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1 Introduzione Gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) costituiscono una vasta classe di composti organici contenenti due o più anelli aromatici condensati. In particolare, il nome IPA si riferisce ai composti contenenti solo atomi di carbonio e idrogeno (cioè, gli IPA non sostituiti e i loro derivati alchil-sostituiti), mentre il nome più generale “composti policiclici aromatici” include anche i derivati funzionali (es. nitro-IPA) e gli analoghi eterociclici (es. aza-areni). Si tratta di composti pericolosi per la salute dell’uomo e degli animali a causa della loro accertata cancerogenicità che si ritrovano nelle stesse matrici alle quali è comunemente esposta la popolazione ovvero ambiente, suolo ed alimenti (tabella 1). La loro presenza nell’ambiente è dovuta alla combustione incompleta o la pirolisi di materiale organico, come carbone, legno, prodotti petroliferi e rifiuti; di conseguenza la loro formazione è per lo più associata alle seguenti sorgenti (IPCS, 1998): – processi industriali vari (in particolare: produzione d’alluminio, ferro ed acciaio, fonderie); – lavorazioni del carbone e del petrolio; – impianti di generazione d’energia elettrica; – inceneritori; – riscaldamento domestico, specialmente a legna e carbone; – emissioni da veicoli a motore;

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Introduzione

Gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) costituiscono una vasta classe di composti

organici contenenti due o più anelli aromatici condensati. In particolare, il nome IPA

si riferisce ai composti contenenti solo atomi di carbonio e idrogeno (cioè, gli IPA

non sostituiti e i loro derivati alchil-sostituiti), mentre il nome più generale “composti

policiclici aromatici” include anche i derivati funzionali (es. nitro-IPA) e gli analoghi

eterociclici (es. aza-areni).

Si tratta di composti pericolosi per la salute dell’uomo e degli animali a causa della

loro accertata cancerogenicità che si ritrovano nelle stesse matrici alle quali è

comunemente esposta la popolazione ovvero ambiente, suolo ed alimenti (tabella 1).

La loro presenza nell’ambiente è dovuta alla combustione incompleta o la pirolisi di

materiale organico, come carbone, legno, prodotti petroliferi e rifiuti; di conseguenza

la loro formazione è per lo più associata alle seguenti sorgenti (IPCS, 1998):

– processi industriali vari (in particolare: produzione d’alluminio, ferro ed

acciaio, fonderie);

– lavorazioni del carbone e del petrolio;

– impianti di generazione d’energia elettrica;

– inceneritori;

– riscaldamento domestico, specialmente a legna e carbone;

– emissioni da veicoli a motore;

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– incendi di foreste;

– combustioni in agricoltura;

– cottura d’alimenti su fiamma;

– fumo di tabacco.

I vulcani possono inoltre rappresentare una sorgente naturale di IPA con un impatto

locale rilevante. Hanno un notevole impatto ambientale sia per la loro accertata

cancerogenicità, sia per i loro effetti mutageni. Sono inquinanti ubiquitari, poiché

possono essere ritrovati in tracce anche in ambienti lontani dall’attività industriale

principale responsabile della loro produzione, in seguito al trasporto ed alle

precipitazioni atmosferiche.

La presenza di IPA negli alimenti può essere dovuta a contaminazione ambientale, a

processi di lavorazione o trattamenti termici di cottura. Negli alimenti non sottoposti

a trasformazione, la presenza è essenzialmente dovuta a contaminazione ambientale:

deposizione di particolato atmosferico (es. su grano, frutti e verdure), assorbimento

da suolo contaminato (es. patate), assorbimento da acque di fiume e di mare

contaminate (es. mitili, pesci e crostacei). Negli alimenti trasformati o lavorati, la

contaminazione è dovuta ai trattamenti termici (in particolare: cottura alla griglia, al

forno, arrosto e frittura) ed ai processi di lavorazione quali, essiccazione attraverso

fumi di combustione ed affumicatura con metodi tradizionali. Essendo gli IPA, fra i

costituenti la fase solida del fumo, la loro eventuale presenza negli alimenti

trasformati è imputabile ai trattamenti che l’alimento subisce per aumentarne la

durata di conservazione o per conferirgli colore, sapore ed aroma particolare.

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Tabella 1: Fonti di contaminazione da IPA.

Matrice Ambiente Alimenti Suolo

Fonte -processi industriali vari

-lavorazioni del carbone e del

petrolio

-impianti di generazione

d’energia elettrica

-inceneritori

-riscaldamento domestico,

specialmente a legna e

carbone

-emissioni da veicoli a motore

-incendi di foreste

-combustioni in agricoltura

-cottura d’alimenti su fiamma

-fumo di tabacco

-vulcani

-alimenti non sottoposti a

trasformazione*

-alimenti trasformati o

lavorati**

-deposizione atmosferica

-incendi boschivi

-sorgenti industriali vicine

* contaminazione ambientale

**trattamenti termici di cottura e processi di lavorazione.

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Una volta ingeriti (o inalati), gli IPA sono rapidamente assorbiti attraverso il tratto

gastro-intestinale o l’epitelio polmonare, e distribuiti nei vari tessuti (soprattutto

quelli adiposi), compresi quelli fetali. Sono estesamente metabolizzati in vari tessuti

e organi quali polmoni, pelle, esofago, colon, fegato, placenta. In genere il primo

stadio del metabolismo degli IPA è un’ossidazione che ne aumenta l’idrofilicità e ne

facilita quindi l’escrezione. Il composto originale infatti, è ossidato dagli enzimi della

famiglia del citocromo P450, con formazione d’epossidi e specie idrossilate in varie

posizioni, che subiscono a loro volta ulteriori trasformazioni metaboliche. Mentre gli

IPA in sé sono chimicamente inerti, nel corso di queste reazioni metaboliche possono

formarsi degli intermedi elettrofili capaci di interagire con varie macromolecole

biologiche, compreso l’acido desossiribonucleico (DNA).

