anche il suo sviluppo sul piano

normativo.

La regola del vincolo del giudice di rinvio al principio di diritto

affermato dalla Corte, che scaturiva logicamente dalla rinuncia del legislatore

ad organizzare il sistema della cassazione secondo l’astratta concezione del

vertice politico posto a presidio della legge, veniva correlata alla censura di

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cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., vera e propria «norma istituzionale»76

che

fonda la cd. «giurisdizione d’interpretazione» della Corte di Cassazione e ne

scolpisce la fisionomia quale giudice di legittimità, traducendo sul piano

pratico il postulato programmatico dell’art. 65 della legge sull’ordinamento

giudiziario.

Questo dato suggeriva a Salvatore Satta che, nel quadro di un generale

riposizionamento della Corte nel segno di una ridimensionata preoccupazione

del legislatore per il contenimento della stessa entro i suoi limiti istituzionali,

un passo decisivo era stato compiuto proprio sul terreno del giudizio di

diritto, quello sul quale si gioca la partita della funzione politica della

Cassazione, di regolazione e uniformazione della giurisprudenza.

Paradigmaticamente, secondo Satta, la previsione del potere della

Suprema Corte di emettere pronunce censorie con immediata efficacia

vincolante per il giudice di rinvio nell’ipotesi di «violazione o falsa

applicazione delle norme di diritto» aveva finito col riscrivere una pagina

fondamentale della storia della Cassazione, assumendosi il compito di

decretarne, in definitiva, una più impavida immissione nel giudizio in qualità

di giudice dell’impugnazione77

.

Infatti, il diritto del ricorrente di denunciare l’error in iudicando per

ottenere la cassazione della sentenza ingiusta veniva completato con quello di

conseguire in via immediata anche la posizione di una premessa

condizionante la definizione del merito della controversia, quel principio di

diritto che ora è dotato di forza vincolante non appena la Corte lo enuclei. E

76

Così, SATTA, Commentario, vol. II, cit., 200. 77

La percezione che la vincolatività del giudizio in iure della Cassazione per il

giudice di rinvio costituisce uno degli indici più importanti di un’inesorabile tendenza

evolutiva dell’organo verso la precisazione del suo ruolo di giudice di impugnazione e la

consapevolezza che la regola in questione rappresenta una tappa fondamentale del necessario

adeguamento della struttura della Cassazione al progressivo affievolirsi dell’idea originaria

che l’aveva ispirata costituiscono il filo conduttore delle trattazioni di SATTA sul tema della

Cassazione: si vedano, dell’Autore, la voce Corte di cassazione, in Enc. dir., cit., 803 ss., il

Commentario, vol. II, cit., in più passaggi: a p. 182, a p. 268, e a p. 275, nonché l’articolo

Passato e avvenire della Cassazione, cit.

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così, il giudice della legittimità, proprio laddove si trattava e si tratta di

estrinsecare il privilegio e la responsabilità della nomofilassi, della «garanzia

oggettiva» del diritto, veniva a vestire senza più tante ipocrisie i panni del

giudice che dà torto o ragione alla parte che lamenta essersi male interpretata

e applicata una norma in suo danno78

.

Invero, la regola del vincolo del giudice di rinvio al dictum della Corte

rappresenta, all’interno del nuovo codice, solo uno dei luoghi di emersione

normativa, certo tra i più eloquenti, dell’accentuazione, nella configurazione

dell’istituto della cassazione, dei caratteri propri dell’impugnazione, in

funzione della pressante esigenza di sfruttare la relativa istanza per un

sindacato più esteso e pregnante, in grado anche di venire incontro alla

richiesta di giustizia sostanziale in relazione al caso concreto. Ciò è evidente

già a livello della sistematica generale delle impugnazioni promanante dalla

nuova legge processuale, e della collocazione in seno ad essa del rimedio del

ricorso per cassazione.

Nel codice riformato, infatti, non veniva riprodotta la tradizionale

classificazione dei mezzi di impugnazione in ordinari e straordinari, che il

codice Pisanelli79

consacrava testualmente all’art. 465, ove il ricorso per

cassazione era inquadrato, accanto alla revocazione ex art. 494 nn. 4 e 5 e

78

Tra i principali interpreti dell’idea dell’evoluzione della Cassazione nel senso del

costante prevalere dell’elemento di impugnazione rispetto a quello di custodia della legge, il

maestro Satta non dubitava che, con la regola del vincolo del giudice di rinvio all’enunciato

della Corte, il giudizio di rinvio viene ridotto «ad una pura formalità, vuota di contenuto

proprio nei casi in cui si tratta di violazione della legge, cioè nell’ipotesi in cui il rinvio,

nell’astratta originaria concezione, doveva essere disposto e per la quale si era determinata

(…) la struttura stessa dell’istituto»: così, SATTA, voce Corte di cassazione, cit., 803, il quale

soggiunge al riguardo che tale considerazione prescinde dall’interpretazione “avveniristica”,

potremmo dire, che egli dà alla norma in questione, coordinandola con l’ultimo comma

dell’art. 382 c.p.c.: interpretazione secondo cui la Cassazione, adita sulla base del motivo di

cui al n. 3 dell’art. 360, doveva pronunciarsi nel merito della domanda, senza rinvio, a meno

che non fossero necessari ulteriori accertamenti di fatto (ID., op. loc. cit., 803, in nota). Ciò,

ovviamente, prima che l’art. 384 c.p.c. prevedesse espressamente questa eventualità della

non necessità di ulteriori accertamenti di fatto e su di essa instaurasse il potere della Corte di

decidere la causa nel merito. 79

Disposizione guardata con diffidenza già da MORTARA, Commentario, cit., 18.

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– 52 –

all’opposizione del terzo, entro la categoria dei mezzi straordinari di

impugnazione80

. La circostanza, poi, che al giudice di cassazione fosse

negata la possibilità di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza

impugnata, possibilità che invece era riconosciuta in caso di revocazione e

opposizione del terzo, in pratica delineava la cassazione del sistema

processuale civile post-unitario come «la più straordinaria delle impugnazioni

straordinarie»81

.

Questa impostazione cede il passo, nel nuovo codice, al sistema

risultante dal combinato disposto degli artt. 323 e 324: da un lato, l’art. 323

esplicitamente qualifica il ricorso per cassazione come mezzo per impugnare

le sentenze, accanto all’appello, alla revocazione e all’opposizione di terzo;

dall’altro lato, l’articolo seguente, inserendo il ricorso per cassazione tra i

rimedi la cui attuale esperibilità impedisce il passaggio in giudicato della

sentenza, lo apparenta, nella determinazione della cosa giudicata formale,

oltre che al regolamento di competenza e alla revocazione per i motivi di cui

ai numeri 4 e 5 dell’art. 395, alla tipica impugnazione ordinaria, l’appello,

facendo così vacillare la radicale contrapposizione che aveva da sempre

80

Pur nella identità della terminologia utilizzata, c’è un «notevole scarto di

contenuto» nella contrapposizione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari di impugnazione

tra la dottrina formatasi sotto il vigore del codice Pisanelli e quella successiva, che ha

continuato ad utilizzare la dicotomia: la dottrina prevalente, sotto il Codice Pisanelli,

riconosceva come «momenti fisionomici del mezzo ordinario» i seguenti indici:

«illimitatezza della censura; identità della cognizione del giudice ad quem rispetto al giudice

a quo; effetto sospensivo sull’esecuzione della sentenza»; viceversa, per i mezzi straordinari,

vi erano indici totalmente opposti: «tassatività della censura; poteri di cognizione “limitati i

dalla natura delle indagini che il giudice può fare o dalla necessità di una indagine

preliminare per l’ammissione al rimedio”; inesistenza dell’effetto sospensivo»; l’essere la

loro ammissibilità «subordinata ad un deposito a titolo di multa che va perduto nel caso di

rigetto dell’impugnazione»: così, CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., 38-39,

richiamando CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 502-503. Restava per lo più fuori dalla

contrapposizione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari il profilo del passaggio in giudicato

della sentenza, su cui adesso invece detta contrapposizione si fonda. 81

Così, CIPRIANI, Cassazione e revocazione nel sistema delle impugnazioni, in Foro

it. 2001, I, 591.

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– 53 –

connotato le configurazioni dogmatiche dell’appello e del giudizio per

cassazione82

.

Ma i conditores del 1940 si erano trovati di fronte ad una vasta eredità

di principi in ordine al funzionamento del ricorso per cassazione che sotto

l’impero del codice post-unitario la Suprema Corte aveva via via formulato e

cristallizzato con l’obiettivo di allentare quei limiti istituzionali che le

impedivano di rispondere alle istanze di giustizia sostanziale; una serie di

«iura recepta»83

sul giudizio civile di cassazione che spesso risultavano in

contrasto con la fisionomia che il codice del 1865 aveva mutuato

dall’esperienza francese per imprimerla all’organo di cassazione del giovane

Stato italiano.

Il riferimento è, in particolare, al controllo della causalità dell’errore

correlato con un largo potere di correggere la motivazione lasciando in piedi

il dispositivo conforme al diritto; al sindacato sul vizio di illogicità manifesta

della decisione dovuta al travisamento del negozio (del contratto o del

testamento); all’ammissibilità del ricorso condizionato, con il quale, grazie ad

una raffinata elaborazione che coordinava la soccombenza non solo alla

domanda del bene della vita, bensì alle singole questioni sollevate nel corso

della causa, consentiva al resistente, vincitore nel giudizio di merito, di

prospettare alla Corte i vizi in cui il giudice di merito fosse incorso nella

soluzione di altre questioni di carattere pregiudiziale o preliminare decise in

82

Nell’attuale sistema viene dunque traslata la contrapposizione tra mezzi di

impugnazione ordinari e straordinari, con una taratura calibrata, però, proprio sull’assetto

instaurato dagli articoli in commento, così che il carattere ordinario o straordinario

dell’impugnazione viene correlato, rispettivamente, alla proponibilità dell’impugnazione

stessa solo avverso le sentenze non ancora passate in giudicato oppure anche contro le

sentenze divenute irrevocabili; ed è questa una novità, come abbiamo visto, rispetto alla

contrapposizione accolta sotto la vigenza del codice del 1865: cfr. CERINO CANOVA, op. cit.,

38-39; 68 s. 83

Così, FAZZALARI, in quella mirabile sintesi diacronica dei lineamenti della

Cassazione che è la sua introduzione alla monografia Il giudizio civile di cassazione, cit., 1.

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senso a lui sfavorevole, subordinandone il vaglio all’acclarata fondatezza del

ricorso principale84

.

Senza volere – né potere – scendere ad un’analisi critica approfondita

di questi istituti così carichi di impatto sistematico e di capacità performante,

è opportuno perlomeno sottolineare che il dato che li accomuna si percepisce

sul piano funzionale: trattandosi, in sostanza, di contrappesi con cui le Corti

di cassazione italiane, sotto l’impero del codice di rito del 1865 e la Corte di

cassazione unica di Roma, dal 1923 in poi, cercavano di bilanciare le rigidità

e le inefficienze di un modello astratto di giudice di legittimità escluso dalla

giurisdizione.

È appunto questa eredità di iura recepta che ottanta anni di

giurisprudenza della Cassazione consegnano al legislatore del 1940; e questi

sostanzialmente l’accoglie, seppure, per così dire, con beneficio d’inventario.

Così, il capoverso dell’art. 384 codifica lo ius corrigendi: con il quale,

il rifacimento ad opera della Corte, in sede di controllo della causalità

dell’errore denunciato, del ragionamento che ha messo capo alla decisione

impugnata85

, funzionale alla verifica della coincidenza o meno del risultato,

che è nel dispositivo, viene sfruttato anche come parametro per il rilievo di

eventuali discrepanze tra le argomentazioni giuridiche del giudice di merito e

quelle della Corte, e la conseguente rettifica dei profili erronei della

motivazione della sentenza pur corretta nel dispositivo.

Ora, del potere in esame si possono proporre e si sono proposte

interpretazioni opposte: l’una, estensiva, ispirata ad esigenze di economia

processuale e ad un’applicazione lata del principio iura novit curia, tale da

guidare la Corte finanche alla ricerca, fuori dall’ambito della questione

coerenziata dal mezzo di censura, di un fondamento in iure di ricambio

84

Su tali questioni, cfr. FAZZALARI, op. ult. cit., 9 ss. 85

Ciò, ovviamente, sulla base dei fatti insindacabilmente accertati nel giudizio di

merito e nei limiti della censura articolata dal ricorrente.

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– 55 –

rispetto a quello scorretto e inidoneo a sorreggere il dispositivo86

; l’altra,

restrittiva, più orientata a interpretare lo ius corrigendi come espressione

della funzione nomofilattica ma soprattutto più fedele al principio

dispositivo, secondo la quale la correzione non deve esulare dalla specifica

questione interessata dal motivo di ricorso proposto, ma deve limitarsi ad una

rettifica o integrazione degli argomenti giuridici posti dal giudice di merito

alla base della soluzione della questione medesima87

. E indubbiamente, se è

86

È la tesi, questa, di FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, cit., 127 ss., nonché

ID., Sui ricorsi incidentali «condizionati», in Riv. trim. dir. proc. civ. 1961, 105 ss. Una tesi

che corre lungo un analogo ordine di idee, anche più spregiudicato, quella espressa dal

SATTA, in Commentario, vol. II, cit., 280 ss.: l’a. prende le mosse dalle «positive esplicazioni

dell’istituto» (quei casi, tutt’altro che infrequenti, in cui la Corte aveva fondato la decisione

su presupposti giuridici afferenti ad un fatto diverso da quello assunto come decisivo dal

giudice di merito, ma tali da condurre alle stesse conclusioni alle quali quel giudice era

pervenuto, onde il rigetto, anziché l’accoglimento del ricorso), per asserire, una volta di più,

che «è ormai assurdo e antistorico pensare che la Cassazione sia investita di una astratta

valutazione della legge: essa, attraverso il ricorso sulla singola statuizione, acquista una

pienezza di giudizio, che è limitata soltanto dall’accertamento dei fatti» (il corsivo è nostro).

E ancora, l’a. tiene a precisare che «è sommamente importante che questa dilatazione delle

sue funzioni si sia manifestata attraverso la pratica, al di fuori di ogni disposizione di legge,

quindi veramente ex necessitate (dev’essere evidentemente apparso inutile e umiliante

rinviare la causa per un giudizio già scontato in partenza): è a questo fatto, al timore

ancestrale dei limiti istituzionali, che si deve se la via per la quale la fatale dilatazione è

avvenuta è stata quella della correzione della motivazione». Invero, tra le parole dello stesso

Satta si scorge il vizio che si annida nella prassi – da lui avallata – della sostituzione del

fondamento giuridico della sentenza impugnata in sede di controllo della correttezza del

dispositivo, quando l’a. afferma che «di correzione, nel senso proprio della parola, non c’è

qui assolutamente nulla», e che si tratta in realtà di episodi di vera e propria cassazione

sostitutiva, in tutto analoga alla cassazione senza rinvio (con l’unica differenza della formula

finale della pronuncia, che è di rigetto, anziché di accoglimento del ricorso). Ma questo

allargamento della cognizione della Corte, com’è noto, nella prospettiva dell’a. è ben lungi

dall’essere «istituzionalmente» preoccupante. In ogni caso, nella dottrina coeva alla riforma

del codice, che la correzione dei motivi potesse aver luogo oltre i limiti della questione

sollevata con ricorso era ammesso da più voci: si vedano, tra gli altri, MICHELI, In tema di

correzione della motivazione da parte della Cassazione, in Giur. cass. civ. 1955, I, 464;

ZANZUCCHI, Diritto processuale civile, vol. II, a cura di Corrado Vocino, Milano, 1962, 307. 87

Secondo una concezione lineare, che è proprio quella con la quale Satta polemizza

(SATTA, op. loc. ult. cit.), che risale al Chiovenda: per il quale la Cassazione, nell’esercizio

della potestas corrigendi, «può tener ferma la risoluzione in sé corretta della singola

questione giuridica rettificando il ragionamento del giudice, ma non tener ferma la sentenza

risolvendo una questione giuridica diversa da quella risolta dal giudice» (CHIOVENDA,

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vero che è il primo orientamento a determinare un allargamento vistoso della

cognizione della Corte, è anche vero che, pure nell’ottica restrittiva88

, la

Principii, cit., 1025-1026). Concezione peraltro prevalente nella dottrina classica, anche se in

contesti dogmatici anche profondamente eterogenei: oltre alla posizione, ancora più

restrittiva di quella di Chiovenda, di Francesco Carnelutti, per il quale la Corte deve limitarsi

a interpretare la sentenza impugnata, procedendo alla correzione al solo fine di esplicitare e

armonizzare normativamente il pensiero del giudice inferiore (cfr. CARNELUTTI,

Interpretazione autentica della sentenza, cit., 53 ss.; ID., Potere di rettifica della Corte di

cassazione?, in Riv. dir. proc. civ., 1933, II, 121 ss.), si vedano, in proposito, CALAMANDREI,

La Cassazione civile, cit., vol. II, 160; BETTI, Diritto processuale civile italiano, Roma 1936,

695 (lo stesso A., confermerà tale posizione anche dopo la riforma, nell’articolo Sul potere di

correggere in diritto la decisione impugnata, in Foro it. 1947, 459 ss.); mentre Andrioli, che

in un primo tempo manifestava una posizione in linea col pensiero di Chiovenda (cfr.

ANDRIOLI, Rigetto del ricorso per cassazione a favore del ricorrente, in Riv. dir. proc. civ.,

1939, II, 159 ss.), muterà opinione a seguito della riforma (ID., Commento al codice di

procedura civile, vol. II, cit., 587-588, ove peraltro l’a. ribadisce che il potere di correzione

esula «nell’ipotesi in cui, per mantenere fermo il dispositivo, sia necessario procedere alla

sussunzione, nel ragionamento, di altri fatti che, pur risultando ex actis, non erano stati presi

in considerazione dal giudice di merito»). 88

L’ottica che è prevalentemente prescelta dall’orientamento giurisprudenziale più

recente e che, del resto, appare preferibile da un punto di vista sistematico. Ciò, in quanto

l’aderenza al principio dispositivo nelle fasi di impugnazione corrisponde, nella prospettiva

della formazione progressiva della cosa giudicata – cui la giurisprudenza ormai

costantemente si indirizza – al rispetto del giudicato interno a norma dell’art. 329, cpv.,

c.p.c.: cfr., anche per una rassegna delle divergenti posizioni della dottrina più recente sullo

ius corrigendi ed un resoconto delle applicazioni giurisprudenziali del capoverso dell’art.

384, c.p.c., POLI, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, cit., 548 ss., nonché le

conclusioni cui giunge, dopo un’accuratissima indagine delle interpretazioni che della

potestas corrigendi sono state fornite in dottrina e giurisprudenza prima e dopo la sua

codificazione, Andrea PANZAROLA, in La Cassazione civile giudice del merito, vol. II,

Torino, 2005, 639 ss.: l’argomento secondo cui la ritenuta non operatività del principio iura

novit curia sarebbe aggirabile tramite un’iniziativa titolata di parte, tale per cui il vizio in

diritto che inficia una questione di merito avente carattere preliminare, risolta erroneamente

dal giudice inferiore, se non può essere rilevato d’ufficio dalla Corte, può essere invece

scrutinato dietro una specifica censura di parte (argomento col quale si dà all’istituto della

correzione la fisionomia di una «sostituzione provocata»), è da Panzarola respinto sulla base

dell’esegesi letterale del cpv. dell’art. 384, che non contempla affatto un intervento della

parte volto ad eccitare una reimpostazione in iure della sentenza. Pertanto, dice l’a., «ove si

correli, come sembra doveroso, lo ius corrigendi ad una iniziativa officiosa della Corte, non

potrà a tutt’oggi non derivare che esso sia da circoscrivere alla sola rettificazione delle

ragioni costituenti la motivazione in diritto della questione devoluta alla cognizione della

Cassazione dal ricorrente», e che alla Corte resti «inibito di rigettare il ricorso diversamente

risolvendo ex officio un’altra questione (di merito preliminare), erroneamente decisa in iure

dalla sentenza del giudice inferiore, che sia stata impugnata in cassazione». Ciò, anche se «al

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previsione del potere correttivo della Corte non esaurisce completamente la

sua funzione sul piano della mera nomofilachia, in quanto la taratura della

motivazione che consegue all’esercizio del potere di rettifica, lungi infatti

lume del novellato art. 384, 1° comma, c.p.c., risulta (…) ridimensionato quell’argomento

più volte richiamato per ribadire l’inibizione a che la Corte di cassazione, al di là della

correttezza del controllo dell’altrui attività sussuntiva, mettesse capo, essa medesima, ad una

compiuta attività di applicazione del diritto al fatto»: l’argomento, in altri termini, secondo il

quale quelle attività sussuntive implicate nello scandagliamento del fond che vengono dal

giudice effettuate per pronunciarsi sul merito, se prima potevano considerarsi

istituzionalmente inibite alla Corte, oggi, a seguito della modifica dell’art. 384, non lo

sarebbero più. E si tratterebbe di quelle stesse attività sussuntive necessarie all’esplicazione

di una potestas corrigendi intesa in senso estensivo, ossia protesa alla ricerca di presupposti

di diritto in grado di sorreggere il dispositivo anche al di fuori della questione contestata,

quei motivi di «ricambio», di cui parlava il Fazzalari, la cui accertata mancanza solamente

potrebbe dire qualcosa della causalità dell’errore denunciato. E infatti non è mancato chi ha

ritenuto che la disposizione che attribuisce alla Corte il potere di decidere la causa nel merito

(da spendere in assenza della necessità di ulteriori accertamenti di fatto a seguito

dell’accertata violazione o falsa applicazione di norme di diritto) imponga una rilettura

complessiva dell’art. 384, compreso il suo capoverso, e che «in pratica, dopo la novella del

’90 non è escluso che possa essere rivalutata, almeno in parte, quell’interpretazione

dell’istituto della correzione della motivazione che isolatamente era stata in passato

prospettata da Fazzalari (…)»: così, BOVE, Sul potere della Corte di cassazione di decidere

nel merito la causa, in Riv. dir. proc. 1994, 712, in nota. In proposito, paiono dirimenti le

considerazioni di PANZAROLA, op. loc. ult. cit.: l’a. riconosce che la modifica operata sull’art.

384 dalla novella del ’90, introducendo la possibilità per la Corte di pronunciare

definitivamente sulla domanda, ha inserito il Supremo Collegio nella dinamica del giudizio,

laddove per esso «procedere all’applicazione della norma al fatto storico, in contemplazione

di un effetto giuridico» (la precisazione sembrerebbe rievocare il DENTI, I giudicati sulle

fattispecie, cit., 1326 ss. su cui infra, capitolo secondo), «è allora certo, se non

immancabilmente doveroso» (PANZAROLA, op. loc. ult. cit.); e ammette, altresì, che questa

innovazione ha segnato il superamento di un significativo diaframma fra il nostro sistema e

quello di revisione. Tuttavia, prosegue l’a. a scanso di equivoci, «come dalla positivizzata (ex

primo comma, art. 384, c.p.c., cit.) potestà di statuire au fond non si tarderebbe a ricavare il

superamento di un ostacolo sulla via dell’ammissione di una correzione officiosa della (…)

questione preliminare – distinta da quella dedotta con il ricorso principale – , così questo

stesso obiettivo, con non minor solerzia, deve ritenersi impedito in dipendenza di ciò: in

conseguenza, si vuol dire, della constatazione circa la (ancora sussistente) preclusione, per la

Corte nazionale, di condurre liberamente lo scrutinio della quaestio iuris; indubitalmente,

continua a non aver vigore per essa, ancora oggi, il principio iura novit curia». «Si crede, in

definitiva, che sia, questo che fa leva sulla cosiddetta freie Revisionpraxis (ammessa lì in

Germania …), uno degli aspetti più significativi su cui continuerà ad assidersi, nella

speculazione scientifica, l’idea di una correzione officiosa ristretta alla rettifica dei motivi in

diritto della questione indubbiata con l’impugnazione» (ID. op. cit., 640).

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– 58 –

dall’essere totalmente irrilevante per le parti89

, ha perlomeno quel contenuto

minimo di efficacia che si svolge sul piano dell’interpretazione del

dispositivo, concorrendo ad identificare «storicamente» il comando

giurisdizionale, dunque a illuminarne la portata90

.

89

Come continua ad affermare Calamandrei: v. CALAMANDREI-FURNO, voce

Cassazione civile, cit., 1094, voce redatta dal primo dopo la riforma ed in seguito aggiornata

dal secondo; sul punto, cfr. SANTANGELI, L’interpretazione della sentenza civile, Milano

1996, passim. 90

In tal senso, FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, cit., 144; MICHELI, Corso

di diritto processuale civile, vol. II, Milano 1960, 311 (mentre SATTA, in Commentario, vol.

II, cit., 285, accenna all’«empirica distinzione tra motivazione e dispositivo»). Riguardo ai

rapporti tra il dispositivo e la motivazione, per l’opinione secondo cui il significato della

sentenza deve dedursi alla stregua di una lettura integrata del dispositivo in relazione con la

motivazione, cfr. LANCELLOTTI, voce Sentenza civile, in Noviss. digesto it., vol. XVI, Torino

1969, 1106 ss., ove la considerazione che interpretare la sentenza significa ricercare il senso

del provvedimento in una visione «unitaria» e «sintetica» del dispositivo e della motivazione.

Allo stato attuale, ampiamente recepita risulta comunque l’idea che l’esegesi della parte

motiva soccorra nella identificazione del contenuto effettivo del comando laddove questo sia

in apparenza incompleto o non inequivocamente espresso, e che alla lacunosità o

all’imprecisione delle espressioni del dispositivo si debba sopperire attraverso

un’interpretazione correttiva alla luce della motivazione: cfr. CHIZZINI, voce Sentenza nel

diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XVIII, Torino 1998, 248 ss. Per

quanto riguarda la giurisprudenza, l’intima compenetrazione tra dispositivo e motivazione fa

da sfondo alle affermazioni del principio secondo il quale la portata precettiva di una

pronuncia giurisdizionale – di accertamento o di condanna – va individuata tenendo conto

non solo delle statuizioni formali contenute nel dispositivo ma anche delle enunciazioni

inserite nella motivazione: v. già Cass. 7 agosto 1979, n. 4571; Cass., sez. un., 20 maggio

1985, n. 3092 con riferimento al problema della valutazione della soccombenza; Cass. 16

maggio 1986, n. 3241; Cass., sez. un., 16 giugno 1993, n. 6706; e poi, Cass. 10 novembre

1993, n. 11104; Cass. 5 marzo 1995, n. 3030; Cass. 15 settembre 1997, n. 9157; Cass. 22

aprile 1999, n. 4026; Cass. 5 maggio 2000 n. 5666; Cass. 15 novembre 2000, n. 14788; Cass.

11 gennaio 2005, n. 360; Cass. 8 giugno 2007, n. 13441; quasi in funzione di contenimento

dell’espansione della regola suddetta, a correzione di un’indebita interpolazione del

dispositivo carente con la motivazione, Cass. 8 luglio 2010, n. 16152 ha precisato che «il

principio secondo il quale la portata precettiva di una pronunzia giurisdizionale va

individuata tenendo conto non soltanto del dispositivo, ma anche della motivazione, trova

applicazione soltanto quando il dispositivo contenga comunque una pronuncia di

accertamento o di condanna e, in quanto di contenuto precettivo indeterminato o incompleto,

si presti ad integrazione, ma non quando il dispositivo manchi del tutto, giacché in tal caso

ricorre un irrimediabile vizio di omessa pronuncia su una domanda o un capo di domanda

denunciabile ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., non potendo la relativa decisione, con il

conseguente giudicato, desumersi da affermazioni contenute nella sola parte motiva. (Nella

specie la S.C. ha ritenuto sussistente il vizio di omessa pronuncia della sentenza impugnata

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in relazione alla domanda di restituzione delle spese processuali corrisposte al procuratore

distrattario in virtù della sentenza di primo grado, non essendovi alcuna statuizione sul punto

nel dispositivo, e risultando irrilevante a tale fine l’affermazione, contenuta in motivazione,

secondo la quale non si provvedeva al riguardo in mancanza di prova del relativo

pagamento)». Ovviamente, il fatto di chiamare in causa la c.d. motivazione nel meccanismo

interpretativo della sentenza non deve ingenerare equivoci sulla diversità di piano su cui si

collocano l’esegesi del dispositivo e l’estensione della portata precettiva della pronuncia. Al

riguardo, l’attenzione va focalizzata sull’individuazione, all’interno della sentenza intesa

come atto procedimentale, degli elementi che la strutturano: in primo luogo, le proposizioni

che, statuendo circa l’effetto giuridico conteso, integrano il dispositivo e sono dunque

suscettibili di acquisire efficacia extraprocessuale; in secundis, le entità decisorie su singole

questioni di fatto e di diritto che costituiscono le premesse della statuizione finale, le quali

rilevano perlomeno nell’ottica del giudicato endoprocessuale; infine, l’argomentazione

logico-giuridica del giudice o, per l’esattezza, il complesso delle ragioni logico-giuridiche

poste a fondamento delle singole decisioni. Onde, la necessità di riconoscere la separazione

concettuale e funzionale di una parte decisoria della sentenza che è al di fuori del dispositivo

ma che non va neanche confusa con la parte stricto sensu motiva, costituita dalle

argomentazioni: separazione che è il terreno su cui la dottrina esercita incessantemente la

verifica della validità delle sue tesi intorno al concetto tecnicamente rilevante di «parte di

sentenza». E da qui, dalla struttura della sentenza e dalla sua scomposizione in «parti»,

muove una problematica che riguarda non il piano della semplice interpretazione dei

contenuti precettivi, quanto piuttosto quello dell’individuazione dei contenuti precettivi

stessi, ovverosia dell’efficacia delle singole statuizioni della sentenza in una prospettiva

extraprocessuale. Senza cercare di avvicinarci ad una pur grezza sintesi degli estremi di tale

problematica, che attiene ai limiti oggettivi del giudicato, la cui estrema complessità è a tutti

nota, conviene solo limitarsi a ricordare che è tutt’altro che scontato che al rango di cosa

giudicata debba assurgere il solo dispositivo della sentenza, come verrebbe fatto di dire

seguendo, nella lettura della norma-chiave dell’art. 34 c.p.c., l’auctoritas patrum. Per la più

compiuta disamina del tema dei limiti oggettivi del giudicato, v. gli studi di MENCHINI, I

limiti oggettivi del giudicato civile, Milano 1987, passim, spec. 124 ss.; ID., voce

Accertamenti incidentali, in Enc. giur., vol. I, Roma 1995, 1 ss.; ID., voce Regiudicata civile,

in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XVI, Torino 1997, 404 ss.; ID., Il giudicato civile, 2ª ed.,

Torino 2002. Per la tesi minoritaria in dottrina, che estende i limiti oggettivi del giudicato, e

secondo cui la cosa giudicata non è circoscritta all’effetto giuridico dedotto in giudizio come

petitum della domanda attorea, ma si estende anche alla decisione degli elementi

pregiudiziali che costituiscono il presupposto logico-necessario della statuizione finale, cfr.

PUGLIESE, voce Giudicato civile (diritto vigente), in Enc. dir., vol. XVIII, Milano 1969, 866

ss.; TARUFFO, «Collateral estoppel» e giudicato sulle questioni, II, in Riv. dir. proc. 1972,

272 ss., spec. 268 ss. (per la prima parte, stessa Rivista 1971, 651 ss.), il quale richiama

anche le ragioni storiche dell’orientamento tradizionale, riconducibili alla specificità del

contesto in cui vide la luce la tesi estensiva di Savigny sulla nozione romanistica di

giudicato, ossia un ordinamento in cui il diritto comune si richiamava alle fonti romane. La

tesi di Savigny, infatti, che affermava, in contrasto con la dottrina precedente, l’estensione

del giudicato romanistico dal dispositivo ai «motivi oggettivi» della pronuncia giudiziale

(SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale , trad. it. di Vittorio Scialoja, vol. VI, Torino

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– 60 –

Quanto alla dogmatica sulla cd. soccombenza «teorica» o «virtuale»,

sotto la vigenza del codice post-unitario la giurisprudenza, sulla scorta

dell’identificazione del capo di sentenza con la decisione sulla singola

questione, riteneva necessaria la proposizione del ricorso condizionato da

parte del resistente, totalmente vittorioso nel merito, che volesse sottoporre al

vaglio della Corte, subordinatamente all’accoglimento del ricorso principale,

quelle questioni presupposte alla decisione finale che è nel dispositivo, sulle

quali il giudice di merito gli avesse dato torto91

, salvo poi risolvere la

controversia in suo favore, accogliendo la domanda da lui proposta o

respingendo la domanda della controparte; mentre la dottrina era piuttosto

incerta e oscillante, sul punto92

.

1896, 379 ss.) – tesi che rimase recessiva e fu comunque scalzata, quanto alla sua persistente

efficacia normativa, dalla successiva legislazione processuale – si ritenne non potesse essere

esportata in ordinamenti, quale quello italiano, in cui le fonti romane non costituivano

«diritto vigente»: TARUFFO, «Collateral estoppel» e giudicato sulle questioni, II, cit., 280, nt.

173; ancora, per l’adesione alla tesi estensiva, COMOGLIO, Il principio di economia

processuale, vol. II, Padova 1982, 119 ss. Per riferimenti dottrinari e giurisprudenziali sulla

problematica in oggetto, v. anche DALFINO, Questioni di diritto e giudicato – Contributo allo

studio dell’accertamento delle fattispecie preliminari, Torino 2008, 120 ss. 91

La prassi del ricorso condizionato, di cui si trova traccia già nel primo decennio di

vigenza del codice Pisanelli (cfr. Cass. Napoli, 28 marzo 1871, citata come pioniera del

corso giurisprudenziale in esame da COSTA, Contributo al concetto di «capo» di sentenza nel

processo civile, in Studi sassaresi, fascicolo 1°, Sassari, 1932, 106, in nota), si consoliderà in

maniera decisiva successivamente: cfr., nel senso di ritenere il ricorso condizionato

indispensabile al fine di impedire che nel giudizio di rinvio restassero precluse le questioni

risolte dalla sentenza cassata a sfavore del vincitore nel merito, Cass. 11 dicembre 1928;

Cass. 11 marzo 1931; Cass. 18 aprile 1931; Cass. 22 marzo 1932; Cass. 7 agosto 1934; e, da

ultimo, le sentenze citate da ANDRIOLI, Commento, vol. II, cit., 585: Cass. 22 febbraio 1943,

n. 418; Cass. 28 maggio 1943, n. 1333. 92

In dottrina, per l’opinione che la proposizione del ricorso condizionato fosse

indispensabile per conservare integre le difese già proposte nel giudizio di appello e respinte

dalla sentenza impugnata per cassazione dalla parte avversa, cfr. MORTARA, Commentario,

vol. IV, cit., 608; CARNELUTTI, Lezioni, cit., 334. Di diverso avviso CHIOVENDA, Principii…,

cit., 1040, che considerava lo strumento de quo come una «semplice cautela»; ma v’erano

molti che ne ritenevano la proposizione sostanzialmente inutile: tra questi, D’ONOFRIO,

Osservazioni intorno al c.d. «ricorso condizionato» in cassazione, in Riv. dir. proc. civ.,

1930, I, 326 ss., e già SCIALOJA, Gli effetti della cassazione della sentenza relativamente alle

eccezioni o difese proposte in appello dalla parte vincitrice in merito e respinte dalla

sentenza cassata, in Foro it. 1900, col. 1245; nonché, COBIANCHI, Questioni sull’ambito del

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– 61 –

Il codice del 1940, introducendo una disciplina specifica del ricorso

incidentale in Cassazione all’art. 371, non interveniva in maniera decisiva93

;

giudizio di rinvio, in Foro it. 1927, I, col. 216. Una posizione a sé è assunta da COSTA, op.

loc. ult. cit., il quale, coerentemente con la concezione bivalente di capo di sentenza che

abbraccia (concezione che diversifica il contenuto del capo di sentenza a seconda che esso

rilevi in appello – ove è commisurato al capo di domanda, nucleo di accertamento autonomo

di un petitum divisibile – ovvero in cassazione – in cui invece può rilevare una più ristretta

base di giudizio, costituita da ogni assieme di questioni integrante la cd. «questione

complessa»), asserisce la necessità della proposizione del ricorso condizionato per

l’emersione in Cassazione del capo-questione complessa sul quale il vincitore nel merito sia

risultato soccombente, onde evitare che tale “ganglio” decisionale resti integralmente

precluso anche in sede di rinvio. Mentre, per le questioni semplici all’interno di ciascun capo

impugnato, l’a. riconosce che esse rivivono da sé, in cassazione, senza bisogno di ricorso

condizionato, e in sede di rinvio il giudice avrà il potere di conoscerle liberamente, nel solo

limite del normale rispetto del principio dispositivo. Avversa decisamente la tesi della

necessità della proposizione del ricorso condizionato da parte del soccombente virtuale al

fine di evitare preclusioni in sede di rinvio SEGRÈ, Cassazione parziale e limiti del giudizio

di rinvio, in Riv. dir. proc. civ., 1935, II, 4 ss. Per questo A., l’assenza, nella disciplina della

cassazione, di un istituto analogo a quello dell’appello per incidente, è eloquente di una

opzione del legislatore nel senso di ammettere che «la cassazione di una parte giovi

normalmente all’altra parte» (ID., op. cit., 20), per cui, cassato il capo di sentenza impugnato

in via principale, in sede di rinvio non si verificano preclusioni di sorta per entrambe le parti.

Se lo strumento del ricorso condizionato è stato concepito per consentire al resistente di

mettere in discussione i punti della decisione a lui sfavorevoli, ed evitare che il ricorrente

principale sia avvantaggiato dal fatto di poter tentare la strada del ricorso restando comunque

garantito contro un peggioramento della sua situazione, il negare l’operatività di tale

strumento, in aderenza al dato positivo che non lo contempla, lascia integra l’esigenza che vi

è alla base, cioè garantire la parità delle armi tra le parti. Tuttavia, osserva Segrè,

controbilanciare la carenza di potestà impugnatoria correlata alla cd. soccombenza teorica,

asserendo, come avviene nell’ordine di idee di Chiovenda e di Scialoja, l’assenza di

preclusioni in sede di rinvio per il solo resistente in cassazione, al fine di tutelarlo da un

trattamento deteriore rispetto al ricorrente principale, finisce col rovesciare la

discriminazione a danno di quest’ultimo. Dunque, per Segré, non residua che la possibilità di

estendere l’assenza di preclusioni in sede di rinvio anche al ricorrente in cassazione, e di

leggere, tra le pieghe delle norme scritte e di quelle mancanti, il riconoscimento positivo

della libera disputabilità, in sede di rinvio, tanto per l’una quanto per l’altra parte, dei

presupposti di fatto e di diritto della decisione travolta dalla censura. 93

Cfr. ANDRIOLI, Commento, vol. II, cit., 585: «Sulla questione [della necessità di

proporre il ricorso condizionato ai fini che abbiamo riferito, n.d.r.] non incide l’introduzione

del ricorso incidentale, che, se consente di procrastinare l’impugnazione, non incide sulla

necessità di sperimentarla». D’altronde, la previsione del ricorso incidentale, isolatamente

considerata, è di per sé anodina, poiché si sostanzia in un regime formale cui il legislatore

assoggetta tutte le impugnazioni successive a quella principale (che è la prima impugnazione

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– 62 –

ma le perplessità manifestatesi inizialmente in seno a un’autorevole dottrina

circa l’utilità o la necessità della proposizione del ricorso condizionato per

consentire al resistente di sottoporre al suo vaglio le questioni sulle quali egli

fosse risultato «virtualmente» soccombente nel giudizio di merito94

, non

proposta) e dunque in un contenitore polifunzionale in cui confluiscono iniziative processuali

delle parti con presupposti e scopi eterogenei. 94

Della quale dottrina testimonianza estremistica è la tesi sostenuta dal FAZZALARI,

Sui ricorsi incidentali «condizionati», cit., 99 ss. L’A. parte dalla premessa per cui il

vincitore resistente che solleva una questione (pregiudiziale o preliminare) già risolta a suo

svantaggio tende a dimostrare che, se il giudice di merito avesse risolto correttamente quella

questione, la sua decisione gli sarebbe stata comunque favorevole e che, qualora la Corte

dovesse riconoscere l’errore denunciato dal ricorrente, dovrebbe altresì avvedersi del fatto

che quell’errore non ha provocato l’ingiustizia della sentenza, ma ha semmai riequilibrato gli

effetti dell’errore precedente commesso in suo svantaggio. Con il ricorso condizionato il

resistente, dunque, aspira ad una conferma della sentenza ex art. 384, cpv.; se così è, egli non

fa che invocare l’esercizio del controllo di causalità del vizio denunciato col ricorso

principale che in realtà la Cassazione deve compiere sempre, ex officio: il che rende il ricorso

de quo avverso il capo di sentenza già impugnato dal soccombente un espediente

sostanzialmente ridondante, e pertanto inammissibile. La tesi di Fazzalari si esponeva

inevitabilmente al rilievo di non essere generalizzabile, rilievo opposto anche da parte di chi,

come Ricci, ne accreditava gli assunti preliminari. Dice infatti E.F. RICCI, Il giudizio civile di

rinvio, Milano, 1967, 131 ss., che il discorso del Fazzalari sulla funzione pleonastica che il

ricorso incidentale condizionato contro il capo di sentenza impugnato dal soccombente

avrebbe in un sistema ove è riconosciuto alla Corte il potere di rettificare la sentenza il cui

dispositivo sia corretto è un discorso «la cui validità dipende da ben precise premesse.

Innanzitutto è necessario che le questioni risolte a sfavore del vincitore non siano tali, da non

poter condurre a quella conferma per la loro stessa natura» (ed alla cassazione senza rinvio,

non alla conferma ex art. 384 c.p.c., secondo l’a., tenderebbe il controllo che il resistente può

aver interesse chiedere sulla sussistenza di un impedimento processuale, rinnovando alla

Corte l’antica domanda di absolutio ab istantia già risolta in suo danno dall’organo

inferiore). In secondo luogo, aggiunge Ricci, «è indispensabile che la Corte, nell’esercizio

dei propri poteri, sia in grado di giungere al giudizio risolutivo della questione de qua»: il

che non avviene in tutta quella vasta zona di casi in cui la questione di diritto, su cui il

vincitore resistente si fosse visto dar torto dal giudice di merito, costituisce uno snodo

normativo a partire dal quale si rende necessaria la formulazione di giudizi storici che la

Corte non può compiere, sicché «il ragionamento che dovrebbe condurre alla soluzione della

questione rimane a metà strada, né si può dir niente sulla giustizia o ingiustizia del

dispositivo ai sensi dell’art. 384, 2° comma, cod. proc. civ.». Ma la tesi di Fazzalari cade

ancora più a monte, insieme con la sua premessa, qualora si aderisca ad un’interpretazione

restrittiva dello ius corrigendi, la quale neghi che la Corte, in sede di verifica della

correttezza del dispositivo, abbia il potere di esaminare d’ufficio questioni che esorbitano da

quelle sollevate espressamente col mezzo di censura, asserendo, di contro, che la correzione

è tendenzialmente circoscritta ai profili giuridici della questione coerenziata dal motivo

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– 63 –

hanno resistito alla critica di chi giudicava decisiva, al riguardo, la chiamata

in causa dell’art. 346 c.p.c., la norma che impone la riproposizione espressa

delle domande e delle eccezioni non accolte nel giudizio d’appello. Difatti,

per negare la necessità di introdurre dinnanzi alla Suprema Corte a mezzo di

ricorso incidentale le questioni pregiudiziali risolte a sfavore della parte

vittoriosa, dovendosi in compenso asseverandone la libera riesaminabilità ex

officio, in sede di giudizio di cassazione, giungendo al paradosso di attribuire

al giudice di legittimità «un potere che, come risulta dall’art. 346 c.p.c., il

legislatore non ha concesso al giudice d’appello con riguardo alla situazione

analoga in cui l’appellato vittorioso ha visto risolte a suo sfavore uno o più

questioni di quel tipo da parte del giudice di primo grado»95

.

dedotto, salva la limitata operatività del principio iura novit curia in sede di ricorso per

cassazione. 95

CHIARLONI, L’impugnazione incidentale nel processo civile, Milano 1969, 100.

L’autore inserisce questa riflessione in un più ampio discorso sulla ragguagliabilità dell’art.

342 e dell’art. 346 c.p.c. dal punto di vista del potere devolutivo dell’appellante. In

particolare, secondo CHIARLONI, op. cit., 151 ss.; 205 ss., l’art. 342 c.p.c., nel richiedere la

redazione di motivi specifici di impugnazione, esige semplicemente che l’appellante,

principale od incidentale, individui le singole questioni per le quali vuole sollecitare i poteri

decisori del giudice di secondo grado; in quest’ottica, l’art. 346 c.p.c., ex latere appellantis,

costituirebbe una riproduzione dell’art. 342 c.p.c. che, imponendo all’appellante di investire

le statuizioni a lui sfavorevoli con motivi specifici, anticipa all’atto di appello l’onere di

articolare tutte le censure a cui è interessato. In tal modo, l’appello e la riproposizione delle

richieste «non accolte», malgrado la vittoria nel merito, rappresentano espressioni analoghe

del medesimo potere di devoluzione; naturalmente, presupposto di questa ricostruzione è che

l’art. 346 c.p.c., nel discorrere di domande ed eccezioni «non accolte» si riferisca non solo

alle richieste assorbite, ma anche a quelle decise sfavorevolemente. Nel medesimo ordine di

idee, circa la portata della locuzione «non accolte» di cui all’art. 346 c.p.c., si pongono in

generale coloro che non ritengono evidentemente necessario l’appello incidentale per

consentire alla parte vittoriosa nel merito, soccombente su questioni pregiudiziali e

preliminari, di coltivare dette questioni (v. nota seguente); v’è inoltre anche chi, come

BONSIGNORI, op. cit., 1345, addirittura limita l’operatività dell’art. 346 c.p.c. alle domande

ed eccezioni respinte, sulle quali vi sia una pronuncia sfavorevole del primo giudice,

ritenendo di contro operante un effetto devolutivo automatico delle domande, motivi ed

eccezioni oggetto di assorbimento in primo grado. All’estremo opposto di questa teoria si

pone quella che vede nell’art. 346 c.p.c. non la disciplina dell’ipotesi di pronuncia

sfavorevole ma quella della omessa pronuncia, per cui la locuzione «domande ed eccezioni

non accolte» dovrebbe intendersi riferita alle sole domande ed eccezioni «non decise», in

quanto assorbite, v. MONTELEONE, Limiti alla proponibilità di nuove eccezioni in appello, in

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Suggerimento, questo, generalizzabile, che va accolto a prescindere dal

fatto di condividere la tesi che considera sufficiente il meccanismo della

riproposizione ex art. 346 c.p.c. allo scopo di consentire alla Corte il riesame

di questioni risolte in sentenza in senso sfavorevole alla parte vittoriosa96

,

laddove l’art. 346 c.p.c. dimostra appunto l’esigenza «minima»97

della

necessaria iniziativa di parte al fine di coltivare in sede di appello questioni

su cui si sia formata una soccombenza teorica, stante la vittoria nel merito98

.

Riv. dir. civ. 1983, I, 733 ss.; RASCIO, L’oggetto dell’appello civile, Napoli 1996, 108 ss.,

139 ss.; POLI, I limiti oggettivi, cit., 524 ss. Ciò rientra in una diversa ricostruzione dei

rapporti tra l’art. 342 e l’art. 346 c.p.c., che risponderebbero ad esigenze e a scopi diversi: v.

note che seguono. 96

Nel senso che la devoluzione in appello delle eccezioni rigettate al convenuto

risultato vittorioso nel merito non esige l’appello incidentale, essendo sufficiente la mera

riproposizione, e ciò sulla base dell’argomento che mancherebbe, in questo caso, quella

soccombenza pratica che sola può fondare l’interesse ad impugnare: SALVANESCHI,

L’interesse ad impugnare, Milano 1990, 14 ss.; LUISO, voce Appello nel diritto processuale

civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. I, Torino 1987, §§ 7-8, secondo cui la regola della

sufficienza della riproposizione vale sia per le questioni pregiudiziali di rito risolte dal

giudice di primo grado in modo sfavorevole all’appellato che per le questioni pregiudiziali di

merito, «che non possono – in quanto non hanno la consistenza di “causa” – o non debbono –

in quanto manchi la richiesta di parte o la volontà di legge – essere decise con autorità di

giudicato»; facendo eccezione a tale regola il caso in cui la questione preliminare o

pregiudiziale sia stata decisa con sentenza non definitiva; dell’avviso che l’onere dell’appello

incidentale si ha soltanto se le eccezioni respinte costituiscono l’oggetto di una sentenza non

definitiva anche BASILICO, Sulla riproposizione di domande ed eccezioni in appello, in Riv.

dir. proc. 1996, 119 ss. V., in argomento, anche BRILLI, In tema di nullità insanabili non

dedotte in appello e di formazione del giudicato interno, in Foro it. 1991, I, 105 ss.;

TEDOLDI, L’onere di appello incidentale nel processo civile, in Giur. it. 2001, 1301 ss.,

secondo cui il convenuto vittorioso nel merito ha l’onere di proporre l’appello incidentale

quando intende proporre eccezioni il cui accoglimento può garantirgli un risultato migliore

rispetto a quello conseguito in base alla sentenza di primo grado (e dunque, per le eccezioni

di rito, come quella di giurisdizione, sarebbe sufficiente la mera riproposizione). 97

In presenza dell’art. 346 c.p.c., infatti, l’alternativa ricostruttiva a quella che ritiene

idonea un’iniziativa interna al processo qual è la riproposizione di cui parla l’art. 346 c.p.c. al

fine di devolvere al giudice d’appello delle questioni sulle quali si sia formata la

soccombenza teorica della parte vittoriosa nel merito, non è la devoluzione automatica delle

questioni stesse, bensì la necessità di un’iniziativa titolata qual è l’impugnazione incidentale

della parte di sentenza richiesta dall’art. 329, comma 2, c.p.c. onde evitare l’acquiescenza. 98

Considerano necessaria al fine di devolvere al giudice d’appello le questioni decise

in senso sfavorevole alla parte totalmente vittoriosa nel merito la proposizione

dell’impugnazione incidentale (e ritengono pertanto che l’ambito di operatività dell’art. 346

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c.p.c. non sia quello delle «richieste respinte», bensì quello delle richieste assorbite, come

abbiamo visto in nt. 95): POLI, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, cit., 518;

RASCIO, L’oggetto dell’appello civile, cit., 249 s.; 266 ss., spec. 268; MONTELEONE, Limiti

alla proponibilità di nuove eccezioni in appello, cit., 724 ss. e ID., La funzione dei motivi ed i

limiti dell’effetto devolutivo nell’appello civile secondo le Sez. Un. Della Corte di

cassazione, in Giur. it. 1988, I, 1820 ss. Il discorso impinge inevitabilmente nelle modalità

con cui si esplica l’effetto devolutivo dell’appello, e trae argomento da un’interpretazione

della norma relativa all’acquiescenza parziale di cui all’art. 329, comma 2, c.p.c. che non ne

circoscrive l’operatività alle ipotesi di cumulo obiettivo di domande. Nonostante la diversità

delle posizioni assunte da questi autori circa la consistenza da dare all’unità minima rilevante

come questione-parte di sentenza, costoro giungono al medesimo punto d’approdo sotto il

profilo qui considerato, cioè a subordinare all’impugnazione incidentale la ri-emersione

dinnanzi al giudice dell’appello delle questioni aventi carattere pregiudiziale risolte in senso

sfavorevole alla parte vittoriosa, siano esse rilevabili solo su eccezione di parte o anche

d’ufficio (nonché per la emersione delle questioni nuove – ove ammissibili – incompatibili

con quelle risolte dalla sentenza impugnata). Più specificamente, per quanto concerne i fatti

costitutivi, impeditivi modificativi ed estintivi rilevabili d’ufficio, nel senso che la

(originaria) rilevabilità d’ufficio di perde ogni rilievo nel caso in cui la sentenza di primo

grado abbia pronunciato su tali fatti, per cui occorrerà l’impugnazione incidentale da parte

dell’appellato vittorioso avverso il relativo capo onde far riemergere la questione innanzi al

giudice d’appello, POLI, I limiti, cit., 350; RASCIO, L’oggetto dell’appello civile, cit., 266 ss.,

spec. 268. D’altro canto, si ritiene che il discorso possa essere completato e puntellato anche

ragionando del regime del rilievo delle nuove eccezioni appello, che, nell’ottica dell’art. 345

riformato dalla novella del 1990, è ammissibile solo in relazione alle eccezioni rilevabili

d’ufficio: non è infatti detto che possa prescindersi dall’impugnazione per consentire la

discussione in sede d’appello delle nuove eccezioni rilevabili d’ufficio. Sulle orme di

MONTELEONE, Limiti…, cit., 750 ss., si afferma infatti che la proponibilità della nuova

eccezione, se si guarda dal lato del soccombente in primo grado, pone un problema di tempo

e di forma dell’esercizio della facoltà di far valere eccezioni nuove, che si risolve nel senso

che a) l’eccezione va proposta con l’atto introduttivo e b) si converte in motivo di

impugnazione; se si guarda alla prospettiva dell’appellato vittorioso, e dunque si va a

verificare l’esigenza di una specifica iniziativa ai fini dell’esame dell’eccezione, invece, si

pone un problema di contenuto della facoltà di far valere la nuova eccezione, e solo in un

secondo momento di forma e tempo di esercizio della facoltà: se la nuova eccezione mira alla

conferma della sentenza impugnata, senza la rimozione di una statuizione sfavorevole (ad es.

perché c’è un fatto estintivo inedito che concorre con un altro fatto estintivo accertato in

primo grado e comunque non logicamente incompatibile con i fatti accertati dalla sentenza)

non è necessario l’appello incidentale; ma sarà invece necessaria l’impugnazione incidentale

in quella vasta gamma di casi in cui la nuova eccezione tende a rimuovere una statuizione

sfavorevole, anche solo su una questione, della sentenza di primo grado (POLI, I limiti

oggettivi, cit., 529 ss.; nel senso che è statuizione sfavorevole quella che risolve una

questione pregiudiziale «o comunque incompatibile» rispetto al nuovo fatto di eccezione,

come nell’ipotesi in cui la vittoria è dipesa dall’accertamento del fatto estintivo e in appello

occorre spendere un nuovo fatto di eccezione impeditivo pregiudiziale rispetto al fatto

costitutivo ritenuto esistente dalla sentenza di primo grado: ID., op. loc. ult. cit., spec. 533, e

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Per tali motivi la Corte Suprema è andata rapidamente orientandosi nel

senso di considerare la proposizione del ricorso incidentale, condizionato e

non, come onere della parte che intenda far riemergere le questioni non

investite direttamente o consequenzialmente dalla censura del ricorso

principale99

, rappresentando tale soluzione una conseguenza rigorosa

dell’applicazione del principio dispositivo in sede di ricorso per cassazione e

un’implicazione inevitabile della formazione progressiva del giudicato; è

rimasto come nodo problematico, invece, quello della necessità o meno del

condizionamento100

.

note). Sul rapporto tra l’appello incidentale e la mera riproposizione ex art. 346 c.p.c., v.

anche RONCO, L’onere dell’appello incidentale sulle questioni pregiudiziali di rito (come

baluardo per la sopravvivenza della decisione di merito), in Giur. it. 2009, 2004 ss.;

TURRONI, La sentenza civile sul processo. Profili sistematici, Torino 2006, 129 ss.

Sull’ambito di applicazione dell’art. 346 c.p.c. e i rapporti con l’art. 342 in relazione alla

ricostruzione della struttura del giudizio di appello, v, anche PUNZI, Il processo civile, vol. II,

cit., 409 ss., ove anche richiami di giurisprudenza. 99

Cfr., esemplificativamente, Cass. 28 marzo 2006, n. 6992; Cass. 26 gennaio 2006,

n. 1691, in Giur. it., 2006, 12, 2342, con nota di Rusciano; Cass. 10 marzo 2000, n. 2796;

Cass. 1° aprile 1999, n. 3102. 100

Il tema del condizionamento del ricorso per cassazione di recente è stato riproposto

in relazione alla soccombenza teorica per decisione esplicita o implicita del giudice di

merito, nel senso che la questione – pregiudiziale di rito o preliminare di merito – oggetto di

ricorso incidentale va esaminata con priorità solo se non ha formato oggetto di precedente

decisione. Per l’affermazione che il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente

vittoriosa nel merito, relativo a questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti

alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato,

indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con

priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio,

non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice del merito;

qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, il ricorso incidentale va esaminato dalla

Corte di cassazione solo in presenza dell’attualità dell’interesse, sussistente unicamente

nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale, cfr. Cass., sez. un., 13 gennaio 2010, n.

356; e già Cass., sez. un., 6 marzo 2009, n. 5456, in Corriere Giur. 2009, 1073 ss., con nota

di BACCAGLINI, Ricorso incidentale subordinato e questioni pregiudiziali di rito: una

decisione non pienamente condivisibile, ed in Riv. dir. proc. 2010, 191 ss., con nota di

PANZAROLA, Sul condizionamento de jure del ricorso incidentale per cassazione del

vincitore nel merito, il quale sul punto osserva che con tale pronuncia le Sezioni unite,

sostanzialmente, da un lato «restaurano» l’autonomia delle due figure della «rilevabilità»

(officiosa) della questione («vergine»), da un verso, e della «riesaminabilità» di essa (se già

rilevata); dall’altro, costringono l’interesse alla impugnazione nello schema inflessibile della

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soccombenza c.d. «formale». Sotto il primo profilo, viene infatti chiarito che, come le

comuni pregiudiziali di rito, quando siano state oggetto di decisione nel grado inferiore,

cessano di essere nella disponibilità del giudice – per essere riservate alla censura di parte –,

allo stesso modo il difetto di giurisdizione non è rilevabile officiosamente dal Supremo

Collegio se vi sia già stata sul punto una decisione – anche «implicita» – del giudice comune;

sicché l’esame della questione di giurisdizione in Cassazione può precedere lo scrutinio del

ricorso principale nel solo caso in cui una precedente decisione al riguardo sia mancata;

mentre quando essa sia stata invece assunta, posta la necessità del ricorso incidentale del

vincitore nel merito, se ne postula il condizionamento (de iure) all’accoglimento del ricorso

principale. Peraltro, osserva l’a., l’omologazione della questione di giurisdizione alle

questioni pregiudiziali di rito in genere non è totale: soltanto la rilevabilità officiosa della

prima è ostacolata dall’adozione, nel grado inferiore, di una decisione «implicita»; le

seconde, invece, non cessano di essere esaminabili ex officio – secondo tradizione – se non in

esito ad una decisione «esplicita» che le concerna. Sotto il secondo profilo, la tesi del

condizionamento de iure del ricorso proposto in relazione ad una questione pregiudiziale di

rito e preliminare di merito su cui vi sia stata decisione esplicita ad eccezione del difetto di

giurisdizione dove basta una decisione implicita a fondare l’interesse all’impugnazione

diretta, valorizza e riabilita il concetto della «attualità» dell’interesse ad impugnare, interesse

che, per il resistente vittorioso, sorgerebbe solamente quando sia stato accolto il ricorso

principale. Per l’a., è criticabile l’orientamento in esame per aver esteso tale

condizionamento de iure del ricorso incidentale su pregiudiziale priva di decisione esplicita

ad ogni questione, indifferentemente di rito e di merito, senza tener conto a) del fatto che, se

viene esaminata in via prioritaria la questione di merito sollevata con il ricorso incidentale, è

talora possibile definire il giudizio in maniera più semplice, specie se oggetto del ricorso

incidentale, fra le varie questioni di merito censurate, è la questione che pone la soluzione

«più liquida» (sia nel caso in cui il ricorso principale è in ipotesi capace di innescare la

rimessione alle Sezioni unite ex art. 374, comma 3°, c.p.c.; sia nel caso in cui la soluzione

della questione preliminare di merito – sollevata con il ricorso incidentale con censura in

iudicando in iure – può agevolmente essere risolta e condurre alla pronunzia di cassazione

sostitutiva nel merito ai sensi dell’art. 384, comma 2°, c.p.c., perché, ad es., sulla base dei

fatti asseriti in sentenza, si perviene al rigetto della domanda); e b) che occasionalmente il

resistente – pur vittorioso nel merito – non ha interesse al condizionamento, perché ad

esempio anela alla sostituzione del motivo portante del rigetto della altrui pretesa con altro

motivo di merito – diversamente dal precedente, capace di precludere la futura

riproposizione della medesima domanda – e non si vede perché si dovrebbe negare risposta,

per principio, a questa sua aspirazione: ID., op. loc. ult. cit. Quanto all’obiezione di carattere

sistematico: «non si può, ad un tempo, enfatizzare la portata della soccombenza “formale” e

poi – onde esigere che il convenuto vittorioso nel merito in primo grado proponga appello

incidentale per devolvere al giudice superiore una questione decisa in senso a lui

sfavorevole: così Cass., sez. un., 16 ottobre 2008, n. 25246, in Giur. it. 2009, 2001 ss., con

nota di Alberto RONCO, L’onere dell’appello incidentale sulle questioni pregiudiziali di rito

(come baluardo per la sopravvivenza della decisione di merito) – sottolineare che il senso

della locuzione “parte di sentenza” è da riferire ad “ogni singola statuizione risolutiva d’una

questione controversa”»: PANZAROLA, op. ult. cit., nt. 30.

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Ad ogni modo, non v’è dubbio che il successo applicativo del ricorso

incidentale in questione, condizionato o non, sorto in origine dall’esigenza di

ampliare la cognizione della Suprema Corte, poi sospettato di confliggere con

la ormai codificata potestas corrigendi e con l’adombrata possibilità di

realizzare anche nella Cassazione italiana una totale revisio in iure di ultimo

grado101

, infine valorizzato in quanto tramite necessario per la garanzia del

diritto di difesa e della «parità delle armi» fra le parti anche dinanzi al

supremo soglio, sia servito, in definitiva, a perfezionare la connotazione

impugnatoria del giudizio di cassazione.

A non diversa conclusione si perviene se si ha riguardo alla vicenda del

controllo sulla motivazione.

Rispetto a quell’orientamento giurisprudenziale consolidatosi sotto la

vigenza del codice del 1865 che, con coperture normative diverse in assenza

di una previsione esplicita sul punto, aveva perseguito il pressoché costante –

sebbene non incontrastato – risultato di ammettere la censurabilità in

Cassazione del vizio di illogicità della motivazione, per la verità il legislatore

del 1940 aveva inteso fare un passo indietro102

, nella misura in cui, al n. 5

dell’art. 360 c.p.c., aveva recepito soltanto il vizio di «omesso esame di un

fatto decisivo»: una formulazione, questa, che a rigore avrebbe dovuto

autorizzare il soccombente a lamentare dinanzi alla Cassazione solo la mera

obliterazione, cioè la mancata considerazione, nell’iter argomentativo

101

Nella misura in cui si riteneva che riconoscerne l’ammissibilità sistematicamente

in tanto aveva un senso in quanto si disconoscesse alla Corte il potere di valutare essa stessa,

ex officio, in sede di controllo della correttezza del dispositivo e dunque di causalità

dell’errore, le questioni di diritto sostanziale – o anche di cd. merito processuale – rilevanti

nell’ambito del capo impugnato dal ricorrente principale. 102

Un atteggiamento prudente che, come ricorda FAZZALARI, Il giudizio civile di

cassazione, cit., 13, si avvaleva dell’indagine critica effettuata da CALOGERO, in quel

contributo fondamentale alla teoria del giudizio che è La logica del giudice e il suo controllo

in Cassazione, Padova 1937: senz’altro la più compiuta formulazione del dubbio circa la

possibilità che il sindacato sulla congruenza e la logicità della motivazione non si traduca in

un’immissione, da parte della Suprema Corte, nel giudizio di fatto.

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risultante dalla motivazione, di un fatto rilevante prospettato dalla parte, non

già l’incompletezza o l’incongruità della motivazione stessa.

Sennonché la Corte, all’atto di applicarsi, alla luce della nuova

disciplina, sulle doglianze qualificate come vizi di motivazione, pur

continuando a sostenere sempre con fermezza l’incensurabilità della

motivazione in ordine alle questioni di diritto, si spingeva talvolta ad aggirare

l’ostacolo che il tenore testuale della legge frapponeva al suo sindacato sulla

congruenza logica dell’apprezzamento dei fatti, giungendo di nuovo a

riaffermare, attraverso un’interpretazione estensiva del precetto dell’omesso

esame, la vecchia massima secondo cui la decisione del giudice di merito è

censurabile in Cassazione qualora la motivazione in punto di fatto risulti

viziata da errori logici.

Con la novella del 1950, che suggella questa apertura, consacrandola

nella formula della «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa

un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile

d’ufficio», la Corte viene sospinta ormai ufficialmente verso un controllo

della giustizia della sentenza che è fuori squadro rispetto alla originaria

configurazione dell’istituto: ciò che farà dire a Satta, riguardo al motivo di

cui al n. 5 dell’art. 360, con una frase che è ormai diventata un adagio, che

esso costituisce «il documento più impressionante della evoluzione della

Cassazione nel senso (…) del continuo premere delle esigenze di giustizia

per superare le barriere istituzionali del giudizio di diritto, e inserire la

Cassazione nel giudizio di fatto»103

.

103

Cfr. SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, 13a ed., Padova 2000, 506.

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3.2. Il vincolo del principio di diritto tra il modello «puro» di Cassazione e

quello della terza istanza.

A partire, dunque, dall’innovazione sancita dall’art. 384 e, in generale,

nel mutato quadro legislativo nel quale la Suprema Corte si trova ad operare

a seguito della riforma del 1940 (e, a maggior ragione, dopo la

«controriforma» attuata dalla novella del 1950), si fanno più pungenti le

critiche alla visione dualistica del sistema della cassazione ereditata dal

Calamandrei104

, imperniata sulla separazione concettuale dell’istituzione

della Corte di cassazione dall’istituto del ricorso per cassazione, una

separazione tale per cui «il secondo termine si deve considerare come uno

strumento del primo, nel senso che il ricorso per cassazione è stato

processualmente costruito così com’è, allo scopo di agevolare alla Corte il

conseguimento dei suoi fini istituzionali»105

.

La «teoria della Cassazione» del Calamandrei, com’è noto, muove da

una generalizzazione radicale del paradigma del ricorso sulla base della

censura per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, e dall’idea

che il vizio in questione riguarda non «il diritto nei suoi precetti concreti,

scaturenti dal coincidere di una fattispecie reale con l’astratta fattispecie

ipotizzata dalla norma (ius litigatoris, ius in hypothesi)», bensì «il diritto

considerato come norma generale e astratta, come massima potenzialmente

applicabile ad una quantità indeterminata di casi possibili», ciò che si vuole

indicare quando si utilizza la locuzione «ius constitutionis».

Nell’impostazione dell’illustre autore, quindi, i privati fungono da

«segnalatori»106

delle interpretazioni erronee effettuate dai giudici di merito,

104

Non che il Calamandrei si fosse battuto contro l’affermazione del vincolo del

giudice di rinvio alla pronuncia della Corte suprema; anzi, l’a. saluta con favore

l’innovazione, e la considera «quanto mai opportuna»: cfr. CALAMANDREI-FURNO, voce

Cassazione civile, cit., 1099. 105

CALAMANDREI-FURNO, op. cit., 1055. 106

CALAMANDREI-FURNO, op. cit., 1074.

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e l’ordinamento sfrutta il loro interesse a fare annullare la sentenza ingiusta

nei limiti in cui ciò consenta alla Cassazione di esercitare il controllo

sull’interpretazione giudiziaria e di conseguire lo scopo di unificazione della

giurisprudenza.

Il ricorso per cassazione, a questa stregua, è configurato come un diritto

di impugnativa concesso alla parte soccombente per fare annullare alla Corte

non le sentenze viziate da un’ingiustizia qualsiasi, ma solo le sentenze la cui

ingiustizia «sia stata causata da una di quelle “violazioni o false applicazioni”

di norme di diritto, che mettono in pericolo l’uniformità della giurisprudenza,

in quanto coinvolgono l’interpretazione di una norma come comando di

portata generale e astratta»107

. Se la Corte può limitarsi alla cognizione del

107

CALAMANDREI-FURNO, op. loc. ult. cit. Oltre alla efficacissima sintesi di questa

teoria contenuta nella voce Cassazione civile, cit., si veda CALAMANDREI, La Cassazione

civile, vol. II, cit., 135-136: «(…) la realtà è che, nel ricorso proponibile dai privati,

l’interesse del privato diventa – come fu detto efficacemente – veicolo dell’interesse

collettivo (…). In sede di Cassazione, dunque, l’interesse privato è riconosciuto e tutelato in

quanto esso coincida con quello speciale interesse collettivo che sta alla base dell’istituto:

non oltre. E il privato che ricorre in Cassazione stimolato dal proprio interesse individuale, si

fa, pur senza saperlo, strumento della utilità collettiva dello Stato, il quale, in cambio di

questo servigio che il ricorrente presta al raggiungimento di uno scopo pubblico, gli concede,

coll’annullare nell’interesse della legge la sentenza basata su un error di diritto, la possibilità

di ottenere, in una ulteriore trattazione del merito, una nuova sentenza favorevole al suo

interesse individuale. Si potrebbe dunque dire (…) che lo Stato, per stimolare il concorso dei

privati al funzionamento della Cassazione nell’interesse pubblico, li “cointeressa negli utili”,

permettendo loro di giovarsi della Cassazione stessa per la miglior tutela del loro interesse

individuale!». Altrettanto celebre è la replica del Satta. Dopo aver criticato come «arbitraria»

l’obliterazione che ai fini dogmatici il Calamandrei fa di una componente importante della

giurisdizione della Cassazione, cioè quella sugli errores in procedendo (del resto, il

Calamandrei considera il controllo su tali vizi come un elemento spurio dal punto di vista

sistematico, in quanto radicantesi in un’accessoria attribuzione alla Corte Suprema del

compito di sorvegliare la ritualità dei processi, la cui soppressione non appare del tutto

peregrina: cfr. CALAMANDREI, op. cit., 428); dopo aver rilevato che il postulato nesso

istituzionale tra l’interesse pubblico alla esatta interpretazione della legge e l’esistenza del

diritto di impugnativa in capo alla parte privata non tiene conto del fatto che l’interesse

pubblico alla esatta interpretazione della legge è soddisfatto non solo nel caso in cui la Corte

accoglie il ricorso, ma anche nel caso in cui lo respinge, il Satta focalizza la sua critica su di

un’obiezione che colpisce il cuore della teoria del Calamandrei: quella per cui «il preteso

interesse all’interpretazione della legge, così come quello all’uniformità del diritto, non

esistono oggettivati e astratti nel diritto positivo, ma sono sempre soggettivati, nel compiuto

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ricorso, senza altrimenti verificare la sussistenza di un’effettiva esigenza di

nomofilassi, ciò, nella prospettiva di Calamandrei, avviene in quanto il diritto

di impugnativa del privato, poiché presuppone un error (iuris) in iudicando,

costituisce una determinazione legale a priori dell’interesse dello Stato alla

esatta interpretazione della legge.

In un simile ordine di idee, non meraviglia che si valorizzasse, nel

ruolo della Suprema Corte, la funzione di giudice dell’interpretazione, di

contro svalutandone, come puramente strumentale, quella di giudice

dell’impugnazione; che si richiamasse costantemente l’attenzione sullo scopo

politico della Cassazione; che, di conseguenza, si ponesse a ogni piè sospinto

il problema di fugare il pericolo di una «degenerazione» della Corte di

cassazione in giudice di terza istanza.

L’alternativa tra giudizio di legittimità e terza istanza, le due sponde tra

le quali ondeggia l’identità dell’organo di cassazione, costituisce, dunque, lo

sfondo sul quale va inserito anche il discorso sulle diverse interpretazioni

circolanti intorno alla portata da assegnare al principio di diritto, e a quegli

senso che sono interessi di un soggetto in relazione a un atto del giudice che lo grava, e che

egli assume non rispondente alla legge». Al concetto di «cointeressenza negli utili» tra

l’interesse pubblico e quello privato alla esatta interpretazione e applicazione della legge, l’a.

dunque oppone che «il privato che propone il ricorso per cassazione vuole l’osservanza della

legge né più né meno di quel che lo vuole lo Stato, perché lo Stato in quel momento è lui, e

allo stesso modo il giudice quando dichiara la legge lo fa nell’interesse dello Stato, ma

perché l’interesse dello Stato è che la legge sia realizzata nei confronti del soggetto (il

corsivo è nostro). Lo stesso è a dirsi per l’uniformità della giurisprudenza che il privato vuole

né più né meno dello Stato, per la semplice ragione che vuole l’osservanza della legge, e la

legge è una». Da questa premessa discende che «Corte di cassazione e ricorso per cassazione

sono un unico istituto, perché la cassazione è nient’altro che il procedimento che si svolge

davanti a quei giudici che costituiscono la Corte» (i passi citati sono estrapolati da SATTA,

voce Corte di cassazione, cit., 805). Censurava in maniera decisa l’idea dell’oggettivazione

del diritto già SEGNI, La Cassazione civile e un libro recente, in Riv. dir. comm. 1921, I, 509

ss., in cui l’a. sviluppa una delle più critiche posizioni, sotto la vigenza del vecchio codice,

nei confronti della ricostruzione del Calamandrei, posizione, peraltro, marcatamente segnata,

sotto il profilo ideologico, dall’idea non solo della preferibilità, ma anche dell’inevitabilità

della terza istanza.

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– 73 –

altri nodi focali della disciplina della Cassazione che risultano in grado di

incidere sulla configurazione della stessa.

Il dato normativo che emerge dall’art. 384, così come rappresenta un

tassello centrale della musiva ricostruzione del volto della Cassazione,

assurgendo al ruolo di «banco di prova»108

delle opinioni dottrinali sul tema

della partecipazione della Corte al giudizio di merito e dei rapporti fra questo

ed il giudizio di legittimità, è suscettibile esso stesso di diversi approcci

esegetici in ragione della preferenza che il singolo autore manifesta verso il

c.d. modello «puro» di Cassazione (quello delineato dal Calamandrei) o,

viceversa, verso il modello della terza istanza (o quantomeno verso la

Revision di tipo germanico): ciò che è del resto autorizzato dalle oscillazioni

dimostrate dal legislatore nella difficile opera di ristrutturazione

dell’istituto109

e dall’ambiguità che conseguentemente lo contrassegna110

.

Così, del principio di diritto che il codice del 1940 ha munito di forza

vincolante, viene enfatizzata l’efficacia positiva, l’attitudine ad incidere sulla

definizione della lite e a porsi come lex specialis rispetto al rapporto

controverso, in tanto in quanto questo valga a corroborare l’immagine di una

108

Così, TAVORMINA, Contributo alla teoria dei mezzi di impugnazione, Milano

1990, 209. 109

E che i commentatori della riforma del codice non hanno mancato di rilevare. Solo

per limitarci ad una citazione esemplare, si può riferire quanto affermava, a riforma

emendata e ampiamente rodata, FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, cit., 7-8: «In

effetti tanto l’uno quanto l’altro sistema rispondevano a necessità contrastanti, ma che sono

alle radici stesse dell’istituto: quello francese alla necessità di precludere presso il più alto

soglio ogni discussione di merito, mantenendo il compito della Corte nei rigorosi limiti del

controllo di legalità; quella germanica alle opposte necessità di utilizzare l’estremo rimedio

per un sindacato più vasto e pregnante, e di assicurare la giustizia della nuova emendata

pronuncia di merito attraverso l’impiego o, comunque, sotto l’egida della Corte Suprema.

Appunto, la storia dell’istituto in Italia illustra come, prese le mosse dal rispetto dell’una

necessità, la Corte di cassazione non sia rimasta sorda al richiamo delle altre, e abbia

variamente cercato di contemperarle». 110

Ambiguità che sembra essere ormai il tratto caratteristico della nostra Corte

Suprema, tanto da ispirare il titolo della celebre raccolta di saggi di TARUFFO, «Il vertice

ambiguo», cit.

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Corte Suprema che si atteggia irresistibilmente a giudice di terza istanza111

;

ovvero, di contro, se ne svaluta quella «eccedenza di normatività» che il

tenore testuale dell’art. 384 sembrerebbe affidargli, al fine di riconfermare

l’immagine «pura» della Cassazione di Calamandrei, saldamente ancorata a

quel ruolo nomofilattico che le viene attribuito dall’art. 65 della legge

sull’ordinamento giudiziario112

.

111

Un tentativo di bibliografia a questo proposito si rivelerebbe comunque

insufficiente; perché, se all’indomani del varo del nuovo codice e per i successivi

cinquant’anni, Satta rimaneva pressoché isolato nel ritenere che la Cassazione potesse

cassare una sentenza viziata da un error in iudicando senza rinvio ex art. 382, ult. co. (sulla

base di un’originale e ardita interpretazione della formula «la causa non poteva essere

proposta»), molti autori erano, in una prospettiva de iure condendo, d’accordo con lui. La

novella del 1990, con la quale è stato assegnato alla Corte il potere di decidere la causa nel

merito, all’atto di accogliere un ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di

diritto, e in difetto dell’esigenza di ulteriori accertamenti di fatto, sembrerebbe aver dato

molti validi appigli ai fautori della terza istanza. Ma l’evoluzione dell’istituto appare

veramente imprevedibile, perché il legislatore non accenna a voler dare una risposta chiara a

coloro che chiedono una scelta normativa politicamente forte, nell’una o nell’altra direzione,

in grado di rimuovere o, perlomeno, di minimizzare le ambiguità del nostro sistema di

cassazione (v., per tutti, l’auspicio di BOVE, La Corte di cassazione come giudice di terza

istanza, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, vol. II, Milano

2005, 1033-1034). 112

Significativa, nella direzione da ultimo indicata, appare l’interpretazione del

vincolo di cui all’art. 384 proposta dal TAVORMINA, Contributo alla teoria dei mezzi di

impugnazione, cit., 209 ss. Manifestamente, l’a. mira a dimostrare l’attualità e la validità

dello schema «puro» di Cassazione, come emerge dalle sue parole in sede di considerazioni

conclusive sul tema del vincolo del giudice di rinvio al dictum della Corte: «pur avendo

ricevuto dal legislatore del 1942 mezzi molto più efficaci per imporre il proprio punto di

vista ai giudici di merito e quindi per meglio assicurare “l’esatta osservanza, l’uniforme

interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale” (art. 65 della legge

sull’ordinamento giudiziario), la Corte di cassazione è dunque rimasta soltanto giudice

dell’attività giudiziaria, come la vedeva Piero Calamandrei». Tavormina, per sostenere

questa tesi, muove da una critica serrata all’affermazione, ripresa da CERINO CANOVA, Le

impugnazioni civili, cit., 490, e comunque accolta dalla prevalente dottrina, secondo cui la

statuizione vincolante di cui all’art. 384 «supera il contenuto minimo della pronuncia

rescindente», in quanto «per asseverare (…) la violazione o la falsa applicazione di norme di

diritto è indispensabile soltanto l’accertamento che i fatti, sui quali si è fondata la sentenza

impugnata, sono inidonei a reggere le conseguenze giuridiche da questa ritenute» (CERINO

CANOVA, op. loc. ult. cit). Secondo Tavormina, proprio la motivazione di tale giudizio di

inidoneità integra, ed esaurisce, il contenuto del principio di diritto, cosicché il relativo

vincolo si risolve essenzialmente nell’imposizione al giudice di non contraddire la ratio

decidendi del dictum giudiziale del Supremo Collegio, e di uniformarvisi ogniqualvolta la

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È a tutti noto che, in un arco di tempo relativamente breve, si è

susseguito un certo numero di riforme che hanno investito in maniera

vigorosa il giudizio di cassazione: dopo la novella del 1990, introduttiva

dell’istituto della cassazione sostitutiva con decisione nel merito della causa,

la riforma del 2006 ha corposamente rivisitato le forme del ricorso e delle

pronunce della Cassazione e la struttura del procedimento, ma questa

ristrutturazione è stata subito corretta da un ulteriore incisivo intervento del

legislatore, il quale, con novella del 2009, ha provveduto tra l’altro ad

estirpare l’innesto recente del «quesito di diritto» (introdotto dalla riforma del

2006), e a preferirgli, in un’ottica deflattiva, il c.d. filtro in cassazione, di cui

al nuovo art. 360 bis c.p.c.

questione risolta dalla Corte rilevi anche in ordine alla decisione finale del giudice di rinvio.

Si tratta dunque di una tecnica di raccordo, imposta dal principio di non contraddizione, non

dissimile da quella che sovraintende ai rapporti tra sentenza non definitiva su questioni

preliminari di merito ex art. 279, 2° comma, nn. 2 e 4 (TAVORMINA, op. cit., 220).

L’incidenza del principio di diritto sul merito della controversia, dunque, poiché non

consegue ad una richiesta di parte di decisione sul merito, non vale ad immettere la Corte nel

relativo giudizio, nella stessa misura in cui non vale a considerare partecipe di un giudizio il

giudice dell’accertamento che rispetto a quella causa risulti preliminare o lato sensu

pregiudiziale. Riflessioni, queste, che hanno una lunga ascendenza nel dibattito intorno al

contenuto accertativo delle sentenze non definitive su questioni di merito (preliminari e no),

per la cui ricostruzione si veda ora DALFINO, Questioni di diritto e giudicato, cit., passim;

178 ss, con specifico riferimento al principio di diritto, nonché ID., Natura ed efficacia del

«principio di diritto» enunciato dalla Cassazione, cit. Gli argomenti svolti da Tavormina non

appaiono decisivi, alla luce del fatto che non riescono ad uscire dall’ambito dell’esigenza che

li promuove, che è quella di respingere la concezione di una terza istanza, comprensiva delle

due fasi di cassazione e rinvio; e anche l’osservazione conclusiva corrobora

quest’impressione, ove l’a. nega la valenza sistematica della riconosciuta possibilità in capo

alla Corte di decidere la causa nel merito, asserendo che «anche la prevista integrazione

dell’art. 384 (…) con l’imposizione a suo carico dell’obbligo di decidere la causa nel merito

“ove non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto” risponderà solo ad una logica di

“supplenza” dell’attività dei giudici di merito suggerita da esigenze di economia

processuale» (ID., op. cit., 234). Tuttavia, la tesi in esame fornisce molti spunti fecondi per la

corretta valorizzazione delle ipotesi in cui la pronuncia in punto di diritto non implica,

automaticamente, la determinazione della norma regolatrice: il che consente di prospettare

un confine mobile tra contenuto positivo e contenuto negativo del vincolo previsto dall’art.

384.

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– 76 –

Non mette conto, in questa sede, fare il punto sugli esiti,

complessivamente e capillarmente considerati, di questa progressiva, a tratti

incerta, opera di rivisitazione dell’istituto della Cassazione: ci si limiterà, nel

paragrafo che segue, a rilevare come, in un modo o nell’altro, tutte le

modifiche legislative hanno fatto i conti con l’ambiguità del ruolo della

Cassazione, e come il principio di diritto costituisca indefettibilmente

l’epicentro della vertigine strutturale e funzionale che la Suprema Corte

affronta, ad ogni nuovo intervento di riforma, senza peraltro trovare un sicuro

e definitivo assestamento.

3.3. Il principio di diritto nel quadro del recupero della funzione

nomofilattica nella riforma di cui al d.lgs. n. 40 del 2006 e a seguito della

novella del 2009: la pretesa “restaurazione” della Cassazione come giudice

di legittimità.

Come noto, il primo dei due interventi legislativi che in tempi recenti

hanno investito la Cassazione deriva da un progetto, la cui redazione è stata

affidata ad una commissione presieduta dal Prof. Vaccarella: la riforma poi è

stata portata a segno con l’approvazione della legge n. 80 del 2005113

, e la

successiva emanazione del decreto legislativo n. 40 del 2006.

113

La quale si pone, da un lato, come legge di conversione rispetto a uno stralcio di

riforma realizzato con l’approvazione del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35; dall’altro,

come legge-delega che accoglie e rigira al Governo i criteri direttivi sostanzialmente mutuati

dal progetto Vaccarella «per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo

di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure

concorsuali». Sulla legge delega cfr., senza pretese di esaustività, CHIARLONI, Prime

riflessioni sulla delega per la riforma del procedimento in Cassazione, in Rass. forense

2005, 847 ss.; che riprende le riflessioni già espresse in commento al progetto della

Commissione Vaccarella: ID., Prime riflessioni su recenti proposte di riforma del giudizio di

cassazione, in Giur. it. 2003, 817 ss.; v., anche, TEDOLDI, La delega sul procedimento di

cassazione, in Riv. dir. proc. 2005, 925 ss.; GILARDI, Quale futuro per la cassazione civile?,

in Quest. giust. 2005, 949 ss.; SASSANI, Uno sguardo sul nuovo giudizio di cassazione, prima

puntata, su www.judicium.it (27 dicembre 2005); ID., Uno sguardo sul nuovo giudizio di

cassazione, seconda puntata, ibidem. Si vedano, inoltre, DE CRISTOFARO, L’edificazione

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– 77 –

Il dibattito mai sopito sulla fisionomia della Suprema Corte e della

funzione e la struttura del giudizio che si svolge innanzi ad essa e l’irrisolto

problema dell’alternativa tra giudizio di legittimità e terza istanza hanno

prepotentemente riconquistato la ribalta, trascinando inevitabilmente con sé

una ridiscussione del vincolo di cui all’art. 384 c.p.c.

Se, con la novella del 1990, l’attribuzione alla Corte del potere di

decidere la causa nel merito in mancanza dell’esigenza di ulteriori

accertamenti di fatto sembrava aver fornito un supporto normativo decisivo ai

sostenitori della Cassazione quale giudice di terza istanza, il legislatore della

novella del 2005/2006114

– non smentito, quanto ad ispirazione, dal

riformatore della l. 69/2009 – ha dimostrato una maggiore propensione verso

la vocazione tradizionale della Cassazione, stando, almeno, all’inequivoco

proclama contenuto nell’incipit dell’art. 3, lett. a, della legge-delega n. 80 del

2005, che affidava al legislatore delegato, utilizzando per la prima volta in

una norma di legge una locuzione che fino ad ora era stata appannaggio degli

della Corte suprema tra risolutezza e «timidezze» del legislatore delegato, in Corriere giur.

2005, 1760 ss.; PROTO PISANI, Novità nel giudizio civile di cassazione, in Foro it. 2005, V,

252; nonché, in prospettiva ellittica, CONSOLO, Deleghe processuali e partecipazione alla

riforma della Cassazione e dell’arbitrato, in Corriere giur. 2005, 1189 ss.; ID., Giustizia,

Corti di gravame, tradizione e modernità, in Corriere giur. 2005, 755 ss. In commento alle

proposte di riforma redatte dalla Commissione Vaccarella, vedi già TARZIA, Il giudizio di

Cassazione nelle proposte di riforma del processo civile, in Riv. dir. proc. 2003, 201 ss.;

TOMMASEO, La riforma del ricorso per cassazione: quali i costi della nuova nomofilachia?,

in Giur. it. 2003, 827 ss.; SASSANI, Corte suprema e jus dicere, in Giur. it. 2003, 822 ss. 114

Sulla riforma in generale, oltre agli autori di cui alla nota che precede, si vedano,

per tutti, CAPONI, Il nuovo giudizio di cassazione civile: quesito di diritto, principio di

diritto, massima giurisprudenziale, in Foro it. 2007, I, 1387 ss.; POLI, Il giudizio di

cassazione dopo la riforma, in Riv. dir. proc. 2007, 9 ss.; TISCINI, Il giudizio di Cassazione

riformato, in Giusto processo 2007, 523 ss.; CARRATTA, La riforma del giudizio in

Cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2006, 1105 ss.; MONTELEONE, Il nuovo volto della

Cassazione civile, in Riv. dir. proc. 2006, 943 ss.; SASSANI, Il nuovo giudizio di cassazione,

in Riv. dir. proc. 2006, 216 ss.; TARUFFO, Una riforma della Cassazione civile?, in Riv. trim.

dir. proc. civ. 2006, 755 ss., nonché i contributi del volume a cura di IANNIRUBERTO-

MORCAVALLO (a cura di), Il nuovo giudizio di cassazione, Milano 2007; BOVE-CECCHELLA,

Il nuovo processo civile, Milano 2006; CAMPEIS-DE PAULI, Il giudizio di cassazione - Le

novità della riforma, Milano 2006.

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– 78 –

accademici, l’incarico di «disciplinare il processo di cassazione in funzione

nomofilattica».

Nel solco del recupero della nomofilachia infatti si ponevano, secondo i

conditores della Commissione Vaccarella, le direttive della legge-delega

relative al principio di diritto, in merito al quale tre erano le fondamentali

indicazioni somministrate al legislatore delegato.

La prima di esse, relativa alla necessità di prevedere «l’obbligo che il

motivo di ricorso si chiuda, a pena di inammissibilità dello stesso, con la

chiara enunciazione di un quesito di diritto», si è tradotta nell’introduzione,

ad opera dell’art. 6 del d. lgs. 40/2006, dell’art. 366-bis: una norma che ha

suscitato vivaci polemiche, per via delle difficoltà applicative fin da subito

manifestatesi115

, e che perciò il riformatore del 2009 non ha esitato a falciare.

L’ormai abrogato art. 366-bis c.p.c. esigeva che ciascuno dei motivi di

ricorso di cui all’art. 360, primo comma, numeri 1, 2, 3 e 4 si concludesse, a

pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto

sottoposto alla Corte116

: sicché, configurata la richiesta del ricorrente come

115

Non mette conto in questa sede ripercorrere tutte le tappe dell’acceso dibattito sul

quesito di diritto e sulla tecnica di redazione dei ricorsi che l’art. 366 bis ha imposto ai

cassazionisti: a tal riguardo, si rinvia, anche per più compiute indicazioni bibliografiche, a

CARRATTA, sub art. 366 bis c.p.c., in Le riforme del processo civile, a cura di Chiarloni,

Bologna 2007; CAPORUSSO, L’onere di formulare la quaestio iuris tra nomofilachia e diritto

alla difesa, in Giusto proc. civ. 2007, 825 ss.; CARRATO, Prime questioni conseguenti

all’applicazione del nuovo art. 366 bis c.p.c. nel giudizio di cassazione, in Corriere giur.