Nonostante le bassissime concentrazioni di IPA rilevate nei cibi (µg/Kg)

costituiscono in ogni caso uno dei maggiori fattori che contribuisce all’insorgenza

del cancro nell’uomo; da qui l’importanza di sviluppare metodiche analitiche rapide

e facilmente realizzabili per una loro accurata determinazione negli alimenti in modo

da poter valutare l’esposizione dell’uomo a tali contaminanti.

Lo scopo di questa tesi è lo studio, la messa a punto di metodi per la determinazione

degli IPA nelle bevande nervine, in particolare nel caffé e nel tè. L’eventuale

presenza di IPA nelle matrici sopra elencate è dovuta alle alte temperature che si

raggiungono durante la torrefazione dei chicchi di caffé verde e l’essiccazione delle

foglie di tè. L’importanza di questo studio è giustificata dal ruolo di notevole

importanza che il nostro paese riveste nel mercato delle due bevande.

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Capitolo I

Idrocarburi policiclici aromatici (IPA)

1.1 Caratteristiche chimiche e chimico-fisiche degli

IPA

Gli IPA fanno parte di una vasta classe di composti organici il cui capostipite è il

benzene. Sono costituiti da due o più anelli benzenici uniti fra loro, in un’unica

struttura piana, attraverso coppie di atomi di carbonio condivisi fra anelli adiacenti.

Gli IPA sono solidi a temperatura ambiente. Si dividono in:

• IPA leggeri: costituiti da due o tre anelli;

• IPA pesanti: costituiti da quattro o più anelli.

La tensione di vapore di tali composti è generalmente bassa ed inversamente

proporzionale al numero di anelli contenuti. I composti contenenti quattro anelli o un

numero inferiore in genere rimangono in forma gassosa quando sono immessi in

atmosfera e dopo circa ventiquattro ore, di solito, sono degradati. Gli IPA con più di

quattro anelli, al contrario, a causa della loro bassa tensione di vapore tendono

rapidamente a condensarsi ed essere adsorbite alla superficie delle particelle di

cenere o fuliggine.

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Sono poco solubili o del tutto insolubili in acqua; la solubilità diminuisce

all’aumentare del peso molecolare. La presenza di più anelli aromatici conferisce

loro bassa reattività, alti punti di fusione ed ebollizione e carattere lipofilo.

Una misura della lipofilicità è data dal coefficiente di ripartizione acqua/n-ottanolo

(Kow), che esprime la capacità d’accumulo dei composti in “fasi” apolari quali ad

esempio nei tessuti lipidici degli organismi:

Kow = [ X] ottanolo/ [ X] acqua

[ X] = concentrazione sostanza in ppm o Molarità

Più spesso si usa il logKow; l’EPA (Environmental Protection Agency) afferma che i

composti che hanno il logKow maggiore di 3,5 devono essere considerati

potenzialmente pericolosi per l’ambiente.

In tabella 1.1 sono riportate le strutture di 16 IPA inseriti nella lista dei “priority

polluttants” dell’EPA.

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Tabella 1.1: Strutture dei 16 IPA inseriti nella lista dell’EPA (Fonte IPCS

modificata).

Struttura

Composto Peso

molecolare

Punto di

fusione

(°C)

Punto di

ebollizione

(°C)760

Naftalene

128,16

79

218

Antracene

178,24

216

340

Fenantrene

178,24

101

338

Acenaftilene

152,20

93

280

Acenaftene

154,211

95

279

Fluorene

166,22

116

295

Fluorantene

202,26

111

383

Pirene

202,26

156

393

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Benzo(a)antracene

228,30

162

435

Crisene

228,30

256

441

Benzo(b)fluorantene

252,32

168

481

Benzo(a)pirene

252,32

177

496

Benzo(k)fluorantene

252,32

217

480

Indeno(1,2,3-cd)pirene

276,34

163,6

536

Benzo(g,h,i)perilene

276,34

278

550

Dibenzo(a,h)antracene

278,36

270

524

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1.2 Principali fonti degli IPA e meccanismo di

formazione

Gli IPA si formano in seguito a processi di pirolisi, derivano soprattutto

dall’incompleta combustione di sostanze organiche ovvero dagli impianti di

produzione del carbone, impianti d’incenerimento, riscaldamento industriale e

domestico, motori a combustione interna, combustioni quali incendi boschivi, fumo

di sigaretta.

Il meccanismo di formazione degli IPA non è ancora completamente chiarito, si

pensa che avvenga in due stadi: pirolisi e pirosintesi. Ad alte temperature i composti

organici sono parzialmente trasformati in molecole più piccole ed instabili (cracking

pirolitico: frammentazione in numerose parti delle molecole del combustibile a

contatto con il fuoco). Questi frammenti, principalmente radicali, si ricombinano per

formare molecole più grandi e stabili quali gli IPA (pirosintesi). La reazione di

ripolimerizzazione avviene soprattutto in condizioni di carenza di ossigeno; in genere

la velocità di formazione degli IPA aumenta al diminuire del rapporto

ossigeno/combustibile; i frammenti spesso perdono qualche atomo di idrogeno, che

forma acqua dopo essersi combinato con l’ossigeno durante le varie fasi della

reazione: i frammenti ricchi di carbonio si combinano in modo tale da formare gli

idrocarburi aromatici policiclici (figura 1.1), che rappresentano le molecole più

stabili, con un rapporto C/H elevato. Dopo i processi di craking e di combustione

parziale si assiste infatti, ad una prevalenza della presenza di frammenti radicalici

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contenenti due atomi di carbonio che possono reagire con una molecola di acetilene a

dare un radicale a 4 atomi di carbonio.

Il radicale che ne risulta può essere successivamente addizionato ad un’altra

molecola di acetilene e ciclizzare in modo da formare un anello a sei componenti.

Il radicale può addizionare ulteriori molecole di acetilene dando luogo a catene

laterali che formano anelli benzenici condensati.

Figura 1.1: Reazioni di formazione degli IPA.

H 2 C C H C H C H + HC CH

H 2 C C H CH

CHC H H C

C H CH

CH

CHC H 2 C H

H 2 C C H + H C CH H2C CH C H C H

H HH

H C C H

H H

H CCH

H

H

H H

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Alcuni tipi di cottura dei cibi possono per esempio, portare alla formazione di IPA, in

particolare trattamenti termici legati sia alla conservazione del prodotto

(affumicatura), sia alla preparazione dell’alimento (grigliatura, cottura, frittura).

Gli IPA presenti negli alimenti possono essere suddivisi in base alla loro origine in:

• IPA di formazione esogena derivanti dalla combustione del carburante: i fumi

di combustione, costituiti da IPA nella fase solida, possono venire a contatto

con l’alimento contaminandolo in superficie. Secondo Thorsteisson e

Thordason (Doremire, 1979) la causa principale della presenza di IPA negli

alimenti affumicati sarebbe infatti dovuta all’incompleta combustione del

carburante;

• IPA di formazione endogena presenti sulla superficie degli alimenti a causa di

trattamenti termici severi (alte temperature, tempi lunghi di trattamento e

vicinanza a fonti di calore). L’elevata temperatura provoca la pirolisi di

protidi, lipidi e glucidi. Secondo gli studi di Larsson (Larsson et al., 1983;

1987), nei prodotti carnei grigliati solo il diretto contatto dell’alimento con la

fiamma dà significative produzioni di IPA (sino a 212 ppb di benzo(a)pirene,

B[a]P), mentre le braci di per sé ne emettono solo piccole quantità (1-25 ppb

di B[a]P).

Un’ulteriore fonte di contaminazione per gli alimenti, oltre a quelle sopraccitate è

quella ambientale. Gli IPA infatti, possono ritrovarsi anche nei vegetali a foglia larga

quali lattughe e spinaci per la deposizione di tali sostanze trasportate con l’aria sulle

foglie durante la crescita. Contribuiscono significativamente anche i cereali

consumati allo stato grezzo.

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Da uno studio italiano (Lodovici et al., 1995) risulta che il cibo è la fonte

d’esposizione più importante per l’uomo agli IPA: dai dati di tale studio risulta che

l’apporto degli IPA totali attraverso il cibo si aggira intorno ai 3 µg al giorno, mentre

quello relativo agli IPA cancerogeni è pari a 1-4 µg al giorno. Tali risultati sono

elevati se paragonati al contributo che le stesse sostanze apportano tramite la

respirazione che è pari a 370 ng al giorno per gli IPA totali e 130 ng al giorno per gli

IPA cancerogeni.

Gli alimenti più incriminati sono risultati essere la pizza cotta al forno e la carne di

manzo e maiale cotta al barbecue nei quali sono state ritrovate alte concentrazioni di

IPA; concentrazioni relativamente alte sono state invece rilevate in alcuni prodotti

vegetali come zucca e barbabietola risultato della contaminazione ambientale. Gli

alimenti meno contaminati sono risultati essere le patate, uova e bevande (vino,

birra).

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1.3 Biochimica degli IPA

La capacità delle miscele contenenti IPA di indurre il cancro nell’uomo è nota dal

1775, quando il chirurgo inglese Sir Percival Potter dimostrò la correlazione fra

l’esposizione alla fuliggine e l’incidenza del cancro allo scroto (Pott, 1963). Le

ricerche sulla cancerogenesi indotta dagli IPA cominciarono con l’isolamento del

B[a]P dai fumi del carbone nel 1930, e con la successiva dimostrazione che il B[a]P

induceva i tumori quando, ripetutamente, era spennellato sulla pelle del topo (Cook

et al., 1933). Basandosi su studi teorici, Pullman e Pullman nel 1955 (Pullman A. &

Pullman B., 1955) suggerirono che l’attività cancerogena degli IPA era da mettere in

relazione con la presenza di una zona ad alta densità elettronica chiamata K-region.

In particolare è stato osservato che gli IPA che presentano una K-region ed una bay

region sono dei potenti cancerogeni e che quelli che presentano una fjord regions

oppure una bay region stericamente impedita sono dei cancerogeni ancora più potenti

(figura 1.2).

La correlazione fra le interazioni degli IPA cancerogeni con il DNA e la loro potenza

cancerogena fu in seguito scoperta da Brookes e Lawley nel 1964 che dimostrarono

una correlazione positiva fra il tipo di legame ("level of binding") di una serie di IPA

nella pelle del topo e la loro potenza cancerogena (Brookes & Lawley, 1964).

Basandosi su questi risultati Baird e Brookes nel 1973 testarono l’ipotesi che gli IPA

erano attivati nelle cellule ad epossidi K-region che si legano al DNA (Baird e

Brookes, 1973). Furono però Lehr e Jerina nel 1977 a descrivere le basi teoriche dell’

attività cancerogena degli IPA-dioli-epossidi (Lehr e Jerina, 1977).

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Me

Me

Benzo[a]pirene 7,12-Dimetil-benz[a]antracene

Dibenzo[a,l]pirene

Figura 1.2: Formule di struttura di alcuni IPA ad elevato potere cancerogeno

(adattate da Baird e Ralston, 1997).

L’azione mutagena e cancerogena degli IPA è conseguenza delle trasformazioni cui

questi composti vanno incontro nel corso dei processi metabolici dell’organismo. Gli

agenti cancerogeni sono i prodotti intermedi del metabolismo degli IPA, che

l’organismo produce per facilitarne l’eliminazione; gli IPA, infatti, sono convertiti

dall’organismo in derivati nel tentativo di renderli idrosolubili, quindi più facilmente

eliminabili (Baird et al., 2005) (figura 1.3).