2007, 1280 ss.; NELA, Primi insegnamenti della corte di cassazione sulla inammissibilità del

ricorso ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., in Giur. it. 2007, 1993 ss.; RUSCIANO, Il contenuto

del ricorso per cassazione dopo il d.lgs. 40/2006. La formulazione dei motivi: il quesito di

diritto, in Corr. giur. 2007, 436 ss.; CONSOLO, Un giusto no al quesito di diritto (requisito di

forma-contenuto dei soli ricorsi per cassazione) nel regolamento di giurisdizione, in Corr.

giur. 2008, 243 ss.; CIPRIANI, Ricorsi alla Cassazione e quesito di diritto, in Foro it. 2008, I,

117 ss.; POLI, Specificità, autosufficienza e quesito di diritto nei motivi di ricorso per

cassazione, in Riv. dir. proc. 2008, 1249 ss. (ivi, ampi richiami di giurisprudenza). Sul tema,

v. anche ALPA, Nuove regole per la redazione del ricorso per cassazione (art. 360 e 366 bis

c.p.c.), in www.consiglionazionaleforense.it. 116

Con riferimento al motivo di ricorso di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.

che non implica un errore di diritto del giudizio di merito – fatta salva l’ipotesi, pressoché di

scuola, della totale omissione della motivazione – né un relativo quesito da sottoporre alla

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– 79 –

un vero e proprio interrogativo, la Corte di cassazione veniva chiamata a

rispondere enunciando il principio di diritto117

in qualche modo già

massimato118

, e comunque nel rispetto del canone di specificità della sua

Corte, l’esigenza di una più puntuale determinazione e delimitazione del giudizio della stessa

il legislatore delegante prescriveva al legislatore delegato, per la verità con un’indicazione

non chiarissima, ma di cui era nitido perlomeno l’intento restrittivo, che «il vizio di

motivazione deve riguardare un fatto controverso». Il laconico dettato del legislatore

delegante, che neanche esplicitava i tipi rilevanti di vizio logico da cui possono risultare

afflitte la fase di accertamento e quella di valutazione del fatto controverso medesimo, aveva

suscitato non pochi interrogativi e congetture. In particolare, ci si chiedeva se il legislatore

avesse inteso accogliere l’indicazione normativa che fu della proposta di legge Pecorella,

Atto Camera n. 2754 (recante un organico progetto di riforma del giudizio di cassazione), la

quale prospettava una modifica del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. nel senso di limitare il vizio logico

censurabile in Cassazione all’ipotesi di «omessa motivazione su un fatto decisivo per il

giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti». La tradizionale fungibilità semantica

tra il sintagma di «fatto controverso», di cui si parla nella legge-delega, e quello del «fatto

… che è stato oggetto di discussione fra le parti», che il progetto Pecorella ritraeva

dall’originario testo del n. 5 dell’art. 360, poteva fare in effetti propendere per questa lettura

interpolata della direttiva; e se la delega fosse stata attuata in tal senso, si ipotizzava, si

sarebbe dovuto riconoscere essere stato percorso a ritroso, fino alla novella del 1950, il

cammino della rilevanza in Cassazione del vizio logico del giudizio di fatto: così,

EVANGELISTA, La riforma del giudizio di cassazione, in www.judicium.it, . Il che, però, non è

avvenuto: la sibillina formula della legge-delega in merito al vizio di motivazione si è

tradotta nel nuovo n. 5 dell’art. 360: siccome modificato dall’art. 2 del d. lgs. n. 40, esso

prevede che i vizi logici denunciabili in Cassazione restano quelli di «omessa, insufficiente o

contraddittoria motivazione», mentre il «punto» difettosamente determinato diventa «fatto»,

ed esso, oltre che «decisivo», deve presentarsi anche come «controverso»; mentre, a seguito

della novella del 2009, che ha abrogato l’art. 366 bis, è venuta a cadere la previsione

dell’obbligo che il motivo di ricorso ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. contenga, a pena di

inammissibilità, «la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la

motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta

insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione»: norma che si

presentava ab origine come ripetitiva rispetto alla nozione di motivo di ricorso per vizio

logico. 117

Nega che la funzione della disposizione sia di consentire alla Corte di enunciare un

corrispondente principio di diritto, POLI, Specificità, autosufficienza e quesito di diritto, cit.,

1271, nt. 65; nello stesso senso, DALFINO, Questioni di diritto e giudicato, cit., 184. 118

Per l’esistenza di una correlazione strutturale tra quesito di diritto, principio di

diritto e massima giurisprudenziale, CAPONI, Il nuovo giudizio di cassazione civile, cit., 1390,

secondo cui il quesito si presta ad essere assunto dalla Corte «come base per la statuizione

del principio di diritto»; «a sua volta, il principio di diritto (o comunque quanto statuito dalla

corte), si presta ad essere assunto come base per l’estrazione di una corrispondente massima

giurisprudenziale»; peraltro, questa non è la sede propria dell’esposizione delle ragioni

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formulazione, invero già previsto da quell’art. 143 delle disposizioni di

attuazione (ma talvolta trascurato, nella prassi).

In secondo luogo, la legge 80 conteneva la direttiva circa

«l’enunciazione del principio di diritto, sia in caso di accoglimento, sia in

caso di rigetto dell’impugnazione e con riferimento a tutti i motivi della

decisione».

Qui, evidentemente, il legislatore delegante, nel chiaro intento di

sollecitare una nomopoiesi giurisprudenziale dotata di chiarezza e di facile

esportabilità, si faceva interprete dell’esigenza che la Corte esplicitasse le

rationes decidendi del suo operato indipendentemente dal fruttuoso

esperimento del ricorso.

Non solo. La prescrizione della legge-delega circa la predisposizione di

«meccanismi idonei, modellati sull’attuale articolo 363 del codice di

procedura civile, a garantire l’esercitabilità della funzione nomofilattica della

Corte di cassazione, anche nei casi di non ricorribilità del provvedimento ai

sensi dell’articolo 111, settimo comma, della Costituzione», tradottasi nella

disposizione di un nuovo comma 3 nell’art. 363, secondo cui «il principio di

diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d’ufficio, quando il ricorso

proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la

questione decisa è di particolare importanza», ha fatto sì che neanche la

declaratoria di inammissibilità del ricorso impedisca alla Corte di valutare

l’opportunità di enucleare una dottrina giuridica in relazione alle questioni

decise che abbiano un rilievo speciale ai fini della uniformità di

interpretazione ed applicazione del diritto119

.

giuridiche: «come l’argomentazione delle ragioni giuridiche non appartiene al quesito di

diritto, bensì al motivo di ricorso, così essa non appartiene al principio di diritto, né dovrebbe

appartenere alla massima, bensì alla motivazione della sentenza». 119

La stretta finalità nomofilattica ha indotto il legislatore a non riconoscere alla

pronuncia di cassazione effetti utili per le parti, l’ultimo comma dell’art. 363 c.p.c.

disponendo che «la pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di

merito», col che viene mantenuta l’originaria impostazione del ricorso nell’interesse della

legge: in proposito, commenta SASSANI, Uno sguardo sul nuovo giudizio di cassazione,

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– 81 –

Ovviamente, le previsioni in questione, imponendo alla Corte di

formulare il principio di diritto in ogni caso, sia nell’ipotesi di accoglimento

che in quella di rigetto120

, e attribuendole l’ulteriore ufficio di ponderare la

convenienza di un’enunciazione del principio di diritto anche nell’ipotesi di

declaratoria di inammissibilità del ricorso121

, si sono attirate le critiche di chi

prima puntata, cit., par. 6.1, «si è probabilmente temuto che l’ampliamento della possibilità

di pronunciare principio di diritto in caso di provvedimento non ricorribile si prestasse a

tentativi di strumentalizzazione volti a superare i limiti della ricorribilità». 120

Per l’opinione che l’enunciazione del principio di diritto in caso di rigetto del

ricorso è «una vera e propria superfluità», in assenza della correzione della motivazione di

cui all’ultimo comma dell’art. 384 c.p.c., dal momento che il giudice di merito ha già fatto

buon uso delle norme che il ricorrente reputava violate, v. MONTELEONE, Il nuovo volto della

Cassazione civile, cit., 952. 121

La preoccupazione ha un fondamento agevolmente intuibile: la previsione

contenuta nel comma 3° dell’art. 363 c.p.c., infatti, può costituire – specie nel settore della

volontaria giurisdizione o dei provvedimenti cautelari, e comunque nell’ambito dei

provvedimenti non decisori o non definitivi per i quali non è neanche ammissibile il ricorso

ex art. 111 Cost. – uno stimolo a proporre ricorsi inammissibili al fine di «ottenere –

“premendo” sul giudice di merito mediante il ricorso per cassazione inammissibile e la

successiva pronuncia d’ufficio del principio di diritto da parte della stessa Cassazione – la

revoca o quanto meno la modifica del provvedimento impugnato»: così, CARRATTA, La

riforma del giudizio in cassazione, cit., 1124. Analogamente, PROTO PISANI, Crisi della

Cassazione: la (non più rinviabile) necessità di una scelta, in Foro it. 2007, V, 123. Afferma

che «l’art. 363 è certamente innovativo, laddove riconosce ex lege il potere officioso della

Corte di enunciare un principio di diritto contestualmente alla declaratoria di

inammissibilità», contestualmente rilevando come «tuttavia, un fenomeno analogo

apparteneva già alla prassi, ogni qualvolta la Corte dichiarava l’inammissibilità del ricorso

straordinario in cassazione – ad esempio, per non essere il provvedimento decisorio – ed al

contempo enunciava il principio di diritto, spesso sciogliendo un contrasto di giurisprudenza

dopo aver rimesso la questione alle sezioni unite», TISCINI, Il giudizio di cassazione

riformato, cit., 53, per la quale «la novità, allora, più che nel risultato, sta nei mezzi».

Proprio per tale ragione gli inconvenienti, in termini di un sostanziale incremento del lavoro

della Corte, che si sospettava potessero derivare dall’allargamento degli spazi applicativi del

ricorso nell’interesse della legge, nella prassi, non sembrano essersi verificati, stando alle

statistiche dei primi anni di applicazione della nuova disposizione: per tale verifica e tale

rilievo, v. RONCO, Ricorso per cassazione nell’interesse della legge: tra il principio di

diritto auspicato e il provvedimento censurato deve correre una relazione di pregiudizialità-

dipendenza (e non basta un nesso di semplice occasionalità), in Giur. it. 2011, 2619 ss., in

commento a Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2011, n. 404. Detta pronuncia costituisce forse il

primo caso in cui un ricorso nell’interesse della legge proposto dal procuratore generale

presso la Corte di cassazione viene dichiarato inammissibile, come rileva l’annotatore (il

quale peraltro ricorda un’altra pronuncia di inammissibilità di un ricorso proposto ex art. 363

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temeva esiti inflattivi, in evidente contraddizione con il programma dei

conditores: e non sono mancate voci autorevoli che, dubitando dell’utilità di

questa proliferazione dei principi di diritto, hanno denunciato una probabile

confusione, nella visione dell’estensore della riforma e comunque negli esiti

positivi in cui essa si è tradotta, tra il principio di diritto e la massima122

.

Ma ciò che preme rilevare è che la direttiva circa «l’enunciazione del

principio di diritto, sia in caso di accoglimento, sia in caso di rigetto

c.p.c., resa a sezioni unite con la sentenza n. 19700 del 17 settembre 2010, «relativa però ad

una ipotesi in cui il ricorso era stato proposto dal procuratore generale presso la Corte dei

conti (che pure la Cassazione non ha espressamente dichiarato privo di legittimazione) e che

non è stato valutato nel merito in quanto formulato per un tema estraneo ai c.d. limiti esterni

della giurisdizione di tale Corte»: ID., op. loc. ult. cit. La sentenza annotata n. 404/2011

afferma appunto il principio sintetizzato nel titolo del contributo appena citato, per cui la

pronuncia di inammissibilità del ricorso propoposto dal Procuratore generale presso la Corte

di cassazione ai sensi dell’art. 363 c.p.c. è motivata dalla constatazione che tra il

provvedimento denunziato e i principi di diritto auspicati ex art. 363 c.p.c. non intercorre un

rapporto di pregiudizialità-dipendenza, ma sussiste una relazione di mera occasionalità, che

si ravvisa quando alla Corte è richiesto di formulare un’enunciazione in diritto che, se il

ricorso non fosse stato inammissibile, non avrebbe avuto diretta influenza sul tenore del

provvedimento e di pronunciare principi che, comunque formulati, non rivelerebbero

l’ingiustizia o l’irritualità del provvedimento censurato. Viene così delineato, anche per

effetto di una messa a fuoco in negativo, l’ambito di applicazione dell’istituto di cui all’art.

363 c.p.c., che è volto ad evitare il consolidarsi di una enunciazione di diritto scorretta in via

di principio e a fornire ai giudici e ai cittadini la regola preferibile per la disciplina del caso

analogo, ma non è istituto che autorizza la Corte ad allargarsi sino all’esegesi generalizzata

di una o più norme di legge, trascendendo dalla valutazione delle violazioni di legge

eventualmente contenute nel singolo provvedimento (ID., op. loc. ult. cit.). Proprio

paventando il rischio, per la Suprema Corte, di essere chiamata ad emanare circolari generali

sull’applicazione del diritto si esprimeva a favore di un’intepretazione restrittiva dell’istituto

del ricorso per la pronuncia del principio di diritto nell’interesse della legge SCARSELLI,

Circa il (supposto) potere della Cassazione di enunciare d’ufficio il principio di diritto

nell'interesse della legge, in Foro It., 2010, I, 3333 ss., in commento a Cass., sez. un., 6

settembre 2010, n. 1905; tale sentenza, che tra l’altro estende la possibilità della pronuncia

del principio di diritto ex art. 363 c.p.c. ai casi di estinzione del ricorso per rinuncia, è

importante ed è nota soprattutto per aver dato la prima interpetazione dell’istituto del c.d.

filtro in cassazione di cui all’art. 360 bis c.p.c. introdotto dalla riforma del 2009, e si trova

pubblicata ed annotata principalmente sotto questo aspetto anche su www.judicium.it, con

nota di LUISO, La prima pronuncia della cassazione sul c.d. filtro (art. 360 bis c.p.c.). 122

TARUFFO, Una riforma del ricorso per cassazione…, cit., 771 ss. Di «mutamento

di pelle» del principio di diritto discorre invece oggi DE CRISTOFARO, sub art. 384,

(aggiornato a cura di GIOIA), in Codice di procedura civile commentato, a cura di Consolo,

Milano 2010, vol. II, 1116.

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– 83 –

dell’impugnazione e con riferimento a tutti i motivi della decisione» è stata

attuata dal legislatore delegato con un profondo rimaneggiamento dell’art.

384 c.p.c. che oblitera uno dei due significati verso cui la direttiva stessa

poteva dirigersi.

Il richiamo alla necessità di enunciare il principio di diritto «con

riferimento a tutti i motivi di ricorso» poteva lasciar presumere123

la volontà

del delegante di eliminare la tecnica dell’assorbimento per effetto di

pronuncia resa su uno dei concorrenti motivi fondanti il ricorso124

: di ciò,

però, non si trova traccia nella disciplina introdotta dal decreto delegato.

L’indicazione della legge-delega è stata, invece, unicamente

interpretata nell’altra direzione in cui poteva muoversi, e cioè nel senso di

affidare alla Corte il compito di proclamare il principio di diritto, come detto,

non solo in occasione della censura di cui al n. 3 dell’art. 360, ma anche con

riferimento agli altri motivi di ricorso contemplati dalla stessa norma.

Peraltro, la trasposizione della direttiva è stata realizzata in maniera

elastica, posto che, in base alla costruzione letterale dell’art. 384 c.p.c.,

attuata dall’art. 12 del decreto n. 40, secondo cui la Corte provvede

all’enunciazione del principio di diritto non solo «quando decide il ricorso

proposto a norma dell’articolo 360, primo comma, n. 3», ma anche «in ogni

altro caso in cui, decidendo su altri motivi del ricorso, risolve una questione

di diritto di particolare importanza», la censura mossa in base al n. 3 dell’art.

360 è per la Corte suprema fonte di un obbligo tout court di enunciare il

principio di diritto, mentre, per gli altri vizi, la pronuncia del principio

giuridico è subordinata al requisito della «particolare importanza» della

123

V., infatti, TEDOLDI, La delega sul procedimento di cassazione, cit., 934. 124

Secondo l’illustre antecedente dell’art. 196 del progetto Chiovenda, nella parte in

cui recava la previsione secondo cui «la sentenza che rinvia deve pronunciare su tutti i motivi

di ricorso, in quanto ciò sia necessario per non lasciare questioni insolute nella prosecuzione

della causa». Sul punto, v. infra, terzo capitolo, par. 2.2.

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– 84 –

questione sottoposta alla Corte125

: il che rende meno gravoso l’ulteriore

ufficio assegnatole.

Questa innovazione, garantendo sui vizi in procedendo un’attenzione

prima sconosciuta, introduce ufficialmente nell’empireo delle norme su cui

esercitare la funzione nomofilattica le norme processuali126

; ma ad essa non

125

Cfr. DALFINO, Questioni di diritto e giudicato, cit., 186. 126

La prescrizione di far conseguire l’enunciazione del principio di diritto non solo

più all’ipotesi in cui la Cassazione sia investita del ricorso per violazione o falsa applicazione

di norme di diritto, secondo quanto, almeno testualmente, proclamava il vecchio testo

dell’art. 384, ma anche alle decisioni sugli altri motivi, ed il conseguente travaso nel nuovo

comma 2 dell’ultimo inciso che al comma 1 era stato inserito dalla novella del 1990, ha

altresì consentito di dare attuazione a quella direttiva del legge n. 80 del 2005 che prevedeva

«l’estensione delle ipotesi di decisione nel merito, possibile anche nel caso di violazione di

norme processuali». La modifica è stata dunque attuata facendo venir meno la relatio

letterale prima sussistente tra l’accoglimento del ricorso per il motivo di violazione o falsa

applicazione di norme di diritto e l’esercizio del potere-dovere della Corte di pronunciarsi sul

merito; sicché, nell’ottica testuale, ed in quella della coerenza sistematica, una pari

estensione (ai casi di decisioni intorno alle denunce di vizi in procedendo) dovrebbe

riguardare anche il potere di correggere la motivazione, quando il dispositivo è conforme al

diritto, a norma dell’art. 384, (oggi) comma 4º, c.p.c.: così, POLI, Il giudizio di cassazione

dopo le riforme, cit., 24. Per un’ampia disamina dei casi in cui la Corte Suprema, nel vigore

del sistema previgente, provvedeva alla decisione nel merito anche in accoglimento di ricorsi

proposti per motivi diversi da quello di cui al n. 3 art. 360 c.p.c., v. PANZAROLA, La

Cassazione civile, cit., 913 ss., ove egli peraltro dimostra che talora la Corte “spacciava” per

decisioni nel merito della causa in accoglimento di censure per errores in procedendo casi di

cassazione senza rinvio ex art. 382, ult. comma, c.p.c. (come quello di cui a Cass. 12 giugno

1999, n. 5280, ove la Corte afferma di annullare la sentenza impugnata ai sensi del

previgente comma 2 dell’art. 384 in un’ipotesi di riscontro di carenza della procura alle liti,

determinante l’inammissibilità dell’appello e pertanto la «improseguibilità» del processo di

cui non si era avveduta il giudice d’appello). L’A., peraltro mostra di condividere l’idea di

DE CRISTOFARO, La Cassazione sostitutiva nel merito. Prospettive applicative, in Riv. trim.

dir. proc. civ. 1999, 279 ss., spec. 297, secondo cui la Corte decide nel merito in occasione

dell’accoglimento della denuncia di un vizio d’ordine, al di là della stretta copertura

normativa fornita dalla lettera dell’art. 384, quando è «il merito della causa che coincide con

la soluzione di una questione di rito»; nei casi, insomma, di «merito processuale» (ad es., ove

la Corte sia chiamata a decidere in sede di opposizione all’esecuzione sulla nullità del titolo

esecutivo). Con riferimento al sistema previgente, ad avviso di Panzarola, la decidibilità nel

merito della causa, ad opera della Suprema Corte dipende in molti casi dalla considerazione

che i casi di «merito processuale» sono originati da errores in iudicando de iure procedendi,

che dovrebbero essere ricondotti non al n. 4 ma al n. 3 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (così

PANZAROLA, op. cit., 914, in adesione all’opinione di BALENA, La riforma del processo

civile di cognizione, Napoli 1994, 482 ss. e richiamando anche l’autorità di LIEBMAN,

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– 85 –

Manuale di diritto processuale civile, vol. II, cit., 258 ss.). Al di là dell’esclusione del potere

di decisione nel merito nei casi in cui vi sia stato, nei gradi di merito, doppio rigetto in rito

della domanda (PANZAROLA, op. cit., 988, nt. 2416; v. però un clamoroso ribaltamento di

prospettiva in Cass., sez. un., 29 aprile 2009, n. 9946, in cui la Corte di cassazione ha

affermato di poter decidere la causa nel merito ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., senza

rinviare al giudice di primo grado, dopo aver dichiarato l’esistenza della giurisdizione negata

dai giudici di primo grado e d’appello, sentenza per la quale si rinvia alle puntuali

osservazioni di GRADI, La «ragionevole durata del processo» e i «risultati di

semplificazione»: la pretesa inapplicabilità dell’art. 353 c.p.c. al giudizio di cassazione, in

Riv. dir. proc. 2010, 961 ss.), una lettura restrittiva del potere di decidere la causa nel merito,

ove la censura accolta dalla Cassazione riguardi vizi in procedendo, è offerta da POLI, Il

giudizio di cassazione dopo le riforme, cit., 25 ss., per l’ipotesi problematica in cui la Corte

accoglie una censura in procedendo avverso la decisione di appello, in rito, di riforma della

sentenza di primo grado che aveva pronunciato nel merito. Il quesito che si pone infatti in

questi casi è se la Suprema Corte, avendo accertato, in accoglimento del ricorso per vizio in

procedendo, l’inesistenza della causa ostativa alla decisione di merito ritenuta dal giudice

d’appello, possa utilizzare gli accertamenti di fatto compiuti dal primo giudice ai fini della

decisione nel merito della domanda. La risposta a tale quesito è per l’a., negativa: il fatto che

il giudice d’appello abbia rigettato la domanda per motivi di rito (per avere, ad es., ritenuto il

difetto di giurisdizione, o l’incompetenza, oppure l’inammissibilità o l’improcedibilità della

domanda, o la sua nullità insanabile, in ipotesi per difetto di procura, ecc.; o, ancora, il

difetto delle condizioni dell’azione o della legitimatio ad processum), infatti, postula la piena

operatività del principio sistematico dell’effetto sostitutivo della pronuncia di appello di

riforma, in forza del rapporto di pregiudizialità tra rito e merito, per cui la caducazione della

sentenza di primo grado per riforma della decisione di un punto pregiudiziale di rito fa sì che

questa scompaia dalla scena del processo e che non esistano più accertamenti di fatto

desumibili dalla stessa. Contra, CAMPEIS-DE PAULI, Il giudizio di cassazione, cit., 173. Nei

casi di annullamento in Cassazione delle pronunce di inammissibilità, improcedibilità ed

estinzione del giudizio di appello, la cassazione sostitutiva nel merito, inoltre, secondo l’a.,

non sembra possibile perché la Corte, dopo aver annullato la sentenza sul punto

pregiudiziale, «dovrebbe assumere le vesti del giudice di secondo grado e pronunciarsi sui

motivi specifici di appello; e tale sostituzione non sembra compatibile con le funzioni della

Corte, ove i motivi di appello coinvolgessero l’accertamento dei fatti; e comunque non

ammissibile anche se i motivi di appello avessero ad oggetto esclusivamente questioni di

diritto, perché la stessa sostituzione si risolverebbe in una revisio per saltum in mancanza di

accordo tra le parti»: POLI, Il giudizio di cassazione dopo le riforme, cit., 26-27, nt. 61. Per

l’affermazione del potere della Corte di decidere la causa nel merito in occasione

dell’annullamento di una sentenza a contenuto processuale in sede d’appello, Cass. civ., Sez.

lavoro, 28 novembre 2011, n. 25023, con la specificazione che «la Corte di cassazione, nel

cassare la sentenza di appello avente contenuto soltanto processuale, può esercitare il potere,

attribuitole dall’art. 384, secondo comma, seconda parte, cod. proc. civ., di negare l’astratta

configurabilità del diritto soggettivo affermato dall’attore con l’atto introduttivo del processo

e così di rigettare la domanda, purché sulla questione di diritto si sia svolto il contraddittorio

nella stessa fase di cassazione» ai sensi del terzo comma dell’art. 384, c.p.c., ovvero la nuova

norma, introdotta dalla riforma del 2006, che ha previsto, per il giudizio di cassazione, la

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sembra potersi riconoscere una portata innovativa quanto all’attribuzione di

un’efficacia vincolante alle pronunce di accoglimento delle censure di vizi in

procedendo127

; perché, invero, pur di fronte all’esplicita codificazione, nel

codice del ’40, del vincolo del giudice di primo rinvio al principio di diritto

pronunciato in accoglimento del ricorso proposto per violazione o falsa

applicazione di norme di diritto, difficilmente la dottrina ha inteso

sconfessare l’esistenza dell’effetto vincolante delle decisioni della Corte sui

vizi d’ordine128

.

È per questo che il legislatore del 2006, con la modifica operata

sull’art. 384 nel senso di prevedere la possibilità per la Corte di enunciare il

principio di diritto anche in relazione ai vitia in procedendo, non ha

introdotto alcuna novità se non sotto il profilo del perseguimento

necessità di una previa provocazione al contraddittorio nel caso in cui la Corte ritenga di

porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio (v. anche il secondo

comma dell’art. 101, introdotto dalla novella del 2009). Nella specie, la Corte d’appello

aveva dichiarato inammissibile la censura con cui l’appellante contestava, in ragione

dell’assenza di retribuzione, la spettanza dell’indennità per inabilità temporanea per

infortunio ad alcuni alunni di un istituto professionale. La motivazione del giudice d’appello

era che tale contestazione non era stata sollevata sin dall’inizio; la Suprema Corte, sul rilievo

che la corte territoriale aveva erroneamente ritenuto inapplicabili gli artt. 345 e 437 c.p.c., in

quanto la doglianza costituiva il necessario presupposto, accertabile d’ufficio, del diritto

invocato dai ricorrenti, ha cassato la sentenza e ha deciso nel merito il ricorso). 127

V. infra, capitolo terzo, par. 2.1. 128

Si legge in SATTA, Commentario, vol. II, cit., 279.che la disposizione dell’art. 384,

comma 1, c.p.c. «non si deve intendere nel senso che al di fuori della violazione o della falsa

applicazione non si ha forza vincolante del giudizio di Cassazione», che «la prescrizione è di

carattere puramente formale, nel senso che quando la cassazione avviene per altri motivi non

c’è da enunciare alcun principio, perché il vincolo nasce dalla diretta statuizione che la corte

fa sul processo», e che «è in altri termini, la generale normatività delle sentenze che viene in

questione, e che questa sussista anche per le decisioni della Cassazione nessuno oserebbe

mettere in dubbio». Ancora più decisamente, MONTESANO, Sull’efficacia panprocessuale

delle sentenze civili di cassazione, in Temi, 1971, 740 ss.: per l’a., mentre nell’ipotesi di cui

al n. 3 dell’art. 360, l’incidenza positiva del principio di diritto può essere vanificata dalla

pur possibile circostanza che la ricostruzione in sede di rinvio della fattispecie concreta renda

il ridetto principio in pratica inutilizzabile nella decisione in merito, una simile evenienza

non è parimenti prospettabile di fronte ad una statuizione sulla competenza o sulla

giurisdizione o alla pronuncia sugli altri vizi in procedendo: in tali ipotesi, «il giudice di

merito non ha che da prenderne atto e obbedire»: ID., op. cit., 741.

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– 87 –

dell’obiettivo di fondare una nomopoiesi uniforme anche sui temi di

«particolare importanza» del diritto processuale.

La scelta di correlare l’enunciazione del principio di diritto anche alle

decisioni sui vizi d’ordine – dietro la quale sembra occhieggiare il dubbio del

Calogero circa la possibilità di tracciare un confine netto tra gli errores in

iudicando de iure procedendi e i cd. errores in procedendo in senso stretto,

ossia le mere inesecuzioni processuali129

– appare infatti permeata dal

convincimento che anche le norme processuali danno o tolgono qualcosa, e

necessitano pertanto di quelle formali tarature che il giudice di legittimità era

prima formalmente chiamato ad effettuare in maniera solenne solo in

riferimento al diritto sostanziale.

Quindi, se è legittimo dubitare della innovatività della norma sotto il

profilo dell’introduzione di un vincolo prima inedito, un’utilità della riforma

in proposito può essere individuata con riguardo a quel particolare aspetto

dell’enunciazione del principio di diritto che investe la sua efficacia

persuasiva nei confronti dei soggetti dell’ordinamento (ovvero della

enucleazione di rationes decidendi esportabili in altri giudizi).

129

Cfr. CALOGERO, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, cit., 238.

Quanto all’idea che gli errores in iudicando de iure procedendi andrebbero ricompresi nel

genus degli errores in iudicando, e all’indicazione de iure condendo circa l’opportunità che la

competenza sugli errores in procedendo in senso stretto sia dal legislatore riservata alla Corte

d’appello, v. ID., op. cit., 168. Tuttavia, la distinzione tra errores in iudicando de iure

procedendi ed errores in procedendo in senso stretto se, per così dire, esce dalla porta, di

fronte alla codificazione della generica possibilità, per la Corte, di enunciare il principio di

diritto con riferimento ai vizi in procedendo, rientra immediatamente dalla finestra, nella

misura in cui la ridetta possibilità viene collegata alla valutazione della «particolare

importanza» che la Corte adotti in relazione alle questioni in procedendo su cui si trova a

giudicare. Il quale requisito, come spiega SASSANI, Uno sguardo sul nuovo giudizio di

cassazione, prima puntata, cit., § 7, va inteso come «idoneità della soluzione attinta ad

applicarsi ad una casistica aperta e non invece a fungere da regula juris speciale,

indissolubilmente connessa alla peculiarità del caso sottoposto a giudizio»: ossia come

criterio selettivo basato sulla generalizzabilità, che non solo è il connotato proprio della

normatività, ma è il tratto qualificante, se si pone mente al concorrente canone nompoietico

individualizzante, di una normatività facilmente esportabile, poco sceveratoria, che mal si

attaglia per lo meno ai casi di mera inesecuzione della legge processuale.

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– 88 –

Proprio nella prospettiva di una diversificazione dell’efficacia del

vincolo130

in ragione degli “utilizzatori” del principio di diritto, va collocata

l’altra importante direttiva della legge 80/2005, che affidava al legislatore

delegato il compito di prevedere «il vincolo delle sezioni semplici al

precedente delle sezioni unite, stabilendo che, ove la sezione semplice non

intenda aderire al precedente, debba reinvestire le sezioni unite con ordinanza

motivata», direttiva evidentemente preordinata allo scopo di incentivare la

stabilizzazione della prassi della Cassazione, in funzione dell’esigenza di

realizzare una maggiore certezza del diritto.

L’indicazione si è tradotta nell’introduzione dell’attuale terzo comma

dell’art. 374, articolo ampiamente rimodellato dall’art. 8 del d.lgs. n. 40/2006

nella direzione dell’intento, perseguito dalla legge-delega, di razionalizzare e

agevolare il lavoro delle Sezioni Unite, attraverso la valorizzazione

dell’effetto dei suoi precedenti131

.

130

È opportuno ed inevitabile distinguere ormai tre diversi tipi di efficacia

dell’enunciazione del principio di diritto, ovvero: l’efficacia di tipo persuasivo, rivolta a tutti

i soggetti dell’ordinamento, quella di tipo vincolante, rivolta al giudice di rinvio ed al giudice

del processo riproposto ai sensi degli artt. 384 e 393 c.p.c. (di cui ci stiamo occupando nel

presente studio) a cui si aggiunge l’efficacia interna esercitata dalla pronuncia a sezioni unite

rispetto alle sezioni semplici, su cui v. infra: sul punto, v. CAPONI, Il nuovo giudizio di

cassazione civile, cit., 1391. 131

L’art. 8 d.lgs. 40/2006, infatti, oltre a prevedere il nuovo terzo comma che ci

interessa, introduce alcune modifiche al primo comma dell’art. 374 c.p.c., volte ad eliminare

l’automatismo ivi previsto in virtù del quale, sui ricorsi attinenti alla giurisdizione, sussiste

una competenza esclusiva delle Sezioni unite della Corte di cassazione. In particolare, nella

prospettiva di riduzione del carico di lavoro delle Sezioni unite, il legislatore delegante

chiedeva che si prevedesse che, qualora sulla questione di giurisdizione le Sezioni unite si

fossero già pronunciate, la stessa potesse essere assegnata alle sezioni semplici. Tale

previsione della legge delega è stata trasposta nel testo novellato del comma 1 dell’art. 374

c.p.c., il quale ha tuttavia mantenuto ferma, come la stessa legge-delega imponeva, la

competenza esclusiva delle Sezioni unite in relazione ai ricorsi avverso le decisioni del

Consiglio di Stato e della Corte dei conti per motivi inerenti alla giurisdizione, ai sensi

dell’art. 111, ottavo comma, Cost., e dell’articolo 362, comma 1, c.p.c.

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– 89 –

Nel comma 3 dell’art. 374 c.p.c. si legge ora che «se la sezione

semplice ritiene di non condividere il principio, rimette alle sezioni unite, con

ordinanza motivata, la decisione del ricorso»132

.

132

Va detto che in dottrina taluno riteneva già de iure condito esistente un vincolo,

seppure non formalizzato, delle sezioni semplici al precedente delle sezioni unite (e, in

qualche sporadico caso, anche la stessa Corte è sembrata considerare incompatibile con l’art.

374, 2° comma, c.p.c., una prassi che consentisse alle sezioni semplici di discostarsi dal

precedente delle sezioni unite: v., in tal senso, Cass. 19 maggio 1988 n. 3469). Al riguardo,

esplicita è la posizione di PROTO PISANI, Su alcuni problemi organizzativi della Corte di

Cassazione: contrasti di giurisprudenza e tecniche di redazione della motivazione, in Foro

it. 1988, V, 28-29. L’Autore è dell’avviso che la rimessione alle S.U. da parte delle sezioni

semplici – d’ufficio o su istanza del p.m. – prevista dall’ultimo comma dell’art. 376 c.p.c.,

più che come mera eventualità, si ponesse come potere-dovere, preordinato al fine di evitare

schizofrenie nella giurisprudenza dell’organo che ha la funzione di assicurare l’unità,

l’uniformità e la corretta interpretazione del diritto applicato; e, del resto, tale finalità

rappresenta il criterio-guida che, a monte, s’impone al primo presidente nella scelta

dell’assegnazione del ricorso alle sezioni semplici o alle sezioni unite ex art. 374, comma 2,

c.p.c. Dalla indicazione teleologica e dalla sistemazione procedurale operate dal legislatore,

l’a. traeva la conseguenza precettivamente rilevante che i contrasti tra sezioni unite e sezioni

semplici fossero «contrasti assolutamente inammissibili, specie quando sorgono su questioni

di cui le sezioni unite erano già state investite a causa di un precedente contrasto o di una

questione di massima di particolare importanza. Anche in un sistema come l’italiano, che

sembra non conoscere il vincolo formale del precedente giurisprudenziale, la decisione delle

sezioni unite vincola le sezioni semplici: se così non fosse salterebbe del tutto la funzione di

nomofilachia attribuita dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario alla Corte di cassazione e la

funzione delle sezioni unite nell'ambito della corte. (…) la decisione delle sezioni unite

vincola le sezioni semplici nel senso che queste, ove intendano discostarsi dal precedente

vincolante delle sezioni unite, hanno come unica possibilità l’avvalersi del potere-dovere di

rimettere d’ufficio il ricorso alle sezioni unite ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 376; in tal

modo della questione sono reinvestite le sezioni unite, cioè l’unico organo giurisdizionale

che non è vincolato al precedente della sua stessa decisone». Peraltro, secondo l’a.,

l’ordinanza di rimessione alle sezioni unite di cui all’art. 376, ultimo comma, c.p.c.

costituisce uno strumento adeguato, per le sezioni semplici, allo scopo di sollecitare le

sezioni unite ad un ripensamento del proprio orientamento: «tale ordinanza potrà – e dovrà ai

sensi dell’art. 134 c.p.c. – essere congruamente motivata: potrà e dovrà cioè esplicitare con

l’ampiezza che riterrà opportuna i motivi di dissenso rispetto alla soluzione accolta dalle

sezioni unite, e ben potrà essere resa pubblica (alla stessa stregua di quanto ad esempio

avviene per le ordinanze con cui le sezioni del Consiglio di Stato rimettono una questione

all’adunanza plenaria) anche allo scopo di favorire al massimo il dibattito su di essa». In

sostanza, conclude Proto Pisani, «il sistema disegnato dall’ultimo comma dell’art. 376 è di

grossa coerenza, ed è il solo idoneo per un verso a conservare integra la libertà di giudizio

dei giudici delle sezioni semplici, per altro verso ad evitare quel grosso discredito e quelle

grosse disuguaglianze nel caso singolo che seguono ogni qualvolta una sezione semplice si

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Tale previsione si aggancia a quella dell’attuale articolo 374, secondo

comma, c.p.c., secondo cui il Primo presidente può disporre che la Corte

pronunci a Sezioni unite su questioni di diritto sulle quali è sorto un

contrasto. Pertanto, ove la sezione semplice sia chiamata a decidere una

questione sulla quale le Sezioni unite hanno già enunciato un principio di

diritto e prefiguri una propria decisione in contrasto con tale principio, è

tenuta ad astenersi dalla pronuncia, e ad investire il collegio riunito delle sue

perplessità.

Tra quelle prospettate dal progetto Vaccarella, trasfuse nella legge-

delega e infine confluite nel testo del decreto legislativo n. 40, questa è forse

l’innovazione che ha incontrato minori ostilità. Perché, invero, l’obiezione

che fa leva sulla presunta violazione che un simile meccanismo perpetrerebbe

nei confronti dell’art. 101, comma 2, Cost. presta il fianco alla facile replica

che la Corte costituzionale ha sempre decisamente negato, in passato, che la

previsione legislativa di vincoli alla interpretazione normativa della Suprema

Corte possa in realtà integrare una sorta di coazione della libertà del giudice,

che la Carta costituzione vuole «soggetto solo alla legge»133

: peraltro, la

ribella ad un precedente decisione sezioni unite, spesso emanata a temine di un lungo periodo

di incertezze giurisprudenziali» (ID., op. loc. ult. cit.). Già GORLA, nell’articolo Postilla su

«l’uniforme interpretazione della legge e i tribunali supremi», in Foro it. 1976, V, 129 ss. e,

specialmente, 135, laddove, esprimendo la convinzione che per la realizzazione dell’«unità

del diritto oggettivo» risultano altrettanto necessarie sia la «esatta osservanza della legge»

che la «sua uniforme interpretazione», asseriva che la Corte ha il «dovere funzionale» di non

staccarsi dalla propria giurisprudenza se non per ragioni gravi ed oggettive. Cfr., per spunti

nella stessa direzione, tra gli altri, BORRÈ, La Corte di cassazione oggi, in Diritto

giurisprudenziale a cura di Bessone, Torino 1996, 180; e BRANCACCIO, La funzione di

nomofilachia non è fallita, in Il giudizio di Cassazione nel sistema delle impugnazioni, a cura

di Mannuzzu e Sestini, Roma 1992, 141. 133

E si può ripetere, con BORRÈ, Il giudizio di Cassazione nel sistema delle

impugnazioni: un primo tentativo di sintesi, in Il giudizio di Cassazione nel sistema delle

impugnazioni, a cura di Mannuzzu-Sestini, cit., 159, che «sono culturalmente lontani i tempi,

in cui un giudice sollevò questione di legittimità costituzionale dell’art. 65 dell’ordinamento

giudiziario» per contrasto con l’art. 101 Cost., per vedersi rinviare al mittente l’obiezione

dalla storica, ma diremmo anche scontata, sentenza della Corte cost. n. 134, del 20 dicembre

1968, ed altri due giudici, in sede di rinvio, sollevarono questione di costituzionalità dell’art.

544 del previgente c.p.p. (corrispondente all’art. 384), per contrasto con gli artt. 101 e 107

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– 91 –

norma non obbliga il collegio semplice ad emettere una pronuncia di

contenuto conforme al precedente delle Sezioni Unite, ma si limita a

prospettare una procedimentalizzazione della modifica del precedente stesso,

attraverso la rimessione della questione alle Sezioni Unite, con ordinanza

motivata134

.

Sul piano che più rileva ai nostri fini, che è quello dei principi ispiratori

della riforma che si sono tradotti in modifiche strutturali in grado di incidere

profondamente l’immagine ed il ruolo della Cassazione e di involgere

inevitabilmente il tema oggetto di ricerca, occorre rilevare che

l’ufficializzazione del vincolo dello stare decisis in capo alle sezioni

semplici, nell’intenzione del legislatore, doveva essere in grado di orientare

le sezioni semplici a non mettere in discussione, se non per ragioni

importanti, il criterio interpretativo ad ampio spettro di utilizzabilità (criterio

cd. generalizzante) già sperimentato dalla prassi della giurisprudenza della

Cassazione.

Ovvero, nello spirito della riforma c’era probabilmente tentativo di

superamento della cd. nomofilachia «tendenziale», quella cioè che,

Cost., ricevendo dalla Corte costituzionale responsi altrettanto fermamente negativi (Corte

cost., sent. 2 aprile 1970 n. 50; Corte cost., ord. 18 novembre 1970 n. 166). 134

Come è stato da più parti osservato (v. per tutti, LUISO, Il vincolo delle Sezioni

semplici al precedente delle Sezioni Unite, in Giur. it. 2003, 820 ss.; SASSANI, Il nuovo

giudizio di cassazione, in Riv. dir. proc. 2006, 234; LUISO-SASSANI, La riforma del processo

civile, Milano 2006, 81; PRESTIPINO, Il nuovo ruolo delle Sezioni Unite, in Il nuovo giudizio

di cassazione, a cura di Ianniruberto-Morcavallo, Milano 2007, 60; TISCINI, voce Ricorso per

cassazione nel diritto processuale civile, I agg., in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XVII,

Torino 2007, § 11 e ID., Il giudizio di cassazione riformato, in Giusto processo civile 2007,

523 ss.), la norma in questione pone in realtà solo un vincolo negativo o procedimentale, nel

senso che al collegio semplice è richiesto non di adeguarsi al principio di diritto delle Sezioni

Unite, ma di evitare di esprimere in forma di sentenza il dissenso da tale precedente e di

utilizzare invece lo strumento dell’ordinanza motivata interlocutoria di rimessione. Essa

assume «il contenuto di una dissenting opinion in funzione di anticipatory overruling (…)»,

secondo AMOROSO, La Corte ed il precedente, in La Cassazione civile. Lezioni dei

magistrati della Corte suprema italiana, a cura di Acierno-Curzio-Giusti, Bari 2011, 22, il

quale interpreta la disposizione come una norma che in realtà «interviene a regolare la

competenza dell’overruling del precedente, quando enunciato dalle sezioni unite,

assegnandola in via esclusiva alle stesse».

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– 92 –

privilegiando il criterio individualizzante della soluzione del singolo ricorso,

va alla ricerca di quella, tra le interpretazioni possibili della norma, che

individua il miglior criterio di risoluzione dello specifico conflitto di

interessi; una nomofilachia, in sostanza, che tende ad alimentare la tecnica

del distinguo ed a neutralizzare il valore del precedente.

D’altro canto, a questa logica di superamento di una nomofliachia solo

tendenziale poteva rispondere anche l’introduzione del «quesito di diritto»,

ove questo fosse stato inteso ed applicato come corrispondente all’esercizio

dello ius respondendi, e quindi come un sistema per sospingere la Suprema

Corte sempre più fuori dall’orbita del caso concreto e per restituire al giudice

di rinvio maglie più larghe per applicare la tecnica anglosassone del

distinguishing.

Questo input che la riforma offriva non è stato recepito nella prassi, e il

legislatore, con la novella del 2009, non ha tardato ad affrontare con minori

ambizioni sistematiche gli intenti deflattivi che premevano nell’agenda delle

riforme: contestualmente all’abrogazione della previsione del quesito di

diritto come requisito di ammissibilità del motivo di ricorso di cui all’art. 366

bis, è stato introdotto il filtro di ammissibilità del ricorso per cassazione, di

cui di al nuovo art. 360 bis c.p.c., ossia un sistema di sbarramento

dell’accesso alla decisione dei ricorsi per cassazione basato sue due criteri: a)

l’aver il provvedimento impugnato deciso le questioni di diritto in modo

conforme alla giurisprudenza della Corte, quando l’esame dei motivi non

offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa; b) la

manifesta infondatezza della censura relativa alla violazione dei principi

regolatori del giusto processo135

.

135

Vastissima, ovviamente, anche la letteratura sul nuovo istituto del c.d. filtro in

Cassazione. Cfr., tra gli altri, CARPI, L’accesso alla Corte di cassazione ed in nuovo sistema

di filtri, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2010, 769 ss.; COSTANTINO, La riforma del giudizio di

legittimità: la Cassazione con filtro, in Giur. it. 2009, 1562 ss.; ID., Il nuovo processo in

cassazione, in Foro it. 2009, V, 302 ss.; CARRATTA, Il «filtro» al ricorso in cassazione fra

dubbi di costituzionalità e salvaguardia del controllo di legittimità, in Giur. it. 2009, 1564

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– 93 –

In tale nuovo assetto normativo, sostanzialmente, la «rarefazione del

giudizio» innanzi alla Suprema Corte – cui aspirava forse il legislatore del

2006 quando imponeva al ricorrente di frapporre un interrogativo astratto di

diritto tra le considerazioni “meritali” e comunque individualizzate del

motivo di ricorso e la cognizione del giudice di legittimità – è stata sostituita

dalla «rarefazione dei giudizi», che riescono a superare il filtro ed accedere

alla decisione nel merito ad opera del Collegio; mentre alla realizzazione di

una evoluzione giurisprudenziale coordinata e uniforme sono chiamati a

cooperare con maggiore rigore gli avvocati, gravati ora dell’onere di offrire,

onde evitare la pronuncia di inammissibilità del motivo di ricorso proposto

avverso un provvedimento che abbia deciso le questioni di diritto in modo

conforme alla giurisprudenza della Cassazione, elementi tali da indurre la

Corte a pronunciarsi nuovamente, confermando o mutando orientamento 136

.

ss.; BALENA, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile (un primo commento della legge

18 giugno 2009, n. 69), in www.judicium.it; BOVE, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel

riaperto cantiere della giustizia civile, in www.judicium.it; GRAZIOSI, Riflessioni in ordine

sparso sulla riforma del giudizio di cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2010, 37 ss.; POLI,

Il c.d. filtro di ammissibilità del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc. 2010, 363 ss.;

MENCHINI, sub art. 360-bis, in Aa.Vv., La riforma della giustizia civile, Torino 2009, 114

ss.; SASSANI-TISCINI, sub art. 360 bis, in Commentario alla riforma del codice di procedura

civile, a cura di Saletti-Sassani, Torino 2009, 165 ss.; DE CRISTOFARO, sub art. 360 bis, in

Codice di procedura civile commentato, a cura di Consolo, Milano 2010; RAITI, Brevi note

sul «filtro» in cassazione secondo la legge di riforma al codice di rito civile 18 giugno 2009,

n. 69, in Riv. dir. proc. 2009, 1601 ss.; BRIGUGLIO, Ecco il «filtro»! (L’ultima riforma del

giudizio di cassazione), in Riv. dir. proc. 2009, 1275 ss.; REALI, Sub art. 360 bis c.p.c., in Le

leggi civ. comm. 2010, 967; cfr. anche PANZAROLA, Il filtro «legale» all’accesso in

Cassazione, Testo provvisorio della relazione al convegno di Foggia del 2 ottobre 2009;

D’ASCOLA, La riforma e le riforme del processo civile: appunti sul giudizio di Cassazione,

in www.judicium.it; FRASCA, Il filtro in Cassazione, Atti del Convegno di studi, Roma, 28

ottobre 2009, in www.cortedicassazione.it; VITTORIA, Il filtro al ricorso per cassazione nella

legge 69 del 2009 come completamento di una riforma, in Il processo civile competitivo, a

cura di Didone, Torino 2010, 519 ss.; DIDONE, Le riforme del giudizio di legittimità, ivi, 528

ss., spec. 588 ss.; R. GIORDANO, Sub art. 360 bis c.p.c., in Codice di procedura civile, a cura

di Picardi, Milano 2010, 1951 ss.; LUISO, La prima pronuncia della cassazione sul c.d. filtro

(art. 360 bis c.p.c.), cit. 136

Esula dall’oggetto della presente analisi una riflessione che non sia limitata alla

verifica degli impatti «sistematici» direttamente rilevanti per il principio di diritto dovuti ad

interventi di riforma. L’introduzione del c.d. filtro di ammissibilità dei ricorsi di cui all’art.

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360 bis, che non rientra certamente tra le cosmesi di superficie del giudizio di cassazione,

interessa soprattutto perché è stato percepito – non solo dagli operatori del diritto ma anche

dagli studiosi – come il contrappeso della neutralizzazione del quesito di diritto, che non ha

corrisposto all’immagine «vivente» della Cassazione. Di ciò che può essere rilevante, ai fini

che a noi interessano, con riguardo al criterio selettivo di cui al n. 1 dell’art. 360 bis si è detto

nel testo. Riguardo al criterio di cui al n. 2 dell’art. 360 bis, ci si limita solo a segnalare la

notevole problematicità dell’interpretazione del dettato normativo, e il fatto che l’utilità di

tale previsione è fortemente discussa: v., in luogo di altri, DE CRISTOFARO, sub art. 360 bis,

in Codice di procedura civile commentato, a cura di Consolo, Milano 2010, 846, secondo cui

«le violazioni delle norme processuali impingono sempre nella tematica del giusto processo,

sì da rendere impervio distinguere tra l’una e l’altra onde discriminarle – in vista del ‘filtro’

di ammissibilità – sotto l’ombrello dei princìpi supremi focalizzati dall’art. 111, comma 2,

Cost.». Sul tema, v. anche DONZELLI, Il filtro in cassazione e la violazione dei princìpi

regolatori del giusto processo, nota a Cass., sez. II civ., 30 dicembre 2011, n. 30652, in Riv.

dir. proc. 2012, 1087 ss.

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– 95 –

CAPITOLO SECONDO

ORIENTAMENTI INTERPRETATIVI SULLA NATURA E L’EFFICACIA DEL

VINCOLO DEL PRINCIPIO DI DIRITTO

§ 1. L’inquadramento del vincolo del giudice di rinvio alla

pronuncia in punto di diritto della Cassazione nel dibattito anteriore alla

riforma del codice di rito del 1940.

Il quadro, appena tratteggiato, delle influenze dogmatiche in grado di

condizionare la valutazione del vincolo del principio di diritto e della

costellazione degli elementi strutturali ad esso circostanti, consente, ora che

si passa a restringere la lente sul tema che ci interessa, entrando finalmente in

medias res, di affrontare il problema della natura e dell’intensità del vincolo

con la consapevolezza che dietro la varietà delle qualifiche giuridiche che a

quello vengono assegnate stanno le tensioni di tipo ideologico delle diverse

opzioni ricostruttive riguardo al giudizio di cassazione.

La riserva non deve certamente suonare come svalutazione del

problema giuridico dell’inquadramento del vincolo, ché, a ben vedere, molti

ed estremamente delicati sono i risvolti che discendono dall’accoglimento

dell’una o dell’altra soluzione tecnica. Essa serve solo a ribadire che il nostro

è un dato normativo particolarmente sensibile; e che qualsiasi intervento sulla

disciplina della Cassazione, in chiave di valorizzazione del ruolo

nomofilattico o nel senso di un più disinvolto accesso al merito e/o alla

pronuncia di merito, non è praticamente mai privo di significato nella

prospettiva della portata dell’enunciazione del principio di diritto ai sensi

dell’art. 384 c.p.c.

La scienza giuridica si era trovata alle prese con la questione

dell’inquadramento del vincolo al dictum in iure della Suprema Corte già

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sotto l’ordinamento del codice Pisanelli, laddove pure la riconosciuta libertà

del giudice di rinvio di discostarsi dalla pronuncia in iure delle sezioni

semplici della Corte incontrava un limite nel caso in cui fossero le sezioni

unite a ribadire quella decisione, in sede di sindacato sul secondo ricorso

avanzato dall’istante, per «gli stessi motivi» per i quali fosse avvenuta la

prima cassazione, ex art. 547 c.p.c.

Per tale ipotesi, come sappiamo, la regola suggerita dal fine di dare

coerenza al sistema delle impugnazioni, e finitezza ai giudizi, era quella per

cui il giudice di secondo rinvio sarebbe stato tenuto a conformarsi al punto di

diritto deciso dalla Suprema Corte.

È su questo vincolo, cui il processo accedeva solo dopo aver transitato

attraverso l’esperienza di un precedente conflitto tra giudice di legittimità e

magistratura di rinvio, che la dottrina, sotto la vigenza del codice del 1865, si

addestra alacremente, sviluppando una teorica che proietterà i suoi risultati

anche dopo la riforma del codice di rito del 1940, con la quale l’anticipazione

dell’effetto vincolante della pronuncia della Corte alla soglia del primo

giudizio post-cassazione avrebbe posto fine alla riserva di libertà

sull’apprezzamento della quaestio iuris del giudice di rinvio.

Allora, come dopo l’introduzione del nuovo codice, si trattava di

fornire un fondamento teorico, oltreché una motivazione di ordine pratico, al

fatto che, concepito il ricorso per cassazione come iudicium rescindens, il cui

oggetto non è costituito dal rapporto controverso, ma da un diverso rapporto,

relativo alla sussistenza o meno del diritto di impugnativa in capo al

ricorrente, questo giudizio potesse concretarsi in una premessa positiva

imprescindibile proprio per la definizione in merito della controversia.

Circa la qualificazione dogmatica del vincolo del giudice di secondo

rinvio alla pronuncia in punto di diritto delle sezioni unite, le tesi destinate a

prevalere e a mantenere vitalità rappresentando, a riforma avvenuta, i poli di

riferimento per i successivi sviluppi teorici sul tema, furono essenzialmente

due: quella di Calamandrei, che ravvisava nel vincolo di cui al capoverso

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dell’art. 547 del codice abrogato un’ipotesi di preclusione, e quella di

Carnelutti, che ne riconduceva la natura all’alveo del giudicato.

1.1. La tesi che attribuisce al principio di diritto natura ed efficacia di

preclusione.

Calamandrei1 sviluppa il suo discorso sulla natura e l’efficacia del

principio di diritto vincolante per il giudice di rinvio sgomberando

preliminarmente il campo, e senza troppe difficoltà, da quelle altre dottrine

che sotto l’impero del vecchio codice erano state avanzate per dare una

giustificazione sistematica al vincolo de quo: in particolare, dalla tesi che per

spiegare il vincolo faceva ricorso al principio di autorità gerarchica e da

quella che si appoggiava allo schema della rappresentanza, prospettando

l’enunciazione del principio di diritto vincolante per il giudice di rinvio come

ipotesi speciale di delegazione di giurisdizione.

La prima teoria si accontentava di asserire che la regola del vincolo del

giudice di secondo di rinvio alla pronuncia in punto di diritto delle sezioni

unite rappresenta un’eccezione al principio della indipendenza del giudice,

eccezione che si comprende e si spiega alla luce della posizione verticistica

della Cassazione. In quest’ottica, alla magistratura di rinvio è imposto di

seguire l’indicazione in iure della Corte per via della condizione di

subordinazione gerarchica in cui i giudici di merito versano rispetto al

supremo garante della legittimità giurisdizionale.

Una simile impostazione non poteva non fomentare l’enfasi del topos

argomentativo, al tempo ancora in voga, della coazione morale del giudice di

rinvio, ridotto «a pensare col cervello del superiore gerarchico», come si ebbe

a dire2; ma non si può negare che cogliessero nel segno le critiche di chi

1 CALAMANDREI, La Cassazione civile, vol. II, cit., 316 ss.

2 CABERLOTTO, Cassazione, in Dig. it., Torino 1894, n. 598, citato da CALAMANDREI,

op. cit., 317.

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considerava incompatibile col sistema di amministrazione della giustizia

degli stati moderni una teoria che, per giustificare il vincolo alla pronuncia

della Corte, faceva il maggior danno di teorizzare un’istituzionalizzata

minorazione di dignità della magistratura di merito, in sede di rinvio.

Il ricorso allo schema della rappresentanza, d’altro canto, non

manifestava una maggiore attitudine a risolvere con coerenza il dubbio sulla

natura del vincolo del giudice di rinvio al principio di diritto enunciato dalla

Suprema Corte: l’ingenuità di una ricostruzione in base alla quale il giudice

di cassazione, dopo aver svolto una parte del lavoro logico del giudizio,

delegherebbe al giudice di rinvio il compito di trarne le conclusioni e di

completarlo, si appalesava tutta, ad avviso di Calamandrei, nella

constatazione che proprio l’alterità tra i due giudici, da un punto di vista

funzionale oltreché soggettivo, funge da presupposto ad una disciplina che

ammette la possibilità di un secondo ricorso alla Corte avverso la sentenza

pronunciata dal giudice di rinvio anche in ottemperanza al dictum della Corte,

sia pure per altri motivi3.

Sul versante del processo penale, come abbiamo visto in precedenza4,

con l’approvazione del codice Finocchiaro-Aprile del 1913 ci si era venuti a

trovare di fronte ad una formula di legge testualmente inequivoca, quell’art.

532 a mente del quale «se la seconda sentenza sia annullata per gli stessi

motivi per i quali fu annullata la prima, la sentenza di annullamento ha

autorità di giudicato irrevocabile sul punto di diritto deciso».

Malgrado il tenore della disposizione sembrasse non lasciare adito a

dubbi intorno alla natura del dictum in iure della Corte, come qualcuno si

affrettò a riconoscere5, la tesi di Arturo Rocco, che al vincolo di cui al

vecchio art. 683 aveva negato sostanza di giudicato, non smise,

3 CALAMANDREI, op. loc. ult. cit.

4 V. retro, capitolo primo, § 2.

5 Cfr., tra gli altri, MANZINI, Trattato di procedura penale italiana, secondo il nuovo

codice di procedura penale e le nuove leggi di Ordinamento giudiziario, vol. II, Torino

1914, 518.

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probabilmente per via dell’autorità di cui godeva il patrocinatore, di

riscuotere il consenso dei giurisperiti, e di captare l’interesse anche di quelli

attivi in ambito processualcivilistico6.

L’idea di Rocco, emergente da un celebre scritto del 1905 pur destinato

a scopi diversi da quello di una trattazione ex professo del tema della

Cassazione7, era che alla decisione della Corte di accogliere il ricorso e di

annullare, con contestuale disposizione del rinvio, dovesse riconoscersi

valore «ordinatorio» proprio di una sentenza non definitiva8; e, dal momento

che al relativo giudizio, ad avviso dell’autore, non si riconnetteva alcun

effetto consumativo dell’azione fatta valere dall’istante dinanzi al giudice di

merito, neanche con limitato riferimento al giudizio di rinvio poteva

propriamente parlarsi di un’autorità di giudicato della pronuncia in iure della

Suprema Corte9.

6 V., tra gli altri, PROVINCIALI, Il giudizio di rinvio, cit., 313, sulla cui tesi, più

diffusamente, infra. 7 ROCCO, A., Concetto, specie e valore della sentenza penale definitiva, cit.

8 ROCCO, A., op. cit., 56 ss.

9 Calamandrei trova che neanche la concezione di Rocco abbia l’attitudine a vulnerare

realmente la tesi che attribuisce natura di giudicato al vincolo del giudice di rinvio al dictum

in iure della Corte. Ciò, in quanto la confutazione dell’illustre penalista si svolge su un

terreno che non tiene nella dovuta considerazione il diverso oggetto che la decisione della

Corte di cassazione ha rispetto alla decisione del giudice di merito. Se, infatti, il giudizio

della Corte non si appunta sul rapporto giuridico controverso, ma solo sulla denuncia, da

parte del ricorrente, di un vizio della sentenza tale da inficiarne la validità, non si vede

perché dovrebbe disconoscersi valore definitivo alla statuizione delle sezioni unite sulla

quaestio iuris, quanto, appunto, al giudizio sulla sussistenza o meno del vizio lamentato dal

ricorrente: e ciò, non solo in caso di rigetto del ricorso, ma anche quando la Corte riconosce

«l’esistenza, a favore del ricorrente, di una concreta volontà di legge che gli dà diritto ad

ottenere l’annullamento della sentenza impugnata». Epurando il discorso del Calamandrei

dall’ipotesi ricostruttiva, totalmente superata, secondo cui lo speciale diritto di impugnativa,

in che consiste il ricorso per cassazione, aprirebbe «un nuovo processo, ben diverso da quello

in cui si trova formalmente innestato» (CALAMANDREI, op. cit., 313), si può riconoscere, nel

pensiero del maestro fiorentino, l’intuizione di fondo dotata di perdurante attualità che lo

avvicina «pericolosamente» proprio a quella tesi del giudicato che egli si proponeva di

oppugnare vigorosamente, come non mancherà di osservare, con raggelante semplificazione,

l’occhio clinico del Carnelutti (v. infra): cioè che, avendo il sindacato della Cassazione come

oggetto l’analisi della sentenza sotto il profilo della verifica dei vizi denunciati dal ricorrente,

il suo responso intorno a quel problema non può che essere considerato ultimativo. Da qui

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sorgeva anche, del resto, l’esigenza di semplificazione sottesa all’idea di anticipare il vincolo

alla prima pronuncia in iure della Suprema Corte, stante l’irrazionalità, da un punto di vista

perlomeno pratico, della convivenza di un’imperatività dell’effetto (cassatorio) e di una

riproducibilità della causa di quell’effetto, ossia la possibilità, per il giudice di rinvio, di

ripetere la soluzione in diritto già sanzionata dalla prima cassazione. L’assunto per il quale la

sovraordinazione logica della funzione di annullamento induce inevitabilmente all’esercizio

di un potere prescrittivo qual è quello dell’emanazione di un dictum in iure vincolante per il

giudice di rinvio, può anche, in una prospettiva storicizzante, essere rivisitato in chiave

problematica: si veda, ad esempio, il bell’articolo di DE NITTO, «Principio di diritto» e

«interpretazione della legge», in Scritti in onore di Elio Fazzalari, Milano 1993, 89 ss., in

cui, nella inevitabile adesione all’insegnamento dell’Orestano sulla integrale storicità del

giuridico (su tutte, R. ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto romano, 2a ed.,

Torino 1961, passim), De Nitto sfrutta, come spunto fecondo per ripensare il ruolo della

Cassazione e la funzione nomofilattica, il caso dell’ordinamento napoletano di ispirazione

napoleonica dell’inizio del XIX secolo di una Cassazione che emana pronunce

esclusivamente rescindenti, forgiata sul modello “purissimo” del Tribunal francese, e le

riflessioni della coeva dottrina, soprattutto del Nicolini, intorno ad essa. Lo studioso teatino,

attivo a Napoli come professore universitario di procedura penale e nella veste di procuratore

generale presso la Gran Corte, fornisce un contributo al dibattito intorno al problema del

«caso dubbio» di applicazione della legge che si rivela interessante perché dà un’intonazione

in un certo senso “moderna” all’impostazione tradizionale della questione, che ha al centro

l’inquietudine per la compromissione del principio della separazione dei poteri, e svolge il

discorso in termini di alternativa tra il sacrificio dell’esigenza che il giudice non diventi

legislatore e di quella, speculare, che il legislatore non diventi giudice. De Nitto infatti

osserva che la preferenza manifestata dal Nicolini verso un sistema che affida la risoluzione

dell’insanabile contrasto sul caso dubbio di legge all’emanazione di un provvedimento

interpretativo sanzionato dal Re, rispetto alla prospettata alternativa del sistema che

attribuisce al Supremo Collegio il potere di pronunciarsi in maniera vincolante per il giudice

di rinvio – sistema che viene da Nicolini osteggiato perché implicante l’assunzione della

Corte al ruolo di «arbitra assoluta di tutte le controversie giudiziali» e la sua collocazione,

nella funzione di interpretazione della legge, «a paro col legislatore» (NICOLINI, Delle

attribuzioni della corte suprema di giustizia, in Quistioni di diritto, vol. I, Napoli 1841, 38) –

è una preferenza che si manifesta permeata dalla consapevolezza che il conflitto tra le

decisioni è teoricamente legittimo, perché nessuna interpretazione, in quanto tale, si può

presumere «esatta». Nell’ipotesi in cui le pronunce continuano a contraddirsi, ché

all’annullamento di una sentenza segue una pronuncia che riproduce quella annullata, si

evidenzia «l’insufficienza delle giurisdizioni per definire la causa» (NICOLINI, op. cit., 45) e

dunque l’esigenza, per risolvere il dubbio di legge, piuttosto che di decretare la prevalenza di

un’interpretazione giudiziale sulle altre, di predisporre, seppure a prezzo di un’eccezionale

sospensione dell’obbligo di giudizio, l’ingresso del legislatore nella giurisdizione.

Storicamente, poi, è prevalsa un’altra linea: la scelta politica dei legislatori del 1865 e del

1940 è stata nel senso di configurare come esatta la decisione obbligatoria, e non il contrario.

Ma i termini del dibattito sulla questione, e la ragionevolezza della posizione che è rimasta

battuta, testimoniano, per De Nitto, un conflitto di cui i contemporanei sono tuttora eredi, che

riguarda la tensione da dare a quella linea inevitabilmente mobile che passa tra l’applicazione

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Quando, del resto, sotto l’egida di Rocco, fu attuata la riforma del rito

penale nel 1930, e si stabilì l’immediata vincolatività della pronuncia in

punto di diritto della Cassazione, l’«avventata» locuzione che il codice del

1913 aveva utilizzato per sancire il vincolo del giudice di secondo rinvio

veniva, significativamente, espunta. E il legislatore si guardò bene,

successivamente, dal ripetere l’azzardo: dopo la breve e accidentata – e forse

anche accidentale – comparsa del sintagma definitorio del codice

Finocchiaro-Aprile, né il codice Rocco, né il codice di rito civile entrato in

e la creazione della norma: con tale conflitto, col quale probabilmente è ormai improduttivo

confrontarsi stancamente sul terreno della fedeltà o infedeltà allo schema della tripartizione

dei poteri, conviene invece colloquiare in una prospettiva de iure condendo che solleciti un

recupero della nozione tradizionale di nomofilachia «come fine per se stessa» (DE NITTO, op.

cit., 110, alla fine), che al «primato assoluto della legge, fino all’interpretazione autentica nel

processo», alla «non sovraordinazione gerarchica, ancorché logica, della decisione di

annullamento» affianca «l’autonomia dei singoli giudizi, e dei singoli giudici» (ID., op. loc.

ult. cit.). Il che fornisce anche un criterio di orientamento tra i due significati possibili

dell’interpretazione «autoritativa» dell’ordinamento che il principio di diritto realizza,

ovvero, seguendo l’esemplificazione di MAZZARELLA, in Appunti, cit., 1489-1490, nota n.

66, quello che fa riferimento al prestigio o al carisma dell’interprete e quello che tiene invece

in considerazione la vincolatività dell’interpretazione in relazione a taluno che è obbligato ad

uniformarvisi, nel quale ultimo caso è chiaro che «la data interpretazione sarà in tal modo

autoritativa perché vincolante, e non vincolante perché autoritativa»: MAZZARELLA, op. loc.

ult. cit. Ché, se non è più discutibile la scelta che postula l’equazione tra l’obbligatorietà

dell’effetto cassatorio e l’obbligatorietà della ratio della cassazione stessa, non sono pochi

coloro che considerano un valore da tutelare la dialettica giurisprudenziale come fattore di

promozione e rigenerazione del diritto e di progresso giuridico, come testimonia la vivacità

del dibattito, in Italia, sull’adozione della prassi della pubblicazione della dissenting opinion,

l’opinione rimasta minoritaria nelle deliberazioni dei collegi giudicanti che esercitano la

giurisdizione di legittimità. Tale dibattito ha costituito il terreno preparatorio per

l’introduzione, ad opera della riforma del 2005/2006, della previsione del vincolo delle

sezioni semplici al precedente delle sezioni unite, contenuta nel riformato art. 374, il quale

reca ora un nuovo terzo comma in base al quale «se la sezione semplice ritiene di non

condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con

ordinanza motivata, la decisione del ricorso». L’istituto della rimessione alle sezioni unite di

cui al comma 3 dell’art. 374 c.p.c. è stato introdotto con lo scopo di promuovere un

mutamento di indirizzo che, siccome guidato, possa risultare ponderato e uniforme e

risponde, dunque, all’evidente ed apprezzabile obiettivo di impedire frequentissimi e

scoordinati overrulings ad opera della Suprema Corte nonché, indirettamente, di dissuadere

gli operatori del settore dai ricorsi avventurosi che sulla volubilità della Corte fanno

affidamento. Sul punto, v. retro, capitolo I, § 3, per indicazioni bibliografiche.

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vigore nel 1942, e neppure il nuovo codice di procedura penale del 1988,

codificheranno formule esplicite intorno alla natura del vincolo del giudice di

rinvio, lasciando agli interpreti margini incerti entro i quali applicare

l’ingegno – e la responsabilità – per la ricostruzione del relativo valore

concettuale e sistematico.

Venendo alle tesi principali intorno alla natura del vincolo di cui al

capoverso dell’art. 547 che si contesero il campo nel quarantennio

novecentesco di vigenza del codice Pisanelli, si può muovere da quella di cui

proprio Calamandrei si fa l’interprete più riflessivo e originale. Egli afferma

che anche il riconoscere autorità di giudicato alla pronuncia delle sezioni

unite quanto all’esistenza del diritto di impugnativa del ricorrente10

, ossia al

iudicium rescindens, non vale a spiegare perché «i motivi di diritto che hanno

guidato il giudice dell’impugnativa a decidere sul iudicium rescindens,

debbano poi avere efficacia vincolante nel iudicium rescissorium, oggetto del

quale è un’azione del tutto distinta da quella sulla quale in sede di cassazione

si è formato il giudicato»11

. L’effetto positivo ulteriore che l’art. 547 affianca

al naturale effetto cassatorio della sentenza di accoglimento del ricorso viene

interpretato dal Calamandrei nel senso che la pronuncia delle sezioni unite

vincolante per il giudice di rinvio contiene anche una «frazione della

decisione del iudicium rescissorium»12

, la quale, tuttavia, non può essere

spiegata ricorrendo ad una nozione, come quella di giudicato, che presuppone

una decisione completa della controversia.

Per comprendere la portata dell’effetto vincolante del dictum delle

sezioni unite in punto di diritto, invece, nella prospettiva di Calamandrei,

occorre fare riferimento alla struttura sillogistica della sentenza (fatta di un

duplice momento logico, la premessa maggiore e la premessa minore ove,

10

Che la Corte Suprema statuisse con autorità di giudicato sull’esistenza del diritto

potestativo ad ottenere l’annullamento veniva riconosciuto esplicitamente, sul versante del

processo penale, da MARTUCCI, Il giudizio penale di rinvio, Napoli 1934, 40. 11

CALAMANDREI, op. cit., 314-315. 12

CALAMANDREI, op. loc. ult. cit.

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rispettivamente, si inquadrano la fattispecie astratta e la sussunzione del fatto

concreto ritenute in sentenza, e di un momento autoritativo, che è dato dal

risultato conclusivo del ragionamento del giudice); e tenere altresì presente

che vi sono casi in cui gli elementi di cui la sentenza si compone possono

essere ascritti a due organi diversi (cd. tribunale complesso).

Ebbene, l’ipotesi contemplata dal capoverso dell’art. 547 c.p.c. 1865

configurerebbe un fenomeno singolare di concorso di una pluralità di giudici

alla formazione dei differenti elementi di un’unica sentenza (cd. sentenza

soggettivamente complessa)13

; e Calamandrei si incarica di analizzarne il

funzionamento muovendo, logicamente, dall’esame della peculiare struttura

sillogistica della sentenza della Cassazione.

L’oggetto del giudizio della Corte che, nella ricostruzione

calamandreiana del ricorso per cassazione come azione (autonoma) di

annullamento, è costituito dal sindacato sulla sussistenza del vizio della

sentenza denunciato dal ricorrente, determina uno schema sillogistico della

pronuncia della Corte di accoglimento del ricorso che ha estremi invariabili:

nell’ipotesi che ci interessa, in particolare, essa ha come premessa maggiore

la norma che istituisce il potere della Corte di cassare le sentenze viziate da

violazione o falsa applicazione di legge e, come conclusione, l’effetto tipico

cui aspira il soccombente che promuove il ricorso, ossia l’annullamento della

sentenza impugnata. La premessa minore, che è costituita dall’operazione

logica della Corte di riconduzione del profilo della sentenza censurato dal

ricorrente al vizio di violazione o falsa applicazione di legge, è riccamente

argomentata, in quanto deve giustificare il provvedimento cassatorio; e,

nell’indicare i motivi per i quali ritiene che la sentenza impugnata sia

inficiata dal difetto di falsa interpretazione o applicazione della legge, addita,

altresì, quella che ne è la retta chiave di lettura o di svolgimento. «Ora», dice

il Calamandrei, «la singolarità del fenomeno è proprio questa: che nel

13

CALAMANDREI, La sentenza soggettivamente complessa, in Riv. dir. proc. civ.,

1924, I: in argomento, si vedano le pp. 30 e ss. dell’Estratto, Padova 1924.

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secondo giudizio di rinvio, nel quale, accolta ormai la impugnativa, si rimette

in discussione la questione di merito, il giudice è obbligato a porre come

premessa maggiore del suo sillogismo quella opinione giuridica che le

Sezioni unite hanno enunciata per giustificare nella motivazione la premessa

minore»14

del sillogismo che le ha condotte a cassare una sentenza di merito

per gli stessi motivi per i quali una precedente sentenza era stata già cassata.

Quindi, il (secondo) giudice di rinvio si trova a dover utilizzare

obbligatoriamente un elemento logico costruito da un altro giudice,

quell’interpretazione sul punto di diritto ad opera della Cassazione che

impropriamente, secondo Calamandrei, si qualifica come «decisione», posto

che della decisione in senso tecnico, quale concreta volizione

dell’ordinamento, essa non ha quel contenuto imperativo suscettibile di

acquistare autorità di giudicato.

Si tratta, piuttosto, della risoluzione di una questione giuridica

consistente nel passaggio logico della trasformazione del comando astratto in

comando concreto, ove la decisione si trova solo in uno stato potenziale:

mentre, «perché si possa parlare di sentenza, e, quindi, di passaggio in

giudicato, non basta che si abbiano motivi di diritto e di fatto nei quali la

conclusione sia contenuta in potenza, ma occorre che si abbia una decisione

in atto, cioè la conclusione tratta da queste premesse di diritto e di fatto, della

esistenza o della inesistenza di una concreta singola volontà di legge»15

.

Pertanto, prosegue l’Autore, né l’equiparazione alla sentenza

interlocutoria sul merito, che ha la struttura di un sillogismo completo che fa

capo ad una decisione concreta compiuta, né l’autorità di giudicato, che si

forma solo sulla conclusione del sillogismo giudiziale, possono dare conto

dell’efficacia vincolante dell’enunciazione del principio giuridico spettante

alla Suprema Corte in base al capoverso dell’art. 547.

14

CALAMANDREI, La sentenza soggettivamente complessa, cit., 31. 15

CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 315.

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– 105 –

La spiegazione più piana e corretta che si può dare al vincolo de quo è

che si tratta di un caso di preclusione16

, tale per cui il giudice di rinvio non

16

Il riferimento all’insegnamento chiovendiano è imprescindibile, dal momento che a

Chiovenda risale, se non la paternità della nozione processuale di «preclusione», la maggiore

fortuna linguistica dell’utilizzo della parola «preclusione» con un intento significativo

peculiare in relazione al processo (così, MAZZARELLA, Appunti cit., 1468, in nota): si vedano,

in proposito, CHIOVENDA, Principii, cit., 858 ss.; ID., Cosa giudicata e preclusione, in Riv. it.

scien. giur. 1933, 5 ss. dell’Estratto (ora in CHIOVENDA, Saggi di diritto processuale civile,

vol. III, Milano 1993, 233 ss.), ove l’illustre maestro analizza dal punto di vista storico

l’evoluzione che ha portato a quella «supervalutazione dell’elemento logico nel processo» la

quale ha indotto, a suo dire, «a ravvisare la res iudicata dovunque è preclusione di questioni

e a trattare come res iudicata ogni preclusione di questioni», col risultato di estendere

smisuratamente il campo della cosa giudicata (ID., op. ult. cit., 256). Invero, Chiovenda

sfrutta l’accezione comune della parola «preclusione», da un lato, per rappresentare

empiricamente il meccanismo su cui riposa la cosa giudicata; dall’altro, ed è questo il

significato originale identificativo dell’istituto processuale della preclusione, per denotare un

meccanismo immanente al processo per il quale cause tra loro eterogenee, ma in ogni caso

diverse dalla cosa giudicata, producono situazioni in cui la parte è impedita al compimento di

certi atti. Così, se la cosa giudicata consiste nel bene della vita riconosciuto o negato dal

giudice in maniera incontrovertibile, e spicca per essere la certezza giuridica intesa come

certezza di godere, senza ulteriore contestazione, di un diritto, ossia di un bene, essa, spiega

Chiovenda, «ha sempre la sua base in una preclusione», in quanto «presuppone – traverso la

preclusione della impugnabilità del deciso – la preclusione della questionabilità del diritto»

(ID., op. cit., 235 ss.). In questo senso, quando cioè Chiovenda allude alla preclusione come

all’«espediente di cui il diritto si serve per garantire al vincitore il godimento del risultato del

processo», che è la cosa giudicata, il ricorso al concetto di preclusione ha più che altro una

funzione descrittiva, in cui il configurato rapporto di mezzo a fine tra preclusione e cosa

giudicata non ritaglia alla nozione di preclusione un’autonomia concettuale e funzionale

rispetto alla cosa giudicata stessa. Ma la preclusione, soggiunge l’illustre maestro, è altresì

«un espediente di cui il legislatore si serve anche nel corso del processo, prima cioè di

raggiungere la cosa giudicata, e quindi per una finalità diversa da quella (…) di proteggere la

cosa giudicata, e appunto per la finalità comune a tutte le preclusioni che operano nel corso

del processo»: quella, cioè, di renderne certo, ordinato e preciso il cammino. Sotto questo

profilo, la preclusione è un meccanismo interno al processo che opera sempre come perdita

di una facoltà processuale, la quale si può determinare per diversi ordini di ragioni: o per il

fatto «di non aver osservato l’ordine assegnato dalla legge al suo esercizio, come i termini

perentorii o la successione legale delle attività e delle eccezioni»; o per il fatto di «aver

compiuto un’attività incompatibile coll’esercizio della facoltà, come la proposizione di

un’eccezione incompatibile con altra, o il compimento d’un atto incompatibile con

l’intenzione d’impugnare una sentenza»; ovvero per il fatto di «avere già una volta esercitato

la facoltà». Ma sia che si tratti di preclusione di questioni di merito, sia che si tratti di

preclusione di questioni processuali, l’esigenza comune è di «rendere possibile l’ordinato

svolgimento del giudizio colla progressiva e definitiva eliminazione di ostacoli. In tutti i casi

la preclusione dipende non dalla autorità inerente alla parola del giudice (…) ma da ragioni

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può decidere la quaestio iuris già risolta dalle sezioni unite, ma deve

semplicemente completare il giudizio decidendo la questione di fatto:

propriamente, egli non è quindi vincolato a valutare il punto di diritto

secondo l’opinione altrui, ma è bensì «escluso dal decidere il punto di diritto

perché questo è già stato risoluto da un altro giudice in uno stadio

processuale anteriore»17

.

Sembra proprio che, con questo passaggio, Piero Calamandrei metta il

piede in fallo, offrendo ai critici del suo teorema e, in particolare, a

Carnelutti, un valido appiglio per rilevare un’insanabile contraddizione nel

ricorso al concetto di preclusione come fondamento giustificativo del vincolo

del giudice di rinvio al dictum in iure della Suprema Corte.

di utilità pratica, in quanto è necessario porre un limite alla possibilità di discutere: varia solo

nei varii casi la ragione per cui si sente questa necessità» (ID., op. cit., 237-238). Così,

limitando l’analisi ad alcune ipotesi di decisioni immutabili rese nel corso del processo su

questioni di merito, da un punto di vista fenomenologico assai somiglianti alla sentenza

idonea a produrre la cosa giudicata, per Chiovenda non sussistono dubbi sul fatto che le

questioni decise da una sentenza interlocutoria divenuta definitiva perché non più

impugnabile o le questioni sul punto di diritto statuite dalle sezioni unite siano da far

rientrare nell’alveo delle preclusioni processuali: trattandosi, in sostanza, di questioni decise

che «rimangono eliminate o accantonate come semplici elementi del processo in corso», le

quali potranno sì costituire «materiali o frammenti della futura decisione di accoglimento o

di rigetto della domanda», ma potranno anche «strada facendo, perdere qualsiasi importanza

e rivelarsi materiali inutili» (ID., op. loc. ult. cit.). È sufficiente la caratteristica della

eventuale utilizzabilità del materiale deciso (si veda, sul punto, anche l’opinione del

MENESTRINA, La pregiudiciale nel processo civile, Vienna 1904, 9 ss.) a rendere conto del

fatto che il lato comune delle preclusioni e della cosa giudicata, ossia la circostanza che «vi

sono delle questioni che non si possono più fare», non deve indurre a dimenticare che altro è

la certezza del bene giuridico, la quale si realizza a processo ultimato con la garanzia

dell’intangibilità del risultato, altro è la certezza della soluzione da dare alla singola

questione prima di pervenire al riconoscimento o al disconoscimento del bene della vita di

cui è causa; ad offuscare, cioè, quell’intuitiva differenza, chiarissima sul piano empirico, che

intercorre tra cosa giudicata e questioni giudicate. 17

CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 318.

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1.2. La tesi che attribuisce al principio di diritto natura ed efficacia di

giudicato.

È in un brillante scritto del 193118

che Carnelutti si occupa appunto di

contestare la tesi di Calamandrei dimostrando, con toni neanche tanto

vagamente liquidatori, come la sua preclusione si risolva, alla fin fine, in un

«mezzo giudicato».

Osserva infatti Carnelutti19

che Piero Calamandrei, dovendo chiarire

quale sia il contenuto della preclusione de qua, per non lasciare il punto di

diritto deciso dalle sezioni unite orfano di giudizio alla stregua di una teoria

che vincola il giudice di rinvio all’indicazione in iure della Suprema Corte

ma rifiuta di dire che dinanzi a tale giudice il punto di diritto perviene già

giudicato, si trova costretto a scindere l’attività logica dall’attività volitiva del

procedimento giurisdizionale, e ad imputare, rispetto alla quaestio iuris

oggetto del vincolo, l’atto di intelligenza alla Corte e l’atto di volontà al

giudice di rinvio.

Il risultato di questa operazione è che il giudicato sul punto di diritto

«sarebbe per metà nella sentenza delle sezioni unite e per metà in quella del

giudice di rinvio»20

.

L’obiezione viene dunque piuttosto agevole a Carnelutti: se è vero che,

da un punto di vista conoscitivo, è possibile distinguere, all’interno della

sentenza, il momento logico-intellettivo da quello volitivo-autoritativo, non è

altrettanto sostenibile che questa scissione si realizzi sul piano empirico, e

che l’intelligenza e la volontà che compongono una decisione giurisdizionale

possano ascriversi a due organi diversi. Dice Carnelutti: «Se la sua natura di

18

CARNELUTTI, Questioni sul vincolo del giudice di secondo rinvio, in Riv. dir. proc.

civ., 1931, II, 232 (v. anche, nella stessa rivista, ID., Vincolo del giudice di secondo rinvio,

nota a Cass. 4 luglio 1930, II, 17 ss). 19

Ché, evidentemente, «se fosse preclusione del giudizio la questione di diritto decisa

dalle sezioni unite, rimarrebbe non giudicata; non la giudicherebbe la corte di cassazione e

neppure il giudice di rinvio, poiché è preclusa»: CARNELUTTI, Questioni sul vincolo, cit., 232. 20

CARNELUTTI, Questioni sul vincolo, cit., 233.

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comando e perciò di atto di volontà si desume da ciò che la sentenza obbliga,

come si fa a negare l’atto di volontà nella sentenza delle sezioni unite, alla

quale il giudice di rinvio si deve conformare? E se, d’altra parte, ha già

comandato la corte di cassazione, cosa ha più da comandare, rispetto alla

questione decisa, il giudice di rinvio?».

Una più onesta ricostruzione delle cose, secondo Carnelutti, dovrebbe

dunque portare a riconoscere che, rispetto al punto di diritto deciso in

maniera vincolante dalle sezioni unite, al giudice di rinvio è preclusa non

solamente l’attività intellettiva, ma l’attività di giudizio tout court; e che il

dato, rilevato dallo stesso Calamandrei, per il quale il giudice di rinvio, più

che vincolato all’altrui indicazione, è escluso dal decidere la quaestio iuris

perché questa è già stata risolta dalla Corte è assistito da una palpabile

autoevidenza quanto al fatto che la quaestio iuris è già giudicata. Ciò che

dimostra, da un lato, che il ragionamento del Calamandrei è meno lontano

dalla teoria del giudicato di quanto egli non sia disposto a riconoscere; e

dall’altro, che il concetto di preclusione è anodino ed elusivo, in quanto di

per sé non vale ad escludere, ma solo a dissimulare, che la quaestio iuris si

trova già decisa dinanzi al giudice di rinvio proprio perché coperta da

giudicato.

Ora, la ricostruzione carneluttiana del vincolo al dictum in iure della

Corte in capo al giudice di rinvio si può apprezzare e comprendere a fondo

solo tenendo presente che essa s’innesta in un discorso più ampio intorno alla

struttura del giudizio, ove il processo viene concepito come strumento di

composizione della lite che si sviluppa attraverso la risoluzione progressiva

delle questioni, intorno ai presupposti di fatto e di diritto della tutela pretesa

dai contendenti, che alimentano la lite stessa21

. Ciascuno snodo problematico

della vertenza rappresenta l’oggetto di una decisione giudiziale che si pone

21

Cfr. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, IV, Padova 1933, 2 ss.

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come premessa della statuizione finale sulla domanda; premessa che, quando

non possa essere rimessa in discussione, forma materia di giudicato.

Nella visione di Carnelutti, può dunque dar luogo a questione –

suscettibile di rientrare nell’area del comando giudiziale – ogni premessa di

fatto e di diritto della domanda su cui il giudice si trovi a decidere in presenza

di dubbi o di contrasti.

È ciò che il Carnelutti definisce «teoria dei comandi progressivamente

specificati»22

, o che più notoriamente è qualificato come fenomeno della

«formazione progressiva del giudicato», che spiega come in realtà il giudizio

possa scandirsi e stratificarsi attraverso le varie fasi del processo con una

sequela di decisioni successive, rilevanti per la parti, che restringono

gradualmente l’area della lite; e che, consequenzialmente, illumina sul fatto

che il vincolo per il giudice di rinvio alla pronuncia in punto di diritto delle

sezioni unite sia nient’altro che l’effetto concreto di una completa

imperatività della decisione su un elemento di diritto che rappresenta una

tappa intermedia rispetto alla statuizione finale sulla domanda.

In definitiva, nella prospettiva di Carnelutti, l’inerenza del vincolo de

quo al fenomeno del giudicato chiama in causa un problema, quale quello

dell’individuazione del contenuto e della sostanza dello stesso, che può

essere ben presto risolto con la considerazione che il giudicato è «bensì

decisione della lite, ma questa decisione mediante la risoluzione delle

questioni e perciò esiste ogni qualvolta una questione è decisa ed opera col

divieto di tornarla a risolvere per la composizione della medesima lite»23

.

22

Cfr. CARNELUTTI, Lite e funzione processuale, in Riv. dir. proc. civ. 1928, I. 23

CARNELUTTI, Questioni sul vincolo, cit., 233. Prosegue ancora l’a.: «Questo vincolo

del giudice di secondo rinvio non è dunque un fenomeno nuovo o anomalo del diritto

processuale; è, al contrario, identico a quello che lega le mani al giudice di rinvio rispetto

alle questioni decise dal giudice di appello, per le quali il ricorso fu respinto o rigettato.

Appunto, la distinzione tra la questione e la lite (sulla quale, secondo me i maestri del diritto

processuale non insisteranno mai abbastanza) serve a spiegare come il giudicato formale non

si costituisca necessariamente allo stesso momento per tutta la lite, cioè per tutte le questioni

della lite, mentre alcune possono passare in giudicato prima e altre dopo, nel senso che

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Siamo dunque di fronte ad un’ipotesi di giudicato su questione: è

questa la conclusione che il Carnelutti accusa il Calamandrei di non aver

voluto ricavare dall’indagine dei rapporti tra giudizio di cassazione e giudizio

di rinvio secondo lo schema dell’art. 547 del codice di rito Pisanelli, e dalla

pur corretta intuizione che il vincolo ivi delineato è dovuto all’esaurimento

del potere di decidere la quaestio iuris già risolta in Cassazione. Intuizione

cui però il maestro fiorentino non fa seguire il riconoscimento che, se al

concetto di preclusione si vuol fare ricorso, ciò altro non significa che

richiamare un genus rispetto al quale il fenomeno del giudicato si pone come

la species dell’ipotesi de qua.

Naturalmente, le posizioni antagonistiche di due così autorevoli

maestri24

non potevano non attirare e concentrare su di sé le attenzioni dei

alcune possono verificarsi in un momento e per altre no le condizioni, dalle quali il passaggio

in giudicato dipende. L’art. 547 cpv. statuisce una di queste condizioni in quanto dispone

che, qualora una questione (di diritto) sia stata decisa conformemente da due decisioni di

cassazione (…), è passata in giudicato»: ID., Vincolo, cit., 22 ss. Queste considerazioni

consentono a Carnelutti di prendere posizione anche sul problema di quale tramite, tra quelli

offerti dall’art. 517 c.p.c. 1865, si dovesse utilizzare per fare valere innanzi alla Cassazione

stessa la trasgressione del limite imposto dall’art. 547: non, come veniva ritenuto dalla

sentenza che ha ispirato a Carnelutti le riflessioni in commento, per il tramite della doglianza

della violazione dell’art. 547 stesso, bensì per vizio di violazione dei limiti della cosa

giudicata. 24

C’è un altro profilo, che ci interessa da vicino, sul quale le opinioni di Calamandrei

e di Carnelutti divergono sensibilmente: esso riguarda la portata da assegnare alla locuzione

«falsa applicazione di legge» di cui al n. 3 dell’art. 517 c.p.c. abrogato, e la possibilità che il

rilievo della falsa applicazione di legge ad opera della Cassazione possa dare effettivamente

luogo ad un punto di diritto agli effetti del vincolo imposto al giudice di rinvio. Calamandrei

svolge la distinzione tra violazione e falsa applicazione di legge servendosi, come di

consueto, dello schema sillogistico. Egli individua, innanzitutto, la violazione di legge

nell’errore del giudice concernente una questione di diritto e afferente la premessa maggiore

del sillogismo. In particolare, la violazione di legge in senso stretto si rintraccia nell’«errore

sulla esistenza o sulla validità, nel tempo e nello spazio, di una norma giuridica», l’errore,

cioè, consistente nel fatto del giudice che ignora l’esistenza o si rifiuta di riconoscere

l’esistenza di una norma giuridica in vigore, o che considera come norma giuridica una

norma che non è più o che non è mai stata in vigore: «il caso in pratica più raro ma in teoria

più tipico di violazione di legge in senso stretto» (CALAMANDREI, La Cassazione civile, vol.