Il B[a]P è il composto più ampiamente studiato dal punto di vista tossicologico e più

frequentemente determinato nelle varie matrici, sia ambientali sia alimentari. Esso è

Bay region

Bay region impedita stericamente

Fyord

region

K-region K-region

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frequentemente usato come indicatore della classe degli IPA, per quanto riguarda sia

i livelli di contaminazione sia il rischio cancerogeno. Tale scelta è dovuta al fatto che

è impossibile condurre studi epidemiologici sul singolo componente, poiché in natura

gli IPA sono presenti sempre in miscela e con precisi rapporti di concentrazione tra

loro, in base alla fonte inquinante. Le osservazioni sulle quali si basa la scelta di

usare il B[a]P come indicatore sono: la sostanziale somiglianza, almeno in termini di

ordini di grandezza, tra i “profili” degli IPA rispetto al B[a]P(cioè i rapporti tra le

concentrazioni degli IPA, in particolare quelli cancerogeni, e la concentrazione del

B[a]P), osservata in campioni anche di diversa origine; la potenza cancerogena del

B[a]P relativamente elevata rispetto agli altri IPA; i livelli di concentrazione del

B[a]P simili o superiori a quelli degli altri IPA cancerogeni (IPCS, 1998).

La prima trasformazione cui va incontro il B[a]P è l’epossidazione, catalizzata dal

citocromo P450, nelle posizioni 7 ed 8, le più reattive, che rappresentano la

cosiddetta regione K.

B [a]P -7,8-ossido

L’epossido subisce un attacco nucleofilo da parte dell’acqua, con formazione di un

diolo, più idrosolubile e quindi più facilmente eliminabile.

O

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B[a]P-7,8-diidro-7,8-diolo

Questo metabolita degli IPA può essere ulteriormente metabolizzato dal citocromo

P450 per formare un diolo epossido.

B[a]P-7,8-diolo-9,10-epossido

Figura 1.3: Metabolismo del B[a]P.

Si ritiene che sia questo diolo epossido la specie effettivamente cancerogena che si

lega al DNA attraverso attacco nucleofilo, ad esempio da parte dell’adenina (figura

1.4). L’attacco covalente del grosso residuo idrocarburico rappresenta un evidente

danno per il DNA che provoca delle mutazioni ed una maggiore probabilità di

cancerogenicità (Lehr & Jerina, 1977).

O

H2O

HO

OH

H O O H

HO

OH

O

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Figura 1.4: Reazione del B[a]P-7,8-diolo- 9,10-epossido con il DNA.

HO

OH

O

O

NN

NN

NH2

O H

O H

H

H

H P

O - O

O -

HO

OH

O

NN

NN

NH

O

H

O H

H

H

H P

O - O

O -

HO

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Le informazioni sul meccanismo di cancerogenesi degli IPA, in cui ha un ruolo

causale l’induzione di alterazioni genetiche, permettono di estendere le osservazioni

sull’animale da esperimento all’uomo, potendosi escludere meccanismi indiretti,

specie-specifici. Non esistono d’altra parte studi adeguati per valutare gli effetti

cancerogeni di singoli IPA sull’uomo. In condizioni reali, infatti, l’esposizione

umana riguarda miscele complesse di IPA, in cui sono spesso presenti anche altri

componenti cancerogeni. Per alcune di queste miscele (catrame di carbone, fuliggini)

o tipologie d’esposizione (distillazione di carbone, produzione di coke) esiste in ogni

modo una sufficiente evidenza epidemiologica di cancerogenicità nell’uomo (classe

1 IARC). In generale, sia per i singoli IPA sia per le loro miscele complesse, la

valutazione della cancerogenicità si sovrappone a quella della genotossicità. Ciò

evidenzia l’associazione funzionale tra formazione di danni/addotti sul DNA,

induzione di mutazioni ed effetti cancerogeni a lungo termine degli IPA (You et al.,

1994; Nesnow et al., 1995; 1998). Sempre sulla base della tossicologia sperimentale,

il B[a]P è definito “iniziatore”, ovvero sostanza che in seguito all’azione metabolica,

reagisce con il DNA provocando effetti irreversibili presenti anche nello stadio della

divisione cellulare e trasmessi dunque alla prole. Per tale motivo il B[a]P è definito

anche genotossico e mutageno.

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Capitolo II

Bevande Nervine: caffè e tè

2.1 Il caffè: coffea arabica e coffea robusta

In base al sistema di classificazione del regno vegetale creato dal botanico svedese

Carlo Linneo, la pianta del caffè appartiene alla famiglia delle Rubiacee, che

raggruppa ben 4500 varietà tra cui 60 speci appartenenti al genere Coffea.

Delle circa 60 speci di piante di caffè esistenti solo quattro hanno un posto di rilievo

nel commercio dei chicchi di caffè: Coffea arabica che è la specie più diffusa e

coltivata, Coffea robusta del Congo, la più ricca in caffeina, Coffea liberica

dell’Africa Occidentale, la più impiegata per fare i decaffeinati e Coffea excelsa.

La pianta del caffè cresce in zone tropicali ma richiede condizioni ambientali molto

specifiche per la coltura commerciale. La temperatura, la pioggia, la luce solare, il

vento ed i terreni sono tutti importanti, ma i requisiti variano in base alle varietà

coltivate. E’ danneggiata facilmente dal gelo, un pericolo nel Brasile del sud o, più

vicino all'Equatore, alle altezze intorno a 2000 m; in genere ha bisogno di una

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pioggia annuale di 1500 - 3000 millimetri. Per proteggere le piantagioni dal vento

vengono a volte utilizzate come barriere alberi di banane che rappresentano una

caratteristica comune dell'habitat naturale del caffè.

E’ un arbusto sempreverde originario dell’Abissinia, che trasportato nel 1712 nella

Martinica ha dato seguito alle speci coltivate nelle Antille, nell’America Centrale e

Meridionale. Nel suo luogo d’origine cresce tra i 1000 ed i 2000 metri ed ha l’aspetto

di un albero alto 8-10 metri; allo stato coltivato invece è portato tra i due ed i 4 metri

per facilitare la raccolta dei frutti. Ha foglie ovato-acute di color verde scuro e lucide;

fiori bianchi, odorosi riuniti in mazzetti all’ascella delle foglie. Il frutto, detta

comunemente ciliegia, è una bacca scarlatta, ovale che avvolge due noccioli

all’interno dei quali è contenuto il seme. Quest’ultimo è rivestito da un tegumento

detto perispermio e più esternamente dal pergamino, una pellicola di colore giallo-

dorato.