II, cit., 281). Ma violazione di legge si ha anche nell’ipotesi di falsa interpretazione di una

norma giuridica, ossia di errore del giudice sul contenuto della premessa di diritto

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– 111 –

correttamente individuata, che ricorre «in tutti quei casi in cui il giudice, pur riconoscendo

l’esistenza e la validità della norma appropriata al caso, erra nell’interpretarla»; ed anzi,

soggiunge l’a., la differenza tra violazione di legge in senso stretto e falsa interpretazione di

legge, dal momento che l’interpretazione è in grado di identificare la norma, rappresentando

un modo di esistenza della stessa, «è ormai più dottrinaria che pratica» (ID., op. loc. ult. cit.).

L’errore del giudice nella soluzione della quaestio iuris, prosegue Calamandrei, può poi

colpire la premessa minore del sillogismo. E si può concretare, in tal caso, o nell’errore sulla

qualificazione o definizione giuridica della fattispecie concreta, che si verifica « tutte le volte

in cui il giudice, nel compiere la “diagnosi” giuridica dei fatti accertati, erra nello scegliere

tra le circostanze di fatto quelle che hanno rilevanza di diritto (…), e nel trarre dalla loro

riunione la nozione dell’istituto giuridico, sotto il quale la concreta fattispecie può essere

fatta rientrare». Oppure nella falsa applicazione di legge, la quale ricorre allorché l’errore

riguarda «il rapporto che passa tra la fattispecie concreta e la norma giuridica», il che «si

verifica tutte le volte in cui il giudice erra nello stabilire il rapporto di somiglianza o di

differenza che intercorre tra la fattispecie concreta giuridicamente qualificata e la fattispecie

ipotizzata dalla norma (fattispecie legale)»: ciò che la dottrina tedesca qualifica come errore

di sussunzione (ID., op. cit., 282-283). Orbene, Calamandrei riconosce che la falsa

applicazione di legge si differenzia concettualmente dalla erronea qualifica giuridica «poiché

nella serie di sillogismi strumentali da cui nasce la sentenza, la qualifica giuridica costituisce

un’operazione mentale preparatoria e precedente a quella di applicazione del diritto al fatto».

Ma, aggiunge poi, «in pratica queste due operazioni si fondono in una, poiché, quando il

giudice fa la cernita del materiale di fatto per trar fuori da esso gli estremi della fattispecie

concreta (qualifica giuridica), ha già presente la fattispecie legale della norma giuridica che

ritiene confacente al caso, onde, compiuta la definizione giuridica della fattispecie concreta è

per ciò solo anche riconosciuto che essa coincide colla fattispecie legale e che si verificano in

concreto gli effetti da quella norma in astratto stabiliti» (ID., op. cit., 283-284). Infine, resta

da verificare l’errore che riguarda la conclusione del sillogismo. Tale errore, che si sostanzia

nel fatto del giudice che sbaglia «nel trarre da premesse corrette una conclusione che

logicamente non ne deriva», non è inquadrabile nell’errore di diritto, poiché si tratta di errore

di ragionamento, tipico vizio logico. La ricostruzione proposta da Calamandrei, dunque,

consente sì di escludere che l’errore in iudicando previsto dal n. 3 dell’art. 517 possa essere

integrato dall’errore sulla conclusione del sillogismo; e tuttavia chiarisce che tale errore non

è semplicemente quello che interviene nella premessa maggiore del sillogismo, come si è

portati a ritenere quando, secondo una semplificazione tradizionale, «si schematizza la genesi

della sentenza nella risoluzione di una questione di diritto generale ed astratta (premessa

maggiore) e di una questione di fatto singolare e concreta (premessa minore)». Un simile

ordine di idee va respinto in primo luogo perché la premessa maggiore (o meglio, precisa

Calamandrei, «una qualunque delle premesse maggiori dei sillogismi concatenati nei quali si

può scindere, analizzandolo più da vicino, lo schema logico della sentenza») contiene

postulati dotati di quel carattere di generalità che è indefettibile nelle norme giuridiche, ma

può anche recare le cd. massime di esperienza, ossia quei giudizi su questioni di fatto

generali che si basano sull’id quod plerumque accidit, e che pertanto non sono equiparabili

alle norme giuridiche. In secondo luogo, ed è questo il punto rilevante ai nostri fini,

l’equivalenza tra error iuris in iudicando e vizio della premessa maggiore si rileva fallace

non appena si consideri che la premessa minore del sillogismo giudiziale non contiene

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solamente la risoluzione di una questione di fatto, ma è anzi vero che in essa «ha sede la più

delicata tra le questioni di diritto, cioè quella relativa al confronto tra la fattispecie concreta e

la fattispecie legale» (ID., op. cit., 287-288). È qui che le opinioni di Calamandrei e di

Carnelutti si divaricano. In via generale, Carnelutti distingue l’error in judicando in errore

logico ed errore storico, «secondo che riguardi la struttura del sillogismo o la posizione di

una delle sue premesse», e scinde l’errore storico in errore di diritto ed errore di fatto

«secondo che si riferisca alla premessa di diritto o alla premessa di fatto» (CARNELUTTI,

Sistema del diritto processuale civile, vol. II, Padova 1938, 645-646). Degli errori storici in

judicando, di diritto o di fatto, soggiunge l’a., l’errore di diritto, che pure ha la stessa

efficienza a determinare l’ingiustizia della decisione quanto l’errore storico di fatto, è, a

differenza di questo, censurabile in Cassazione perché idoneo a «propagarsi dall’una all’altra

decisione, onde lo si potrebbe definire un errore contagioso» (ID., op. loc. ult. cit.): è questa

la ragione per cui non tutti gli errores in judicando, ma solo, oltre agli errori logici, gli errori

storici in diritto costituiscono quei vizi della decisione che aprono la via alla cassazione. Ora,

nella formula del n. 3 dell’art. 517, dice Carnelutti, è contemplata l’ipotesi del «contrasto tra

il comando astratto e il comando concreto, cioè tra la norma e la sentenza». Tenendo

presente la struttura sillogistica della sentenza, in cui dalla norma e dal fatto – che

rappresentano, rispettivamente, la premessa maggiore e la premessa minore – viene ricavata

la trasformazione del comando astratto in comando concreto, i due momenti di questa

operazione logica in cui si può avverare l’errore di giudizio di diritto, ossia il contrasto tra

ciò che fa il giudice e la norma, sono la premessa maggiore e la conclusione, mentre, «per la

premessa minore il contrasto può essere non tra la norma e la sentenza, ma tra questa e la

realtà» (ID., op. cit., 658). L’errore relativo alla premessa maggiore, in quanto errore storico

di diritto, integra la violazione di legge; l’errore che ha sede nella conclusione del sillogismo,

quale errore logico derivante da una cattiva combinazione delle premesse, integra invece una

falsa applicazione della norma. In sintesi, Carnelutti ritiene, da un lato, che la premessa

minore del sillogismo giudiziale è costituita dalla affermazione della situazione posta nella

causa (mentre per Calamandrei essa è rappresentata dalla affermazione della coincidenza dei

caratteri giuridici della fattispecie posta nella causa con i caratteri giuridici supposti dalla

norma: CALAMANDREI, op. cit., nota n. 3 a 284); dall’altro, che la falsa applicazione di legge

consiste nell’errore, meramente logico, che il giudice compie traendo da premesse esatte, di

diritto e di fatto, una conclusione che logicamente non ne deriva, e si verifica, in sostanza,

quando egli «intende bene la norma e il fatto, ma combina male le due premesse»

(CARNELUTTI, Questioni, cit., 239). Si tratta dunque di un errore che cade tipicamente

sull’illazione del sillogismo, come egli la chiama, ossia sulla sua conclusione, e non, come

ritiene Calamandrei, sulla premessa minore (ID., op. loc. ult. cit.). D’altro canto, la

qualificazione giuridica del fatto, secondo l’intendimento di Carnelutti, lungi dall’essere

compresa tutta nella premessa minore, come vuole Calamandrei, può essere sdoppiata in un

principio astratto, che ricomprende i caratteri generali necessari per dar luogo ad una certa

situazione giuridica, e in un caso concreto, che sotto quel principio va sussunto (ID., Limiti

del rilievo dell’error in judicando in Corte di cassazione, in Studi di diritto processuale, vol.

I, Padova 1925, 365 ss.). Essa dunque non può essere distinta dall’applicazione della norma,

per la semplice ragione che «la linea che separa la posizione dalla applicazione della norma è

la differenza, anzi l’antitesi fra l’astratto e il concreto e quando non si enuncia o si interpreta

una norma ma si qualifica un fatto quella linea è senza dubbio varcata» (ID., Questioni, cit.,

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– 113 –

239). «Più che inesatto», dirà ancora Carnelutti, «è inconcludente il dire che è rilevabile in

cassazione l’errore sulla qualificazione giuridica del fatto; tale qualificazione non è altro che

l’applicazione della norma al fatto; ora, al solito, il vizio può riguardare la posizione della

prima o la posizione del secondo; solo in quella, non anche in questa ipotesi l’errore può

essere utilmente denunciato» per ottenere dalla Corte una pronuncia di diritto (ID., Sistema,

vol. II, cit., 648). Asserita quindi la pertinenza della qualifica giuridica del fatto

all’applicazione della norma giuridica, e interpretata l’applicazione della norma giuridica

come risultato del procedimento deduttivo del giudice che dalla norma prescelta e dal fatto

postulato trae le conseguenze giuridiche che confluiscono nell’illazione, il problema,

secondo Carnelutti, non è quello di stabilire se la qualifica giuridica del fatto possa essere

censurata in Cassazione, perché questo è esplicitamente ammesso dalla legge, dal momento

che al n. 3 dell’art. 517 figura, come motivo di ricorso per cassazione, accanto alla

violazione, la falsa applicazione della legge, per l’appunto. Il problema è semmai di

verificare se la statuizione sull’applicazione della norma possa essere considerata un giudizio

di diritto: «sono due questioni diverse se la corte suprema possa giudicare di una falsa

applicazione della norma e se il giudizio sulla falsa applicazione sia una decisione di

diritto» (ID., Questioni, cit., 239). È a quest’ultimo interrogativo che Carnelutti dà risposta

negativa, considerando l’opinione contraria frutto del vecchio preconcetto secondo cui la

Cassazione sarebbe chiamata a governare solo giudizi di diritto. Invero, la querelle tra i due

maestri intorno alla natura del giudizio sulla falsa applicazione di diritto non era solo

accademica, perché dall’accoglimento dell’una o dell’altra soluzione potevano discendere

conseguenze importanti. A voler ritenere che un punto di diritto in tanto ci potesse essere in

quanto la Cassazione censurasse un errore storico di diritto, se si fosse stati d’accordo col

Carnelutti nel considerare la falsa applicazione come vizio logico afferente l’illazione del

sillogismo, dal vincolo previsto all’art. 547 sarebbe esulata l’ipotesi di reiterato accoglimento

della doglianza del vizio di falsa applicazione di legge; viceversa, se si consentiva, con

Calamandrei, nel ricondurre la falsa applicazione di legge nell’alveo dell’errore di giudizio di

diritto, si sarebbe potuta riconoscere la sussistenza del punto di diritto e del relativo effetto

vincolante anche rispetto al rilievo della falsa applicazione di legge ad opera della Corte.

Anzi a Calamandrei sembra che l’intensità del vincolo di cui all’art. 547 sia maggiore

nell’ipotesi di falsa applicazione di legge che non nell’ipotesi di violazione di legge: qualora

il punto di diritto, dice Calamandrei «riguardi non solo la esistenza ma anche il significato

della norma giuridica», ossia nell’ipotesi di errore di interpretazione, «spetterà al giudice di

rinvio stabilire liberamente se la norma, fissata e interpretata dalle Sezioni unite, è

applicabile al caso controverso»; mentre nel caso in cui il punto di diritto «comprenda la

risoluzione del rapporto che passa tra la norma giuridica, fissata e interpretata, e il caso

controverso», vale a dire a fronte di un vizio di applicazione della legge, «il giudice di rinvio

è vincolato anche alla qualifica giuridica dei fatti stabilita dalle Sezioni unite, ed è

strettamente tenuto a decidere nei limiti della pura questione di fatto» (CALAMANDREI, op.

cit., 323-324). La tesi di Carnelutti, ancorché legittima sul piano dell’interpretazione logica

del dato testuale, rimase sostanzialmente isolata (ma si veda, concorde con lui, COSTA,

Rilievi sulla Corte di Cassazione nel processo penale, in Riv. it. dir. pen. 1933, 468 ss., il

quale tuttavia sposa la soluzione antagonista a quella di Carnelutti in merito alla natura del

vincolo); e Carnelutti continuò a sostenerla anche quando, codificato l’immediato effetto

vincolante all’art. 384 c.p.c., ne veniva circoscritto l’ambito di operatività all’ipotesi di

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processualisti, e in particolare di quella dottrina che si accingeva a misurarsi

frontalmente col problema della vicenda dopo cassazione. In particolare, gli

autori delle due principali monografie sul giudizio di rinvio sotto la vigenza

del codice del 1865, Renzo Provinciali25

e Giovanni Pavanini26

, da quelle

accoglimento della censura di cui al n. 3 dell’art. 360, con una formula la quale, ebbe a dire il

nostro Autore, benché parlasse, oltre che di violazione anche di falsa applicazione di norme

di diritto, doveva essere intesa «restrittivamente, escludendo la seconda ipotesi, poiché la

falsa applicazione non riguarda la posizione della norma di diritto, sibbene l’incongruenza

dell’illazione che non risponde alle due premesse»: CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo

processo civile italiano, vol. II, Roma, 1951, 191). Ma occorre rinunciare al sussidio della

logica astratta, spesso suscettibile di tradursi in aporie insanabili, per comprendere le ragioni

per le quali la tesi di Carnelutti circa l’inidoneità del rilievo di falsa applicazione di norme di

diritto da parte della Corte a ridondare in un principio di diritto, vincolante per il giudice di

rinvio, è rimasta emarginata. Quel destino appare comprensibile alla luce della

considerazione che quella tesi finiva col ridurre l’ipotesi della falsa applicazione rilevante in

cassazione ad un’ipotesi di scuola, in cui gli effetti giuridici concretamente dichiarati o

costituiti dalla sentenza non corrispondessero a quelli astrattamente previsti dalla norma sotto

la quale il giudice avesse correttamente sussunto il fatto; mentre, aderendo all’opinione

contraria, il rilievo della falsa applicazione della legge poteva assurgere a tramite essenziale

per consentire alla Corte di svolgere un controllo sui giudizi di valore. Vi sono infatti casi,

talmente frequenti da non poter essere considerati eccezioni, nei quali l’esplicazione della

norma funge da momento rivelatore del modello legale, perché per applicare la norma

bisogna passare attraverso la considerazione – che non è avalutativa, ma che si assume come

obiettiva e generalizzabile – di elementi di fatto che integrano la fattispecie legale, sicché il

giudizio particolare sul fatto si pone, in realtà, come assoluto e riproducibile in una serie

indeterminata di ipotesi (ad esempio, il giudizio sulla creatività di un’opera ai fini

dell’applicazione delle norme sul diritto d’autore). In tali casi, rispetto, cioè, alla valutazione

giuridica che degli estremi oggettivabili di un fatto debba essere compiuta, non è predicabile,

se non a prezzo di inammissibili disparità di trattamento, una concessione alla necessaria

indifferenza istituzionale del Supremo Collegio, come avviene nei confronti dell’ipotesi

ricostruttiva fattuale del giudice di merito. La discretività di questi nella ricostruzione storica

del fatto, come noto, può essere controllata in Cassazione sotto il profilo procedimentale o

della congruenza logica, ma non sotto il profilo dell’opportunità del suo esercizio. Qui, però,

non è questione della veridicità del fatto storicamente considerato: si tratta piuttosto di

stabilire il valore giuridicamente ripetibile degli elementi del fatto ipostatizzato, e

l’operazione valutativa ha una connotazione valoriale che chiama in causa la portata da

assegnare alla norma. E che simili giudizi di valore, in quanto giudizi di diritto, possano ed

anzi debbano spettare alla Cassazione non sembra doversi ulteriormente comprovare, dopo la

dimostrazione di SATTA, Commentario, vol. II, cit., 194 ss. Come non è difficile da

ammettere che, da un punto di vista empirico, esista una certa fungibilità tra violazione e

falsa applicazione di legge, e le differenze tra queste due ipotesi, all’atto pratico, sfumino

(ID., op. cit., 201 ss.). 25

PROVINCIALI, Il giudizio di rinvio, cit.

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concezioni prendono dichiaratamente spunto per la rimeditazione del tema in

esame e la formulazione di autonome proposte.

Provinciali avversa decisamente la tesi carneluttiana secondo cui il

capoverso dell’art. 547 configura un’ipotesi di giudicato sul punto di diritto

deciso dalle sezioni unite, richiamando, tra l’altro, la nota tesi di Rocco circa

la natura meramente ordinatoria delle sentenze di cassazione; ma, pur

affidando alla formula della preclusione la descrizione della natura del

vincolo in questione, l’Autore respinge senza mezzi termini anche l’ordine di

idee nel quale si muove Calamandrei.

Quanto alla tesi sostenuta da Carnelutti, in particolare, Provinciali

considera il ricorso alla nozione di giudicato per spiegare il vincolo dell’art.

547 stridente e distonico rispetto a quella premessa di carattere generale, che

lo stesso Carnelutti sembra abbracciare27

, che vede nella Cassazione un

organo le cui finalità esulano dalla definizione del merito del controversia (o

dalla decisione della lite, per utilizzare un’espressione tanto cara al maestro

udinese)28

.

L’altro aspetto che Provinciali reputa decisivo per respingere la tesi

dell’ascrizione alla categoria del giudicato del vincolo delineato dall’art. 547

c.p.c. 1865 ha a che vedere con un dato che la riforma del 1940 provvederà a

spazzare via, qual è quello della limitata efficacia della pronuncia in punto di

diritto della Cassazione con conseguente naufragio dell’effetto vincolante nel

caso di perenzione del suddetto processo29

.

26

PAVANINI, Contributo allo studio del giudizio civile di rinvio, cit. 27

Cfr. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, vol. IV, cit., 272 ss. 28

PROVINCIALI, op. cit., 314: «Per aversi cosa giudicata,» – asserisce Provinciali

spendendo uno degli argomenti migliori addotti a confutazione della tesi che riporta il

vincolo alla pronuncia in punto di diritto delle sezioni unite nell’alveo del giudicato –

«bisogna attribuire alla cassazione un potere di statuire sulla lite, cioè sul merito della lite, sia

pure limitatamente al punto di diritto de quo, ciò che è contro la finalità dell’istituto, come lo

intende lo stesso Carnelutti». 29

Si veda, tuttavia, contro questo assunto, la più risalente opinione di BO, Del

giudizio di rinvio, Studio sugli articoli 543, 544, 546, 547, 571 del Cod. di proc. civile,

Torino 1901, 142-143.

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Ma è interessante ed istruttivo notare come la valorizzazione

dell’argomento della estraneità istituzionale della Corte alla definizione del

merito della controversia induca Provinciali anche a rifiutare la soluzione,

diremmo compromissoria, di Calamandrei, secondo cui, oltre al iudicium

rescindens, alla Cassazione spetterebbe altresì, in base al capoverso dell’art.

547, una frazione del iudicium rescissorium in ordine al punto di diritto. In

realtà, obietta Provinciali, la scissione dell’elemento logico da quello

autoritativo della sentenza propria della concezione calamandreiana si espone

certamente ai rilievi critici mossi da Carnelutti, perché non ha senso imputare

uno degli elementi del comando giurisdizionale che definisce la lite alla

Corte Suprema30

, se è vero, come egli ritiene, che lo specifico compito della

Cassazione è quello di fissare una massima lasciando alla magistratura di

merito il compito di applicare il diritto così precisato e di giudicare sulla

domanda. Ma, anziché concludere, come fa Carnelutti, nel senso che nel caso

previsto dall’art. 547 la decisione del punto di diritto è giudicata dalle sezioni

unite, Provinciali all’opposto reputa di dover sospingere tutta la portata del

comando giurisdizionale alla pronuncia emanata ad esito di quel giudizio in

cui la massima fissata dalla Cassazione viene accolta e applicata per la

definizione della controversia. Detto comando, secondo Provinciali, è dunque

integralmente ascrivibile al giudice di rinvio; e l’imprescindibilità della

massima di diritto formulata dalle sezioni unite, lungi dall’avere un

autonomo rilievo quanto alla statuizione sulla lite, si spiega esclusivamente

con ragioni di opportunità31

.

L’altro giurista che sotto l’impero del codice post-unitario ha dato un

contributo fondamentale alla letteratura monografica sul giudizio di rinvio,

Pavanini, nell’affrontare il problema dell’inquadramento del vincolo di cui

all’art. 547, dialoga invece con una prospettiva ripudiata dalla predominante

dottrina coeva, ossia quella del parallelismo tra la situazione scaturente dalla

30

PROVINCIALI, op. cit., 315. 31

PROVINCIALI, op. cit., 316.

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pronuncia in punto di diritto delle sezioni unite e la situazione che deriva

dall’emanazione di una sentenza interlocutoria di merito. Estremamente

sofisticato è il ragionamento che Pavanini sviluppa in questa direzione.

Egli si preoccupa, preliminarmente, di sgombrare il terreno da un

vecchio pregiudizio intorno alla comparabilità tra la pronuncia ex art. 547 e la

sentenza interlocutoria germinato dal convincimento che l’oggetto minimo

sul quale quest’ultima può giudicare è rappresentato dalle questioni

astrattamente suscettibili di autonomo accertamento in un separato

processo32

. Alla stregua di una simile interpretazione della frazionabilità del

materiale logico di un giudizio in una pluralità di decisioni all’interno

dell’unico processo, chiosa Pavanini, non c’è spazio per ipotizzare un

confronto tra sentenza interlocutoria e pronuncia ex art. 547, cpv., poiché è

assolutamente incontestabile che il semplice punto di diritto non è in grado di

costituire l’oggetto di un autonomo accertamento giudiziale.

Ma se si aderisce alla tesi secondo cui le sentenze interlocutorie

possono pronunciarsi su un oggetto che è al di sotto di quel minimo che è

costituito dalle questioni il cui accertamento sia autonomamente azionabile, e

si ammette, quindi, che esse possano contenere qualcosa in meno della

decisione in merito ad un capo di domanda, il rifiuto della prevalente

dottrina, che pure consente a quest’idea, di parametrare il discorso sul

vincolo del giudice di rinvio alla pronuncia in punto di diritto della Corte alle

sentenze interlocutorie appare al Pavanini apodittico e ingiustificato.

L’obiezione che egli ragionevolmente muove ai fautori della

contrapposizione tra interlocutorie e pronunce della Cassazione ex art. 547

cpv., fra i quali lo stesso Calamandrei, fa perno sulla diversità del punto di

osservazione dal quale i due fenomeni sono stati riguardati per fondare la

presunta incommensurabilità delle due vicende. Accedendo all’idea che il

giudizio si forma attraverso una serie di sillogismi concatenati, in cui la

32

Si tratta della tesi del BÖHMER, su cui MENESTRINA, La pregiudiziale, cit., 90 ss.: v.

il richiamo di PAVANINI, op. cit., 108, in nota.

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soluzione del sillogismo che precede costituisce a sua volta una premessa per

il sillogismo successivo, e così via fino alla decisione sul sillogismo finale,

che decide sull’oggetto della domanda e che, in qualche modo, presuppone

tutti i sillogismi precedenti, se si ammette «che un elemento di questo

materiale logico possa essere staccato dalla sentenza finale, dipende dal

punto di vista logico dal quale ci si pone l’affermare se esso costituisca o no

un sillogismo completo: lo sarà quando il punto deciso venga considerato

come conclusione delle due premesse che precedono, non lo sarà più quando

esso sia considerato come quale premessa del sillogismo, che

immediatamente segue in linea logica»33

.

Pavanini dunque ritiene che l’investigazione dottrinaria sul tema sia

stata prevalentemente orientata da un esito già acquisito, ossia la pretesa

irriducibilità delle situazioni scaturenti dall’interlocutoria e dalla pronuncia di

cui all’art. 547, e che si sia servita di un malizioso errore metodologico per

promuovere l’esigenza di dimostrare che la decisione su questione

pregiudiziale compiuta dal giudice di merito realizza una vera e propria

sentenza, costituita da un sillogismo completo, mentre la pronuncia ex art.

547, cpv., pone una semplice premessa, che verrà integrata in un sillogismo

completo solo in sede di giudizio di rinvio.

Ed invero, non sembra contestabile che l’orientamento criticato abbia

voluto prendere in considerazione, nell’analisi dell’interlocutoria sul merito,

lo sviluppo logico della decisione, al fine di dimostrarne la compiutezza del

sillogismo, e abbia invece invertito il metodo quando si trattasse di descrivere

l’ipotesi dell’art. 547, ruotando verso l’angolo prospettico di una diagnosi a

posteriori, che mettesse a fuoco non la genesi del dictum vincolante

formulato in Cassazione, ma il suo utilizzo postumo ad opera del giudice di

rinvio. Eppure, se è indiscutibile il ruolo che il provvedimento delle sezioni

unite ha quale premessa del sillogismo susseguente esplicato in sede di

33

PAVANINI, op. cit., 107.

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rinvio, non è parimenti negabile che esso, di per sé considerato, costituisce un

sillogismo completo, così come il provvedimento interlocutorio; e viceversa,

che il provvedimento interlocutorio medesimo, se riguardato in funzione del

materiale logico necessario alla decisione definitiva, si presta ad essere

apprezzato quale premessa, e dunque quale momento strumentale, rispetto al

sillogismo finale cui aspira il giudizio.

Quando poi, dal terreno della diversità della struttura sillogistica della

sentenza interlocutoria e della decisione delle Sezioni Unite sul punto di

diritto, che una semplice correzione metodologica è in grado di lasciare

indimostrata, si passa a confronto dei due provvedimenti sotto il profilo,

contiguo ma concettualmente distinto dal primo, dell’assimilabilità dei

rispettivi contenuti logici, il discorso di Pavanini si fa più complesso, perché

va a toccare un tema estremamente delicato e spinoso, quale quello della

pregiudizialità giuridica.

L’idea, mutuata dalla dottrina tedesca (e sostanzialmente condivisibile,

per Pavanini), secondo la quale il frazionamento dell’attività decisoria può

aversi, se non necessariamente con riguardo ad una questione astrattamente

suscettibile di un accertamento autonomo, con riferimento ad un «mezzo

indipendente di attacco o di difesa»34

, ha servito da base, nell’orientamento

che Pavanini sottopone a serrata revisione, per asserire che il provvedimento

interlocutorio condivide la natura propria delle sentenze finali in quanto

consiste comunque nella sussunzione di un fatto concreto sotto una norma

astratta, mentre la medesima equiparazione risulta impedita nel caso che il

giudice ponga in essere una «semplice deduzione giuridica», come avviene

nell’ipotesi della pronuncia delle Sezioni Unite in punto di diritto.

Anche questa contrapposizione appare a Pavanini fallace. Perché è vero

che non si può parlare di applicazione della norma giuridica nel caso del

34

È la tesi formulata con riferimento allo Zwischenurteil dal PLANCK, in Lehrbuch

des deutschen Civilprozessrechts, Allgemeiner Theil, Nordlingen 1887, 412 ss., rievocata da

PAVANINI, op. cit.¸ 109, in nota.

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capoverso dell’art. 547, se la norma è intesa nel senso chiovendiano del

termine, ossia come regolamento di un determinato rapporto o conflitto di

interessi, con l’attribuzione di un diritto o la costituzione di un obbligo35

; se,

in altri termini, applicare la norma significa applicare il diritto al caso di

specie, risolvendo la «questione fondamentale» (ma, a questa stregua,

volendo rintracciare l’elemento comune delle sentenze, siano esse

interlocutorie o finali, nell’accertamento di un rapporto giuridico, o di una

delle pretese da questo scaturenti, nell’ipotesi di rapporto complesso, si

dovrebbe anche concludere che l’oggetto minimo delle sentenze

interlocutorie corrisponde alle questioni suscettibili di autonomo

accertamento in un processo separato, finendo col recuperare la tesi ripudiata

in limine).

Ma il punto è che l’applicazione della norma, a volerla intendere, col

Chiovenda, come la dichiarazione della concreta volontà di legge rispetto al

contenuto della domanda giudiziale, è un lavoro complesso, non

un’operazione composta «da un solo sillogismo e scomponibile quindi in una

sola premessa minore e in una sola premessa maggiore». La conclusione

finale è sì unica, consistendo nell’accoglimento o nel rigetto della domanda

proposta dalle parti (lasciando da parte le ipotesi di cumulo obiettivo); ma

dietro di essa sta la ponderazione di una serie di questioni36

, non foss’altro

35

CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, cit., 30; ID., Istituzioni di diritto

processuale civile, cit., vol. I, 1 ss. 36

Anche a Pavanini sembra dunque evidente la scomposizione del giudizio in

questioni. Tuttavia, come osserverà più tardi CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit.,

125, nota n. 5, l’Autore tiene nettamente distinto il piano della scindibilità dei giudizi che

compongono la sentenza, ai fini della formazione dell’atto, da quello del frazionamento della

stessa ai fini dell’impugnazione (profilo, quest’ultimo, che si riallaccia alla dibattutissima

questione del concetto di «parte» o «capo» di sentenza in funzione della determinazione

dell’oggetto dell’impugnazione, su cui infra, cap. III). Il riconoscimento della scomponibilità

necessaria del giudizio in una serie di decisioni di questioni, ciò che evidente dal punto di

vista logico, si combina, e senza incoerenza, nella visione di Pavanini, con l’identificazione,

ai fini dell’impugnazione, del capo di sentenza con il capo di domanda: ciò, sulla base del

ben noto argomento per il quale «non si comprende come l’interesse ad impugnare una

sentenza di merito debba commisurarsi in rapporto alla domanda, se non in quanto ciò che

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che per il fatto che, anche nelle ipotesi più semplici, la norma non è

individuata in maniera automatica da un unico precetto, ma «la sua

fattispecie, la determinazione delle condizioni necessarie per metterla in

essere, le relazioni, che intercedono tra le varie norme, la definizione di

determinati concetti, che esse presuppongono, si trovano frazionate in altre

svariate proposizioni o articoli, che hanno rispetto alla norma dianzi definita

un carattere accessorio o coordinatore»37

.

Allora, suggerisce Pavanini, conviene parlare di applicazione della

norma come contenuto logico di un sillogismo compiuto accedendo ad una

nozione più ristretta e formale di norma, intendendola, cioè, come

proposizione di legge38

; e ammettere che questo diverso approccio fa

scricchiolare la contrapposizione tra il contenuto logico della decisione

interlocutoria e quello della decisione sul punto di diritto contemplata

dall’art. 54739

.

In effetti, il giudice di cassazione che vaglia l’errore di violazione di

legge, nel caso più tipico40

, che è quello del dubbio sull’esistenza o meno di

viene chiesto al giudice sia non già il riesame di una delle questioni pregiudiziali o

preliminari trattate e decise in prima sede, ma proprio una nuova decisione sul contenuto

della domanda stessa» (PAVANINI, op. cit., 140). Il che porta del resto il Pavanini a negare

decisamente l’operatività di preclusioni su questioni in sede di impugnazione e nel giudizio

di rinvio. 37

PAVANINI, op. cit., 110. 38

Cfr. PAVANINI, op. cit., 111. 39

Delle due, l’una: se applicare la norma giuridica significa applicare il diritto, allora

si deve sì dire che l’oggetto della decisione sul punto di diritto non è applicazione del diritto,

ma si deve anche riconoscere che la dignità di sentenza in quanto atto di applicazione del

diritto, seppure parziale, può essere riconosciuta solo ai pronunciamenti intorno ad oggetti

suscettibili, in astratto, di accertamento autonomo. Se, invece, per non dover giungere a

questa soluzione restrittiva e comunque contraria alla prassi, si accoglie il principio per cui il

sillogismo di una sentenza può avere come oggetto minimo l’esplicazione di una specifica

disposizione di legge, allora, per Pavanini, si deve concludere che tanto la sentenza

interlocutoria quanto la decisione in punto di diritto delle sezioni unite integrano un atto di

giudizio completo. 40

Ma più infrequente: cfr., per l’ovvia constatazione ma il contestuale rilievo che non

si tratta di un’ipotesi puramente di scuola, priva di esempi nella casistica, CALAMANDREI, La

Cassazione civile, vol. II, cit., 281.

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– 122 –

una determinata disposizione, non compie un’operazione logica

sostanzialmente diversa da quella del giudice di merito che emana una

sentenza interlocutoria: anche il giudice di cassazione, cioè, «sussume un

fatto concreto sotto la norma astratta, coll’unica differenza, in questo caso,

che il caso concreto è determinato dall’esistenza di quella specifica

disposizione di legge»41

(o, va aggiunto, dell’esistenza della disposizione di

legge in una certa chiave di lettura, nel caso di ricorso per errore di

interpretazione, che rappresenta comunque una questione sul modo di

esistenza della norma)42

.

Tanto basta, dunque, per ripudiare tutta la teorica della sentenza

soggettivamente complessa che sulla pretesa incompletezza strutturale e

contenutistica del dictum in iure delle sezioni unite si fonda, e approcciarsi in

maniera più spregiudicata all’analisi del fenomeno del vincolo, senza dover

rendere ossequio a (ri-)petizioni di principio.

La confutazione degli argomenti che militano contro la ragguagliabilità

della sentenze interlocutorie e delle pronunce rese dalla Suprema Corte in

base all’art. 547 consente infatti al Pavanini di assimilare, ormai senza

scrupoli eccessivi, la decisione delle sezioni unite alla pronuncia su questione

pregiudiziale, nella consapevolezza che la pregiudizialità «eventuale»43

della

41

PAVANINI, op. cit., 112. 42

PAVANINI, op. cit., 113. Per ragioni di convenienza, puntualizza Pavanini, il sistema

positivo può stabilire che «sia esclusa dal contenuto minimo di un provvedimento

interlocutorio la semplice applicazione di quelle disposizioni di legge, le quali comportano

alla loro volta, in definitiva, la determinazione di una delle premesse maggiori dei sillogismi,

che seguono in linea logica» (ID., op. cit., 115). Ma, aggiunge subito l’a., non vi è, alla base

di tale limitazione, un’esigenza sistematica: «e come può avvenire eccezionalmente che il

puro accertamento di un fatto dia luogo ad una controversia indipendente ed acquisti autorità

di cosa giudicata, così egualmente può avvenire che, in via eccezionale, il legislatore varchi i

confini segnati per il contenuto minimo di un provvedimento interlocutorio, senza che per

questo debba mutare la struttura logica del provvedimento stesso. È quanto avviene nel caso

dell’art. 547 c.p.c.» (ID., op. loc. ult. cit.). 43

Nel significato che emerge per contrasto con la pregiudizialità «reale», la quale

«non è accertabile normalmente prima della fine del giudizio, allorché si può esaminare se,

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– 123 –

decisione delle sezioni unite (stante la possibilità, per il giudice di rinvio di

lasciare inapplicato il principio di diritto a fronte di una diversa ricostruzione

dei fatti) si rintraccia anche nei provvedimenti interlocutori comuni, dei quali

a più riprese la dottrina ha evidenziato la condizione di «materiale solo

eventualmente utilizzabile nel corso del processo»44

. E gli permette, altresì,

di chiarire quale natura debba essere attribuita al vincolo della pronuncia ex

art. 547 proprio nel solco di un’analisi congiunta con quella del fenomeno

delle pronunce interlocutorie.

Nel prendere le distanze anche da Carnelutti, pur riconoscendo che

questo autore «è forse più vicino al vero (…) di quanto non sembri»45

,

Giovanni Pavanini non esita a respingere la tesi che attribuisce al vincolo la

natura del giudicato, ribadendo il noto argomento per il quale «la cosa

giudicata è riferibile solo alla sentenza definitiva, la quale accoglie o respinge

la domanda proposta dall’attore»46

; tuttavia, egli non considera neanche

soddisfacente il ricorso al concetto di preclusione.

Nella nozione tecnica di preclusione delineata dall’insegnamento

tradizionale, che configura la preclusione come la perdita o l’estinzione di

una facoltà o di un potere spettante alle parti – le cui cause vanno individuate

o nel fatto di aver compiuto un atto o un’attività incompatibile con l’esercizio

della facoltà di cui si tratta, o nel fatto di averla già validamente esercitata,

ovvero nel mancato tempestivo esercizio della stessa47

– è presente una

correlazione tra facoltà ed onere che voci autorevolissime, tra le quali quella

di Betti e di Carnelutti48

, non senza ragione, secondo Pavanini, hanno

avvertito l’esigenza di valorizzare. Se l’onere processuale consiste, per usare

nella sentenza definitiva, il giudice abbia posto effettivamente a base della sua pronuncia la

decisione sul punto»: PAVANINI, op. cit., 116, in nota. 44

V. supra, nota n. 16. 45

PAVANINI, op. cit., 117. 46

PAVANINI, op. cit., 116. 47

Cfr. CHIOVENDA, Cosa giudicata e preclusione, in Saggi, cit., 233 ss. 48

BETTI, Diritto processuale civile italiano, cit., 75-76; CARNELUTTI, Lezioni, cit.,

312 ss.

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– 124 –

la definizione carneluttiana, nel «mettere a carico della parte le conseguenze

della sua inerzia col disporre che un certo risultato utile alla parte medesima,

non possa essere conseguito altrimenti che colla sua attività»49

, bisogna

riconoscere che un concetto tecnicamente pregnante di preclusione ha

referenti immediati in tutti quei casi in cui l’impedimento al compimento di

determinati atti è riconducibile ad una programmata reattività dell’ordine del

processo ad un comportamento, attivo o inerziale, della parte50

. Mentre la

correlazione tra onere e facoltà, sebbene in grado di riassumere plasticamente

anche l’operatività del principio dispositivo51

, non sembra dare un contributo

decisivo all’intelligenza delle situazioni in cui la decisione su un punto

pregiudiziale formalizzata in un provvedimento che non chiude la lite non

può essere rinnovata nel corso dello stesso processo52

: situazioni, insomma,

in cui, alla consumazione dell’onere-facoltà della parte di chiedere, si

aggiunge una consumazione del potere-dovere del magistrato di pronunciare,

in merito a una certa questione, o di rendere una pronuncia inconciliabile con

la decisione pregressa (con un effetto, in sostanza, molto simile a quello della

cosa giudicata).

49

CARNELUTTI, op. ult. cit., 314. 50

« (…) si comprende facilmente», dice PAVANINI, op. cit., 118, «come la preclusione

serva benissimo ad illustrare la situazione giuridica creatasi in seguito alla mancata risposta

all’interrogatorio, al mancato disconoscimento di una scrittura e, in genere, all’inutile

decorso dei termini: casi tutti nei quali il vincolo del giudice costituisce un immediato

riflesso della perduta facoltà delle parti». 51

Essendo indubbio che la parte abbia l’onere di introdurre e circoscrivere il thema

decidendum in prime cure per ottenere la decisione sulla domanda, che in grado d’appello

abbia l’onere di impugnare i capi di domanda sui quali sia risultato soccombente, e che in

cassazione abbia l’onere di denunciare gli errori che colpiscono la sentenza impugnata, al

fine di conseguire il risultato utile dell’annullamento della sentenza impugnata di efficacia

accertativa, in modo da ottenere la riapertura del giudizio, in sede di rinvio. 52

Più precisamente, l’interlocutoria, quando ancora soggetta ad impugnazione, non è

rivedibile ad nutum dal solo giudice che l’ha pronunciata, e per i punti in essa risoluti

sussiste un divieto di rinnovabilità circoscritta alla fase del processo pendente dinnanzi a tale

giudice; mentre, dopo l’esperimento del gravame, o dal momento in cui sono spirati i termini

per proporlo, essa risulterà vincolante per qualsiasi giudice dello stesso processo: ed è questa

delle interlocutorie inoppugnabili l’ipotesi che Pavanini prende in considerazione per

commensurarne la portata a quella della pronuncia ex cpv. art. 547.

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– 125 –

L’insufficienza della concezione della preclusione come perdita di un

potere spettante alle parti sarebbe già dimostrata senza difficoltà dal fatto che

«per la risoluzione di questioni, sia di merito che processuali, e in particolare

quelle di puro diritto, che costituiscono l’ambito caratteristico dell’art. 547

c.p.c., è riconosciuto al giudice un potere di iniziativa indipendente

dall’impulso delle parti, il quale si presenta perciò come utile ma non

indispensabile»53

. Dunque una prima revisione critica, suggerita da Pavanini

alla teorica della preclusione, muove dalla semplice constatazione che, se dal

legislatore si ammette l’esaminabilità officiosa di certe questioni, ciò

significa perlomeno che la facoltà della parte di proporre quelle questioni si

pone già come più estesa del relativo onere, da un lato; ma anche, dall’altro

lato, che in merito alle questioni rilevabili d’ufficio in tanto si può parlare di

preclusione in quanto la nozione di preclusione venga intesa estensivamente

in maniera da farvi rientrare la perdita di facoltà spettanti al giudice.

Ma anche a voler aderire a questa nozione lata di preclusione, così da

potervi inquadrare l’esaurimento del potere di decidere le questioni il cui

esame non dipende necessariamente dall’impulso di parte e l’assottigliarsi

dello iura novit curia, a monte dell’effetto dell’indiscutibilità dei punti che

formano oggetto di un’interlocutoria o della pronuncia vincolante della Corte

ex art. 547 non sembra rintracciabile un’esigenza omogenea rispetto a quella

che caratterizza le preclusioni la cui ratio è di ordinare l’andamento del

processo attraverso la responsabilizzazione delle parti. Perché, in realtà,

rispetto ai punti decisi, parlare di preclusione serve solo ad illustrare l’aspetto

formale della situazione giuridica in cui è impedito alle parti di sollecitare e

al giudice di rinnovare il giudizio su questione già compiuto, e a mettere in

evidenza il carattere di immutabilità delle relative pronunce; mentre lascia in

ombra la ragione per cui, accanto al divieto di tornare a rivedere la questione

risolta, si determina che «un magistrato, il quale si trovi a decidere su altre

53

PAVANINI, op. loc. ult. cit.

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– 126 –

questioni dipendenti o connesse a quella decisa, debba porre a base della

nuova decisione la soluzione della questione emessa dal precedente giudice, e

nessun’altra»54

: si determina, cioè, un vincolo.

Secondo Pavanini, le difficoltà incontrate dalla dottrina

nell’inquadramento di questo vincolo sono per lo più dipese dall’erroneo

convincimento che non è concepibile un accertamento giurisdizionale dotato

di puro valore interinale; mentre è evidente che un’efficacia accertativa

compete non esclusivamente alla sentenza capace di cosa giudicata

sostanziale, ma anche a quelle decisioni il cui scopo non si esaurisce

nell’espletamento di una funzione ordinatoria, in quanto vengono rese in

itinere su passaggi pregiudiziali (o potenzialmente pregiudiziali) e

partecipano, perciò, quali atti giurisdizionali e nei limiti del processo in

corso, di quella autorità che la sentenza definitiva di merito manifesta di

fronte a qualsiasi altro giudice in ogni futuro processo. Solo l’efficacia di

accertamento, ancorché provvisoria55

, non già la preclusione, è in grado di

giustificare l’obbligo, in capo al giudice del processo in corso, di uniformarsi

alla decisione precedente: ciò che avviene tanto nel caso delle sentenze

interlocutorie di merito – il ricorso avverso le quali non sia stato proposto

ovvero sia stato respinto – quanto in quello della pronuncia ex art. 547, cpv.,

allorquando i punti ivi decisi risultano effettivamente rilevanti per la

definizione della causa nel merito.

Cosicché è lecito tutt’al più dire che il limite alla possibilità di discutere

è un effetto del valore dichiarativo che tali pronunce manifestano nell’ambito

del processo, destinato a stabilizzarsi quando il loro decisum confluisca nella

sentenza finale; o, per usare le parole dello stesso Pavanini, che «la

preclusione intesa come perdita di rifare un’attività decisoria già compiuta

rappresenta, se si vuole, il riflesso del vincolo derivante dalla quella

54

ID., op. cit., 120. 55

E necessariamente tale, ché la sicura presupposizione di una questione rispetto ad

un’altra non è accertabile, come abbiamo visto, che alla fine del processo: v. supra, nt. 43.

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– 127 –

decisione stessa, perché sarebbe inutile risolvere una seconda volta una

questione già trattata, quando questo accertamento, in virtù del vincolo in

parola, non può essere diverso da quello contenuto nel provvedimento

precedente»56

.

56

PAVANINI, op. cit., 121. Sembra doveroso aggiungere che il discorso sin qui svolto,

per la miopia che la ristrettezza tematica dell’indagine trascina inevitabilmente con sé come

inconveniente, ha dilatato in maniera notevole ciò che, nell’ottica di Pavanini, presenta

carattere di eccezionalità. E invero, nel pensiero dell’illustre giurista, la similarità tra

sentenza interlocutoria sul merito – avverso la quale non sia stato proposto o sia stato

respinto il gravame – e decisione della Corte sul punto di diritto ex art. 547 si manifesta

anche nell’indole eccezionale del fenomeno, descrittivamente qualificabile come preclusivo,

che ad esse è correlato. Da Pavanini s’intendeva infatti prioritariamente dimostrare che la

cognizione del giudice dell’impugnazione andasse commisurata al capo di domanda, e che i

singoli punti pregiudiziali di ciascun capo impugnato, nel passaggio da un grado all’altro di

giudizio, non acquistassero autonoma rilevanza accertativa, e dovessero pertanto considerarsi

liberamente riesaminabili. Per quanto riguarda, in particolare, il giudizio di rinvio, è noto che

il Pavanini fu tra i più fermi oppositori dell’idea della sussistenza di un sistema di preclusioni

nella fase post-cassazione. Rispetto a questo assunto generale, che Pavanini porta alle

estreme conseguenze, considerando devolute alla cognizione del giudice di rinvio,

nell’ambito dei capi cassati, non solo le questioni non denunziate, ma anche quelle

denunziate con mezzi respinti (ciò, in quanto «le questioni, deducibili come motivi di

ricorso, non vengono proposte davanti al Supremo Collegio allo scopo di essere cassate né

allo scopo di essere decise in maniera vincolante per i giudici chiamati a provvedere sulla

domanda, ma soltanto quali mezzi necessari a provocare la cassazione (…) dei capi di

sentenza; e questo fine può essere raggiunto coll’accoglimento o con la denuncia anche di

uno solo dei vari motivi dedotti o deducibili»: ID., op. cit., 194) spiccano, come eccezioni,

quanto al merito, le questioni pregiudiziali decise con sentenza interlocutoria contro la quale

non sia stata proposta o sia stata rigettata l’impugnazione, nonché il punto di diritto deciso

dalle sezioni unite in maniera vincolante per il giudice di secondo rinvio, per l’appunto. Un

discorso in parte diverso, invece, Pavanini sviluppava per ciò che riguarda i punti di rito: non

ammetteva la possibilità di ridiscutere le questioni processuali sulle quali la Cassazione

avesse provveduto in qualità di giudice di terza istanza e quelle sulle quali essa avrebbe

potuto pronunciarsi, se sollecitata dalla doverosa deduzione del ricorrente; mentre, a suo

avviso, risultava comunque riesaminabile in sede di rinvio la questione concernente la valida

costituzione del rapporto processuale che la Cassazione, pur potendo rilevare d’ufficio,

avesse in concreto omesso di rilevare (ID., op. cit., 187 ss.). Il dato di fondo, presupposto a

questa ricostruzione del sistema delle preclusioni, è una certa proposta interpretativa della

Cassazione e del giudizio di rinvio come fenomeno unitario: se l’Autore si interroga sulla

possibilità che «la cassazione, oltre al compito di cassare i capi della sentenza impugnati,

abbia anche quello di provvedere in modo definitivo sui singoli punti pregiudiziali, dedotti

come motivo di ricorso», lo fa con l’intento di respingere quest’ordine di idee, e di

concludere nel senso che «un’attribuzione di questo genere sarebbe in contrasto con la natura

del giudizio di cassazione» (ID., op. cit., 193), il quale ad altro non è preordinato che alla

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– 128 –

§ 2. Le proposte interpretative intorno alla natura del vincolo del

giudice di rinvio al principio di diritto enunciato dalla Cassazione nella

dottrina successiva all’introduzione del codice di rito.

Quello che in conclusione sia Carnelutti che Pavanini, pur nella

eterogeneità degli assunti di fondo, avevano convincentemente dimostrato,

già sotto la vigenza del codice del 1865, era che la formula della preclusione

poteva esser sì considerata come espediente semantico dotato di una

potenzialità descrittiva estremamente duttile e semplificante, ma non come

una categoria provvista di una soddisfacente utilità scientifica, sotto il profilo

rescissione della sentenza, onde consentire l’apertura di una «nuova istanza di giudizio». La

tesi centrale della sua opera è, infatti, che la fase del processo dinanzi al giudice di rinvio non

è la reintegrazione del secondo grado, bensì la manifestazione di una nuova istanza di

giudizio, cui si accede attraverso il varco aperto dalla rescissione della sentenza di appello

operata in Cassazione. In quest’ottica, il giudizio presso la Suprema Corte non si configura

come un giudizio a sé stante, radicantesi in un’azione autonoma di annullamento, come

nell’insegnamento di Calamandrei, ma rappresenta, piuttosto, una fase del medesimo

rapporto processuale instaurato con la domanda di merito, fase che pone capo esclusivamente

alla dichiarazione costitutiva intorno all’inefficacia, in presenza di vizi, del provvedimento

impugnato, cui segue il rinvio come fase processuale destinata alla decisione sulla domanda.

Da tale ricostruzione originava quello spregiudicato corollario, che Pavanini ricavava

sviluppando e generalizzando certi presupposti del magistero chiovendiano intorno alla

cassazione per errori di merito, secondo cui alla legislazione italiana non era sconosciuta

l’operatività di un modello di terza istanza, quanto piuttosto la possibilità che tale terza

istanza si svolgesse dinanzi ad un giudice superiore a quello dell’appello. Ora, per limitarsi

ad una valutazione di massima del pensiero complessivo dell’a., si deve senz’altro

riconoscere, per dirla con E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 121, che «la storia, a

ben guardare, è piuttosto contraria che favorevole al punto di vista di Pavanini»; ma è vero

anche, come osserva giustamente il PANZAROLA, La Cassazione civile giudice del merito,

vol. II; cit., 602, che l’importanza del contributo, il «carattere esemplare, diremmo

paradigmatico» della posizione di questo giurista che egli definisce «acutissimo» (ID., op. ult.

cit., 595) stanno nell’aver condotto «a svolgimenti coerenti» l’idea di capo di sentenza come

capo di domanda, suggerendo, in definitiva, che «se si accetta tale nozione di capo ogni

discorso intorno alle “preclusioni” su questioni in sede di rinvio diventa, se non impossibile»

(ché, a dire il vero, dal Fazzalari in poi, molti tentativi, e sempre più articolati, sono stati fatti

in tal senso), «vieppiù difficile» (ID., op. cit., 602). Non solo: nella nostra più modesta

prospettiva, le lucide riflessioni sul principio di diritto vincolante svolte dal Pavanini, come

vedremo meglio di seguito, contengono, secondo noi, un nocciolo di perdurante verità.

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– 129 –

dell’identificazione della natura del vincolo in capo al giudice di rinvio

all’allora reiterato dictum in iure della Suprema Corte.

Nella dottrina che, all’indomani della riforma, si accingeva allo studio

del nuovo articolo 384 c.p.c., immediatamente stimolata com’era dalla

innovazione in punto di efficacia delle enunciazioni in diritto ad opera della

Cassazione, riaffiorano di frequente gli accenti scettici dell’obiezione

pavaniniana circa la pretesa adattabilità al concetto di preclusione delle

situazioni cui mette capo la predisposizione legislativa di un vincolo, ossia di

un obbligo, dal contenuto evidentemente positivo, che impone al giudice del

processo di uniformarsi ad una precedente pronuncia.

«La preclusione», dirà Redenti in uno dei più pregevoli studi sul

principio di diritto che videro la luce negli anni immediatamente successivi

alla riforma – gli anni peraltro più prolifici, per quanto riguarda le indagini

sul tema – «nella accezione comune del termine, e quindi secondo la nozione

comunemente accolta, ha carattere essenzialmente negativo (barriera,

ostacolo perentorio a fare o a dire qualche cosa o a discutere di qualche

cosa)»57

, ed è pertanto concetto non confacente al nucleo essenziale di una

pronuncia in cui si ha un’indicazione positiva che rappresenta logicamente

«un prius del divieto di revocarla in dubbio»58

.

D’altro canto, a rivangare i dubbi sulla possibilità di ricondurre al

genus delle preclusioni l’efficacia vincolante dell’enunciazione in iure della

Corte, contribuiva senz’altro l’introduzione della disposizione di cui all’art.

393 al codice di rito, disposizione volta a sancire, per l’ipotesi di estinzione

57

REDENTI, Il giudicato sul punto di diritto, in Scritti Carnelutti, cit., 695, in nota. E

non può a questo punto omettersi il riferimento alla famosa tesi di ATTARDI, riccamente

esposta e argomentata prima nell’articolo Per una critica al concetto di preclusione, in Jus

1959, 1 ss., poi alla voce Preclusione (principio di), in Enc. Dir., vol. XXXIV, Milano 1985,

893 ss. circa la carenza di autonomia concettuale del concetto di preclusione come estinzione

del potere di pronunciare su una questione già decisa: concetto che, ad avviso dell’a., è in

quanto tale riconducibile all’operatività del ne bis in idem, quale principio logico-giuridico

che si manifesta in ogni ramo del processo e che impedisce l’ingresso nel mondo giuridico di

un atto che abbia la stessa direzione pratica di un altro già posto in essere. 58

REDENTI, op. loc. ult. cit.

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– 130 –

del giudizio di rinvio, la permanenza dell’effetto vincolante delle pronunce

della Cassazione nel nuovo processo instaurato con la riproposizione della

domanda.

Molti, infatti, tra i commentatori della riforma, salutarono tale

disposizione come decisiva, ai fini del definitivo abbandono della teoria di

ascendenza chiovendiana e calamandreiana del principio di diritto quale

preclusione, rilevando come, mentre la preclusione si caratterizza per essere

un fenomeno endoprocessuale, con l’art. 393 c.p.c. veniva in definitiva

consacrata la fuoriuscita del vincolo al dictum in iure della Cassazione

dall’ambito del giudizio in cui detto vincolo si era costituito, e la sua

esondazione in un diverso processo, quale quello che le parti possono

instaurare con la riproposizione della domanda.

Anche da parte di chi, dopo la riforma del codice di rito e la

mobilitazione del quadro normativo relativo all’efficacia delle pronunce della

Cassazione, riteneva di dover confermare la posizione adottata sotto

l’ordinamento previgente a favore della teoria della preclusione, era

comunque avvertita l’esigenza di operare una messa a punto dei termini della

questione, proprio al fine di fugare la diffusa percezione che la disciplina

dell’estinzione del giudizio di rinvio contenuta all’art. 393 c.p.c. avesse

decretato la positiva esclusione del vincolo della pronuncia in iure della

Corte dall’area delle preclusioni.

Paradigmatico, in tal senso, l’atteggiamento di Costa: pur riconoscendo

che la disposizione dell’art. 393 getta nuove luci sulla questione, ché,

ammette l’Autore, «sembrerebbe (…) che si esca fuori dal campo della

preclusione, in quanto l’efficacia del vincolo viene a proiettarsi nei processi

futuri»59

, Costa respinge, in critica alla posizione tempestivamente

59

COSTA, Sull’effetto vincolante della sentenza della Corte di cassazione per

violazione di legge, cit., 131.

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– 131 –

manifestata dal Micheli60

, l’idea che la nuova regolamentazione dell’art. 393

abbia caducato la possibilità d’inquadrare il vincolo tra le preclusioni; e, al

fine di legittimare la compatibilità tra l’efficacia ormai dichiaratamente

extraprocessuale del dictum in iure della Corte e la nozione di preclusione, si

rifugia sotto la sempre prestigiosa egida dell’autorità chiovendiana.

Il maestro piemontese, ricorda infatti Costa, nel formulare l’assunto

generale secondo cui la preclusione trova applicazione, in principio, nel solo

ambito dello stesso processo in cui essa viene a prodursi, lo aveva in pari

tempo corredato di una derogabilità ope legis, ammettendo che ragioni di

opportunità pratica potessero persuadere il legislatore a disciplinare

esplicitamente casi di estensione a processi futuri dell’efficacia preclusiva,

normalmente interna, di un atto. E, in proposito, aveva addotto, quali esempi

di simili ipotesi eccezionali, il caso delle sentenze interlocutorie e quello

delle prove del processo perento, che, giusta l’art. 341 del codice abrogato,

restavano salvi nonostante la perenzione61

.

Ebbene, Costa si avvale del conforto delle appena ricordate

puntualizzazioni di cui Chiovenda circonda l’affermata dicotomia tra

giudicato materiale e preclusione, per confermare quanto aveva già sostenuto

sotto l’ordinamento previgente62

, e cioè che il vincolo al principio di diritto

enunciato dalla Suprema Corte all’atto di accogliere un ricorso per violazione

o falsa applicazione di legge rappresenta un caso classico di preclusione, la

cui efficacia il legislatore del ’40 ha voluto, per motivi speciali, estendere

anche ai processi futuri63

.

60

Nel primo dei due scritti dedicati al principio di diritto pubblicati dall’Autore:

MICHELI, L’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di Cassazione nel

nuovo codice di procedura civile, cit., 255 ss. 61

CHIOVENDA, Istituzioni, vol. I, cit., 348. 62

Cfr. COSTA, Rilievi sulla Corte di cassazione nel processo penale, cit., 468 ss. 63

Alla possibilità di talune preclusioni di esplicare efficacia anche al di fuori del

processo si riferisce anche CALAMANDREI, La sentenza civile come mezzo di prova, in Riv.

dir. proc. 1938, I, 127 ss., ove, nell’additare l’opportunità di rimeditare il problema delle

preclusioni, l’a., facendo esplicito riferimento agli art. 341 e 547 c.p.c. abr., si chiede «se i

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La circostanza, poi, che tale estensione non riguardi tutti i giudici

futuri, bensì solo quelli investiti del giudizio instaurato con la riproposizione

della domanda, ossia identico al processo estinto negli elementi essenziali

(persone, oggetto, causa petendi) sarebbe, ad avviso di Costa, la riprova del

fatto che l’effetto vincolante previsto dall’art. 384 c.p.c. non è assimilabile al

giudicato, laddove l’autorità di cosa giudicata non incontra limitazioni di

sorta64

.

Tale precisazione si colloca nel solco della dichiarata esigenza di

recuperare la secca alternativa tra giudicato e preclusione che, a dire di Costa,

Micheli avrebbe inconcludentemente eluso, limitandosi a qualificare il

vincolo come fenomeno sui generis, non già preclusivo perché ormai assistito

da efficacia extraprocessuale, ma con qualcosa in meno rispetto al giudicato,

la cui tipica forza è irriconoscibile in un provvedimento giurisdizionale che

non attribuisce definitivamente all’una o all’altra parte il bene della vita

conteso.

Invero, il tentativo, denunciato dal Costa, di superare, per

l’inquadramento del vincolo alla pronuncia in punto di diritto della

Cassazione, i termini della «rigida alternativa»65

tra giudicato e preclusione

casi di preclusioni operanti in un processo diverso non siano per avventura più frequenti di

quello che finora si è insegnato» (la riferibilità di questa proposizione al vincolo del giudice

di secondo rinvio si spiega alla luce della concezione accolta dall’Autore del ricorso per

cassazione come rimedio straordinario radicantesi in un’azione autonoma di annullamento,

che spezza la continuità tra il segmento di giudizio anteriore al ricorso in cassazione e il

giudizio di annullamento seguito dalla fase di rinvio. Il rinvio viene a questa stregua

configurato come riapertura di un processo già chiuso, a complemento della rescissione

operata dal Supremo Collegio, e quindi, in un certo senso, come processo “diverso” da quello

instaurato con la domanda avanzata in prime cure e culminato in secondo grado: in ogni

caso, come una fase nuova del processo di merito, dall’indole ibrida, in parte di

rinnovazione, in parte di continuazione del giudizio di appello). Del resto, in conformità con

le immutate posizioni assunte in tema di giudizio di cassazione a seguito della riforma,

Calamandrei confermerà la natura preclusiva del vincolo configurato dall’art. 384: cfr.

CALAMANDREI-FURNO, voce Cassazione civile, cit., 1099-1100. 64

COSTA, Sull’effetto vincolante…, cit., 133. 65

Così, MAZZARELLA, Appunti, cit., 1470.

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– 133 –

che avevano caratterizzato il dibattito anteriore alla riforma, si manifestava

piuttosto generalizzato.

Ma accanto a coloro che, come Micheli prima e Andrioli poi,

prospettavano una terza soluzione al problema dell’identificazione della

natura del vincolo, scorgendovi un’efficacia di intensità “intermedia” tra

quella propria della preclusione e quella tipica del giudicato, c’era anche chi

rivisitava e ammodernava le tesi già ampiamente rodate sotto il vecchio

codice.

2.1. Il giudicato sul punto di diritto.

In questa prospettiva si colloca la proposta interpretativa offerta dal

Redenti, cui notoriamente si deve il primo originale ripensamento della

formula del giudicato in relazione al vincolo de quo.

La premessa da cui muove Redenti è la diversità di natura tra i giudicati

di merito e quelli che si caratterizzano per il fatto che, pur senza incidere sui

rapporti o le situazioni di diritto sostanziale, vincolano tutti i giudici futuri

dinanzi ai quali la domanda venga riproposta66

; ossia, in altri termini, la

66

E non solo quelli dello stesso processo, ché, in tal caso, viene in rilievo una terza

categoria di efficacia, a carattere meramente endo-processuale, com’è nell’ipotesi della

pronuncia del giudice di merito passata formalmente in giudicato che decide sulla

competenza e non sulla domanda: se il processo si estingue, e la stessa domanda venga

nuovamente proposta, la competenza andrà determinata, infatti, «a caso vergine secondo le

regole di legge», indipendentemente dalla decisione precedente (l’esempio classico è offerto

dallo stesso REDENTI, op. loc. ult. cit.). Di efficacia processuale-universale o pan-processuale

si tratta, invece, quando la stabilità di una pronuncia a contenuto processuale non è confinata

nei limiti dello stesso processo in cui viene emessa, il che ad esempio avviene qualora la

decisione sulla competenza provenga dalla Cassazione: l’art. 310 c.p.c. fa infatti salve,

rispetto all’estinzione, le sentenze che «regolano la competenza», cioè quelle promananti dal

Supremo Collegio in qualità di organo regolatore della stessa. Per Redenti, l’efficacia

correlata a pronunce come questa, vincolanti per qualsiasi giudice futuro, ma non incidenti

sulla pretesa di diritto sostanziale, è eterogenea rispetto a quella contemplata dall’art. 2909

c.c., anche se, come l’a. stesso riconosce, tale prospettiva, accolta come sfondo del discorso

intorno al vincolo di cui all’art. 384, lambisce una questione in realtà assai dibattuta, circa la

natura sostanziale o processuale del giudicato di merito (quest’ultima da concepirsi come

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– 134 –

distinzione tra efficacia di giudicato materiale-sostanziale riconducibile

all’art. 2909 c.c. e quella che egli definisce come efficacia «processuale-

universale» o «pan-processuale». Postosi di fronte all’interrogativo se

l’efficacia del principio di diritto enunciato dalla Cassazione ai sensi dell’art.

384 sia da ricondurre all’una o all’altra categoria, Redenti non dubita che si

debba abbracciare la soluzione «materiale-sostanziale», e che l’ipotesi in

esame debba qualificarsi come «giudicato sul punto di diritto»: «non tanto

perché la decisione della Corte tocchi per il suo contenuto un punto attinente

al merito, il che di per sé potrebbe anche non condurre a conseguenze», come

avveniva nel codice previgente in sede di primo rinvio, quanto piuttosto per

una «omogeneità intrinseca» tra la pronuncia di cui all’art. 384 e quelle di

accertamento «pieno» contemplate dall’art. 2909 del codice civile67

.

A tale convincimento Redenti è condotto principalmente dalla

considerazione della disposizione che egli reputa «veramente cruciale»68

,

quell’art. 393 che, a suo dire, facendo uscire dall’ambito dello stesso

processo l’efficacia vincolante del principio di diritto, ne smentisce

l’apparenza di endo-processualità che potrebbe desumersi dall’isolata

equipollente all’efficacia qualificata dall’a. come pan-processuale, dalla quale differisce solo

per il fatto di appuntarsi su un contenuto sostanziale, ma non quanto all’effetto diretto e

primario, consistente semplicemente nell’impossibilità per i giudici eventualmente aditi in

sede di tutela giurisdizionale di disattendere quanto già deciso: lungi dal voler proporre

anche solo una bozza delle coordinate dottrinarie di un problema così intricato e complesso,

si rinvia, per la tesi del carattere processuale del giudicato di merito, al SEGNI, Della tutela

giurisdizionale dei diritti, in Commentario del codice civile, diretto da SCIALOJA e BRANCA,

VI, Bologna-Roma, 1953, sub. art. 2909, 326, nonché all’HEINITZ, I limiti oggettivi della

cosa giudicata, Padova 1937, 50 ss., e, ancora, per la teoria dell’unità del concetto di cosa

giudicata, come qualità degli effetti della sentenza ed a prescindere dal suo contenuto –

sostanziale o processuale –, all’autorevole magistero del LIEBMAN, Efficacia e autorità della

sentenza, Milano 1935, 45 ss.,; mentre, lo stesso Redenti richiama, a sostegno della

concezione materiale del giudicato di merito, l’insegnamento dell’ALLORIO, La cosa

giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935, nn. 4 ss., nonché quello carneluttiano delle

Istituzioni). 67

REDENTI, op. cit., 696. 68

REDENTI, op. cit., 694, in nota.

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– 135 –

osservazione dell’art. 384, e ne consacra l’incidenza sul «mondo dei

fenomeni di diritto sostanziale»69

.

Ciò che accade, argomenta il Redenti, quando un rapporto o a una

situazione sono concretamente definiti con sentenza passata in cosa giudicata,

e cioè che le parti, nel regolare la loro condotta, in relazione a quel rapporto o

a quella situazione, devono non più attingere direttamente alle fonti

normative, ma fare esclusivo riferimento al dictum giudiziale intervenuto tra

di esse, si verifica anche quando sia sopraggiunta una pronuncia vincolante

ex artt. 384 e 393 c.p.c., allorché le parti sono avvertite che la norma

applicabile alla fattispecie fattuale così come pervenuta in cassazione è quella

enunciata dal giudice supremo e non può essere un’altra, anche se il processo

dovesse estinguersi e la vicenda processuale ricominciare ab ovo.

Esse potranno ancora confrontarsi sul terreno della ricostruzione storica

del fatto, e da una diversa rappresentazione degli elementi della fattispecie

concreta dedurre conseguenze giuridiche discordanti; tuttavia, dopo

l’enunciazione del principio di diritto ad opera della Cassazione, se la

ricostruzione quoad factum risulta immutata, non c’è altra via, che non

esponga le parti alle conseguenze di una condotta antigiuridica, che quella di

conformarsi all’enunciato giuridico della Suprema Corte.

Se il principio di diritto non produce tutti gli effetti del giudicato, ciò è

dovuto solo alla circostanza che la sua formulazione non si accompagna ad

un accertamento definitivo dei fatti, ma è proclamato in relazione alla

situazione esposta e considerata nella sentenza impugnata, per come

ipostatizzata nel giudizio che vi ha messo capo, mentre resta ancora sub

iudice la verifica an vera sint exposita.

La circostanza, però, che il dato fattuale è ancora in tutto o in parte

ipotetico, non toglie che le parti, si vera sunt exposita, dovranno ormai

riferirsi alla regula iuris pronunciata dalla Corte, perché tra loro sussiste

69

REDENTI, op. cit., 700.

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– 136 –

«(quasi come in singulos lata) una lex specialis, dettata come comando

ancora ipotetico, ma in ipotesi concreto»70

: ciò che appunto autorizza Redenti

a parlare di giudicato – ossia comando categorico – sul punto di diritto.

70

REDENTI, op. loc. ult. cit. A corredo della soluzione propugnata, volendo poi

spiegare in pratica come operi l’accertamento contenuto nella pronuncia sul punto di diritto

della Suprema Corte rispetto all’accertamento «pieno» sull’oggetto del giudizio, e come

ipoteticità e concretezza possano convivere nell’accertamento contenuto nella pronuncia ex

artt. 384 e 393 c.p.c., Redenti adduce un esempio divenuto celebre, che svolge secondo il

canonico ricorso al procedimento sillogistico-discorsivo tipico del ragionamento del giudice

in iudicando. Egli immagina che dinanzi al giudice di merito sia stata messa in discussione

l’efficacia, e dunque l’applicabilità, di una certa clausola contrattuale, sostenendo trattarsi di

clausola-oro; e che il giudice di merito, ritenendo conforme alla legge tale genere di clausole,

abbia respinto la pretesa fondata sull’assunto della loro inefficacia, essendo questo

l’argomento allegato, non importa se in via d’azione o di eccezione, dalla parte interessata

alla disapplicazione della clausola. Ipotizza, poi, che la Corte di cassazione vada in contrario

avviso, e che cassi con rinvio riformulando la premessa maggiore del sillogismo del giudice

di merito, ossia enunciando il principio di diritto secondo il quale le clausole-oro sono vietate

dalla legge. A cassazione avvenuta, però, resta aperta la discussione sulla premessa minore

del ridetto sillogismo, potendosi ridiscutere in linea di fatto sul punto che quella clausola sia

o non sia una clausola-oro ai sensi della legge; e l’enunciazione «formalmente categorica»

della Corte troverà applicazione solo se la precedente rappresentazione giuridica del fatto

(premessa minore) risulti inalterata: ciò da cui discende ex necesse che l’applicazione pratica

del principio giuridico enunciato dalla Corte in sede di conclusione del sillogismo rimane nel

campo delle ipotesi. «Ma», incalza REDENTI, op. cit., 704, «non si potrà dire con ciò o per

ciò che la Corte di cassazione non abbia ancor fatto (detto) alcunché di sostanzialmente

rilevante, dal momento che ha fissata una volta per sempre quella regula iuris, escludendo o

precludendo di ricorrere nuovamente alla legge onde ricavarne per interpretazione una regola

diversa» (c. n.): regula iuris che «“varrà” (dovrà essere applicata) anche se il processo si

estingua nel passaggio al giudice ad quem o nella fase di rinvio davanti a lui, quale che sia

poi il giudice davanti al quale venga riproposto da capo», ma che «“varrà” naturalmente solo

per quel dato caso concreto (cioè per quella data clausola di quel dato contratto, fra quelle

date parti)»: ID., op. loc. ult. cit. Quanto alla giustificazione dogmatica della teorica del

«giudicato sul punto di diritto», in rapporto al giudicato proprio dell’accertamento pieno,

Redenti muove dalla concezione dell’azione come «diritto che ante rem iudicatam è soltanto

configurato e vantato, affermato o preteso» e, nello stabilire una necessaria corrispondenza

tra il nucleo azione-eccezione così inteso e la consistenza del giudicato, rappresenta

l’accertamento pieno dotato di autorità di cosa giudicata come pronunciamento irretrattabile

del giudice che ha certamente e invariabilmente ad oggetto i rapporti o le situazioni di diritto

sostanziale sottostanti all’azione proposta o all’eventuale eccezione dedotta in suo

contrapposto, ma che, d’altro canto, «non può formarsi se non con effetti diretti limitati alla

sfera soggettiva dell’azione-eccezione secondo i relativi schemi legali, la quale sfera può

anche esser diversa e più ristretta della sfera soggettiva dei rapporti o situazioni sottostanti».

In altri termini, dice Redenti, in critica alla tesi del SEGNI, Della tutela giurisdizionale dei

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– 137 –

2.2. Il principio di diritto nella teoria dei giudicati sulle fattispecie. Critiche

e posizioni intermedie.

La tesi redentiana riscontrò un certo seguito, in dottrina71

. All’apice

dello sviluppo di questo filone dottrinario, si pongono soprattutto le

puntualizzazioni concettuali di Denti, il quale, dichiarando insoddisfacenti i

tradizionali strumenti dogmatici che lo stesso Redenti, pur nella ingegnosità

dell’intuizione, aveva impiegato (ossia la formula del «giudizio ipotetico» e

quella della imperatività circoscritta alla cd. «premessa maggiore» del

procedimento deduttivo del giudice, propria dell’ottica sillogizzante), svolge

l’analisi del «giudicato sul punto di diritto» contemplata dagli artt. 384 e 393

c.p.c. nel più ampio quadro del fenomeno dei «giudicati sulle fattispecie»:

diritti, cit., i limiti soggettivi della cosa giudicata, lungi dall’essere un ostacolo ad accogliere

la concezione materiale-sostanziale del giudicato, discendono dall’accoglimento della

concezione di azione come «diritto inter partes», potremmo dire come diritto che

dinamicamente si specifica nella “litigiosità” della res in iudicium deducta: «sappiamo tutti»,

osserva Redenti, «che si può formare un giudicato relativo (cioè tra le parti dell’azione) di un

diritto erga omnes, ut puta l’accertamento di un diritto di proprietà fra le parti di un’azione di

rivendica (…)». La sfera dei limiti oggettivi va poi determinata in relazione a quella dei

limiti soggettivi, aggiunge l’a., tenendo a precisare che l’accertamento espresso «verrà dato a

tutti gli effetti (inter partes) o perché ciò sia legalmente necessario o perché le parti stesse lo

chiedano in via incidentale (art. 34)». Chiarito ciò, l’a. può discendere ad analizzare il

contenuto del giudicato sul punto di diritto. Anche la pronuncia in punto di diritto, egli

afferma, vertente su un dubbio intorno ad una questione, non può che essere provocata dalla

proposizione di una determinata azione affermata o di una determinata eccezione dedotta in

giudizio: fin qui, dice Redenti, «c’è identità di presupposti o di ragioni con l’accertamento

“pieno”» (ID., op. cit., 704, c.n.). La differenza sta nel fatto che l’accertamento di cui all’art.

384 non si spinge alla fissazione del fatto, dal che discende che la sua applicazione resta pur

sempre ipotetica. Ma, quanto ai limiti soggettivi e oggettivi della sua efficacia, a

quell’accertamento che accede comunque al referente sostanziale di una pretesa esibita sono

applicabili «gli stessi criteri che si sarebbero applicati per un accertamento “pieno”, che

domanda od eccezione avrebbero potuto provocare se quella volta si fosse giunti anche

all’accertamento del fatto (e quindi alla concreta applicazione delle regole al fatto)»: ID., op.

cit., 705. Questo è ciò che in sostanza ha sancito l’art. 393: che col dictum in iure della

Suprema Corte, le parti riandranno sempre incontro a quella regula iuris in singulos lata,

come nel giudicato conseguente all’accertamento pieno, con la differenza, rispetto a quello,

del limite dell’operatività del rebus sic stantibus. 71

Cfr. DENTI, I giudicati sulle fattispecie, cit., 1340 ss.; GIUDICEANDREA, Le

impugnazioni civili, vol. II, Milano 1952, 355 ss.

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– 138 –

espressione di per sé eloquente, della quale egli si serve anche per definire il

«parallelo fenomeno del giudicato sul “punto di fatto”»72

.

Alla base della teoria di Denti, vi è l’osservazione di alcune ipotesi,

desumibili dall’intero sistema, in cui si realizza una scissione tra il

regolamento normativo come effetto della pronuncia giudiziale e l’effetto

giuridico della fattispecie normativa considerata nella pronuncia medesima;

l’osservazione, in altri termini, della possibilità, ammessa dall’ordinamento,

che la statuizione operi sulla fattispecie, lasciando però fuori di sé l’effetto

giuridico proprio della fattispecie stessa. Il dictum pronunciato dalla Corte ai

sensi dell’art. 384 rappresenterebbe una tipica manifestazione di questo

fenomeno – o di questa fenomenologia decisoria – che l’autore non esita a

considerare come attività di vero e proprio accertamento, la cui nota

distintiva, rispetto all’accertamento “pieno” inerente alle normali pronunce

giurisdizionali, starebbe appunto nell’«essere escluso dall’oggetto della

pronuncia l’effetto giuridico, che consegue all’integrale verificarsi delle

fattispecie dei diritti, poteri e stati giuridici oggetto del processo»73

.

Ora, per Denti, non vi sono impedimenti a riconoscere che

l’accertamento della Corte, come pure tutti quelli operanti sulla fattispecie,

sebbene non sull’effetto giuridico, sia da ricondurre nell’alveo del giudicato,

e non già in quello delle preclusioni processuali, in quanto espressione

72

DENTI, op. cit., 1326 ss. Quanto al fenomeno del giudicato sul punto di fatto, l’a. ne

ravvisa un esempio nella previsione dell’art. 28 c.p.p. abr., ove si leggeva che «fuori dai casi

preveduti dall’articolo precedente, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di

proscioglimento pronunciata in seguito a giudizio e il decreto di condanna divenuto

esecutivo hanno autorità di cosa giudicata nel giudizio civile o amministrativo, quando in

questo si controverte intorno a un diritto il cui riconoscimento dipende dall’accertamento dei

fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, salvo che la legge civile ponga

limitazioni alla prova del diritto controverso». In questo caso, secondo Denti, oggetto del

giudicato penale è «la mera rilevanza giuridica del fatto (…), mentre l’accertamento

dell’effetto giuridico appartiene al giudice, civile o amministrativo, chiamato a decidere

intorno ad una fattispecie che ha tra i suoi elementi costitutivi il fatto penalmente rilevante»:

ID., op. cit., 1338. 73

DENTI, op. cit., 1345 (corsivo nostro).

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– 139 –

dell’esercizio della funzione decisoria propria della giurisdizione74

. Ciò, a

motivo della considerazione che la pronuncia della Corte sul punto di diritto

è, potremmo osare dire, «meritale» quanto al fatto che giudica intorno ad una

fattispecie puntualmente identificata, soggettivamente e oggettivamente;

mentre la circostanza che la Suprema Corte sia vincolata, in questo giudizio,

ad una determinata ipotesi di fatto75

– circostanza che dipende dalla presenza

di vincoli posti dalla legge all’estensione dei poteri del magistrato di

cassazione – non toglie che la sua statuizione, afferente ad una fattispecie ben

determinata in taluni dei suoi elementi, sia da considerarsi come

74

A dimostrazione di ciò, l’a. instaura un’ardita analogia tra le pronunce giudiziali e

le norme giuridiche generali, posto che l’atto di accertamento, in quanto costituente

manifestazione del potere giurisdizionale, dà vita pur sempre ad una norma, sia pure operante

come lex specialis: come tra le norme giuridiche ve ne sono alcune, qualificate dalla dottrina

civilistica come interpretative, le quali si limitano ad intervenire sulla fattispecie,

concorrendo a determinarla, che non sono meno «normative» rispetto alle disposizioni che

operano direttamente sugli effetti della fattispecie, ossia quelle dispositive o quelle

suppletive, così pure si può immaginare che alcune pronunce possano o debbano limitarsi a

predeterminare un regolamento parziale della fattispecie, rispetto alla fattispecie totale da

definirsi in un momento successivo. Mutatis mutandis, le decisioni sul punto di diritto (o su

quello di fatto), cui non si àncora l’effetto giuridico tipico della fattispecie integralmente

considerata, costituisce una base imprescindibile di partenza come la valutazione che la legge

operi rispetto ad una dichiarazione o un comportamento negoziale: «nell’un caso e nell’altro,

infatti, vi è un vincolo a configurare dati elementi della fattispecie secondo un modello

oggettivamente presupposto»: DENTI, op. cit., 1346. 75

La possibilità che tale ipotesi di fatto sia divergente dalla realtà storica, e che tale

divergenza resti ancora appurabile nel successivo sviluppo della vicenda processuale, non ha

giuridica rilevanza, perché, dice DENTI, op. cit., 1344, il vincolo imposto al giudice di

cassazione alla rappresentazione dei fatti operata dal giudice a quo «non è diverso e

maggiore di quello che è imposto ai giudici di merito da talune regole probatorie (ad

esempio, dalle regole di prova legale)». Il parallelismo è dichiaratamente ritratto

dall’ALLORIO, Per una teoria dell’oggetto dell’accertamento giudiziale, in Jus 1955, 202 ss.,

dal quale, tuttavia, Denti dissente quanto alla ricostruzione della natura della pronuncia in

punto di diritto ad opera della Corte: Allorio infatti riconduce l’ipotesi di specie nella

categoria delle preclusioni, quali vincoli di natura meramente processuale, la cui scaturigine

egli individua in una particolare classe di norme del giudizio, da lui definite «decisorie non

sostanziali», le quali impongono al giudice «di discostarsi dall’applicazione delle normali

regole sul contenuto dell’accertamento giurisdizionale»: DENTI, op. loc. ult. cit.

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– 140 –

accertamento giudiziale, non già «semplice opera di storico, né semplice

opera di consulente»76

.

In proposito, è opinione di Denti che si discorre impropriamente

dell’accertamento de quo quando lo si definisce come statuizione a carattere

«generico-condizionato», o «ipotetico»: posto, infatti, che «non può darsi

accertamento dell’effetto giuridico senza accertamento totale della fattispecie

produttiva» di quell’effetto, più che di accertamento condizionato, dovrebbe

parlarsi di accertamento parziale della fattispecie, perché a carattere

«generico-condizionato» non è l’atto di accertamento in sé, bensì il suo

oggetto77

.

Onde l’esigenza, particolarmente sentita da Denti, di valorizzare

l’attributo della «concretezza» del principio di diritto, riconosciuto a più voci,

e in maniera trasversale, dalla dottrina, ma sul quale egli ritiene di dover

ulteriormente insistere: l’effetto vincolante del principio di cui all’art. 384

non si sostanzia nella risoluzione di una quaestio iuris pura e semplice, bensì

nella determinazione della regola aderente alla fattispecie concreta, nei suoi

elementi costitutivi; e, conseguentemente e coerentemente con le premesse,

«la possibilità di un diverso accertamento discende non da una diversa

ricostruzione della medesima fattispecie, bensì dalla ricostruzione di una

fattispecie diversa»78

.

Dalla possibilità, cioè, più o meno ampia a seconda che protagonista

della dichiarazione dell’effetto giuridico sia il giudice di rinvio o il giudice

del processo riproposto, che l’accertamento si svolga su altri presupposti

rispetto a quelli su cui la Corte ha pronunciato, tali da non far riscontrare la

fattispecie pregressa e incontrare il vincolo su questa formatosi.

Che la giurisdizione possa esplicarsi anche limitando l’indagine alla

verifica di una parte soltanto della fattispecie produttiva di una certa

76

DENTI, op. cit., 1345. 77

DENTI., op. cit., 1347, nt. 67. 78

DENTI, op. cit., 1347.

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– 141 –

situazione giuridica sulla quale si controverte in giudizio, senza esplorare gli

altri elementi di cui la fattispecie si compone, sembra del resto esplicitamente

ammesso dal legislatore in un caso specifico, dal quale si può però trarre

un’indicazione di tipo sistematico, suscettibile di generalizzazione: la

pronuncia di condanna generica, ex art. 278 c.p.c., con cui il giudice,

accertando la sussistenza di un atto illecito astrattamente idoneo a produrre il

danno – l’an debeatur – emette sentenza di condanna, in pari tempo

disponendo con ordinanza l’istruttoria ai fini della determinazione del

quantum.

Secondo Denti, ha ragione Carnelutti a descrivere questa ipotesi come

un caso di «mezza condanna», in cui il giudice, dei due elementi – ossia

l’azione e l’evento – di cui si compone l’atto illecito dannoso, fa oggetto di

decisione solo il primo, e a dire che «quando il giudizio di liquidazione si

chiude negativamente, non v’è condanna che si revoca, ma una condanna che

non si completa»79

. In effetti, per Denti, questo modo di ricostruire la

condanna generica come determinazione parziale della fattispecie costitutiva

del diritto al risarcimento del danno dà conto proprio dell’atteggiarsi dei

giudicati sulle fattispecie, e sottintende la consapevolezza che un vincolo di

giudizio, se può interessare solo alcuni elementi della fattispecie, e coesistere

con la libertà del giudice nell’indagine intorno agli altri elementi, può

cionondimeno essere ascritto all’area della cosa giudicata, senza che la

confutazione o la vanificazione cui esso è di fatto esposto suggerisca di

rifugiarsi nel concetto, largamente attinto dai pratici per spiegare la pronuncia

vincolante prevista dall’art. 384, della «condizionalità» della formula

decisoria.

È piuttosto nella parzialità dell’accertamento di cui all’art. 384 che si

radica la minore intensità degli effetti della statuizione de qua rispetto a

quelli relativi all’accertamento pieno di cui all’art. 2909 c.c.: le restrizioni cui

79

CARNELUTTI, Condanna generica al risarcimento del danno, in Riv. dir. proc.

1952, I, 324 ss.

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– 142 –

la efficacia del dictum della Corte va incontro discendono dunque non da una

diversità di natura tra la cosa giudicata e il principio di diritto, quanto

piuttosto da circostanze normative estrinseche, oppure dalla «naturale

limitazione del contenuto dell’accertamento propria dei giudicati sulla

fattispecie»80

.

Quest’ultima precisazione è per Denti occasionata dall’esigenza di

smentire le ricadute di ordine sistematico che da taluni autori – dall’Andrioli

in particolare – si era ritenuto di dover ricavare dalla più circoscritta

vincolatività del dictum della Corte rispetto all’efficacia della sentenza

passata in cosa giudicata.

Com’è noto, Andrioli, nell’analisi specificamente condotta sul principio

di diritto81

, mirava essenzialmente, pur senza aderire al “partito” della

preclusione, a recuperare le distanze tra la statuizione della Corte sulla

quaestio iuris e la pronuncia passata in giudicato, attraverso l’evidenziazione

dei precetti normativi inapplicabili all’una e applicabili all’altra, secondo una

traccia suggerita dalle evenienze dei casi pratici.

A sollecitare i dubbi dell’autore in ordine alla equipollenza tra

l’efficacia delineata agli artt. 384 e 393 e l’efficacia della sentenza passata in

giudicato era stata proprio la riflessione intorno alle concrete possibilità del

principio di diritto di penetrare realmente oltre il processo, al di là delle pur

comprensibili suggestioni innescate dall’introduzione, all’art. 393, della

regola della permanenza dell’effetto vincolante del dictum in ius della Corte

nel processo instaurato con la riproposizione della domanda, a seguito

dell’estinzione del giudizio di rinvio.

Ad avviso di Andrioli, chiaramente in contrasto con la possibilità di

includere il principio di diritto nella categoria del giudicato è in primo luogo

la circostanza che, a seguito dell’estinzione del processo per le cause previste

dall’art. 393, se le stesse parti del giudizio estinto si trovano a contendere in

80

DENTI, op. cit., 1349. 81

ANDRIOLI, Il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, cit., 279 ss.

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– 143 –

un secondo processo avente ad oggetto una situazione giuridica connessa o

dipendente, ma pur tuttavia diversa, da quella su cui verteva il precedente

giudizio, il principio di diritto non può espletare alcun effetto vincolante82

:

argomento, questo, certamente non nuovo e non originale83

, ma dotato di un

rilievo parimenti ineludibile. Altri dati non marginali, poi, secondo l’autore, e

tutti conducenti alla medesima conclusione, andavano con piena

consapevolezza recuperati allo studio dell’efficacia vincolante del punto di

diritto deciso dalla Suprema Corte: in particolare, le modalità con cui

l’estinzione del processo reagisce, malgrado l’enunciazione del principio di

82

L’esempio a tal proposito addotto dall’Andrioli, tratto dalla pratica, riguarda una

domanda di affrancazione proposta da un enfiteuta il quale, nelle more del giudizio, aveva

trasferito l’utile dominio a un terzo; la sentenza di appello, confermando quanto stabilito in

primo grado, aveva respinto la domanda dell’istante sul presupposto della carenza di

legittimazione ad agire. Andando in contrario avviso, la Cassazione annullava la sentenza

asserendo il principio di diritto per il quale l’affrancazione, nei rapporti tra le parti, si opera,

quando non contrattualmente concordata, con la domanda giudiziale recante la dichiarazione

dell’enfiteuta di voler affrancare, e il contestuale deposito di capitale effettuato nei modi

stabiliti dalla legge. Dal canto suo, la concedente aveva agito in riscatto, con una separata

istanza volta ad esercitare il diritto di prelazione, ma il relativo giudizio era stato sospeso, in

attesa del passaggio in giudicato della sentenza di affrancazione. Sennonché il giudizio di

affrancazione si estingue per mancata riassunzione dinanzi al giudice di rinvio, e quello di

riscatto, senza più vincoli, riparte: e il principio di diritto di cui l’affrancante e il suo avente

causa avrebbero potuto giovarsi – ché, alla stregua di esso, il diritto di prelazione della

concedente che agiva in riscatto era venuto meno a far tempo dalla domanda di affrancazione

accompagnata dal deposito – non ha modo qui di operare, perché il prodursi del suo effetto

vincolante, diversamente da quello del giudicato, è rigidamente condizionato alla identità

oggettiva, oltreché soggettiva, delle azioni proposte. 83

Si tratta di un rilievo che costituisce un motivo ricorrente delle trattazioni sul tema,

già rilevato da COSTA, Sull’effetto vincolante…, cit. (v. supra), da SEGNI, Della tutela tutela

giurisdizionale dei diritti, cit., 326; da MICHELI, tornato a occuparsi del tema nell’articolo

«L’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di Cassazione e il giudicato sul

punto di diritto», in Riv. dir. proc. 1955, cit., 26 ss., ove le prime impressioni intorno alla

natura del dictum di cui all’art. 384 consegnate al primo scritto del 1942, sopracitato,

vengono sostanzialmente confermate, e Costa viene richiamato proprio in relazione al

presupposto cui si considera subordinato l’effetto vincolante del dictum nei giudizi futuri,

cioè che sia presentata tra le medesime parti «la stessa domanda»: ID., op. cit., 27; nello

stesso senso pure VOCINO, Su un problema intertemporale in tema di giudizio di rinvio, in

Giur. compl. cass. civ., 1946, II, 721.