La maturazione del caffè dura da sei ad undici mesi e la stagione della fioritura e del

raccolto dipende in sostanza dal clima e dal terreno. Con buona approssimazione, si

può affermare che nelle regioni di coltivazione a nord dell'equatore, il periodo della

fioritura corrisponde alla nostra primavera ed il raccolto cade in inverno, mentre a

sud dell'equatore la fioritura avviene sul finire della nostra estate, ed il raccolto,

iniziando in primavera, si protrae fino all'estate. La fruttificazione può essere molto

irregolare, non è quindi difficile trovare sulla stessa pianta fiori, ciliegie verdi, rosse

ed anche marrone.

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Acqua, carboidrati, lipidi, sostanze azotate sono fra i costituenti dei chicchi (tabella

2.1); il più importante, al quale sono dovute le proprietà farmacologiche del caffè, è

un alcaloide xantinico, la caffeina.

Tabella 2.1: Composizione chimica dei chicchi.

Componenti Quantità (%)

Acqua 10-14

Sostanze Azotate 8-16

Lipidi 10-16

Carboidrati 9-10

Ceneri 4-6

Cellulosa 10-30

Caffeina 1,2-2,2

Acido clorogenico 7-8

Trigonellina 1,4

Acido caffetannico 6-8

Acido nicotinico 2 mg

La caffeina (figura 2.1) è un potente stimolante del S.N.C., della respirazione e dei

muscoli scheletrici; inoltre stimola il cuore, dilata le coronarie e favorisce la diuresi.

Purtroppo, oltre a quelle già citate possiede anche proprietà mutageniche,

teratogeniche e carcinogeniche. In aggiunta all’uso come stimolante respiratorio e

nervoso, la caffeina è ampiamente impiegata come principio attivo in molti tipi di

prodotti farmaceutici ovvero analgesici, prodotti per il raffreddore e per il controllo

del peso.

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Me

Me

Me

O

NN

NN

O

Figura 2.1: Struttura chimica caffeina.

Non bisogna ignorare le proprietà di un’altra sostanza presente in quantità rilevanti

nel caffè ovvero l’acido 3-caffeoilchinico meglio noto come acido clorogenico

(figura 2.2) formato da acido caffeico ed acido chinico che presenta proprietà

stimolanti, coleretiche e diuretiche.

CO 2H

O

O

OH

HO

HO

OH

OH

RR

S

R

Figura 2.2: Struttura chimica acido clorogenico.

Altri costituenti del caffè sono i minerali ovvero potassio, calcio, magnesio, i lipidi e

le cere. Il potassio è estratto completamente durante la preparazione della bevanda; i

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lipidi e le cere vengono in massima parte trattenuti durante la preparazione del caffè

dal filtro. Da secoli il caffè è usato in varie culture come bevanda per mantenersi

svegli ed aumentare l’efficienza lavorativa. L’estratto di caffè è ampiamente

utilizzato in molti prodotti alimentari, tra cui bevande alcoliche ed analcoliche, dolci,

salse dolci, prodotti da forno.

La specie Coffea arabica (figura 2.3) è coltivata e selezionata da diversi secoli. Di

questa la più rinomata è la varietà "Moka", coltivata sopratutto in Arabia, i cui grani

piuttosto piccoli, hanno un intenso profumo aromatico. Il loro colore caratteristico è

il verde rame, mentre la forma è appiattita ed allungata. Altre varietà sono la

"Tipica", la "Bourbon" molto diffusa in Brasile e la "Maragogype" apprezzata per i

grani più grossi che produce. Le piante di Arabica prosperano in terreni dotati di

minerali, specie quelli di origine vulcanica, situati oltre i 600 metri di altezza. Il

clima ideale deve aggirarsi intorno alla temperatura media di 20°C.

Figura 2.3: Coffea arabica nello stadio di maturazione del frutto

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La specie Coffea Robusta (figura 2.4) è affine alla Coffea arabica, i suoi rami

s’incurvano a forma di ombrello, verso terra. Durante l'anno la fioritura è continua. I

suoi grani tondeggianti sono più piccoli, ma più ricchi di caffeina rispetto alla specie

precedente ed, una volta torrefatti, sono molto profumati. Questa varietà che vegeta

anche in pianura, ha avuto molta fortuna in commercio. Scoperta nel Congo è ora

molto coltivata, perché oltre all'abbondanza di produzione ed al minor costo

d'impianto, mostra alte caratteristiche di resistenza alle malattie, vegetando anche in

condizioni disagiate. Alcune varietà ricavate da incroci di "Canephora" cui la robusta

appartiene, sono molto diffuse in Indonesia, Uganda, India e nell'Africa occidentale.

Figura 2.4: Coffea Robusta

Inoltre, alcuni anni fa è stata ricavata la specie ibrida "arabusta", incrocio tra le due

Coffea, arabica e robusta. La pianta ibrida mostra la robustezza fisica propria della

Robusta e la qualità dei chicchi dell’Arabica. Questi risultati, ottenuti dai ricercatori

dell’Istituto Francese del Caffè e del Cacao, sito in Bingerville, sono stati applicati su

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piccola scala soprattutto in Costa d’Avorio (International Trade Centre

UNCTAD/GATT, 1992).

In tabella 2.2 sono riportate le principali differenze tra le 2 speci arabica e robusta.

Tabella 2.2: Principali differenze tra Coffea arabica e robusta.

arabica robusta

Tempo dal fiore alla ciliegia matura 9 mesi 10-11 mesi

Fioritura dopo pioggia irregolare

Rendimento (chilogrammi semi/ha) 1500-3000 2300-4000

Sistema della radice In profondità poco profondo

Temperatura ottimale (media annuale) 15-24° C 24-30° C

Pioggia ottimale 1500-2000 millimetri 2000-3000 millimetri

Optimum di sviluppo 1000-2000 m. 0-700 m.