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– 144 –

diritto, sul regime della prescrizione e sulla disciplina della trascrizione delle

domande giudiziali.

Quanto al primo punto, un dato che, ad avviso dell’autore, discrimina

inconfutabilmente il principio di diritto dalla cosa giudicata è che

l’intervenuta enunciazione del suddetto principio, oltre a non essere in grado

di determinare il sorgere delle prescrizioni brevi (art. 2953 c.c.)84

, non vale ad

impedire, a processo estinto, che il corso della prescrizione retroagisca a far

data dall’atto interruttivo, posto che l’art. 2945 c.c., nel disporre la

sospensione del termine della prescrizione durante tutta la durata del giudizio

e fino al passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce, sancisce il

venir meno dell’effetto sospensivo a cagione dell’estinzione del processo

senza porre eccezioni di sorta, e senza quindi lasciare spazio per ipotizzare la

salvezza della sospensione nel caso in cui la causa estintiva si verifichi nella

fase post-cassazione, a principio di diritto enucleato.

Mentre, sul versante della disciplina della trascrizione delle domande

giudiziali, sintomatico di una eterogeneità di natura tra principio di diritto e

cosa giudicata è per Andrioli il fatto che, in base al comma 2 dell’art. 2668

c.c., la previsione della cancellazione della trascrizione della domanda, da

disporsi giudizialmente nell’ipotesi di estinzione del relativo processo,

comporta che il principio di diritto enunciato dalla Corte non impedisce, dopo

il naufragio del giudizio, il venir meno della protezione interinale o “relativa”

della pretesa controversa che l’ordinamento accorda, per tutta la durata della

litispendenza, alla parte che assolve l’onere pubblicitario previsto per le

domande di cui agli artt. 2652-2653 c.c.85

.

84

Circostanza che, come precisa lo stesso A., discende «ancor prima che dalla

inidentificabilità con la cosa giudicata, dall’essere la c.d. actio iudicati limitata alle sentenze

di condanna»: ANDRIOLI, op. cit., 284, in nota. 85

Norme che stabiliscono il principio per il quale, in relazione a talune domande, la

trascrizione è necessaria al fine di garantire la prevalenza del diritto vantato, in caso di

accoglimento della pretesa, sui diritti eventualmente acquisiti dai terzi che siano stati

trascritti o iscritti successivamente alla trascrizione della domanda.

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– 145 –

Dimodoché, a seguito della cancellazione della trascrizione della

domanda, conseguente all’estinzione del processo, a nulla vale che la parte si

sia vista riconoscere in cassazione una pronuncia in diritto a sé favorevole, e

che i rapporti con la controparte siano ormai disciplinati, redentianamente

parlando, dall’incombenza del principio giuridico enunciato dalla Corte, se

comunque il suo diritto è destinato a soccombere rispetto a quello di un terzo,

che pure ne abbia registrato l’acquisto successivamente alla trascrizione della

vecchia domanda, culminata senza un giudicato pieno, ma con il dictum

imperativo della Corte.

Dal che l’Andrioli deduce anche la conseguenza della insensibilità del

processo riproposto al vincolo delineato dall’art. 393, quando si sia di fronte

ad una vicenda di successione a titolo particolare nel diritto relativo alla res

litigiosa: secondo l’autore, dal momento che «la vincolatività della sentenza

per il successore a titolo particolare è condizionata a ciò, che il processo sfoci

nel suo risultato naturale, che è per l’appunto la sentenza» che aggiudica il

bene della vita oggetto di contesa, il principio di diritto, vincolante per il

dante causa già parte del processo estinto, non permarrebbe nei confronti del

suo successore a titolo particolare nel nuovo giudizio che ricominci daccapo

sullo stesso oggetto, e con la stessa controparte, come invece avviene

secondo la modalità tipica, o, per meglio dire, la vocazione propria del

giudicato86

.

86

Tale conclusione viene contestata da MICHELI, op. ult. cit., 35 ss. «La tesi

dell’Andrioli» dice l’a., «se può giungere agevolmente (…) alla dimostrazione della

difficoltà di riconoscere la prevalenza del principio vincolante sulle norme relative alla

trascrizione, non può arrivare altrettanto facilmente fino ad escludere a priori l’estensibilità

dell’efficacia vincolante della sentenza nei confronti di ogni successore a titolo particolare»,

ciò che rappresenterebbe solo una «petizione di principio» (ID., op. cit., 37): non esiste,

infatti, ad avviso di Micheli, una norma positiva che sancisca un indefettibile legame tra la

cosa giudicata e gli effetti della sentenza nei confronti del successore a titolo particolare. Se

per Andrioli la soggezione del successore a titolo particolare rispetto alla sentenza ottenuta

contro il proprio dante causa prevista dall’art. 111, comma 4, c.p.c. è riferibile alla sola

sentenza di merito, per Micheli la formula contenuta in tale norma è invece

«sufficientemente ampia per comprendere anche la sentenza della cassazione che accoglie il

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– 146 –

Questi risvolti applicativi, attraverso i quali si sperimenta come in

realtà sia la naturale pendenza del processo a consentire al principio di diritto

di esplicare la sua efficacia «extraprocessuale» o «materiale-sostanziale»,

sono per l’Andrioli espressione di un principio basilare, che l’autore sigla con

un gergo assai fortunato, secondo cui «gli ammennicoli della cosa giudicata,

che sono collegati con l’applicazione degli effetti sostanziali della domanda

giudiziale, non si realizzano nell’ipotesi in cui il principio di diritto vincola il

giudice, avanti il quale è riproposta, a seguito di estinzione, la domanda»87

.

E il dato che se ne ricava è per Andrioli decisamente incontrovertibile:

se, per individuare la sfera di operatività del principio di diritto, dal

complesso di regole che riguardano le sentenze di merito che definiscono il

giudizio passando in giudicato, bisogna sottrarre «quelle che hanno la loro

ricorso, cassando con rinvio e fissando il punto di diritto per l’art. 384 cod. proc. civ.» (ID.,

op. loc. ult. cit.). Ciò, non tanto perché l’art. 393 abbia equiparato sostanzialmente la

sentenza della Cassazione che enuncia il principio di diritto alla sentenza parziale di merito,

che l’art. 310 salva rispetto all’estinzione del processo (equiparazione cui si oppone il fatto

che «la funzione mediatrice nell’attuazione in concreto della norma astratta è, rispetto alla

sentenza regolata dagli artt. 384, 1° comma e 393, rimasta per così dire a metà», e il vincolo,

anche considerato l’art. 393, non è sufficiente a trasformare la formulazione astratta di una

norma nella statuizione concreta del rapporto o nella statuizione concreta su di un suo

presupposto, dato che in presenza del dictum l’incidenza dell’aggiudicazione di un vantaggio

all’una o all’altra parte è ancora ipotetica) quanto piuttosto perché il ridetto articolo introduce

una «norma eccezionale, disciplinante un caso di ultrattività della domanda giudiziale» (ID.,

op. cit., 38-39, testo e nota n. 3). Per cui i cd. effetti sostanziali della domanda vanno sì

integrati con i principi dettati in materia di trascrizione, i quali ultimi impediscono che il

principio di diritto pregiudichi il diritto del successore a titolo particolare che abbia registrato

l’acquisto successivamente alla trascrizione della domanda, ma non vanno negati in radice

con riferimento all’ipotesi in cui il processo estinto lasci in vita il dictum vincolante della

Corte. Se l’art. 393 stabilisce che la sentenza di cassazione conserva il suo effetto vincolante

nel nuovo processo instaurato con la riproposizione della domanda, non si vede, dice

Micheli, perché «la imperatività della sentenza di cassazione non possa esplicarsi anche nei

confronti del successore a titolo particolare indipendentemente dalla pronuncia della

sentenza definitiva». Giungere a diversa conclusione, dopo aver riconosciuto che

l’accertamento della pronuncia della Corte in punto di diritto produce un effetto sui generis,

come fa Andrioli, significa entrare in contraddizione, perché equivale in pratica a identificare

«quell’effetto», che dovrebbe essere sui generis, «con quello prodotto dalla preclusione,

secondo la concezione chiovendiana»: ID., op. cit., 37-38. 87

ANDRIOLI, op. cit., 284 (c.n.).

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– 147 –

giustificazione nella virtù, che della cosa giudicata è propria, di definire il

giudizio consumando l’azione», le quali risultano praticamente inapplicabili

al principio di diritto, ciò avviene perché resta sempre vera quell’opinione

comune, stereotipata ma insuscettibile di obsolescenza, per cui «la differentia

specifica, che separa il principio di diritto dalla cosa giudicata, si sostanzia in

ciò che res judicata dicitur quae finem controversiarum pronuntiatione

judicis accipit, mentre il principio di diritto si pone quale tappa intermedia

del processo»88

.

È su questo antico scoglio che ogni tentativo di ridurre ad unità il

fenomeno del giudicato e quello della vincolatività del principio di diritto,

sulla base della «piattaforma comune dell’accertamento», è costretto ad

arenarsi.

L’analisi andrioliana, come abbiamo visto, viene in parte qua

contestata da Vittorio Denti, sulla base del rilievo che non è vero che la

diversità di natura tra giudicato e principio di diritto sta all’origine

dell’esclusione di taluni effetti del primo dalla sfera di operatività del

secondo, ma è piuttosto vero che ci sono effetti che il legislatore associa a

fattispecie processuali peculiarmente individuate, di volta in volta; effetti che

non sarebbero ascrivibili al giudicato genericamente considerato89

.

88

ANDRIOLI, op. cit., 287. 89

Così, argomenta Denti prendendo in esame talune delle norme che statuiscono

effetti sostanziali in relazione a sentenze passate in giudicato per mettere in luce la tecnica di

redazione legislativa tipizzante che vi è alla base, l’art. 2953 c.c. circoscrive l’effetto

dell’allungamento a dieci anni della prescrizione dei diritti per cui è stabilita una soglia

inferiore del termine di prescrizione alle sole sentenze di condanna passate in giudicato

(circostanza, questa, evidenziata, per vero, dallo stesso Andrioli: v. supra, nt. n. 84); l’art.

2652 c.c. stabilisce il principio della prevalenza del diritto fatto valere in giudizio sui diritti

acquistati dai terzi in base ad atto trascritto successivamente alla domanda in relazione

solamente alle sentenze di accoglimento delle domande trascritte, ossia alle sentenze che, ex

art. 2643, n. 14, c.c., «operano la costituzione, il trasferimento o la modificazione» di uno dei

diritti elencati nella stessa norma, e che dunque accertano l’effetto giuridico: onde, in questo

caso, è il legislatore a richiedere, per il prodursi dell’effetto, un giudicato dotato di certe

caratteristiche, delineando una fattispecie processuale nella quale non rientra il giudicato

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Sotto il profilo specifico che a noi interessa, Andrioli e Denti,

riproducono, con riguardo all’inquadramento del vincolo, i termini di

un’antitesi crescente che proseguirà senza sbocchi risolutivi tra coloro che

ritengono di ricavare, da una certa disciplina degli effetti del provvedimento

giudiziale, la qualità di accertamento e coloro che, all’opposto, dal contenuto

di accertamento ricavano un certa ricostruzione della qualità dell’efficacia del

provvedimento.

Dimodoché la natura del vincolo sarà assimilabile a quella del

giudicato, se si guarda al contenuto dell’attività disimpegnata dalla Suprema

Corte (ed in particolare, la decisione sul binomio norma-fatto, con esclusione

della pronuncia in tema di effetto giuridico90

); mentre, all’opposto, ponendosi

incompleto che è proprio dell’accertamento parziale della pronuncia sul punto di diritto

(DENTI, op. cit., 1349-1350). 90

Sulla «questione di diritto» come decisione del binomio norma-fatto, cfr. DALFINO,

Questioni di diritto e giudicato, cit., 31 ss.: premesso che «nel suo schema essenziale,

l’accertamento giudiziale costituisce il frutto di un’attività cognitiva di tipo logico-giuridico

che si appunta su tre elementi fondanti: norma (fattispecie legale astratta), fatto (fattispecie

concreta) ed effetto giuridico», tutti e tre oggetti necessari dell’accertamento sia nella

prospettiva del diritto di difesa, sia nella prospettiva dell’interesse ad agire; che «la soluzione

di una questione di diritto non può consistere nell’esclusivo e asettico esame della norma,

nell’interpretazione del suo significato astratto, ma deve intendersi necessariamente come

rivolta all’individuazione della portata della norma in relazione al fatto concreto» (p. 32); che

«la soluzione della questione di diritto non attiene (non può attenere) ad un mero quesito

giuridico rivolto al giudice in vista di interessi non attuali o inesistenti, bensì rappresenta

(non può non rappresentare) un passaggio cognitivo essenziale per l’inquadramento della

situazione sostanziale oggetto del processo, ritenuta meritevole di tutela sulla scorta

dell’attività valutativa compiuta a monte dalla norma» (pp. 35-36), Dalfino affronta e risolve

un primo passaggio descrittivo, quando conclude nel senso che «a differenza

dell’accertamento pieno relativo al diritto, non contiene un accertamento attuale dell’effetto

giuridico ricollegato alla valutazione dei fatti (…) la risoluzione della questione di diritto non

è idonea ad esaurire la sequenza norma-fatto-effetto giuridico. L’ultimo termine della triade,

infatti, viene in considerazione solo in via ipotetica o potenziale; ciò non toglie che

acquisisca ugualmente rilevanza nell’ambito del giudizio, quale misura dell’utilità

dell’accertamento della sola coppia norma-fatto»: ID., op. cit., 36. Segue, naturalmente,

l’ammonimento che non è possibile pervenire «all’accertamento di fattispecie non produttive

di effetti, poiché ciò contraddirebbe il concetto stesso di fattispecie», essendo ineliminabile il

collegamento della fattispecie agli effetti, mentre è logico «pensare che sia possibile un

accertamento di fattispecie non ancora produttive di effetti giuridici ovvero di fattispecie

semplicemente idonee a produrre effetti giuridici». Questa è una conclusione che non appare

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– 149 –

del tutto nitida, però, se non si allinea ad una precisa nozione di «fattispecie»; non essendo

sufficiente «la constatazione che lo studio della fattispecie, comunque la si voglia intendere,

non può essere svolto isolatamente, sganciato cioè da quello degli effetti giuridici»: ID., op.

cit., 37. Una delle accezioni della nozione di fattispecie più costanti nel linguaggio

dogmatico è quella che intende la «fattispecie» come «la totalità dei fatti che si richiedono

per un effetto giuridico»: così, MONATERI, voce Fattispecie, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol.

VIII, Torino 1992, § 1, 223 ss., richiamando DERNBURG, Pandette, tr. it. a cura di Cicala,

Torino 1906-07, I, § 79. Rileva Rodolfo Sacco, nella voce di aggiornamento a quella di

Monateri, che «quando diciamo che un fatto è rilevante, vogliamo dire che esso è necessario

perché si verifichi un certo effetto. Non vogliamo dire che esso sia sufficiente a quel fine. La

morte di Caio è necessaria perché la cosa passi nella proprietà di suo figlio Tizio. Ma la

morte non determinerebbe il trasferimento della proprietà a Tizio se non intervenisse

l’accettazione. L’insieme dei fatti che presi nel loro insieme sono necessarii e sufficienti

perché si verifichi un effetto si chiama fattispecie. Il nome tedesco è Tatbestand»: SACCO,

voce Fattispecie, I agg., Dig. disc. priv., sez. civ., vol. VIII, Torino 2010, § 1. MONATERI, op.

loc. ult. cit., valorizza il punto di vista del processo, per una nozione valida di fattispecie, e al

riguardo collega il concetto di fattispecie al problema della causa petendi, e dunque all’onere

probatorio, precisando che «gli elementi costitutivi della fattispecie dovrebbero perciò

corrispondere a quelli che l’attore deve provare in giudizio onde invocare il prodursi di un

dato effetto e ottenere la condanna del convenuto. A lato di tali elementi, si possono indicare

quelli impeditivi, che, invece, tocca al convenuto provare in via di eccezione onde

paralizzare l’efficacia della domanda dell’attore». In tale ricostruzione, soggiunge l’a.,

«quando si dice che la fattispecie consta di tutti gli elementi necessari e sufficienti al prodursi

di un dato effetto si fa una affermazione che necessita di essere resa più sofisticata», nel

senso che «alcuni elementi, pur necessari al prodursi pratico degli effetti giuridici, vanno

tenuti al di fuori dell’elencazione degli elementi costitutivi della fattispecie stessa» (ID., op.

loc. ult. cit.). In proposito, l’a. adduce esempi paradigmatici: «La condizione non fa parte

della fattispecie. Alcuni elementi come la traditio o la trascrizione non sono considerati

elementi della fattispecie del trasferimento della proprietà, ma come criteri di prevalenza tra

più fattispecie acquisitive» (ID., op. loc. ult. cit.). In questo senso, diviene dirimente la

strategia di classificazione: solo un certo «sbocco tassonomico», per usare le parole di

Rodolfo Sacco, sbocco che non è l’unico possibile, consente di parlare di fattispecie «non

ancora produttive di effetti giuridici ovvero di fattispecie semplicemente idonee a produrre

effetti giuridici», come fa Domenico Dalfino. Partendo dal presupposto la fattispecie è

l’insieme dei fatti congiuntamente necessari per produrre un dato effetto, Sacco osserva che è

possibile, in principio, «redigere uno schedario degli effetti giuridici immaginabili, e

giustapporgli uno schedario delle fattispecie abbozzate dal diritto, in specie dalla legge», che

è poi quello che fanno i codici ( ID., op. loc. ult. cit.). «Il codice civile tratteggia le vicende

del rapporto giuridico patrimoniale, e di fronte tratteggia la figura del contratto. Il codice

penale tratteggia la figura del furto, e di fronte tratteggia la soggezione dell’operatore alla

pena detentiva». Purtroppo, però, avverte l’a., «la schedatura degli effetti e delle fattispecie

trova intoppi di varia natura». Ad es., in ambito penale: se «la definizione normativa di ogni

singola figura di reato sembra costituire la scheda di una ben individuata fattispecie legale»,

è anche vero che «il reato non produce nessun effetto suo proprio e costante. L’effetto

concreto si ricollega al reato senza aggravanti e senza attenuanti, o al reato con una data

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– 150 –

aggravante, o con due attenuanti, e così via». Ecco allora, soggiunge l’a., che «noi

disponiamo di due diversi sbocchi tassonomici alternativi: o manteniamo l’unità della

categoria corrispondente ad ogni figura di reato – ad es., il furto – e rinunciamo a

caratterizzare la figura del furto in base ai suoi effetti; o spezziamo questa figura in tante

figure di furto, in modo da parametrare ognuna delle figure specifiche ad un altrettanto

specifico effetto giuridico costante: il ladro che ha operato in presenza di due circostanze

aggravanti è soggetto ad una pena detentiva non inferiore a tot. e non superiore a tot.». Il

problema è stringentissimo ovviamente anche nell’area del diritto civile: per usare gli esempi

classici, già addotti da Monateri, Sacco ripropone i casi in cui il contratto non diviene

vincolante con la sola manifestazione del consenso ma, ai fini dell’efficacia, ha altresì

«bisogno del puntello di una consegna, o della forma (comodato, donazione manuale,

donazione formale)» ovvero l’ipotesi in cui il contratto è condizionato, ad es.

sospensivamente. Sul piano della tassonomia, avverte l’a., in realtà ci sono due strade: si può

rendere onore alla categoria unitaria del contratto come mutuo consenso oppure riconoscere

che il contratto «corrisponde in qualche caso all’accordo, in altri casi all’accordo

accompagnato da una consegna, in ulteriori casi all’accordo assistito da una forma»;

nell’ipotesi del contatto sospensivamente condizionato, all’«insieme delle circostanze

necessarie per far nascere l’obbligazione – accordo più circostanza dedotta in condizione –

(…) una fattispecie complessa, diversa dal mero contratto puro» (ID., op. loc. ult. cit.). Più

spesso, però, il giurista preferisce salvare l’omogeneità della fattispecie: «quando ha

schedato un tipo di fattispecie A, tende ad utilizzare questo tipo nella misura più ampia

possibile. Se l’effetto si riconnette a quel tipo A + un ulteriore B, il giurista non ama

schedare un tipo nuovo e più complesso di fattispecie, ma ama invece dire che l’effetto ha

bisogno della fattispecie A, e soggiungere che alla produzione dell’effetto è necessario anche

il fatto B. La figura della fattispecie A deve rimanere uguale a se stessa, e deve avere

l’estensione più ampia possibile». Per tornare all’esempio del contratto sospensivamente

condizionato, se non si vuole rinunciare a far capo alla figura del contratto-accordo, e non si

intende inglobare tra le circostanze che costituiscono il contratto il fatto dedotto in

condizione, in tal modo sospingendo la condizione al di fuori della fattispecie, e dicendo che

essa, pur se non inserita nella descrizione della fattispecie contrattuale, incide sull’effetto del

contratto, si deve però anche «constatare che il contratto, definito così, non è sempre capace

di effetto; detto altrimenti, non è sempre una vera fattispecie»: ID., op. loc. ult. cit.

Certamente la relativizzazione della nozione comunemente accolta di «fattispecie» in senso

sostanziale è un argomento a favore delle tesi che, sul piano processuale, fanno riferimento,

per individuare l’oggetto della domanda che passa all’esame del giudice dell’impugnazione,

alle singole questioni, di fatto e di diritto, che nel giudizio concorrono progressivamente a

definire e a limitare la fattispecie concreta dedotta in giudizio ed oggetto di decisione (e

dunque fattispecie intesa, da un lato, come quella riproduttiva degli elementi contemplati

dalla fattispecie astratta, dalla disciplina che nel corso del processo si preciserà essere la

normativa applicabile; e, dall’altro, come la fattispecie produttiva dell’effetto giuridico

richiesto o comunque individuato a favore della parte che ha dimostrato la corrispondenza

dei fatti storici alla postulazione normativa formulata nelle sue difese (v. infra, capitolo

terzo). Sul concetto di fatto e quello di fattispecie con riguardo agli effetti, senza la benché

minima pretesa di esaustività, si vedano CATAUDELLA, Note sul concetto di fattispecie

giuridica, ora in Scritti giuridici, Padova 1991, 3 ss.; ID., voce Fattispecie, in Enc. dir., vol.

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– 151 –

nella prospettiva degli effetti del provvedimento per risalire alla sua natura, la

limitazione dell’efficacia extraprocessuale della pronuncia della Cassazione

alla sola ipotesi in cui, dopo l’estinzione in fase post-cassazione, venga

riproposta la stessa domanda tra le medesime parti, secondo quanto stabilito

dall’art. 393 c.p.c., rende obbligata la conclusione opposta, e cioè

l’impossibilità di rapportare al fenomeno del giudicato materiale la pronuncia

del principio di diritto da parte della Suprema Corte91

.

XVI, Milano 1967, 926 ss.; MAIORCA, voce Fatto giuridico - Fattispecie, in Noviss. Dig. it.,

vol. VII, Torino 1961, 111 ss.; FALZEA, voce Fatto giuridico, in Enc. dir., vol. XVI, Milano

1967, 941 ss. Tra le trattazioni più recenti sul tema, LEVI, Fatto e diritto, Milano 2002,

passim. 91

Come pure accade laddove si passi ad esaminare il fenomeno delle sentenze non

definitive su questioni preliminari di merito, per inferirne che sopravvivano, oppure no,

all’estinzione del processo ai sensi dell’art. 310, comma 2, c.p.c., partecipando, oppure no,

alla natura e all’efficacia della cosa giudicata. Il tema è assai corposo ed articolato e se ne è

occupata una vastissima letteratura, che in questa sede non appare possibile né utile

riepilogare, essendovi peraltro contributi assai recenti che affrontano il tema e la dottrina con

respiro ben più ampio di quello che qui si potrebbe e si saprebbe dare: v. DALFINO, Questioni

di diritto e giudicato, cit., passim, spec. 146 ss. Sia sufficiente dire che, sotto la vigenza del

codice del 1865, l’art. 341, che disciplinava l’istituto della perenzione, prevedeva la salvezza

degli effetti delle sentenze pronunciate (e delle prove risultanti da tali atti) nel processo

perento, in tal modo originando il problema se dovessero ricomprendersi in questa previsione

di ultrattività anche le sentenze su questioni. Tale problema discendeva da ciò, che avevano

la forma di sentenza provvedimenti dal più vario contenuto: tra la possibilità di una sentenza

definitiva di merito, risolutiva dell’intera questione dedotta in giudizio, e quella di sentenze

«preparatorie», relative ad un punto di forma o di procedura, ritenute per lo più insuscettibili

di sopravvivenza in caso di perenzione del processo, vi erano ipotesi di sentenze

«intermedie», di diverso tipo: sentenze che risolvevano definitivamente uno solo o più punti

controversi sul merito della causa; sentenze che, senza pregiudicare il merito della causa,

risolvevano una questione incidentale avente per le parti non solo una rilevanza procedurale

ma un interesse «reale»; sentenze che, senza risolvere neanche parzialmente il merito, erano

pur tuttavia idonee a pregiudicarlo, perché statuivano, ad es., sull’ammissione di una prova

(sentenze a contenuto essenzialmente ordinatorio): per questa classificazione, si veda

MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile, vol. III, Torino 1904, 963 ss. L’opinione

prevalente era nel senso che la sentenza che decidesse su un punto di merito controverso

sopravviveva alla perenzione, avendo come effetto di impedire una nuova discussione su

quel punto nell’eventualità in cui, in un nuovo processo, quel punto avesse occasione di porsi

come rilevante ai fini della decisione nel merito della controversia tra le stesse parti: v., per

tutti, MATTIROLO, op. ult. cit., 965; MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di

procedura civile, vol. III, Milano s.d., 875. Dall’opposizione a questa tesi nasce l’idea

chiovendiana di contrapporre il concetto di preclusione a quello di giudicato, e di stabilire

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– 152 –

Né può dirsi che a questo problema di «qualificazione» del principio di

diritto, la giurisprudenza abbia dato un contributo decisivo. Dall’esame dei

repertori rampolla la costante assegnazione al principio di diritto

dell’attributo della «intangibilità»: locuzione, questa, che, esibita in dottrina

per la prima volta dal costituzionalista Antonio D’Atena – il quale di

«intangibilità» del principio di diritto discettò commentando una delle

una differenza netta tra le sentenze su questioni e le sentenze, anche parziali, sulle domande,

circoscrivendo l’efficacia di giudicato solo a queste ultime: alle sentenze, cioè, idonee ad

attribuire o negare «il bene della vita» oggetto di contesa (cfr. CHIOVENDA, Cosa giudicata e

competenza, in Saggi di diritto processuale civile, vol. II, Milano 1993 (rist.), 411 ss., ID.,

Cosa giudicata e preclusione, in Saggi di diritto processuale civile, vol. III, Milano 1993,

233 ss.; ID., Principii, cit., 858 ss.; su cui supra, nt. 16). Nel codice del 1940, e a seguito

della riforma operata dalla novella del 1950 sull’art. 279, ci si trova invece a dover chiarire –

e lo si fa soprattutto alla luce del nuovo art. 310, comma 2, c.p.c. – quali sono le sentenze

idonee ad acquisire efficacia di giudicato ai sensi dell’art. 2909 c.c. Per le sentenze non

definitive contemplate dall’art. 279, comma 2, n. 4 c.p.c., infatti, mentre è pacifica

l’attitudine al giudicato formale ex art. 324 c.p.c., controversa è la loro capacità: i) di

divenire «imperative», ossia a porre un precetto di legge individuale vincolante per ogni

futuro giudice e comunque ii) di sopravvivere all’estinzione del processo (posto che

l’equivalenza tra attitudine al giudicato e sopravvivenza all’estinzione è un postulato da

verificare: da ultimo, v. DALFINO, Questioni di diritto e giudicato, cit., 158 ss.). A favore

della limitazione del giudicato sostanziale alle sole sentenze definitive di merito che

accertano il diritto fatto valere, con esclusione quindi delle sentenze che decidono su

questioni di rito e su questioni di merito, anche preliminari, si segnalano, in luogo di altri,

MONTESANO, Questioni preliminari e sentenze parziali, in Riv. dir. proc. 1969, 579 ss.; ID.,

La tutela giurisdizionale dei diritti, in Trattato di diritto civile italiano fondato da Vassalli,

vol. XIV, Torino 1994, 239 ss.; GARBAGNATI, Estinzione del processo ed impugnazione

delle sentenze non definitive di merito, Riv. dir. proc. 1971, 575 ss.; ID., Questioni

preliminari di merito e questioni pregiudiziali, in Riv. dir. proc. 1977, 562 ss.; per la

negazione di qualsiasi efficacia extraprocessuale alle sentenze su questioni preliminari di

merito, anche FABBRINI, L’eccezione di merito, in Studi in memoria di Carlo Furno, Milano

1973, 284. Invece, per l’equiparazione, ai fini del giudicato, tra sentenze definitive di merito,

da un lato, e sentenze di rito e su questioni preliminari di merito, si vedano: DENTI, Sentenze

non definitive su questioni preliminari di merito e cosa giudicata, in Riv. dir. proc. 1969, 213

ss., spec. 220 ss.; ID., Ancora sulla efficacia della decisione di questioni preliminari di

merito, in Riv. dir. proc. 1970, 560 ss.; C. FERRI, Sentenze a contenuto processuale e cosa

giudicata, in Riv. dir. proc. 1966, 419 ss.; ID., In tema di giudicato sulla giurisdizione, in

Riv. dir. proc. 1964, 350 ss.; PUGLIESE, voce Giudicato, cit., 786-787, 836 ss.; da ultimo,

MONTANARI, L’efficacia delle sentenze non definitive su questioni preliminari di merito, I-II,

in Riv. dir. proc. 1986, 392 ss., 834 ss., e III, ivi 1987, 324 ss. Naturalmente, ciascun autore

propone argomenti e distinguo estremamente complessi e delicati, che in questa sede non è

possibile richiamare.

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– 153 –

famose sentenze della Corte costituzionale che avevano salvato la norma sul

vincolo dall’accusa di violare il precetto costituzionale che vuole il giudice

soggetto solo alla legge92

– venne utilizzata dalla Cassazione per la prima

volta nel 1976 (anno in cui se ne registra, per lo meno, la più risalente

annotazione in una massima ufficiale93

) e che da allora sembra entrata

stabilmente a far parte dei formulari della giurisprudenza di legittimità.

L’espressione ha evidentemente il pregio e il difetto, al contempo, di

non dire troppo. All’origine della sua formulazione, vi era probabilmente

l’esigenza di dare conto della non rapportabilità del principio di diritto al

regime del giudicato «irretrattabile»94

contro il tentativo di dimostrare che il

vincolo del principio di diritto condivide la stessa natura del giudicato

extraprocessuale95

; ma il ripudio della teorica del giudicato lasciava tuttavia

aperto e impregiudicato il problema dell’individuazione dell’efficacia del

principio di diritto.

92

D’ATENA, La libertà interpretativa del giudice e l’intangibilità del “punto di

diritto” enucleato dalla Cassazione, nota a Corte Cost. 2 aprile 1970, n. 50, in Giur. cost.,

1970, 563 ss. Si tratta del commento alla nota sentenza costituzionale che aveva respinto

l’eccezione di incostituzionalità per violazione degli artt. 101, comma 2, e 107 Cost. con

riguardo alla disposizione del previgente codice di rito penale che imponeva al giudice di

rinvio l’osservanza del vincolo al punto di diritto deciso dalla Cassazione, l’art. 546 c.p.p.

abr. 93

Cass. n. 1058/1976: cfr. DALMARTELLO, L’intangibilità del principio di diritto

enunciato in una sentenza di cassazione, nota a Cass., sez. un., 14 febbraio 1994, n. 1431, in

Rass. giur. energia elettrica 1994, 677, nota n. 2. 94

D’ATENA, op. cit., 570. 95

Tentativo che propone l’equiparazione dell’efficacia del principio di diritto al

giudicato nel quadro del più generale sforzo di affermare l’estensione del giudicato alle

questioni pregiudiziali, indipendentemente dal funzionamento del meccanismo previsto

dall’art. 34 c.p.c.: PUGLIESE, Giudicato civile (diritto vigente), cit., 837, nt. 218; TARUFFO,

«Collateral estoppell» e giudicato sulle questioni, II, cit., 272 ss.; DENTI, I giudicati sulle

fattispecie, cit., passim, sulla scia di REDENTI, Il giudicato sul punto di diritto, in Studi

Carnelutti, cit., 691 ss.

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– 154 –

2.3. Il principio di diritto come ratio decidendi.

In assenza di indici decisivi forniti dalla prassi giurisprudenziale, la

dottrina, per la soluzione degli interrogativi sulla natura del principio di

diritto, doveva accontentarsi delle norme: e la riflessione scientifica, secondo

il suggerimento di Andrioli96

, continuò a portare l’attenzione sull’art. 393 e

sul differente «ambiente processuale» in cui il principio di diritto si trova ad

esercitare la sua autorità promanante dalla Cassazione.

L’accento sulla diversità, di fronte all’obbligo di rispettare l’enunciato

in diritto vincolante della Suprema Corte, dei limiti e del modo di essere dei

poteri del giudice di rinvio e di quelli del giudice innanzi al quale sia

riproposta la domanda a seguito dell’estinzione del processo nella fase post-

cassazione, è in realtà meno scontato di quanto a prima vista possa apparire.

Perché, invero, da parte di un autorevole studioso, Ferdinando

Mazzarella, si è affermata la «legittima aspettativa» che «l’enunciazione del

principio di diritto, anche se (…) può avere una diversa intensità a seconda

del nuovo processo nel quale opera, non debba avere diversa natura a

seconda che essa incida nel processo di rinvio ovvero nel processo

riproposto»97

: aspettativa che giustificherebbe l’adozione di una prospettiva

di lettura dell’efficacia del principio di diritto in chiave unificante che,

passando per la valorizzazione del concetto di «ipoteticità» del principio di

diritto, sarebbe in grado di attenuare sensibilmente la bivalenza del vincolo in

relazione alla diversa sede della sua applicazione e avrebbe ricadute

importanti sul valore da dare alla pronuncia di annullamento della Cassazione

e sul residuo ambito di cognizione del giudizio di rinvio.

In effetti, quanto Mazzarella osservava, nei suoi «Appunti» sul

principio di diritto del 1963, setacciando la formula redentiana del dictum

96

ANDRIOLI, Commento, vol. II, cit., 605; ID., Il principio di diritto, cit., 287-288. 97

Così, MAZZARELLA, Appunti a proposito di «principio di diritto» e «cassazione

sostitutiva», cit., 1481.

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– 155 –

giudiziale «ipotetico, ma in ipotesi concreto», e cioè che, se il giudice di

merito può affermare una realtà storica diversa da quella risultante dalla

sentenza cassata e posta a base del principio di diritto, «una enunciazione

fondata su fatti soltanto postulanti un’ipotesi (…), è, in fondo, assai poco

un’enunciazione concreta quanto piuttosto un’enunciazione astratta»; «che il

predicato della concretezza a non altro si addice che al giudizio storico,

attuale e puntuale presa di posizione del soggetto di fronte all’accaduto in

quanto accaduto, incompatibile con la hypothesis, campo delle mere

possibilità logiche»; che, in definitiva, «se la enunciazione della Corte ha da

essere considerata un dictum ipotetico, essa non può essere nello stesso

tempo considerata un dictum concreto»98

, si poneva come base dogmatica per

rideterminare gli aspetti più qualificanti e interessanti della disputa intorno

alla natura del principio di diritto: quelli cioè che riguardano il modo con cui

il giudice di rinvio deve recepire il principio stesso, e l’ampiezza dei limiti

che esso è autonomamente (id est: a prescindere dalla sentenza cassata) in

grado di porre alla sua cognizione. Perché l’interrogativo vero che sta alla

base della controversia sull’inquadramento del principio di diritto, secondo

Mazzarella, è se il ridetto principio possa configurarsi o meno come fattore di

immodificabilità della decisione in ordine ai fatti posti a suo fondamento99

.

Tralasciando, per il momento, di scendere ad esaminare il tema degli

antecedenti e dei presupposti di fatto del punto di diritto sul quale la Corte ha

operato la rescissione della sentenza impugnata con contestuale formulazione

del principio giuridico destinato ad orientare il giudice di rinvio nella

decisione in merito della controversia, interessa qui rilevare come per questo

autore, ai fini della ricostruzione della natura del vincolo, prioritaria sarebbe

98

MAZZARELLA, op. cit., 1473. 99

Mazzarella in sostanza contesta che si possa ricavare una soluzione ai problemi

orbitanti intorno al vincolo di cui all’art. 384 da formule come «giudicato sul punto di

diritto» o «giudicato sulla fattispecie», perché quello che veramente preme all’esegeta è lo

scrutinio della possibilità che la pronuncia della Corte possa formare giudicato anche sui fatti

posti a base dell’enunciazione del principio di diritto.

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– 156 –

la chiarificazione intorno ad un equivoco diffuso, in virtù del quale il

concetto di «astrattezza» viene confuso con quello di «generalità», e il

concetto di «concretezza» con quello di «specialità»; equivoco, questo,

probabilmente indotto dalla tendenza a pensare il principio di diritto con

degli schemi mentali più confacenti ad un’interpretazione letteralistica della

vecchia norma contenuta all’art. 547 del codice di rito abrogato.

Ad avviso di Mazzarella, il principio di diritto ha in comune con la

legge il fatto di essere strutturato come enunciato ipotetico, riferibile ad una

fattispecie che non è storicamente determinata, ma è bensì mentalmente

presupposta come eventuale, e dunque «astraente dalla realtà quale che essa

sia»100

; e la differenza che in realtà corre tra l’uno e l’altra sta nel fatto che,

mentre la legge ipotizza una fattispecie astratta per disciplinarne

l’accadimento in relazione ad un numero indefinito di volte e ad un numero

indefinito di persone rispetto alle quali l’ipotesi si può verificare, il principio

di diritto ipotizza una fattispecie astratta che, però, è «tale da potersi

verificare con pratici effetti in ordine ad un solo caso quale è quello che ha da

delinearsi nella sua storica concretezza nel giudizio di rinvio o nel giudizio

riproposto ex art. 393».

E allora, il dictum della Corte ha per Mazzarella i caratteri di una

proposizione giuridica astratta, e quando la si definisce «concreta» si pone

mente in realtà a quell’altra sua caratteristica, rappresentata dall’essere,

quella proposizione giuridica, ritagliata e commisurata ad un’ipotesi

specificamente prospettata: ossia al connotato della «specialità».

Allo scopo di dimostrare che del dictum vincolante della Corte non si

debba predicare l’attributo della «concretezza» sono del resto preordinate

quelle ispirate pagine che Mazzarella dedica ad un argomento a suo dire

sottovalutato dai commentatori della riforma: il passaggio dalla vecchia alla

nuova formula preposta dal legislatore a designare il parametro del vincolo

100

MAZZARELLA, op. cit., 1474.

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– 157 –

incombente sul giudice di rinvio, ossia dall’indicazione del dovere a carico

quest’ultimo quale obbligo di conformarsi al «punto di diritto deciso» alla

definizione dello stesso quale obbligo di uniformarsi al «principio di diritto»

enunciato dalla Suprema Corte.

A proposito della rinnovata nomenclatura contenuta all’art. 384 del

codice del ’40 rispetto all’art. 547 del codice abrogato, l’autore, come già

accennato in sede di ricognizione sintetica delle tappe che hanno portato alla

scrittura della norma sul principio di diritto101

, tiene a precisare che se, da un

punto di vista pratico, essa non aveva comportato sostanziali cambiamenti,

aveva tuttavia avuto il merito di disvelare il reale contenuto vincolante della

pronuncia della Cassazione in punto di diritto.

La formula esibita dal vecchio art. 547 era, infatti, ad avviso di

Mazzarella, il frutto di una «metonimia», di per sé innocua ma foriera di

fraintendimenti, la quale sostituiva il decisum alla decisio, l’oggetto al vaglio

della Corte (la questione di diritto scrutinata) al giudizio con cui era attuata la

rescissione (la risoluzione della questione stessa) 102

. Ora, la decodificazione

della metonimia, con il ripristino dell’ordine concettuale di ciò che sta dietro

all’inversione retorica in virtù della quale «decisione sul punto di diritto»

diventa «punto di diritto deciso», è, per Mazzarella, solo un passo intermedio

nel cammino di avvicinamento alla verità della norma sul vincolo, per come

era stata letteralmente impostata dal legislatore del 1865.

La decisione sulla questione di diritto, infatti, quale giudizio di

riconoscimento dell’errore comportante l’annullamento della sentenza

101

V. retro, capitolo primo. 102

Giudizio che rappresenta sì la risoluzione di una quaestio iuris, ma non intesa

come dubbio astratto, bensì come «questione condizionata quanto al suo intendimento

dall’esser nata e dal dover essere risolta nell’ambito di quel particolare giudizio di

impugnazione», dunque «impensabile concretamente fuor dall’ambito di quel giudizio di

cassazione e della particolare azione che ivi svolgevano le parti e il giudice, ciascuno

secondo il proprio ruolo» (ed è qui, con riferimento alla questione oggetto di cognizione

della Corte, che l’autore riabilita il concetto di concretezza che aveva respinto, in limine, a

proposito della nozione tecnica di «principio di diritto»): MAZZARELLA, op. cit., 1486.

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– 158 –

impugnata, reca necessariamente la positiva affermazione di un ordinamento

diverso da quello stabilito nella sentenza cassata, perché «in tanto può

parlarsi di violazione o falsa applicazione di norme di diritto in quanto a ciò

si opponga mentalmente l’esatta interpretazione dell’ordinamento che non

tollera quella violazione o quella falsa applicazione della norma»103

: e il

passo ulteriore da fare per l’identificazione del contenuto vincolante della

pronuncia in iure della Suprema Corte sta proprio nel riconoscere che solo

questa affermazione «incontestabile» di ordinamento, perché capace di porsi

in termini di validità logica generale come «affermazione di un ordinamento

tendenzialmente volto in quanto tale a tradursi sempre nell’ordine dell’azione

“ordinata”»104

, è tale da «poter postulare l’adeguamento ad essa da parte di

altri»105

.

Il vero referente giudiziale del vincolo cui il magistrato della fase post-

cassazione deve osservanza è rappresentato dunque non già dalla decisione di

rescindere la sentenza impugnata, quanto piuttosto da ciò che sta alla base di

quella decisione, ossia l’interpretatio dell’ordinamento identificatrice del

diritto del caso concreto, nella misura in cui il riscontro del vizio di diritto

denunciato presuppone indefettibilmente la scelta di una regola diversa da

quella applicata dal giudice a quo.

In altri termini, per Mazzarella, l’imprescindibilità della pronuncia

della Corte per il giudice di rinvio o per quello del processo riproposto è

predicabile esclusivamente in relazione al presupposto logico-razionale

dell’annullamento, che non è né il punto di diritto deciso, né la decisione sul

punto di diritto, bensì il criterio fondante la decisione stessa, la regola di

103

MAZZARELLA, op. ult. cit., 1489-1490. 104

MAZZARELLA, op. ult. cit., 1487. 105

MAZZARELLA, op. ult. cit., 1486.

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– 159 –

giudizio cui per prima la Cassazione stessa informa la propria attività

decisoria, quando riscontra il vizio e cassa la sentenza106

.

Essendo quindi la cd. ratio decidendi l’unico materiale della rescissione

operata dalla Corte ad avere la possibilità logica di vincolare chicchessia,

quale precipitato – normativo e quindi riproducibile – di un episodio

decisorio esaurito, si prospetta coerente e piana la conclusione che la

sussistenza di un dettato in iure vincolante è pensabile solo come

verbalizzazione della regola di giudizio seguita dalla Cassazione nella

concreta azione di risoluzione della quaestio iuris – ciò che si esprime

perfettamente con la locuzione «principio di diritto» – e si spiega del resto

agevolmente anche l’«ambigua qualità» di quella regola: «quella, cioè, di

essere, in quanto regola d’azione, concretamente impensabile al di fuori

dell’azione regolata, vale a dire, della puntuale decisione della Corte, ma, al

tempo stesso, quella di potere essere da questa estrapolata e ipostatizzata con

una realtà sua propria, come “la regola”, la norma, in una obbiettiva esistenza

in sé»107

.

In sostanza, conclude Mazzarella, ciò che era vero anche sotto il codice

del 1865, malgrado l’imprecisa formula dell’art. 547, e cioè che a vincolare il

giudice di rinvio non era, e non poteva essere, il punto di diritto deciso o la

risoluzione dello stesso, ma piuttosto la ratio della decisione elevata al rango

di exemplum o modello di decisione, è detto in maniera più chiara dal

riformatore del 1940, laddove l’effetto vincolante viene associato al

«principio di diritto»108

(nel senso etimologico di fundamentum

106

Nel senso che è la regola di giudizio, e non il giudizio in sé, ad avere l’attitudine a

fuoriuscire dai limiti segnati dall’art. 393, CORDOPATRI, La ratio decidendi (considerazioni

attuali), in Riv. dir. proc. 1990, 187, soprattutto in nota. 107

MAZZARELLA, op. ult. cit., 1491. 108

Espressione alla quale attingeva del resto assai frequentemente la dottrina sotto la

vigenza del codice del 1865, per spiegare il contenuto del vincolo della pronuncia in iure

della Suprema Corte a carico del giudice di secondo rinvio: a titolo esemplificativo,

Mazzarella cita (ID., op. ult. cit., 1487, in nota) alcune firme prestigiose che sottoscrivono la

locuzione, da MATTIROLO, Trattato, cit., 1127 e 1153, a MORTARA, Commentario, vol. III,

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– 160 –

dell’ordinamento affermato dalla Cassazione), di cui significativamente ci si

limita a dichiarare l’enunciazione: non a caso, avverte il nostro autore, ché

«un “punto” si decide, si risolve, ma è solo un “principio” che non si decide

né si risolve, si enuncia, come dice, per l’appunto, l’articolo 384 del

codice»109

.

Orbene, la trattazione del tema dell’identificazione del contenuto del

vincolo, svolta dal Mazzarella con l’accuratezza esegetica di cui si è data qui

solo una traccia, appare sottoscrivibile nella parte in cui pone in luce che la

vincolatività del principio di diritto è coessenziale al giudizio secondo diritto,

quale fenomeno che si ripropone in ogni fase del processo, allorché il

giudice, chiamato a decidere su di una causa, identifica le norme che ritiene

confacenti al caso e le pone coerentemente a base della propria azione

concreta di organo giudicante, applicandole.

Meno persuasivo è invece il corollario che Mazzarella trae dalla

suddetta ricostruzione, probabilmente perché il suo discorso è pregiudicato

alla base e contaminato negli esiti da un’aprioristica presa di posizione

intorno al ruolo della Cassazione, alla sua (allora) istituzionale esclusione

dalla decisione in merito.

Ci riferiamo, in particolare, alle deduzioni che l’autore ricava dal fatto

che, per la peculiare conformazione che nel nostro ordinamento ha l’istituto

della Cassazione, la scissione tra i due momenti essenziali del giudizio –

individuazione della norma del caso concreto e applicazione della stessa –

scissione che è in genere «puramente mentale»110

, diventa un connotato reale

e identificativo del sistema cassazione, in cui alla decisione rescindente della

Corte per error iuris in iudicando segue – e, al momento in cui Mazzarella

scriveva gli «appunti», seguiva indefettibilmente – un rinvio.

cit., 635, a CAMMEO, Il ricorso alla IV sez. contro le decisioni delle giunte prov. amm., in

Giur. it. 1911, IV, c. 205. 109

MAZZARELLA, op. cit., 1485. 110

MAZZARELLA, op. ult. cit., 1492.

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– 161 –

Questa configurazione del sistema cassazione è per Mazzarella la

radice dell’«esperienza singolarissima» che si svolge presso il soglio

supremo, in ordine alla cui giurisdizione veramente si può dire che esaurisce

«il momento logicamente culminante di ogni giurisdizione come iusdicere

nel caso concreto»111

. Considerazione esatta, questa, su cui s’innesta la tesi,

che l’autore svolgerà compiutamente altrove, in critica alla teoria

calamandreiana della primordiale natura politica dell’organo di cassazione,

intorno alla giurisdizionalità non acquisita, ma originaria perché intrinseca al

giudizio di diritto, dell’istituto della cassazione112

.

Considerazione che però non sembra portate a sviluppi coerenti,

laddove il carattere sostitutivo del giudizio in iure della Suprema Corte viene

recisamente negato, pur nell’asserita identità di natura tra il giudizio di diritto

svolto dalla Cassazione e quello svolto dal giudice di merito, e si asserisce

che l’influenza del principio di diritto sulla successiva vicenda processuale

starebbe tutta nell’essere il principio di diritto la lex specialis del rapporto,

ma non già un giudicato, né un frammento di decisione giurisdizionale come

voleva Calamandrei, dal momento che «affinché la legge del caso concreto si

trasfonda in un iudicatum, occorre una sintesi storica di ciò che è stato detto

(…) con tutto ciò che è stato fatto».

Qui, evidentemente, Mazzarella sottovaluta la circostanza che dietro un

principio di diritto enunciato sta praticamente sempre un punto di diritto su

cui si è svolta la decisione: circostanza che, invero, egli non tralascia di

ammettere incidentalmente, ma che non è del tutto priva di conseguenze,

come vorrebbe lasciare intendere.

Nel farsi carico di interpretare l’esigenza che il principio di diritto non

manifesti una differente natura a seconda dell’ambiente processuale in cui si

trova ad operare Mazzarella attribuisce un peso sistematico determinante al

111

MAZZARELLA, op. loc. ult. cit. 112

MAZZARELLA, Passato e presente della Cassazione, cit., su cui v. retro, capitolo

primo, § 1.

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– 162 –

carattere della «ipoteticità» del dictum enunciato dalla Suprema Corte; ma su

questo dato commette forse l’errore di svalutare la connessione, voluta

dall’art. 384 c.p.c., tra il principio di diritto enunciato dalla Cassazione ed il

giudizio da svolgersi in sede di rinvio.

Nello scritto dedicato specificamente al tema del principio di diritto

risalente al 1963113

, egli poneva a base della sua analisi l’atteggiamento della

giurisprudenza prevalente, orientata costantemente, già da allora, nel senso di

ritenere che in sede di rinvio dovesse ritenersi precluso il riesame della

situazione di fatto accertata dalla sentenza cassata e posta a fondamento del

principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte; collocava altresì,

conseguentemente, al centro di quella analisi l’interrogativo – logicamente

implicato dalla suddetta opinione giurisprudenziale – su quale potesse essere,

dal punto di vista formale, la radice della preclusione de qua (a prescindere

dal fatto che se ne identificasse la natura con quella del giudicato o con quella

della preclusione processuale, ovvero che ne venisse rintracciata la matrice

nel divieto ne bis in idem), chiedendosi, in buona sostanza, a quale pronuncia

dovesse ricollegarsi l’esercizio del potere decisorio preclusivo del riesame

degli antecedenti di fatto: se alla pronuncia della Corte ovvero alla pronuncia

cassata del giudice di merito114

.

L’ipotesi che l’esaurimento del potere decisorio con riguardo agli

antecedenti di fatto sottostanti al principio di diritto sia da riconnettere alla

pronuncia della Corte viene da Mazzarella prontamente liquidata sulla base

dell’assunto che la Corte di cassazione, per i suoi limiti istituzionali, non può

emettere alcun giudizio sul fatto storico.

D’altro canto, l’idea che tale preclusione sia ascrivibile alla pronuncia

del giudice di merito anteriore al giudizio di cassazione è altrettanto

rapidamente respinta con l’argomento che la cassazione toglie alla pronuncia

113

MAZZARELLA, Appunti a proposito di «principio di diritto» e «cassazione

sostitutiva», cit., 1477 ss. 114

MAZZARELLA, op. loc. ult. cit.

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– 163 –

annullata qualsiasi possibilità di efficacia ultra vires, facendo sì che essa non

possa più considerarsi «de hoc mundo»: il che rende improbabile, dice

Mazzarella, «una sua misteriosissima reviviscenza dalle ceneri» al fine di

vincolare il giudice di rinvio agli accertamenti di fatto in essa contenuti115

. E

dal momento che, soggiunge Mazzarella, da qualche parte il giudizio di fatto,

che al di fuori della sententia non esiste, deve pur essere collocato, a nulla

potrebbe giovare il dire, con Chiovenda, che sia possibile distinguere una

funzione di annullamento, correlata ai vitia in procedendo, che toglierebbe di

mezzo la sentenza, oltre che come atto di accertamento, anche come atto

giuridico, e una funzione di cassazione, correlata agli errores in iudicando, in

grado di eliminare la sentenza come atto di applicazione della legge, ma non

di rimuoverlo come mero atto giuridico.

Tale distinzione, chiosa infatti Mazzarella, prima ancora che

storicamente e positivamente sconfessata dalla piena fungibilità semantica

con cui i due termini sono stati utilizzati e nel linguaggio comune e nel

linguaggio della legge116

risulta più a monte essere impedita da

un’impossibilità logica, perché «in concreto la sentenza come atto

giurisdizionale “è” un atto di applicazione della legge»117

e non v’è modo di

dissociare al suo interno il contenuto giuridico da quello fattuale, per

caducare l’uno e conservare l’altro.

Secondo Mazzarella, dunque, il corollario che se ne deve trarre è,

evidentemente, che non vi è altra sede per il cd. giudizio di fatto, a seguito

della cassazione con rinvio, che non sia quello della sentenza del giudice del

rescissorio: in altri termini, il principio di diritto, per via della natura di

enunciato normativo che gli compete, la quale determina che esso si atteggi

come la lex specialis della controversia, o, per dirla alla maniera

115

MAZZARELLA, op. loc. ult. cit. 116

Tale era l’argomentazione contro la dicotomia chiovendiana avanzata da

CALAMADREI, La Cassazione civile, vol. II, cit., 326 ss., già evocata: v. retro, capitolo primo 117

MAZZARELLA, op. cit., 1479, nt. 47.

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– 164 –

anglosassone, come case-law, non può essere fonte di preclusione quanto al

sostrato fattuale accertato nella fase di merito su cui si appunta, poiché tra il

principio giuridico e i fatti a cui esso si riferisce intercorre, mutatis mutandis,

lo stesso rapporto che passa tra la norma e la fattispecie regolata.

Contestualizzando, d’altro canto, il principio di diritto nell’ambito del

giudizio di annullamento in cui viene ad esistenza, è altrettanto chiaro, per

Mazzarella, che cade ogni possibilità di considerarlo come dictum giuridico

che sutura la ricostruzione dei fatti effettuata dal giudice anteriore,

sintetizzandola nel giudizio di diritto, proprio perché il ridetto principio

germina, per così dire, sulle macerie della sentenza che incorpora il giudizio

di fatto del giudice anteriore, sulla distruzione giuridica dell’atto che quella

ricostruzione storica reca in sé.

La disciplina del rinvio, del resto, confermerebbe questa ipotesi

interpretativa, perché, ad avviso di Mazzarella, nella previsione contenuta

all’art. 394 c.p.c., secondo cui le parti non possono prendere conclusioni

diverse da quelle che furono prese nel giudizio culminato nella sentenza

cassata, non si può tecnicamente leggere un impedimento, in capo al giudice

di rinvio, di immutare la base di fatto, diversamente valutando le allegazioni

e le deduzioni originarie.

Il limite imposto dall’art. 394 c.p.c. alla modifica del conclusum che le

parti avevano già preso in ordine ai fatti e alla loro prova, perciò, non pone

necessariamente un limite alla libertà del giudice in merito al loro

apprezzamento, stante la sostanziale diversità tra la funzione di accertamento

e quella della valutazione dei fatti118

.

Del resto, soggiungerà Mazzarella nella monografia dedicata al

giudizio di cassazione, tutta la «illibertà» cui si è ispirata la ricostruzione

118

ID., op. cit., 1482, ove, in nota, è anche invocata a sostegno dell’assunto l’autorità

di un illustre processualpenalista che parla di una «potestà esaminatoria» del materiale di

fatto già acquisito: SIRACUSANO, L’attività probatoria del giudizio di rinvio, in Riv. it. dir.

proc. pen. 1961, 224; in senso conforme, CAPPELLETTI, Nuovi fatti giuridici ed eccezioni

nuove nel giudizio di rinvio, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1959, 1616 ss.

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– 165 –

dell’ambito oggettivo del giudizio di rinvio con riguardo ai presupposti di

fatto sottostanti al principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte, al fine

di dare pregnanza all’obbligo del giudice di rinvio di uniformarvisi, è stata

resa possibile «solo pretermettendo mentalmente l’ipotesi del processo

riproposto»119

, evitando, cioè, di considerare che lo stesso obbligo di

uniformarsi al principio di diritto grava anche sul giudice del processo

instaurato con la riproposizione della domanda a norma dell’art. 393, sulla

cui cognizione la communis opinio è nel senso di non ritenere incombenti le

preclusioni considerate invece sussistenti per il giudice di rinvio.

La prospettiva tendenzialmente unitaria, con cui il Mazzarella ritiene di

dover affrontare l’analisi del principio di diritto in relazione all’operatività

dell’effetto vincolante programmata sia con riferimento al giudizio di rinvio

che con riferimento al processo riproposto, lo induce a rintracciare nel 3°

comma dell’art. 310 c.p.c. – in base al quale le prove raccolte nel giudizio

estinto sono liberamente valutate dal giudice ai sensi dell’art. 116, comma 2,

come argomenti di prova – la disciplina comune ai due giudizi circa la sorte

del materiale di fatto: esso ricomprenderebbe, per l’autore, «non solamente il

già raccolto materiale probatorio in senso stretto, ma anche il fatto storico»,

che «costituiscono entrambi dati dai quali non è possibile per il nuovo

giudice prescindere». «Se veramente», asserisce Mazzarella, «come tutto

lascia pensare, processo riproposto a seguito degli eventi indicati nell’art. 393

e giudizio di rinvio – pur (…) nelle innegabili differenze (…) – costituiscono

un unico complesso di esperienza, almeno per quanto riguarda l’efficacia

della sentenza della Cassazione, non diverso valore devono avere nell’uno e

nell’altro il materiale probatorio e gli accertamenti di fatto compiuti nelle fasi

pregresse. Il che vuol dire non solo che né nel processo, né nel giudizio di

rinvio, quei materiali e quegli accertamenti sono sprecati, ma che nei

confronti di essi i nuovi giudici hanno un vero e proprio dovere di esaminare

119

MAZZARELLA, Analisi del giudizio civile di cassazione, cit., 96.

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– 166 –

e valutare, sia pure nel quadro della loro ineliminabile libertà di

convincimento».120

A questa diversa visione delle cose, del resto privilegiata da una

giurisprudenza più risalente121

, Mazzarella riconosce il merito di essere in

grado di decretare una riabilitazione del giudizio rescissorio, ridotto dalla

prassi che vuole l’immutabilità, in sede di rinvio, dei presupposti di fatto che

fungono da base al dictum della Suprema Corte a «mera parvenza, o, per

meglio dire, a luogo deputato non già a celebrare giudizi, bensì ad assemblare

pezzi prefabbricati da altri».122

Non solo: tale ricostruzione, ad avviso dell’autore, consente anche di

rendere coerente l’istituto della cassazione con rinvio con contestuale

enunciazione del principio di diritto, con la natura essenzialmente ablatoria, e

non già sostitutiva, del rimedio del ricorso per cassazione, così come inscritta

nella sua originaria articolazione.123

Non a caso Mazzarella chiama in causa l’opinione eterodossa formulata

dal Satta in tempi non sospetti – e ancora de iure condito immaturi perché la

si potesse accreditare – in merito al fenomeno della cassazione con rinvio,

per trarne un argumentum a contrariis a sostegno della sua ipotesi

ricostruttiva.

Satta, come noto, traccia una teoria intorno al problema della

cassazione per errore di merito che si muove nel solco di una concezione

anticonvenzionale della Cassazione, esorcizzante il modello del giudizio

«puro» di legittimità.

Senza tornare su ricapitolazioni altrove svolte124

, qui occorre dare solo

brevemente conto che Satta era intervenuto con un taglio netto al nodo

120

MAZZARELLA., op. ult. cit., 95-96. 121

Cass. 12 marzo 1951, n. 600, e Cass. 31 marzo 1959, n. 754. Una più recente

applicazione di questi principi la si rinviene in Cass. 17 marzo 1999, n. 2436. 122

MAZZARELLA., op. ult. cit., 92. 123

MAZZARELLA, Appunti, 1493 ss. 124

V. retro, capitolo secondo.

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– 167 –

gordiano del problema della natura del principio di diritto: sostenendo, da un

lato, che non si potesse parlare di giudicato con riferimento a un dictum in

iure basato su fatti meramente ipotetici; dall’altro lato, però, soggiungendo

che, nella pratica, quasi mai avviene che la Corte si pronunci su fatti

meramente ipotetici e che, indubbiamente, quando il principio di diritto viene

enunciato su fatti accertati definitivamente dalla giurisprudenza di merito, ci

si trova di fronte ad un giudicato, che non riguarda solo il punto di diritto, ma

anche i fatti posti a suo fondamento.

Riprendendo l’esempio delle clausole-oro del Redenti, egli asseriva

che, accanto al caso in cui il giudice di merito respinge la domanda fondata

su una clausola qualificata dalla parte come clausola-oro, assumendo

l’inefficacia generale di tutte le clausole-oro, ma senza scendere ad esaminare

in concreto se la qualifica effettuata dalla parte in merito alla clausola possa

considerarsi corretta (ipotesi che, dice Satta, approdata in cassazione con la

bocciatura dell’interpretazione della legge resa dal giudice di merito circa il

presupposto giuridico della invalidità generale di tutte le clausole-oro, dà

luogo effettivamente ad un principio di diritto come enunciato astratto in

ordine a fatti ipotetici, «quasi una direttiva per il futuro giudizio ancora da

compiere»125

), è molto più plausibile e frequente che il giudice respinga, sì, la

domanda, sulla base dell’erroneo convincimento della generale inefficacia

delle clausole-oro, ma solo dopo essere sceso ad esaminare in punto di fatto

se la clausola su cui si controverte è in effetti una clausola-oro: ed è evidente,

in questo secondo caso, che il principio di diritto «darebbe un giudizio

concreto, si inserirebbe anzi nel giudizio concreto già dato, sostituendolo

nella sua conclusione».126

E, se nel primo caso, «parlare di giudicato sarebbe veramente un

assurdo, perché il giudicato non si può formare … che sul giudicato», nel

125

SATTA, Commentario, cit., 277. 126

SATTA, op. loc. ult. cit.

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– 168 –

secondo caso è invece «indubbio che il principio di diritto costituisca

giudicato».127

Da qui, Satta traeva spunto per asserire che, nel caso di accoglimento

del ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, con

enunciazione del dictum in ordine a fatti definitivamente accertati nella fase

di merito, la cassazione sarebbe dovuta avvenire senza rinvio; e per

propugnare una soluzione più efficiente e più onesta consistente, in sostanza,

nell’utilizzazione del paradigma dell’improponibilità della causa,

contemplata dall’ultimo comma dell’art. 382 c.p.c. come occasione di

cassazione senza rinvio, anche in relazione ai casi in cui la Corte riconosce ex

post che l’azione della parte non poteva essere proposta perché infondata nel

merito.

Questa interpretazione, indubbiamente evolutiva, della norma in

questione incontrò il dissenso pressoché unanime della dottrina (la quale, in

generale, riteneva che la Corte potesse procedere alla cassazione senza rinvio

per improponibilità o improseguibilità della causa ex ultimo comma dell’art.

382 c.p.c. solo in occasione del riscontro di taluni impedimenti procedurali,

riconducibili comunque all’area del n. 4 dell’art. 360, quali i casi di difetto di

legittimazione o di interesse ad agire, di nullità della citazione introduttiva, di

inammissibilità o di improcedibilità dell’appello, di violazione del giudicato

interno, di irrituale mutamento della domanda, di ultra ed extra petizione). Di

essa non mancò tuttavia qualche non del tutto sporadica applicazione, più o

meno consapevole, da parte della giurisprudenza128

.

Ciò che preme però rilevare è che, a margine della ridetta

interpretazione evolutiva, Satta accludeva la glossa che, anche a voler aderire

all’opinione tradizionale secondo cui l’ultimo comma dell’art. 382 c.p.c. non

127

SATTA, op. loc. ult. cit. 128

Cfr. gli esempi addotti dallo stesso Satta, op. cit., 270 ss., ed, in particolare, il caso

classico di cassazione senza rinvio in tema di prescrizione erroneamente ritenuta non

compiuta dal giudice di merito in Cass. 21 maggio 1958, n. 1707, criticata da REDENTI, In

tema di cassazione senza rinvio, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1959, 699 ss.

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– 169 –

include l’ipotesi del riconoscimento a posteriori dell’infondatezza nel merito

della domanda, se la causa è sostanzialmente decisa, per essere i presupposti

di fatto del principio di diritto definitivamente accertati, il rinvio che la Corte

dispone in omaggio alla prassi, non potrebbe che essere «puramente

formale»129

.

Ebbene, secondo Mazzarella, Satta, con questi argomenti, aveva ben

chiarito che intorno a fatti meramente ipotetici non si potesse creare un

giudicato; e che di giudicato si potesse parlare non attraverso la formula di

giudicato sul punto di diritto, bensì solo qualora si riconoscesse immutabile la

ricostruzione fattuale presupposta al giudizio della Corte, in tal caso, però,

dovendosi, coerentemente, negare la necessità del rinvio.

In tal modo, l’analisi spregiudicata di Salvatore Satta diventa un

contributo decisivo a dissotterrare quella che per Mazzarella è la realtà

presupposta al riconoscimento dell’immutabilità degli antecedenti di fatto

sottesi al principio di diritto in sede di rinvio: in sostanza, la realtà per cui, a

voler estendere la stabilità del dictum in iure ai presupposti di fatto, non si fa

che ammettere che la Suprema Corte pone in essere una operazione

sostitutiva e non cassatoria.

Pertanto, se, invece, come Mazzarella ritiene, si deve prestare ossequio

alla scelta di struttura di organizzare il sistema cassazione come

impugnazione rescindente cui deve seguire un rinvio in caso di annullamento,

e si fa venir meno il presupposto dell’accesso al merito della Cassazione per

il tramite della sussunzione degli elementi fattuali mutuati dalla sentenza

impugnata, deve necessariamente riconoscersi che, se un rinvio pure deve

disporsi, questo non può essere semplicemente formale; e che al giudice di

rinvio vanno conservati, dunque, i poteri di riesame dei fatti accertati nelle

pregresse fasi di merito e posti a base del dictum della Corte, poteri che

dovrebbero perciò includere la facoltà di una complessiva rivalutazione

129

SATTA, op. cit., 278.

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– 170 –

dell’integrale sostrato fattuale della causa e una sintesi critica tra i vecchi

apprezzamenti e i nuovi fatti accertati.

La scaltrezza del rinvio alla tesi di Satta da parte di Mazzarella sta

soprattutto nell’aver evidenziato, all’interno di un discorso complesso che

Satta svolge anche in prospettiva de iure condendo, oltreché in un’ottica

ricostruttiva, la fibrillazione che si cela dietro l’istituto stesso della

Cassazione: ossia la possibilità di dissociare il giudizio di fatto dal giudizio di

diritto.

Salvatore Satta aveva esposto il suo pensiero al riguardo con tagliente

lucidità: «(…) considerata in assoluto, la distinzione tra giudizio di fatto e

giudizio di diritto non ha alcuna razionalità; anzi, è assolutamente irrazionale

perché contraddice alla essenziale unità del giudizio. Non esistono due

giudizi, ma due (o più) momenti del giudizio, che risultano all’analisi, e che

possono essere anche separati per fini pratici, come appunto avviene nella

Cassazione. Si può anche aggiungere che nel giudizio fatto e diritto non

esistono come dati esterni, storici, né come categorie astratte: non si può cioè

parlare nel processo di un fatto così come ne parlano i civilisti e i penalisti,

cioè di un accadimento di cui si riconosce la giuridicità o l’antigiuridicità in

rapporto a una fattispecie astratta di legge; nel processo il fatto si presenta

come affermazione, da un lato, e come giudizio dall’altro, onde fatto e

giudizio si identificano, cioè il giudizio è “creativo” del fatto»130

.

Sennonché, aveva poi puntualizzato il maestro, il metodo migliore per

distinguere sul piano logico i due momenti di un’operazione unitaria qual è il

giudizio è quello di «riportarsi alla struttura stessa della norma, la quale

contiene, o più semplicemente è, la previsione di un fatto di cui, con la

previsione stessa, e per ciò solo che lo prevede, stabilisce e determina la

giuridicità».131

E aveva concluso poi asserendo che, mentre il giudizio

sull’accadimento sul fatto particolare è connotato da una discretività effettiva,

130

SATTA, op. cit., 191. 131

SATTA., op. loc. ult. cit.

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– 171 –

«perché i giudizi storici dipendono tutti da un’opzione di chi li fa, sono, per

quanto paradossale possa sembrare, al di là del vero e del falso, nel senso che

possono essere ritenuti veri o falsi soltanto attraverso un altro giudizio, e

quindi sono astrattamente incontrollabili», nel giudizio che riguarda le

premesse «ora avvertite ora inavvertite ora esplicite ora implicite» che

servono sì per catalogare il fatto storico, ma che si pongono come valide per

tutti i giudizi, cioè come normative, la discretività «è del tutto apparente»,

«meramente formale, non essendovi l’opzione tra due (possibili) verità, ma

tra la verità e l’errore, che non è un’opzione».132

Allora, si capisce come, nella visione di Satta, la propensione verso il

modello della terza istanza sia correlato alla convinzione che, in sede di

cassazione, il controllo sulle premesse giuridiche sotto le quali si sia sussunto

il fatto storico non possa essere meno «meritale» di quanto non sia nelle fasi

cosiddette «di merito», e che l’esclusione dal giudizio sull’esistenza del fatto

storico, l’unico, ad avviso dell’autore, veramente discretivo, non valga a

distanziare la Cassazione dai giudici di merito al punto tale da consentire di

inquadrare la medesima operazione – il cd. giudizio di diritto – qui, nel

giudizio di cassazione, solo come operazione di ricerca di verità

dell’ordinamento, e lì, presso i giudici di merito, solo come applicazione

della norma.

Anche il discorso del Mazzarella è intessuto dalla convinzione che il

giudizio di diritto sia difficilmente distinguibile dal giudizio di fatto: «più che

“fatti” (costitutivi o estintivi, che dir si voglia, i quali si presentano nei

manuali), in realtà nel processo si presentano questioni di fatto», e «queste

sono talmente implicate e intrecciate tra di loro e con le questioni di diritto da

rendere difficile una loro separata e autonoma considerazione»133

.

Ma, nel pensiero di Mazzarella, la consapevolezza che «“fatto” e

“diritto” non sono realtà ontologiche, ma modi di organizzazione del

132

SATTA, op. cit., 192. 133

MAZZARELLA, Analisi…, cit., 147.

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– 172 –

pensiero», e che «si tratta di una coppia dialettica che serve a introdurre un

certo ordine in un dato dell’esperienza – il giudizio – nel quale l’aspetto

particolare e l’aspetto collettivo sono effettivamente indistinti», induce a

ritenere che il giudizio normativo che la Cassazione svolge sui ricorsi

promossi ex art. 360, n. 3 resta a livello della «manipolazione intellettuale del

fatto» in grado di condurre ad «una vera e propria reductio (di quanto di vario

e molteplice ha il reale) ad unitatem»134

.

Ciò, anche in virtù dell’adozione di un modello di Cassazione qual è

quello che ci proviene dalla Francia dell’Illuminismo, secondo il quale la

Suprema Corte «è una istituzione positivamente organizzata a non recepire, e

quindi, a porre da canto, gli aspetti particolari e individualizzanti del giudizio

giurisdizionale, e, per converso, a lasciar filtrare soltanto la struttura

collettiva»135

: e questa operazione, aggiungerà a un dipresso, non può

avvenire se non a prezzo di una «destorificazione del fatto»136

, incompatibile

con la calcificazione del sostrato fattuale della decisione della Cassazione

nella prospettiva della successiva definizione della causa demandata al

giudice di rinvio.

In critica a questa impostazione ricostruttiva si può tuttavia rilevare che

una cosa è dire che il giudizio sul punto di diritto costituisce un «modo di

organizzazione del pensiero», implicante «una manipolazione intellettuale del

fatto»; altro è dire che l’enunciazione del princpio di diritto ad opera della

Cassazione è strutturalmente incompatibile con la stratificazione degli

apprezzamenti di fatto svolti nei gradi di merito, se è vero anzi che è proprio

su quegli apprezzamenti di fatto che è consentito alla Corte – non potendo

essa autonomamente riformulare il giudizio di fatto – «organizzare il

pensiero» per usare le parole di Mazzarella, ed in tal modo elargire questo

134

MAZZARELLA, op. loc. ult. cit. 135

MAZZARELLA, op. cit., 85. 136

MAZZARELLA, op. cit., 86.

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– 173 –

criterio, appunto, organizzativo del pensiero, al giudice di rinvio,

individuando la fattispecie normativa a cui dare applicazione.

Ci pare peraltro evidente che la prospettiva adottata da questo autore

ometta completamente di considerare gli effetti del giudicato interno sui

singoli apprezzamenti di fatto e considera l’accoglimento della censura di cui

al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. come se questa comportasse l’irrilevanza di censure

puntuali e specifiche svolte alla sentenza impugnata ai sensi dell’art. 5

dell’art. 360 c.p.c. Ma così non può essere: perché se la legge ha configurato

uno specifico motivo di censura in relazione al vizio di illogicità od

incongruenza occorso nel giudizio di fatto, senza connotarlo di residualità, è

evidente che è necessario spendere quella censura per ottenere la rimozione

di quel vizio e riaprire la strada ad una revisione del giudizio di fatto.

La presenza della censura di cui al n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c.

dovrebbe infatti dimostrare l’incompatibilità con il sistema di una

ricostruzione che vede gli apprezzamenti di fatto svolti nei gradi di merito

come integralmente spazzati via dalla sentenza di cassazione che accoglie

una censura di cui al n. 3 dell’art. 360 e dispone il rinvio.

La posizione di Mazzarella appare più che altro pregiudicata da una

certa visione dell’istituzione della cassazione, che si trova in antinomia col

sistema e col diritto vivente, e ciò è dimostrato dal fatto che, di fronte alla

positiva codificazione del potere della Corte di cassazione di decidere la

causa nel merito, così come preconizzato da Satta, Mazzarella non arretra sul

suo punto di vista, come ci si sarebbe aspettati in base alle argomentazioni

che egli aveva sviluppate intorno all’inutilità del giudizio di rinvio invocando

l’autorità di Satta; nel cui pensiero, in verità, la cassazione sostitutiva ed il

giudizio di rinvio sono contemplati come fenomeni alternativi non in forza

della polverizzazione degli accertamenti di fatto pregressi operata dalla

pronuncia di annullamento, ma in forza dell’esigenza effettiva di

accertamenti ulteriori (l’esigenza cioè, di stabilire in concreto, perché il

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– 174 –

giudice di merito non lo ha fatto prima, se la clausola su cui si controverte è

in effetti una clausola-oro, per tornare al richiamato esempio redentiano).

A dispetto dei commenti pressoché unanimi sulla riforma del ’90,

secondo cui la nuova formulazione dell’art. 384 c.p.c. non faceva che

avvalorare la tesi della sussistenza di un severo sistema di preclusioni in sede

di rinvio, correlato all’assunto che la sopravvivenza alla pronuncia della

Cassazione degli apprezzamenti di fatto compiuti nelle pregresse fasi di

merito era ormai definitivamente sancita dalla possibilità che sulla base di

quegli stessi presupposti ormai la stessa Corte potesse pronunciarsi nel

merito137

, Mazzarella di contro afferma che, alla luce del novellato art. 384

c.p.c., alla Corte compete un giudizio sul fatto consistente nel «decidere di

non poter decidere nel merito»: un giudizio che, se chiuso con esito positivo,

nel senso dell’accertamento della necessità di accertamenti ulteriori con

conseguente necessità di disporre il rinvio, comporta «una “svalutazione”

degli accertamenti già compiuti, nel senso che essi vengono riconosciuti

inidonei per fondare il nuovo giudizio di merito»138

. Col che, la possibilità

per il giudice di rinvio di immutare la base di fatto attraverso una valutazione

unitaria dei fatti accertati con quelli da accertare, risulterebbe definitivamente

sancita.

La forzatura di questa argomentazione (e della conclusione che se ne

ricava) è evidente. Essa si espone all’inevitabile rilievo che se l’art. 384

c.p.c., nel formulare l’ipotesi della decisione della causa nel merito come

alternativa al giudizio di rinvio, afferma che il presupposto del rinvio è

l’esigenza di accertamenti di fatto «ulteriori», ciò non significa, anche dal

137

V., per tutti, CONSOLO-LUISO-SASSANI, Commentario alla riforma del processo

civile, Milano 1996, 463; BALENA, La riforma del processo civile di cognizione, cit., 472. 138

MAZZARELLA, voce Cassazione (dir. proc. civ.), in Enc. giur., vol. V, Roma, 1993,

cit. Invece, a fronte della modifica apportata dalla novella del 1990 ed il riconosciuto potere

della Corte di decidere nel merito la causa, Mazzarella conferma la sua analisi: asserisce che

«con la riformulazione dell’art. 384, non si è certo voluto cambiare “sistema”», e ripropone,

a tal uopo, l’argomento dell’organizzazione storica della cassazione, che non può, per i suoi

limiti istituzionali, effettuare giudizi di fatto.

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– 175 –

punto di vista dell’esegesi letterale, che gli accertamenti compiuti sono da

rifare, ma che la pronuncia di annullamento ha fatto emergere la necessità di

altri accertamenti, rispetto a quelli già compiuti.

2.4. A proposito dell’«ambiente processuale» in cui opera il vincolo:

l’incidenza dell’art. 393 c.p.c. nelle ipotesi ricostruttive circa la natura del

principio di diritto. Considerazioni minime sull’efficacia «interna» di

accertamento.

L’elaborazione di Mazzarella – la quale, al netto di una certa ideologia

sul «sistema cassazione», che può essere più o meno condivisibile, offre degli

spunti estremamente fecondi dal punto di vista dell’analisi di logica giuridica

del fenomeno cassazione-rinvio – appare, lo si è già detto, fortemente

contrassegnata dall’esigenza di fornire una visione unitaria dell’efficacia del

principio di diritto nel giudizio di rinvio e nel processo riproposto.

Invero, sebbene questo autore lamenti che le ipotesi ricostruttive

circolanti intorno al principio di diritto ed alla sua vincolatività nei confronti

del giudice di rinvio sono state concepite «solo pretermettendo mentalmente

l’ipotesi del processo riproposto»139

, è appena il caso di rilevare che la

disciplina dell’estinzione del giudizio di rinvio ha rapprsentato in realtà uno

dei fattori di maggior influenza sulle qualificazioni dogmatiche che del

vincolo sono state proposte dall’approvazione del nuovo codice di rito in poi:

ché, come noto, intorno alla novità dell’art. 393 c.p.c. si è convogliato

l’interesse degli studiosi in cerca della definitiva soluzione all’antico

dilemma circa la collocazione del principio di diritto entro lo schema della

preclusione o quello del giudicato.

È altrettanto noto che la positiva affermazione della «conservazione

dell’effetto vincolante» nel processo riproposto a seguito dell’estinzione si

139

MAZZARELLA, Analisi del giudizio civile di cassazione, cit., 96.

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– 176 –

faceva fatalmente sospingere in direzioni esattamente opposte, a rimorchio

ora della tesi dell’assimilabilità al giudicato del vincolo, ora della tesi della

natura preclusiva dello stesso, a seconda che si desse preminenza alla novità

del dato della ultrattività o, viceversa, alla più circoscritta efficacia

extraprocessuale desumibile dall’art. 393 c.p.c. rispetto a quella propria del

giudicato.

A nostro avviso, l’«aspettativa legittima», di cui il Mazzarella si faceva

interprete, che il principio di diritto non manifesti differente natura a seconda

della diversa sede della sua applicazione, non era poi così legittima. Invero,

non si vede perché la disciplina che il codice detta in relazione ad

un’evoluzione anomala della vicenda processuale qual è l’estinzione, in

ordine alla quale vicenda è evidente che ci sia l’esigenza di stabilire quali

delle attività compiute nelle fasi processuali svolte a pieno regime si salvano

e quali no, debba essere in grado di dire la parola decisiva in merito alla

natura del principio di diritto.

Proprio la circostanza che le norme dettate in materia di estinzione si

preoccupano, per così dire, di “salvare il salvabile” di fronte all’episodio

patologico del naufragio del processo, da esse ci si deve limitare a ricavare il

lato esteriore dell’efficacia dell’atto, in funzione, appunto, del fatto che

l’estinzione sia o meno in grado di travolgerne gli effetti; ci si deve,

insomma, limitare a trarre indicazioni sulla volontà della legge di corredare

l’atto di efficacia ultrattiva, secondo diverse gradazioni e modalità, che vanno

dal passaggio in giudicato (così, la sentenza di primo grado in caso di

estinzione del giudizio d’appello o di revocazione nei casi previsti dai nn. 4 e

5 dell’art. 395, secondo quanto testualmente afferma l’art. 338 c.p.c.)

all’attribuzione di un’efficacia che può essere variamente modulabile in

relazione alla presenza di altri fattori (ad esempio, per le sentenze non

definitive di merito emanate in primo grado, che l’art. 310 c.p.c. preserva

dall’estinzione, l’essere stata proposta contro di esse la riserva d’appello fa sì

che esse non passino immediatamente in giudicato, ma acquistino, a processo

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– 177 –

estinto, efficacia di sentenza definitiva ai fini della possibilità di proporre

appello, con decorrenza dei termini per impugnare a partire dal «giorno in cui

diventa irrevocabile l’ordinanza, o passa in giudicato la sentenza, che

pronuncia l’estinzione del processo»: così, il comma 3 dell’art. 129 delle

disposizioni di attuazione del c.p.c.)140

. conseguenza

140

In questo quadro vischioso, ove si incrociano i tentativi di ragguagliare l’efficacia

del principio di diritto in quanto soluzione di questione di diritto all’efficacia delle sentenze

non definitive su questione, mette conto segnalare la sistemazione che Sergio Menchini

offre, se così si può dire, «in occasione» dello studio del giudicato civile, ossia in coerenza

con l’onere ricostruttivo di scriminare, in base alla mappatura degli effetti stabiliti dalle

norme, ciò che è giudicato da ciò che non lo è. Premessa metodologica del discorso di questo

a. sul tema che ci occupa è infatti che, ai fini dell’individuazione dell’efficacia alle pronunce

diverse da quelle che definiscono la causa decidendo nel merito della domanda, si deve

prescindere dai concetti generali sull’essenza del giudicato e concentrare piuttosto

l’attenzione sul dato positivo. In particolare, l’a. prende in considerazione gli artt. 310,

comma 2 (e 129 disp. att. c.p.c.), 44 e 393 c.p.c. per ricavarne quanto segue: a) le sentenze su

questioni di rito non producono effetti extraprocessuali, con la sola eccezione di quelle della

Cassazione sulla competenza, alle quali si possono assimilare quelle emesse dallo stesso

organo sulla giurisdizione; ciò è reso palese dall’art. 310, comma 2, c.p.c. e trova conferma

nell’art. 44 c.p.c., che stabilisce la vincolatività per i futuri giudici delle decisioni dei

magistrati di merito sulla competenza esclusivamente se la causa è riassunta in termini; b)

hanno efficacia panprocessuale, sempre che venga riproposta la stessa domanda, le sentenze

della Cassazione in ordine al principio di diritto enunciato somministrato al giudice di rinvio

(art. 393 c.p.c.) e le pronunce aventi ad oggetto la soluzione di questioni preliminari di

merito (art. 310, comma 2, c.p.c.); per questo a., il comma 2° dell’art. 310 c.p.c., infatti,

allorché parla di «sentenze di merito», si riferisce alle sentenze su questioni preliminari (di

merito) emesse in forza del combinato disposto dei nn. 2 e 4 del 2° comma dell’art. 279

c.p.c. Restano invece escluse dall’ambito di operatività di quella norma le cosiddette

sentenze parzialmente definitive, le quali, pur non definendo totalmente il giudizio, decidono

interamente alcune delle più domande cumulate in unico processo: queste, infatti, una volta

divenute stabili ex art. 324 c.p.c., producono senz’altro l’autorità di cosa giudicata ex art.

2909 c.c. A questo proposito, si chiarisce che il proprium del giudicato sta nel fatto che il

provvedimento incide prima sulla sfera sostanziale, imponendosi alle parti come

regolamento autoritativo del rapporto giuridico, e poi sulla sfera processuale, vincolando

ogni giudice a tenere fermo il precedente accertamento. Non così per la sentenza che decide

di una questione (di rito o di merito), la quale non dichiara una concreta volontà di legge che

incide nella sfera sostanziale, uscendo dal processo per potervi poi essere nuovamente calata.

Sembra perciò opportuno, per l’a., tenere distinto il fenomeno giudicato dalla stabilità delle

sentenze che decidono di una questione (di rito o di merito) e, alla stregua di una felice

proposta terminologica di Montesano, parlare, con riferimento a queste ultime, di efficacia

panprocessuale. Tale efficacia si caratterizza i) per la incontestabilità del decisum in futuri

giudizi, ma alla condizione che questi si celebrino tra gli stessi soggetti del primo

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– 178 –

Proseguendo in quest’ordine di idee, è lecito asserire, per quanto

concerne la pronuncia in punto di diritto della Suprema Corte, che la

circostanza che la mancata riassunzione nei termini del giudizio di rinvio o il

verificarsi di una causa estintiva del giudizio di rinvio medesimo, le quali,

pur determinando l’estinzione dell’intero processo, lasciano in vita l’effetto

vincolante della pronuncia della Corte, di cui si dichiara la «conservazione»

come di qualcosa di cui quell’atto sia già dotato, non deve indurre a ritenere

che nell’effetto salvato dall’estinzione sia racchiusa la verità sulla natura del

principio di diritto: così che, per ricostruirla, diventa imprescindibile il dato

dell’«ipoteticità», sulla cui attitudine chiarificatrice molta dottrina, pur da

angoli visuali non coincidenti, ha inizialmente riposto una fiducia

incondizionata.

Anzi, si può dire che in generale l’estinzione ha un’efficienza, per così

dire, manipolativa sul regime degli atti dei quali viene dichiarata la salvezza

o la conservazione: basti pensare, per fare l’esempio di più immediata

limpidezza, che la sentenza di primo grado, cui la proposizione dell’appello,

anche in caso di conferma, inibisce ormai il passaggio in giudicato in via

autonoma, passa invece integralmente in giudicato quando la fase di appello

si estingue.

In buona sostanza, qui si vuole sostenere che si è preteso di far dire

troppo all’art. 393, e che questa norma comunque non vale a svelare la natura

del fenomeno decisorio sul punto di diritto, sotto l’aspetto, rilevantissimo,

della endoprocessualità.

procedimento e che vi si faccia valere il medesimo diritto ivi dedotto; nonché ii) per la

tendenziale cedevolezza rispetto alla sopravvenienza di una nuova legge, che, interpretando

retroattivamente la normativa vigente oppure innovando rispetto a questa, stabilisca regole

diverse per la soluzione delle questioni già decise. Diversa dall’uno e dall’altro tipo di

efficacia è, invece, la nozione di efficacia processuale, che ha piuttosto lo scopo di garantire

un ordinato svolgimento del processo e risponde ad esigenze di economia processuale: per

questa estrema sintesi e schematizzazione di corollari ricavati nel solco di ampi studî sul

tema del giudicato civile, v. MENCHINI, voce Regiudicata civile, cit., § 7.

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– 179 –

Non solo non è indifferente che si consideri il punto di diritto coperto

da giudicato interno o da preclusione endoprocessuale, con riguardo al

profilo del regime di rilevabilità della relativa eccezione, posto che la

giurisprudenza ammette pacificamente e in maniera generale la rilevabilità

officiosa, anche in sede di legittimità, del giudicato interno141

, mentre la

preclusione endoprocessuale soggiace al regime delle eccezioni in senso

stretto142

; ma soprattutto è importante la qualificazione del vincolo in

relazione all’atteggiarsi di questo in sede di rinvio, ai limiti che il vincolo

stesso pone alla cognizione del giudice del rescissorio.

Che l’analisi del principio di diritto non debba essere pregiudizialmente

ipotecata da un ipertrofico riguardo al destino del vincolo di fronte al

fenomeno dell’estinzione del processo, è, a nostro parere, efficacemente

dimostrato dalla lucidità con cui il tema del pronuncia in iure vincolante della

Suprema Corte era affrontato dal Pavanini sotto la vigenza del codice del

1865, quando una norma corrispondente a quella dell’attuale art. 393 non

esisteva.

Perché, a prescindere dalle considerazioni cadute, per così dire, in

prescrizione, non v’è dubbio che il monito, che Pavanini idealmente rivolge

ai suoi colleghi, a non respingere l’idea di un accertamento dotato di «puro

valore interinale» è uno spunto prezioso dal quale partire per svolgere una

spregiudicata analisi del vincolo del principio di diritto; e non è un caso che

l’ottica dalla quale Pavanini si pone ad osservare il fenomeno della

vincolatività delle pronunce in iure delle sezioni unite ex art. 547 c.p.c. abr.,

che è l’ottica della pregiudizialità, è il terreno su cui la dottrina ha

141

Cfr., a titolo esemplificativo, Cass. 2 giugno 1998, n. 5406; Cass. 29 agosto 1998;

Cass. 26 febbraio 1999, n. 1672. 142

Muovendo da tale premessa, Cass. 7 settembre 1993, n. 9401 affermava che tra le

questioni rilevabili d’ufficio non potrebbe essere compresa quella relativa alla inosservanza,

da parte del giudice di rinvio, del regime delle preclusioni nascenti dalla pronuncia della

Cassazione: sul punto, v. PANZAROLA, La Cassazione civile giudice del merito, vol. II, cit.,

566, nota n. 1668.

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– 180 –

successivamente raffinato, al netto della preoccupazione di contenere

l’estensione oggettiva del giudicato sostanziale di cui all’art. 2909 c.c., lo

studio dell’efficacia endoprocessuale delle decisioni su questioni, che il

Pavanini efficacemente definiva «passaggi pregiudiziali».

Di questa tendenza condivisibile, si trova traccia, in nuce, anche nel

pensiero di uno degli autori che patrocinano la tesi più restrittiva riguardo alla

possibilità di riconoscere alle pronunce rese in forma di «sentenza»

l’attitudine al giudicato ex art. 2909 c.c., ovvero Luigi Montesano. Questi, in

uno scritto del 1952 143

, nel respingere sia la tesi del giudicato che quella

della preclusione con riferimento al principio di diritto, giudica quest’ultima

ancora «più lontana dal vero di quelle che si riferiscono ad un giudicato di

merito – sia pure sui generis – sull’enunciazione del principio di diritto».

Infatti, secondo l’autore, «l’efficacia di tale enunciazione va

considerata come un momento del procedimento di formazione dell’autorità

del giudicato: giacché si ha qui uno dei tanti casi di formazione progressiva

del comando»144

. Affermazione, questa, che va combinata con l’altra,

secondo la quale ciò che si rischia di non considerare a sufficienza, seguendo

Chiovenda e la sua scuola nel pur corretto tentativo di respingere le vecchie

teorie sulla natura logica della res iudicata e l’estensione del giudicato ai

motivi «oggettivi» della decisione145

, è che «se la funzione del giudicato non

consiste nella soluzione di questioni logiche, ma nell’attribuzione di un bene

della vita (o, secondo la terminologia di Carnelutti, nella composizione di una

lite), il mezzo per realizzare tale funzione non può essere che la preclusione

delle questioni relative all’attribuzione di quel bene (o alla composizione di

quella lite)»146

.

143

MONTESANO, La cosa giudicata, in Riv. dir. proc. 1952, II, 117 ss. 144

MONTESANO, op. cit., 119. 145

Sorte lungo la scia dell’insegnamento del SAVIGNY, Sistema del diritto romano

attuale, cit., 379 ss. 146

MONTESANO, op. cit., 118.

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– 181 –

La compenetrazione tra «cognizione logica» o «lavoro logico» ed

accertamento, che è alla base della teorica dell’efficacia «interna» del

giudizio147

, sta tutta in questa constatazione, per vero non ignota allo stesso

Chiovenda148

.

147

Così, CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., 139. 148

V. retro, in questo capitolo, nota n. 16; Chiovenda, come noto, è tra i principali

assertori della tesi secondo cui l’effetto di accertamento s’identifica con l’autorità di cosa

giudicata, e perciò ci realizza solo con l’immutabilità della sentenza. Per una valorizzazione

del concetto di «accertamento di fattispecie preliminare» ai fini della ricostruzione del

vincolo, DALFINO, Questioni di diritto e giudicato, cit., 226 ss., sviluppando le intuizioni

svolte da SASSANI, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, Padova 1989, 54 ss. 107

ss. in sede di analisi dell’efficacia della sentenza di annullamento di atti di esercizio della

potestà amministrativa: in particolare, l’idea per cui la sentenza di annullamento esprime

anche un fenomeno di accertamento, che produce ben di più del semplice effetto

condizionante o preclusivo, e si pone come fonte di obblighi positivi nei confronti

dell’amministrazione.

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– 182 –

CAPITOLO TERZO

IL PRINCIPIO DI DIRITTO E GLI AMBITI DECISORI DEL GIUDIZIO DI RINVIO

§ 1. Il principio di diritto in rapporto al sistema delle impugnazioni.

1.1. Le preclusioni nel giudizio di rinvio: premessa.

Nell’attuale formulazione dell’art. 384 del codice di rito, la pronuncia

del principio di diritto è correlata alla semplice decisione del ricorso al opera

della Suprema Corte1; ma un problema di individuazione della portata del

«vincolo» del giudice della causa al principio di diritto sussiste

evidentemente solo in quanto, coincidendo la pronuncia del principio di

diritto con l’accoglimento del ricorso ad opera della Suprema Corte – e non

sussistendo i presupposti affinché questa provveda direttamente alla

decisione nel merito della causa – attraverso la cassazione della sentenza sia

aperta la strada alla recezione del principio stesso da parte del diverso giudice

chiamato a definire la controversia nel merito2.

1 Benché, l’art. 384 c.p.c., nella versione risultante dalla novella del 2006, per ragioni

di nomofilassi, preveda l’enunciazione del principio di diritto in relazione alla «decisione»

del ricorso e non necessariamente al suo accoglimento (come invece testualmente prevedeva

la vecchia formulazione della norma, in cui l’enunciazione del principio era peraltro correlata

all’accoglimento del solo motivo di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c.), si può continuare,

nell’analisi che ci occupa, a pretermettere l’ipotesi dell’enunciazione del principio in caso di

rigetto del ricorso, ove il dictum della Corte non presenta, rispetto alla vicenda processuale

su cui interviene, un’efficacia particolare e diversa da quella della formale esplicitazione

della ratio decidendi ad opera della motivazione in diritto di una pronuncia, ad es., del

giudice d’appello: la formalità dell’enunciazione del principio giuridico sotteso al rigetto

dell’impugnazione servendo solo all’estrapolazione della ratio decidendi delle pronunce

emesse dal vertice della giustizia ordinaria onde favorire l’elaborazione delle massime e la

circolazione dell’interpretazione del diritto elaborata dalla Corte di cassazione, in funzione

evidentemente nomofilattica. Per il dubbio che il riformatore della novella del 2006 abbia

confuso i concetti di principio di diritto e massima giurisprudenziale, v. TARUFFO, Una

riforma del ricorso per cassazione …, cit., 771 ss. 2 L’idea che la rimessione della causa al giudice di rinvio costituisca l’ipotesi

residuale, a seguito dell’accoglimento del ricorso per cassazione, rispetto alla possibilità

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– 183 –

Negli studi che si sono occupati del tema, il problema della recezione

del principio di diritto è stato non tanto riferito al procedimento logico che

deve essere seguito dal giudice del rescissorio o dal giudice del processo

riproposto nell’applicazione del principio di diritto, quanto piuttosto

identificato – quasi istintivamente, per così dire – con il problema della

definizione dei confini della libertà che al giudice competente a definire la

causa residuano in ordine alla riesaminabilità degli antecedenti su cui è

intervenuto il principio di diritto proclamato dalla Suprema Corte.

Ciò, in quanto è evidente che a seconda che si ammetta o meno un tale

potere in capo al giudice di merito varia sensibilmente la possibilità che il

principio di diritto venga attuato oppure no; così come, per altro verso, ad

incidere sull’eventualità che nella fase successiva alla cassazione il dictum

enunciato dalla Corte risulti inconferente è la possibilità che in quella sede sia

rimessa in moto la ricostruzione dei fatti rilevanti di causa: ciò a cui allude

Francesco Paolo Luiso, quando dichiara che «ciò che rende vincolante il

principio di diritto in sede di rinvio è l’intangibilità dell’accertamento dei

fatti storici, così come effettuato dalla sentenza cassata»3.

della decisione nel merito della causa ad opera della Suprema Corte, già autorevolmente

sostenuta, anche prima della riforma del 2006, su tutti, da CIPRIANI, Contro la cassazione

con rinvio, in Foro it. 2002, I, 2524 ss., e da BOVE, Sul potere della Corte di Cassazione di

decidere nel merito la causa, cit., 713 ss. (per la consolidazione dell’opinione a seguito della

riforma, v. ID., La decisione nel merito della Corte di cassazione dopo la riforma, in Giusto

proc. civ. 2007, 773 ss.) è da ultimo rilanciata da GAMBINERI, Giudizio di rinvio e

preclusione di questioni, cit., 3-4 (ove, alla nt. 1, riferimenti di dottrina in merito all’opinione

tradizionale secondo cui il rinvio è l’ipotesi generale rispetto al fenomeno della cassazione

della sentenza) sulla base di un argomento letterale. In proposito, Gambineri osserva che la

norma di riferimento del cassazione con rinvio, ossia l’art. 383 c.p.c., adotta la tecnica della

residualità rispetto al precedente art. 382 («La Corte, quando accoglie il ricorso per motivi

diversi da quelli richiamati nell’articolo precedente, rinvia la causa ad altro giudice …»), per

cui la rimessione al giudice di rinvio è subordinata alla circostanza che non si sia verificata

un’ipotesi di cassazione senza rinvio oppure che non si sia statuito sulla giurisdizione o sulla

competenza. Secondo l’a., «il quadro, ora è completato dall’art. 384 cod. proc. civ. per cui il

rinvio è escluso anche quando la Corte di Cassazione, accolto il ricorso, “decide la causa nel

merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”». (ID., op. loc. ult. cit.). 3 LUISO, Diritto processuale civile, vol. II, Milano 2011, 486.

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– 184 –

Scriveva Edoardo Ricci, nell’opera monografica dedicata al giudizio di

rinvio, datata 1967, che «l’enunciato vincolante, per il fatto di riguardare il

punto investito dall’errore, si pone (…) come elemento separatore tra due

gruppi di valutazioni effettuate dal giudice d’appello (o di primo grado). Da

un lato, devono essere collocate le valutazioni anteriori, rimaste esenti da

censura; dall’altro devono essere collocate le valutazioni successive, colpite

mediatamente dalla critica rivolta contro il loro antecedente logico: e non si

può imporre in concreto al giudice di rinvio di recepire il “principio di

diritto”, se non si fa in modo di conservare, così com’è, la porzione di iter

logico anteriore al punto a cui ci si riferisce»4.

Questa constatazione, dall’apparenza ineludibile, è in realtà il frutto di

una precisa presa di posizione a favore dell’inerenza all’organizzazione del

«sistema cassazione» di un regime di preclusioni correlate alla permanenza

degli apprezzamenti del giudice della sentenza censurata che risultino indenni

dalla critica operata dalla Cassazione: il che equivale, in primo luogo, a

riconoscere che l’annullamento della sentenza da parte della Suprema Corte

non azzera l’operato dell’organo inferiore; in secondo luogo, ad ammettere

l’esistenza e ad individuare il funzionamento di un meccanismo che consente

la consolidazione della sentenza cassata nelle sue porzioni illese, o perché la

parte non ha provveduto a rimetterle in discussione dinanzi al Supremo

Collegio o perché questo le abbia omologate, respingendo le censure ovvero

omettendo di rilevare quei vizi che fossero ancora rilevabili d’ufficio in sede

di giudizio di cassazione5.

4 E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 152-153; sul tema, v., di recente,

GAMBINERI, Giudizio di rinvio e preclusione di questioni, cit., 116 ss; 139 ss. 5 «Posto che si tratta di questioni non investite né in modo diretto né in modo indiretto

dalla censura della Corte» dice E.F. RICCI, op. cit., 101, il considerarle precluse non può

significare se non una conservazione dei relativi giudizi risolutori rivelati per implicito o per

esplicito con la sentenza cassata», proseguendo poi in nota a sottolineare come «gli eventi

dai quali la dottrina trae le preclusioni siano sempre la mancata critica dell’interessato verso

gli apprezzamenti dell’organo inferiore, o il giudizio adesivo della Corte su quei medesimi

apprezzamenti: ed escludere il dibattito su certi antecedenti della statuizione finale non può

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– 185 –

Invero, sempre lo stesso autore ci avverte che, storicamente, la

convinzione che i motivi di ricorso per cassazione fossero stati concepiti solo

come mezzi necessari a provocare l’annullamento è stata a lungo ritenuta

inconciliabile con l’idea che dinanzi alla Cassazione si potessero suturare le

decisioni sui punti pregiudiziali rispetto alle questioni sollevate; con l’idea

che, insomma, in sede di ricorso per cassazione si potesse «consumare»

l’azione: il che era del resto giustificato anche dalla matrice ideologica da cui

era scaturito l’istituto della Cassazione, quale organo paralegislativo e non

giurisdizionale, i cui apprezzamenti sarebbero per principio dovuti restare

rigorosamente fuori dall’iter formativo della decisione sul bene della vita

conteso nel giudizio di merito.

Sotto il vecchio codice, tra l’altro, non solo l’eventualità della

disapplicazione del pronunciato in iure della Cassazione era contemplata

come ipotesi normale, stante l’assenza di vincolatività del dictum per il

giudice di primo rinvio, ma la normativa non impediva del tutto, neanche in

sede di secondo rinvio, l’elusione del dictum vincolante delle sezioni unite,

mancando una specifica disposizione che prevedesse per il rinvio

un’istruttoria «chiusa», come quella delineata dall’attuale art. 394 c.p.c. Tale

circostanza rendeva persuasiva l’idea che, a seguito della cassazione, la causa

tornasse nello stato in cui si trovava prima dell’emanazione della sentenza

cassata, con la conseguenza della radicale caducazione degli apprezzamenti

del giudice anteriore e della riemersione di tutti i quesiti di causa in sede di

rinvio: idea decisamente maggioritaria nella tradizione francese e anche nella

più risalente dottrina italiana6.

non voler dire, nel nostro caso, se non conservare le antiche statuizioni poi accettate dalla

parte o condivise dalla Corte». 6 Cfr., a titolo esemplificativo, gli autori menzionati da E.F. RICCI, Il giudizio civile di

rinvio, cit., 102, nt. 5: GARGIULO, Il codice di procedura civile del Regno d’Italia, ristampa

alla 2a

edizione, vol. III, Napoli 1887, 820; CUZZERI, Il codice italiano di procedura civile

illustrato, vol. VI, Verona 1896, 211; MATTIROLO, Trattato diritto giudiziario civile italiano,

quinta edizione, vol. IV, Torino 1904, 1121.

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– 186 –

Quanto poi all’ipotesi della perenzione del giudizio di rinvio a seguito

della cassazione della sentenza d’appello, dalla suddetta ricostruzione poteva

scaturire de plano come ulteriore corollario la reviviscenza della sentenza di

primo grado, con la conseguente impossibilità, per le parti del giudizio

perento dopo la cassazione, di instaurare ex novo il processo: conclusione

condivisa, ad esempio, da Calamandrei e Carnelutti7, concordi nella critica

all’idea chiovendiana di sfruttare, al fine di respingere l’effetto

dell’amputazione giuridica dal processo del pronunciamento di secondo

grado, la dicotomia tra sentenza come dichiarazione e sentenza come atto: la

dicotomia, cioè tra sentenza come regolamento giudiziale del rapporto

controverso, suscettibile di essere rimossa con l’annullamento, e sentenza

come episodio del processo, incancellabile, in quanto factum quod infectum

fieri nequit, e come tale valevole ad escludere la reviviscenza del

provvedimento di prima istanza, rimasto nella condizione di pronuncia pronta

a passare in giudicato a seguito della perenzione del giudizio di rinvio

successiva alla cassazione della sentenza sostitutiva emanata dal giudice

d’appello8.

La sorte dei temi di cognizione anteriori rispetto alla statuizione della

sentenza investita dal mezzo di censura accolto dalla Cassazione era però

problema tale da non poter essere liquidato semplicemente con la

considerazione che, con l’annullamento conseguente all’accoglimento del

ricorso per cassazione, la sentenza annullata dovesse considerarsi tamquam

non esset, e che, con essa, dovessero considerarsi demoliti tutti i vecchi

materiali decisori: tanto è vero che, per avvantaggiarci ancora delle parole di

Ricci, «l’unanimità nel senso di una piena reviviscenza dei problemi di causa

7 Cfr. CALAMANDREI, La Cassazione civile, vol. II, cit., 327; CARNELUTTI, Sistema,

vol. II, cit., 671. 8 CHIOVENDA, Principii, cit., 1064; ID., Sul giudizio di rinvio e la sua perenzione, in

Foro it. 1912, 361 ss. ID., Ancora sul giudizio di rinvio e la sua perenzione, in Foro it. 1914,

cc. 370 ss.; entrambi gli articoli sono ora pubblicati in CHIOVENDA, Saggi di diritto

processuale civile, vol. II, Milano 1993, 357 ss.

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– 187 –

in sede di rinvio è il dato di una cultura di cui l’ultimo esponente è il

Mattirolo. Dal Mortara in poi siamo di fronte ad una vigorosa polemica, che

comunque valutata nel merito è indice di forti tendenze evolutive, del

premere della coscienza della comunità verso l’utilizzazione degli

apprezzamenti della Corte in vista della nuova pronuncia sulla causa; e di

questo travaglio, molto più che degli schemi vicini alla configurazione

originaria dell’istituto, è erede la cultura italiana contemporanea»9.

Dunque, la maturazione di un panorama culturale favorevole al

riconoscimento di una serie di preclusioni in sede di giudizio di rinvio si fa

progressivamente strada all’interno delle accademie e delle aule giudiziarie

d’Italia, ove contro una simile evoluzione10

il vigoroso influsso della scuola

francese aveva inizialmente eretto robusti contrafforti.

Del resto, la norma sull’annullamento parziale – l’art. 543, comma 2,

del codice del 1865, la quale stabiliva che «se la sentenza sia cassata in uno

9 E.F. RICCI, op. cit., 121. A riprova di ciò si può ricordare che anche da parte di chi

considerava la sentenza annullata dalla Cassazione come «tamquam non esset», come

Calamandrei e Carnelutti, si arrivava poi a riconoscere l’esistenza, in sede di rinvio, di un

sistema di preclusioni anche interne al capo di sentenza coinvolto dalla censura della

Suprema Corte (CALAMANDREI, op. loc. ult. cit.; CARNELUTTI, op. loc. ult. cit.). Una

posizione, questa, che sembra paradossale, se commisurata a quella di chi, come Pavanini,

negava l’esistenza di preclusioni in sede di rinvio, pur affermando la conservazione del

valore formale della sentenza cassata e considerando la reviviscenza della sentenza di prime

cure dopo la cassazione della sentenza di appello quale effetto impedito dall’attività

utilmente svolta dalle parti in secondo grado: v. infra, testo e nt. 29. 10

Cfr. la relazione dell’on. Costa, nella Relazione al Progetto Tajani del 1886, Roma

1887, parte generale, n. 55, citata da MATTIROLO, Trattato, cit., 905, in nota: «Né si dica

essere un’astrazione inattuabile la separazione del giudizio di fatto dalla declaratoria di

diritto, essendo impossibile che esseri umani, per quanto posti in posizioni eminenti, possano

elevarsi tanto al di sopra delle necessità umane da sottrarre in modo assoluto il giudizio della

questione di diritto dalle nozioni di fatto, dalle quali sorge e sulla quale deve, alla fin fine,

esercitare un’influenza decisiva. – Puossi infatti vittoriosamente rispondere che se questa

separazione può dare luogo ad inconvenienti, fornisce essa stessa i mezzi per porvi riparo,

quando limita la magistratura suprema a dichiarare il diritto e prescrive il rinvio della causa

ad un altro magistrato per un nuovo giudizio. Qualunque siano i limiti in cui la giurisdizione,

a quest’ultimo affidata, possa essere ristretta, è certo che libera e sovrana dovrà essergli

riconosciuta la facoltà di apprezzare i fatti, e di neutralizzare l’influenza che questi avessero

indebitamente esercitato nella posizione della questione di diritto e nella sua risoluzione».

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– 188 –

dei capi, restano fermi gli altri, salvo che siano dipendenti dal capo in cui la

sentenza fu cassata», precludendo quindi il riesame, in sede di rinvio, dei

temi sottostanti ai capi di sentenza non cassati e indipendenti da quelli cassati

– non era di per sé un’indicazione legislativa dirimente in ordine alla

identificazione di un sistema di preclusioni a carico del giudice di rinvio

correlato al rifluire nel decisum finale delle porzioni illese della sentenza

cassata, da un lato, ovvero, dall’altro lato e all’opposto, di una rifioritura

integrale dei vecchi temi di cognizione, in sede di rinvio, in virtù

dell’efficienza del rilievo del vizio in Cassazione ad invalidare integralmente

il contenuto della sentenza impugnata.

Bisognava infatti intendersi sull’estensione del fenomeno

dell’annullamento parziale, o meglio sull’entità minima su cui questo era

capace di esplicarsi; ben potendo la relativa norma essere considerata

applicabile alle sole ipotesi di cumulo obiettivo, in cui la sentenza,

formalmente unica, dovesse essere considerata molteplice per la pluralità di

domande su cui pronunciava. Tale illazione bastava in sostanza a spostare lo

sforzo ricostruttivo relativo all’esistenza o meno di preclusioni in sede di

rinvio dopo l’enunciazione del principio di diritto sulla chiarificazione del

concetto di «capo» di sentenza, per usare la dicitura dell’art. 543 del codice

abrogato, o della equipollente nozione di «parte» di sentenza, secondo la

nomenclatura contenuta agli artt. 329, 2 comma e 336, comma 1 del codice

del ’40: le norme, cioè, essenziali per comprendere il funzionamento

dell’effetto devolutivo dell’impugnazione, e dell’appello in particolare.

Appare a questo punto evidente che la questione della portata del

vincolo del giudice di rinvio al dictum della Corte risente particolarmente

della visione di insieme del sistema delle impugnazioni propria del nostro

ordinamento processuale, visione che va organizzata in base alla

ricostruzione della complessiva disciplina del passaggio della causa da un

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– 189 –

grado di giudizio all’altro11

, concentrando l’indagine sulla relazione tra

impugnazione e sentenza, «nel senso di stabilire il contenuto minimo della

sentenza idoneo ad essere investito dal rimedio»12

: il confronto con la

prospettiva generale delle impugnazioni, infatti, è essenziale nella misura in

cui sono appunto le modalità di devoluzione dei materialia causae nei vari

gradi del processo che individuano il sostrato su cui la Corte interviene a

regolare il diritto della fattispecie racchiuso nel principio di diritto

somministrato al giudice di rinvio.

A questo riguardo, e con tutti i limiti di una ricognizione sintetica, se è

dato constatare che, nell’impianto del codice del 1865, il tessuto normativo

poteva autorizzare la ricostruzione del giudizio di appello come novum

iudicium incardinato da un gravame con effetto devolutivo pieno ed

automatico, le indicazioni normative fornite dal codice del 1940 vanno nel

senso dell’inequivocabile allontanamento del giudizio d’appello dal modello

di novum iudicium: ciò di cui la giurisprudenza soprattutto non tarda a

prendere atto.

11

Per la necessità di assumere tale angolazione prospettica nello studio del giudizio di

rinvio, cfr. GAMBINERI, Giudizio di rinvio e preclusione di questioni, cit., 114 ss. 12

CERINO CANOVA; Le impugnazioni civili, cit., 50. E, sempre se ben intendiamo la

mappa di ricerca suggerita da questo A. (ID., op. loc. ult. cit.), tralasciando quella dei rapporti

sussistenti «tra la pronuncia precedente ed il procedimento impugnatorio», la quale esige di

verificare se il dato normativo pone o meno la mancata proposizione dell’impugnazione

come condizione di efficacia della sentenza (ottica nella quale la scelta di attribuire o meno

all’impugnazione effetto sospensivo rileva soprattutto come indice dell’efficacia naturale

della sentenza soggetta a gravame): ma si tratta di una trama di indagine risolta, a quanto

sembra, dalla novella del 1990, la quale, con la modifica dell’art. 282 c.p.c., ha eliminato

l’effetto sospensivo dell’appello, generalizzando l’esecutività provvisoria in via automatica

di tutte le sentenze di primo grado (a questa modifica, si è accompagnato anche l’intervento

sul 1° comma dell’art. 337 c.p.c., il quale, nella sua versione originaria, stabiliva che

l’esecuzione delle sentenze, delle quali non fosse ordinata l’esecuzione provvisoria, rimane

sospesa se è proposto appello; l’esecuzione non è sospesa per effetto delle altre

impugnazioni, salve le disposizioni degli artt. 373, 401 e 407 c.p.c. Viceversa il nuovo testo

dell’art. 337, 1° co., c.p.c. prevede in via generale che l’esecuzione della sentenza non è

sospesa per effetto della sua impugnazione, salve le disposizioni degli artt. 283, 373, 401 e

408 c.p.c.

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– 190 –

Infatti, malgrado sia stato utilizzato da una dottrina autorevolissima per

concludere che «l’appello civile ha, di regola, pieno effetto devolutivo»13

,

l’art. 346 del codice di rito introdotto nel ‘4214

– la norma, cioè, che prescrive

che le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado si

intendono rinunciate se non sono espressamente riproposte in grado d’appello

– nell’elaborazione dottrinaria sviluppatasi a qualche anno di distanza

dall’entrata in vigore del nuovo codice è divenuto invece l’argomento

13

CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., 297, aderendo all’opinione di

ATTARDI, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, in Giur it. 1961, IV, 146 ss. Cerino

Canova spiega che la disposizione di cui all’art. 346 c.p.c. «suggerirebbe all’interprete alcuni

dati di essenziale importanza: «a) prevede un’iniziativa delle parti e la riferisce direttamente

alle “domande ed eccezioni non accolte”: cioè, piuttosto all’elemento cognitorio, che alle

valutazioni su di esso contenute nella sentenza impugnata; b) sanziona l’omissione di questa

attività con una presunzione legale di rinuncia delle “domande ed eccezioni non accolte”».

Sulla base di tale premessa, l’a. pone in luce «la profonda differenza tra l’art. 346 e l’art.

329, sia nella previsione applicativa (il primo si riferisce direttamente alle istanze delle parti

in primo grado»; il secondo alle “parti” di sentenza) che negli effetti giuridici

(rispettivamente concretati dalla rinunzia alla domanda ed eccezione ovvero dal passaggio in

giudicato)» (ID., op. cit., 298). Inoltre, «è necessario ritenere che i comportamenti, con cui la

parte impedisce l’applicazione delle due normative siano reciprocamente differenti nella

struttura, funzione e forma», sicché: per le domande ed eccezioni non accolte di cui all’art.

346 c.p.c. «si presenta inidonea l’impugnazione incidentale», servendo piuttosto

«un’iniziativa intrinseca al procedimento di gravame e per la cognizione di tale

procedimento. Infine, lo stesso art. 346, definendo in termini di rinuncia l’effetto applicativo,

presuppone un preventivo potere di utilizzazione nell’appello delle domande e delle eccezioni

non accolte. Quindi, ed indirettamente, riconosce al gravame un effetto devolutivo pieno.

D’altra parte, lo stesso effetto di rinuncia esclude che la devoluzione sia strumento per

un’eventuale efficacia degli accertamenti compiuti nel precedente grado. In conclusione, la

cognizione in appello riproduce, per il solo esperimento del mezzo, tutti gli elementi

cognitori dell’istanza anteriore, come oggetto di un nuovo, autonomo riesame; il

comportamento delle parti può influire solo con effetti limitativi»: ID., op. cit., 298-299

(corsivo nostro). 14

Secondo Beatrice GAMBINERI, Giudizio di rinvio e preclusione di questioni, cit.,

118, questa è la vera novità del codice del 1940, con riferimento al sistema delle

impugnazioni: infatti, nel vigore del codice Pisanelli, la norma sull’appello parziale limitava

sì l’effetto devolutivo, di modo che il giudice di secondo grado, in assenza di un’iniziativa

impugnatoria dell’altra parte, non aveva il potere di rivedere le questioni decise in senso

sfavorevole a quest’ultima; tuttavia, il sistema autorizzava la riconduzione, in capo al giudice

d’appello, del potere di conoscere liberamente delle questioni su cui il primo giudice non si

fosse pronunciato. Sul punto, v. CARNELUTTI, Sulla «reformatio in pejus», in Riv. dir. proc.

1927, I, 181 ss.

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– 191 –

“minimo” per sostenere l’idea opposta, ossia che «non è vero che la validità

dell’impugnazione sorregge il prodursi del cosiddetto effetto devolutivo

dell’appello, ma che in senso esattamente contrario almeno come regola

generale è necessario un preciso impulso di parte (nella forma talvolta

dell’impugnazione in senso tecnico talvolta della mera riproposizione)

affinché il giudice del’impugnazione possa tenere in conto gli elementi

cognitivi già emersi (ma non necessariamente trattati) davanti al precedente

giudice»15

.

Invero, oltre all’art. 346 c.p.c., altri indici positivi di una eversione

della carta costituzionale dell’appello come novum judicium preordinato alla

rinnovazione del primo grado del giudizio potevano essere rintracciati nel

codice del 1940: sicuramente l’art. 342 c.p.c. – ed in particolare la

prescrizione ivi contenuta circa l’indicazione specifica dei motivi nell’atto

d’appello –; probabilmente, l’art. 329, comma 2, c.p.c., disciplinante il

fenomeno l’acquiescenza parziale relativamente alle «parti» di sentenza non

impugnate.

Probabilmente perché, per l’appunto, per ricavare dall’art. 329, comma

2, del codice del ‘40 un segno del superamento di quella carta costituzionale,

bisognava comprendere e definire il suo spazio applicativo nell’ambito dei

meccanismi di devoluzione dei materiali di causa nelle fasi di impugnazione.

Dunque, man mano che progrediva la riflessione dottrinaria e l’elaborazione

giurisprudenziale intorno alla struttura e al funzionamento delle

impugnazioni nel nuovo impianto codicistico, appariva via via sempre più

improbabile un’analisi scientifica che restasse agnostica rispetto ad una

precisa posizione intorno alla nozione di «parte di sentenza» ai sensi e per gli

effetti dell’art. 329, comma 2, c.p.c. 16

; così che, nel tempo, sono state

15

Così, v. GAMBINERI, op. cit., 119. 16

Per un riepilogo delle tesi avanzate nella vecchia e nella nuova dottrina sul

controverso concetto di «capo» o «parte» di sentenza ed una schematizzazione dei vari filoni

interpretativi con le relative indicazioni bibliografiche, cfr. POLI, I limiti oggettivi, cit., 9 ss.,

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– 192 –

prospettate teorie diverse, sempre più raffinate e laboriose, che hanno fatto

perno proprio sull’interpretazione di questo concetto per ricostruire le

modalità di devoluzione dei materiali di causa nel passaggio da un grado

all’altro del giudizio.

Da questo punto di vista, alla posizione tradizionale17

per cui «parte di

sentenza» equivale a «decisione di domanda»18

(alla stregua della quale,

come noto, la disposizione dell’art. 329, comma 2, c.p.c. si applica solo alle

ipotesi in cui siano cumulate più domande ed il correttivo all’effetto

nt. 6: l’esame ragionato della dottrina e della giurisprudenza induce questo autore a

prescegliere una concezione ristretta della nozione «parte di sentenza», che appare oggi

recepita dalla giurisprudenza e consolidata (ed anzi radicalizzata) nella successiva

evoluzione giurisprudenziale: v. infra, testo all’altezza della nt. 24 e note 24-25 e seguenti. 17

In quanto solo rispetto alla decisione della domanda, e non già rispetto alla singola

questione risolta sfavorevolmente, potrebbe aversi soccombenza e, di conseguenza, interesse

ad impugnare o ad accettare la sentenza: così, in luogo di altri, LIEBMAN, «Parte» o «capo»

di sentenza, in Riv. dir. proc. 1964, 56 ss., ma con la precisazione che la decisione di

questioni processuali idonee a definire il giudizio integra una parte di sentenza

autonomamente impugnabile; CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova

2008, 40 s.; ID., Il cumulo condizionale di domande, Padova 1985, 253 ss., 762 s.;

SALVANESCHI, L’interesse ad impugnare, cit., 64 ss. Nel senso che la devoluzione naturale

riguarda il capo di domanda, v. CHIARLONI, L’impugnazione incidentale, cit., 44 ss.; più di

recente, BIANCHI, I limiti oggettivi dell’appello civile, Milano 2000, 130 ss.; v. gli autori

citati nelle due note seguenti. 18

Commisurano la devoluzione in appello alla parte di sentenza intesa quale

decisione di domanda, per cui ritengono che in forza dell’impugnazione della decisione di

una domanda tutti i presupposti di fatto e di diritto di quella domanda, che già furono oggetto

del giudizio di primo grado, vengono automaticamente devolute alla cognizione del giudice

superiore e quindi sottratte al giudicato (con la conseguenza che il «giudicato parziale

interno» ex art. 329, 2° comma, c. p. c., potrebbe avere ad oggetto solo le «decisioni di

domande» non specificamente impugnate, trovando applicazione l’art. 329, 2° comma, c.p.c.

solo nei casi di cumulo oggettivo di domande nello stesso processo), principalmente, tra i

molti, ATTARDI, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, in Giur. it. 1961, IV, 153 ss., 160

ss.; ID., Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova 1991, 146; CERINO CANOVA, Le

impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, 153 ss., 283 ss., 297 e ss, 583 ss.; v.

CERINO CANOVA-CONSOLO, voce «Impugnazioni, - I) Diritto processuale civile», in Enc.

Giur., vol. XVIII, Roma 1993, par. 4.3; BONSIGNORI, L’effetto devolutivo dell’appello, in

Riv. trim. dir. proc. civ. 1974, 1357; GARBAGNATI, Questioni preliminari di merito e parti

della sentenza, cit., 412 ss.

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– 193 –

devolutivo pieno è apportato dall’art. 346 c.p.c.19

), si è affiancato il tentativo

di riguardare al contenuto delle sentenze non definitive di merito di cui

all’art. 279, n. 4, c.p.c. come parametro per l’individuazione dell’unità

minima suscettibile di frazionamento ai fini della decisione e dunque ai fini

dell’impugnazione20

, mettendo dunque in discussione l’assunto che il

fenomeno dell’acquiescenza parziale di cui all’art. 329, comma 2, c.p.c. sia

escluso dal meccanismo di devoluzione del materiale di cognizione dal primo

grado al giudice dell’impugnazione nel caso di giudizi che abbiano ad

oggetto un’unica domanda21

.

19

Nel senso che è solo potenziale la devoluzione piena dei materialia causae dal

primo grado al giudizio di appello, in quanto l’art. 346 c.p.c. rimette alla parte l’onere di

riproporre al giudice d’appello le questioni risolte a suo sfavore dal primo giudice, pena la

decadenza per rinuncia, v. CHIARLONI, L’impugnazione incidentale, cit., 156 ss.; v. anche DE

CRISTOFARO, Motivi d’appello ed effetto devolutivo, in Corriere giur. 1997, 198. 20

RASCIO, L’oggetto dell’appello civile, cit., 108 ss. 21

Si è cioè argomentato che un’indicazione normativa dirimente intorno al fenomeno

dell’acquiescenza impropria di cui all’art. 329, comma 2, c.p.c. può trarsi dall’ammissibilità

di sentenze non definitive su questioni preliminari anche di merito di cui all’art. 279 c.p.c.,

oggetto dell’onere di riserva in alternativa all’onere di impugnazione entro il termine per

l’appello ai sensi dell’art. 340 c.p.c. Dal momento che a) non vi sarebbe ragione di postulare

un trattamento diverso per la questione preliminare decisa nella sentenza definitiva e per

quella decisa nella sentenza non definitiva ai fini dell’onere di esercitare l’impugnazione e

dunque b) la preclusione determinata dalla mancata impugnazione o della mancata riserva di

impugnazione nei confronti della sentenza non definitiva indica che le parti di sentenza di cui

all’art. 329 cpv. possono non coincidere con le statuizioni sui capi di domanda, e possono

avere un’estensione minore; c) le sentenze non definitive devono essere astrattamente

suscettibili di definire il giudizio (arg. ex art. 187, comma 2, c.p.c.), e perciò il loro contenuto

non può essere inferiore a quello di una decisione congiunta sull’esistenza di un fatto,

l’esistenza di una norma e l’esistenza degli effetti da essa associati al fatto. Sulla base di

queste premesse si conclude perciò nel senso che la contestazione della sentenza di primo

grado con riferimento alla decisione di punti di fatto o di diritto porta alla cognizione del

giudice di appello l’efficacia della fattispecie cost. imp. mod. est. nella quale quel punto

rileva, innescando il potere-dovere del secondo giudice di rilevare d’ufficio l’inesistenza di

componenti della stessa fattispecie e di riesaminare le questioni di diritto incidenti

sull’idoneità del fatto alla produzione dell’effetto; e per il resto, invece determinandosi il

fenomeno dell’acquiescenza impropria: in tali termini la questione dell’effetto devolutivo

dell’appello è affrontata da Cass., sez. lavoro, 15 gennaio 1997, n. 355, con relatore Berni

Canani, che sostanzialmente assorbe la tesi di Rascio.

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– 194 –

In realtà il dato positivo poteva autorizzare ad impostare il discorso in

maniera del tutto svincolata dalla ricerca dell’espediente sistematico della

commisurazione all’oggetto minimo di una sentenza non definitiva ai fini

della riduzione dell’unità di base dell’effetto devolutivo dell’impugnazione.

In tal senso, assolutamente decisiva appare l’intuizione di chi ha

ravvisato la necessità di tenere distinto l’ambito oggettivo entro il quale la

sentenza esplica gli effetti di cosa giudicata ex art. 2909 c.c. al di fuori del

processo dalle modalità con cui la funzione decisoria viene esplicata

all’interno del processo per pervenire alla soluzione della controversia: la

fondamentale distinzione, cioè, tra giudicato interno e giudicato esterno22

.

Utilizzando questo approccio, il problema della devoluzione dei

materiali di causa da un grado all’altro del giudizio è apparso poter essere

risolto senza ricorrere al richiamo al possibile contenuto delle sentenze non

definitive23

come parametro per la valutazione dell’unità minima devolvibile

con l’impugnazione24

: il punto d’approdo di tale prospettiva ricostruttiva25

22

V., su tutti, MONTELEONE, Limiti alla proponibilità di nuove eccezioni in appello,

cit., 724 ss.; ID., La funzione dei motivi ed i limiti dell’effetto devolutivo nell’appello civile

secondo le Sez. Un. Della Corte di cassazione, cit., 1820, tra i patrocinatori di una lettura

coordinata degli artt. 329, comma 2, 342 e 346, c.p.c. (le norme prescrivono, rispettivamente,

l’acquiescenza parziale – con conseguente formazione di giudicato interno – relativamente

alle parti di sentenza non impugnate; l’indicazione specifica dei motivi nell’atto d’appello; la

decadenza dalle domande e dalle eccezioni non riproposte), lettura che dimostra come la

riemersione dei materiali di causa dinanzi al giudice d’appello risulti affidata in maniera

pressoché esclusiva alla iniziativa delle parti, radicandosi in una direzione opposta a quella

del novum judicium. 23

Sul punto, v. ora DALFINO, Questioni di diritto e giudicato, cit., spec. 77 ss. per

l’esame delle varie tesi circolanti sul contenuto minimo delle sentenze non definitive e per la

specificazione e valorizzazione del concetto di «idoneità a definire il giudizio» ai sensi

dell’art. 187, comma 2, c.p.c. 24

Per POLI, I limiti oggettivi, cit., 163 ss., il fenomeno delle sentenze non definitive su

questione «ci dice che anche la decisione di questione, sicuramente quando contenuta in

sentenza non definitiva, è idonea al giudicato formale, interno, con efficacia (almeno)

endoprocessuale, se non oggetto di impugnazione ovvero in caso di impugnazione respinta:

la non riesaminabilità di detta questione – la preclusione al suo riesame – dipende pertanto da

un fenomeno di giudicato interno». Perciò, «se questo è vero, ci sembra che si debba

senz’altro ammettere che, quando quella decisione è contenuta nella sentenza definitiva e

venga espressamente confermata in appello, con decisione non impugnata sul punto in

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– 195 –

recupera la tesi carneluttiana della formazione progressiva del giudicato ai

fini della ricostruzione dell’effetto devolutivo dell’appello, e ricostruisce la

nozione di «parte di sentenza», agli effetti dell’art. 329, comma 2, c.p.c. –

nonché dell’art. 336, comma 1, c.p.c.26

– come statuizione sulla singola

cassazione, anche per quella decisione si debba parlare di giudicato interno»: così; POLI, op.

loc. ult. cit.. Dunque, se è vero che la riflessione sul fenomeno in esame – sentenze non

definitive su questione e loro regime – è importante perché consente «di respingere qualsiasi

tesi che affermi una correlazione necessaria tra il fenomeno del giudicato formale interno e la

decisione di domande in senso tecnico» (ID., op. cit., 164, nt. 84) è vero anche che tale

fenomeno «non sia affatto risolutivo, in sé considerato, per riconoscere che quando la

decisione della questione è contenuta in sentenza definitiva, la sua mancata specifica

impugnazione comporti un fenomeno di giudicato interno parziale ex art. 329, cpv.». Invero,

«l’argomento rappresentato dalle sentenze non definitive su questione (…) rappresenta

quantomeno un forte indizio nel senso che parte di sentenza non può corrispondere sempre a

decisione di domanda, altrimenti dovremmo ritenere, senza però alcun argomento, che le

sentenze non definitive su questione sono estranee all’ambito di applicazione dell’art. 329,

cpv., c.p.c»: ID., op. cit., 163. 25

Ci riferiamo, in particolare, a POLI, I limiti oggettivi, cit., passim; spec., quanto alla

ricostruzione della nozione di «parte di sentenza», 153 ss.; per la considerazione che

«quando si cerca di distinguere tra questione idonea al giudicato e non, si confonde tra parte

“autonoma”, nel senso di dotata di indipendente efficacia precettiva, con riferimento pertanto

alla sola decisione di domanda (o, al più, anche di eccezione in senso proprio), e parte

“autonoma” nel senso di non collegata ad altra da un nesso di pregiudizialità-dipendenza,

quale potrebbe essere anche la decisione di una questione»; «ovviamente, invece, una cosa è

stabilire l’oggetto della statuizione suscettibile di giudicato parziale (domanda o questione),

altro è precisare che la statuizione idonea al giudicato, affinché questo si produca, non deve

dipendere da altra statuizione direttamente impugnata»: ID., op. cit., 158-159. 26

Per coerenza del sistema, l’opinione tradizionale sottolinea che la delimitazione

dell’effetto devolutivo (diretto) alle parti di sentenza impugnate, con conseguente

acquiescenza parziale alle parti di sentenza non espressamente impugnate, debba essere

integrata dal cd. effetto devolutivo allargato, ossia il fenomeno per cui l’impugnazione della

parte principale della sentenza impedisce l’acquiescenza anche sulla parte dipendente, su cui

pertanto non si forma giudicato interno ex art. 329, comma 2 c.p.c.: ciò, in forza del

necessario coordinamento tra questa disposizione e l’art. 336, comma 1, c.p.c., la norma che

delinea l’effetto espansivo interno della pronuncia resa sull’impugnazione parziale,

disponendo che la riforma o la cassazione parziali hanno effetto anche sulle parti di sentenza

dipendenti da quella riformata o cassata: v., per tutti, MINOLI, L’acquiescenza nel processo

civile, Milano 1942, 405 ss.; GIUDICEANDREA, Le impugnazioni civili, vol. I, 67, 97;

ATTARDI, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, cit., 156. In tempi più recenti,

un’autorevole dottrina ha messo in discussione questa impostazione tradizionale, sul

presupposto che l’art. 336, comma 1, c.p.c. abbia esclusivamente un effetto negativo-

caducatorio e che non vi sia incompatibilità tra il passaggio in giudicato di una parte di

sentenza (dipendente, non direttamente impugnata), e la sua successiva eliminazione in via

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– 196 –

riflessa. Secondo RASCIO, L’oggetto dell’appello civile, cit., 184 ss., l’art. 336, comma 1,

c.p.c. non sancirebbe l’effetto devolutivo allargato e, più in particolare, non assolverebbe ad

una funzione complementare a quella dell’art. 329, comma 2, c.p.c., allo scopo di delimitare

l’oggetto del giudizio d’appello: infatti, mentre questa norma concerne effettivamente la

definizione dell’oggetto del giudizio di impugnazione, l’art. 336, comma 1, c.p.c., di contro,

«contempla chiaramente un effetto non dell’impugnazione, ma della sua decisione, e la

necessità di sancire un’efficacia, peraltro eventuale, della pronuncia non sarebbe giustificata

da un’anteriore cognizione allargata» del giudice dell’appello: RASCIO, L’oggetto…, cit., 187

s. Da questo autore, pertanto, ai fini della determinazione della dipendenza/consequenzialità

idonea ad impedire l’acquiescenza (implicita, o impropria) alle parti di sentenza non

impugnate, si ammette una concezione limitata della consequenzialità idonea ad impedire

l’acquiescenza parziale, ed in particolare limitata alle parti interne alla singola domanda; in

generale, però, si esclude l’effetto devolutivo allargato e si giunge per questa via a sostenere

che la statuizione dipendente passa effettivamente in giudicato e l’art. 336, comma 1, serve

solo ad eliminare un’incongruenza logica fra le decisioni. Muove dalla considerazione del

fenomeno della eliminazione riflessa del giudicato per approdare ad una diversa

ricostruzione dell’ambito della devoluzione nel settore della pregiudizialità RECCHIONI,

Pregiudizialità processuale e dipendenza sostanziale nella cognizione ordinaria, Padova

1999, 529 ss., il quale afferma sì il passaggio in giudicato del capo dipendente, quando sia

impugnata solo la statuizione pregiudiziale, ma ricostruisce questo fenomeno di

stabilizzazione del capo dipendente come giudicato risolutivamente condizionato alla riforma

o all’appello del capo pregiudiziale, ammettendo conseguentemente la devoluzione allargata

ai capi dipendenti, che viene a sua volta configurata come sospensivamente condizionata alla

caducazione dei capi pregiudiziali. Questa eliminazione dei capi pregiuziali perseguita

dall’impugnante, determinando la caducazione in via riflessa ex art. 336, comma 1, c.p.c. dei

capi dipendenti, consentirebbe perciò l’apertura degli ambiti decisori definiti da questi ultimi.

Secondo altra interpretazione, l’art. 336, comma 1, c.p.c. ha invece il compito di lasciare

effettivamente sospeso il giudicato delle parti di sentenze non impugnate ai sensi dell’art.

329, comma 2, c.p.c, ma da queste dipendenti; i capi dipendenti però potrebbero essere

esaminati solo dopo l’accoglimento dell’impugnazione sui capi principali (CONSOLO, Il

cumulo condizionale di domande, 768 s.). Nega l’effetto devolutivo allargato, escludendo

peraltro anche il giudicato sul capo dipendente SALVANESCHI, L’interesse ad impugnare, cit.,

82. Evidentemente, nella prospettiva di respingere l’ordine di idee tradizionale in tema di

effetto devolutivo allargato, si rinvengono percorsi giustificativi raffinati e complessi, ma per

lo più tendenti a raggiungere per diversa via alcuni risultati necessari della tesi che proprio si

intende rinnegare. «Queste difficoltà sono, invece, eliminate a monte da chi, sulla base del

riferimento carneluttiano alle “questioni”, allarga l’impugnazione su questioni che

costituiscono premesse di fatto o solo logiche alle questioni consequenziali»: così

MANDRIOLI-CARRATTA, Diritto processuale civile, vol. II, Torino 2011, 458, nt. 88 a

commento della tesi di POLI, I limiti oggettivi, cit., 31 ss. Difatti, questo autore, da un lato

restringe l’area della devoluzione diretta alle singole statuizioni in punto di fatto e di diritto

che la parte abbia espressamente censurato con la spendita di motivi specifici, ma dall’altro

«allarga» la devoluzione (indiretta) del giudice dell’impugnazione alle parti di sentenza che

sono dipendenti dai capi direttamente impugnati, dando però il massimo risalto al principio

dispositivo con la precisazione che i capi dipendenti non investiti da censura diretta possono

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«questione», intesa questa come dubbio27

su ciascuna premessa, di fatto o di

diritto, della fattispecie sostanziale dedotta in giudizio28

, ovvero come dubbio

su ciascuna fattispecie avente ad oggetto una questione di rito29

.

essere ridecisi dal giudice dell’impugnazione solo nei limiti in cui la riforma o la cassazione

della parte principale impugnata imponga un adeguamento logico delle parti dipendenti a

quelle riformate o cassate. In altri termini, nella prospettiva ricostruttiva da ultimo

richiamata, la statuizione che sia legata da un nesso di dipendenza a quella impugnata, ma

non sia stata investita di censura specifica, non è autonomamente riesaminabile, ma viene

devoluta al giudice dell’impugnazione a traino di quest’ultima e nei limiti del

condizionamento, ossia solo in relazione alla capacità della diversa soluzione dell’una

questione (principale) di incidere sulla soluzione dell’altra (dipendente): cfr. POLI, I limiti

oggettivi, cit., ove la tesi in esame viene ampiamente sviluppata; si vedano, in particolare,

l’Introduzione, i capitoli I e III specialmente e, per le conclusioni, le 578 ss.; ivi anche ampi

richiami giurisprudenziali. In tal modo, il principio dispositivo puntella in ogni segmento

l’effetto devolutivo dell’impugnazione, ma è preservata la coerenza e la non contraddittorietà

della decisione. 27

V. POLI, op. cit., 159, ove il richiamo all’insegnamento carneluttiano secondo cui

«la lite esiste perché esiste una questione intorno ai presupposti di fatto o di diritto della

tutela pretesa da ciascuno dei contendenti», per cui «il processo compone la lite appunto

risolvendo o eliminando le questioni che la alimentano», tali essendo le singole affermazioni,

le ragioni di ciascuna parte in quanto «sieno contrastate dall’avversario»: CARNELUTTI,

Lezioni, vol. IV, cit., 3. Nel senso della non esatta ragguagliabilià del concetto di questione a

quello di «questione controversa», FAZZALARI, Processo e giurisdizione, in Riv. dir. proc.

1993, 7; per TURRONI, La sentenza civile sul processo, cit., 16 s., richiamato e commentato

adesivamente da DALFINO, Questioni di diritto e giudicato, cit., 29 s., nt. 3, un indice nel

senso che la questione non postula necessariamente una controversia sul tema che vi è

sotteso è dato dalla disposizione dell’art. 183 c.p.c., secondo cui il giudice richiede alle parti,

sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d’ufficio

delle quali ritiene opportuna la trattazione: questa norma infatti porrebbe in evidenza «come

un tema può assurgere a questione prima che le parti abbiano modo di interloquire e di

palesare il loro eventuale disaccordo»: TURRONI, op. loc. ult. cit. Ma, nitidamente, si afferma

che è «questione» ogni ragione di diritto o di fatto della pretesa di ciascuna parte la cui

decisione in senso sfavorevole è idonea a «strutturare» la soccombenza, nel senso di

individuare l’interesse ad impugnare e di delimitarlo specificamente: POLI, op. cit., 169 s. 28

CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, vol. III, cit., n. 260, 368. POLI, I

limiti oggettivi, cit., 153 ss.; 168 ss. 29

POLI, I limiti oggettivi, cit., cap. II, 168 ss. In questi termini sembra essersi orientata

anche la giurisprudenza di legittimità consolidata. L’adesione a questa nozione ristretta di

parte di sentenza, con riguardo al fenomeno dell’acquiescenza parziale, emerge con lucidità,

ad esempio, nelle pieghe di motivazioni come quella di Cass. civ., sez. II, 31 marzo 2011, n.

7472: «quanto all’affermazione della sentenza secondo cui, essendosi nella specie in

presenza di un contratto preliminare di vendita e di un contratto di appalto, la causa della

vendita sarebbe prevalente su quella dell’appalto, la censura svolta dalla ricorrente appare

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preclusa in ragione delle vicende interne del processo. Come risulta chiaramente

dall’esposizione del fatto, sia tale qualificazione negoziale che il giudizio di prevalenza,

infatti, vennero adottati dal giudice di primo grado ed il relativo accertamento non solo non

formò oggetto di contestazione in sede di appello, ma venne fatto proprio dalla società nel

proprio gravame, che dichiarò espressamente di condividerlo». Siamo qui chiaramente in un

caso in cui due elementi di valutazione della fattispecie – di contenuto inferiore rispetto al

contenuto minimo di quello che potrebbe essere accertamento autonomo – ossia 1)

l’elemento della «qualificazione negoziale» di contratto a causa mista e 2) quello del

«giudizio di prevalenza» della causa della vendita rispetto alla causa dell’appalto sono

diventati indiscutibili per effetto di acquiescenza parziale. Per inciso, si deve segnalare una

certa ambivalenza nel linguaggio della sentenza in esame, laddove afferma che tali questioni

non formarono «oggetto di contestazione». A questo termine, invero, dovrebbe assegnarsi un

significato atecnico, allorquando viene speso per indicare l’indiscutibilità, in sede di giudizio

di impugnazione, di temi di fatto già esplorati in primo grado ed ivi decisi. Uno spazio per la

non contestazione in appello può rintracciarsi forse nell’ambito dei temi di fatto rimasti

assoribiti in primo grado: ma non si vede quale altro strumento possa utilizzarsi, se non

l’impugnazione, quando si intenda contestare apprezzamenti di fatto contenuti nella sentenza

primo grado: così, e dunque nel senso della inadeguatezza del ricorso alla categoria tecnica

della non contestazione, nelle fasi di gravame, dopo la sentenza di primo grado ed in

relazione ai fatti da questa considerati ai fini della decisione, POLI, I limiti oggettivi, cit., 197,

in critica a RASCIO, L’oggetto, cit., 234 s. In tema, CIACCIA CAVALLARI, La contestazione

nel processo civile, vol. I, Milano 1992, 170 ss.; CARRATTA, Il principio della non

contestazione nel processo civile, Milano 1995, 330 s. Infine, sempre con riferimento alla

nozione «ristretta» del concetto di parte di sentenza, ai fini dell’impugnazione e

dell’acquiescenza parziali, v., per quanto riguarda l’affermazione del giudicato interno su

statuizioni implicite, cfr. Cass. 25 febbraio 1998, n. 2031, in Foro it. 1998, I, 1458, relativa

al rigetto implicito della richiesta di rivalutazione monetaria nei crediti di valore; Cass. 6

aprile 1998, n. 3532, riguardante il rigetto implicito della richiesta di rivalutazione monetaria

nei crediti di lavoro; per le questioni controverse, cfr., ad esempio, Cass. 20 aprile 2001, n.

5899, che riconosce una parte di sentenza nella decisione sulla questione relativa alla

qualificazione della domanda, oggetto di contestazione e non impugnata; Cass. 2 gennaio

2001, n. 6, che ravvisa una parte di sentenza con riguardo all’accertamento del fatto

secondario; Cass. 12 settembre 2005, n. 18093 che, tra le tante conformi in materia di crediti

di valore, individua una parte di sentenza, autonoma rispetto a quella sull’ammontare del

credito e a quella sulla rivalutazione monetaria, nella decisione relativa agli interessi (contra,

a tal ultimo riguardo, Cass., sez. un., 5 aprile 2007, n. 8521). Come appare chiaro alla luce di

questa esemplificazione, per dare applicazione rigorosa al principio dispositivo è necessario

rifiutare di commisurare l’effetto devolutivo dell’impugnazione non solo all’ambito intero

della domanda, ma anche alla questione intesa in senso enstesivo come nucleoo di

accetamento delle fattispecie costitutive impeditive modificative ed estintive del diritto

dedotto in giudizio. Questa nozione di questione non riflette la divisibilità massima della

sentenza ai fini del giudicato interno, per la quale occorre invece fare riferimento alle singole

questioni di diritto e di fatto che specificano e strutturano il generico interesse ad impugnare

la sentenza, ovvero alle decisioni sui punti controversi la cui (diversa) soluzione è in grado di

costituire un vantaggio per la parte che la sollecita, per via della possibile incidenza sulla

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Fatte queste premesse e tornando ad appuntare l’attenzione sul giudizio

di rinvio, va a questo punto rilevato, con un’esemplificazione non esente da

grossolana approssimazione che, ad aderire all’idea che il concetto di «parte»

o «capo» di sentenza corrisponde alla decisione su domanda, viene agevole

pensare ad una riemersione, dinnanzi al giudice di rinvio, della cognizione di

tutti i punti, in fatto e in diritto, del capo coinvolto dalla censura della

Cassazione, nonché di quelli contenuti nei capi di sentenza eventualmente da

questo dipendenti; mentre, all’opposto, considerando il capo di sentenza

come decisione su questione, risulta senz’altro più piana la ricostruzione di

un sistema di preclusioni per la fase di rinvio che riposi sul dato della

indiscutibilità di temi di cognizione, all’interno dello stesso capo contenente

la statuizione aggredita, per consolidazione della sentenza impugnata nei

punti non investiti da censura e non vagliati dalla Suprema Corte e non

dipendenti da quelli vagliati e decisi dalla Corte in senso difforme dalla

sentenza impugnata.

Lo scenario abbozzato, che riduce una tematica estremamente

complessa ad una sorta di opzione secca che contrappone lo schema di

abbinamento tra la nozione di capo di sentenza come decisione su domanda e

la riemersione integrale dei temi della domanda nel giudizio di rinvio come

conseguenza della rescissione del capo, da un lato e, dall’altro, lo schema di

abbinamento tra la nozione di capo di sentenza come decisione di questione

e, in caso di rescissione, la devoluzione rescissoria diretta del punto eliso e

allargata di quelli logicamente dipendenti, con correlativa preclusione

statuizione in merito alla tutela richiesta che è nel dispositivo e che determina la

soccombenza: quindi, rileveranno, come parti autonome ai sensi dell’art. 329, comma 2,

c.p.c., sia le decisioni in punto di diritto (come, ad es., le qualificazioni giuridiche del

rapporto dedotto in giudizio), sia le affermazioni circa l’esistenza/inesistenza di fatti

principali complessi, principali semplici (intesi come componenti del fatto principale

complesso), secondari: POLI, I limiti oggettivi, cit., cap. II. Sulle componenti dei giudizi di

fatto, cfr. VOCINO, Prime riflessioni sull’«omesso esame di un fatto decisivo», in Giur.

compl. Cass. Civ. 1946, I, 169 ss.; TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Padova

1975, passim.

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dell’esame di tutte le questioni anteriori rispetto a quella censurata, vale solo

come indicazione tendenziale, perché in realtà estremamente articolate

risultano essere le soluzioni offerte dalla dottrina al problema della

definizione dell’ambito oggettivo del giudizio di rinvio in coordinamento con

la nozione di «capo» o «parte» di sentenza.

Infatti, considerato ormai come dato acquisito e necessario questo

«sistema di preclusioni» che cuce a maglie strette il giudizio di rinvio, alla

base di esso viene alternativamente posta la tesi che vede come unità minima

devolvibile con gli specifici motivi di censura la «questione» (anche se

bisogna intendersi, poi, sull’esatta portata della nozione di «questione»),

ovvero quella che considera come parte di sentenza come decisione di

domanda, ai fini dell’impugnazione e dell’acquiescenza parziali di cui all’art.

329, comma 2, c.p.c., ed in questa seconda prospettiva, però, si deve cercare

una base giustificativa alle preclusioni in sede di rinvio all’infuori del

meccanismo della devoluzione diretta del punto impugnato e allargata di

quelli logicamente dipendenti, che i fautori della nozione ristretta di «parte di

sentenza» possono assumere preposto alla definizione dell’oggetto del

giudizio di appello e delle ulteriori fasi di impugnazione30

.

Il discorso è reso peraltro più complesso dall’intreccio indissolubile, ai

fini dell’individuazione delle preclusioni in sede di rinvio, tra il tema della

formazione dell’oggetto della fase di merito pregressa rispetto al giudizio di

cassazione ed altri due aspetti nodali del giudizio di cassazione: e cioè, da un

lato, la questione della necessità, per il resistente in cassazione, di proporre

ricorso incidentale avverso la sentenza impugnata in caso di soccombenza

30

Meccanismo in forza del quale, secondo la ricostruzione più rigorosa che ne è stata

fornita, oggetto della cognizione in sede di gravame sono, direttamente, le specifiche parti di

sentenza censurate con i motivi; indirettamente, le parti di sentenza dipendenti da quelle

direttamente impugnate, e nei soli limiti del condizionamento; mentre risulteranno passate in

giudicato le decisioni sulle questioni che rappresentano l’antecedente logico necessario di

quelle direttamente impugnate: POLI, I limiti oggettivi, cit., 40, nella nt. 29; a cui si rinvia

anche per un esame critico delle diverse ipotesi ricostruttive sui meccanismi di devoluzione

dei materiali di cognizione dal primo grado all’appello: ID., op. cit., capitolo I).

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virtuale su questioni pregiudiziali o preliminari; dall’altro lato, il problema

dell’ampiezza dello ius corrigendi della Suprema Corte, istituto escogitato

dalla giurisprudenza sotto la vigenza del codice del 1865 e poi codificato

nell’art. 384 del codice del 1940 con l’attribuzione alla Corte della possibilità

di correggere la motivazione delle sentenze erroneamente motivate in diritto

ma con un dispositivo conforme a diritto.

In particolare, tra i tentativi di avversare lo schema secondo cui la

concezione del capo di sentenza come capo di domanda comporta la

riemersione, in sede di giudizio di rinvio, di tutti i materiali decisori su cui si

è giudicato nelle fasi del processo pregresse, schema che Pavanini, sotto la

vigenza del vecchio codice, si era incaricato di illustrare con la massima

lucidità31

, va ricordata – per il suo carattere indubbiamente paradigmatico –

31

Infatti è a PAVANINI che si deve la formulazione più arguta e raffinata della tesi che

attribuiva carattere aperto al giudizio di rinvio in conseguenza dell’adesione alla nozione di

capo di sentenza come capo di domanda, sotto l’impero del vecchio codice di rito. Nel suo

Contributo allo studio del giudizio civile di rinvio, Padova 1937, l’a., infatti, ragionando

dell’estensione della cognizione del giudice dell’impugnazione, ne afferma la

commisurazione al capo di domanda aggredito con l’impugnazione stessa, sì da ritenere che i

singoli punti pregiudiziali di ciascun capo impugnato, nel passaggio da un grado all’altro di

giudizio, non possano acquistare autonoma rilevanza accertativa e rimangano perciò

liberamente riesaminabili dal giudice dell’impugnazione; e giunge, per tale via, a negare

recisamente che in sede di giudizio di rinvio possano rifluire preclusioni derivanti dalle fasi

di merito pregresse e consolidatesi attraverso il giudizio di cassazione, quale giudizio che

viene provocato dal ricorrente al solo scopo di rintracciare un vizio che possa invalidare la

sentenza e determinarne la sostituzione. Questo assunto dell’assenza di preclusioni in sede di

rinvio viene portato alle estreme conseguenze, considerandosi devolute alla cognizione del

giudice di rinvio, nell’ambito dei capi cassati, non solo le questioni non denunziate, ma

anche quelle denunziate con mezzi respinti dalla Cassazione: ciò, in quanto «le questioni,

deducibili come motivi di ricorso, non vengono proposte davanti al Supremo Collegio allo

scopo di essere cassate né allo scopo di essere decise in maniera vincolante per i giudici

chiamati a provvedere sulla domanda, ma soltanto quali mezzi necessari a provocare la

cassazione (…) dei capi di sentenza; e questo fine può essere raggiunto coll’accoglimento o

con la denuncia anche di uno solo dei vari motivi dedotti o deducibili»: ID., op. cit., 194. In

tale quadro ricostruttivo spiccano, come eccezioni alla regola della generale riesaminabilità

delle questioni all’interno del capo cassato, quanto al merito, le questioni pregiudiziali decise

con sentenza interlocutoria contro la quale non sia stata proposta o sia stata rigettata

l’impugnazione, nonché il punto di diritto deciso dalle sezioni unite in maniera vincolante

per il giudice di secondo rinvio, per l’appunto; quanto ai profili di rito, nel sistema delineato

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– 202 –

l’originale proposta interpretativa di Elio Fazzalari, la cui ricostruzione

consente anche di dare brevemente conto del nesso, cui poc’anzi si

accennava, tra il problema dell’individuazione dell’unità minima devolvibile

al giudice dell’impugnazione, la questione della configurabilità del ricorso

da Pavanini non si ammetteva la possibilità di ridiscutere né le questioni processuali sulle

quali la Cassazione avesse provveduto espressamente né quelle su cui essa avrebbe potuto

pronunciarsi in presenza della necessaria deduzione del ricorrente; mentre potevano ritenersi

in ogni caso riesaminabili in sede di rinvio le questioni concernenti la valida costituzione del

rapporto processuale che la Cassazione avesse in concreto omesso di rilevare, pur potendolo

fare d’ufficio (ID., op. cit., 187 ss.). Il dato di fondo, presupposto a questa ricostruzione del

sistema delle preclusioni, è una certa proposta interpretativa della Cassazione e del giudizio

di rinvio come fenomeno unitario: se l’autore si interroga sulla possibilità che «la cassazione,

oltre al compito di cassare i capi della sentenza impugnati, abbia anche quello di provvedere

in modo definitivo sui singoli punti pregiudiziali, dedotti come motivo di ricorso», lo fa con

l’intento di respingere quest’ordine di idee e di concludere nel senso che «un’attribuzione di

questo genere sarebbe in contrasto con la natura del giudizio di cassazione» (ID., op. cit.,

193), il quale ad altro non è preordinato che alla rescissione della sentenza, onde consentire

l’apertura di una «nuova istanza di giudizio». La tesi centrale della sua opera è, infatti, che la

fase del processo dinanzi al giudice di rinvio non è la reintegrazione del secondo grado del

processo, bensì la manifestazione di una nuova istanza di giudizio, cui si accede attraverso il

varco aperto dalla rescissione della sentenza di appello operata in Cassazione. In quest’ottica,

il giudizio presso la Suprema Corte non si configura come un giudizio a sé stante, radicantesi

in un’azione autonoma di annullamento, come nell’insegnamento di Calamandrei, ma

rappresenta, piuttosto, una fase del medesimo rapporto processuale instaurato con la

domanda di merito, fase che pone capo esclusivamente alla dichiarazione costitutiva intorno

all’inefficacia, in presenza di vizi, del provvedimento impugnato, cui segue il rinvio come

fase processuale destinata a formare la decisione sulla domanda. Da tale ricostruzione origina

quello spregiudicato corollario, che Pavanini ricava sviluppando e generalizzando certi

presupposti del magistero chiovendiano intorno alla cassazione per errori di merito, secondo

cui all’ordinamento italiano non era tanto sconosciuta l’operatività di un modello di terza

istanza, quanto piuttosto la possibilità dello svolgimento di tale terza istanza dinanzi ad un

giudice superiore a quello dell’appello. Ora, se è vero, per dirla con le parole di E.F. RICCI, Il

giudizio civile di rinvio, cit., 121, che «la storia, a ben guardare, è piuttosto contraria che

favorevole al punto di vista di Pavanini», è vero anche, come osserva giustamente

PANZAROLA, La Cassazione civile giudice del merito, vol. II, Torino 2005, 602, che

l’importanza del contributo, il «carattere esemplare, diremmo paradigmatico» della posizione

di questo giurista «acutissimo» (ID., op. cit., 595) stanno nell’aver condotto a svolgimenti

coerenti l’idea di capo di sentenza come capo di domanda, suggerendo, in definitiva, che «se

si accetta tale nozione di capo ogni discorso intorno alle “preclusioni” su questioni in sede di

rinvio diventa, se non impossibile, vieppiù difficile» (ID., op. cit., 602).

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– 203 –

incidentale in relazione ad ipotesi di soccombenza virtuale e la delimitazione

della potestas corrigendi della Suprema Corte32

.

È noto che questo autore patrocinava una tesi estremamente innovativa

con riguardo al giudizio di cassazione, che si basava sulla combinazione tra

l’assunto per cui la «parte» di sentenza rilevante ai fini delle impugnazioni

doveva considerarsi l’intero capo di domanda e una lettura estensiva della

potestas corrigendi di cui all’ultimo comma dell’art. 384 c.p.c., in grado di

offrire alla Cassazione un ampio e pregnante potere-dovere di riesame della

causa quoad ius.

Nella codificazione, al capoverso dell’art. 384 del codice del 1940,

dell’istituto di origine giurisprudenziale del rigetto del ricorso con correzione

della motivazione e conferma del dispositivo della sentenza impugnata,

Fazzalari vede infatti l’attribuzione alla Corte Suprema del compito di

controllo della causalità dell’error iuris in iudicando: il compito, cioè, di

verificare se l’errore di diritto denunciato ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c.

si sia effettivamente tradotto in un dispositivo erroneo, oppure se esistono

motivi di «ricambio» della decisione, i quali – ove il denunciato vizio in iure

venga in effetti riscontrato – sarebbero comunque idonei a puntellare la

statuizione finale sul capo di domanda e quindi a suffragare il medesimo

dispositivo della sentenza impugnata.

Orbene, Fazzalari combina questa interpretazione dello ius corrigendi

con la nozione di «capo di domanda» come entità minima devolvibile

attraverso l’impugnazione, in appello come dinanzi alla Corte Suprema; e

pone così le basi per asserire che il compito affidato alla Suprema Corte di

andare alla ricerca di motivi, concorrenti o preliminari, atti a surrogare il

motivo erroneo denunciato e a svolgere, in definitiva, una funzione di

supporto logico-giuridico del dispositivo, onde evitare l’epilogo

32

Per un’analisi approfondita delle interrelazioni tra questi profili nell’evoluzione

della giurisprudenza e nella riflessione dottrinaria sulla cassazione, v. per tutti PANZAROLA,

La Cassazione civile giudice del merito, vol. II, cit., cap. V, 457 ss.

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– 204 –

dell’annullamento di una sentenza corretta nel dispositivo stesso, comporta

che tutte le questioni di merito implicate nel capo di domanda colpito dal

motivo di censura sono devolute alla Corte in quanto soggiacciono al

controllo di causalità dell’errore in iure denunciato dal ricorrente.

In tale prospettiva diventa perciò logico e naturale respingere l’idea che

il ricorrente vittorioso nel merito ma soccombente virtuale su una questione

preliminare debba promuovere ricorso incidentale (anche condizionato) al

fine di far riemergere dinanzi alla Suprema Corte quelle questioni di merito

sulle quali il giudice precedente gli abbia dato torto33

: potendo, anzi, dovendo

la Corte, d’ufficio, ripercorrere l’iter logico seguito dal giudice della sentenza

impugnata per verificarne la conformità al diritto34

.

33

V. anche BIANCHI D’ESPINOSA, Impugnazioni incidentali condizionate su questioni

pregiudiziali, in Giust. civ. 1961, 1383 ss. 34

L’arguta ricostruzione fazzalariana prende l’avvio dall’esame del capoverso

dell’art. 384 c.p.c. che ha introdotto il nuovo istituto della correzione della motivazione.

Tolta la limitazione ricavabile dal tenore testuale della norma, tale per cui il controllo di

causalità dell’errore andava ricondotto alla sola ipotesi di errore nella risoluzione di una

quaestio iuris – poiché nella vecchia formulazione dell’art. 384 sia l’enunciazione del

principio di diritto che la correzione della motivazione erano correlati all’accoglimento di

una censura di violazione o falsa applicazione di diritto ai sensi del n. 3, comma 1, dell’art.

360 c.p.c.; tenuto altresì presente il contenimento dello ius corrigendi «nell’ambito del capo

di dispositivo impugnato e dei fatti accertati dal giudice di merito», per Fazzalari la nuova

disposizione «non reca traccia di sostanziali sbarramenti» quanto all’esercizio della potestas

corrigendi officiosa: «traccia, invece, indispensabile – data la natura innovatrice della norma

– se il legislatore avesse inteso circoscriverne la portata» (così, FAZZALARI, Il giudizio civile

di cassazione, cit., 128-129). L’autore individua in questa nuova disposizione un

«allargamento dell’ambito della cognizione» devoluta alla Corte «connesso al controllo

dell’esattezza del dispositivo» che giustifica l’asserzione che «la Cassazione offre ormai –

limitatamente ai vizi di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. e alla parte di dispositivo impugnata –

uno dei profili della revisione di tipo germanico» (ID., op. cit., 132). Motiva questa

ricostruzione con una consecuzione sostanziosa di argomenti, partendo dalla premessa

secondo cui il capoverso dell’art. 384 c.p.c., nell’esigere la correzione della motivazione

della sentenza il cui dispositivo sia conforme al diritto, richiede in sostanza alla Suprema di

«partire dai fatti insindacabilmente accertati dal giudice a quo, e svolgere tutto il

ragionamento che, attraverso la individuazione della norma sotto la quale i fatti vanno

assunti, la interpretazione della medesima, la determinazione delle conseguenze, etc., mette

capo al giudizio intorno all’esistenza della situazione soggettiva dedotta in lite (diritto

soggettivo, obbligo corrispondente, lesione) e al comando che la legge impone di emanare in

costanza di tale giudizio (…)», così che, «individuata la pronuncia che il giudice a quo

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– 205 –

Correlativamente, questa raffinata ricostruzione ha il suggestivo effetto,

come è stato efficacemente osservato, di «immunizzare» l’adesione alla tesi

che ragguaglia la parte di sentenza al capo di domanda dalle conseguenze

«negative» che quell’adesione sembrerebbe trascinarsi dietro35

, ovvero

l’impossibilità logica di giustificare l’esistenza di un sistema di preclusioni in

sede di rinvio, laddove, nella logica di parte di sentenza come capo di

domanda, appare razionale e necessitato che l’unità minima pervenibile, a

avrebbe dovuto emanare, la Corte dispone del metro su cui misurare la correttezza del

dispositivo effettivamente emesso da quel giudice: se tale dispositivo è uguale a quello cui la

Corte è pervenuta, esso è corretto; non lo è, se risulta difforme» (ID., op. cit.,143). Se questo

è il contenuto dell’attività di controllo delineata dall’art. 384 c.p.c., è per l’autore evidente

che, nel compiere tale attività, dovendo muovere «alla ricerca di un altro motivo di diritto

che, tolto di mezzo quello erroneo, possa sorreggere il “giudizio di merito”», la Corte

«finisce con l’estendere la propria cognizione ad ogni questione di diritto che (nell’ambito

del capo di dispositivo impugnato e sulla base dei fatti asseriti dal giudice di merito) ritenga

pertinente»: ID., op. cit., 127. Tale ottica consente di superare a piè pari la vexata quaestio

delle modalità con cui il resistente vittorioso nel merito dovrebbe articolare la sua iniziativa

impugnatoria per riproporre le questioni preliminari negativamente risolte in suo danno dal

giudice inferiore, ed evitare che, in sede di rinvio, il ricorrente in cassazione possa risultare

avvantaggiato dall’aver potuto proporre, sul presupposto della soccombenza e dell’interesse

ad impugnare, e dunque riaprire, solo le questioni decise in senso a lui sfavorevole: «in

ordine a tutte le questioni che, per essere relative al giudizio di diritto da cui dipende il capo

di dispositivo impugnato, la Cassazione deve delibare d’ufficio (a’ sensi e per gli effetti

dell’art. 384 cpv.), la parte non ha né l’onere di dedurle innanzi alla Cassazione, né la

possibilità di sottrarle ad essa» (corsivo nostro). Sicché «al resistente non rimane se non

svolgere, in pratica, la propria solerte difesa al fine di richiamare l’attenzione su tutti i motivi

di diritto che possano sorreggere la decisione: scopo al quale egregiamente servono il

controricorso prima, la memoria e la discussione, poi»: ID., op. cit., 135. Col che, resterebbe

dimostrata l’inutilità del ricorso condizionato predisposto dalla prassi, sotto la vigenza del

codice del 1865, per consentire al resistente, sul presupposto della soccombenza virtuale su

questioni preliminari, di richiederne il riesame. Di fronte, infine, all’indubbio problema del

collegamento del fra il principio sancito dall’art. 384 cpv. e la regola, desumibile dall’art.

366 del codice di rito, per cui il ricorrente deve esercitare la propria impugnazione mediante

una censura puntuale, Fazzalari intende battere in breccia le presumibili obiezioni con la

considerazione che l’onere del ricorrente di avanzare una puntuale censura ha la «sola

funzione di limite per l’esperibilità dell’impugnazione, e non anche di limite per la

cognizione della Corte», cosicché resta consentito al capoverso dell’art. 384 c.p.c. di

dispiegare tutto il suo significato sistematico e letterale, quale norma che consente alla Corte

di procedere al controllo della esattezza del dispositivo e, ove occorra, alla correzione dei

motivi, anche al di là della questione sollevata dal «mezzo di censura»: ID., op. cit., 131. 35

Così, PANZAROLA, op. cit., 499.

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– 206 –

seguito della rescissione, dinanzi al giudice di rinvio, corrisponda a quella

suscettibile di verifica e di invalidazione da parte della Suprema Corte

(ovvero, appunto, al capo di domanda, con tutte le sue questioni interne,

logicamente anteriori o posteriori rispetto a quella decisa con il dictum).

Argomenta infatti Fazzalari che la circostanza che il principio di diritto

«costituisce il punto culminante del controllo della correttezza del dispositivo

(o della parte di dispositivo impugnata)» – controllo che comporta, secondo

l’impostazione dell’autore, l’integrale rifacimento del giudizio quoad ius del

giudice di merito, in relazione al capo di domanda investito dalla censura – fa

sì che il principio di diritto sia dotato di una efficacia negativa che si

aggiunge alla efficacia positiva identificata dall’art. 384 c.p.c. nell’obbligo

del giudice di rinvio di uniformarsi al parametro giuridico somministrato

dalla Suprema Corte. Tale efficacia negativa consiste nel produrre

l’impossibilità, per il giudice del rescissorio che debba attenersi al dictum in

iure della Cassazione, di riesaminare tutte le questioni di diritto relative al

giudizio di merito incluse nel capo di domanda coinvolto dal mezzo di

censura, poiché la Corte, prima di accogliere il ricorso ed enunciare il

principio di diritto, ha dovuto necessariamente procedere al vaglio delle

stesse, convalidando la soluzione offerta già dal giudice a quo.

Infatti, poiché, nella impostazione del Fazzalari, la Corte Suprema non

mette capo all’annullamento della sentenza, bensì alla correzione della

motivazione con rigetto del ricorso, quando ritiene che nel capo di sentenza

impugnato col mezzo di censura le questioni pregiudiziali di merito decise in

senso sfavorevole al resistente in cassazione andavano invece risolte in senso

a lui favorevole (e di conseguenza andavano corrette in diritto le relative

statuizioni, con conferma del dispositivo favorevole al resistente), è da

ritenersi specularmente che se invece la Cassazione arriva a dare ragione al

ricorrente nel punto oggetto del motivo accolto e corrispondente

all’enunciazione del principio di diritto, ciò significa che le questioni

pregiudiziali di merito contenute nel capo impugnato sono state esaminate

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d’ufficio dalla Suprema Corte e da essa nuovamente risolte nello stesso modo

in cui furono decise dal giudice della sentenza impugnata.

Il vincolo del principio di diritto sarebbe perciò assistito dalla

presunzione invincibile che il vaglio di tutte le questioni di diritto, anteriori e

sottese a quel principio, che la Corte compie d’ufficio sul capo di dispositivo

impugnato, è stato effettuato dalla Cassazione con esiti non diversi da quelli

cui era già pervenuto il giudice della sentenza impugnata; ragion per cui dette

questioni non possono essere riesaminate in sede di rinvio.

In definitiva, le limitazioni di cui soffre la cognizione del giudice di

rinvio non dipenderebbero dal fatto che alla Suprema Corte pervengono, per

il tramite dei motivi specifici di censura, singole questioni da riesaminare,

con conseguente necessità, per il resistente vittorioso nel merito, di proporre

ricorso incidentale onde evitare il giudicato interno sulle statuizioni sulle

questioni pregiudiziali di merito sulle quali si sia formata la soccombenza

virtuale.

Ciò che rende operante un regime di preclusioni in sede di rinvio è

invero la necessità di un controllo officioso, ad opera della Corte, in sede di

verifica della correttezza del dispositivo, dei punti preliminari del medesimo

capo di sentenza ove è denunciato l’error iuris da parte del ricorrente.

Poiché, d’altro canto, la possibilità, per il giudice di rinvio, di sottrarsi

all’applicazione del principio di diritto attraverso una diversa ricostruzione

dei fatti è estremamente circoscritta, stante la stabilità che a tale ricostruzione

storica assicurano l’attività di sussunzione in iure svolta dalla Suprema Corte

ed il carattere «chiuso» del giudizio di rinvio – ove non è consentito alle parti

di prendere nuove conclusioni salvo che la necessità delle nuove conclusioni

sorga dalla sentenza di cassazione, dice l’ultimo comma dell’art. 394 c.p.c. –,

i limiti oggettivi del devoluto nella fase rescissoria sono estremamente

circoscritti: e si giunge così ad una soluzione che non sembrava facilmente

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– 208 –

attingibile da parte dei fautori della commisurazione della nozione di capo di

sentenza al capo di domanda36

.

Poiché, però, ciò che dà origine alla preclusione in sede di rinvio è il

potere di correzione in diritto della motivazione, e poiché questo potere è

riconosciuto alla Corte dall’art. 384 c.p.c. solo in funzione della corretta

individuazione della norma di diritto sostanziale applicabile al capo di

domanda, le questioni di rito impedienti non possono avere lo stesso

trattamento, evidentemente, delle questioni di merito pregiudiziali rispetto al

punto di diritto a cui corrisponde il principio enunciato dalla Corte. Le

statuizioni rese sulle prime, pertanto, integrano delle «parti» di sentenza

autonome, e per esse Fazzalari reputa necessario lo strumento del ricorso

incidentale, onde evitarne il consolidamento.

Il carattere emblematico della posizione di Fazzalari sta in questo

tentativo di conciliare il concetto di parte di sentenza come decisione sul capo

di domanda e l’esistenza di preclusioni nella fase post-cassazione; ma,

nell’avanzare del tempo, l’evoluzione del sistema è andata sempre meno

nella direzione di collegare l’esistenza delle preclusioni in sede di rinvio ai

poteri officiosi della Corte (di rilievo dei vizi rilevabili in ogni stato e grado)

ed al principio iura novit curia (da cui l’organo di cassazione trae la sua

36

In particolare, Fazzalari invoca, a sostegno di tale ricostruzione, un principio di

conservazione processuale che egli afferma immanente all’ordinamento, «fenomeno che si

riscontra in tutti i campi del diritto, perché attiene alla sostanza stessa del potere (facoltà,

dovere) come realtà finita»: un principio secondo il quale, ai fini che qui interessano, tutte le

attività svolte nel corso della pregressa fase di merito continuano a svolgere efficacia nel

giudizio di rinvio, qualora non siano state travolte dalla Cassazione o non siano state elise da

nuove attività svolte in sede di rinvio, nei limiti ristretti in cui ciò sia possibile: ID., op. cit.,

161, nt. 47 (corsivo nostro). Fazzalari riconnette la conservazione di attività superstiti alla

cassazione a taluni fattori, secondo la seguente schematizzazione: a) alla «consumazione del

potere (o facoltà, o dovere) dell’autore dell’atto»; b) all’«esaurimento, per mancato esercizio,

del potere di denunziare in cassazione eventuali vizi dell’atto e del dovere della Corte

suprema di riconoscerli» ed alla «correlativa carenza, in sede di rinvio, di poteri di sindacato

sull’atto superstite»; c) alla «carenza, in sede di rinvio, di poteri (o facoltà o doveri)

incompatibili con l’efficacia dell’atto superstite»; d) dall’«esaurimento, per mancato

esercizio, di siffatti poteri (o facoltà o doveri)»: ID., op. cit., 173.

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– 209 –

origine istituzionale), e sempre più verso il riconoscimento, piuttosto, di un

meccanismo di restrizione progressiva dei materiali decisori nel passaggio da

un grado all’altro del giudizio (con consolidazione, per giudicato interno, sia

esplicito che implicito, delle singole statuizioni non specificamente

impugnate), che ridonda, evidentemente, nella limitazione dell’ambito

oggettivo anche e a maggior ragione del giudizio di rinvio.

In disparte della posizione del tutto peculiare di Fazzalari, l’esistenza di

un sistema di preclusioni, comunque, viene affermata, anche a prescindere

dall’adesione alla nozione ristretta di «parte di sentenza»37

, come

conseguenza del restringersi dell’oggetto quantitativo e dell’oggetto

qualitativo della causa nel passaggio da un grado all’altro di giudizio38

, in

una prospettiva alla cui base è sempre una concezione dell’oggetto

qualitativo dell’impugnazione come risultante dell’esercizio, anche in forma

diversa dal gravame “titolato” (v. la riproposizione delle domande e delle

eccezioni non accolte di cui all’art. 346 c.p.c.), del potere dispositivo delle

parti – il quale determina «non solo la individuazione del rapporto sostanziale

o della frazione di rapporto sostanziale devoluto alla cognizione del giudice

superiore, ma anche del materiale conoscitivo e cioè le questioni di fatto e

probabilmente anche di diritto sulla cui base il giudice dell’impugnazione

37

GAMBINERI, op. cit., 119 s., sembrando aderire alla tesi di CHIARLONI, Il ricorso

incidentale del resistente vittorioso: profili sistematici e rapporti con il c.d. ordine logico

della pregiudizialità, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1968, 497 ss. 38

Cfr., da ultimo, GAMBINERI, op. cit., 114 ss., che si richiama espressamente alla

prospettazione di CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., 253 ss. e rileva come

l’oggetto quantitativo dell’impugnazione sia rappresentato dal rapporto sostanziale, o dalla

frazione di rapporto sostanziale, devoluto alla cognizione del giudice dell’impugnazione

attraverso la spendita dei motivi specifici di impugnazione (in sostanza, la coppia pretesa-

obbligo su cui la sentenza deve pronunciarsi); mentre l’oggetto qualitativo è rappresentato

dal novero degli elementi di cognizione (le questioni di fatto e di diritto) che il giudice deve

conoscere onde addivenire alla pronuncia circa l’esistenza o l’inesistenza del diritto fatto

valere.

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– 210 –

dovrà statuire»39

, facendo però leva su un diaframma, già insito nella

ricostruzione fazzalariana40

, tra il piano della cognizione e quello decisorio.

Tra i diversi tentativi che sono stati svolti per giustificare questa

restrizione del materiale di cognizione senza accedere alla nozione di parte di

sentenza come decisione di questione, quello proposto da Ricci appare come

la sintesi in qualche modo meno sfuggente del nesso tra potere dispositivo e

preclusioni (nelle impugnazioni in generale e nel giudizio di rinvio in

particolare).

Difatti questo autore, al fine di respingere il disparagium tra ricorrente

e resistente in Cassazione e di riconoscere anche a quest’ultimo il potere di

proporre ricorso incidentale in caso di c.d. soccombenza virtuale, fa leva sul

potere delle parti – di entrambe le parti – di far valere motivi atti a

giustificare la revisione delle questioni risolte in senso sfavorevole,

attribuendo alla tesi dell’equiparazione tra «capo» e soluzione di una

questione «il merito di aver richiamato l’attenzione anche sulla questione-

motivo, quando si tratta di cogliere l’interesse ad impugnare. Ove il mezzo è

volto a colpire il “capo” per un certo motivo, l’interesse è dato dall’utilità

della censura fondata su quel motivo: e questa utilità si manifesta solo per il

soccombente sino a quando il “capo” non è posto in discussione, si manifesta

per entrambe le parti quando il capo sia stato ormai colpito da un atto che ne

impedisce il consolidarsi»41

.

In tal modo, Ricci si pone nell’ottica di far discendere le preclusioni (la

non riesaminabilità dei punti di fatto e di diritto antecedenti e presupposti a

quello oggetto del motivo speso) proprio dalla mancata proposizione, pur

39

Così, Beatrice GAMBINERI, op. cit., 122. 40

Vedi, per questa opinione, PANZAROLA, La Cassazione civile, cit., 508. 41

E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, 141.

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– 211 –

sussistendone il potere, del motivo di censura sui singoli punti di fatto e di

diritto già oggetto della precedente decisione42

.

L’obiezione a questa ricostruzione davvero difficile da superare è che

la mancata proposizione di una censura consuma e preclude il potere di

impugnazione, «ma non può, da sola – ovvero in mancanza di fenomeni di

giudicato interno o di norme espresse che prescrivano decadenze –,

giustificare la definitività endoprocessuale degli accertamenti non

espressamente colpiti con l’impugnazione»43

.

La semplice preclusione del potere di mettere in discussione un

determinato punto di fatto o di diritto per mancata impugnazione dello stesso

tramite motivo specifico, a differenza della nozione di giudicato interno,

infatti, non è in grado di spiegare il funzionamento dei poteri decisori in sede

di impugnazione44

.

42

In questi esatti termini interpreta il pensiero di Ricci, POLI, I limiti oggettivi, cit.,

180, ove l’osservazione, invero difficile da confutare, che il piano dei motivi di

impugnazione – gli errori in iudicando ed in procedendo – si distingue concettualmente dal

piano degli accertamenti di fatto e di diritto in cui quegli errori vengono ravvisati, ovvero le

decisioni sulle singole questioni. Sul punto, v. nota seguente. 43

Così, POLI, op. loc. ult. cit. L’efficacia accertativa di tipo endoprocessuale implicata

nella nozione di giudicato interno comporta anche un’attitudine conformativa della questione

ridecisa in sede di impugnazione rispetto alle statuizioni dipendenti, che anche se non

espressamente impugnate possono essere a quella adeguate: con riferimento alla necessità di

riferirsi alla concetto di parte di sentenza come decisione di questione per spiegare il

fenomeno del c.d. «effetto devolutivo allargato» dell’impugnazione, ID., op. cit., 31 ss. 44

Al riguardo, quello che Pavanini sosteneva, con logica ferrea, in riferimento al

vincolo del giudice di secondo rinvio al dictum pronunciato dalla Suprema Corte nella

vigenza del vecchio codice può essere ripreso al fine di spiegare in maniera chiarissima cosa

manca al principio di preclusione, ovvero di consumazione, per dirla con Fazzalari, per

descrivere il fenomeno che stiamo esaminando. Nel prendere le distanze da Carnelutti,

riconoscendo tuttavia che questo autore «è forse più vicino al vero (…) di quanto non

sembri» (ID., op. cit., 117), Pavanini non esita a respingere la tesi che attribuisce al vincolo la

natura del giudicato, ribadendo il noto argomento per il quale «la cosa giudicata è riferibile

solo alla sentenza definitiva, la quale accoglie o respinge la domanda proposta dall’attore»

(Id., op. cit., 116); tuttavia, egli non considera neanche soddisfacente il ricorso al concetto di

preclusione. Nella nozione tecnica di preclusione delineata dall’insegnamento tradizionale,

che configura la preclusione come la perdita o l’estinzione di una facoltà o di un potere

spettante alle parti – le cui cause vanno individuate o nel fatto di aver compiuto un atto o

un’attività incompatibile con l’esercizio della facoltà di cui si tratta, o nel fatto di averla già

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– 212 –

validamente esercitata, ovvero nel mancato tempestivo esercizio della stessa (su cui, v.