Vastatrix di Hemileia suscettibile resistente

Koleroga suscettibile tollerante

Nematodi suscettibile resistente

Tracheomycosis resistente suscettibile

Malattia della bacca del caffè suscettibile resistente

Contenuto nella caffeina dei fagioli 0.8-1.4% 1.7-4.0%

Figura del fagiolo piano ovale

Caratteristica tipica acidità amarezza

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2.1.1 Ciclo produttivo del caffè

La pianta del caffè comincia a fruttificare dopo 3-4 anni dalla messa a dimora,

raggiungendo la massima produzione tra l’ottavo ed il decimo anno. Continua a dare

una buona resa fino al ventesimo anno circa oltre il quale diminuisce

progressivamente a causa dell’impoverimento del suolo e dell’inevitabile

invecchiamento dell’apparato radicale (International Trade Centre UNCTAD/GATT,

1992). Il ciclo produttivo del caffè è costituito da varie fasi (figura 2.5). Man mano

che i frutti arrivano a perfetta maturazione, occorre procedere alla raccolta che è

effettuata quando il frutto del caffè giunto alla giusta maturazione ha assunto un

colore rosso. Sono due i metodi di raccolta: lo strip picking ed il selective picking. Il

procedimento di raccolta più veloce è lo strip picking, che consiste nell’attendere che

la maggior parte delle bacche sia matura, per poi procedere alla raccolta a mano

strappando le ciliegie dai rami in un’unica volta senza badare al loro stadio di

maturità. Il selective picking consiste, invece, nella raccolta a mano a più riprese, a

distanza di alcune settimane dei soli frutti maturi ed assicura una maggiore qualità.

L'intera operazione del raccolto, oltre a non essere agevole per i motivi esposti, si

presenta anche complessa e molto costosa, perciò in pratica le bacche sono raccolte

in una sola volta nel momento intermedio, in cui la maggior parte di esse è matura.

Tuttavia si raccolgono anche quelle non completamente mature, sia per ridurre il

costo di un nuovo turno di raccolta, sia per evitare che esse vengano attaccate dal

coleottero Stephanoderes coffea.

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La tecnica odierna poi ha realizzato degli appropriati macchinari (usati nelle più

estese coltivazioni), che provvedono automaticamente alla raccolta. Si tratta di grossi

cingolati, guidati dall'uomo, fatti passare al di sopra d’ogni fila di arbusti, che

durante il passaggio scuotono e raccolgono le bacche.

I chicchi devono, a questo punto, essere estratti dalle bacche ed essiccati prima della

tostatura; ciò può essere fatto in due modi, conosciuti come il metodo asciutto e

bagnato.

Il metodo asciutto (anche denominato metodo naturale o trattamento per via secca) è

il più vecchio, più semplice e richiede pochi macchinari e consiste nell'asciugare la

ciliegia intera. Tale procedimento presenta tre punti di base: pulizia, essiccamento e

sbucciatura. Il caffè che giunge dalle zone di raccolta è sottoposto ad operazioni tese

all’eliminazione di corpi estranei quali foglie, ramoscelli e pietre. Tutto ciò può

essere eseguito in due modi:

• meccanico: consiste nel far passare i frutti attraverso setacci e sottoporli a

forti getti d’aria;

• umido: consiste nell’immergere le bacche in vasche d’acqua e nel prelevare,

con un tubo immerso a metà livello, solo quelle con peso specifico di poco

superiore all’acqua, in altre parole quelle mature. E’ scartato tutto ciò che si

deposita sul fondo, come pietre e bacche immature e ciò che viene a galla

come foglie, ramoscelli e bacche secche (Illy F. e R ., 1989).

Terminata la fase d’eliminazione delle impurità inizia il processo d’essiccazione al

sole in quanto solo a ciliegia secca è possibile separare il seme dalla polpa e dal

pergamino. Le ciliege del caffè sono quindi esposte fuori al sole in strati di circa 30

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cm e periodicamente rastrellate a mano o girate per accertare l'essiccamento

uniforme. L’essiccazione dura dalle tre alle cinque settimane in base al numero di

giornate di sole, lo spessore degli strati di ciliegie e la temperatura. Questa fase porta

il caffè ad un tenore d’umidità del 20% circa: per completare l’essiccazione e

portare la percentuale di umidità intorno al 12% si fa uso d’essiccatori industriali.

L'essiccazione è la fase più importante del processo, poiché interessa la qualità finale

del caffè verde. Un caffè che è stato sovraessiccato diventerà fragile e produrrà

troppi fagioli rotti durante la sbucciatura (i fagioli rotti sono considerati fagioli

difettosi), mentre quello che non è stato asciugato sufficientemente sarà troppo

umido ed incline a deterioramento veloce causato dall'attacco dei funghi e dei batteri.

Le ciliege secche sono immagazzinate nei silos speciali e sottoposte all’azione di

macchine decorticatrici che liberano i semi dalla buccia, polpa e mucillagini

essiccate e dal pergamino. Infine sono classificati ed insaccati. I chicchi di caffè

trattati con tale procedimento prendono il nome di caffè naturali. Il metodo asciutto è

usato per circa il 95% del caffè arabica prodotto nel Brasile, per la maggior parte dei

caffè prodotti in Etiopia, in Haiti e nel Paraguay. Quasi tutto il robusta è prodotto con

questo metodo. Non è pratico nelle regioni molto piovose, dove l'umidità

dell'atmosfera è troppo alta o dove piove frequentemente durante la raccolta.

Il metodo bagnato (o trattamento per via umida) richiede l'uso di attrezzature

specifiche e di quantità notevoli di acqua. Inoltre per lavorare il caffè in umido è

necessario che questo sia stato raccolto con il metodo selective picking: le ciliegie

devono essere mature al punto giusto in modo che la polpa sia tenera e permetta di

snocciolare i chicchi. Se eseguito correttamente, si nota che le qualità intrinseche dei

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chicchi di caffè si sono conservate meglio, producendo un caffè verde che è

omogeneo ed ha pochi fagioli difettosi. Il caffè prodotto con questo metodo è

considerato solitamente di qualità migliore e perciò di prezzo più elevato. Anche

dopo una raccolta attenta, un numero seppur esiguo di bacche parzialmente secche e

non mature, come pure pietre e sporcizia, sarà presente fra le ciliege mature. Come

nel metodo asciutto, la fase preliminare di cernita e pulizia delle ciliege è necessaria

e dovrebbe essere eseguita appena possibile dopo la raccolta lavando le ciliege in

vasche di acqua: da queste passano, trasportate dalla corrente di acqua, in dei canali

dove avviene la separazione delle bacche mature da quelle secche oppure immature

per differenza di peso specifico: le bacche mature rimangono infatti sospese nella

parte centrale della vasca e da qui sono quindi fatte passare attraverso un

despolpatore a tamburo o a dischi. Le bacche sono schiacciate tra la parte rotante (il

tamburo o il disco) ed una lama fissa per lacerare la buccia e permettere la fuoriuscita

dei due chicchi ancora rivestiti dal pergamino (Schillani F., 1996).