CHIOVENDA, Cosa giudicata e preclusione, in Saggi, cit., 233 ss.) è presente una correlazione

tra facoltà ed onere che studiosi del calibro di BETTI (Diritto processuale civile italiano, cit.,

75-76) e CARNELUTTI (Lezioni, cit., 312 ss.) non senza ragione, secondo Pavanini, hanno

avvertito l’esigenza di valorizzare. Se l’onere processuale consiste, per usare la definizione

carneluttiana, nel «mettere a carico della parte le conseguenze della sua inerzia col disporre

che un certo risultato utile alla parte medesima, non possa essere conseguito altrimenti che

colla sua attività» (CARNELUTTI, op. cit., 314), bisogna riconoscere che un concetto

tecnicamente pregnante di preclusione ha referenti immediati in tutti quei casi in cui

l’impedimento al compimento di determinati atti è riconducibile ad una programmata

reattività dell’ordine del processo ad un comportamento, attivo o inerziale, della parte («si

comprende facilmente», dice PAVANINI, op. cit., 118, «come la preclusione serva benissimo

ad illustrare la situazione giuridica creatasi in seguito alla mancata risposta all’interrogatorio,

al mancato disconoscimento di una scrittura e, in genere, all’inutile decorso dei termini: casi

tutti nei quali il vincolo del giudice costituisce un immediato riflesso della perduta facoltà

delle parti»; c.n.). Per contro, la correlazione tra onere e facoltà, sebbene in grado di

riassumere plasticamente anche l’operatività del principio dispositivo – essendo indubbio che

la parte abbia l’onere di introdurre e di circoscrivere il thema decidendum in prime cure per

ottenere la decisione sulla domanda; che in grado d’appello abbia l’onere di impugnare i capi

di domanda sui quali sia risultato soccombente; che in cassazione abbia l’onere di denunciare

gli errori che colpiscono la sentenza impugnata, al fine di conseguire il risultato utile

dell’annullamento della sentenza impugnata – non sembra dare un contributo decisivo

all’intelligenza delle situazioni in cui la decisione su un punto pregiudiziale formalizzata in

un provvedimento che non chiude la lite non può essere rinnovata nel corso dello stesso

processo; alle situazioni, insomma, in cui alla consumazione dell’onere-facoltà della parte di

chiedere si aggiunge una consumazione del potere-dovere del magistrato di pronunciare, in

merito a una certa questione, o di rendere una pronuncia inconciliabile con la decisione

pregressa (con un effetto, in sostanza, molto simile a quello della cosa giudicata: l’Autore, in

particolare, prende in considerazione le sentenze interlocutorie inoppugnabili, ed infatti alla

portata di queste commisura l’efficacia della pronuncia della Suprema Corte ex cpv. art. 547

del codice del 1865). L’insufficienza della concezione della preclusione come perdita di un

potere spettante alle parti sarebbe già dimostrata senza difficoltà dal fatto che «per la

risoluzione di questioni, sia di merito che processuali, e in particolare quelle di puro diritto,

che costituiscono l’ambito caratteristico dell’art. 547 c.p.c., è riconosciuto al giudice un

potere di iniziativa indipendente dall’impulso delle parti, il quale si presenta perciò come

utile ma non indispensabile» (Id., op. loc. ult. cit.). Dunque una prima revisione critica,

suggerita da Pavanini all’utilizzo della nozione di preclusione a fini diversi da quelli

descrittivi con riguardo al fenomeno correlato alla mancata spendita di motivi specifici di

impugnazione rispetto alle singole questioni che compongono l’oggetto della cognizione,

muove dalla semplice constatazione che, se dal legislatore si ammette l’esaminabilità

officiosa di certe questioni, ciò significa perlomeno che la facoltà della parte di proporre

quelle questioni si pone già come più estesa del relativo onere, da un lato; ma anche,

dall’altro lato, che in merito alle questioni rilevabili d’ufficio in tanto si può parlare di

preclusione in quanto la nozione di preclusione venga intesa estensivamente in maniera da

farvi rientrare la perdita di facoltà spettanti al giudice. Ma anche a voler aderire a questa

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– 213 –

Il discorso e le criticità non cambiano se comunque, nel tentativo di far

collimare la nozione di parte di sentenza con il concetto di giudicato si

allarga la nozione stessa di giudicato, collegando sì la nozione di «parte» di

sentenza, nell’ottica dell’art. 329, comma 2, c.p.c., alla sola pronuncia, o alla

parte della pronuncia, idonea a passare in giudicato e a divenire intangibile

quando non impugnata, in quanto «decisione su un autonomo oggetto del

processo», ma con la puntualizzazione che l’autonomizzazione della

decisione, ai fini del giudicato, può aversi non solo se la pronuncia decida

sulla fondatezza di una domanda, ma anche se decide della sua

ammissibilità45

: così che sono capi di sentenza, oltre a quelli che decidono

nozione lata di preclusione, così da potervi inquadrare l’esaurimento del potere di decidere le

questioni il cui esame non dipende necessariamente dall’impulso di parte e l’assottigliarsi

dello iura novit curia, a monte dell’effetto dell’indiscutibilità dei punti che formano oggetto

della pronuncia (nel discorso sviluppato da Pavanini, di un’interlocutoria divenuta

inoppugnabile o del dictum vincolante pronunciato dalla Corte ai sensi dell’art. 547 c.p.c.

abrogato) non sembra rintracciabile un’esigenza omogenea rispetto a quella che caratterizza

le preclusioni la cui ratio è di ordinare l’andamento del processo attraverso la

responsabilizzazione delle parti. Rispetto ai punti decisi, parlare di preclusione serve solo ad

illustrare l’aspetto formale della situazione giuridica in cui è impedito alle parti di sollecitare

e al giudice di rinnovare il giudizio su questione già compiuto, e a mettere in evidenza il

carattere di immutabilità delle relative pronunce; mentre lascia in ombra la ragione per cui,

accanto al divieto di tornare a rivedere la questione risolta, si determina che «un magistrato,

il quale si trovi a decidere su altre questioni dipendenti o connesse a quella decisa, debba

porre a base della nuova decisione la soluzione della questione emessa dal precedente

giudice, e nessun’altra» (Id., op. cit., 120): si determina, cioè, un vincolo. Quello che

Pavanini dimostra, anche se a fini diversi rispetto a quelli relativi all’individuazione

dell’unità minima suscettibile di devoluzione al giudice dell’impugnazione, è che si ha

bisogno di un’efficacia accertativa (del giudicato interno, diremmo noi), al fianco della

estinzione o consumazione del potere di impugnare, per giustificare l’obbligo, in capo al

giudice del processo in corso, di uniformarsi alla decisione precedente: tra la perdita del

potere di impugnazione per mancato esercizio (nel senso di mancato svolgimento del motivo

specifico) e il dovere del giudice dell’impugnazione di mantenere a base della soluzione i

punti decisi e non impugnati sta un effetto di consolidamento (sebbene ancora con efficacia

endoprocessuale) del lavoro logico già svolto. 45

È questa la nota tesi di LIEBMAN, «Parte» o «capo» di sentenza, in Riv. dir. proc.

1964, 54: sul presupposto che si debba distinguere tra l’atto decisorio e l’atto meramente

cognitorio (che può investire la singola questione), per questo autore si può parlare di capi

solo in relazione ad atti decisori completi provvisti del crisma dell’imperatività, suscettibili

di cioè di produrre effetti sul piano sostanziale, con la precisazione che anche l’atto che

risolve le questioni di rito impedienti è assistito da una componente volitiva che lo rende

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– 214 –

nel merito della singola domanda, quelli relativi a questioni processuali

idonee a definire il giudizio (le cosiddette questioni processuali impedienti)46

.

Anche in questo caso si respinge infatti l’equazione parte di sentenza-

decisione di questione e ci si ferma a postulare che l’effetto preclusivo alla

riesaminabilità delle questioni che formano il materiale di cognizione della

causa dipende dalla mancata denuncia di un motivo di impugnazione atto ad

incrinare il fondamento logico-giuridico delle affermazioni contenute nella

sentenza impugnata in merito a ciascuna questione; senza però concludere,

poi, che da quel mancato esercizio dipende la formazione del giudicato

interno sulla singola questione non specificamente censurata.

È stato in proposito acutamente osservato che «in definitiva, se si

accoglie la teoria del “capo” di domanda, non è poi consentito – ai fini delle

“preclusioni” in rinvio – contraddire la più generale scelta compiuta,

impostando la problematica nei termini autorizzati dalla concezione del

“capo” di questione»47

.

La teoria del «capo» di sentenza inteso come decisione di questione,

accolta – va detto – dalla giurisprudenza maggioritaria, anche se non sempre

sviluppata con piena consapevolezza e coerenza di corollari applicativi, ha,

anche per quanto riguarda la giustificazione teorica e la ricostruzione in

chiave pratica delle preclusioni in sede di rinvio, «il vantaggio della chiarezza

assimilabile alla statuizione finale sul bene della vita, poiché contiene una decisione

completa sull’oggetto del processo, statuendo sulla sua idoneità ad un esame nel merito. Per

riferimenti in dottrina ad opinioni analoghe, vedi POLI, I limiti oggettivi, cit., 9 ss., nt. 6. 46

Per la considerazione, che accede alla c.d. teoria del doppio oggetto del giudizio

(processuale e di merito), secondo cui la questione pregiudiziale di natura processuale non si

eleva «a diretto oggetto di accertamento e decisione» ed è fuori dalle esigenze sottese al

giudicato vedere se «la questione processuale riguardante un dato presupposto processuale

possa riprodursi tale e quale, ed in termini di sostanziale equivalenza, in un successivo

processo», v. CONSOLO, Il cumulo condizionale di domande, Padova 1985, 231. Per la

sottoscrizione di tale considerazione, pur senza l’adesione alla teoria del doppio oggetto del

giudizio, v. CARRATTA, Rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione e uso improprio del

«giudicato implicito», in Giur. it. 2009, 1467, nt. 11. 47

Così, CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., 626.

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– 215 –

non meno che della consequenzialità»48

, ché qualsiasi discorso intorno alle

modalità di devoluzione dei materiali di causa al giudice dell’impugnazione è

anche oggi qualificabile come lo definì Carnelutti discorrendo del divieto di

reformatio in peius49

: «limpido» o «torbido» secondo che lo si tratti con o

senza il «reagente» della nozione di capo di sentenza inteso quale decisione

su questione50

.

48

In questi termini, PANZAROLA, op. cit., 626-627. 49

Principio cioè per il quale, per usare le parole della recente Cass. 8 novembre 2011,

n. 23240, «in assenza d’impugnazione della parte parzialmente vittoriosa (appello e ricorso

per cassazione), la decisione non può essere più sfavorevole all’impugnante e più favorevole

alla controparte di quanto non sia stata la sentenza impugnata e non può, quindi, dare luogo

ad una reformatio in peius in danno del primo (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 14127 del

2011). Più in particolare (…) è stato enunciato il principio secondo cui, in caso di cassazione

con rinvio di una sentenza, i poteri del giudice di rinvio, in ragione del carattere dispositivo

dell’impugnazione, vanno determinati con esclusivo riferimento all’iniziativa delle parti, con

la conseguenza che in assenza di impugnazione incidentale della parte parzialmente

vittoriosa, la decisione del giudice del rinvio non può essere più sfavorevole, nei confronti

della parte che abbia impugnato, di quanto non sia stata la sentenza oggetto di gravame, e

non può quindi dare luogo alla sua reformatio in peius in danno di quest’ultima (cfr., ex

plurimis, Cass. n. 1823 del 2005)». 50

L’immagine che Carnelutti formula con riferimento al divieto di riforma in peggio è

riportata sia da POLI, I limiti oggettivi, cit., 554, che da PANZAROLA, op. cit., 627. E la

validità dell’impostazione di Carnelutti su questo problema è a maggior ragione evidente

quando si tratti di andare a guardare l’impugnazione dal versante opposto a quello delle

preclusioni, ossia quello dell’effetto devolutivo allargato dell’impugnazione ed espansivo

interno della riforma e della cassazione parziali ai sensi dell’art. 336, comma 1, c.p.c. ai capi

di sentenza dipendenti da quelli impugnati. Solo aderendo all’idea che l’unità minima della

impugnazione è quella questione, sia in senso logico che in senso tecnico, si può infatti

pervenire al risultato della piena coerenza del risultato efficiente dell’impugnazione, quello

che è stato definito, con formula estremamente icastica, quale effetto «preterintenzionale»

dell’impugnazione: espressione felice di LASERRA, Il giudice dell’impugnazione e le nullità

insanabili non dedotte, in Riv. dir. proc. 1957, 570; ID., Limiti dell’impugnazione incidentale

tardiva nelle cause scindibili, in Riv. dir. proc. 1959, 488 ss., ripresa da POLI, op. ult. cit.,

46.

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– 216 –

§ 2. La cognizione del giudice di rinvio.

2.1. Sulla vincolatività delle pronunce di annullamento che riconoscono

vizi in procedendo.

Nell’analisi fin qui svolta, salvo un breve riferimento alla riforma del

2006, che ha introdotto la possibilità per la Corte di enunciare il principio di

diritto anche in occasione della decisione di ricorsi (o meglio, di motivi)

proposti per violazione di norme processuali, se la «questione di diritto» è di

particolare importanza51

, non è stata sviluppata un’indagine specifica né si è

dato sistematicamente conto della vincolatività delle pronunce della Suprema

Corte che dispongono il rinvio per aver riscontrato l’error in procedendo

denunciato col ricorso.

La restrizione dell’oggetto di ricerca ai casi in cui la Corte annulla e

dispone il rinvio per aver verificato un vizio attinente al merito52

consegue in

parte alla considerazione del dato normativo su cui si è formata tutta la

dottrina in materia (posto che prima della novella del 2006, l’art. 384 c.p.c.

prevedeva l’enunciazione del principio di diritto con riferimento

all’accoglimento delle censure per violazione o falsa applicazione di norme

di diritto), in parte alla percezione dell’esattezza e della completa sostitutività

51

V. supra, capitolo primo, par. 3.3, testo e nt. 119. 52

Nell’accezione a cui si riferisce CORDERO, voce Merito, in Dig. disc. pen., vol. VII,

Torino 1993, § 1 quando, per individuare il contenuto di questo concetto essenziale alla

conoscenza scientifica del processo, afferma che per «merito» s’intende l’oggetto di uno dei

due atteggiamenti valutativi del giudice, ed in particolare il «giudizio intorno ad una

situazione, il cui modello è offerto dalle norme di diritto sostanziale», in contrapposizione

all’altro atteggiamento valutativo, teso «a stabilire se siano rispettate le condizioni, dalla cui

osservanza dipende la regolarità del processo». Merito, quindi, come equivalente a quello

che nella nomenclatura giuridica tedesca, viene definito come Hauptsache, onde nella

prospettiva in esame la decisione è di merito quando il giudice sentenzia sulla fondatezza

della domanda e l’errore è di merito perché attiene non all’attendibilità del processo, ma

appunto alla corrispondenza della decisione sulla fondatezza della domanda al modello e agli

effetti prospettati dalle norme sostanziali applicabili nel caso specifico.

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– 217 –

delle pronunce di annullamento per errori di rito53

, che solo la novella del

2006, appunto, ha gravato la Corte del compito di enunciare espressamente

ove afferenti ad una «questione di diritto» «di particolare importanza».

Dal punto di vista positivo, si potrebbe anche non dare per scontata la

realtà che induce questa percezione, mancando un dato normativo che attesti

la piena vincolatività delle pronunce rese dalla Corte di cassazione in sede di

annullamento per errori in procedendo, sì da ritenere, ad esempio, che

l’effetto (negativo) di rescissione ottenuto per l’accoglimento del vizio in

procedendo non sia accompagnato dal correlativo dovere, in capo al giudice

di rinvio, di non ripetere il vizio.

È questo profilo problematico che ha indotto la dottrina ad interrogarsi

sulle matrici del vincolo del giudice di rinvio al principio di diritto enunciato

dalla Suprema Corte anche al fine di attingere una soluzione al quesito se le

pronunce accolgono una censura in procedendo siano o meno, vincolanti,

anche in senso positivo, per il giudice di rinvio.

Invero, la circostanza che il primo comma dell’ormai storico testo

dell’art. 384 c.p.c. correlasse l’efficacia vincolante del principio di diritto

enunciato dalla Suprema Corte all’accoglimento della censura di cui al n. 3

53

Stante la constatazione che, con riguardo alle questioni di rito, per «parte di

sentenza» si deve intendere la decisione della questione di rito nella sua interezza, inclusi i

presupposti di fatto (cfr. POLI, I limiti, cit., 367 ss., spec. 371 ss.); e che, comunque, rispetto

alla questione di rito la Suprema Corte ha pieni poteri di indagine nella valutazione delle

circostanze di fatto rilevanti per la decisione, con le stesse facoltà del giudice di merito: cfr.

DE CRISTOFARO, sub art. 384, in Codice di procedura civile commentato, cit., 1137, nel

contesto in cui ammette come pacifica la possibilità di cassazione con decisione nel merito

della causa in ipotesi in cui la decisione nel merito concerna istanze oppositorie del privato

contro l’esercizio di poteri ingiuntivi pubblici, di natura sanzionatoria o fiscale, là dove

l’opposizione sia fondata sul rilievo di un vizio del procedimento seguito dalla P.A. (essendo

proprio il procedimento che culmina con l’ordinanza-ingiunzione l’iter procedurale

sottoposto a verifica da parte del giudice dell’opposizione, il cd. fatto di causa, con

conseguente possibilità per la Suprema Corte di estendere la propria cognizione ad esso al

fine di verificare la denunciata divergenza tra contestazione e provvedimento sanzionatorio e

di accertare la violazione del diritto di difesa): ID., op. cit., 1137-1138.

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– 218 –

dell’art. 360 c.p.c.54

– non espressamente richiamata, ma di cui veniva

fedelmente riprodotto il tenore testuale – poteva portare a ritenere che il

legislatore avesse inteso assegnare alla pronuncia che riconosce la fondatezza

della censura de qua un gradiente in più di normatività rispetto alle altre

pronunce della Corte, o ad argomentare dalla circoscritta previsione dell’art.

384, comma 1, c.p.c. per escludere la vincolatività delle pronunce della Corte

diverse da quelle che enunciano il principio di diritto ad esito

dell’accoglimento del ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di

diritto.

In effetti, l’esame della disciplina dettata in materia dal legislatore del

1940 era suscettibile di esiti interpretativi aporetici, considerando

specialmente la non decisività dell’art. 393 c.p.c., che sanciva, e tuttora

54

Bisogna tener presente, tuttavia, che neanche quella che sembra un’ovvia

constatazione, ossia la riferibilità in senso tecnico dell’efficacia vincolante di cui al vecchio

comma 1 dell’art. 384 c.p.c. alle pronunce della Corte che riconoscono la sussistenza del

vizio di violazione o di falsa applicazione di norme di diritto di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c.,

è andata esente da revisioni critiche. Un’originale proposta di interpretazione, che non si può

non considerare evolutiva, se si ha riguardo al significato comunemente allora attribuito dai

giuristi alla locuzione utilizzata dal previgente comma 1 dell’art. 384, comma 1, c.p.c. pare

infatti avanzata da BOVE, La Corte di cassazione come giudice di terza istanza, cit., 1009-

1011. L’Autore afferma – il fine è quello di confutare l’ottica restrittiva dominante circa i

presupposti della cassazione sostitutiva ai sensi dell’ultimo inciso del 1° comma dell’art. 384

c.p.c., introdotto dalla novella del 1990 – che la relatio che si presume sussistente tra

l’effetto vincolante e la pronuncia di accoglimento ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. va

affrontata «con tutte le riserve che un argomento letterale comporta». E argomenta in

proposito che «è vero che l’espressione “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”

utilizzata nell’art. 384 c.p.c. è formalmente identica all’espressione utilizzata al n. 3 dell’art.

360 c.p.c. Ma quest’ultima norma viene riferita alla violazione o falsa applicazione della

norma che ha presieduto alla decisione, non per una sua intrinseca potenzialità espressiva in

tal senso, bensì solo a causa dell’esistenza delle altre previsioni contenute nello stesso

articolo, che si riferiscono alla violazione di altre regole. Insomma, il significato

comunemente attribuito al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. si ricava per esclusione, meccanismo

argomentativo che evidentemente non può funzionare nell’interpretazione dell’art. 384, che

utilizza un’espressione onnicomprensiva, richiamante tutte le possibili violazioni di norme di

diritto» (ID., op. loc. ult. cit.).

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– 219 –

sancisce, la generica resistenza all’estinzione del giudizio dell’effetto

vincolante delle sentenze della Corte, senza limitazioni di sorta55

.

Alla luce di ciò, non appare superfluo uno sguardo alle intenzioni del

legislatore storico, e alle contingenze in cui venne positivizzata la limitazione

dell’efficacia vincolante del principio di diritto alla sentenza di accoglimento

delle censure di violazione e falsa applicazione di norme di diritto, di cui al

vecchio testo dell’art. 384 del codice di rito.

Al riguardo, si è già avuto modo di rilevare, nel corso del preliminare

excursus sulla genesi della norma che prevede il vincolo del giudice di rinvio

al principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte56

, che nei progetti di

riforma del rito civile che in oltre un settantennio di vigenza del codice

Pisanelli erano stati vanamente approntati, si era fatta strada gradualmente,

anche se in modo discontinuo, l’idea che l’esplicita prescrizione del vincolo

del giudice di rinvio – in prima o in seconda battuta – dovesse porsi in

relazione a taluni tipi di pronuncia della Corte; e che, da ultimo, il progetto

Chiovenda aveva voluto tornire l’effetto vincolante sul dictum in iure della

Corte formulato in esito all’accoglimento del ricorso per il motivo di

violazione o falsa applicazione di legge, nel chiaro intento di rimodellare la

cognizione della Corte Suprema sui vizi in iudicando all’insegna del riesame

in diritto della controversia, come una sorta di «quasi» terza istanza in iure,

in (parziale) analogia con quanto l’ordinamento tedesco stabiliva per la

Revision57

.

55

È stato infatti osservato che l’art. 393 c.p.c. non è di per sé probante in ordine

all’estensibilità dell’effetto vincolante a tutte le pronunce della Corte, dato che il tenore

testuale della disposizione («ma la sentenza della corte di cassazione conserva il suo effetto

vincolante …») poteva lasciar pensare alla «permanenza dell’“effetto vincolante” di cui sia

già dotata la sentenza di cassazione»: il che rende la norma in parola non invocabile «in

ordine all’an e al quantum di un vincolo del giudice di rinvio e di ogni altro giudice in

qualsivoglia ipotesi di cassazione, potendovisi ravvisare un mero rinvio ad altre fonti

normative contenenti previsioni specifiche ed in particolare (…) all’art. 384, 1° comma»:

TAVORMINA, Contributo alla teoria dei mezzi di impugnazione, cit., 228. 56

V. supra, capitolo primo, § 2. 57

V., più diffusamente, retro, capitolo primo, § 2, testo e nt. 63.

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– 220 –

La traccia fornita dall’analisi di tipo storiografico ci fornisce però un

dato di maggior rilievo, e cioè quello per cui la dottrina maggioritaria, sotto

l’autorità del codice del 1865, asseriva la vincolatività anche per il giudice di

primo rinvio delle pronunce della Corte in ordine ai vitia in procedendo58

.

Risulta allora chiaro che la promozione di una norma che accordasse

alla Corte il compito di esplicitare il dictum in iure e che ne anticipasse

l’effetto vincolante al primo giudizio di rinvio poteva servire alla

sistemazione normativa di un istituto, a risolvere un problema di

amministrazione della giustizia per organicizzare la pronuncia di

annullamento ed il successivo giudizio rescissorio59

: un problema che di

fatto non si poneva con riguardo alle pronunce della Corte sugli errores in

procedendo.

In altri termini, l’esigenza di stabilire positivamente l’efficacia

vincolante del principio di diritto nei confronti del giudice di primo rinvio

presupponeva, forse, l’assenza di un analogo problema di raccordo tra la fase

rescindente e la fase rescissoria nei casi di accoglimento della denuncia di

vitia in procedendo.

58

In tal senso, CHIOVENDA, Principii…, cit., 1037; BETTI, Diritto processuale civile,

cit., 698; CALAMANDREI, La Cassazione civile, vol. II, cit., 272 ss. e 319 ss.; contra,

CARNELUTTI, Lezioni, vol. IV, cit., 254 ss. Per i riflessi pratici della scelta di stabilire il

vincolo, culturalmente assai più semplice con riferimento ai vizi d’ordine che non ai vizi di

giudizio, v. anche retro, capitolo primo, § 2, nt. 69 in relazione alla differente competenza

sul rescissorio penale, nel codice Rocco, per l’ipotesi di annullamento delle ordinanze e per il

caso di annullamento delle sentenze. 59

TAVORMINA, op. cit., 228 afferma al riguardo che la legittimità di

un’argomentazione a contrariis, facente leva sulla restrittiva formula del (vecchio) art. 384,

comma 1, c.p.c. per sorreggere la tesi della carenza di vincolatività delle pronunce della

Corte diverse da quelle rese in accoglimento di un ricorso per violazione o falsa applicazione

di norme di diritto, si presta essa stessa ad «essere revocata in dubbio non in ragione di una

(insussistente) differenza di contenuto delle relative statuizioni della Corte, ma del fatto che

la stesura dell’art. 384, 1° comma, potrebbe essere stata condizionata soltanto dall’esigenza

di sottolineare (a modifica del sistema previgente) l’anticipazione al primo rinvio

dell’efficacia vincolante sul “punto di diritto” della sentenza di cassazione e non anche da

intenti di selezione fra le varie ipotesi di cassazione»: ID., op. loc. ult. cit.

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– 221 –

La considerazione che precede risulta corroborata dall’esame degli altri

casi di normatività60

delle pronunce della Cassazione emergenti, in particolar

modo, pur in assenza di una disposizione di legge espressamente impositiva

di un vincolo, nella disciplina delle decisioni rese in sede di ricorso proposto

ai sensi dei nn. 1 e 2 dell’art. 360 c.p.c., per ragioni di giurisdizione e di

competenza.

Nelle letture correnti che circolano riguardo all’efficacia vincolante

delle statuizioni rese dal Supremo Collegio ex art. 382 c.p.c. dietro ricorso

ordinario proposto per i motivi di cui ai nn. 1 e 2 dell’art. 360, si possono

rintracciare diversi ordini di argomenti utilizzati dalla dottrina come basi

giustificative e parametri per la misura dell’intensità del vincolo posto dalla

pronuncia della Cassazione; è vero che alcuni di essi vengono intrecciati e

concorrono a suffragare anche i medesimi risultati dogmatici, ma il fatto di

isolarli concettualmente può comunque tornare utile al fine di cercare di

mettere a fuoco il problema della portata precettiva delle suddette statuizioni.

Il primo argomento non ha una base normativa specifica nel codice, ma

la rinviene dall’art. 65 l. ord. giud., ove alla Cassazione, quale organo

supremo della giustizia, viene affidato il compito non solo di assicurare

l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del

diritto oggettivo nazionale, ma anche di regolare «il rispetto dei limiti delle

diverse giurisdizioni» e «i conflitti di competenza e di attribuzioni». Tale

argomento, dunque, muove da un assunto unanimemente recepito (e che si

fonda su quella carta costituzionale) per il quale il potere della Corte di

60

Già si è detto di SATTA, Commentario, vol. II, cit., 279 (supra, capitolo primo, par.

3.3) che riteneva la disposizione dell’art. 384, comma 1, c.p.c. dovesse intendersi «non …

nel senso che al di fuori della violazione o della falsa applicazione non si ha forza vincolante

del giudizio di Cassazione», ma «nel senso che quando la cassazione avviene per altri motivi

non c’è da enunciare alcun principio, perché il vincolo nasce dalla diretta statuizione che la

corte fa sul processo», e che «è in altri termini, la generale normatività delle sentenze che

viene in questione, e che questa sussista anche per le decisioni della Cassazione nessuno

oserebbe mettere in dubbio». Ancora più decisamente, MONTESANO, Sull’efficacia

panprocessuale delle sentenze civili di cassazione, in Temi, 1971, 740 ss., su cui infra, in

questo paragrafo.

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– 222 –

cassazione di decidere su questioni di giurisdizione e di competenza si radica

nella peculiare posizione che ad essa compete quale vertice

dell’organizzazione giudiziaria.

Da tale assunto si prendono le mosse per stabilire un collegamento

indefettibile tra il compito istituzionale che l’ordinamento affida alla

Suprema Corte in materia di giurisdizione in senso lato61

e la particolare

efficacia di cui sono dotate le pronunce che essa emette nel relativo ambito.

Il punto di partenza per la ricostruzione dell’efficacia delle pronunce

della Suprema Corte in tema di giurisdizione è dunque la considerazione che

le funzioni ascrivibili al ruolo che il Supremo Collegio svolge in qualità di

organo regolatore della giurisdizione rispondono unitariamente all’esigenza,

rilevante sotto il profilo pubblicistico, che il processo possa attingere ad una

determinazione risolutiva circa la sussistenza o meno, rispetto alla pretesa

dedotta, del potere decisorio in capo al giudice (del giudice come ordine e del

giudice come singolo ufficio): il che porta a dire che si tratta di funzioni che

«esulano dal giudizio di impugnazione strettamente inteso»62

.

Da qui all’asserzione che tutte le funzioni svolte dalla Corte nel settore

della giurisdizione e della competenza, compreso quindi il compito di

decidere sui ricorsi ordinari promossi ex art. 360, nn. 1 e 2 c.p.c. si traducono

in statuizioni assistite dalla medesima efficacia vincolante, il passo è infatti

breve.

61

Ossia come categoria comprensiva anche della competenza, se è vero che questa

altro non è che la misura di giurisdizione spettante a ciascun giudice all’interno del proprio

ordine. 62

Così, SATTA, Commentario, cit., 183. Contra, MAZZARELLA, voce Cassazione, in

Enc. giur., Roma 1993, 7: l’idea che le decisioni della sulla giurisdizione e sulla competenza

siano espressione di un potere regolamentare spettante alla Corte in virtù della sua particolare

posizione di vertice giudiziario, ad avviso dell’a., se può essere considerata attendibile «per

gli adiacenti, ma diversi, istituti del regolamento di giurisdizione e di competenza», tuttavia

«non pare giustificabile per il ricorso ordinario ai sensi dei nn. 1 e 2 dell’art. 360 dove la

disciplina formale dell’impugnazione è determinante (corsivo nostro)». Subito, però, si

aggiunge che «ciò non toglie che la pronuncia sulla giurisdizione e sulla competenza abbia

sempre degli effetti particolari suoi propri (…); ma si tratta di peculiarità dell’oggetto della

pronuncia, più che del potere nel cui ambito la pronuncia s’inquadra» (ID., op. loc. ult. cit.).

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– 223 –

L’approccio generalizzante per il quale le statuizioni rese dal Supremo

Collegio dietro ricorso ordinario in base ai nn. 1 e 2 dell’art. 360 e

disciplinate all’art. 382 c.p.c. rientrano nel più ampio genus delle pronunce

della Cassazione in ordine alle questioni di giurisdizione e di competenza, si

traduce dunque nel corollario tecnicamente rilevante che la portata delle

suddette statuizioni trova un preciso riscontro nel regime di stabilità e

vincolatività delle corrispondenti pronunce rese dalla Corte in sede di

regolamento di giurisdizione o di competenza63

.

Tale equiparazione ha rilievo decisivo nell’attribuire alle pronunce de

quibus un’efficacia che si espande al di là dei limiti del processo in cui

vengono in essere – secondo un’opinione assolutamente prevalente in

dottrina e giurisprudenza64

– e viene variamente definita come efficacia

extraprocessuale o panprocessuale, ovvero come ultrattività: e ciò, anche per

il tramite di un’interpretazione analogica del comma 2 dell’art. 310 c.p.c.

Come noto, infatti, questa disposizione espressamente risparmia

dall’effetto caducatorio che l’estinzione produce sugli effetti degli atti del

processo proprio le «sentenze regolatrici della competenza», oltre alle

sentenze di merito. Ebbene, posto che la giurisdizione rappresenta un prius

rispetto alla competenza e si trova, rispetto a questa, in rapporto di

«continenza», con un argomento a fortiori (del tipo a maiori ad minus) non

risulta difficile riconoscere che l’ultrattività esplicitamente stabilita per le

pronunce emanate dalla Suprema Corte sulle istanze di regolamento di

63

Cfr., MONTESANO-ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, vol. I, tomo II,

Padova 2002, pp. 1927-1928, ove tale acquisizione è riferita come quella di gran lunga

maggioritaria nell’ambito della dottrina e della giurisprudenza. 64

Reputa ormai definitivamente sconfitta dalla prassi giurisprudenziale la già

recessiva tesi contraria, da ultimo, TERRUSI, Il ricorso per cassazione nel processo civile,

Torino 2004, p. 185.

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– 224 –

competenza ex artt. 42 ss. c.p.c. inerisce anche alle decisioni relative alla

giurisdizione ex art. 41 c.p.c.65

.

Di regola, all’argomento che fa leva sul ruolo istituzionale del Supremo

Collegio per descrivere e giustificare l’efficacia vincolante delle statuizioni

su ricorso ordinario in materia di giurisdizione e di competenza66

, è stato

sovrapposto il richiamo alla generale normatività che caratterizza tutte le

pronunce della Corte67

.

Qui però si va a toccare un altro profilo che, se può validamente

concorrere a sorreggere la tesi della vincolatività delle pronunce della Corte

in tema di giurisdizione e di competenza, si lascia apprezzare nella sua

autonomia rispetto all’argomento pubblicistico del ruolo istituzionale della

Corte, perché chiama in causa una caratteristica che accomuna i poteri della

Corte in relazione alla cognizione di tutti i vizi in procedendo.

Sotto questo profilo, la prospettiva offerta dal Montesano68

è

particolarmente significativa.

Questo autore contesta l’idea che l’efficacia panprocessuale delle

sentenze rese dalla Cassazione su questioni di giurisdizione e di competenza

trovi il suo sostegno razionale solo in ragioni di opportunità pratica, che

suggeriscono di fornire la massima stabilità, anche all’infuori del processo,

alle risoluzioni rese dalla Corte sulle suddette questioni, la cui rilevanza

dovrebbe naturalmente restare confinata nell’ambito del giudizio in cui sono

65

Cfr. C. FERRI, Estinzione del processo ed efficacia delle sentenze regolatrici della

giurisdizione, in Riv. dir. proc. 1973, II, 140-141; nonché SEGRÈ, Saggio critico sulla

competenza del giudice nel processo civile, in Riv. dir. proc. 1967, 375 ss. 66

In tal senso, emblematiche appaiono alcune affermazioni che danno per scontata

l’idea che la spiegazione e il fondamento dell’ultrattività delle pronunce in tema di

giurisdizione della Cassazione risiedono nel ruolo istituzionale che la legge le attribuisce in

tale settore: cfr. LAUDISA, La sentenza processuale, Milano 1982, 67, secondo cui «se la

Corte ha la funzione di evitare conflitti, la sua pronuncia non può non avere efficacia

ultraprocessuale». 67

V., ad es., SATTA, op. loc. ult. cit. 68

MONTESANO, Sull’efficacia panprocessuale delle sentenze civili di cassazione, in

Temi 1971, 739 ss.

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– 225 –

emesse. Senza trascurare l’argomento pubblicistico, che consente di fugare

ogni incertezza (nella misura in cui offre la base che l’efficacia

panprocessuale delle statuizioni de quibus rappresenta la «necessaria

conseguenza dell’esclusiva potestà, assegnata dalla legge alla Cassazione, di

decidere sulla giurisdizione e sulla competenza, cioè su elementi processuali

che, proprio per le loro naturali dimensioni e funzioni, sono destinati ad

essere identici in più processi, cioè in tutti quelli instaurati con la stessa

domanda»69

), vi è però una considerazione ulteriore e decisiva che, ad avviso

del Montesano, può essere svolta per sorreggere validamente la tesi della

panprocessualità delle pronunce in oggetto.

Essa nasce proprio dalla verifica che, in generale, gli accertamenti della

Suprema Corte sui vizi in procedendo non sono sindacabili, né dal punto di

vista endoprocessuale, né dal punto di vista extraprocessuale, e pertanto,

nella cognizione degli stessi, la Corte non può che statuire in maniera

definitiva.

Appare pertanto scorretto argomentare dalla circoscritta previsione

dell’art. 384, comma 1, c.p.c. per escludere la vincolatività delle pronunce

della Corte diverse da quelle che enunciano il principio di diritto ad esito

dell’accoglimento del ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di

diritto. Ciò, per due ordini di ragioni.

Infatti, la negazione dell’efficacia vincolante delle pronunce emesse

dalla Corte sulle denunzie ex art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., da un lato, urta

con il dato testuale dell’art. 393 c.p.c., il quale stabilisce la conservazione

dell’effetto vincolante delle pronunce della Corte senza ulteriormente

restringere il campo; dall’alto lato, contraddice anche l’evidenza dei

meccanismi di funzionamento del processo, i quali dimostrano, in realtà, che

il vincolo alla pronuncia della Corte in capo al giudice di merito è anche

69

MONTESANO, op. cit., 740.

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– 226 –

meno intenso nel caso dell’enunciazione del principio di diritto che non nelle

ipotesi di pronunce sui vizi in procedendo.

Se osserviamo il meccanismo tipico della pronuncia sui vizi in

procedendo, rileviamo che quando la Suprema Corte scrutina la denuncia di

un vizio di procedura e ne decide, essa effettua un giudizio che non è

ripetibile all’interno del processo né necessita di essere completato; ciò, sia

ove disconosca il vizio, sia nell’ipotesi in cui, riconoscendo il vizio, accerti la

nullità, disponendo per la sanatoria, ove possibile, oppure accerti che non

c’era la nullità invece ravvisata dal giudice di merito.

Accertato il vizio e diposto eventuale rinvio ad opera della Suprema

Corte, il giudice di rinvio non avrà nulla da completare sul punto processuale:

così come non ritornerà sulla questione di giurisdizione o di competenza già

decisa dalla Suprema Corte, non dovrà e non potrà riaffrontare la questione di

procedura già risolta in sede di verifica del vizio denuciato dal ricorrente.

Con la decisione stessa è avvenuto il definitivo superamento della questione

relativa al vizio di procedura; la pronuncia della Suprema Corte ha un effetto

sostitutivo immediato.

Nell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., invece, se è vero che

l’effetto rescindente della pronuncia è senz’altro vincolante per il giudice di

rinvio, è vero anche che l’incidenza positiva del principio di diritto può

essere vanificata dalla pur possibile circostanza che la ricostruzione in sede di

rinvio della fattispecie concreta renda il ridetto principio in pratica

inapplicabile.

Mentre una simile evenienza non è parimenti prospettabile di fronte ad

una statuizione sulla competenza o sulla giurisdizione o alla pronuncia sugli

altri vizi in procedendo: in tali ipotesi, dice Montesano, «il giudice di merito

non ha che da prendere atto e obbedire»70

.

70

MONTESANO, op. ult. cit., 741. Nei più recenti orientamenti dottrinari prevale

l’opinione che la cd. efficacia panprocessuale delle sentenze della Corte in tema di

giurisdizione e competenza trae fondamento dall’attività accertativa del giudice così come il

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– 227 –

La mancata codificazione del vincolo del giudice di rinvio alla

statuizione della Suprema Corte in punto di verifica dell’error in procedendo,

risponde allora, assai verosimilmente, ad una logica diversa da quella di uno

specifico ripotenziamento dei dicta in iudicando in contrapposizione ai dicta

in procedendo; una logica che costituisce anche la ragione per cui si è inteso,

in questa sede, assecondare la restrizione del campo dell’indagine alle ipotesi

in cui la Corte di cassazione pronuncia l’annullamento a causa di un errore

che interviene nella definizione del «merito» della causa, indotta dalla

vecchia ma in realtà anche dalla nuova lettera della legge71

.

La logica è in realtà la presa d’atto della sostanziale diversità dei

meccanismi di (necessario) adeguamento del processo a quanto statuito dalla

Corte Suprema nei casi in cui il rinvio è disposto in ragione di un error in

giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c., ma è il peculiare oggetto delle statuizioni in esame a

determinarne il particolare atteggiarsi: cosicché, per un verso, la vincolatività di tali

pronunce è normalmente in grado di dispiegarsi, fuori dal processo in cui vengono emesse,

solo in un successivo processo instaurato con la stessa domanda (trattandosi, in definitiva, di

statuizioni che attengono alla legittimazione di un dato giudice a conoscere della domanda

proposta); per altro verso, la definizione dell’«oggetto meritale» ai fini della soluzione –

definitiva – di questioni di giurisdizione e di competenza non ridonda sui profili attinenti alla

fondatezza della domanda. Sui termini del dibattito in merito all’efficacia delle pronunce in

esame, v. GASPERINI, Il sindacato della cassazione sulla giurisdizione tra rito e merito,

Padova 2002, passim. Che la definizione dei rapporti tra rito e merito debba essere ispirata ad

un principio di autonomia risulta evidente dall’esame dell’art. 10 c.p.c., ove è previsto che il

valore della causa si determini dalla domanda con una valutazione che non ha alcuna

«rilevanza, che non sia quella di formare il convincimento giudiziale relativo alla

competenza»: così, CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., p. 153, anche se questo

autore valorizza tale dato soprattutto al fine di negare valore autonomo alla decisione in

questione e, più in generale, al fine di negare la vigenza, nel nostro ordinamento, al principio

dell’autonoma efficacia di ogni soluzione di questione (ID., op. cit., 152-153, ntt. 42-44);

problema su cui ci siamo soffermati, seppure nei ristretti limiti che appaiono funzionali al

tema oggetto di indagine, nel precedente § 1 di questo capitolo. Un altro sintomo importante

dell’autonomia dei rapporti tra rito e merito sembra ricavarsi dall’evoluzione legislativa del

processo penale: nell’ultimo codice, infatti, non è stata riprodotta la previsione di cui agli

artt. 526, c.p.p. 1913, e 37, comma 2, c.p.p. 1930, in forza della quale le decisioni sulla

competenza vincolavano, rebus sic stantibus, rispetto al nomen delicti. Resta perciò esclusa,

dalla vincolatività delle pronunce in tema di giurisdizione e competenza, la definizione di

profili attinenti al merito della causa. 71

Ove comunque, in caso di violazione e falsa applicazione di norme di diritto, la

pronuncia del principio di diritto è prevista come indefettibile.

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– 228 –

iudicando rispetto ai casi in cui il rinvio è disposto per via del riscontro di un

error in procedendo. Tale diversità indusse Edoardo F. Ricci a separare il

fondamento e la disciplina del rinvio prosecutorio e dal fondamento e dalla

disciplina del rinvio restitutorio72

, ma essa si impone all’interprete anche a

72

La distinzione tra rinvio prosecutorio e rinvio restitutorio che viene valorizzata

nella teoria di E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 59 ss., si radicherebbe nella

diversità di reazione dell’ordinamento processuale in funzione delle diverse «ragioni

giustificatrici» dell’annullamento (ID., op. loc. cit., spec. 71; sul punto, v. anche CONSOLO,

Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., 285 ss.). Nell’impostazione di Ricci, in

sostanza, le censure di ordine processuale, quindi quelle afferenti agli errores in procedendo

di cui al n. 4 dell’art. 360 c.p.c. (ma anche le ipotesi di cui all’art. 383, comma 3°, c.p.c. –

ovvero i casi in cui la Corte riscontra una nullità del giudizio di primo grado per la quale il

giudice d’appello avrebbe dovuto rimettere le parti a quest’ultimo, ai sensi degli artt. 353 e

354 c.p.c. –, darebbero luogo al c.d. rinvio restitutorio, avente la finalità essenziale di

consentire una ripresa del processo a partire dal momento in cui si è verificato il vizio che ne

ha compromesso il regolare corso. Diverso discorso varrebbe invece per i c.d. errores in

iudicando o, più precisamente, per tutte le censure che potrebbero lato sensu definirsi di

merito (alle quali Ricci riconduce, oltre ovviamente al motivo di cui al n. 3 dell’art. 360

c.p.c., anche il vizio di cui al n. 5, nonché le censure con cui si lamenta la violazione delle

norme che, pur non essendo propriamente sostanziali, incidono sul contenuto del giudizio di

merito, come le norme relative all’efficacia della prova legale, o quelle concernenti

l’ammissibilità dei mezzi istruttori): ID., op. loc. ult. cit. Secondo la ricostruzione di Ricci,

tali vizi darebbero luogo al c.d. rinvio prosecutorio, quel rinvio, cioè, che, presupponendo

come già resa una pronuncia sul merito, si pone non come rinnovazione dell’iter della

pregressa fase di merito dal punto viziato in poi, ma come rifacimento del giudizio sui temi

investiti dalla censura e non coperti da preclusione; su temi, in sostanza, su cui la parte ha

inteso col ricorso sollecitare una sorta di terzo riesame, che non si svolge integralmente

dinanzi all’organo deputato alla pronuncia rescindente solo perché il legislatore ha preferito

separare la funzione di tutela obiettiva del diritto da quella di applicazione diretta dello

stesso. Le regole dettate dal legislatore agli art. 392 ss. del codice di rito, secondo questa

impostazione, sarebbero applicabili unicamente al rinvio c.d. prosecutorio, in quanto sia il

principio dell’alterità del giudice di rinvio rispetto al giudice a quo, sia le norme tendenti a

restringere l’ambito cognitorio del giudice di rinvio si giustificherebbero solo in relazione al

riesame del merito offerto come rimedio all’errore di giudizio, e non alla finalità di restitutio

in integrum che il rinvio assolve quando è disposto a causa del fatto che il regolare

svolgimento del processo è stato inficiato dalla presenza di un error in procedendo. Contro

questa impostazione si pone, da un lato, chi valorizza il tenore testuale della legge, che non

consente di considerare inapplicabili alle ipotesi rientranti nel c.d. rinvio restitutorio le norme

che disciplinano il giudizio di rinvio; dall’altro, chi osserva che «il giudizio di rinvio è

sempre prosecutorio o restitutorio a seconda dell’angolo visuale da cui ci si pone: delle

premesse della decisione ancora da accertare, nel primo caso; della premessa della decisione

da cui si deve ripartire, nel secondo»: così, POLI, I limiti, cit., 558. Cfr. PUNZI, Il processo

civile, vol. II, cit., par. 8.7.

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– 229 –

prescindere dalla recezione delle conseguenze sistematiche che Ricci trae da

quella distinzione, in merito all’applicabilità o meno delle norme di cui agli

artt. 392-394 c.p.c. al rinvio c.d. restitutorio, avente lo scopo di rimettere in

moto il processo a partire dal momento in cui si è verificata la nullità o si è

ravvisata una nullità invece insussitente.

È indiscutibile, infatti, che l’individuazione del vizio in procedendo ad

opera della Corte comporta di per sé, per il fatto stesso della declaratoria

della nullità o comunque dell’esistenza del vizio di procedura, la

retrocessione del processo al momento in cui il vizio si è verificato, con la

conseguenza che l’adeguamento del giudizio di merito a quanto statuito dalla

Corte è in se, nel senso che è il canone di procedura violato a determinare la

collocazione del vizio nell’arco del procedimento e quindi a fungere da

spartiacque tra le attività del giudizio di merito antecedente la cassazione che

sono da conservare e quelle che, invece, devono essere rinnovate.

La censura del vizio in procedendo, infatti, dà esattamente, senza

ulteriori passaggi intepretativi ed applicativi, la misura della conservazione

dell’efficacia delle precedenti attività superstiti, e di quelle che, di contro, in

sede di rinvio devono essere compiute per prendere il posto di quelle ormai

elise, poiché la statuizione che impone di rinnovare un certo atto del

procedimento lascia indenne gli atti precedenti, ma impone parallelamente di

rinnovare gli atti successivi che siano dipendenti dall’atto inciso dal vizio:

«così, la statuizione in virtù della quale occorre, in sede di rinvio al primo

giudice, rinnovare addirittura la notifica dell’atto introduttivo elìde la

precedente irrituale notifica, nonché, per conseguenza, tutti gli atti che ne

dipendono (art. 159 c.p.c.); insomma, quasi tutta l’attività processuale

precedentemente spesa, lasciando in piedi il solo atto introduttivo e i suoi

effetti. Invece, la statuizione per la quale si debba, in sede di rinvio al giudice

d’appello, rinnovare l’assunzione di una prova, travolge le pregresse attività

soltanto dalla irrituale assunzione in poi, mentre quelle che la precedono

restano in vita. Insomma. Ad un estremo, e cioè nella ipotesi di cassazione

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per violazione e/o falsa applicazione di norme, cui non sia seguita la nuova

decisione di merito da parte della stessa S.C. (…). All’estremo, opposto, cioè

nella ipotesi di cassazione per nullità della notifica dell’atto introduttivo in

prime cure, il nuovo corso comprenderà gli atti che seguono quello

introduttivo, fino all’emanazione della sentenza. Il tutto, restando ferme la

lite, cioè il rapporto (sostanziale) già dedotto in causa, e le precedenti

domande»73

.

Naturalmente, nella prospettiva di escludere o di limitare, in questa

sede, l’analisi dell’ambito oggettivo del giudizio di rinvio conseguente alle

pronunce della Corte sui vizi che per convenzione semantica definiamo in

procedendo, riteniamo siano senz’altro da seguire le tracce della

classificazione di Edoardo Ricci, nella misura in cui, benché ai fini

dell’individuazione di uno dei «tipi» di giudizio di rinvio (quello

prosecutorio), egli equipara tutte le censure che potrebbero lato sensu

definirsi di merito (riconducendo a questa categoria, oltre ovviamente ai

cosiddetti errores in iudicando di cui al motivo di del n. 3 dell’art. 360 c.p.c.,

anche il vizio di cui al n. 5, nonché le censure con cui si lamenta la violazione

delle norme che, pur non essendo propriamente sostanziali, incidono sul

contenuto del giudizio di merito, come le norme relative all’efficacia della

prova legale, o quelle concernenti l’ammissibilità dei mezzi istruttori)74

.

L’accoglimento di una censura che investe, anche per il tramite

indiretto della cattiva applicazione della disciplina delle prove, il giudizio di

merito (inteso, per usare la già ricordata formula di Cordero75

, come il

giudizio intorno ad una situazione il cui modello è offerto dalle norme di

73

FAZZALARI, voce Rinvio (giudizio di) nel diritto processuale civile, in Dig. disc.

priv., sez. civ., vol. XVII, Torino 1998, 669 ss. In posizione ancora diversa collocherà il

giudice di rinvio la statuizione «che esige una nuova ponderazione di fatti decisivi»: ID., op.

loc. ult. cit., nel quadro, evidentemente, di una visione unitaria del giudizio di rinvio disposto

per il rimedio di errori in procedendo e di quello conseguente al rilievo di errori in

iudicando. 74

E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 59 ss., spec. 76 ss., 86. 75

V. supra, in questo paragrafo, nt. 52.

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– 231 –

diritto sostanziale), come abbiamo visto, pone problemi di adeguamento del

giudice di rinvio alle prescrizioni della Corte che sono di tipo logico e non

solo procedimentale, nel solco dell’identificazione, peraltro, di ciò che è

precluso malgrado l’annullamento della sentenza del giudice a quo.

Resta fermo che il tema delle preclusioni nel giudizio di rinvio investe

sicuramente, ed ovviamente, anche il rinvio disposto in esito

all’accoglimento di una censura in procedendo; ed anche in questo possono

prospettarsi fenomeni di consolidamento di porzioni di giudizio per giudicato

interno e di giudicato implicito76

.

76

Questo principio è enunciato consapevolmente, ad es., da Cass., sez. un., 3 luglio

2009, n. 15602, nella cui massima si legge che «nel giudizio di rinvio, è precluso qualsiasi

riesame dei presupposti di applicabilità del principio di diritto enunciato dalla Corte di

Cassazione, non solo in ordine agli “errores in judicando” relativi al diritto sostanziale, ma

anche per le violazioni di norme processuali, tutte le volte in cui il principio sia stato

enunciato rispetto a un fatto con valenza processuale. Pertanto, quando la Corte abbia

affermato, in relazione ad un atto amministrativo impugnato davanti al Tribunale Superiore

delle Acque Pubbliche, la sua idoneità a ledere una posizione giuridica soggettiva

giuridicamente protetta e la sua autonoma impugnabilità, tale qualificazione non può essere

rimessa in discussione, in sede di rinvio, sulla base di profili diversi, quali il carattere

endoprocedimentale dell’atto». Il caso è interessante: con il ricorso originario al Tribunale

Superiore delle acque pubbliche (TSAP), la società ricorrente, titolare di una concessione di

derivazione d’acqua, aveva chiesto l’annullamento di due provvedimenti regionali con i quali

era stata attribuita ad un altro ente – in via transitoria e nelle more del rinnovo della

concessione della derivazione relativa alla medesima fonte, ormai scaduta – la facoltà di

continuare a derivare acqua nella stessa quantità riconosciutagli con la concessione scaduta.

Il TSAP aveva dichiarato inammissibile il ricorso per mancanza d’interesse attuale e

concreto, in quanto detti provvedimenti costituivano espressione di una volontà meramente

soprassessoria, non immediatamente lesiva delle ragioni della società ricorrente; ma tale

sentenza era stata annullata con rinvio dalla Corte di cassazione. Il Supremo Collegio

rilevava infatti che i provvedimenti impugnati erano idonei a ledere per un tempo indefinito

le situazioni giuridiche di essa società ricorrente e dovevano considerarsi, pertanto,

immediatamente impugnabili. Riassunto il giudizio, il TSAP dichiarava nuovamente

inammissibile il ricorso della società, affermando che i provvedimenti impugnati avevano

natura endoprocedimentale e quindi erano privi di capacità lesiva esterna e non potevano,

pertanto, essere impugnati autonomamente dalla società ricorrente, il cui interesse era leso,

invece, dalla mancata pronuncia dell’amministrazione sulla domanda dell’altro ente (un

Consorzio) di rinnovo della concessione; in relazione a ciò, secondo il TSAP, il ricorso

doveva ritenersi inammissibile, atteso che lo stesso avrebbe dovuto essere proposto avverso

il silenzio serbato dall’amministrazione sul rinnovo della domanda di concessione della

derivazione proposta dalla controinteressata, attraverso la promozione dei meccanismi

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– 232 –

2.2. L’esame della giurisprudenza: la preclusione al rilievo di questioni su

cui si sia formato il giudicato interno, anche implicito. Le preclusioni in

merito alle questioni di nullità.

Il punto di osservazione naturale per la verifica della correlazione tra la

portata del principio di diritto ed i compiti del giudice di rinvio è

rappresentato dai casi in cui la Suprema Corte è chiamata a decidere in

merito alle denunce promosse dalle parti circa l’infedele esecuzione da parte

del giudice di rinvio del dictum enunciato dalla Cassazione ai sensi dell’art.

384 c.p.c.; in questa sede, la Corte si attribuisce il compito di verificare

l’esistenza di preclusioni a carico del giudizio di rinvio sul presupposto della

ritenuta possibilità di compiere direttamente l’esame della precedente

sentenza di cassazione che ha messo capo al rinvio77

.

La Suprema Corte, in occasione del secondo passaggio in cassazione

della causa sollecitato dalla parte che assume essere stato violato il principio

previsti per far dichiarare l’illegittimità del silenzio-rifiuto. Conclusivamente, quindi, il

TSAP dichiarava inammissibile il ricorso per mancata attivazione della procedura del

silenzio-rifiuto. Contro questa decisione la società propone nuovamente ricorso in

Cassazione, e si vede dar ragione perché la Corte ritiene che il suo precedente dictum

vincolava il giudice di rinvio in ordine al riconoscimento della impugnabilità dei

provvedimenti da parte della ricorrente, tecnicamente da riguardare come accertamento

dell’esistenza dei presupposti processuali dell’interesse ad agire o dell’interesse

all’impugnazione, in relazione alla fattispecie portata in giudizio (gli atti amministrativi

temporanei di concessione di derivazione d’acqua al Consorzio) e alla sua qualificazione

(quanto all’idoneità degli stessi a ledere posizioni giuridiche sostanziali). Cass., sez. lav., 10

luglio 2002, n. 10046 ha ritenuto operante una preclusione da giudicato implicito formatosi

con la sentenza di cassazione, su una questione esaminabile di ufficio, ma non rilevata dalla

Corte Suprema, in quanto l’esame della stessa tendeva a porre nel nulla o a limitare gli effetti

della sentenza di cassazione, in contrasto con il principio della sua intangibilità: il principio

de quo viene affermato con riferimento ad un caso in cui la sentenza di cassazione con rinvio

aveva annullato la pronuncia di merito che aveva dichiarato inammissibile per difetto di

notifica l’appello tempestivamente depositato secondo il rito del lavoro; il giudice di rinvio,

con la sentenza annullata dalla S.C. in base al principio sopra enunciato, aveva dichiarato la

nullità del ricorso introduttivo del giudizio ex art. 414 c.p.c.: qui, a dire il vero, sembra

discutibile che la validità del ricorso introduttivo ai sensi dell’art. 414 c.p.c. sia un effettivo

antecedente della pronuncia di inammissibilità dell’appello per difetto di notifica. 77

Così, Cass. 25 marzo 2005, n. 6461.

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di diritto dettato in occasione dell’accoglimento del ricorso con rinvio al

giudice di merito, o comunque essere stata disattesa la ratio della decisione,

ha modo di asserire, con formula ormai stereotipata78

, sul presupposto che il

vincolo che grava sul giudice di rinvio è diversamente esteso a seconda che

l’annullamento sia dichiarato per error iuris in iudicando ovvero per vizio di

motivazione, che, in ipotesi di annullamento con rinvio per violazione di

norme di diritto, la pronuncia della Corte di cassazione vincola al principio

affermato e ai relativi presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio deve

uniformarsi non solo alla regola giuridica enunciata, ma anche alle premesse

logico-giuridiche della decisione adottata, attenendosi agli accertamenti già

compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza poter estendere la propria

indagine a questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità,

costituiscono il presupposto stesso della pronuncia di annullamento,

formando oggetto di giudicato implicito e interno79

. Ovvero, in senso

analogo, ma con più esplicito riferimento all’intangibilità degli antecedenti

anche in iure rispetto al punto di diritto su cui la Corte ha operato la

rescissione ed enunciato il dictum, si afferma che non è consentito al giudice

di rinvio qualsiasi riesame dei presupposti di applicabilità del principio di

diritto enunciato, sulla scorta di fatti o profili non dedotti, e che detto giudice

non può procedere ad una diversa qualificazione giuridica del rapporto

controverso ovvero all’esame di ogni altra questione, anche rilevabile

78

PANZAROLA, La Cassazione civile, vol. II, cit., 561. 79

Così, tra le numerosissime, Cass. 4 aprile 2011, n. 7656 (che ha escluso la

possibilità per il giudice del rinvio di sindacare l’improponibilità della domanda, dipendente

da qualunque causa, anche da inosservanza di modalità o di termini, pur essendo la stessa

rilevabile d’ufficio in qualunque stato e grado del processo); Cass., sez. lav., 23 luglio 2010,

n. 17353 (la quale ha escluso la riesaminabilità, da parte del giudice di rinvio, della questione

del requisito dimensionale rilevante per l’applicazione della tutela reale avverso il

licenziamento, della mancata pregressa contestazione datoriale della sussistenza del requisito

numerico affermata dal lavoratore); Cass., sez. lav., 15 dicembre 2009, n. 26241; Cass., sez.

lav., 19 giugno 1998, n. 6126 e molte altre.

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– 234 –

d’ufficio, che tenda a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza di

cassazione in contrasto con il principio della sua intangibilità80

.

Mentre, quanto all’ipotesi di accoglimento del ricorso promosso per il

vizio logico di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c.81

, la giurisprudenza afferma che

la sentenza rescindente che indichi i punti specifici di carenza o di

contraddittorietà della motivazione della decisione impugnata non limita il

potere del giudice di rinvio all’esame dei soli punti specificati, da

considerarsi come isolati dal restante materiale probatorio, così che egli

mantiene tutte le facoltà ed i poteri in tema di indagine e di valutazione della

prova che gli competono quale giudice di merito, limitatamente al capo

oggetto della censura accolta. Tuttavia, la vincolatività della pronuncia di

annullamento per difetto di motivazione sta in ciò, che è imposto al giudice di

rinvio di giustificare il proprio convincimento secondo lo schema

esplicitamente o implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento e,

quanto meno, egli non può fondare la decisione sugli stessi elementi del

provvedimento annullato, ritenuti dalla Cassazione illogici, ed è invece

gravato del compito di rimuovere le contraddizioni e di sopperire ai difetti

argomentativi riscontrati dalla Suprema Corte82

.

Inoltre, la circostanza che il giudice di rinvio debba, nel dare

applicazione al principio di diritto e comunque alle prescrizioni

somministrate dalla Suprema Corte, pronunciarsi nel merito della domanda

80

Cass. 7 marzo 2011, n. 538, che ha annullato la sentenza di rinvio che aveva

rilevato la nullità del decreto di esproprio per carenza di potere, in contrasto con la sentenza

di cassazione che aveva imposto di determinare l’indennità di esproprio; Cass. 12 gennaio

2010, n. 327. 81

Per l’affermazione che la cassazione della sentenza di merito per vizio di

motivazione non implica l’enunciazione di alcun principio di diritto, a differenza della

cassazione per violazione o falsa applicazione di legge, e quindi non rende configurabile la

violazione dell’art. 384 c.p.c. da parte del giudice di rinvio, v. Cass. 6 novembre 2001, n.

13696. 82

In questo senso, tra le numerosissime, Cass. 14 giugno 2006, n. 13179; Cass. 26

agosto 2004, n. 17004; v., più di recente, Cass. civ. 3 febbraio 2009, n. 2606. Sul punto, cfr.

PUNZI, Il processo civile, vol. II, cit., 534.

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che era stata decisa dalla sentenza annullata, sulle stesse «conclusioni» che le

parti presero nel giudizio a quo (salvo che, come stabilisce l’ultimo comma

dell’art. 394 c.p.c., «la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza

di cassazione») evidenzia come la cognizione del giudice del rinvio risulti

doppiamente condizionata: non solo dall’imprescindibile collegamento

funzionale con il giudizio di cassazione, ma anche dall’ambito oggettivo del

giudizio di provenienza della sentenza cassata.

Se si tratta, come di norma accade, del giudizio d’appello, la

cognizione del giudice di rinvio va chiaramente commisurata al thema

decidendum riemerso, dopo la decisione di primo grado, attraverso la

proposizione degli specifici motivi di impugnazione di cui all’art. 342 c.p.c.,

in quanto nel giudizio di rinvio – che certamente non è l’occasione di una

rimessione in termini da decadenze maturate, né la sede di un rifacimento ab

ovo del giudizio concluso con la sentenza annullata – non possono «essere

proposti dalle parti, né presi in esame dal giudice, motivi diversi da quelli che

erano stati proposti nel giudizio d’appello conclusosi con la sentenza cassata

e che continuano a delimitare, da un lato, l’effetto devolutivo dello stesso

gravame e, dall’altro, la formazione del giudicato interno»: così, ex multis,

Cass. 21 febbraio 2007, n. 4096; Cass., sez. lav., 14 giugno 2006, n. 1371983

.

83

Sul punto, cfr. RIZZA, in PUNZI, op. loc. ult. cit. Mentre, quanto alle questioni

sollevate in appello e non riproposte in sede di legittimità all’esito della declaratoria di

relativo assorbimento emessa dal giudice dell’impugnazione di merito, su di esse non

dovrebbe formarsi giudicato implicito in quanto, in difetto di una anche implicita statuizione

sfavorevole in ordine alle medesime, esse non possono essere proposte nel giudizio di

cassazione neppure mediante ricorso condizionato. Dal momento che la forza preclusiva

della sentenza di cassazione ha per oggetto solamente le questioni che costituiscono il

presupposto necessario e logicamente inderogabile della pronunzia cassata, la naturale sede

per la trattazione di tali questioni ulteriori neanche implicitamente decise non può che essere

l’eventuale giudizio di rinvio. Ciò vale in generale per le questioni che il giudice di appello

non ha deciso per aver risolto una questione primaria in senso ostativo alla trattazione della

questione secondaria; e può accadere quando gli siano state sottoposte alcune questioni in via

gradata ed egli ne abbia accolta una sola, come nel caso di una domanda di risarcimento

danni a titolo di responsabilità contrattuale o, in subordine, extracontrattuale, oppure quando

si tratti di questioni oggettivamente poste in un rapporto di dipendenza logica, tale per cui la

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Dunque, le limitazioni che il giudice di rinvio incontra nel dover

dirigere il giudizio di rinvio verso la definizione della causa dipendono dal

dover egli assimilare, oltre che il principio di diritto, il materiale decisorio

pregresso fin dove questo risulta essersi consolidato per la formazione del

c.d. giudicato interno84

, anche implicito: riguardo a ciò, per chi abbia negli

ultimi tempi seguito con una certa assiduità l’evoluzione della giurisprudenza

della Cassazione in materia processuale, sa quanto sia fondata l’affermazione

secondo cui «il giudizio di rinvio è il campo ove più risalta l’istituto del

giudicato implicito»85

.

risoluzione della questione primaria è in grado di assorbire il rilievo logico di un’altra

questione. Tutte queste questioni, che si definiscono «assorbite» perché il giudice ha definito

il giudizio su un punto rispetto ad esse preliminare, pronunciandosi, evidentemente, in senso

ostativo alla loro delibazione nel merito, sono questioni per le quali non sussiste un onere di

impugnazione incidentale in Cassazione, in quanto, mancando una qualsiasi decisione su di

esse, non sono coperte da giudicato interno, e possono dunque essere sempre riproposte

innanzi al giudice di rinvio: cfr., ex multis, Cass. 23 maggio 2006, n. 12153; Cass. 19

gennaio 2005, n. 1092; Cass. 5 maggio 2005, n. 9361; Cass. 14 giugno 2005, n. 12741. Ha

ritenuto il giudicato implicito sul difetto di prova dell’esistenza e dell’ammontare del danno

in un caso in cui il giudice a quo aveva erroneamente ritenuto il danno in re ipsa, Cass. 13

giugno 2008, n. 15986: in questa occasione, la Suprema Corte ha anzitutto sostenuto, in via

di principio, che la pronuncia nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c. è possibile non solo nei

casi in cui la fattispecie concreta è incontroversa tra le parti e oggetto di discussione sia solo

la ricostruzione giuridica della stessa, ma anche quando per il giudice di legittimità sia

possibile rinvenire, negli accertamenti di fatto compiuti dai giudici delle pregresse fasi (come

ricostruiti in sentenza), la base per la definizione del processo. In considerazione di ciò, ha

altresì affermato la necessità, per il vincitore nel grado di merito, di interporre ricorso

incidentale onde evidenziare quali prove siano state per lui favorevolmente valutate dal

giudice, anche se non riportate nella motivazione della pronuncia, al fine di evitare inoltre

che eventuali accertamenti di fatto a sé sfavorevoli possano essere valorizzati dalla Suprema

Corte ai fini della definizione della controversia. Da qui, la conclusione che fosse possibile,

nella specie, decidere la causa nel merito col rigetto della domanda, sul presupposto che la

motivazione della sentenza impugnata non forniva alcun elemento fattuale, sotto il profilo

probatorio, dell’esistenza e dell’ammontare del danno (ritenuto erroneamente in re ipsa dal

giudice a quo), e che la parte resistente aveva omesso di impugnare la pronuncia in via

incidentale – eventualmente condizionatamente – al fine di indicare in quali atti del processo

fossero state fornite, o anche solo richieste ai predetti fini, tali prove e non risultando in

proposito sufficiente il contenuto del controricorso. 84

PUNZI, op. loc. ult. cit. 85

LA TERZA, Il giudizio di rinvio (ammissibilità e limiti), in Il nuovo giudizio di

cassazione, a cura di Iannuruberto-Morcavallo, 2a ed., Milano 2010, 651.

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– 237 –

Peraltro, il consolidamento di statuizioni (esplicite od implicite)

pregresse, rispetto alla pronuncia di annullamento della Suprema Corte, può

essersi prodotto in sede di giudizio di cassazione in momenti ed in

dipendenza di fattori diversi: 1) o, in fase di introduzione del giudizio di

cassazione, per effetto della mancata interposizione dell’impugnazione da

parte del ricorrente (principale o incidentale) su punti indipendenti e non

condizionati da quelli espressamente impugnati86

; 2) o per via dell’implicita

omologazione, ad opera della Corte, di questioni rilevabili d’ufficio in ogni

stato e grado del processo, giunte impregiudicate in Cassazione e che la

Suprema Corte abbia mancato di rilevare; 3) o ancora a causa del mancato

accoglimento del ricorso su punti o profili della sentenza gravata logicamente

antecedenti – o comunque autonomi – rispetto a quello su cui si è appuntata

la censura accolta dalla Corte di cassazione.

A parte, vi sono ancora i casi in cui l’effetto di intangibilità (ovvero di

non riesaminabilità) della questione trattata ai fini della precedente decisione

86

Ed è ovvio che la soccombenza andrà parametrata alla nozione ristretta di «parte di

sentenza»: sicché, come abbiamo avuto modo di anticipare, un problema di devoluzione si

pone anche nell’ottica di chi ha interesse a conservare la sentenza gravata, ovvero sul

resistente in cassazione, totalmente vittorioso, onde evitare che, accolta la censura del

ricorrente, nel giudizio di rinvio non sia precluso discutere sui punti pregiudiziali in grado di

riequilibrare l’esito della lite a suo favore del resistente in cassazione. A questo proposito,

nel sistema attuale, superate ormai le perplessità manifestatesi inizialmente sull’onda della

singolare ricostruzione di FAZZALARI, Sui ricorsi incidentali condizionati, cit., 99 ss., circa

l’utilità o la necessità della proposizione del ricorso condizionato per consentire al resistente,

totalmente vittorioso nel merito, di sottoporre al vaglio della Corte, subordinatamente o

comunque condizionatamente all’accoglimento del ricorso principale, quelle questioni

presupposte alla decisione finale sulle quali il giudice di merito gli abbia dato torto (salvo poi

risolvere la controversia in suo favore, accogliendo la domanda da lui proposta o

respingendo la domanda della controparte), la giurisprudenza della Suprema Corte, sul

presupposto che anche la decisione dei punti pregiudiziali costituisce «parte di sentenza», è

costantemente orientata nel senso di considerare la proposizione del ricorso incidentale come

onere della parte che intenda far riemergere le questioni non investite direttamente o

consequenzialmente dalla censura del ricorso principale (cfr., esemplificativamente, Cass. 28

marzo 2006, n. 6992; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1691, in Giur. it., 2006, 12, 2342, con nota

di Rusciano): sul punto, cfr. RIZZA, in PUNZI, op. loc. ult. cit. V. retro, capitolo I, par. 3.1.,

note e testo all’altezza della nt. 91 e seguenti.

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si è verficato in un momento anteriore alla proposizione del ricorso,

evidentemente a causa di preclusioni prodottesi nelle pregresse fasi del

giudizio87

.

Il tema è, ancora una volta, quello della «formazione progressiva» della

decisione, ed è stato ampiamente battuto in dottrina specialmente nella

prospettiva, ascendente, dell’effetto devolutivo dell’appello ed in generale dei

limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie.

La constatazione che la prassi sembra aver adottato, specialmente

nell’ultimo decennio, la nozione ristretta di «parte di sentenza» quale unità

minima suscettibile di devoluzione al giudice superiore attraverso la spendita

di motivi specifici, con il correttivo della devoluzione allargata alle parti di

sentenza legate da un nesso di pregiudizialità-dipendenza rispetto a quelle

direttamente investite da censura88

non è del tutto risolutiva, perché ciò che

risulta chiaro nei concetti e nelle ricostruzioni sistematiche talvolta non si

traduce in corollari applicativi consequenziali.

Se si esamina la giurisprudenza, invero, e dunque dalle enunciazioni di

principio si scende al concreto dei casi risolti, ci si avvede che le premesse

teoriche non sono sempre sviluppate con coerenza e ciò in particolar modo

quando si tratta di stabilire gli esatti confini della cognizione nel giudizio di

rinvio; naturalmente, per delineare con rigore e lucidità gli ambiti decisori del

giudizio di rinvio, occorre la massima chiarezza intorno alle matrici delle

preclusioni.

a) Giudicato interno che si è prodotto prima del giudizio di cassazione.

Invero, la massima secondo cui la pronuncia di annullamento per

violazione o falsa applicazione di diritto vincola il giudice di rinvio al

principio affermato e ai relativi presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio

87

POLI, I limiti oggettivi, cit., 554 ss. 88

Più correttamente, l’effetto devolutivo allargato investe le sole questioni dipendenti

da quelle direttamente devolute con l’impugnazione specifica nei soli limiti del

condizionamento: POLI, op. ult. cit., passim; v. anche ID., Oscillazioni della Suprema Corte

in tema di limiti oggettivi del giudicato interno, in Giur. it. 2002, 2066 ss.

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– 239 –

non può estendere la propria indagine a questioni che, pur se non esaminate

nel giudizio di legittimità, costituiscono il presupposto stesso della pronuncia

di annullamento, viene spesso adoperata per alludere a fenomeni di giudicato

interno che hanno sbarrato la strada al riesame ben prima della pronuncia del

principio di diritto da parte della Suprema Corte.

È il caso, ad esempio, per farne uno tra i molti possibili, di Cass., sez.

lav., 23 luglio 2010, n. 17353, che ha escluso la riesaminabilità, da parte del

giudice di rinvio, della questione del requisito dimensionale rilevante per

l’applicazione della tutela reale avverso il licenziamento, affermata dal

lavoratore, perché in relazione a detto requisito constava la mancata

contestazione da parte del datore, risultando che «all’udienza … il difensore

della società si era espresso “concordando sulla sussistenza dei requisiti di

applicabilità della L. n. 300 del 1970, art. 18 integralmente”» e aveva in tal

modo «… reso pacifica la circostanza di fatto esonerando il lavoratore

dall’onere di comprovarla»: a prescindere dal ritenere operante il

meccanismo della non contestazione o quello del giudicato interno sulla

questione di fatto89

del requisito dimensionale rilevante per l’applicazione

89

Una maggiore lucidità con riguardo al fenomeno dell’acquiescenza sulle parti di

sentenza, malgrado una certa ambivalenza di linguaggio, si evince dalla motivazione, ad es.,

di Cass. civ., sez. II, 31 marzo 2011, n. 7472: «quanto all’affermazione della sentenza

secondo cui, essendosi nella specie in presenza di un contratto preliminare di vendita e di un

contratto di appalto, la causa della vendita sarebbe prevalente su quella dell’appalto, la

censura svolta dalla ricorrente appare preclusa in ragione delle vicende interne del processo.

Come risulta chiaramente dall’esposizione del fatto, sia tale qualificazione negoziale che il

giudizio di prevalenza, infatti, vennero adottati dal giudice di primo grado ed il relativo

accertamento non solo non formò oggetto di contestazione in sede di appello, ma venne fatto

proprio dalla società nel proprio gravame, che dichiarò espressamente di condividerlo».

Siamo qui chiaramente in un caso in cui due elementi di valutazione – di contenuto inferiore

rispetto ad un contenuto minimo di un accertamento autonomo, ossia l’elemento della

«qualificazione negoziale» di contratto a causa mista, e quello del «giudizio di prevalenza»

della causa della vendita rispetto alla causa dell’appalto – sono diventati indiscutibili per

effetto di acquiescenza parziale. Come si vede, né l’ambito della domanda, né le singole

fattispecie costitutive impeditive modificative ed estintive riflettono la divisibilità massima

della sentenza ai fini del giudicato interno, bensì singole premesse di diritto e di fatto,

dovendosi tenere presente che le f: cfr., intorno al concetto di «parte di sentenza», POLI, I

limiti oggettivi, cit., cap. II; sulla inadeguatezza del ricorso alla categoria della non

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– 240 –

della tutela reale avverso il licenziamento, nel momento in cui il dato è fatto

proprio dalla sentenza e non è specificamente impugnato, la preclusione

risale ad un momento anteriore al giudizio di cassazione.

b) Giudicato (anche implicito) sui presupposti processuali e sulle nullità

rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado.

Un caso classico, invece, in cui la limitazione nella cognizione del

giudice di rinvio discende direttamente dal giudizio di cassazione e dalla

pronuncia della Suprema Corte è quello relativo al difetto di integrità del

contraddittorio a causa di una esigenza originaria di litisconsorzio, ex art. 102

c.p.c., e non solo quando tale questione, dedotta con il ricorso per cassazione,

sia stata rigettata, ma anche quando non sia stata rilevata d’ufficio dal giudice

di legittimità, «dovendosi presumere in mancanza di diversa esplicita

statuizione che il contraddittorio sia stato da questo ritenuto integro» (si tratta

di un principio consolidato: cfr., tra le numerosissime che riportano la

massima, Cass., sez. lav., 18 gennaio 2011, n. 1075).

In generale, per tale ipotesi, che concerne il difetto di un presupposto

processuale cui si associa il regime della rilevabilità d’ufficio in ogni stato e

grado con necessità di rifacimento del giudizio ab imis, dal primo grado, nel

caso di riscontro del vizio in sede di giudizio di appello o di cassazione

(secondo quanto previsto dagli artt. 354, comma 1, e 383, comma 3, c.p.c.), si

ritiene che la decisione della Suprema Corte, che ometta di rilevare il vizio,

comporta l’irretrattabilità del segmento di giudizio che ha riconosciuto

contestazione, in senso tecnico, nelle fasi di gravame, dopo la sentenza di primo grado, POLI,

op. cit., 197, in critica a Rascio, L’oggetto, cit., 234 s., che ricorre al fenomeno della non

contestazione per spiegare perché gli apprezzamenti di fatto, relativi contenuti nella sentenza

impugnata e non espressamente censurati, debbano essere ritenuti dal giudice

dell’impugnazione; a conforto della critica, CIACCIA CAVALLARI, La contestazione nel

processo civile, vol. I, Milano 1992, 170 ss. Sul tema, vedasi CARRATTA, Il principio della

non contestazione nel processo civile, Milano 1995.

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– 241 –

implicitamente l’insussistenza del vizio, pur se non è sorta questione

sull’esistenza del vizio90

.

90

Si sclerotizza, cioè, in Cassazione, il potere di rilevare l’insussistenza dei

presupposti processuali, il cui regime sia assimilato a quello delle nullità rilevabili d’ufficio

in ogni stato e grado (cosa che non è, ad es., per le questioni di competenza ed oggi, a seguito

della rilettura dell’art. 37 c.p.c. operata dalle Sezioni Unite con la nota sentenza n. 9 ottobre

2008, n. 2488, anche per quelle di giurisdizione, su cui v. diffusamente infra). Tale regime

costituisce una deroga espressa alla regola generale della nullità delle sentenze soggette ad

appello o a ricorso per cassazione, la quale può essere fatta valere soltanto nei limiti e

secondo le regole proprie di questi mezzi d’impugnazione, ex art. 161, comma 1, c.p.c.,

secondo un principio, «che l’illustre Mortara definì nel senso che le nullità della sentenza si

convertono in motivi di gravame» e che «si applica pur alle nullità, che, per derivare da vizi

relativi alla costituzione del giudice, sono insanabili e debbono essere rilevate d’ufficio dal

giudice (art. 158, che fa espressamente salvo l’art. 161)», principio da cui discende che «la

insanabilità del vizio cede il passo all’irrevocabilità della parte della pronuncia, che il

soccombente ha omesso di impugnare»: così, ANDRIOLI, Acquiescenza e questioni attinenti

alla giurisdizione, in Cinquant’anni di dialoghi con la giurisprudenza (1931-1981), vol. II,

Milano 2007, 785 ss. e già in Foro It. 1954, I, 11 ss.; per la tesi secondo cui in presenza di

una nullità non sanata ci si troverebbe di fronte ad un accertamento implicito dell’inesistenza

del vizio di nullità, sicché la negazione implicita ed il conseguente mancato rilievo di nullità

tempestivamente eccepite o cosiddette assolute costituiscono un vizio originario della

sentenza, soggetto alla disciplina dell’impugnazione espressa e tramite motivi specifici, v.

DENTI, voce «Nullità degli atti processuali civili», in Noviss. Dig. It., vol. XVIII, Torino

1965, 482; diversamente da chi ritiene che il n. 4 dell’art. 360, nel discorrere delle nullità

«della sentenza o del procedimento», abbia voluto mantenere ferma la distinzione

tradizionale tra invalidità originaria ed invalidità derivata della sentenza, onde la nullità del

procedimento tempestivamente eccepita o assoluta, che non sia stata rilevata dal giudice, in

quest’ottica, determinerebbe la nullità della sentenza per derivazione, ai sensi dell’art. 159,

comma 1, c.p.c. Sul punto POLI, I limiti oggettivi.., cit., 379 s., specifica che nel primo caso,

l’iniziativa necessaria è l’impugnazione del capo implicito; nel secondo, l’impugnazione

della sentenza nella parte in cui è affetta dal vizio di nullità derivata. In ogni caso, la regola

generale è nel senso che «quando il giudizio si chiude con una pronuncia di merito, non può

darsi il fenomeno di assorbimento in senso tecnico delle questioni di nullità; queste, invero,

devono ritenersi risolte negativamente, anche per implicito, nella sentenza che decide, pure

parzialmente, il merito della causa»: POLI, I limiti oggettivi, cit., 383. Per quanto riguarda

invece i vizi che rigurdano i presupposti processuali, esclude il giudicato implicito

FORNACIARI, Presupposti processuali e giudizio di merito, Torino 1996, 100 ss.: nell’ordine

di idee di questo autore, ove si ammettesse il rilievo d’ufficio del vizio fino in Cassazione, la

decisione implicita ci sarebbe ma non sarebbe suscettibile di costituire un autonomo capo di

sentenza. Sul controverso tema del giudicato implicito sui presupposti processuali, si veda

A.A. ROMANO, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui presupposti processuali, in

Giur. it. 2001, 1292 ss.; v. infra.

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– 242 –

Tale assunto generale, che non vale già per volontà di legge per le

questioni di competenza, dacché la formula dell’art. 38 c.p.c. prevede, per la

proposizione dell’eccezione di incompetenza, termini decadenziali assai

ristretti in primo grado (il che a maggior ragione comporta la non

riesaminabilità della questione di competenza che non abbia formato oggetto

di specifica e tempestiva censura sia in appello che dinnanzi alla Cassazione),

per volontà di un importante arresto delle Sezioni Unite dell’autunno del

2008 non vale più nemmeno per le questioni di giurisdizione, benché l’art. 37

del codice di rito sancisca la rilevabilità in ogni stato e grado del difetto di

giurisdizione.

La preclusione al rilievo d’ufficio dell’eccezione di giurisdizione,

prima della svolta delle Sezioni Unite del 2008, era pacificamente ritenuta in

caso di giudicato esplicito formale, ex art. 324 c.p.c. (in ipotesi di sentenza

non definitiva, ex 279, comma 2, n. 4 c.p.c., dichiarativa della giurisdizione,

ove non impugnata né riservata giudicato che ricorre – oltre che ovviamente

nell’ipotesi in cui la sentenza, pronunciata solamente sulla questione di

giurisdizione, ai sensi dell’artt. 187, comma 3, e 279, comma 2, n. 1 c.p.c.,

abbia negato la giurisdizione e non sia stata impugnata – anche)91

; in caso di

giudicato interno esplicito, ove ci fosse una statuizione espressa sul punto

della giurisdizione, ma anche – in tutto o in parte – sul merito della

controversia e tuttavia la sentenza venisse impugnata solo nella parte relativa

91

La rilevabilità del difetto di giurisdizione nel giudizio di primo grado, d’ufficio o su

istanza di parte, era consentita per tutto il corso del giudizio di primo grado, anche quando

fossero state emesse sentenze non definitive di rito aventi ad oggetto altra questione

pregiudiziale come, ad es., la competenza, oppure di merito, in quanto si riteneva che queste

non presupponessero alcuna decisione implicita sulla giurisdizione. Era precluso il rilievo ex

art. 37 c.p.c. solo se la questione di giurisdizione fosse già stata affrontata e decisa in modo

esplicito (e dunque, con sentenza non defintiva di rito sulla sola giurisdizione ma anche con

altra sentenza non definitiva, di rito o di merito, risolutiva anche di altre questioni, nel qual

caso si riteneva che fosse necessario impugnare la statuizione espressa sulla giurisdizione,

pena il formarsi di una preclusione endoprocessuale). Oppure, naturalmente, la preclusione

al rilievo del difetto di giurisdizione scaturiva dalla proposizione del regolamento di

giurisdizione: v. MENCHINI, Eccezione di giurisdizione, regolamento preventivo e translatio:

il codice di rito e il nuovo codice della giustizia amministrativa, in Giur. it. 2011, 1 ss., § 2.

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– 243 –

al merito92

; ancora, in mancanza della specifica doglianza delle parti in

Cassazione, ove il giudice d’appello avesse omesso di pronunciarsi

sull’impugnazione proposta avverso il capo della sentenza relativo alla

giurisdizione emessa dal giudice di primo grado93

.

92

Principio pacifico, consacrato dalle Sezioni Unite fin dalla sentenza n. 1506 del 28

aprile 1976: qualora il giudice di primo grado abbia statuito espressamente sia sulla

giurisdizione che sul merito, ma la parte impugni solamente il merito, al giudice d’appello e

alla Cassazione è precluso il rilievo d’ufficio della questione di giurisdizione, così come la

parte interessata non può eccepirla per la prima volta in sede di legittimità se abbia omesso di

proporre la relativa impugnazione davanti al giudice di secondo grado (la mancata

impugnazione sarebbe infatti espressione di una forma di acquiescenza parziale ex art. 329

comma 2 c.p.c.). Si tratta di una intepretazione restrittiva dell’art. 37 c.p.c., per l’epoca

innovativa: l’orientamento secondo cui, in caso di decisione espressa in primo grado sia sulla

giurisdizione che sul merito, l’impugnazione solo sul merito determinava una preclusione,

per il formarsi del giudicato interno, al rilievo d’ufficio della questione di giurisdizione sia in

appello che in cassazione – già anticipato da Cass. 8 agosto 1970, n. 1298 – si poneva infatti

in contrasto col consolidato indirizzo precedente che esigeva, invece, il giudicato formale

parziale per la preclusione alla proposizione dell’eccezione di difetto di giurisdizione o al

suo rilievo d’ufficio nelle fasi di impugnazione: Cass., sez. un., 22 giugno 1951, n. 1666 ;

Cass., sez. un., 7 ottobre 1953, n. 3183, in Foro it. 1951, I, 849 con nota critica di Andrioli;

Cass., sez. un., 21 agosto 1972 n. 2697; Cass., sez. un., 20 aprile 1974, n. 1095 affermavano

infatti la rilevabilità, d’ufficio o su istanza di parte, del difetto di giurisdizione – sia in

appello che in Cassazione – anche quando, in presenza di una decisione espressa sulla

giurisdizione, contestuale alla decisione sul merito, la parte non avesse censurato la sentenza

direttamente sul capo relativo alla giurisdizione ma si fosse limitata all’impugnazione sui

capi di merito; perciò, nel caso in cui il giudice, decidendo nel merito, avesse affermato

espressamente la giurisdizione, l’impugnazione dei capi relativi al merito, impedendo la

formazione di un giudicato formale sul merito, e quindi sui presupposti processuali della

pronuncia sul merito, avrebbe consentito l’eccezione ovvero il rilievo d’ufficio della

questione di giurisdizione anche per la prima volta in Cassazione. 93

Cfr. Cass., sez. un., 5 febbraio 1999, n. 34: nel caso di specie la parte aveva

eccepito la questione di giurisdizione in entrambi i gradi di merito trovandosi di fronte ad un

rigetto esplicito in primo grado e al silenzio del giudice d’appello, malgrado l’impugnazione

specifica della sentenza di primo grado sul punto della giurisdizione. In sede di introduzione

del giudizio di cassazione le parti non avevano affrontato la questione di giurisdizione, e le

Sezioni Unite hanno escluso la possibilità di riesaminarla d’ufficio ritenendo che, qualsiasi

soluzione interpretativa si volesse seguire a proposito del valore giuridico da assegnare alla

decisione sul merito assunta dal giudice di appello – implicita pronuncia di rigetto

dell’eccezione di difetto di giurisdizione con conseguente acquiescenza ex art. 329, comma 2

c.p.c. ovvero omessa pronuncia con conseguente nullità e passaggio in giudicato della

sentenza per mancata impugnazione specifica ex art. 161 comma 1 c.p.c. – l’esame d’ufficio

della questione di giurisdizione fosse ormai precluso alla Suprema Corte. Dopo l’affermarsi

del principio della necessaria specifica impugnazione del capo espresso sulla giurisdizione

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– 244 –

Con le Sezioni Unite della sentenza 9 ottobre 2008, n. 24883, tuttavia, è

stato affermato un principio ben più radicale, con riguardo ai limiti alla

rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione, perché si è giunti a predicare

una preclusione da giudicato implicito al rilievo del difetto di giurisdizione

anche nell’ipotesi in cui in primo grado e in appello si sia discusso solo sul

merito e la questione di giurisdizione sia emersa per la prima volta nel

giudizio di legittimità; anche, cioè, quando i giudici di merito non abbiano

pronunciato sulla questione di giurisdizione a causa dell’assenza di una

formale eccezione94

: quindi del campo in cui tipicamente si riteneva operante

nella sentenza che decide anche il merito, ad opera dell’orientamento citato nella nota che

precede, l’ulteriore restrizione di campo dell’operatività dell’art. 37 c.p.c. nelle fasi di

impugnazione segnata da Cass., sez. un., 5 febbraio 1999, n. 34, cit., si specifica quindi

nell’esclusione della possibilità di riesaminare d’ufficio la questione di giurisdizione, in

mancanza di uno specifico motivo di ricorso contro la sentenza del giudice d’appello che

abbia deciso solo sul merito, senza emettere alcuna statuizione sulla questione di

giurisdizione, pur in presenza dell’eccezione di cui all’art. 37 c.p.c. (già proposta in primo

grado). In quest’ottica, la decisione assunta dal giudice di appello solo sul merito, esige,

secondo la Corte, una precisa iniziativa dell’interessato volta a promuovere l’esame

dell’eccezione di difetto di giurisdizione dinanzi alla Cassazione ma previamente a

rimuovere la contraria pronuncia implicita di rigetto dell’eccezione da parte del giudice

d’appello o il vizio di omessa pronuncia sull’eccezione stessa. Questa soluzione risulta

conforme all’idea, sostenuta in dottrina, che «sempre ed in ogni caso, decidere il merito

significa disattendere – implicitamente o esplicitamente – ogni eccezione processuale

espressamente proposta»: LASAGNO, Premesse per uno studio sull’omissione di pronuncia

nel processo civile, in Riv. dir. proc. 1990, 462. 94

La sentenza in questione, pubblicata in Riv. dir. proc. 2009, 1071 ss., con note di

E.F. RICCI, Le Sezioni Unite cancellano l’art. 37 c.p.c. nelle fasi di gravame, 1085 ss., e di V.