Questa è la differenza chiave fra i metodi asciutto (o a secco) e bagnato (o umido),

infatti, nel metodo bagnato la polpa della frutta è separata dai fagioli prima della fase

d’essiccamento. Poiché lo spappolamento è fatto attraverso mezzi meccanici, il

processo lascia normalmente una certa polpa residua così come la mucillagine

appiccicosa che aderisce alla pergamena che circonda i fagioli che deve essere

completamente rimossa per evitare la contaminazione dei chicchi di caffè da sostanze

derivanti dalla sua degradazione. I fagioli sono depositati nei grandi serbatoi di

degradazione in cui la mucillagine è fermentata da microrganismi naturali presenti

nella polpa. A meno che la fermentazione sia controllata con attenzione, il caffè può

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acquistare sapori indesiderabili e acidi. Per la maggior parte dei caffè la rimozione

della mucillagine impiega 24-36 ore, secondo la temperatura, lo spessore dello strato

della mucillagine e la concentrazione degli enzimi. La conclusione della

fermentazione è valutata dal tatto, infatti la pergamena che circonda i fagioli perde la

relativa struttura viscosa ed acquista un tatto meno consistente (si sfalda). Terminata

la fermentazione, il caffè è lavato completamente con acqua pulita in serbatoi o in

lavatrici speciali. Il caffè bagnato in questa fase ha un'umidità di circa il 57%. Per

ridurne l'umidità ai 12,5% ottimali è asciugato al sole, in un essiccatore meccanico, o

tramite una combinazione dei due. I fagioli sono disposti su uno strato di 2-10

centimetri e sono girati frequentemente per accertare l'essiccamento uniforme.

L'essiccamento al sole dovrebbe impiegare 8-10 giorni, funzione di temperatura e

dell'umidità ambientale. L'uso delle macchine d’essiccamento ad aria calda diventa

necessario per accelerare il processo in grandi piantagioni in cui, al picco del periodo

di raccolta, ci potrebbe essere molto caffè che può non essere asciugato

efficacemente sui terrazzi in tempi brevi. Tuttavia, il processo deve essere controllato

con attenzione per realizzare un essiccamento soddisfacente ed economico senza

alcun danneggiamento di qualità. Terminata l’asciugatura i chicchi sono insaccati ed

inviati ai centri di lavorazione dove avviene la decorticazione ovvero l’eliminazione

del pergamino. Infine sono classificati ed insaccati. I chicchi di caffè trattati con tale

procedimento prendono il nome di caffè lavati. Il metodo bagnato è usato

generalmente per tutti i caffè dell'arabica, con l'eccezione di quelli prodotti nel

Brasile e nei paesi detti prima come utenti del metodo asciutto. È’ usato raramente

per il robusta.

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A questo punto i chicchi prendono il nome di caffè verde, sono esportati e pronti per

la successiva tostatura.

Le differenze nella composizione chimica fra i chicchi di caffè crudi e tostati sono

riportate in tabella 2.3 (De Palo Dario, 1996).

Tabella 2.3: Composizione chimica dei chicchi crudi e tostati.

COMPONENTI CRUDO (%) TOSTATO (%)

Acqua 10-14 2-3

Sostanze Azotate 8-16 2-15

Lipidi 10-16 8-15

Carboidrati 9-10 2-3

Ceneri 4-6 3-5

Cellulosa 10-30 10-25

Caffeina 1,2-2,2 0,8-2

Acido clorogenico 7-8 4-5

Trigonellina 1,4 0,3-0,6

Acido caffetannico 6-8 -

Acido nicotinico mg 2 mg 50-60

Il processo di torrefazione (o tostatura) consiste nel fornire calore ai chicchi che

subiscono evidenti trasformazioni fisiche nella struttura e cambiamenti nella loro

composizione chimica. All'interno del chicco il calore passa rapidamente da una

cellula all'altra grazie alla presenza dell'acqua che conduce il calore. Tale processo

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avviene mediante correnti d’aria calda (circa 190-240°C) che investono i grani

leggermente agitati da normali recipienti (spesso tamburi orizzontali in rotazione) e

dura circa 12-20 minuti. L'equilibrio di una perfetta tostatura è dato dal tempo e dalla

temperatura, la combinazione di questi due parametri determina il grado di

torrefazione. Le principali modifiche che il chicco subisce durante questa fase sono:

• perdita di peso dovuta all'evaporazione dell'acqua e di alcune sostanze

volatili;

• aumento del volume rispetto al prodotto crudo;

• formazione di una colorazione bruno-nerastra dovuta alla carbonizzazione

della cellulosa ed alla caramellizzazione degli zuccheri;

• comparsa sulla superficie dei chicchi, di un olio brunastro (il caffeone) che

determina il caratteristico aroma;

• leggera perdita di caffeina dovuta al calore;

• formazione di componenti volatili e pigmenti in seguito alle reazioni di

Maillard.

Più elevata è la temperatura di tostatura, maggiore è la diminuzione di caffeina nei

chicchi. La tostatura può aumentare la friabilità del prodotto rendendone più agevole

la macinazione. Aumenta anche la capacità di assorbire umidità e pertanto il caffè

soprattutto se macinato, deve essere conservato in confezioni nelle quali o è fatto il

vuoto o s’immette gas inerte. Il processo chimico si arresta con l'abbrustolimento e

successivamente il caffè viene fatto raffreddare in appositi grossi contenitori.