PETRELLA, Osservazioni minime in tema di giudicato implicito sulla giurisdizione e giusto

processo, 1088 ss.; in Corriere giur. 2009, 372 ss. con note di CAPONI, Quando un principio

limita una regola (ragionevole durata del processo e rilevabilità del difetto di giurisdizione),

380 ss. e di CUOMO ULLOA, Il principio di ragionevole durata e l’art. 37: rilettura

costituzionalmente orientata o riscrittura della norma (e della teoria del giudicato

implicito)?, 386 ss.; in Giusto proc. civ. 2009, 263 ss., con nota di BASILICO, Il giudice

interno e la nuova lettura dell’art. 37 c.p.c.; in Foro it. 2009, 810 ss., con nota di G. POLI, Le

sezioni unite e l’art. 37 c.p.c., è stata sottoposta a critiche assai severe, sia in ragione della

evidente interpretatio abrogans dell’art. 37 c.p.c. (cfr., per tutti, VACCARELLA, Rilevabilità

del difetto di giurisdizione e translatio iudicii, in Giur. it. 2009, 412 ss.; ivi, anche con

commento di SOCCI, Il difetto o conflitto di attribuzione (o di giurisdizione), del giudice

ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali, non può essere

eccepito o rilevato in cassazione per la prima volta, 417 ss.); sia per l’adesione alla nozione,

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– 245 –

la possibilità di un rilievo d’ufficio in cassazione del difetto di giurisdizione,

anche alla stregua dell’interpretazione restrittiva dell’art. 37 c.p.c.,

progressivamente affermatasi in concomitanza con la valorizzazione del

principio dispositivo nelle fasi di impugnazione95

.

di per sé assai critica e discutibile, di giudicato implicito: cfr. CARRATTA, Rilevabilità

d’ufficio del difetto di giurisdizione e uso improprio del «giudicato implicito», in Giur. it.

2009, 1464 ss.; in tema, v. anche le riflessioni di PICCININNI, Il regime di rilevazione del

difetto di giurisdizione ed il «giusto processo» civile, in Riv. dir. proc. 2009, 897 ss.; di

DELLE DONNE, L’art. 37 c.p.c. tra giudicato implicito ed «evoluzione in senso dispositivo

della giurisdizione»: a margine di recenti applicazioni della ragionevole durata del

processo, in www.judicium.it; di LAMORGESE, Dall’art. 37 c.p.c. alla sentenza delle Sezioni

Unite n. 24883 del 2008, in Foro amm. T.A.R. 2008, 60 ss. e in Federalismi.it n. 24/2008,

del 17 dicembre 2008. V., di recente, MENCHINI, Eccezione di giurisdizione, regolamento

preventivo e translatio: il codice di rito e il nuovo codice della giustizia amministrativa, cit.

V., inoltre, CARPI, Osservazioni sulle sentenze «additive» delle sezioni unite della

Cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2010, 587 ss.; PACILLI, Note in tema di giudicato

implicito sulla giurisdizione alla luce della recente giurisprudenza di legittimità, in Riv.

trim. dir. proc. civ. 2010, 595 ss.; BARLETTA, I limiti al rilievo d’ufficio del difetto di

giurisdizione, in Riv. trim dir. proc. civ. 2009, 1193 ss.; GLENDI, Tramonta la rilevabilità «in

qualunque stato e grado» del difetto di giurisdizione, in Riv. giur. trib. 2009, 5 ss.;

COLESANTI, Giurisprudenza «creativa» in tema di difetto di giurisdizione, in Riv. dir. proc.

2009, 1125 ss.; CONSOLO, Travagli «costituzionalmente orientati» delle Sezioni Unite

sull’art. 37 c.p.c., ordine delle questioni, giudicato di rito implicito, ricorso incidentale

condizionato (su questioni di rito o, diversamente operante, su questioni di merito), in Riv.

dir. proc. 2009, 1141 ss. 95

Consolidato infatti il principio per cui la preclusione al riesame della questione di

giurisdizione, nell’ambito dei gradi di giudizio successivi al primo, consegue non solo

all’omessa impugnazione della decisione con cui il giudice di merito risolva espressamente

la questione di giurisdizione, ma anche all’omessa impugnazione della sentenza che abbia

deciso espressamente solo sul merito in presenza dell’eccezione di difetto di giurisdizione,

giacché a quest’eccezione corrisponderebbe, nella successiva sentenza che decide nel merito,

o un’implicita statuizione in punto di giurisdizione o un vizio di omessa pronuncia,

rampollava il dubbio ulteriore, relativo al caso speculare, e residuo, di possibilità di

applicazione del regime del rilievo del difetto di giurisdizione di cui all’art. 37 c.p.c., in cui

nei gradi di merito fosse mancata completamente l’eccezione di parte o comunque il dibattito

sulla questione di giurisdizione. La giurisprudenza non tardò ad ammettere la formazione di

un giudicato implicito sulla questione di giurisdizione nell’ipotesi in cui, proposta

l’impugnazione contro la sentenza che decide nel merito, questa si dirigesse non contro tutti i

capi di merito, ma contro alcuni di essi, con conseguente passaggio in giudicato formale di

un capo di merito, tale da giustificare la formazione del giudicato implicito sulla

giurisdizione anche relativamente agli altri capi (v., tra le tante, Cass., sez. un., 28 marzo

2006, n. 7039; Cass., sez. un. 14 aprile 2003, n. 5903; Cass., sez. un., 11 ottobre 1997, n.

7482; Cass., sez. un., 5 agosto 1994 n. 7268; con precedenti anche risalenti: Cass., sez. un., 7

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agosto, 1989, n. 3602; Cass., sez. un., 14 febbraio 1980, n. 1054). Nell’ipotesi in cui, sempre

in assenza di un’eccezione di parte, la sentenza avesse statuito sul merito ma l’impugnazione

proposta contro di essa investisse tutti i capi di merito, si riteneva invece che, sebbene non

eccepito il difetto di giurisdizione e non sollevata d’ufficio la questione nei gradi di merito,

la parte potesse proporre l’eccezione di difetto di giurisdizione per la prima volta nel giudizio

di legittimità e la Cassazione rilevarla per la prima volta d’ufficio: così, ex multis, Cass., sez.

un. 17, dicembre 1998 n. 12618. Era ritenuto, questo, prima delle pronuncia delle Sezioni

Unite del 2008, lo spazio applicativo minimo dell’art. 37 c.p.c. nelle fasi di impugnazione. In

dottrina, abbinava la «concepibilità di accertamenti impliciti» dotati di «diversa

“preclusività” rispetto a quelli espliciti» e l’inoperatività dell’art. 37 c.p.c. nelle fasi di

impugnazione in presenza di un capo di merito non impugnato CONSOLO, Il riparto fra le

giurisdizioni, l’anacronismo della «severità» ispiratrice dell’art. 37 c.p.c. sul rilievo

officioso «in ogni grado» e il gatto del Cheshire, in Corriere giur. 2005, 1579, il quale,

partendo dalla premessa di carattere generale secondo cui «la soluzione di questioni

pregiudiziali di rito può ben essere ritenuta implicita ma … non può parlarsi di passaggio in

giudicato» poiché «neppure vi è alcun capo decisorio al riguardo cui possa davvero

attagliarsi l’art. 329, cpv, c.p.c.» (ID., op. loc. ult. cit.), sostiene che, nel caso del passaggio in

giudicato di un capo di merito, la preclusione alla possibilità di esame della questione sulla

giurisdizione implicitamente assentita dipenderebbe non già dal giudicato implicito, ma già

solo dalla forza dell’irretrattabilità del bene della vita che è propria del giudicato di merito:

«la indiscutibilità della questione di rito, esaminata o no, certo si genera ... allorché passi in

giudicato una qualunque decisione di merito che accerta altresì la piena ammissibilità della

domanda e che, comunque, attribuendo un bene della vita, saldamente, non è scalfibile con

alcuna considerazione sul già dedotto o sul deducibile e/o sul rilevabile in ordine alla

regolarità del rapporto processuale»: così, CONSOLO, op. loc. ult. cit., sembrando alludere,

però – ciò che è confermato dall’adozione della terminologia chiovendiana – ad un fenomeno

di giudicato parziale esterno della sentenza resa su molteplici domande (o capi di domanda,

come si legge talora); si vedano anche le riflessioni e le conclusioni scettiche in tema di

giudicato implicito di A.A. ROMANO, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui

presupposti processuali, cit.: «secondo lo schema “omessa impugnazione della decisione

implicita-passaggio in giudicato autonomo della stessa”, il giudicato processuale implicito è

categoria dogmatica illegittima perché priva di riscontro positivo (cioè normativamente

impossibile); secondo lo schema “formazione del giudicato sul merito-passaggio in giudicato

dell’implicita affermazione sulla proponibilità dell’azione”, il giudicato processuale implicito

è modo di descrizione di un effetto preclusivo, forse normativamente possibile ma talora

fuorviante, che nulla aggiunge a quanto già discende dalla coerente applicazione degli effetti

positivi del giudicato sostanziale, e rispetto al quale mal non pare attagliarsi il noto monito

ockhamiano per cui entia non sunt multiplicanda». V. anche TURRONI, La sentenza civile sul

processo, cit., 144 ss. Per la rassegna della richiamata giurisprudenza sull’art. 37 c.p.c. e la

ricostruzione dei diversi orientamenti in materia di giudicato interno sulla questione di

giurisdizione, cfr. LAMORGESE, Dall’art. 37 c.p.c. alla sentenza delle Sezioni Unite n. 24883

del 2008, cit., § 1.

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Per le Sezioni Unite, infatti, anche quando la questione di giurisdizione

non è stata mai esplicitamente risolta dal giudice di merito, «non per questo si

può ritenere che la questione non sia stata affrontata e decisa. Qualsiasi

decisione di merito implica la preventiva verifica della potestas iudicandi;

tale verifica, in assenza di formale eccezione o questione sollevata d’ufficio,

avviene comunque de plano (implicitamente)»96

: ciò, in quanto, «il giudice

che decide il merito ha anche già deciso di poter decidere»97

(salvo poi

96

A giustificare l’interpretazione «in senso restrittivo e residuale» dell’art. 37 c.p.c.

rispetto a quanto consente la lettera della norma (resterebbe forse uno spazio applicativo al

rilievo officioso del difetto di giurisdizione nei gradi di impugnazione quando la sentenza di

primo grado, ad es., si sia pronunciata nel senso dell’improponibilità della domanda,

statuizione, questa, che potrebbe non presupporre l’implicita decisione nel senso della

sussistenza della potestas iudicandi), stanno i principi di ragionevole durata del processo e di

effettività della tutela, con i quali, secondo Cass. 9 ottobre 2008, n. 24883, collide una

disciplina che può comportare la regressione del processo allo stato iniziale dopo la

vanificazione di due gradi di giudizio e «l’allontanamento sine die di una valida pronuncia

sul merito». 97

È l’affermazione con cui si accoglie l’idea che ogni pronuncia sul merito comporta

una decisione tacita sulla sussistenza del presupposto processuale della giurisdizione,

decisione che deve essere impugnata specificamente onde evitare la formazione del giudicato

implicito, non essendo a tal uopo sufficiente l’impugnazione di tutte le statuizioni di merito e

il fatto che non si formi un giudicato parziale su un singolo capo di domanda (dove

rileverebbe, per vero, come abbiamo visto supra, alla nt. 92, non la nozione di giudicato

implicito bensì il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, in virtù del

quale la statuizione sul bene della vita contenuta nella pronuncia irretrattabile non può essere

rimessa in discussione facendo valere mezzi ed eccezioni che potevano essere spesi

nell’ambito del giudizio che con quella pronuncia è stato definito: CARRATTA, Rilevabilità

d’ufficio del difetto di giurisdizione e uso improprio del «giudicato implicito», in Giur. it.

2009, 1464 ss., richiamando l’autorità di ALLORIO, Critica della teoria del giudicato

implicito, in Riv. dir. proc. civ. 1938, II, 245; nonché BETTI, Se il passaggio in giudicato di

una sentenza interlocutoria precluda al contumace l’eccezione di incompetenza territoriale,

in Riv. dir. proc. civ. 1927, II, 21. Per questa considerazione della preclusione al rilievo del

difetto di giurisdizione, in presenza del passaggio in giudicato di una statuizione sul merito,

come rientrante negli effetti di indiscutibilità propri del giudicato di merito e sulla limitata

«utilità normologica del giudicato implicito scaturente dal passaggio in giudicato della

decisione sostanziale esplicita – almeno con riguardo ai presupposti processuali –», A.A.

ROMANO, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui presupposti processuali, cit.,

1292 ss., in base all’argomento classico secondo cui la preclusione della conoscibilità del

presupposto processuale non avviene in ragione del passaggio in giudicato della decisione

implicita, quanto in virtù del passaggio in giudicato della pronuncia sulla situazione

sostanziale, che assorbe tutti i problemi relativi alla regolare instaurazione del rapporto

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– 248 –

intendersi su quale sia la decisione di «merito» che implica questa

presupposta decisione del giudice di poter decidere98

).

Vero è che tale ragionamento si prestava ad essere spostato anche su

altri tipi di vizio per cui la legge prevede il regime di rilevabilità in ogni stato

processuale. Invero, all’analisi del fenomeno da parte di questo autore fa da sfondo costante

la preoccupazione di tenere distinti due piani di indagine che spesso vengono sovrapposti,

ossia l’efficiacia di giudicato interno e quella di giudicato esterno; l’a. infatti abbina un

concetto tecnicamente rilevante di giudicato implicito sull’esistenza dei presupposti

processuali e comunque sulla regolarità dell’instaurazione del contraddittorio alla ricorrenza

di un effettivo onere di impugnazione specifica della pronuncia inespressa, escludendo

l’autonomia concettuale e la chiarezza ed utilità scientifica del ricorso alla nozione di

giudicato implicito in tutti i casi in cui la preclusione al riesame della questione della

sussistenza del presupposto processuale si determina in via endoprocessuale in forza di

precise indicazioni legislative, come nel caso della competenza e del relativo difetto.

Esaminando le varie ipotesi di vizio, egli individua uno spazio per una effettiva preclusione

pro iudicato implicito (ossia un «onere di gravame contro una pronuncia inespressa»), ad es.,

nel caso in cui ricorre un vizio afferente alla distribuzione delle controversie tra l’organo

monocratico ed il collegio ex art. 50 bis c.p.c.: «dal combinato disposto degli artt. 281 octies

(da cui risulta con sicurezza la rilevabilità officiosa dell’error fino alla fase decisoria) e 50

quater (che ne esclude l’inerenza alla costituzione del giudice e rimanda alla … regola di

conversione della nullità in motivo di gravame) emerge proprio un onere di impugnazione

della statuizione implicita. Si consideri a titolo esemplificativo il caso del tribunale che abbia

deciso in composizione erroneamente monocratica il merito di taluna delle liti coperte dalla

riserva di collegialità: non è dubbio che il giudice abbia – sbagliando – implicitamente

affermato il proprio potere di decidere, ma non è neppure dubbio che tale inespressa

statuizione possa essere conosciuta e riformata in appello solo ove sia fatta oggetto di uno

specifico motivo di gravame; in difetto di impugnazione, la questione rimane invece

preclusa»: ID., op. ult cit., 13. Lo stesso a. ammette però che si tratta di un’ipotesi residuale,

e non significativa. 98

Resta forse uno spazio applicativo per la rilevabilità del difetto di giurisdizione,

anche in assenza di censura, oltre la pronuncia del giudice di merito nell’ipotesi ad es.

contemplata da Cass., sez. un., 15 novembre 2002, n. 16161, la cui massima ripete che il

giudicato sulla giurisdizione può formarsi, oltre che a seguito della statuizione emessa dalle

Sezioni Unite della Corte di cassazione in sede di regolamento preventivo di giurisdizione o

di ricorso ordinario per motivi attinenti alla giurisdizione, solo per effetto del passaggio in

giudicato di una statuizione in proposito contenuta in una sentenza di merito, e prevede come

fattispecie inidonea ad essere equiparata a tale sentenza «presupponente la giurisdizione» la

decisione che, senza contenere alcun accertamento sui punti di fatto o di diritto comportanti

un sia pure implicito riconoscimento della giurisdizione del giudice adito, abbia

semplicemente statuito sulla improcedibilità della domanda ad es. in ragione della nullità del

ricorso introduttivo della lite.

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– 249 –

e grado, come per il caso del difetto di giurisdizione99

. Ma, quando le Sezioni

Unite, poco dopo l’intervento appena segnalato, tornano sul tema, con la

sentenza 30 ottobre 2008, n. 26019, specificano che «il potere di controllo

delle nullità (non sanabili o non sanate), esercitabile in sede di legittimità,

mediante proposizione della questione per la prima volta in tale sede, ovvero

mediante il rilievo officioso da parte della Corte di cassazione, va ritenuto

compatibile con il sistema delineato dall’art. 111 della Costituzione, allorché

si tratti di ipotesi concernenti la violazione del contraddittorio100

(…) ovvero

di ipotesi riconducibili a carenza assoluta di potestas iudicandi – come il

difetto di legitimatio ad causam o dei presupposti dell’azione, la decadenza

sostanziale dall’azione per il decorso di termini previsti dalla legge, la

carenza di domanda amministrativa di prestazione previdenziale, od il divieto

di frazionamento delle domande, in materia di previdenza ed assistenza

sociale (per il quale la legge prevede la declaratoria di improcedibilità in ogni

stato e grado del procedimento); in tutte queste ipotesi, infatti, si prescinde da

un vizio di individuazione del giudice, poiché si tratta non già di

provvedimenti emanati da un giudice privo di competenza giurisdizionale,

bensì di atti che nessun giudice avrebbe potuto pronunciare101

, difettando i

presupposti o le condizioni per il giudizio. Tale compatibilità al principio

99

Non è così per il giudizio amministrativo. Il legislatore del 2010, infatti, nel

formulare l’articolato del codice del processo amministrativo, ha previsto che «il difetto di

giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio. Nei giudizi di impugnazione è

rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in

modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione»: art. 9 d.lgs. n. 104/2010. Il diritto

vivente delle pronunce del 2008 si è così tradotto nella previsione di un regime di rilevabilità

del difetto di giurisdizione più conforme al canone di economia processuale; d’altro canto,

tale intervento si è reso necessario anche per contrastare la tendenza del Consiglio di Stato a

riesaminare d’ufficio la questione di giurisdizione, anche laddove, seguendo i canoni

dell’orientamento della Cassazione sul punto, potesse ritenersi formato il giudicato. 100

«In quanto tale ammissibilità consente di evitare che la vicenda si protragga oltre il

giudicato, attraverso la successiva proposizione dell’actio nullitatis o del rimedio

impugnatorio straordinario ex art. 404 c.p.c. da parte del litisconsorte pretermesso». 101

Per l’osservazione che avrebbe dovuto essere presa in considerazione la

prospettiva generale dell’art. 37 c.p.c., ove è contemplato, oltre al difetto relativo, il difetto

assoluto di giurisdizione, v. DELLE DONNE, op. cit., nt. 14.

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– 250 –

costituzionale della durata ragionevole del processo va, invece, esclusa in

tutte quelle ipotesi in cui la nullità sia connessa al difetto di giurisdizione del

giudice ordinario e sul punto si sia formato un giudicato implicito, per effetto

della pronuncia sul merito in primo grado e della mancata impugnazione, al

riguardo, dinanzi al giudice di appello».

Col che, in altri termini, la Corte distingue tra nullità che possono

permanere nel processo senza essere rilevate e sanate e slatentizzarsi in

Cassazione, con il rilievo officioso (e sono nullità, che, nella prospettiva della

sentenza soprarichiamata, presidiano il principio del contraddittorio e la

necessaria presenza dei presupposti e delle condizioni per il giudizio) e

nullità che, sebbene dichiarate rilevabili in ogni stato e grado del giudizio,

non pervengono praticamente mai impregiudicate in Cassazione, perché,

malgrado su di esse non ci sia mai stata questione né statuizione espressa, si

considerano comunque decise per implicito ad opera del primo giudice di

merito dinnanzi al quale esse avrebbero dovuto esser fatte valere.

Al primo regime, per esempio, soggiace il difetto di legittimazione ad

agire, la cui ricorrenza può essere in qualunque momento rilevata fino in

Cassazione (e lo ha di recente ribadito Cass. civ., sez. un., 9 febbraio 2012,

n. 1912, in CED Cassazione 2012102

); mentre il secondo regime sembra ad

102

Con cui la Suprema Corte ha rilevato d’ufficio il difetto di legittimazione attiva

della Provincia di Oristano che aveva proposto alcune domande a tutela delle competenze di

due Consorzi, dinanzi al Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, agendo quale

proprietario terriero consorziato e nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali Nella

motivazione della sentenza si legge che il difetto di legittimazione non era stato rilevato dal

Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, ma che esso è rilevabile d’ufficio in sede di

legittimità, «‘alla stregua della regola dettata dall’art. 81 cod. proc. civ., fuori dai casi

espressamente previsti dalla legge di sostituzione processuale o di rappresentanza, nessuno

può far valere in giudizio un diritto altrui in nome proprio (...). L’istituto della legittimazione

ad agire o a contraddire in giudizio (legittimazione attiva o passiva) – invero – si ricollega al

principio dettato dall’art. 81 cod. proc. civ., secondo cui nessuno può far valere nel processo

un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, e comporta

– trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza

inutiliter data – la verifica, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (salvo che sulla

questione sia intervenuto il giudicato interno) e in via preliminare al merito (con eventuale

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– 251 –

es. assegnato da Cass., Sez. I, 30 ottobre 2009, n. 23035 al difetto di

rappresentanza processuale103

.

La distinzione così accolta dal recente orientamento della Cassazione è

stata in dottrina criticata in quanto apodittica, non essendo chiara la ratio per

cui il regime della insanabilità/rilevabilità in ogni stato e grado, salvo il limite

del giudicato esplicito interno e del giudicato parziale di merito, si debba far

valere in relazione ai vizi concernenti, ad es., la legittimazione e non in

relazione a quelli riguardanti altri presupposti processuali, se è vero che, in

ogni caso, tutti questi vizi costituiscono nullità assolute e colpiscono il

rapporto giuridico processuale nel suo complesso: si è infatti osservato che la

diversificazione di regime, sotto il profilo della perdurante rilevanza e

decisività dell’uno o dell’altro vizio, anche quando ed anzi proprio in quanto

dettata da ragioni di opportunità, non è rimessa all’opzione dell’interprete ma

è prerogativa esclusiva del legislatore104

.

pronuncia di rigetto della domanda per difetto di una condizione dell’azione), circa la

coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il

rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta (Cass. n.

11190 del 1995; Cass. n. 6160 del 2000; Cass. n. 11284 del 2010)». Da tale accertamento,

conclude la Corte, «discende la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, ai sensi

dell’art. 382 c.p.c., comma 3, atteso che la causa non poteva essere proposta … (Cass. n.

2517 del 2000)»: così, Cass. 1912/2012, cit. 103

Secondo quanto emerge dalla massima: «il limite della rilevanza del difetto di

valida rappresentanza processuale è costituito dal formarsi del giudicato, il quale impedisce il

riesame non solo delle ragioni o questioni giuridiche che sono state proposte e fatte valere in

giudizio, ma anche di quelle che, seppure non espressamente dedotte o rilevate, costituiscono

il necessario presupposto, anche di ordine processuale, della pronuncia di merito (c.d.

giudicato implicito); conseguentemente, è inammissibile nel giudizio di legittimità il motivo

di ricorso con il quale si deduce il vizio di rappresentanza di un ente collettivo nei precedenti

gradi del giudizio, quando lo stesso non sia stato mai dedotto nel corso dei medesimi»: Cass.

n. 23035/2009, cit. Per l’analitico esame delle varie sottoipotesi che si possono profilare con

riferimento ai vizi attinenti al presupposto della capacità processuale e, in generale, del

regime di rilevabilità delle «diverse forme di deficienza in punto di legitimatio ad

processum», cfr. A.A. ROMANO, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui

presupposti processuali, cit., § 14, (discorso tarato ovviamente in parte sulla versione

dell’art. 182 c.p.c. anteriore alla novella del 2009). 104

Che a tale diversificazione ha provveduto, ad es., dettando una disciplina peculiare

del vizio di incompetenza: MENCHINI, op. loc. ult. cit.

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– 252 –

In ogni caso, con riguardo alle questioni relative ai presupposti

processuali ed alle nullità cosiddette insanabili ovvero alle nullità

tempestivamente eccepite che si siano verificate nei gradi di merito fino alla

proposizione del ricorso per cassazione, vale essenzialmente, ai fini della

definizione dell’oggetto del giudizio di rinvio, la regola della loro non

riesaminabilità in sede di rinvio.

Nessuna nullità, occorsa nella fase precedente alla Cassazione, infatti,

passa indenne dalla pronuncia della Cassazione che rimette la causa al

giudice del rinvio sì da poter essere valutata in quella sede.

In primo luogo, se la nullità è stata oggetto della censura accolta dalla

Corte, la prosecuzione del giudizio dopo l’emendamento dell’error

costituisce la ragione stessa del rinvio, ed il suo indefettibile presupposto:

dunque di quella nullità non si potrà più discutere successivamente, servendo

lo stesso rinvio quale sede di restitutio in integrum.

Invero, un problema di persistenza o meno della questione di nullità

dedotta in sede di ricorso potrebbe sussistere allorquando la Corte assorba,

per effetto dell’accoglimento di un motivo attinente al merito, un motivo fatto

valere ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c.

Tale eventualità dovrebbe essere evitata, nel senso che il dovere

decisorio della Corte dovrebbe essere espletato con riguardo a tutti i motivi di

ricorso; resta salvo l’assorbimento in senso tecnico dei motivi, ovviamente

non collegato a quel contenuto minimo della pronuncia della Suprema Corte

che ha l’effetto di evitare il giudicato formale esterno della sentenza

impugnata105

(ché, a tale scopo, è sufficiente l’accoglimento anche di un solo

motivo), bensì riconnesso alla prospettiva della decisione definitiva della lite

in sede di rinvio.

105

Come se la devoluzione oggettiva nei confronti della Suprema Corte fosse

rapportata ad una concezione del ricorso per cassazione come rimedio per ottenere, per un

motivo qualunque, l’annullamento della sentenza; alla maniera, per intenderci, di PAVANINI,

op. cit., passim.

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– 253 –

Detto assorbimento appare corretto ove sia stato il ricorrente a porre un

nesso di subordinazione tra la verifica e l’accoglimento dell’una censura

rispetto alla verifica ed all’accoglimento dell’altra, perché riconosce che

l’accoglimento della prima censura è incompatibile con l’applicazione del

principio di diritto favorevole (o con la rilevanza della correzione sostitutiva

del vizio in procedendo) conseguibile per il tramite dell’accoglimento della

seconda: per esemplificare, si può dare l’ipotesi in cui il ricorrente ritenga, a

ragione, di non sottoporre comunque al vaglio della Suprema Corte la

censura alla pronuncia in punto di decadenza dalla prova dell’accordo

simulatorio qualora venga accolta la censura alla sentenza impugnata sotto il

profilo del mancato rilievo della nullità della vendita per contrarietà alle

norme imperative dettate in tema di esercizio della prelazione (ma in questo

caso, però, sarebbe forse del tutto superfluo il rinvio).

Laddove, peraltro, il ricorrente abbia omesso di inserire la

subordinazione in un caso del genere (di incompatibilità di applicazione di

due statuizioni rescindenti a favore dello stesso ricorrente), non è escluso che

l’assorbimento del motivo posteriore, ad opera della Corte, è comunque

legittimo.

Maggiori perplessità desta l’ipotesi in cui la rilevanza di una delle

censure esposte nel ricorso scivoli, dal punto di vista logico, dietro una

valutazione di competenza del giudice di rinvio in conseguenza

dell’accoglimento, ad opera della Suprema Corte, di un’altra censura avente

ad oggetto una questione pregiudiziale. Un’ipotesi, questa, che può essere

esemplificata immaginando il caso in cui la Suprema Corte, in accoglimento

di un motivo con cui il ricorrente Tizio abbia contestato la sentenza

impugnata circa l’accertamento della propria corresponsabilità nell’illecito

aquiliano commesso da Caio ai danni di Sempronio, annulli detta sentenza

con esigenza di rinvio per accertamenti di fatto, e ci sia un altro motivo del

ricorso di Tizio avente ad oggetto la questione, logicamente successiva

rispetto a quella della corresponsabilità, della violazione del contraddittorio

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– 254 –

nell’espletamento delle operazioni peritali svolte in un grado di merito per la

quantificazione dei danni occorsi a Sempronio (violazione lamentata dallo

stesso Tizio e non da Caio).

In un caso del genere è dubbio che la Corte debba decidere nel merito

della censura o, per contro, possa pretermetterne l’esame (pur ammettendosi,

in tale seconda ipotesi, il potere dell’interessato di reiterare la questione

assorbita dinnanzi al giudice di rinvio). Probabilmente, fattispecie come

queste giustificano il fatto che la Corte di cassazione munisca il giudizio di

rinvio di un principio di diritto «preventivo», per così dire, (questo sì

ipotetico), la cui enunciazione appare opportuna in quanto ispirata al canone

di economia processuale106

, se non doverosa per il principio di

corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il quale non sembra venir meno in

presenza della perdurante rilevanza della questione107

.

In ogni caso, tralasciando l’ipotesi dell’assorbimento delle censure

relative a vizi in procedendo, in sede di Cassazione, è in generale da

106

Sembra ad es. rinvenibile un’applicazione del principio cautelativo di completezza

della pronuncia della Suprema Corte, in Cass. civ., sez. I , 25 febbraio 2009, n. 4587, nella

cui motivazione si legge che «l’accoglimento del sesto motivo del ricorso principale rende

virtualmente assorbito l’esame degli ulteriori motivi del ricorso principale e dell’unico

mezzo del ricorso incidentale, essendo tutti relativi a profili – i criteri di determinazione del

danno subito dagli investitori (…) e di aggiornamento o di adeguamento monetario della

somma liquidata dal giudice – in ordine logico successivi rispetto al momento dell’an della

responsabilità dei commissari ed esperti, sul quale il giudice del rinvio dovrà nuovamente a

pronunciare. Tuttavia, poiché la vicenda giudiziaria de qua pende ormai da numerosi anni e

poiché le censure con tali motivi sollevate investono anche questioni di interpretazione della

legge, sulle quali il giudice di legittimità è chiamato, secondo le attribuzioni che ad esso sono

proprie, ad esercitare la propria funzione nomofilattica, il Collegio ritiene che ragioni di

cautela acceleratoria, intimamente legate al rispetto del principio di ragionevole durata del

processo e di buon andamento dell’amministrazione del servizio giustizia, impongano uno

scrutinio di essi, onde evitare che le parti del giudizio – ove in esito al giudizio di rinvio sia

confermata, in tutto o in parte, la responsabilità dei commissari e degli esperti della Consob –

siano costrette a rivolgersi ancora una volta a questa Corte per prospettare doglianze, sulla

misura del danno e sulla sua natura, che già oggi sono all’attenzione del giudice di

legittimità»: insomma, ci sembra che la Corte stia per dettare un principio di diritto

«preventivo», condizionato all’esito degli accertamenti di fatto demandati al giudice di

rinvio. 107

V., però, supra, in una prospettiva di diritto positivo, capitolo primo, par. 3.3., nt.

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– 255 –

escludersi che nel giudizio di rinvio possano rilevare nullità le cui cause siano

da ricondursi al segmento di giudizio anteriore alla pronuncia della

Cassazione.

L’impedimento al loro rilievo può essersi prodotto per effetto di

giudicato interno implicito nei gradi di merito o nel passaggio da questi alla

Cassazione, ovvero nell’ambito dello stesso giudizio di cassazione ove

ancora ivi rilevabili, ma è comunque da ritenersi escluso che questioni di rito

– ed anche quelle che concernono la carenza originaria dei presupposti

processuali – occorse nel segmento di giudizio anteriore alla pronuncia della

Cassazione possano rifluire nel giudizio di rinvio ed impedire l’applicazione

del principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte.

Il fatto di ritrovare in sede di rinvio questi sbarramenti, dopo la

pronuncia di annullamento, ad opera della Suprema Corte, non costituisce un

effetto della stessa pronuncia della Cassazione, perché le cause del fenomeno

preclusivo risalgono al giudicato interno prodottosi prima del giudizio di

cassazione ovvero in coincidenza dell’acquiescenza prestata dalle parti in

sede di introduzione del giudizio di cassazione stesso.

Naturalmente, poi, non è concepibile che eventuali forme di

inosservanza di regole processuali che riguardano il giudizio di cassazione

(sanzionate dal codice come forme di inammissibilità ed improcedibilità), in

quanto rilevabili solo dalla Cassazione, possano incidere sul giudizio di

rinvio. La loro assoluta irrilevanza discende dall’applicazione di un un

principio di carattere generale, e cioè quello per cui se il giudizio si chiude la

pronuncia di merito (per essa intendendosi qualunque pronuncia sul merito

delle censure mosse dal ricorrente, anche su questioni di rito), non può darsi

il fenomeno di assorbimento in senso tecnico delle questioni di nullità, perché

queste devono ritenersi risolte negativamente, anche per implicito108

: solo che

queste statuizioni implicite della Cassazione, proprio poiché svolte dalla

108

POLI, I limiti oggettivi, cit., 383.

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– 256 –

Cassazione non sono impugnabili109

(salvo i casi di cui agli artt. 391 bis e ter

c.p.c.): dalla combinazione tra il principio di presunzione di implicita

pronuncia di rigetto relativamente a tali questioni di nullità e la regola

dell’assorbimento delle nullità nei motivi di gravame, si ricava – per via della

inimpugnabilità della pronuncia di annullamento – la definitiva preclusione al

loro rilievo.

Analoga giustificazione trova la non riesaminabilità delle questioni di

nullità precedenti al giudizio di cassazione ma rilevabili anche d’ufficio per la

prima volta innanzi ad essa.

Nell’uno come nell’altro caso, la pronuncia del principio di diritto

implica un giudicato implicito non impugnabile circa l’inesistenza di vizi di

nullità rilevabili direttamente dalla Suprema Corte d’ufficio.

In altri termini, il principio di diritto pronunciato dalla Corte in

occasione dell’annullamento della sentenza impugnata con una censura

attinente al merito della causa funge – come decisione implicitamente

negativa – da sanatoria delle nullità occorse fino alla sua pronuncia, e dunque

con efficacia sanante anche rispetto ai vizi c.d. insanabili rilevabili d’ufficio

(ad es., anche violazione di giudicato interno)110

, verificatisi nelle pregresse

fasi che, se rilevati in sede di rinvio, travolgerebbero l’utilizzabilità del

principio di diritto ed in particolare, di vizi determinati alla carenza,

originaria o sopravvenuta, di presupposti processuali, sui quali non si sia

formato un giudicato interno implicito; sia come sanatoria dei vizi occorsi

nell’ambito del giudizio stesso di cassazione (ad es. in caso di mancato

rilievo di un vizio attinente alla procura speciale per la promozione del

ricorso).

109

Per via della posizione apicale della Cassazione, se si vuole usare l’argomento

pubblicistico, e comunque in ragione dell’assenza di rimedi ordinari ulteriori da spendere

contro di essa, la statuizione implicita che si sia prodotta in Cassazione su di una questione di

nullità non è altrimenti impugnabile e passa in giudicato formale. 110

Cass., sez. lav., 15 dicembre 2009, 26241.

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c) Giudicato implicito nei rapporti di pregiudizialità-dipendenza.

Nell’ambito dei capi di merito, occorre dire che il discorso sviluppato

dal recente orientamento giurisprudenziale che ha valorizzato la nozione di

giudicato implicito per restringere la rilevabilità d’ufficio in ogni stato e

grado del difetto di giurisdizione111

riguarda, come abbiamo visto, le

questioni di rito viene da queste esteso, ai fini dell’individuazione

dell’ambito del giudicato implicito, anche alle questioni preliminari di merito

che, per quanto non esaminate nella sentenza, si ritengono coperte dal

giudicato implicito quando rappresentano il presupposto logico necessario

della sentenza che decide il merito.

La ratio è infatti la stessa. Sebbene si ritenga che le questioni

preliminari di merito rilevabili per la prima volta in sede di legittimità

incontrino il limite del giudicato interno esplicito112

, non quello del giudicato

implicito, tali questioni non potranno sicuramente valere, nell’ambito del

giudizio di rinvio, a rimettere in discussione il princpio di diritto enunciato

dalla Suprema Corte: anche in questo caso, la matrice della preclusione è la

pronuncia di accoglimento della censura con enunciazione del principio di

diritto.

Nel gruppo di ipotesi appena sopra esaminate delle questioni di nullità

rilevabili in ogni stato e grado coperte da giudicato interno in forza

dell’acquiescenza impropria se c’era una statuizione espressa che non è stata

impugnata, oppure perché respinte, oppure coperte da giudicato implicito in

quanto non rilevate in Cassazione rientra anche l’ipotesi di cui a Cass., sez.

111

Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883, cit.; Cass., sez. un., 18 dicembre 2008, n.

29523, cit.; seguite poi da Cass., sez. un., 12 ottobre 2011, n. 20932. 112

Cfr. Cass. civ., Sez. V, 30 novembre 2011, n. 25500, da cui è tratta la seguente

massima: «In tema di contenzioso tributario, è rilevabile di ufficio ex art. 2969 cod. civ., per

la prima volta anche in sede di legittimità la questione preliminare di merito, sottratta alla

libera disponibilità delle parti, relativa alla decadenza sostanziale del contribuente dal diritto

ad ottenere il rimborso IVA, che sia stata solo implicitamente affrontata e risolta nei

precedenti gradi di giudizio con la decisione sul merito della fondatezza del diritto e,

pertanto, non incontra il limite del giudicato interno, che richiede, a fini preclusivi,

l’adozione di una pronuncia esplicita proprio su detta questione preliminare».

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– 258 –

V, 29 aprile 2009, n. 10027, dove si individua una fattispecie che non è

idonea a determinare giudicato implicito fino in Cassazione: la massima dice

che il giudicato implicito, formandosi sulle questioni e sugli accertamenti che

costituiscono il presupposto logico indispensabile di una questione o di un

accertamento sul quale si sia formato un giudicato esplicito, non è

configurabile in relazione alle questioni pregiudiziali all’esame del merito

ovvero a quelle concernenti la proponibilità dell’azione113

quando,

intervenuta la decisione sul merito della domanda, la parte soccombente

abbia proposto impugnazione relativamente alla sola (o a tutte le) statuizioni

di merito in essa contenute; (…) dunque, quando il giudice decida

esplicitamente su una questione, risolvendone implicitamente un’altra,

rispetto alla quale la prima si ponga in rapporto di dipendenza e la decisione

venga impugnata sulla questione risolta esplicitamente, non è configurabile

un giudicato implicito sulla questione risolta implicitamente, essendo lo

stesso precluso dall’impugnazione sulla questione dipendente, e la ragione sta

in ciò, che il giudicato implicito presuppone il passaggio in giudicato della

decisione sulla questione dipendente decisa espressamente, in quanto il

principio giurisprudenziale del giudicato implicito sulla questione di

giurisdizione, di cui all’art. 37 cod. proc. civ., non è estensibile al di fuori dei

casi relativi all’eccezione ed al rilievo del difetto di giurisdizione114

.

In applicazione di tale principio, nella specie, la Suprema Corte ha

escluso la formazione del giudicato implicito sulla questione di ammissibilità

di un ricorso in materia tributaria, proposto tardivamente contro una cartella

113

Dal canto suo, poi, la relazione tra proponibilità dell’azione e condizioni

dell’azione non è tale per cui il giudicato formale sulla improponibilità dell’azione comporta

giudicato implicito sulle condizioni dell’azione, ed in particolare sulla legittimazione ad

agire, quando la questione relativa non abbia formato oggetto di contestazione specifica o

espressa trattazione: in tal senso, App. Roma, 18 ottobre 1993, in Riv. Arb. 1995, 83 ss. con

nota di VACCARELLA, con riferimento al caso in cui l’improponibilità dell’azione era stata

affermata a motivo della esistenza di clausola compromissoria per arbitrato irrituale. 114

Si tratta di un leitmotiv di molte pronunce recenti sul tema del giudicato implicito:

solo la questione di giurisdizione darebbe luogo a quel fenomeno per cui il giudicato

implicito si forma anche a prescindere dal passaggio in giudicato di un capo di merito.

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– 259 –

di pagamento, sebbene il ricorso fosse stato respinto nel merito e la

statuizione impugnata in appello solo nel merito.

Questa è un’altra ipotesi in cui, nella fase ascendente del giudizio fino

in Cassazione, viene negata la formazione del giudicato implicito in relazione

alle questioni pregiudiziali all’esame del merito ovvero a quelle concernenti

la proponibilità dell’azione, quando non sia passato in giudicato un capo di

merito; e costituisce invece proprio uno dei settori in cui funziona la

preclusione degli antecedenti logici necessari del principio di diritto,

esplicitamente o implicitamente presupposti rispetto allo stesso. Pronunciato

il principio di diritto, pertanto, non potranno essere venire in in discussione

questioni concernenti la proponibilità dell’azione o le condizioni dell’azione,

in contrasto al principio di intangibilità del principio stesso115

.

L’affermazione, contenuta nella massima soprariportatata, secondo cui,

qualora il giudice decida esplicitamente su una questione, risolvendone in

modo implicito un’altra, rispetto alla quale la prima si ponga in rapporto di

dipendenza, e la decisione venga impugnata sulla questione risolta

espressamente (quella dipendente, per intenderci), non è possibile sostenere

che sulla questione risolta implicitamente si sia formato un giudicato

implicito, si rintraccia anche in altre pronunce, dove l’esigenza di negare il

giudicato implicito emerge in casi in cui viene in evidenza una relazione di

tipo sostanziale tra i punti-questioni, ai fini della decisione della causa.

Nei repertori di giurisprudenza si rinviene, a questo proposito,

l’affermazione per cui il giudicato implicito fra la questione decisa e quella

che si vuole tacitamente risolta sussista un «rapporto di dipendenza

indissolubile», che determini l’assoluta inutilità di decidere la seconda

questione, con la conseguenza che il giudicato implicito non si configura

115

V., supra, nt. 73 dove si tratta di un’ipotesi in cui la Corte ha affermato

l’indeclinabilità del proprio principio di diritto rispetto ad un’ulteriore verifica, da parte del

giudice di rinvio, della condizione dell’interesse ad agire (sub specie di verifica della natura

non solo endoprocedimentale dell’atto di concessione provvisoria di un diritto di derivazione

di acque impugnato, già riconosciuta dalla Corte).

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– 260 –

quando la questione da decidere abbia una propria autonomia ed individualità

per la diversità dei presupposti di fatto e di diritto: così, ad es., Cass. 7

maggio 1984, n. 2761 ha escluso la formazione del giudicato implicito sulla

questione relativa alla ubicazione di un fabbricato nel vecchio o nel nuovo

centro abitato di un comune, avendo accertato che il giudice del merito, nel

decidere sulle distanze fra fabbricati costruiti nelle zone sismiche, non aveva

tenuto conto di tale ubicazione limitandosi ad affermare l’obbligo di una

determinata distanza a prescindere dalla ubicazione degli immobili. Ma le

ipotesi in cui viene chiamato in causa il «rapporto di dipendenza

indissolubile» per comprendere se si sia o meno formato il giudicato

implicito sono le più svariate: ad es., in relazione a più domande, anche

Cass., sez. lav., 6 aprile 2012, n. 5581, ammette, in principio, la formazione

del giudicato implicito quando «tra la questione decisa in modo espresso e

quella che si vuole implicitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza

indissolubile, tale da determinare l’assoluta inutilità di una decisione sulla

seconda questione».

Nel caso specifico, in cui erano proposte due domande, si trattava di

vedere che tipo di concorso intercorreva tra i due titoli e se la parziale

comunanza dei fatti posti a base della pretesa determinava oppure no che il

giudicato sull’una incidesse sulla decisione dell’altra116

.

116

In particolare, nel caso di specie, la Corte ha negato il ricorrere del giudicato

implicito sulla domanda di risarcimento da mancata contribuzione per effetto del giudicato

esplicito di rigetto sulla domanda di risarcimento da mancata retribuzione, affermando essere

di fronte a «domande che, pur unificate da una comune istanza risarcitoria, sono dirette al

conseguimento di beni giuridici distinti e si fondano su fatti costitutivi autonomi». La Corte

osserva infatti che, pur fondandosi le due domande su un presupposto comune (rapporto di

lavoro) il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile resta circoscritto entro

i limiti della controversia svoltasi fra le parti, per come in concreto segnati dal petitum e dalla

causa petendi della stessa, ed implica che fra la questione decisa in modo espresso e quella

che si vuole essere stata risolta implicitamente sussista un rapporto di dipendenza

indissolubile, tale da determinare l’assoluta inutilità di una decisione sulla seconda questione,

e che la questione decisa in modo espresso non sia stata impugnata. L’elemento veramente

decisivo, in questo caso, era però dato dal fatto di essere in presenza, in questo caso, di un

giudicato di rigetto della domanda proposta in via principale per la condanna del datore al

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– 261 –

Il criterio del «rapporto di dipendenza indissolubile» tra le questioni, al

fine di stabilire se una decisione espressa su una questione dipendente

comporta un giudicato implicito sulla questione pregiudiziale serve,

prevalentemente ai fini dell’individuazione dell’operatività del giuidcato

materiale sostanziale.

Nell’ottica endoprocessuale, la categoria è usata abbastanza

impropriamente, al fine di definire empiricamente la formazione delle

preclusioni sui punti di merito, ma non ha senso, perché è illogico ipotizzare

che l’affermazione di una certa qualificazione giuridica comporta l’implicita

negazione, con efficacia di giudicato interno, di tutte le altre possibili

qualificazioni, in mancanza di espressa impugnazione: invero, se si è formato

il giudicato interno sulla qualificazione giuridica del rapporto, perché il tema

non è stato devoluto, direttamente o indirettamente, al giudice

dell’impugnazione, oppure il giudizio di qualificazione può essere in thesi

riformulato, perché non è possibile immaginare un onere a carico della parte

di censurare tutte le possibili ricostruzioni alternative117

. Senza addentrarci in

questo tema assai complesso, ci limiteremo dunque a verificare in che misura

l’attuazione del principio di diritto, che deve guidare il rifacimento del

giudizio di merito, è garantita dalla preclusione all’esame degli antecedenti

logici necessari di merito, che costituisce, riteniamo, uno dei corollari

specifici del princpio di diritto effettivamente, o esiste un giudicato interno

esplicito (su un fatto, su una qualificazione giuridica: non determinato ne

versamento dei contributi assicurativi per il periodo dicembre 1982/luglio 1989, e la

negazione a questo fine della sussistenza del rapporto di lavoro si è ritenuta non valere per la

diversa domanda, proposta in via subordinata, per il risarcimento del danno ex art. 2116,

comma 2, c.c. (quest’ultima domanda da qualificarsi, in difetto di prova delle condizioni per

l’accesso al trattamento pensionistico, come domanda di risarcimento del danno da

irregolarità contributiva. 117

Per interessanti riflessioni su questi temi, GNANI, Se la contestazione

dell’appellante sul solo fatto costitutivo implichi giudicato interno sull’esistenza del diritto:

brevi note in tema di acquiescenza c.d. impropria, effetto devolutivo dell’appello e parte di

sentenza, nota ad App. Torino, 23 maggio 2003, in Giur. it. 2004, 3.

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– 262 –

2.3. Preclusioni sui punti di merito dopo l’annullamento della sentenza per

violazione o falsa applicazione di norme di diritto.

Posto che nel giudizio di rinvio non c’è spazio per il rilievo di nullità

processuali, carenze di presupposti processuali, difetto di condizioni per la

proponibilità della domanda che avrebbero dovuto essere discusse e rilevate

nelle fasi di merito pregresse ovvero censurate in Cassazione e non lo sono

state, si tratta ora di vedere come si configurano i compiti del giudice di

rinvio in relazione al merito della causa passata al suo esame dopo la

pronuncia del principio di diritto in caso di accoglimento del motivo di

ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto ovvero in caso

di accoglimento della censura di cui al n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c.

Partiamo dalla prima ipotesi.

Va premesso, al riguardo, che il discorso è reso più agevole – anche se

non del tutto risolto - dal fatto di impostare il problema dell’emersione dei

materiali di causa da un passaggio da un grado all’altro del giudizio

nell’ottica per cui i motivi specifici di impugnazione servono ad individuare i

punti di fatto e di diritto della sentenza impugnata che si intendono sottoporre

a critica118

; le difficoltà discende da ciò, che, all’interno della «fattispecie»

storica in fase di accertamento, possono esserci diversi profili – anche dotati

di autonomia concettuale ma collegati tra di loro – che incidono nel senso di

spostare l’asse della sussunzione da una norma all’altra; sì da determinare,

118

Salvo che per le questioni di rito, che in occasione dell’accoglimento del vizio di

cui al n. 4 dell’art. 360 c.p.c. pervengono per intero, per così dire, dinnanzi al giudice

dell’impugnazione. Nel senso della «minor pervasività del principio dispositivo in ordine al

“contenuto” delle questioni processuali» che possono essere devolute al giudice

dell’impugnazione rispetto al corrispondente esercizio di impulso alla revisione delle

statuizioni di diritto, sulla base dell’osservazione che «ogni volta che il codice nomina una

questione di rito, anche a proposito del suo riesame in sede di impugnazione, essa è sempre

considerata unitariamente», v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 374; 372, ove alla nt. 641, i

riferimenti normativi contenuti nel codice alle fattispecie processuali: il difetto di

giurisdizione, all’art. 37; le nullità (artt. 156 ss.); l’estinzione (artt. 306 ss.); etc.

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– 263 –

rispetto alla ricostruzione precedentemente articolata, «la ricostruzione di una

fattispecie diversa»119

.

Si dovrebbe, al riguardo, quanto meno partire dall’assunto che, con

riguardo alle questioni di merito che sono «tecnicamente autonome» ma non

«logicamente autonome»120

, il dissodamento, ad opera della Cassazione, del

«punto» comune a più fattispecie astratte ipotizzabili dispone una riapertura,

se è vero che la possibilità di ritenere operante il giudicato implicito,

nell’ipotesi di ricostruzioni/qualifiche giuridiche alternative, appare assai più

difficile da ammettere121

. D’altro canto anche in presenza di una discussione,

119

Per usare la terminologia di DENTI, I giudicati sulle fattispecie, cit., 1347. 120

Cfr. GIUDICEANDREA, Le impugnazioni civili, cit., 66, per il quale le parti di

sentenza «possono essere tra di loro: a) autonome, cioè fondate su presupposti di fatto e di

diritto diversi e tali da rendere a sé stanti le singole parti; b) non autonome, cioè fondate su

presupposti di fatto e di diritto che sono tra loro in relazione tale da far dipendere la

decisione contenuta in una delle parti dalla decisione contenuta in un’altra delle parti stesse.

In questa seconda ipotesi, la decisione contenuta nella parte da cui dipende la decisione

dell’altra costituisce presupposto necessario rispetto a quest’ultima, che può definirsi,

invece, parte dipendente». 121

Ci sembra sia, questa, un’idea che può trarre conforto dalla considerazione – ad

opera di chi, esaminando il complesso meccanismo della devoluzione dei materiali di causa

nelle fasi di impugnazione, ne ha ricavato una sicura ricostruzione in base a cui la parte di

sentenza che rileva, ai fini della impugnazione e dell’acquiescenza parziale, è la «decisione

di questione», sul singolo punto di fatto e di diritto – di quelle che vengono individuate

come deroghe alla tendenziale attitudine «sostitutiva» della pronuncia – anche ad opera della

Cassazione – sulla questione di diritto, ovvero l’essere il dictum in iure della Corte Suprema

la «statuizione-premessa del giudizio rescissorio che vincola positivamente sul punto il

giudice di rinvio»: POLI, I limiti oggettivi, cit. 501, nt. 164, su cui, infra. Ebbene, per questo

A., la regola è la seguente: che la Suprema Corte emette «una pronuncia sostitutiva sulla

singola questione di diritto sostanziale ad essa devoluta, attraverso l’affermazione del

principio di diritto, indipendentemente dalla sussistenza dei presupposti per la pronuncia nel

merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c. novellato: infatti, nelle ipotesi in cui viene censurata la

statuizione relativa alla qualificazione giuridica della fattispecie o alla individuazione della

disposizione applicabile (o del suo contenuto, o di alcuni dei suoi effetti), all’accertamento

del vizio, segue, di regola, poiché in ciò si concreta l’affermazione del principio di diritto,

l’esatta qualificazione giuridica della fattispecie (ciò che sembra inevitabile, ad es., nelle

ipotesi di sindacato della sussunzione di una fattispecie concreta in una disposizione

contenente un c.d. concetto giuridico indeterminato piuttosto che in un’altra del pari

contenente un altro concetto dello stesso tipo) o l’esatta determinazione del contenuto e degli

effetti della disposizione applicabile alla fattispecie»: ID., op. loc. ult. cit. Tuttavia, per Poli,

sono senz’altro ipotizzabili delle eccezioni, in cui tale pronuncia sostitutiva piena non viene

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– 264 –

nelle pregresse fasi di merito, sulla soluzione di singole questioni relative alle

situazioni soggettive portate in giudizio ove non sia richiesta una nuova

decisione, si può discutere se esse passino o no in giudicato122

.

emessa dalla Suprema Corte. Tali eccezioni ricorrono, in particolare, «quando si contesta

l’erroneità della sussunzione effettuata dal giudice di merito, senza indicazione di

un’alternativa, nemmeno attraverso impugnazione incidentale, anche condizionata, e

l’eventuale attività di qualificazione integrativa della Corte finirebbe, inammissibilmente, per

porre a fondamento della decisione una questione diversa a quella sottopostale: qui la Corte

può e deve arrestare il suo dictum all’accertamento dell’erronea sussunzione, attraverso

l’emanazione di un principio di diritto essenzialmente negativo» (ID., op. loc. ult. cit., c.n.).

In proposito, l’a. specifica che «quando invece si contesta la negata sussunzione, da parte del

giudice di merito, invocata nella precedente fase, la Corte, se accoglie il ricorso, nella

maggior parte dei casi provvederà ad indicare la corretta sussunzione, emanando in tal caso

un principio eminentemente positivo, vincolante per il giudice di rinvio»: ID., op. cit., 502,

nt. 164. Inoltre, è dato rilevare che di norma accade che la Corte, trovandosi a valutare

diversi aspetti sollevati con i motivi di ricorso e perciò a pronunciare diversi principi di

diritto, in accoglimento di più motivi ovvero in forza dell’esame congiunto degli stessi e del

loro accoglimento «per quanto di ragione», enunci un unico principio di diritto che risolve

varie ipotesi ricostruttive, ma per definire l’una o l’altra occorre tornare a ricavare un

elemento dalla fattispecie concreta: se si è discusso, nell’arco del processo, sull’attivazione

ed i presupposti della garanzia prestata dal fideiussore, e la Cassazione dice, ad es., che

l’indicazione dell’importo massimo garantito va fatta per iscritto contestualmente alla

fideiussione, qualificata come omnibus secondo la prassi bancaria e riguardata come tale nei

gradi di merito, ma è necessaria, ai sensi dell’art. 1938 c.c., solo se la fideiussione è prestata

in relazione ad un’obbligazione futura, e non nel caso di un’obbligazione condizionale, in

sede di rinvio la questione se l’obbligazione garantita fosse un’obbligazione condizionale

diventa pregiudiziale ed impedisce che si consideri passata in giudicato interno la questione

della validità della fideiussione omnibus se fatta o meno con la contestuale fissazione per

iscritto dell’importo massimo garantito, a nulla rilevando, in termini di validità della

fideiussione, eventuali accordi successivi alla stipula della fideiussione omnibus. V. anche il

caso del principio di diritto preventivo, su cui retro, capitolo I, nt. 119, nella vicenda

esaminata da Cass. civ., Sez. I , 25 febbraio 2009, n. 4587, in cui la Corte decide profili

relativi ai «criteri di determinazione del danno subito dagli investitori (…) e di

aggiornamento o di adeguamento monetario della somma liquidata dal giudice in ordine

logico successivi rispetto al momento dell’an della responsabilità dei commissari ed esperti,

sul quale il giudice del rinvio dovrà nuovamente a pronunciare», e quindi fissando principi di

diritto apertamente ipotetici, in quanto condizionati da una cronologicamente successiva

valutazione sull’an della pretesa da parte del giudice di rinvio. 122

Al riguardo, nel riflettere sulle conclusioni raggiunte da RASCIO, op. cit., 242,

sull’ipotesi in cui oggetto di dibattito sia la soluzione di singole questioni giuridiche relative

alle situazioni soggettive portate in giudizio, ipotesi per cui Rascio riconosce la formazione

del giudicato interno ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c., ove non venga richiesta una

nuova decisione su tali questioni in appello, Poli pone dei distinguo: «questa soluzione»,

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– 265 –

La premessa è necessaria perché, a fronte del punto di diritto della

sentenza del giudice a quo rescisso, si tratta di stabilire cosa c’è di vincolato

dalla pronuncia di cassazione e se e quale dibattito si possa considerare

riaperto; la disciplina di cui all’art. 336, comma 1, c.p.c., secondo cui la

riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza

dipendenti dalla parte riformata o cassata, la quale consente la devoluzione al

giudice dell’impugnazione dei capi di sentenza dipendenti da quello su cui

incide il motivo accolto nei limiti in cui ciò serva a coerenziare le parti

dipendenti da quelle incise e riformate, si deve confrontare con la possibilità

che, in cassazione, la rescissione operata su un punto (in luogo della

decisione nel merito, resa sulla base dei fatti accertati e pienamente

sostitutiva) pone un diaframma tra l’attività di individuazione e di

interpretazione della norma e quella di applicazione della norma ai fatti da

accertare e da rivalutare (in casi marginali, da istruire ex novo).

La circostanza che, verificata dalla Corte Suprema l’erroneità

dell’interpretazione della disciplina applicabile alla fattispecie ovvero secondo l’a., «può essere condivisa solo per le ipotesi di attore soccombente che non chiede,

con l’atto di appello, il riesame di alcune domande rigettate … non anche per le ipotesi di

appello proposto dal convenuto soccombente, nelle quali, essendo la fattispecie costitutiva

cristallizzata nella sentenza impugnata – oggetto diretto dell’impugnazione – l’indicazione

dei motivi specifici consente sempre la pronuncia sul merito della situazione giuridica

controversa, ovvero sull’oggetto diretto dell’impugnazione»: così, POLI, I limiti, cit., 36, nt.

58. Questo dovrebbe giustificare non solo la proponibilità dell’eccezione, ma anche il rilievo

d’ufficio della nullità del contratto per cui è causa in fase di appello; che però è uno dei pochi

casi chiari, per quanto riguarda il giudizio di rinvio, di antecedente logico necessario «di

merito» del principio di diritto che riguardi, ad es., l’adempimento del contratto. Secondo la

giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 22 marzo 2005, n. 6170, in Corr. giur. 2005, 962

ss., con nota di MARICONDA, La Cassazione rilegge l’art.1421 c.c. e si corregge: è vera

svolta?; e in Resp. civ. prev. 2006, 1674 ss., con nota critica di PILLONI, La Cassazione e il

rilievo ex officio della nullità tra oggetto del giudicato, principio dispositivo e

corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato), peraltro, la nullità del contratto si pone come

una questione pregiudiziale in senso logico-giuridico (che il giudice decide con effetto di

giudicato anche esterno, si badi) non solo rispetto alle azioni di esatto adempimento, ma

anche rispetto alle azioni di risoluzione, rescissione ed annullamento del contratto

(nell’ambito delle quali, per inciso, viene da un certo orientamento negata la possibilità del

rilievo d’ufficio della nullità del contratto, per via dell’esigenza di non violare il principio

della domanda).

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– 266 –

nell’attività di sussunzione di una certa fattispecie storica sotto una certa

norma giuridica da parte del giudice a quo (quindi in accoglimento del

ricorso ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)123

si verifica, nella maggior parte

dei casi, una sostituzione piena della decisione della questione giuridica da

parte del principio di diritto, che esclude quella sussunzione verosimilmente

indicando la diversa sussunzione che secondo la Corte è corretta, deve fare i

conti con il fatto che lo schema di sussunzione proposto dal principio di

diritto non è necessariamente protetto dal giudicato dal giudicato interno: dal

momento che, per la formazione del giudicato interno, non è sufficiente che

la statuizione non sia oggetto di impugnazione (qui – ovvero nel passaggio

dalla cassazione al giudice di rinvio – per inimpugnabilità) ma è altresì

necessario che essa sia «logicamente autonoma»; mentre, nella ricostruzione

giuridica della fattispecie, gli schemi di sussunzione, di costruzione dei

rapporti norma-fatto, ai fini della dichirazione dell’effetto, si caratterizzano

per essere (inter)dipendenti o alternativi124

. Perché quindi possa

comprendersi appieno il vincolo prodotto dal principio di diritto, è necessario

verificare in che modo il giudice di rinvio mantiene in vita ed applica il

dictum portato dalla sentenza della Suprema Corte (la cui efficacia abbiamo

visto essere, nelle ricostruzioni più convincenti e meno smentibili,

123

Sulle diverse interpretazioni in ordine alla rapportabilità degli errori nell’attività di

sussunzione allo schema della «violazione» o alla «falsa applicazione» di norme di diritto, v.

retro, capitolo 2, nt. 24 nel par. 1.2. 124

C’è bisogno del riconoscimento dell’incapacità di intendere e di volere dell’autore

del danno, perché si possa escludere una responsabilità dell’autore del danno ai sensi dell’art.

2046 c.c., ma se il danno è stato causato, ad es., dal cane del presunto incapace, e si discute

del caso fortuito, che la Corte, interrogata sui presupposti del riconoscimento della colpa

dell’autore del danno nella causazione del proprio stato di incapacità, abbia statuito su cosa

debba intendersi per «colpa» a quel fine può diventare irrilevante se la fattispecie completa

che deve essere esaminata è data dall’art. 2052 c.c. Sulla relatività del concetto di fattispecie,

v. retro, capitolo secondo, nt. 90 nel par. 2.2. Il presupposto comune da accertare è

l’esistenza del nesso di causalità tra il fatto e l’evento dannoso non interrotto dal caso

fortuito: se questo elemento è in discussione, ed è in grado di condizionare l’applicazione

dell’una o dell’altra norma, la pronuncia della Corte sulla fattispecie pregiudicata non passa

evidentemente in giudicato interno. Invero, quasi mai il punto da decidere perviene da solo

innanzi alla Cassazione.

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– 267 –

un’efficacia «interna» di tipo accertativo125

: v. retro, capitolo secondo),

sebbene, per via delle relazioni di implicazione logica dei rapporti di

pregiudizialità-dipendenza di merito, non sia sempre tecnicamente possibile

invocare il giudicato implicito; ad esempio ove siano contemporaneamente in

ballo due fattispecie autonome quanto a presupposti e ad effetti ma c’è un

elemento condizionante comune che è ancora sub iudice126

.

Ciò posto, è noto che, nel dirigere la causa verso la decisione nel merito,

il giudice di rinvio rinviene gli spazi della decisione entro i limiti segnati, da

un lato, dalla pronuncia di annullamento e, dall’altro lato, dalle conclusioni

rassegnate dalle parti nel giudizio di provenienza della sentenza cassata.

A questa stregua, va evidenziato il ruolo che l’art. 394 c.p.c. svolge nella

definizione dei poteri del giudice in sede di rinvio. Tale norma, come noto,

impone alle parti di non prendere conclusioni di diverse da quelle prese nel

giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata, salvo che la «necessità»

125

Sono infatti culturalmente lontani i tempi in cui predominava «una concezione

limitata della pronuncia di cassazione», che dava «esclusiva accentuazione dell’effetto

rescindente, quasi che in esso si esaurisse ogni efficacia»: così, CERINO CANOVA, Le

impugnazioni civili, cit., 484, proseguendo: «Indubbiamente tale impostazione è anche nella

legge, che identifica la statuizione della S. Corte proprio per il suo portato cassatorio (v. artt.

382-384). L’accentuazione di questa prospettiva sacrifica però una dogmatica concezione

della sentenza, perché ne pretermette un profilo che le compete come provvedimento

giurisdizionale: e dunque, la funzione di attuare concretamente il diritto. Rispetto a questa

più completa visione, non è sufficiente affermare che la sentenza cassa ovvero rescinde.

Piuttosto, si dovrebbe dire che essa rende concreta un’astratta volontà di legge, la quale

prevede la cassazione» (ID., op. cit., 484). L’Autore, in conclusione, rifacendosi al

tradizionale insegnamento secondo cui ad ogni sentenza costitutiva compete anche un effetto

di accertamento, recupera da BÖTTICHER, Der Zwischenurteilscharakter des gemäss § 565

ZPO aufhebenden und zurückverweisenden Revisionsurteils und die sich hieraus ergebende

Erstreckung der Bindung auf die Zurückweisung von Revisionsangriffen, in MDR, 807, nt. 3,

una considerazione intorno ad analoghe questioni nel corrispondente rimedio tedesco che

trova anche da noi calzante: e cioè che «molti dei problemi relativi agli effetti vincolanti

della pronuncia in Revision sono scaturiti da una concezione meramente ablativa della

rescissione» (CERINO CANOVA, op. ult. cit., 486, nt. 156). 126

«La dipendenza “di merito” ha dunque sempre rilevanza ai fini dell’effetto

devolutivo allargato e dell’effetto espansivo esterno – anche quando l’elemento

condizionante sia un mero elemento della fattispecie o una questione preliminare di merito »:

così, POLI, I limiti oggettivi, cit., 46.

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– 268 –

delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione: ebbene, il fatto

cioè che la norma non guardi alle «possibilità» consentite dalla sentenza di

annullamento, ma alla «necessità» di un riadeguamento delle posizioni delle

parti, che sorge evidentemente da un’impossibilità di mantenere le vecchie

conclusioni ed il nuovo principio di diritto (ad es., nel caso della sentenza

della terza via) impone di verificare in che modo l’efficacia accertativa della

pronuncia di annullamento della Suprema Corte configura i poteri di

cognizione residua del giudice di rinvio (al netto delle preclusioni da

giudicato interno, anche implicito), e di verificare le differenze che il giudice

di rinvio incontra nella definizione della causa rispetto al giudice di merito di

una fase antecedente alla cassazione, tenendo presente che il riscontro del

vizio in iure, se è necessario il rinvio, pone un diaframma tra l’attività di

individuazione e di interpretazione della norma e quella di applicazione della

norma ai fatti che la Corte impone di rivalutare (solo eccezionalemente di

istruire ex novo). Rispetto ai quali il giudice di rinvio può essere sia colui che

accerta, appunto, sia colui che verifica come “storiografo”, se così si può

dire; questo dato deve essere valutato alla luce del fatto che, in sostanza, non

sono solo i meccanismi di giudicato interno e di giudicato implicito che

possono offrire una spiegazione al carattere chiuso del giudizio di rinvio.

2.4. Riguardo al metodo del giudice di rinvio

V’è a questo punto, una riflessione da svolgere, che riguarderebbe, in

principio, la teoria dell’interpretazione, ma che può essere per sommi capi

affrontata ai fini pratici che qui interessano, cioè allo scopo di dare una

risposta all’interrogativo relativo a quale siano i compiti del giudice di rinvio

in rapporto al giudizio di sintesi tra il dictum della Suprema Corte e la

fattispecie concreta: tale riflessione concerne il rapporto tra fatto e diritto. Per

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– 269 –

descrivere questo rapporto, si è ampiamente dimostrato essere inattendibile lo

schema del sillogismo giudiziale127

, in quanto eccessivamente semplicistico.

Al fine di porre l’attenzione sul contenuto del giudizio di diritto, appare

quindi preferibile indicare, in termini generalissimi, con l’espressione «fatto»

«tutto e soltanto ciò che riguarda l’accertamento della verità o falsità dei fatti

empirici rilevanti, salvo ciò che concerne l’applicazione di norme relative

all’ammissibilità e all’assunzione delle prove, o di norme in tema di prova

legale», e con quella di «diritto» «tutto ciò che concerne l’applicazione di

norme»: è con questi strumenti concettuali preziosamente elementari che lo

studio acutissimo del Taruffo128

, che vorremmo brevemente richiamare, sulla

natura dell’organo di cassazione introduce all’analisi del giudizio di diritto. I

punti di vista dai quali può essere riguardato il giudizio di diritto, avverte

l’autore, sono molteplici.

In primo luogo, v’è da considerare la prospettiva classica, ovvero

A) la prospettiva della teoria dell’interpretazione/applicazione della

legge: essa «configura la formulazione del giudizio di diritto nel modo che

segue: a1) scelta della norma applicabile, a2) interpretazione di essa come

ascrizione di significato (o di più significati, con relativa scelta) all’enunciato

normativo; a3) qualificazione giuridica dei fatti concreti secondo la

fattispecie astratta prevista dalla norma [ossia, sussunzione, n.d.r.], a4)

determinazione delle conseguenze giuridiche previste dalla norma» e riferite

al caso di specie129

.

Ebbene, le attività di cui ad a1) e a2) sono sicuramente attività di

interpretazione delle norme giuridiche; a3) potrebbe essere la prima fase

dell’applicazione del diritto, che si completa con a4). In quella descritta sub

a2 potrebbe essere anche ricompresa l’attività di individuazione e

127

TARUFFO, Il vertice ambiguo, Bologna 1991, 118. 128

TARUFFO, op. loc. ult. cit. 129

TARUFFO, op. loc. ult. cit.

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– 270 –

concretamento del contenuto delle cd. clausole elastiche, o delle norme in

bianco.

L’attività sub a4 è certamente attività di applicazione del diritto, e si

può osservare che la Corte Suprema la pone in essere solo, ai sensi dell’art.

384 c.p.c., quando decide la causa nel merito in mancanza della necessità di

ulteriori accertamenti di fatto.

B) Il secondo punto di vista dal quale si può osservare il giudizio di

diritto è quello che fa riferimento alla scuola dell’ermeneutica tedesca: essa

mette in evidenza l’aspetto circolare o «a spirale» della ricostruzione del

rapporto norma-fatto; in questa prospettiva, la qualificazione giuridica del

fatto non è tanto un passaggio deduttivo o sussuntivo, quanto piuttosto

l’effetto di un procedimento inverso: è la scelta della norma da applicare a

rappresentare la conseguenza di come si «costruisce il caso», così che «le

scelte interpretative sono spesso la conseguenza, più che la premessa, della

fattispecie concreta che deve essere qualificata giuridicamente»130

. Questo è

evidentemente il punto di vista del giudice del merito, che deve ricostruire in

termini giuridici la fattispecie.

C) Il terzo punto di vista è quello della motivazione in diritto, che

costituisce la giustificazione ex post della decisione presa che esprime un

processo di razionalizzazione a posteriori della scelta, più che fornire un

resoconto della sua genesi131

: questo è il punto di vista del giudice che deve

dare una motivazione alla decisione che ha presa. Infine, va considerato

D) il quarto punto di vista, che è quello del controllo del giudizio di

diritto formulato da un altro giudice (quindi il tipico controllo di un giudice

sull’operato di un altro, come quello che la Cassazione realizza sulle sentenze

dei giudici di merito contro le quali viene proposto ricorso). Nel formulare

questo tipo di giudizio di diritto, il giudice non riparte da zero, «per decidere

130

TARUFFO, op. cit., 119; ivi, anche i riferimenti ai rappresentanti della scuola

ermeneutica tedesca: Hassemer, Kaufmann, Larenz, Hruscka, Esser. 131

TARUFFO, op. loc. ult. cit.

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– 271 –

“originariamente” il caso»132

, ma ripercorre la tappe del giudizio già svolto

dall’altro giudice: anzitutto con una verifica della tenuta logica della

motivazione; poi con un controllo sulle ragioni e sulla loro correttezza sotto il

profilo giuridico dell’interpretazione e, ancor prima, della scelta della norma

applicata: «si può dire probabilmente che la Cassazione fa l’inverso del

cammino seguito dal giudice di merito; posto il fatto come vero, si controlla

se esso è stato correttamente qualificato sotto il profilo giuridico, il che

rimanda a sindacare l’interpretazione della norma applicata, ed

eventualmente anche a verificare se è stata giusta la scelta della norma

applicabile; se tutto ciò ha esito positivo, il sindacato può investire le

conseguenze giuridiche tratte da quella applicazione di quella norma al

fatto»133

.

Ripercorrendo all’inverso il ragionamento giustificativo, la Corte potrà

verificare se concorda o meno con le ragioni che sono addotte dalla sentenza

nel giudizio giuridico; controllare, in caso di esito negativo, se il punto di

giudizio relativo a quell’argomentazione carente costituisce un vizio di

merito; infine procedere all’annullamento o limitarsi a correggere la

motivazione secondo che il vizio ci sia oppure no. In ogni caso, ripercorrere a

ritroso i singoli passaggi nei quali si è articolato il singolo giudizio di diritto,

la Corte può verificarne la correttezza. Se la verifica ha esito positivo, nulla

quaestio. Se la verifica ha esito negativo, si pone l’esigenza di riformulazione

del giudizio di diritto, e quindi dell’attività – di applicazione della norma

scelta ed interpretata – che si svolge secondo lo schema ermeneutico sub A.

Posta questa premessa per inquadrare il tipo di attività di giudizio

disimpegnata dalla Cassazione, lo schema può essere utilizzato per cercare di

inquadrare l’attività del giudice di rinvio. Se la Corte procede al rinvio ai

sensi dell’art. 383 è perché, controllando le argomentazioni svolte dal giudice

a quo ha rinvenuto un passaggio non convincente della sentenza, ha

132

TARUFFO, op. cit., 120. 133

TARUFFO, op. cit., 121.

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– 272 –

riscontrato delle ragioni giuridiche erronee e non fungibili con altre corrette

con conseguente erroneità del dispositivo, ritenendo perciò di dover

riformulare il giudizio, di scegliere un’altra norma applicabile ovvero di

interpretare diversamente quella posta a base della decisione erronea.

Dopodiché, si deve passare alla fase dell’applicazione della norma ai

fatti di causa: e qui potrà darsi che, trattandosi di un’operazione automatica,

la Corte possa effettuare il passaggio dall’astratto al concreto senza dover

svolgere nuovi apprezzamenti di fatto, allorquando la premessa di diritto

(ri)formulata si trovi, ad es., a ridosso di un fatto semplice, già accertato e

non più contestabile134

. Diversamente, in presenza della necessità di nuovi

accertamenti, sarà necessario rimettere la decisione della causa al giudice di

rinvio.

Nel momento in cui il giudice di rinvio riceve il principio di diritto a

cui dare applicazione, dunque, egli deve in pratica realizzare una sintesi tra

una certa premessa di diritto, sorta dall’analisi e dal rifacimento del giudizio

sulla questione di diritto svolti dalla Corte Suprema, ai fatti rilevanti per

quella causa. Si potrà trattare, secondo i casi: a) di fatti “nuovi” rispetto al

processo, ossia di accadimenti ed elementi storici non considerati rilevanti

nelle pregresse fasi di merito ed il cui ingresso, nel giudizio di rinvio, è reso

necessario dalle aperture consentite dalla pronuncia di annullamento (arg. ex

art. 394 c.p.c.); b) ma, più spesso, di fatti molteplici i quali, sebbene in ipotesi

pacifici, non contestati o in qualunque modo provati, necessitano di

rivalutazione complessiva, alla luce della diversa qualificazione giuridica

offerta dalla Suprema Corte alla fattispecie dedotta nel giudizio (ed è in

effetti dubbio che, in tali casi, la Cassazione possa decidere nel merito,

procedendo ad una nuova valutazione della fattispecie); c) di fatti che furono

134

Come nel caso in cui, stabilita la Corte Suprema una certa decorrenza del termine

prescrizionale, anteriore a quella prescelta dalla sentenza impugnata, la verifica della

scadenza del termine dell’eccepita prescrizione può essere considerata come frutto della

sussunzione di fatto semplice alla premessa di diritto formulata dalla Corte, sicché è

necessario evitare di disporre inutilmente il rinvio.

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– 273 –

temi di allegazione od anche oggetto di offerta di prova, quindi già introdotti

nel processo, per i quali è necessario stabilire, alla luce della premessa di

diritto formulata dalla Suprema Corte, se è stata o no raggiunta la prova; se

c’è stata, o meno, contestazione, ecc …

Ebbene, in questa prospettiva, l’attività del giudice di rinvio non si

presta ad essere compiutamente inquadrata in uno dei modelli indicati di

attività di giudizio, in quanto è un’attività, per un verso, di completamento (di

applicazione della norma ai fatti) del giudizio altrui (del giudizio della

Suprema Corte); per altro verso, salvo il caso – raro – sub a) di esigenze

istruttorie relative a fatti semplici “nuovi” al processo, è un’attività di ri-

valutazione dei fatti (la quale non può non essere un’attività mediata che si

estrinseca nel controllo del giudizio di fatto del giudice di merito pregresso),

dove però il rapporto norma-fatto è prestabilito, per via dell’esistenza del

principio di diritto, e la ricostruzione dei fatti deve “servire” alla

qualificazione giuridica somministrata dalla Suprema Corte.

Dunque, entrambe le attività del giudice di rinvio si svolgono nel solco

tracciato dal principio di diritto; dal punto di vista dello spazio decisorio, il

giudice di rinvio interviene in relazione al punto di merito su cui il principio

viene pronunciato, dovendo e potendo esaminare tutte diverse questioni che

da lì si diramano; dal punto di vista della ricostruzione storica, dovrà andare

alla ricerca degli elementi di fatto atti ad essere sussunti e comunque rilevanti

alla luce del giudizio di diritto già formulato. Ad esempio, se la Corte ha

fornito una certa qualificazione giuridica, il giudice di rinvio dovrà affrontare

una serie di questioni intermedie, che è necessario porre per procedere alla

«scelta dei fatti semplici» da sussumere sotto quella qualificazione

giuridica135

, e dunque riconsiderare i fatti non solo in relazione alla questione

135

Terminologia di Siracusano, ripresa da POLI, I limiti oggettivi, cit., 348, nt. 565.

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– 274 –

tecnica centrale ma anche alle singole sottopremesse, le quali andranno

istruite a loro volta136

.

La stabilità del principio di diritto (o meglio, la sua applicazione al caso

da definire in sede di rinvio) è assicurata appunto da ciò, che, da un lato, non

si rimettono in questione i presupposti di fatto/diritto che hanno portato la

136

Cass., 27 ottobre 2010, n. 2196 è una sentenza dalla quale tutti questi profili della

cognizione del giudice di rinvio emergono con nettezza, perché è un caso in cui il ricorrente,

riportando la causa una seconda volta in Cassazione, mirava a far dichiarare la violazione dei

principi di diritto affermati nella prima sentenza di cassazione e nel contempo a censurare

una serie di vizi ulteriori: l’esame di tale pronuncia dà la misura dell’ampiezza che in quel

caso è stata riconosciuta alla cognizione del giudice di rinvio. Il principio di diritto che era

stato in prima battuta somministrato al giudice di rinvio era del seguente tenore: per negare

applicazione alla clausola di salvezza dell’art. 742 c.p.c. (in virtù della quale, a fronte della

revoca o alla modifica di un decreto – nella specie, di autorizzazione ad una vendita di un

bene di un minore – sono fatti salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede in forza di

convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca) è sufficiente la conoscenza, da parte

dell’acquirente, della frode ordita dall’infedele amministratore dell’eredità condizionata, che

sia attuata mediante la vendita di un immobile; non è necessaria, invece, la partecipazione o

comunanza o concerto dell’acquirente in relazione alla frode. Questo essendo il principio da

applicare, il giudice di rinvio procedeva ad esaminare la questione della conoscenza della

frode da parte dell’acquirente attraverso l’esame di una serie di sottoquestioni: in primo

luogo, le ragioni dell’occultamento di gran parte del prezzo pagato (chiedendosi se il

pagamento “sottobanco” di gran parte del prezzo fosse una semplice modalità di pagamento

dettata da ragioni di risparmio fiscale oppure rappresentava il mezzo per occultare

clandestinamente l’attuazione di una operazione incompatibile con il regime autorizzatorio al

quale l’atto doveva soggiacere, a tutela del minore istituito erede; valutando la circostanza

che l’impegno finanziario dell’acquirente, ulteriore e diverso rispetto a quello richiesto nel

decreto di autorizzazione, era servito a soddisfare debiti per i quali erano state iscritte

ipoteche sull’usufrutto dell’immobile venduto, onde verificare se, con la corresponsione

“sottobanco” di somme al venditore e da questi fatte proprie, l’acquirente avesse

consapevolmente assecondato il disegno dell’usufruttuario ed amministratore infedele

dell’eredità del minore, permettendogli di pagare suoi debiti personali – che erano garantiti

sul solo usufrutto a lui spettante – anche grazie all’alienzazione della nuda proprietà

spettante al minore, e con ciò sviando l’atto dalle finalità dichiarate nel chiedere

l’autorizzazione); in secondo luogo, la questione se la conoscenza della frode desunta da

comportamenti concernenti soggetti diversi dai legali rappresentanti della società potesse

essere imputata alla società acquirente; infine, se la prova della conoscenza della

macchinazione poteva essere desunta da contegni successivi all’acquisto. La Cassazione

difende l’operato del giudice di merito, dimostrando con ciò di convalidare non solo il

merito, ma anche il metodo seguito dal giudice di rinvio, di revisione in fatto e diritto di

ciascun profilo emergente dal punto di diritto investito dal principio ex art. 384 c.p.c.

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– 275 –

Corte ad una certa ricostruzione della fattispecie ed alla sua qualificazione

giuridica e, dall’altro, il giudice di rinvio tenderà a recuperare e rivalutare –

con un controllo sull’attività dei precedenti giudici – i fatti che la

ricostruzione giuridica fatta propria dalla Corte ritiene rilevanti, solo in casi

particolari e, diremmo, eccezionali provvedendo all’istruzione dei fatti

ulteriori.

La verifica dell’insussistenza degli elementi di fatto che il principio di

diritto pretende di sussumere costituisce anch’essa applicazione del principio

di diritto, nel senso della negazione degli effetti giuridici legati alla norma

giuridica individuata dalla Corte Suprema nel dictum: se la Corte afferma che

la clausola-oro è nulla e dice al giudice di rinvio di applicare questo

principio, costituirà applicazione di tale principio la verifica, da parte del

giudice di rinvio, che il contratto per cui è causa non contiene una clausola-

oro.

Conclusivamente, sul punto, in quello che potremmo definire il vettore

della formazione della decisione attraverso le varie fasi di impugnazione, che

procede dall’appello, giunge in cassazione e da lì perviene al giudizio di

rinvio, la sintesi tra i fatti e la norma può essere ancora compito del giudice

d’appello (sicuramente, nella forma più libera, è compito del giudice di primo

grado, che è il primo a fornire un inquadramento giuridico alla fattispecie

dedotta dalle parti); a tale sintesi procede ora anche la Cassazione, quando,

accolto il ricorso e dichiarata la norma sotto la quale va sussunta la

fattispecie, non vi sia necessità di «ulteriori accertamenti di fatto»; al giudice

di rinvio spetta invece il compito di completare la ricostruzione della

fattispecie nei termini indicati dalla Suprema Corte, realizzando la sintesi tra

norma e fatti, secondo un modello sussuntivo in qualche modo logicamente

inverso a quello seguito dal giudice d’appello e dal giudice di merito in

generale, che muove dal fatto per arrivare alla norma: partendo dalla norma il

giudice dalla norma, per inquadrare il fatto, logicamente è assai più probabile

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– 276 –

che il giudice accerti la «insussistenza della stessa fattispecie» oggetto del

dictum piuttosto che «l’accertamento di una fattispecie diversa»137

.

2.5. Poteri del giudice di rinvio nel caso in cui la sentenza di annullamento

ha accolto la censura di cui al n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c.

Quella di cui al n. 5 del primo comma dell’art. 360 c.p.c. è, con

riguardo alla configurazione dei motivi di ricorso per cassazione, la censura

che più frequentemente subisce i rimaneggiamenti del legislatore delle

riforme della Cassazione, nella speranza di esiti deflattivi.

I risultati concreti di tali interventi si rivelano tuttavia sempre piuttosto

limitati, perché il motivo in questione tende – per via del suo stesso oggetto

metagiuridico, ossia il controllo della logicità e congruità del giudizio di fatto

– a riempirsi dei contenuti del diritto vivente, più che delle articolate

locuzioni esibite, di volta in volta, dal legislatore.

È, storicamente, nota la sostanziale insensibilità della portata assegnata

dalla Suprema Corte al c.d. vizio di motivazione rispetto alla formula

linguistica utilizzata livello normativo, a causa di radicate tradizioni

dogmatiche sul tema del controllo in cassazione sul giudizio di fatto e di una

prassi autodeterminatrice con cui la Suprema Corte ha da sempre rivendicato

a sé il compito di definire presupposti e limiti di tale potere di controllo, in

forza del proprio – inevitabile – compito di dare contenuto ed applicazione

alla disposizione (art. 132 c.p.c.) che inserisce i motivi, ovvero la

motivazione (ora, le ragioni di fatto e di diritto della decisione) nel contenuto

obbligatorio delle sentenze138

.

Ciò spiega perché difficilmente la dottrina, quando interviene una

modifica sull’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., è disposta ad ammettere

137

Ancora avvalendoci delle parole di DENTI, I giudicati sulle fattispecie, cit., 1347. 138

Contenuto peraltro rapportato al diritto alla motivazione costituzionalmente

garantito nel precetto di cui all’art.111 Cost.

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– 277 –

l’idoneità della riforma a determinare significativi cambiamenti sul piano

pratico; di rado, in effetti, questo scetticismo viene smentito.

Così è avvenuto anche in occasione della riforma del 2005/2006, che ha

modificato l’art. 360, n. 5 c.p.c. nel senso di prevedere che il vizio di omessa,

insufficiente, contraddittoria motivazione debba vertere sopra un «fatto

controverso e decisivo per il giudizio» e non più sopra un «punto decisivo

della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio», come esigeva

la vecchia formula.

La dottrina maggioritaria, a commento di tale modifica, ebbe infatti a

segnalarne la scarsa portata innovativa sul sistema del controllo della

Cassazione sulla motivazione, osservando come all’interno della nozione di

«fatto» contemplata dalla formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. risultante

all’esito della riforma del 2005/2006 si presti ad essere ricompreso «tutto ciò

che finora era ricondotto al “punto”»139

.

In concreto, poi, non si sono registrate sensibili variazioni della prassi

nel trattamento e nella definizione dell’ambito di applicazione della censura

in questione.

È sempre alla riforma del 2005/2006 che si deve l’ampliamento del

potere-dovere della Corte di cassazione di pronunciare il principio di diritto

ai casi in cui essa decide di censure diverse da quella prevista al n. 3 del

primo comma dell’art. 360 c.p.c.; ma anche in questo caso deve riconoscersi

139

Così, SASSANI, Il nuovo giudizio di cassazione, cit., 225 s.; nello stesso senso, tra

gli altri, TARUFFO, Una riforma della cassazione civile?, cit., 780; CARRATTA, Sentenze

impugnabili e motivi di ricorso, 322 ss.; POLI, Il giudizio di cassazione dopo la riforma, cit.,

12; in senso opposto, v. invece, MONTELEONE, Il nuovo volto della cassazione civile, cit.,

947 ss., il quale vede nella riforma una vera restrizione dell’ambito di controllo sulla

motivazione da parte del giudice di legittimità ai fatti costitutivi delle posizioni giuridiche

dedotte in lite e non più al controllo dell’iter logico-giuridico seguito dal giudice a quo.

Anche l’attribuzione della qualifica di «controverso» al fatto non sembra, all’attuazione

pratica, poter escludere la ricorribilità per cassazione per vizio di motivazione sui «fatti

pacifici» ove la carenza motivazionale incida sulla concludenza del fatto stesso. In questo

senso, TARUFFO, Una riforma della cassazione civile?, cit., 780 ss.; CARRATTA, Sentenze

impugnabili e motivi di ricorso, cit., 328; POLI, Il giudizio di cassazione dopo la riforma, cit.,

12 ss.

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– 278 –

che l’impatto innovativo della novella è stato relativo, almeno nel senso che

neanche prima della modifica operata dalla riforma sull’art. 384, primo

comma, c.p.c., si è mai dubitato del fatto che le statuizioni rese dalla Corte in

accoglimento della censura proposta ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.

esplicassero un’efficacia vincolante, quantomeno di natura negativa, in capo

al giudice del rescissorio; un’efficacia che costituiva d’altro canto il portato

diretto di una normatività insita nella stessa sentenza di cassazione, a

prescindere dal motivo di ricorso accolto.

Era – ed è – inoltre pacifico che il contenuto minimo di questa efficacia

vincolante, con riguardo alla pronuncia di accoglimento della denuncia ex art.

360, n. 5, c.p.c., consiste nell’imposizione al giudice di rinvio dell’obbligo di

non ripetere l’iter motivazionale censurato, dovendosi in sostanza escludere

la possibilità, per il giudice di rinvio, di fondare la propria decisione sulla

medesima combinazione apprezzamento di fatto-motivo, ritenuta dalla

Cassazione inidonea a fondare la definizione della controversia140

.

Altrettanto duffusa è l’opinione secondo cui, proprio perché i limiti che

il giudice di rinvio incontra nella decisione della controversia esibiscono,

prevalentemente, natura negativa, l’accertamento del vizio di motivazione

rappresenta l’ipotesi di cassazione della sentenza dalla quale possono

derivare maggiori aperture cognitorie nel giudizio di rinvio.

Se si scorrono i repertori, è facile rilevare che le massime sono

consolidatissime, con riguardo al vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. sia nel

senso di affermare – a conferma del vincolo a contenuto quantomeno

negativo – il principio per cui l’annullamento della pronuncia per difetto di

motivazione impone al giudice di rinvio di giustificare il proprio

convincimento secondo lo schema esplicitamente o implicitamente enunciato

nella sentenza di annullamento e, quanto meno, gli vieta di fondare la

decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti dalla

140

E.F.RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 169 ss.

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– 279 –

Cassazione illogici, gravandolo invece del compito di rimuovere le

contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati; sia nel senso di

ribadire – a riprova della maggiore libertà di cui gode il giudice del rinvio

disposto in accoglimento della censura della sentenza impugnata per vizio di

motivazione – che la pronuncia rescindente, che indichi i punti specifici di

carenza o di contraddittorietà della motivazione della decisione impugnata,

non limita il potere del giudice di rinvio all’esame dei soli punti specificati,

da considerarsi come isolati dal restante materiale probatorio, così che egli

mantiene tutte le facoltà ed i poteri in tema di indagine e di valutazione della

prova che gli competono quale giudice di merito141

.

Da tali massime, emerge con chiarezza l’idea che l’effetto principale

che la sentenza d’annullamento per vizio di motivazione produce rispetto ai

poteri del giudice di rinvio si estrinseca, appunto, nella funzione negativa di

porre al giudice di rinvio il divieto di fondare la decisione di merito sugli

stessi elementi che la Corte abbia ritenuto contraddittori o insufficienti; con

la precisazione che, quando la Corte accoglie la censura di cui al n. 5 dell’art.

360 c.p.c., la sentenza rescindente non si limita ad annullare la sentenza di

merito e a dichiarare decisivo il fatto mal motivato, ma esprime, anche in

maniera implicita, una sorta di «progetto» di iter logico-argomentativo che il

giudice avrebbe dovuto e non ha, invece, seguito, e che il giudice di rinvio è

tenuto a ripercorrere.

141

C’è unità di vedute al riguardo. Ex plurimis, Cass. 14 giugno 2006, n. 13179; Cass.

26 agosto 2004, n. 17004; Cass. 16 maggio 2003, n. 7635 e molte altre. Per la giurisprudenza

penale, v. Cass. pen. 21 giugno 2005, n. 30422; Cass. pen. 4 luglio 2003, n. 36995, la quale

afferma che «nell’ipotesi di annullamento per vizio motivazionale, il giudice di rinvio – pur

restando libero di determinare il proprio apprezzamento di merito mediante autonoma

valutazione dei dati probatori e della situazione di fatto concernente i punti oggetto di

annullamento – è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema

esplicitamente o implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, con il vincolo di

dare alla decisione una motivazione congrua e il divieto di fondarla sugli stessi argomenti dei

quali sia stata dichiarata l’illegittimità o l’illogicità»; nello stesso senso, v. anche Cass. pen.

12 giugno 2002, n. 31449; Cass. pen. 8 ottobre 1997, n. 9476; Cass. pen. 27 marzo 1991,

Schittino.

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– 280 –

In effetti, la motivazione della sentenza di Cassazione che accoglie la

censura di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non è esclusivamente funzionale

all’emanazione della sentenza rescindente, ma è anche idonea ad influire sul

successivo sviluppo del processo, come struttura base – la cui portata varia

secondo lo specifico vizio accertato, come si vedrà tra breve – del più ampio

percorso giustificativo che dovrà essere compiuto dal giudice di rinvio142

.

L’ammissibilità di un effetto vincolante «positivo», per il giudizio di

merito, della pronuncia della Cassazione che accoglie la censura per vizio di

motivazione – di un vincolo, cioè, che supera il contenuto minimo del

divieto, in capo al giudice di rinvio, di fondare la propria decisione sugli

elementi ritenuti insufficienti e contradditori dalla Suprema Corte – si profila

con riferimento alla possibilità che il giudizio di «decisività» del fatto operato

142

Percorso giustificativo che non potrà perciò prescindere dallo schema di

motivazione proposto dalla Corte per introdurre temi di indagine nuovi, pena la violazione

del vincolo; in questo senso, la riapertura della cognizione del giudizio di rinvio è in realtà

limitata, se si ha riguardo alla domanda. Ad es., la Suprema Corte ha censurato, appunto, la

ribellione al vincolo da parte del giudice di rinvio, nella fattispecie all’esame di Cass. 10

maggio 2005, n. 9733: la controversia verteva sulla illegittimità del licenziamento in tronco

intimato al lavoratore (addetto ad un casello autostradale), per aver compiuto taluni illeciti

connessi alla sua posizione lavorativa (era stata accertata l’avvenuta doppia utilizzazione dei

biglietti autostradali). La sentenza cassata aveva negato la legittimità del licenziamento

perché non risultava accertata la imputabilità del comportamento al lavoratore, potendo

l’illecito essere stato commesso dalla postazione di questi, ma durante le pause lavorative

non annotate. La sentenza è stata cassata per vizio di motivazione, che la Corte Suprema

ritenuto insufficiente nella parte in cui non indicava la possibilità che il dovere di

annotazione delle pause lunghe poteva trovare ratio tanto in un obbligo contrattuale, quanto

in un onere del lavoratore, per esonerarlo da qualunque responsabilità, essendo comunque

quest’ultimo l’unico responsabile della sua postazione lavorativa. L’oggetto del rinvio,

conseguentemente, consisteva nell’accertamento della natura dell’obbligo delle annotazioni,

per verificare se il lavoratore fosse sempre responsabile della propria postazione, e se questi

potesse essere esonerato dalla responsabilità dell’illecito solo fornendo la prova che altri

occupava detta postazione al momento dell’allontanamento per una pausa breve. Al

contrario, il giudice di rinvio ha completamente disatteso l’obbligo di seguire le direttive

della Corte, dando alla controversia un’impostazione del tutto nuova, ed introducendo nuovi

temi d’indagine: egli, infatti, ha ritenuto insussistente la responsabilità del lavoratore sulla

base del mancato raggiungimento della prova dell’elemento soggettivo del dolo di

appropriazione. La sentenza è stata, ovviamente, nuovamente impugnata in cassazione ed

annullata con rinvio. V., altresì, Cass. 16 maggio 2003, n. 7635; Cass., sez. un., 28 ottobre

1997, n. 10598. In dottrina, PANZAROLA, La Cassazione civile, vol. II, cit., 563 ss.

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– 281 –

dalla Corte di cassazione debba essere ritenuto vincolante per il giudice di

rinvio.

La giurisprudenza e la dottrina largamente maggioritaria sono orientate

nel riconoscere la sussistenza di tale vincolo143

.

143

In giurisprudenza, nel senso che il giudice di rinvio non possa mettere in

discussione il carattere di decisività del punto, v. Cass. 20 aprile 2005, n. 8244, per la quale

«in caso di accoglimento del ricorso per cassazione per omessa, insufficiente o

contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, il giudice del rinvio

dovrebbe limitare il riesame dei fatti in ordine ai quali il rinvio è stato disposto, alle

circostanze attinenti ai punti decisivi indicati nella sentenza di cassazione e a quelle legate ad

essi da un nesso di dipendenza logica, in quanto anche per la cassazione per vizio di

motivazione vige il principio nel ne bis in idem. Il giudice del rinvio, pertanto, dovrebbe

nuovamente valutare quei punti della controversia ritenuti, nella sentenza di annullamento,

potenzialmente idonei a giustificare una decisione diversa da quella impugnata». In

applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha accolto il ricorso promosso avverso la

sentenza del giudice di rinvio, designato al fine di pronunciarsi sulla responsabilità del

Comune per omessa manutenzione dell’impianto fognario pubblico, rispetto all’allagamento

di un locale commerciale. La sentenza di merito, che aveva escluso qualunque prova della

responsabilità dell’ente territoriale, era stata cassata per omessa motivazione su un punto

decisivo, che nella specie consisteva nel non aver tenuto conto che dalla C.T.U. svolta in

giudizio era emersa l’idoneità dell’impianto privato allo smaltimento delle acque in

situazione di normalità, e non soltanto l’inidoneità dello stesso a fronteggiare situazioni

eccezionali (quest’ultimo profilo della C.T.U era l’unico ad essere stato preso in

considerazione dal giudice di merito). Valutando tale aspetto della controversia, infatti, si

sarebbe potuta configurare una diversa ricostruzione della fattispecie, considerando

l’effettiva incidenza causale di ciascuna concausa nella produzione dell’evento dannoso.

Altro aspetto decisivo della controversia, disatteso dal giudice di rinvio, era l’utilizzabilità, al

fine della ricostruzione dei fatti, dell’accertamento peritale svolto nelle precedenti fasi di

merito, sulla base della convinzione che detta C.T.U. non fosse riconducibile con certezza al

giorno in cui si era verificato l’evento dannoso e risultasse comunque priva di riscontri che

provassero con certezza che il danno era stato provocato dalla condotta omissiva del

Comune. Ancora, il giudice di rinvio aveva omesso di valutare il risultato di una prova

testimoniale, qualificando la testimonianza come generica, profilo negato, poi, in sede

rescindente, ove era stata definita circostanziata e precisa. Unicamente valutando tutti gli

aspetti decisivi già disattesi dalla sentenza d’appello, il giudice di rinvio avrebbe potuto

emettere una pronuncia, anche contraria a quella annullata, ma inimpugnabile nuovamente

per cassazione per vizio di motivazione. Omettendo tali valutazioni, al contrario, il giudice

del rescissorio ha reiterato il vizio logico già rilevato dalla Suprema Corte ed ha esposto la

pronuncia ad un nuovo annullamento con rinvio. Emerge chiaramente la necessità che il

giudice di rinvio esamini, prima di tutto, gli aspetti decisivi relativamente ai quali la sentenza

rescindente ha rilevato il vizio di motivazione, nella fattispecie che ha dato luogo a Cass. 14

giugno 2000, n. 8125, sentenza di cassazione della sentenza del giudice di rinvio il quale,

chiamato a sopperire alle lacune argomentative della sentenza del giudice di merito, ha

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– 282 –

completamente disatteso l’esame dei punti della controversia ritenuti decisivi e mal motivati.

In concreto il giudice di merito aveva riformato la sentenza di risoluzione del contratto per

mancanza delle qualità promesse dei prodotti venduti, senza, peraltro, nulla dire riguardo la

sussistenza nel prodotto delle qualità richieste. Cassata tale sentenza per illogicità della

motivazione per aver omesso qualunque riferimento sulla sussistenza delle qualità, il giudice

di rinvio ha correttamente esaminato preliminarmente il punto in questione, considerando

tutti gli atti di causa dai quali emergeva l’assenza delle qualità richieste, ma ha poi ampliato,

oltre i limiti concessigli, la sua cognizione, negando il diritto dell’acquirente sulla scorta del

rilievo per il quale quest’ultimo conosceva ab initio la mancanza delle caratteristiche de

quibus. Così pronunciandosi, il giudice di rinvio ha messo in discussione un punto della

decisione d’appello la cui cognizione gli era preclusa in quanto costituente un presupposto

del punto decisivo investito dalla censura. In concreto, la questione relativa alla verifica della

sussistenza delle caratteristiche richieste presuppone l’acquisizione del dato per cui l’accordo

si è concluso sulla vendita di beni dotati di quelle qualità. Escludendo tale presupposto di

fatto, il giudice di rinvio, non solo ha travalicato i limiti dei poteri conferitigli, ma ha altresì

destituito il giudizio di decisività sul punto relativo alla sussistenza di dette qualità sul

prodotto venduto. Lo stesso principio si rinviene nella motivazione in Cass. 18 giugno 2003,

n. 9690; Cass. 16 gennaio 1996, n. 308; Cass. 16 marzo 1995, n. 3073; Cass. 13 aprile 1995,

n. 4228; Cass. 19 aprile 1990 n. 3228; Cass. 23 marzo 1988, n. 2540. Nello stesso senso v.

altresì, la risalente Cass. 6 giugno 1967, n. 12647, in Giur. it. 1968, I, 851 ss., con nota di E.

F. RICCI, In tema di cassazione per vizio di motivazione e di vincoli a carico del giudice di

rinvio. In dottrina, v. DENTI, I giudicati sulle fattispecie, cit., 1340; FAZZALARI, Il giudizio

civile di cassazione, cit., 160; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, vol. II,

cit., sub art. 394, 309; ZANZUCCHI, Diritto processuale civile, vol. II, cit., 312; CERINO

CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., 629; REDENTI, Diritto processuale civile, cit., 535, il

quale afferma che il giudice di rinvio è tenuto a prendere in considerazione il fatto ed

accertarne l’esistenza o l’inesistenza (si verum sit) e, nel primo caso, porlo a fondamento

della decisione; MONTESANO-ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, vol. I, cit., 1951. Una posizione del tutto peculiare, al riguardo, pur nella identità di esiti rispetto alla soluzione

maggioritariamente accolta, è quella accolta da Ricci. Egli ritiene infatti che la questione

relativa alla efficacia imperativa del giudizio sulla decisività del fatto ritenuto erroneamente

motivato deriverebbe dall’accoglimento della censura di cui al n. 3, non di quella di cui al n.

5 dell’art. 360 (E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 167 ss.). Ciò in quanto la Corte,

ove valuti che il giudice di merito non ha ritenuto rilevante un fatto, che invece considera

rilevante ai fini della decisione, compie «una vera e propria sussunzione del caso controverso

entro schemi normativi», operazione che rientrerebbe logicamente nel giudizio sul vizio

rientrante nell’art. 360 n. 3 c.p.c.: così, E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 168, il

quale osserva che lo stesso rilievo non si sarebbe potuto muovere alla originaria

formulazione dell’art. 360, n. 5 c.p.c., che integrava il contenuto del vizio di motivazione con

l’omesso esame di fatti decisivi, e quindi proprio con l’erronea valutazione circa la rilevanza

di un fatto che, alla luce della riformulazione della norma nel 1950, può, invece, configurare

una ipotesi di violazione di norme di diritto: ID., op. ult. cit.,168, nt. 163. Il vizio di

motivazione, invece, atterrebbe ad un momento successivo a quello del giudizio sulla

rilevanza di un fatto: riguarderebbe le argomentazioni poste a sostegno del giudizio

sull’inesistenza o inesistenza del fatto che il giudice di merito ha ritenuto rilevante (E.F.

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– 283 –

Non mancano, peraltro opinioni discordi, che tuttavia appaiono

fortemente condizionate da una concezione meramente rescindente del

giudizio e della sentenza di cassazione144

; ci sembra peraltro di aver chiarito

le ragioni per cui tale concezione non appare condivisibile.

L’opinione maggioritaria sembra invece omologabile nella misura in

cui si aderisca ad una nozione di «decisività di un fatto» intesa sì come

idoneità a giustificare una decisione diversa da quella impugnata, ma in senso

solo «potenziale»145

: in tal modo, dire che nel giudizio di rinvio deve tenersi

RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 168; ID., In tema di cassazione per vizio di motivazione

e di vincoli a carico del giudice di rinvio, cit., 853. Conseguentemente, il divieto per il

giudice di rinvio di tornare a discutere sulla decisività del fatto, in presenza

dell’accoglimento della censura di cui al n. 5 da parte della Cassazione, non sarebbe

riconducibile al dictum della Cassazione, ma alla preclusione del potere di rimettere in

discussione punti logicamente antecedenti a quello colpito dalla censura accolta (E.F. RICCI,

Il giudizio civile di rinvio, cit., 168). 144

In posizione nettamente critica all’orientamento dominante, che afferma il

carattere vincolante della statuizione sulla decisività del punto, si pone, ad es., TAVORMINA,

Contributo, cit., 232. La soluzione che nega qualunque forma di vincolo in capo al giudice di

rinvio derivante dalla sentenza di cassazione si inserisce nell’ottica più ampia assunta dall’a.

in merito alla configurazione del giudizio di cassazione come mezzo puramente rescindente:

per cui il giudizio sulla decisività del punto è una valutazione interna al ragionamento che ha

compiuto il giudice e che non può avere alcuna efficacia all’infuori di questo, anche in

ragione della natura del fatto ritenuto decisivo, il quale potrà essere sia un fatto principale

costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo del diritto, sia un fatto secondario posto o da

porre a fondamento di una presunzione ai fini dell’accertamento del fatto principale: di

conseguenza, a meno di non voler attribuire al fatto secondario la capacità di sopravvivere

all’esterno del ragionamento del giudice per dargli vincolatività nel giudizio di rinvio, ed a

non voler ammettere che il giudizio sulla decisività su un fatto principale abbia un’efficacia

più profonda rispetto al medesimo giudizio su un fatto secondario, se ne deduce che in ogni

caso il giudizio sulla decisività del fatto è destinato a stare e a cadere con la motivazione del

giudice a quo, come segmento del ragionamento che ha condotto alla decisione, che perde

ogni efficacia ove l’intero iter logico del giudice sia caducato dalla sentenza di cassazione. 145

In tal senso, Cass. 20 aprile 2005, n. 8244. Per questa condivisibile nozione di

decisività non sembra cogliere del tutto nel segno la correzione che all’interpretazione

dominante sembra voler apportare ANDRIOLI, Commento, vol. II, cit., sub art. 384, 583,

quando sostiene che il giudice di rinvio è sì tenuto a riesaminare il fatto colpito dalla censura

della Corte, ma non anche a ritenerlo decisivo, in quanto il vizio di motivazione «suppone

una certa scacchiera di fatti, ma nulla esclude che l’ampliamento di tale scacchiera, reso

possibile nell’ambito proprio del giudizio di rinvio, muti la correlazione e privi di decisorietà

il punto che la Cassazione aveva ritenuto decisivo»; nello stesso senso MICHELI,

L’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di cassazione, cit., 32, nt. 1, il

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– 284 –

fermo il giudizio di decisività del fatto, equivale, in un certo senso, a dire ciò

che la giurisprudenza ripete costantemente anche a prescindere dal problema

della decisività del fatto, ossia che la sentenza che dichiara fondato il vizio di

cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. impone al giudice di rinvio di giustificare il

proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente o implicitamente

enunciato nella sentenza di annullamento, e quindi di passare

necessariamente attraverso il nuovo esame del fatto decisivo e per la

chiarificazione delle ragioni per cui esso viene eventualmente ritenuto

inidoneo a determinare una diversa soluzione della quaestio facti e della

controversia, secondo la prospettazione del ricorrente.

Orbene, dal breve excursus che precede, emerge che, in relazione al

giudizio di fatto per il quale è disposto il rinvio in seguito al riconoscimento

della fondatezza, ad opera della Corte, del c.d. vizio di motivazione, il

giudice del rescissorio risulta vincolato su un triplice fronte: i) nel non dover

fondare la propria decisione sugli stessi elementi ritenuti inidonei ed

insufficienti dalla Suprema Corte, ciò che si tradurrebbe in una illegittima

ripetizione del vizio censurato; ii) nel dover ritenere decisivo il fatto

considerato come tale dalla Suprema Corte, implicitamente o esplicitamente,

(limite, questo, che si concretizza nella necessità, per il giudice di rinvio, di

riesaminare il fatto prospettato come decisivo dalla sentenza di cassazione e

nel conseguente onere, a carico del giudice di rinvio, di fornire un’adeguata e

congrua motivazione circa la ritenuta inidoneità di tale elemento decisivo a

fondare la revisione del giudizio di fatto nella direzione indicata dal

quale osserva che l’efficacia vincolante del dictum della Corte è affievolita nel caso di

cassazione ex art. 360, n. 5, c.p.c.rispetto all’imperatività che esso ha, sul nuovo giudice, nel

caso di cassazione per violazione di norme di diritto, in ragione dell’osservazione per cui, se

è vero che il giudice di rinvio deve ritenere un fatto come decisivo, ove ciò sia detto dalla

sentenza di cassazione, non si può, tuttavia, escludere che lo stesso giudice di rinvio fondi

poi la propria decisione su altri fatti che ritenga decisivi e che escludano la decisività del

primo.

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– 285 –

ricorrente) iii) nel dover procedere comunque ad argomentare la propria

decisione secondo lo schema desumibile dalla sentenza rescindente.

Ebbene, questi limiti alla cognizione del giudice di rinvio, desumibili

della sentenza di cassazione che accoglie la censura per vizio di motivazione,

si atteggiano, nel loro portato pratico, in maniera differente a seconda del

vizio che sia stato in concreto accertato.

Qualora, infatti, il vizio si concreti in omessa motivazione, il giudice di

rinvio dovrà «riapprezzare gli elementi di valutazione concernenti il fatto

interessato dal vizio e, quale che sia il suo convincimento al riguardo,

indicare approfonditamente gli elementi dai quali ha tratto il proprio

convincimento»146

.

In caso di omesso esame di un fatto, ovvero di omesso esame di un

documento o di un’istanza istruttoria, il giudice di rinvio «dovrà riapprezzare

gli elementi di valutazione del fatto tenendo conto degli elementi di fatto o

146

POLI, I limiti oggettivi, cit., 505. In questo senso, v. Cass. 16 gennaio 1996, n. 308;

la controversia in esame verteva sulla computabilità, ai fini della quantificazione

dell’indennità di anzianità e del T.F.R., degli emolumenti aggiuntivi corrisposti al lavoratore

nel periodo di collocazione lavorativa all’estero; la sentenza cassata aveva affermato la

natura retributiva delle somme corrisposte nel periodo di collocazione lavorativa all’estero, e

ne aveva dichiarato la computabilità nel T.F.R. La Suprema Corte ha rilevato che la sentenza

di merito aveva completamente omesso di motivare il punto relativo alla natura delle voci di

indennità estero. La sentenza rescindente ha, poi, indicato i criteri interpretativi della norma

relativa al trattamento di ciascuna voce dell’indennità estero, stabilendo che la natura

retributiva e la conseguente computabilità nel T.F.R. potevano essere riconosciute alle sole

erogazioni connesse alla professionalità del lavoratore. Il giudice di rinvio, operando una

nuova valutazione di tutti gli elementi di causa, ha escluso la natura retributiva di una sola

delle voci componenti l’indennità estero, in particolare l’indennità di disagio, proprio

applicando i criteri interpretativi forniti dalla sentenza rescindente, e rilevando che la ratio di

detta voce non fosse riconducibile alla professionalità del lavoratore. La sentenza del giudice

di rinvio è stata nuovamente sottoposta al vaglio della Suprema Corte, la quale ne ha

confermato la legittimità, argomentando sulla base del rilievo per cui la regola interpretativa

posta dalla sentenza rescindente era senz’altro vincolante, ma limitatamente alla corretta

interpretazione della norma di legge e non anche alla sua applicazione alla fattispecie

concreta, essendo la sussunzione della fattispecie concreta nella norma astratta un

procedimento logico oggetto del libero riesame affidato alla nuova autorità giurisdizionale,

quando il rinvio sia avvenuto per omessa motivazione. Il giudice di rinvio può, pertanto,

liberamente apprezzare il fatto, attenendosi ai criteri forniti dalla Suprema Corte unicamente

nella formulazione del giudizio di diritto.

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– 286 –

istruttori trascurati nella sentenza impugnata ed esprimere il proprio

convincimento, anche identico, a quello del primo giudice»147

.

Infine, in caso di insufficiente o contraddittoria motivazione, egli

«dovrà riapprezzare gli elementi di valutazione concernenti il fatto

interessato dal vizio»148

.

147

L’obbligo per il giudice di rinvio di esaminare gli elementi trascurati dalla

sentenza di merito annullata è frequentemente affermato in giurisprudenza. In questo senso

v. Cass., sez. un., 28 ottobre 1997, n. 10598, che ha rigettato il ricorso avverso la sentenza

del rinvio, disposto per vizio di motivazione della sentenza di condanna emessa dal

Consiglio Superiore della Magistratura in un procedimento disciplinare contro un magistrato

che aveva preso parte ad una loggia massonica. Il vizio di motivazione censurato consisteva

nell’omesso esame di elementi dai quali avrebbe potuto emergere la non consapevolezza, da

parte del magistrato, dell’incompatibilità tra il suo status lavorativo e la sua permanenza

nella Massoneria. La sentenza di rinvio, effettuate le valutazioni richieste dalla sentenza

rescindente, ha confermato la condanna del magistrato; la sentenza rescissoria è stata

impugnata in cassazione per mancato adeguamento al dictum della sentenza rescindente,

sotto il profilo che l’indicazione fornita dalla Corte integrasse un principio di diritto,

vincolante per il giudice di rinvio. La censura mossa dal ricorrente è stata rigettata dalla

Suprema Corte, in ragione del principio per cui la cassazione per vizio di motivazione non

vincola il giudice di rinvio all’uniformazione a quanto stabilito dalla sentenza rescindente,

che non presuppone, da parte della Suprema Corte, un riesame delle risultanze istruttorie per

sostituire il proprio convincimento a quello espresso dal giudice di merito, ma soltanto un

vaglio di eventuali lacune e contraddizioni logiche che inficiano la motivazione di fatto.

Relativamente all’obbligo del giudice di rinvio di esaminare gli elementi istruttori trascurati

dal giudice che ha emanato la sentenza cassata, v. Cass. 23 marzo 1988, n. 2540; nel caso di

specie la Suprema Corte ha confermato la sentenza del giudice di rinvio chiamato a decidere

la questione relativa alla titolarità di un pacchetto di titoli di credito emessi da un istituto di

credito estero in capo ad una delle parti, la quale era stata trovata in possesso di un

documento da cui risultavano detti titoli di credito. La sentenza di merito aveva escluso il

raggiungimento della prova della titolarità dei titoli di credito in questione ed era stata

cassata per omesso esame di tutti gli elementi indiziari sfavorevoli alla parte (tra cui il

principio dell’id quod plerumque accidit). Conseguentemente, il giudice di rinvio ha

correttamente riesaminato tutti gli elementi ed ha affermato la titolarità dei titoli di credito in

capo alla parte per la quale era stata precedentemente esclusa. 148

In giurisprudenza, sul dovere del giudice di rinvio di riapprezzare gli elementi

viziati da insufficiente motivazione, v. Cass. 19 aprile 1990, n. 3228, ove la Suprema Corte

censura la sentenza del giudice di rinvio che non aveva compiuto gli accertamenti necessari

al fine di risolvere la questione dell’aliunde perceptum, nella controversia vertente sul

maggior danno da licenziamento illegittimo. La questione era stata rimessa al giudice di

rinvio proprio perché il giudice di merito della fase precedente non aveva fornito una

sufficiente motivazione sul mancato raggiungimento della prova. In Cass. 16 marzo 1995, n.

3073, il giudice di legittimità conferma la sentenza del giudice di rinvio, il quale aveva

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– 287 –

Poiché peraltro, restano ferme, nel giudizio di rinvio, le preclusioni

prodottesi nella pregressa fase di merito, sicché ciò che non è stato allegato o

provato resta non allegato e non provato nel giudizio di rinvio (a meno che la

censura non involga il giudizio per il quale non si ritenne raggiunta la prova

di un certo fatto, formulato dalla sentenza impugnata e cassato dalla Suprema

Corte), il compito del giudice in sede di rinvio si tradurrà, in molti casi, nel

controllare la congruità della precedente decisione, rivalutando le risultanze

processuali alla luce dello schema giustificativo proposto dalla sentenza

rescindente.

In realtà, quello che fa apparire meno intenso il vincolo determinato

dalla pronuncia della cassazione disposta all’esito di una censura ai sensi del

n. 5 dell’art. 360 c.p.c. – rispetto all’ipotesi in cui il giudice di rinvio riceve la

causa in seguito all’accoglimento della censura di cui al n. 3 dell’art. 360

c.p.c. – è in realtà la più ampia (o la normale) possibilità, per il giudice di

rinvio che è gravato del compito di rimediare al vizio di motivazione

compiuto dal giudice della sentenza annullata, di pervenire alle medesime

conclusioni della sentenza impugnata.

Difatti, il giudice di rinvio, investito del compito di adeguare l’iter

decisorio agli schemi logici indicati dalla Cassazione in occasione

dell’accoglimento della censura di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., è libero di

ribadire, sebbene con motivazione diversa, più articolata, la stessa soluzione,

in punto di fatto, fornita dal giudice della sentenza impugnata. Ciò che gli è

invece inibito allorquando la censura accolta dalla Corte è quella di cui al n. 3

dell’art. 360 c.p.c., allorché egli potrà confermare la direzione della

soccombenza (genericamente intesa) già stabilita dalla sentenza annullata, ma

sopperito alla insufficienza della motivazione della pronuncia del giudice di merito, in ordine

alla prova di un contratto, in quanto la sentenza di legittimità aveva basato la prova

dell’esistenza del contratto unicamente sulla produzione in giudizio del documento non

firmato da una delle parti. Il giudice di rinvio ha correttamente integrato la motivazione

insufficiente con elementi probatori cha corroborano il giudizio di esistenza del contratto in

questione. In dottrina, v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 505, nt. 180.

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– 288 –

dovrà necessariamente farlo sulla base di un’argomentata applicazione della

fattispecie normativa individuata dalla Corte e cristallizzata nel principio di

diritto.

Invero, in ipotesi di accoglimento della censura per vizio logico, la

riapertura del giudizio di rinvio alla «rivisitazione» della causa è spesso più

apparente che effettiva. O, se si preferisce, è effettiva ma nell’ambito dello

spazio limitato – su cui si è appunta la censura in cassazione ed il relativo

accoglimento – in ordine al convincimento circa l’esistenza o l’inesistenza

del fatto inteso come accadimento (fatto semplice, principale o secondario)

e/o al nuovo apprezzamento di tale fatto in connessione con altri fatti, l’uno e

gli altri oggetto del potere-dovere di rivalutazione «complessiva» a carico del

giudice di rinvio.

Apprezzamento e rivalutazione complessiva che si rendono necessari,

ad esempio: i) nel caso di fatti principali complessi, costituiti da più fatti

semplici che rappresentano i presupposti di una determinata disciplina, come

ad es., il vincolo di «dipendenza» ai fini dell’applicazione della tutela

rapporto di lavoro subordinato; ii) nel caso di concetti giuridici indeterminati,

come la «buona fede», e la «giusta causa» di licenziamento; iii) ovvero in

ipotesi di interpretazione del contratto, dove bisogna determinare il contenuto

e il peso relativo delle clausole, il rapporto di prevalenza in ipotesi di

incompatibilità, in ipotesi di causa mista ecc...

Certamente, l’apertura degli ambiti decisori del giudizio di rinvio è, in

concreto, tanto più estesa quanto più a monte, nel percorso giustificativo

della decisione emergente dalla motivazione della sentenza cassata, si colloca

il punto colpito dalla censura accolta; potendo il giudice del rinvio non solo

rivalutare la quaestio facti investita dalla censura e tutte quelle altre questioni

che si pongono in stretta correlazione logica con questa (per la comunanza di

un elemento, ovvero per il nesso teleologico che le avvince in funzione della

ricostruzione del fatto principale complesso contemplato dalla fattispecie

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– 289 –

astratta)149

, ma anche decidere questioni di diritto rimaste assorbite per

effetto della soluzione della quaestio facti poi censurata (ad esempio, in tema

149

Ciò, nel solco del potere di riesame complessivo delle risultanze processuali. Sul

riconoscimento del potere del giudice di rinvio di compiere una valutazione complessiva del

materiale di causa, limitatamente alla parte della sentenza devoluta al giudice del rescissorio,

vi è unanimità sia in giurisprudenza che in dottrina. Per la giurisprudenza, che, accogliendo

l’interpretazione di parte di sentenza come decisione di questione limita gli ampi poteri del

giudice di rinvio allo specifico punto di fatto relativamente al quale la motivazione sia

risultata inidonea a sostenere la decisione tra le tante, v. Cass. 6 aprile 2004, n. 6707: nella

fattispecie, relativa all’impugnazione del licenziamento, la sentenza d’appello di rigetto della

domanda del lavoratore è stata cassata dal giudice di legittimità per carenza di motivazione

sul punto relativo alla possibilità di reimpiego del lavoratore nell’ambito dell’organizzazione

complessiva riconducibile al datore di lavoro. Riassunto il giudizio in rinvio, il giudice ha

accordato tutela reale al lavoratore nonché tutela risarcitoria, condannando sia il Consorzio

da cui il lavoratore era stato assunto, sia l’Associazione collegata con il Consorzio, ritenendo

che i due enti, pur con distinta personalità giuridica, agissero in concreto come unicum e

dovessero essere, conseguentemente, considerati un centro di imputazione giuridica unitario.

L’oggetto del giudizio di rinvio era delimitato nei seguenti termini dalla sentenza

rescindente: fermo il punto relativo alla sussistenza di una situazione aziendale di crisi che

forniva un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, punto che non poteva più essere

messo in discussione, si sarebbe dovuto provvedere ad una nuova disamina delle risultanze

processuali, con un esame complessivo dei fatti e degli elementi probatori, per verificare se

effettivamente non sussistesse alcuna possibilità di repechage del lavoratore nel complesso

aziendale del datore di lavoro (tenendo conto che l’onere della prova in merito a tale

impossibilità grava sul datore di lavoro). Il compimento di queste valutazioni presupponeva

logicamente l’acquisizione di un dato ulteriore: la titolarità dell’unico rapporto datoriale in

capo ai due enti collegati, con riferimento alla verifica del requisito numerico dei lavoratori

dipendenti per l’applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Proprio la motivazione

addotta dal giudice di rinvio a sostegno dell’unitarietà delle due organizzazioni è stata

nuovamente sottoposta al vaglio del giudice di legittimità che ha censurato la pronuncia per

omesso esame di punti decisivi della controversia, tale da non consentire l’identificazione del

procedimento logico-giuridico posto a base della decisione. Il giudice di rinvio, in concreto,

non ha valutato accuratamente tutti gli elementi acquisiti in ordine al collegamento

economico e funzionale tra le società, per verificare se detto collegamento avesse perseguito

o meno fini fraudolenti, e la relativa pronuncia è stata, per tale ragione, nuovamente cassata

con rinvio. La sentenza esaminata permette di evidenziare il portato pratico dell’opzione

interpretativa della nozione di parte di sentenza come decisione di questione rispetto

all’oggetto del giudizio di rinvio; la cassazione della sentenza ha investito, secondo la

ricostruzione che la stessa Corte ha fornito in sede di secondo giudizio di legittimità, soltanto

il punto della sentenza relativo all’impossibilità di un reimpiego del lavoratore nell’azienda.

Detto punto di fatto, nell’iter motivazionale, costituiva un posterius rispetto al punto relativo

all’accertamento della crisi aziendale, aspetto, quest’ultimo, che in quanto uscito indenne dal

vaglio della Corte, non poteva costituire oggetto del giudizio rescissorio, limitato

all’accertamento della possibilità di utilizzare ancora il lavoratore nell’azienda. È su questo

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– 290 –

specifico aspetto che si sarebbero potuti (rectius dovuti) spendere i pieni poteri del giudice di

rinvio, estesi anche alla facoltà di accertare fatti ulteriori legati da un nesso di dipendenza

logica con quello espressamente censurato (in concreto, il punto relativo all’unitarietà del

datore di lavoro come presupposto applicativo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori). Al

contrario, ove la Suprema Corte avesse aderito alla nozione di “parte di sentenza” come

decisione di domanda, tutti i punti di fatto relativi alla dichiarazione di illegittimità del

licenziamento, compreso il punto relativo alla sussistenza di un’effettiva situazione di crisi

aziendale, si sarebbero dovuti intendere come caducati dalla cassazione e riaperti dinanzi al

giudice di rinvio con un evidente ampliamento, a nostro avviso ingiustificato, dell’ambito

cognitivo del giudice rescissorio, il quale avrebbe potuto decidere differentemente alcuni

aspetti di fatto che la Suprema Corte aveva, pur implicitamente, reputato immuni da vizi,

esercitando quegli ampi poteri di cui sta trattando per rimettere in discussione ciascun

sillogismo che costituisce la decisione finale della domanda originaria nel suo complesso. La

medesima ratio decidendi si ravvisa in Cass. 16 maggio 2003, n. 7635, che ha rigettato il

ricorso della parte soccombente in rinvio, la quale ha impugnato la sentenza rescissoria nella

parte in cui, confermando la sentenza di appello, rigettava la domanda di pagamento e

risarcimento dei danni dal soccombente promossa per la mancata corresponsione del

corrispettivo al rifornimento d’acqua da essa somministrato alla controparte. Non è stata

accolta, infatti, la censura avverso la sentenza del rinvio relativa alla rivalutazione dei fatti

sulla base dei quali era stata pronunciata la sentenza rescindente; in concreto, il ricorrente ha

lamentato che il giudice di rinvio, anziché calcolare il quantum dei beni per i quali era

accertato l’avvenuto rifornimento, aveva rimesso in discussione la premessa fattuale,

negando che la fornitura fosse stata effettuata. La Suprema Corte, adita per la seconda volta,

osserva che la prima cassazione non era avvenuta per violazione di legge e non comportava,

di conseguenza, un vincolo alla ricostruzione dei fatti operata nelle precedenti fasi di merito,

ma era avvenuta per vizio di motivazione, sub specie di contraddittorietà della stessa

relativamente alla premessa che la fornitura era avvenuta, anche se con falsificazione di atti e

documenti, e la conclusione che nessun corrispettivo era dovuto, in ragione del

comportamento fraudolento. Annullata in questi termini la sentenza di merito, tutte le

questioni relative al punto viziato sono state devolute il giudice di rinvio, il quale ha potuto

valutare nuovamente non solo l’errata conclusione, ma altresì le relative premesse fattuali, da

reputarsi travolte dall’effetto ablatorio della sentenza rescindente. Anche nella fattispecie in

esame la soluzione adottata dalla Suprema Corte presuppone l’adesione alla tesi per la quale

«parte di sentenza» coinciderebbe con la singola questione. In concreto, la questione oggetto

di cassazione per contraddittorietà della motivazione era il punto di fatto relativo alla

effettività della fornitura dedotta in giudizio e, tramite una rivalutazione complessiva dei fatti

relativi a questo specifico aspetto, il giudice di rinvio ha potuto sovvertire la decisione sul

punto precedentemente offerta dal giudice di merito (stabilendo, cioè, che la fornitura non

era avvenuta). La rivalutazione di tutti gli aspetti fattuali interni al punto caducato è altro

rispetto alla caducazione di ogni questione derivante dall’adesione alla nozione più estesa di

«parte di sentenza», in quest’ultimo caso si determina la possibilità di rivalutare ogni

questione di fatto decisa dalla sentenza di merito, anche se non espressamente censurata dalla

cassazione, mentre, nel caso in esame, il potere di rivalutazione dei punti di fatto compresi in

un’unica questione, costituisce lo sviluppo necessario per rimediare al difetto della

motivazione in fatto su quello specifico punto rilevato dalla Suprema Corte. Si è affermato il

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– 291 –

di interpretazione del contratto, che è questione di fatto rimessa alla

discrezionalità del giudice di merito, qualora sia stata accolta in Cassazione la

censura per vizio logico in merito alla giustificazione della prevalenza di una

clausola sull’altra, di senso incompatibile rispetto alla prima, il giudice di

rinvio dovrà riformulare il giudizio di prevalenza unitamente a tutti gli altri

medesimo principio, per il quale l’annullamento per vizio di motivazione travolgerebbe tutte

le valutazioni dei fatti compiute in appello relativamente al punto affetto da vizio logico,

nella vicenda che si è conclusa con Cass., sez. un., 13 settembre 1997, n. 9095; si verteva su

un procedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistratura a carico di

un magistrato accusato di aver compiuto gravi violazioni delle disciplina processuale, avendo

omesso di comunicare al P.M. della Procura Antimafia le indagini da lui stesso svolte e dalle

quali emergeva un quadro probatorio rilevante ai fini di altri procedimenti pendenti su fatti di

mafia. Trattenendo l’inchiesta, anziché trasmettere gli atti alla Procura distrettuale antimafia

competente, il magistrato aveva commesso una violazione dell’art. 371 c.p.p. La sentenza di

condanna del magistrato, impugnata incidentalmente in Cassazione, era stata annullata per

vizio di motivazione per non aver tenuto conto della rilevanza dell’accertata violazione della

norma sulla competenza, con rinvio al giudice di merito per la valutazione di detto aspetto. Il

giudice di rinvio ha emanato, compiuta la valutazione trascurata, una nuova e più grave

sentenza di condanna, impugnata dal magistrato, il quale assumeva che i fatti e le risultanze

processuali riesaminati dal giudice di rinvio dovevano ritenersi definitivamente accertati

dalla sentenza assolutoria di primo grado e, quindi, non più sindacabili in sede di legittimità,

né riesaminabili in rinvio. La Corte afferma, invece, che, annullato lo specifico punto della

sentenza relativo alla valutazione della rilevanza della violazione commessa, il giudice di

rinvio acquista il potere di riesaminare ex novo tutte le risultanze processuali e di risolvere le

questioni devolutegli senza limitazioni di sorta, in quanto l’annullamento per vizio di

motivazione travolge la valutazione dei fatti compiuta in appello. Effetto questo che si

produce, giova sottolinearlo, limitatamente alle questioni che siano state devolute al giudice

di rinvio per effetto della censura della Cassazione, ferme restando le valutazioni dei fatti

sottesi a punti della decisione che non siano stati investiti dalla sentenza rescindente,

relativamente ai quali devono ritenersi ferme le preclusioni maturate dal passaggio da un

grado all’altro del processo. Anche nell’esame di quest’ultima sentenza, in altri termini,

acquista rilevanza l’accoglimento, da parte della Suprema Corte, della nozione restrittiva di

«parte di sentenza». Ove la Corte afferma che l’annullamento per vizio di motivazione

travolgerebbe tutte le valutazioni dei fatti compiute in appello, fa riferimento alle valutazioni

di fatti interni al punto censurato, non alle valutazioni di fatti che attengono a questioni

logicamente indipendenti da quella in cui si colloca il vizio, solo relativamente a queste

ultime, infatti, è scesa l’incontrovertibilità del giudicato, mentre le prime possono essere

ridiscusse in sede di rinvio, onde pervenire ad una decisione della questione ponderata

mediante un esame complessivo dei fatti ad essa sottesi. Su questo aspetto, in dottrina, v.

PANZAROLA, La Cassazione civile, vol. I, cit., 563 ss. Per la giurisprudenza penale che

afferma la libertà di rivalutazione dell’intero materiale di causa da parte del giudice di rinvio,

v. Cass. pen. 21 giugno 2005, n. 30422.

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– 292 –

elementi discendenti dal contratto e quindi rideterminare la distribuzione di

obblighi, poteri e responsabilità discendenti dal contratto stesso) 150

.

Chiaramente, infatti, per quanto appare circoscritta l’unità decisoria in

punto di fatto suscettibile di autonoma considerazione ai fini

dell’acquiescenza151

(la decisione sull’esistenza o meno di un fatto

secondario152

, cioè quel fatto su cui si esercita il ragionamento presuntivo per

risalire, per induzione, al fatto principale ignorato), deve essere tuttavia

considerato il potenziale margine di espansione della cognizione allargata,

seppure nei limiti del condizionamento, autorizzato dall’art. 336, comma 1,

c.p.c.: perché, dalla diversa soluzione della questione relativa al fatto

secondario potrà dipendere, attraverso una rivalutazione complessiva dei fatti

secondari, il rifacimento del ragionamento presuntivo e dunque un diverso

150

Si allude perciò a tale fenomeno, della riemersione, in sede di rinvio, di questioni

assorbite, quando si afferma che, nelle ipotesi di accoglimento del ricorso per cassazione per

vizio di motivazione, la Corte dovrebbe limitarsi a disporre il rinvio, senza formulare

apprezzamenti circa la quaestio iuris; secondo taluno, questi apprezzamenti costituirebbero

meri obiter dicta: RENZI, Giudizio di rinvio ed un precedente richiamato. Sulla necessità che

la cassazione enunci «specificatamente» il principio di diritto, in Foro it. 2001, II, 2618 ss. 151

Per una chiarificazione su cosa debba intendersi per «autonoma» statuizione sul

presupposto di fatto, in senso tecnico ai fini dell’art. 329, comma 2, c.p.c., ossia nell’ottica

dell’acquiescenza e dell’impugnazione parziali, cfr. POLI, Oscillazioni della Suprema Corte

in tema di limiti oggettivi del giudicato interno, cit., § 4: «nei casi di affermazione, in

sentenza, di un presupposto di fatto della tutela richiesta, si ritrovano delle costanti nel

discorso del giudice, costanti in presenza delle quali può dirsi sussistere la autonoma “parte

di sentenza” rilevante ai nostri fini: «α) la presenza di una decisione, nel senso di asserzione

di esistenza/inesistenza del fatto sul quale è stato svolto l’accertamento; β) l’autonomia di

tale decisione nel contesto della sentenza rispetto ad altre decisioni, nel senso che la stessa si

fonda su valutazioni, di fatto (e/o di diritto), almeno parzialmente distinte ed autonome

rispetto a quelle poste a fondamento delle altre decisioni eventualmente presenti in sentenza;

γ) la decisività di tale decisione, ovvero la sua idoneità, se modificata in sede

d’impugnazione, a determinare una definizione della controversia, nel dispositivo, diversa da

quella adottata (…). In presenza di questi tre caratteri, il discorso del giudice ha efficacia

imperativa endoprocessuale, ovvero rappresenta un punto fermo nell’iter verso la decisione

di merito per il giudice che lo ha formulato e per il giudice dell’impugnazione, in mancanza

di una espressa censura della parte impugnante». ID., I limiti oggettivi, cit., 191 ss. 152

POLI, I limiti oggettivi, cit., 209, per il quale «“in fatto”, con la decisione sui fatti

semplici, si raggiunge il limite massimo di frazionabilità della sentenza rilevante ai fini

dell’impugnazione e dell’acquiescenza parziali».

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– 293 –

giudizio intorno all’esistenza o meno del fatto principale; in ipotesi di

impugnazione di fatti principali semplici che concorrono a delineare fatti

principali complessi, dalla diversa soluzione data alla questione intorno

all’esistenza del fatto principale semplice potrà dipendere, in esito ad una

rivalutazione complessiva degli altri fatti semplici, un diverso giudizio sul

fatto principale complesso; e così via.

Come risulta evidente, la riapertura dei temi di cognizione nell’ambito

del giudizio di rinvio proclamata dalle massime nei casi di rinvio ai sensi

dell’art. 360, n. 5 c.p.c. è effettiva ma assolutamente circoscritta, in quanto

limitata al giudizio sul presupposto di fatto della tutela richiesta, secondo i

meccanismi che abbiamo esaminato.

Poiché il contenuto del provvedimento di cassazione accerta l’omessa o

insufficiente o contraddittoria motivazione sul fatto controverso e decisivo, si

tratterà di stabilire se la fattispecie ritenuta in sentenza è supportata dal

motivato convincimento sulla esistenza/inesistenza del fatto considerato e

dunque, di stabilire se il fatto principale corrispondente a quello contemplato

dalla norma è o non è accaduto; se si tratta di un fatto secondario, di rifare il

ragionamento presuntivo su quel fatto per giungere a ricavare un

convincimento sul fatto principale; ma resta fermo che, in presenza

dell’accoglimento della sola censura ex art. 360, n. 5, compito esclusivo del

giudice di rinvio è di riproporre a se stesso la quaestio voluntatis già

affrontata dal giudice di merito nel giudizio a quo ai fini dell’affermazione o

della negazione del fatto decisivo e controverso, questione a sua volta

funzionale all’affermazione o negazione della ricorrenza del presupposto di

fatto della norma e dell’effetto giuridico postulato dalla sentenza annullata.

In altri termini, il giudice potrà formarsi un diverso convincimento sul

fatto oggetto della censura e, per conseguenza, anche indiretta, sulla

ricorrenza o meno della fattispecie e dei suoi effetti: ma, restando fermo lo

schema normativo entro cui sussumere la fattispecie, non dovrebbe essergli

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– 294 –

consentito di uscire dall’alternativa tra il riconoscimento e il disconoscimento

dell’effetto giuridico di cui si è occupata la sentenza annullata153

.

Diverso è il caso in cui la sentenza di cassazione accolga

contestualmente le censura ex art. 360 n. 3 e n. 5. c.p.c. In tale ipotesi, in

effetti, se le censure riguardano lo stesso binomio norma-fatto154

, il ricorrente

ottiene una rescissione della fase sussuntiva, dovuto ad uno smembramento

del binomio norma-fatto155

, da un lato, e all’accoglimento della censura sul

giudizio di fatto, dall’altro. E ciò potrà determinare in capo al giudice di

rinvio l’insorgenza del compito, stavolta effettivo, di rifare il giudizio che,

153

In questo senso, ci sembra, si muova Cass. civ., Sez. III, 6 marzo 2012, n. 3458,

secondo cui «… nel caso di annullamento della sentenza per vizi di motivazione, il giudice di

rinvio non può compiere un nuovo e diverso accertamento dei fatti che siano stati accertati

definitivamente e sui quali si è fondata la sentenza di annullamento» (Nel caso di specie, la

sentenza di annullamento aveva rimesso al giudice di rinvio il compito di verificare

responsabilità di un’amministrazione pubblica per fatto di un dipendente, che aveva sparato

ad un ragazzo, uccidendolo, nel corso di un diverbio occasionato da un controllo, stabilendo

“se il vigile, pur trovandosi in un primo tempo ad agire solo nell’espletamento di un compito

istituzionale, successivamente e cioè una volta provato (o provato in misura maggiore) il

“...risentimento..” nei confronti di un ragazzo abbia (o meno) cessato di agire per finalità

coerenti con quelle in vista delle quali le mansioni in questione gli furono affidate ed abbia

(o meno) invece iniziato ad agire per un fine strettamente personale ed egoistico (ad es. lo

sfogo del risentimento predetto) assolutamente estraneo agli scopi dell’amministrazione, o

addirittura contrario ai fini che essa persegue; e quindi per un fine privo di ogni collegamento

con le attribuzioni proprie dell’agente (con conseguente cessazione del rapporto organico fra

l'attività del dipendente e la P.A.). Il giudice di rinvio aveva escluso la responsabilità

dell’ente comunale. Proposto ricorso dai genitori del ragazzo, la Cassazione si preoccupa di

ribadire che il giudice di rinvio deve uniformarsi alla statuizione di cassazione senza alcun

potere di controllo della sua giuridica correttezza o di manipolazioni interpretative

eventualmente necessarie per renderlo coerente agli arresti giurisprudenziali precedenti,

contestuali o successivi della corte di legittimità (con ciò dando per scontata la immutabilità

dell’inquadramento giuridico, che peraltro era in parzialmente incluso nella stessa – prima –

pronuncia di annullamento che aveva messo capo al rinvio). 154

Pur con i limiti che questa schematizzazione implica: sul punto,v. diffusamente

retro, capitolo secondo, nt. 90. 155

Naturalmente, in questo schema, il fatto del binomio norma-fatto è un frammento,

dotato di decisività, della più vasta fattispecie; mentre non coincide con il fatto secondario,

che ha una relazione con la fattispecie solo indiretta: ad ogni modo, la precisazione è

superflua, poiché per il tramite della discussione sul fatto secondario si dissoda il

convincimento circa un fatto principale direttamente contemplato dalla fattispecie normativa,

che è ciò che rileva.

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– 295 –

malgrado la presenza performativa del principio di diritto, ripartirà dal fatto

per arrivare alla norma, consentendogli in effetti l’accertamento di «una

fattispecie diversa» da quella ritenuta nella sentenza di annullamento156

.

156

Uno scollamento tra principio di diritto e quadro fattuale emerso nel giudizio di

rinvio a seguito è alla base di Cass. 16 marzo 1995, n. 3073: nel caso di specie la sentenza di

merito dichiarativa della risoluzione di un contratto di locazione è stata annullata sia per

violazione di legge che per vizio di motivazione. Quanto al profilo dell’annullamento, la

Suprema Corte aveva fissato il principio di diritto per cui la firma di una delle parti al

contratto di locazione può essere sostituita dalla produzione in giudizio del documento da

parte dello stesso contraente interessato alla produzione degli effetti del contratto stesso. Il

giudice di rinvio, incaricato di compiere una rivalutazione degli atti processuali per

ricostruire la fattispecie cui applicare l’enunciato principio di diritto, ha escluso che potesse

applicarsi il meccanismo sostitutivo della sottoscrizione, in quanto costituiva dato

incontrovertibile il fatto che, nella specie, la produzione del documento era avvenuta dalla

parte che intendeva ottenere la risoluzione del contratto, e non da quella che intendeva

ottenerne la produzione di effetti. Il giudice del rescissorio, ha potuto discostarsi dalla

ricostruzione suggerita dalla sentenza rescindente per violazione di legge e disapplicare il

principio di diritto tramite una rivalutazione complessiva del materiale di causa, permessagli

dalla cassazione contestuale per vizio di motivazione. In concreto, il giudice di legittimità

aveva osservato che la sentenza di merito era viziata da insufficiente motivazione per non

aver fondato la decisione di risoluzione del contratto locativo su ulteriori elementi

corroborativi dell’esistenza del contratto, ulteriori rispetto al meccanismo probatorio

sostitutivo della firma. Il giudice di rinvio, conseguentemente, ha potuto (rectius dovuto)

compiere una nuova valutazione del materiale di causa nel suo complesso, dal quale ha tratto

la medesima conclusione della sentenza cassata: l’esistenza del contratto di locazione, ma

fondando la pronuncia su elementi ulteriori rispetto alla produzione del documento (

elementi quali la mancata risposta all’interrogatorio formale e le deposizioni di alcuni testi).

Fattispecie analoga ha dato luogo a Cass. 23 marzo 1994, n. 2807; nel caso in esame la

sentenza di merito, che aveva qualificato il rapporto dedotto in giudizio come

procacciamento di affari escludendo che fosse riconducibile nel contratto di agenzia con

diritto di esclusiva, era stata annullata per violazione di legge e per vizio di motivazione. Il

giudice di legittimità, relativamente al primo profilo dell’annullamento, aveva fissato il

principio di diritto nel quale aveva tracciato la linea distintiva tra il contratto di agenzia ed il

rapporto di procacciamento di affari, e, quanto al vizio di motivazione, ne aveva affermato

l’illogicità, l’insufficienza e la contradditorietà, per il riferimento che nella stessa si leggeva

ora all’accertamento della sussistenza del rapporto di agenzia, ora al procacciamento di

affari, ed aveva, altresì, censurato la motivazione per inesatta e incompleta disamina della

acquisita documentazione. In conseguenza della duplice censura rilevata rispetto alla

medesima sentenza, il principio di diritto emesso dalla Corte non può essere inteso come

«qualificazione di un rapporto già accertato, in tutti i suoi elementi di fatto rilevanti, in base

alla ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza cassata: così che possa dirsi che a quella

ricostruzione corrisponda, come sola qualificazione giuridica corretta, la ricostruzione del

rapporto come agenzia anziché come procacciamento di affari». Conseguentemente, è stata

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– 296 –

giudicata corretta la sentenza del giudice di rinvio che, riesaminato il materiale di causa nel

suo complesso, ha qualificato, con adeguata motivazione, il rapporto in termini di agenzia

per un certo periodo e di procacciamento di affari per il periodo restante.

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– 297 –

2.6. Considerazioni brevi sulla resistenza del principio di diritto allo ius

superveniens

Nel novero degli interrogativi che si affacciano alla mente

dell’interprete a fronte della delimitazione dei confini della portata vincolante

del principio di diritto ex art. 384, quello relativo alla resistenza del principio

di diritto al cd. ius superveniens (comprensivo sia del fenomeno del

mutamento del quadro normativo di riferimento per intervento del

legislatore1 sia del fenomeno di innovazione normativa per effetto della

1 Va tuttavia fatta una preliminare precisazione, intorno alla portata della locuzione

ius superveniens. Perché, nelle applicazioni giurisprudenziali che dello ius superveniens

vengono fatte, si presta assiduamente attenzione al requisito della «retroattività» o a quello

della natura di «interpretazione autentica» della norma sopravvenuta. La giurisprudenza della

Cassazione va, cioè, costantemente alla ricerca, quando ritiene di applicare la disciplina

normativa sopravvenuta, della norma transitoria o di quelle disposizioni che rivelano il

carattere retroattivo o quello interpretativo (e pertanto anche retroattivo), negando che si

possa parlare di ius superveniens ai fini dell’applicazione al processo pendente in assenza del

ricorrere di quei fattori. In alternativa, al di là del caso particolare dei rapporti di durata per i

quali il mutamento del quadro normativo è comunque rilevante, si va alla ricerca della

possibilità di ricadute in bonam partem che giustificano, per ragioni di carattere

pubblicistico, l’applicazione retroattiva anche alle situazioni giuridiche non definite ma

insorte sotto una vecchia disciplina di una modifica normativa che naturalmente disporrebbe

solo per il futuro. In Cass. 6 aprile 2005, n. 7144, si individua un criterio per stabilire la

portata del concetto di interpretazione autentica, e quindi anche retroattiva, delle nuove

norme che sostituiscono le vecchie: il carattere interpretativo di una norma, vi si legge,

«dipende dal solo contenuto del precetto posto in termini di apprezzamento ermeneutico di

un precetto antecedente al quale la nuova norma si ricolleghi nella lettera e nella ratio, a tal

valutazione sovrapponendo l’imperativa nuova interpretazione»; pertanto, quando «non è

dato rinvenire né riferimenti a pregresse alternative ermeneutiche né la imperativa opzione

per una di esse ma, soltanto, la volontà, esplicitata in rubrica e nel testo, di modificare le

norme previgenti» si è di fronte ad una «operazione opposta a quella di recare interpretazione

autentica delle norme (imporre come corretta una delle sue possibili letture) e consistente

nella sostituzione di testo a testo (sull’assunto che nel primo testo non vi fosse spazio alcuno

per la soluzione auspicata)». Dal che viene desunto «il carattere non interpretativo di quello

che, pertanto, deve definirsi jus superveniens»: ed è evidente che la locuzione è in tal caso

usata nel suo significato letterale, come diritto che succede temporalmente a un’altra

disciplina. Nel merito, però, la Cassazione qui rilevava che la carenza di carattere

interpretativo della norma che veniva in questione era «del tutto indifferente ai fini della sua

applicazione alla controversia in disamina» perché con riguardo alla previsione di

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dichiarazione di incostituzionalità della norma rilevante ad opera della Corte

costituzionale) sembrerebbe tra i meno problematici, perché la circostanza

che esso abbia conseguito in un arco di tempo relativamente breve una

riposta univoca da parte della giurisprudenza autorizza a pensare a questa

risposta come a una soluzione che era iscritta nell’ordine delle cose.

Se l’opinione presto consolidatasi in giurisprudenza, che si rintraccia

anche nelle massime dei repertori più recenti, è nel senso di ritenere

prevalente sul principio di diritto la difforme legge interpretativa intervenuta

successivamente, o la legge abrogativa della disposizione di diritto sulla

quale la Cassazione si sia espressa, è pur tuttavia vero che l’adesione alle

premesse di carattere sistematico cui si ritiene di accedere in merito alla

ricostruzione dell’ambito oggettivo del giudizio di rinvio in cui il principio di

«condizioni “disabilitanti” (sentenze irrevocabili di condanna) alla elezione o nomina alla

carica elettiva (…) le nuove disposizioni debbono essere applicate anche ove le situazioni

sanzionate si siano verificate ben prima della entrata in vigore della legge sopravvenuta», pur

«non venendo in gioco alcun profilo di retroattività della disposizione (posto che essa

produce i suoi effetti solo per il periodo successivo alla sua entrata in vigore) ma trattandosi

di un nuovo parametro cui il legislatore ancora il giudizio di indegnità rispetto alla

conservazione della carica». Ciò, in quanto sarebbe assolutamente evidente la ragionevolezza

della immediata applicazione della nuova norma, la quale, rimuovendo un pregresso giudizio

di indegnità – nella specie, «confinando nell’ambito dell’irrilevanza giuridica una condanna

penale che in base alle norme preesistenti aveva valore di condizione inabilitante», fornisce

le condizioni di mantenimento della carica conformi alla nuova valutazione legale (ma ove si

afferma che la novella che incide sul regime dei requisiti di eleggibilità ad una carica

pubblica avrebbe idoneità a mutare il regime delle condizioni di mantenimento della carica

con immediata efficacia «tanto in malam quanto, come nella specie, in bonam partem»,

sembra che prevalga, come criterio discretivo dell’applicazione immediata della nuova

normativa, non tanto quello dell’impiego in utilibus di una nuova normativa con rilevanza

pubblicistica, come applicazione del principio generale di legalità del tipo che ispira la

sistematica applicazione dello ius superveniens più favorevole al contribuente – v., tra le più

recenti, Cass., sez. tributaria, 10 marzo 2005, n. 5268 –, quanto piuttosto un criterio di

opportunità). In senso opposto a quello della sentenza sopra esaminata, sembra di capire,

Cass. 1° marzo 2005, n. 4327, secondo cui la nuova disciplina dettata sempre in tema di

sistema di elezione e di previsione dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità a cariche

pubbliche «secondo i normali canoni che disciplinano la successione delle leggi nel tempo –

in quanto entrata in vigore successivamente al verificarsi dei fatti costitutivi della presente

causa ed in mancanza di qualsiasi contraria disposizione transitoria – non può trovare

applicazione, quale jus superveniens, nel presente giudizio».

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– 299 –

diritto viene accolto ed esplicato, possono scaturire anche soluzioni non così

semplicistiche.

L’affermazione costante della giurisprudenza2 secondo la quale il

giudice di rinvio non è più vincolato al principio di diritto quando il quadro

normativo sia mutato, per effetto di norma interpretativa o retroattiva,

nell’intervallo di tempo che va dalla sentenza della Corte alla ripresa del

giudizio dinanzi al giudice di rinvio3, si fonda sul topos argomentativo della

minore «intensità di resistenza»4 allo ius superveniens di cui sarebbe dotato,

rispetto al giudicato, il principio di diritto, in quanto enunciato che

presuppone, per dispiegare la sua efficacia, il necessario svolgimento del

giudizio di rinvio, e che comunque non preclude la proposizione di un’altra

domanda, una volta estinto il processo a norma dell’art. 393 c.p.c.

Una simile soluzione equivale a riconoscere che la ratio che è alla base

dell’attitudine del giudicato a resistere allo ius superveniens non è parimenti

rintracciabile in quella «transizione» di decisione che è il principio di diritto

2 Dell’abbondante giurisprudenza che si muove in questa direzione, si può, ad

esempio ricordare, tra le sentenze più risalenti, Cass. 24 marzo 1969, n. 938; tra le più

recenti, Cass. 15 gennaio 1990, n. 120; Cass. 10 febbraio 1990, n. 978, Cass. 12 luglio 1991,

n. 77777; Cass. 4 giugno 1994, n. 5412; Cass. 15 giugno 1995, n. 6737, ove in massima si

legge che «l’obbligo del giudice di rinvio di attenersi al principio di enunciato dalla

Cassazione, a norma dell’art. 384 cod. proc. civ., viene meno nel caso in cui dopo la

riassunzione del giudizio di rinvio, muti la norma dalla quale il principio di diritto viene

dedotto»; Cass. 21 aprile 2000, n. 5217; Cass. 9 gennaio 2001, n. 207; Cass. 20 giugno 2001,

n. 8403, la quale reca in motivazione una formula ormai stereotipata: «l’efficacia vincolante

della sentenza di cassazione con rinvio, presupponendo il permanere della disciplina

normativa in base alla quale è stato enunciato il principio di diritto da applicarsi dal giudice

di rinvio, viene meno in tale sede allorché la disciplina da applicare sia stata successivamente

abrogata, modificata o sostituita per effetto dello “ius superveniens”». 3 Altra annosa questione è quella della applicabilità o meno in sede di rinvio dello ius

superveniens intervenuto dopo la deliberazione ma prima della pubblicazione della sentenza,

questione dalla quale qui prescindiamo perché non concludente ai fini del nostro discorso, in

quanto costituisce «uno dei diversi luoghi di scarico della tensione concettuale che si viene

accumulando altrove, a proposito dell’ identificazione del tempo in cui viene ad esistenza la

sentenza, e cioè: se al momento in cui è deliberata ovvero pubblicata»: così, AULETTA, Sulla

pretesa irrilevanza dello ius superveniens tra deliberazione e pubblicazione della sentenza di

cassazione con rinvio, nota a Cass. 23 marzo 2001, n. 4176, in Giust. civ., 2001, I, 2101 ss. 4 Così, ANDRIOLI, Il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, cit., 279.

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– 300 –

contenuto nella pronuncia rescindente della Corte, come esplicita, aderendo

alla suddetta tesi, Remo Caponi: «se la ragione giustificatrice della resistenza

del giudicato nei confronti dello ius superveniens consiste (…) nello

sganciamento della rilevanza giuridica della fattispecie del diritto fatto valere

dalla normativa astratta, la caratteristica operatività del principio di diritto al

solo livello della premessa maggiore del sillogismo giudiziale, se è consentito

usare ancora questa immagine, esclude a priori che questo possa resistere alla

legge retroattiva»: ciò, in quanto, «non singole fissazioni di punti di fatto o di

diritto della fattispecie costitutiva del diritto fatto valere possono opporre

resistenza allo ius superveniens retroattivo, ma lo sganciamento della

rilevanza giuridica di tale fattispecie», che è esclusivamente «coordinato al

riconoscimento o al disconoscimento della situazione sostanziale fatta valere

in giudizio»5. Nelle argomentazioni di Caponi sono immediatamente

percepibili – e del resto apertamente dichiarati – gli influssi della concezione

sostanziale della cosa giudicata di Chiovenda, nonché la tendenza a svalutare

la rilevanza delle risoluzioni delle questioni più minute che alloggiano

all’interno della decisione sulla fattispecie costitutiva principale dedotta in

giudizio: del resto, le ragioni che l’Autore adduce a giustificazione

dell’incapacità del principio di diritto di resistere allo ius superveniens

riproducono esattamente quelle che egli fa poco prima valere per respingere

l’idea che la sopravvenienza della nuova norma possa lasciare indenni le

sentenze non definitive rese su questioni preliminari di merito6.

5 CAPONI, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, 353-354.

6 Dice infatti CAPONI, op. cit., 350, che «decisiva è a questo proposito la circostanza

che oggetto del processo deve essere un diritto e non un fatto e che lo sganciamento della

rilevanza giuridica della fattispecie giudicata deve essere funzionale alla salvaguardia del

risultato del processo, in quanto questo abbia portato all’accertamento dell’esistenza o della

inesistenza di una situazione sostanziale in corso tra le parti» (chiaramente rievocando la

teoria chiovendiana dell’aggiudicazione o della negazione del bene della vita come risultato

a cui il processo aspira e a cui il giudicato fornisce il crisma dell’incontestabilità per la

finalità suprema dell’ordine e della sicurezza della vita sociale), soggiungendo,

immediatamente dopo, che «non è dunque immaginabile uno sganciamento parziale della

rilevanza giuridica della fattispecie giudicata, avente ad oggetto cioè solo uno dei fatti che

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– 301 –

Malgrado sia abbastanza pacifico che il principio di diritto non

condivide la stessa natura della cosa giudicata, sono pur tuttavia da segnalare

delle evoluzioni di pensiero in controtendenza rispetto all’opinione

consolidata che vuole la indefettibile prevalenza dello ius superveniens sul

principio di diritto.

In dottrina non mancavano, già all’indomani dell’approvazione del

codice del 1940, personalità eminenti che rifiutavano di assolutizzare la

carenza di efficacia di giudicato come indice sicuro della prevalenza dello ius

superveniens sul principio di diritto7; da parte di taluno, poi, si è avanzata

l’idea che debba differenziarsi il trattamento della resistenza del principio di

diritto allo ius superveniens in funzione della diversa natura della norma

sopravvenuta, postulandosi, a guarentigia della funzione nomofilattica della

Suprema Corte, l’incapacità della norma di interpretazione autentica di

soppiantare l’effetto vincolante del principio di diritto, e ponendosi il

carattere innovativo della norma sopravvenuta come condizione necessaria

entrano a comporre quest’ultima» – cioè della rilevanza di una pronuncia non definitiva

vertente solo su di uno tra i molteplici fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi

della fattispecie costitutiva della situazione sostanziale dedotta in giudizio – poiché tale

sganciamento parziale «non è poi in grado di coordinarsi ad alcun riconoscimento

dell’esistenza o dell’inesistenza di un diritto sostanziale»: ID., op. loc. ult. cit.; corsivo nostro. 7 Si vedano, infatti, l’ANDRIOLI, Il principio di diritto enunciato dalla Corte di

cassazione, cit., il quale dopo aver escluso che il principio di diritto possa godere di una

«intensità di resistenza» pari a quella del giudicato, aggiunge tuttavia che «ciò non significa

che altri motivi possano indurre a far prevalere il principio di diritto sulla legge

sopravvenuta», con l’avvertenza che all’uopo occorrono giustificazioni diverse da quelle che

sorreggono la resistenza alla legge sopravvenuta della cosa giudicata (ID., op. cit., 286-287);

nonché il MICHELI, L’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di

Cassazione e il giudicato sul punto di diritto, cit., ove è criticata la posizione parzialmente

scettica dell’Andrioli, e si solleva il dubbio che col far derivare dal disconoscimento al

principio di diritto della natura di cosa giudicata l’esclusione della prevalenza del dictum

sulla legge nuova, interpretativa o retroattiva, si rischia di porre «sullo stesso piano della

preclusione un effetto vincolante che il legislatore dichiara sopravvivere alla estinzione del

processo, in quanto la determinazione della norma da applicare in concreto è avvenuta da

parte della corte di cassazione la quale pertanto ha, in questi limiti, esercitato la funzione

riconosciutale»: ID., op. cit., 39.

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– 302 –

per sollevare il giudice di rinvio dall’obbligo di uniformarsi al principio di

diritto8.

In realtà, una rappresentazione adeguata del fenomeno si può ricavare

proprio dall’aver trattato il principio di diritto sia come momento di rilevanza

logica che, all’occorrenza, sussistendone i presupposti, come momento di

cristallizzazione del giudizio in senso tecnico.

La giurisprudenza della Cassazione, infatti, comincia a dimostrare, al di

là dell’inveterata abitudine a riproporre la formula della vincolatività del

principio di diritto per il giudice di rinvio «salvo il necessario adeguamento

allo ius superveniens», una maggiore sensibilità verso l’esigenza di una

coerenziazione della disciplina relativa all’applicazione allo ius superveniens

con gli assunti propri della teoria della formazione progressiva del giudicato,

cui ormai da tempo ispira la sua azione.

Interessante, a questo proposito, è notare che nella sentenza della

Cassazione n. 6541 del 2000, ad esempio, con la quale si nega l’applicabilità

quale ius superveniens al giudizio pendente dinanzi alla Suprema Corte di

una sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale nelle more del giudizio di

legittimità, sulla base del rilievo – che dal tenore della pronuncia sembra

principale e assorbente – secondo cui, trattandosi di una sentenza

interpretativa di rigetto, «non produce l’effetto della espunzione della norma

stessa dall’ordinamento giuridico e non si traduce quindi in una

modificazione della situazione nomotetica alla quale esige di essere

raffrontata la fattispecie concreta sub judice», si rintraccia un significativo

obiter dictum: quello secondo il quale la deviazione dell’interpretazione

fornita dal giudice della sentenza impugnata rispetto alla interpretazione

8 L’idea è particolarmente ben esposta da SPIAZZI, in Ancora sull’applicabilità nel

giudizio di rinvio d’una legge d’interpretazione autentica sopravvenuta dopo la pronuncia di

cassazione, nota a Cass. 24 novembre 1981, n. 6251, in Giur. it. 1983, I, 333 ss. Essa viene

però contestata da CAPONI, op. cit., 353, nt. 9, perché si espone alla critica «di far dipendere

l’applicazione dello ius superveniens da una difficile e sempre opinabile operazione

ermeneutica volta a distinguere la legge innovativa da quella meramente interpretativa».

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– 303 –

prospettata dalla Corte costituzionale come l’unica conforme ai principi

costituzionali, «deviazione suscettibile di risolversi in se stessa in un vizio di

violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 360 comma primo, n. 3, c.p.c.»

sarebbe comunque inammissibile perché «non solo non è stata dedotta quale

motivo di cassazione, ma non è stata nemmeno mai fatta valere, nelle

pregresse fasi di merito, dalla parte interessata» a dolersene9. Col che, in

sostanza si afferma che, anche se lo ius superveniens interviene dopo

l’instaurazione del giudizio di cassazione, la sua applicazione sarebbe

comunque subordinata alla verifica del contesto oggettivo della cognizione

9 Nella sentenza della Cassazione n. 600 del 19 gennaio 2000, richiamata dalla

sentenza in esame, invece, il rigetto del motivo, proposto in Cassazione, della violazione e

falsa applicazione di una norma sopravvenuta viene motivato con la considerazione che «non

può essere invocata per la prima volta nel giudizio di legittimità l’applicazione di una legge

intervenuta, come nel caso di specie, dopo la sentenza di primo grado, ma anteriormente alla

proposizione dell’appello, senza che in proposito la suddetta sentenza sia stata investita di

alcuna censura, dovendosi ritenere sul punto formato il “giudicato” e non potendo i motivi

del ricorso per cassazione investire questioni che non abbiano formato oggetto del giudizio di

secondo grado». Nello stesso senso, anche Cass. 25 novembre 1996, n. 10446, in cui viene

giudicata inammissibile la prospettazione per la prima volta, in sede di giudizio di legittimità,

della questione dell’applicabilità di una norma, la quale, per come reinterpretata dalla Corte

costituzionale in una sentenza anteriore alla proposizione dell’appello, poteva ridondare a

vantaggio dell’appellante poi ricorrente in Cassazione: ciò, sulla base del rilievo che «i

motivi di ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, le questioni che

abbiano formato oggetto del “thema decidendum” del giudizio di secondo grado, come

fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti», e del principio secondo cui lo ius

superveniens, che introduca una nuova disciplina del rapporto in contestazione, sebbene

rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, «incontra, nel giudizio di

legittimità, le limitazioni connesse con la disciplina delle impugnazioni, per effetto della

quale la nuova regolamentazione può trovare piena applicazione, solo quando essa sia

sopravvenuta dopo la proposizione del mezzo di gravame, e ciò perché, in tale ipotesi, il

ricorrente non ha potuto tener conto dei mutamenti operatisi successivamente nei presupposti

legali, che condizionano la disciplina dei singoli casi concreti». È evidente la diversità di

queste ultime ipotesi rispetto a quella sopra esaminata, stante il fatto che, negli ultimi due

casi, a differenza che nel primo, la sopravvenienza della norma non si verifica durante la

pendenza del giudizio di legittimità, ma è bensì anteriore alla fase d’appello. Tuttavia, in

tutte queste pronunce traspare un’opzione interpretativa che induce ad un ripensamento,

come, a breve, avremo modo di constatare, delle tradizionali convinzioni in ordine alla

immediata applicabilità dello ius superveniens nel giudizio di rinvio, anche a discapito del

principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte.

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– 304 –

residua, per come individuato e sospinto dalle censure di parte fino al

Supremo soglio.

E, con un’interpretazione a maiore ad minus, se è vero che la

Cassazione potrebbe e anzi dovrebbe non tener conto dello ius superveniens,

qualora a ciò ostino le preclusioni formatesi nel pregresso giudizio e dinanzi

alla Corte stessa per mancata interposizione di censura sul punto rispetto al

quale rileverebbe in astratto lo ius superveniens de quo, legittimamente si

potrebbe asserire che il giudice di rinvio non è tenuto a scavalcare in ogni

caso il principio di diritto per risalire direttamente allo ius superveniens se la

causa è pervenuta dinanzi a lui già definitivamente decisa, per giudicato

interno, sul punto interessato dalla modifica normativa. Questa, in sostanza,

ci sembra essere la prospettiva predicabile da parte di chi adotta la più

ristretta nozione di questione come dubbio intorno ad un punto di fatto o di

diritto della controversia come parametro per misurare l’estensione degli

ambiti decisori in fase di impugnazione10

.

Dall’altro canto, la possibilità che dinanzi alla Cassazione la causa

pervenga ancora non del tutto definita, quoad ius, e che il principio di diritto

non si consolidi necessariamente per giudicato interno ove pervenuto

all’esame della Suprema Corte unitamente ad altri punti suscettibili di portare

ad una diversa ricostruzione della fattispecie, consente sia di assorbire il

10

La stretta relazione tra la prospettiva a favore della formazione del giudicato interno

sulle questioni già decise e non specificamente censurate, nonché indipendenti da quelle

annullate dal giudice di cassazione, e l’opzione a favore di una limitata operatività dello ius

superveniens in sede di rinvio sembra essere ben individuata da POLI, I limiti oggettivi, cit.,

pp. 560 ss.: «compito del giudice di rinvio è infatti innanzitutto quello di recepire quella

premessa nei termini indicati nella pronuncia rescindente (se trattasi di questione di diritto,

sostanziale o processuale) o di riformularla ex novo, rispettando i vincoli “negativi” contenuti

nella medesima pronuncia (ove trattasi di questione di fatto), e successivamente, nella misura

in cui occorra emettere la decisione definitiva di merito, accertare – o conformare nei limiti

del condizionamento – le ulteriori premesse di fatto e di diritto della controversia (dipendenti

da quella recepita o riformulata). Con la conseguenza che egli potrà tener conto dello ius

superveniens o sollevare incidente di costituzionalità (…) solo in relazione ai punti di diritto

ancora sub iudice, in quanto investiti direttamente dalla cassazione o da questi dipendenti e

pertanto non coperti da giudicato interno» (corsivo nostro).

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– 305 –

principio della salvezza, nel giudizio di rinvio, dello ius superveniens, sia di

integrare nel nostro ordinamento gli sviluppi della giurisprudenza della Corte

di Giustizia europea stanno determinando sul sistema processuale interno

sotto il particolare profilo dell’efficacia del principio di diritto: la pronuncia

della Corte di Giustizia CE, grande sezione, 5 ottobre 2010 (C-173/2009,

caso Elchinov c. Natsionalna zdravnoodiguritelna kasa), ha infatti affermato

il principio per cui il giudice di merito ha potere di disattendere le pronunce

vincolanti in diritto rese dai giudici di ultima istanza al fine di attuare

l’ordinamento comunitario; e – sembrerebbe – anche se non si tratta di dare

applicazione allo ius superveniens: ciò, anche probabilmente sul presupposto

che, a tutt’oggi, il principio iura novit curia11

, la presupposta conoscenza

delle leggi da parte dei Tribunali supremi, non scalvalca ancora i confini

dell’ordinamento normativo interno.

11

Sul tema, v. PUNZI, Iura novit curia, Milano 1965.

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– 306 –

CONCLUSIONI

In un mondo di parole qual è il mondo nel quale sono chiamati ad

orientarsi i giuristi, il principio di diritto enunciato da parte del supremo

garante della legittimità, crocevia in cui convergono l’interesse del filosofo

del diritto così come quello del processualista, l’attenzione dei teorici così

come quella dei pratici, manifesta una chiara attitudine ad incarnare

l’essenza, e con l’essenza, i limiti, di quella sintesi tra la norma e i fatti che è

il processo.

Dietro le parole, però, stanno i fatti, per l’appunto, gli uomini e i loro

rapporti, e mai, come quando ci si cala umanamente nelle stanze dove si attua

la giustizia concreta, e ci si pone spregiudicatamente a considerare le ragioni

delle parti, i loro particolari interessi, si fa più urgente l’obiezione che si agita

contro il positivismo: «fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni»12

.

Da una consimile osservazione allo sconfinamento nel soggettivismo il

passo può essere molto breve. L’ordinamento, però, crediamo, debba

respingere ogni tentazione nichilista; e se oggi gode di rinnovata vitalità il

dibattito sull’importanza della funzione nomofilattica della Cassazione, da un

lato, e sui ritmi non solo esterni ma anche interni del processo, dall’altro, ciò

è probabilmente dovuto alla ripresa di un ciclo, nei tanti corsi e ricorsi della

storia, in cui la giustizia ha bisogno di essere più esigente verso gli operatori

che si muovono al suo interno e dei cittadini che ne reclamano l’intervento,

per risultare più rapida e più stabile; di rinnovarsi, forte tuttavia di una lunga

esperienza, che le ha insegnato a percepire come servizio l’uso del proprio

potere, per poter continuare ad essere servizio, attraverso un recupero di

istanze tradizionali, seppure in una sempre più articolata concezione del

processo che, imponendo alle parti un altissimo grado di vigilanza su ogni

12

NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-1887, in Opere, Edizione italiana diretta da

Colli-Montinari, vol. VIII, tomo I, Milano 1974, fr. 7 (60), 299.

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– 307 –

elemento che puntella la statuizione finale, e sulle iniziative delle controparti,

le responsabilizza notevolmente.

L’analisi intorno all’efficacia del principio di diritto ci ha condotto

naturalmente ad interrogarci sulle modalità con cui, da un punto di vista

logico, si svolge e si definisce il giudizio di diritto, ovvero la scelta del diritto

applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio; e ciò, nella consapevolezza,

non certamente nuova, della relatività della nozione di fattispecie, che per

essere tale è anzitutto «qualificata» come tale dall’attività di ricostruzione di

fatti storici riaggregati intorno ad uno schema legale. Perciò: un tema grave;

ma utilizzando un’angolazione minima, che è quella della prospettiva del

giudice di rinvio che riceve il dictum e lo deve applicare ai fini della

definizione della causa, si è potuto percorrere il sentiero di indagine cercando

di mantenere aderenza pragmatica.

Anzitutto, l’aver preso come riferimento la pronuncia in punto di diritto

della Suprema Corte ha consentito di saggiare, anche con un’inversione

prospettica, la bontà della scelta di assumere a parametro della devoluzione

nei gradi di impugnazione la nozione più ristretta di «parte di sentenza».

Infatti, respinto l’ordine di idee nel quale «parte di sentenza»

corrisponde a decisione di domanda per via della estrema difficoltà, se non

della impossibilità, di giustificare alla stregua di quella teoria un sistema di

preclusioni nel giudizio di rinvio – tale per cui, secondo quanto esige la

giurisprudenza, a) non possono più rilevare, nella fase processuale post-

cassazione, eventuali questioni di rito afferenti alle fasi di merito pregresse e

alla stessa fase del giudizio di cassazione che rendano inattendibile il

principio di diritto enuciato dalla Suprema Corte e, inoltre, b) quest’ultimo

deve essere accolto unitamente ai suoi cosiddetti «antecedenti logici

necessari», anche di merito –, nessuna soluzione intermedia, tra il concepire

come base dell’effetto devolutivo la domanda o, all’opposto, la singola

questione sui punti di diritto e di fatto, si appalesa gratificante.

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– 308 –

Ed anzi, dall’esame della struttura del giudizio di diritto, la scelta della

nozione più ristretta di «parte di sentenza» si conferma valida, a monte, per

via della impossibilità di ipostatizzare ex antea la «fattispecie» rilevante in

concreto: il carattere necessariamente relativo della fattispecie, infatti,

determina la riproducibilità, per ogni operazione sussuntiva e per ogni

frammento delle fattispecie astratte adattabili al caso, dell’operazione di

correlazione norma-fatto: ed in questo senso il giudizio si profila come

selezione e decisione di singole questioni, fino a quando non si perviene alla

statuizione sull’effetto giuridico.

In questa prospettiva guadagna valore pratico l’acquisita

consapevolezza che la pronuncia in iure cui è chiamata la suprema Corte

quando riscontra un error iuris in iudicando riproduce la stessa struttura

delle decisioni sulle singole questioni di fatto e di diritto che costituiscono il

materiale di cognizione del giudice, le quali rappresentano frammenti di

accertamento dotati di valore interinale che si stratificano nel corso del

processo per poi confluire nella statuizione definitiva, attraverso un

meccanismo di consolidazione progressiva che solo l’iniziativa puntuale

delle parti può scardinare, dissodando i nuclei decisori ritenuti mal giudicati

con effetti a cascata, in caso di successo dell’iniziativa impugnatoria, anche

sui punti di giudizio da quelli dipendenti (il c.d. effetto preterintenzionale

dell’impugnazione).

Con specifico riferimento alla pronuncia in punto di diritto della

Suprema Corte, la irrevocabilità del punto di diritto deciso non comporta

peraltro ex necesse che su questo si formi il giudicato interno: perché, per la

formazione del giudicato interno non è sufficiente che la statuizione non sia

colpita da motivi di censura (qui per inimpugnabilità), ma è necessaria

l’«autonomia logica» tra le questioni sub iudice.

Questa autonomia logica difetta, in particolare, nei casi di relazione

pregiudizialità-dipendenza di merito, quando tra più schemi di sussunzione

c’è comunanza anche di un mero elemento della fattispecie o di una

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questione preliminare di merito; quando vi sono schemi di costruzione dei

rapporti norma-fatto, ai fini della individuazione della fattispecie e della

statuizione sul relativo effetto giuridico, che si configurano, tra di loro, come

interdipendenti o alternativi (per implicazione logica, per incompatibilità).

Tale tipo di relazione tra i punti di merito, dall’apparenza orizzontale, è alla

base, crediamo, dell’orientamento che intravede l’effetto devolutivo allargato

dal capo dipendente a quello pregiudiziale, ovvero dei casi in cui il giudice di

rinvio sembra disattendere gli «antecedenti logici necessari del principio di

diritto».

Nell’esaminare, quindi, le modalità con cui il giudice di rinvio deve

dirigere la causa verso la decisione nel merito, occorre quindi previamente

definire gli ambiti decisori del giudizio di rinvio mantenendo ferme le

preclusioni prodottesi, per giudicato esplicito o implicito, nei gradi di merito

e fino alla pronuncia di annullamento della Cassazione, e tenendo conto del

conclusum delle parti.

La circostanza poi che l’art. 394 c.p.c. imponga alle parti di non

prendere conclusioni di diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu

pronunciata la sentenza cassata, salvo che la «necessità» delle nuove

conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione; il fatto cioè che la norma non

guardi alle «possibilità» consentite dalla sentenza di annullamento, ma alla

necessità di un riadeguamento delle posizioni delle parti, che sorge

evidentemente da un’impossibilità di mantenere le vecchie conclusioni ed il

nuovo principio di diritto (l’ipotesi più plastica è quella, ad es., della

sentenza della terza via), impone di verificare le differenze che il giudice di

rinvio incontra nella definizione della causa rispetto al giudice di merito di

una fase antecedente alla cassazione, anche per ciò che riguarda la

cognizione che residua al netto delle preclusioni.

A questo punto, la considerazione che il giudice di rinvio debba

rinvenire gli spazi della decisione entro i limiti segnati, da un lato, dalla

pronuncia di annullamento e, dall’altro lato, dalle conclusioni rassegnate

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dalle parti nel giudizio di provenienza della sentenza cassata, viene

confrontata con la considerazione dell’efficacia accertativa propria del

principio di diritto. Se ne deduce che quel «di più» che essa ha, rispetto

all’efficacia accertativa delle decisioni rese sulla questione di diritto da parte

del giudice di merito, discende dal ruolo apicale della Suprema Corte e

dall’esigenza pratica di finitezza dei giudizi, e consiste essenzialmente

nell’imporre al giudice di rinvio un diverso metodo di giudizio rispetto a

quello seguito dal giudice di merito della fase d’appello.

Il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte, per il fatto proprio

di trovarsi come punto fermo di cui sono indiscutibili le premesse e le

conclusioni predeterminate delle parti, segna un percorso da seguire al

giudice di rinvio, ed ha la capacità di interrompere l’aspetto circolare o «a

spirale» della ricostruzione del rapporto norma-fatto.

L’attività del giudice di rinvio pertanto sarà, per un verso, attività di

completamento (di applicazione della norma ai fatti) del giudizio altrui (del

giudizio della Suprema Corte); per altro verso, salvo il caso – raro – di

esigenze istruttorie relative a fatti semplici «nuovi» al processo, attività di ri-

valutazione dei fatti (la quale non può non essere un’attività mediata che si

estrinseca nel controllo del giudizio di fatto del giudice di merito pregresso),

dove però il rapporto norma-fatto è prestabilito, per via dell’esistenza del

principio di diritto, e la ricostruzione dei fatti deve “servire” alla

qualificazione giuridica somministrata dalla Suprema Corte.

Dunque, entrambe le attività del giudice di rinvio si svolgono nel solco

tracciato dal principio di diritto; dal punto di vista del giudizio di diritto, il

giudice di rinvio interviene in relazione al punto di merito su cui il principio

viene pronunciato, dovendo e potendo esaminare tutte diverse sottoquestioni

che da quel punto promanano e dovendo comunque utilizzare come

passaggio obbligato del ragionamento la soluzione in diritto offerta dalla

Suprema Corte; dal punto di vista del giudizio di fatto, il giudice di rinvio

dovrà andare alla ricerca degli elementi di fatto atti ad essere sussunti nel

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– 311 –

giudizio di diritto già formulato. Ad esempio, se la Corte ha fornito una certa

qualificazione giuridica, il giudice di rinvio dovrà affrontare una serie di

questioni intermedie, che è necessario porsi al fine di procedere alla «scelta

dei fatti semplici» da sussumere sotto quella qualificazione giuridica, e

dunque riconsiderare i fatti per decidere se sono idonei o no a sorreggere

quella qualificazione giuridica.

La stabilità del principio di diritto (o meglio, la sua applicazione al

caso da definire in sede di rinvio) è assicurata appunto da ciò, che, da un lato,

non si rimettono in questione i presupposti di fatto/diritto che hanno portato

la Corte ad una certa ricostruzione della fattispecie ed alla sua qualificazione

giuridica e, dall’altro, il giudice di rinvio tenderà a recuperare e rivalutare –

con un controllo sull’attività dei precedenti giudici – i fatti che la

ricostruzione giuridica fatta propria dalla Corte rende rilevanti, provvedendo

all’istruzione di fatti ulteriori solo ove necessario.

In tal modo, la verifica dell’insussistenza degli elementi di fatto che

appaiono rilevanti alla luce del principio di diritto enunciato dalla Suprema

Corte costituisce anch’essa applicazione del principio di diritto, nel senso

della negazione degli effetti giuridici legati alla norma individuata dalla

Corte Suprema nel dictum: se la Corte afferma che la clausola-oro è nulla e

dice al giudice di rinvio di applicare questo principio, costituirà applicazione

di tale principio la verifica, da parte del giudice di rinvio, che il contratto per

cui è causa non contiene una clausola-oro.

In sostanza, se la Corte, anziché limitarsi a giudicare erronea una certa

ricostruzione, ne indica un’altra, nel giudizio di rinvio è sicuro che si porrà

centralmente la questione se ci sono i presupposti per riconoscere o

disconoscere l’effetto giuridico richiesto dall’attore alla luce di quella

ricostruzione prescelta dalla Cassazione.

Ciò fa sì che si che, per quanto riguarda la fase post-cassazione

vincolata al dictum, si possa recuperare una nozione tecnica rilevante di

controllo: essendo, sostanzialmente, compito del giudice di rinvio verificare

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– 312 –

il processo a quo e rimediare alle difformità del giudizio formulato dal

giudice a quo rispetto al passaggio obbligato dell’applicazione della norma

individuata ed interpretata dalla Suprema Corte, salva la possibilità che il

conclusum critico delle parti, che individui spazi ancora aperti di cognizione,

non solleciti una deviazione dallo schema di risoluzione della controversia

fatto proprio dalla pronuncia di annullamento.

Tale impostazione ricostruttiva, che riconnette al principio di diritto

un’efficacia accertativa suscettibile di convertire in controllo l’attività di

giudizio del giudice di rinvio, ma senza giungere ad equiparare

ncessariamente al giudicato interno detta efficacia, consente sia di assorbire

nel giudizio di rinvio, a certe condizioni, lo ius superveniens; sia di integrare

nel nostro ordinamento gli sviluppi della giurisprudenza della Corte di

Giustizia europea stanno determinando sul sistema processuale interno sotto

il particolare profilo dell’efficacia del principio di diritto, nella misura in cui

l’Europa esige che non sia d’ostacolo all’applicazione dell’ordinamento

comunitario un sistema processuale interno ad uno Stato membro che

attribuisca alle pronunce in diritto rese dai giudici di ultima istanza

un’efficacia vincolante in grado di prevalere su ogni disciplina incompatibile

del caso concreto.

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