Dopo la torrefazione, il caffè in grani può essere macinato oppure mantenuto tal

quale. La macinazione può avvenire mediante molino per caffè o macinatore a rulli

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oppure tramite macinino con coltelli a disco. Il primo caratterizzato da una

sostanziale costanza di lavoro per periodi anche lunghi di tempo, il secondo più

adatto quando occorre variare spesso il tipo di macinatura o quando si devono

macinare piccole quantità di miscela.

Dopo la macinazione, perché il prodotto possa essere confezionato, occorre attendere

circa sei ore per il degassaggio. Al contrario, per il caffè non macinato occorre

attendere la maturazione del prodotto in ambiente controllato di ossigeno ed umidità,

perchè lasciato in ambiente atmosferico non controllato, perde le sue caratteristiche

di freschezza e fragranza nell’arco di un paio di settimane in quanto dai chicchi si

sprigiona anidride carbonica che trascina con sé gli aromi volatili.

Il confezionamento, in Italia, avviene nei seguenti modi:

- in sacchetto o lattina sottovuoto: i contenitori una volta riempiti sono privati

dell’aria e chiusi ermeticamente in modo da impedire all’aria esterna di

raggiungere il contenuto della confezione;

- in lattina in atmosfera modificata e pressurizzata: dopo aver riempito di caffè

la lattina, si fa il vuoto e l’aria tolta è compensata con gas inerti a bassa

pressione e si chiude ermeticamente;

- in sacchetto o lattina in ambiente atmosferico.

Il caffè macinato è di solito confezionato in ambiente controllato, mentre il caffè in

grani si trova più spesso in condizioni di ambiente atmosferico.

I vari tipi di confezionamento danno risultati sostanzialmente differenti per quanto

riguarda la capacità di preservare la qualità del prodotto: mentre le lattine in

ambiente controllato si possono considerare ambiente quasi perfetto, in quanto le

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condizioni di pressione create si mantengono quasi inalterate per anni, il sacchetto

sottovuoto dopo pochi mesi dal confezionamento vede diminuire il grado di vuoto.

Inoltre la pressurizzazione presenta due vantaggi: la durata (che può superare i tre

anni poiché nelle cellule del caffè rimane l’anidride carbonica che svolge azione

antiossidante) e la preservazione degli aromi volatili che addirittura col tempo si

fissano nelle sostanze grasse della parete cellulare.

Figura 2.5: Ciclo produttivo del caffè.

Raccolta ciliegie di caffè

Lavaggio

Trattamento via secca: Trattamento via umida::

Essiccazione

Decorticazione

Packaging

Caffè verde

Tostatura

Selective-picking Strip-picking

Depolpaggio

Fermentazione

Lavaggio

Essiccazione

Decorticazione

Packaging

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2.1.2 Il Caffè decaffeinato

Il caffè decaffeinato è un prodotto commerciale che si ottiene estraendo la caffeina

con solventi organici o mediante liofilizzazione.

Nel procedimento estrattivo i semi, ancora verdi, sono posti in acqua a rigonfiare in

modo da renderli permeabili (Baschieri, 1996) e poi sottoposti all’azione di un

solvente per estrarre la caffeina; fra i solventi utilizzabili ricordiamo l’acqua,

l’acetato dietile, l’anidride carbonica ed il diclorometano. Il migliore fra tutti è il

diclorometano: è una sostanza che agisce specificatamente sulla caffeina ed è

altamente volatile (38°C) quindi è eliminata con relativa facilità dal caffè, per mezzo

di vapore acqueo, lasciando in esso tracce praticamente nulle. In seguito

all’estrazione il caffè è asciugato, insaccato ed analizzato per verificare il contenuto

di caffeina, eventuali residui di solvente e l’umidità.

Attualmente si usa un altro procedimento per ottenere il caffè decaffeinato; dopo la

tostatura e la macinazione si prepara un’infusione di caffè che è sottoposta a

liofilizzazione sino ad ottenere l’estrazione della caffeina.

Sulla confezione deve essere riportata a caratteri ben visibili ed indelebili la dicitura

caffè decaffeinato, con la precisazione “caffeina non superiore a 0,10%” per il caffè

crudo o torrefatto, e “caffeina non superiore a 0,30%” per l’estratto di caffè,

essiccato o liofilizzato (D.M. 20.5.1976, art. 2).

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2.1.3 Il caffè solubile

Il caffè solubile può essere preparato con due metodi: la liofilizzazione e lo spray-

drying. Il punto di partenza per la produzione del caffè solubile è l’estratto di caffè

che è ricavato per filtrazione di acqua calda (180°C) sotto pressione, dal caffè tostato

e macinato. Per semplificare il caffè solubile non è altro che un estratto di caffè dal

quale poi sarà tolta l’acqua per evaporazione.

Con la liofilizzazione l’estratto di caffè è ulteriormente concentrato o attraverso

l’evaporazione dell’acqua o utilizzando una quantità maggiore di caffè rispetto a

quella dell’acqua in modo da saturare il più possibile la soluzione. Successivamente è

fatto solidificare portandolo ad una temperatura di circa -40°C in modo da

frantumare la sostanza in granuli della misura desiderata. L’acqua in esso contenuta è

eliminata per sublimazione.

Con il secondo sistema l’estratto di caffè tostato (che in questo caso non è

concentrato) è introdotto in caldaie giganti d’acciaio inossidabile dove è spruzzato

sotto pressione e ridotto in piccolissime goccioline. Controcorrente, un flusso d’aria

calda a circa 250°C fa rapidamente evaporare l’acqua presente nelle goccioline che

ricadono sul fondo in polvere finissima: questa in seguito ad un processo di

vaporizzazione è trasformata in granuli (Barbiroli, 1970). Il caffè solubile è

conservato in scatole metalliche o in vasi di vetro ermeticamente chiusi.

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2.2 Il tè: Thea sinensis e Thea assanica

La pianta del tè (figura 2.6) appartiene alla famiglia delle Teacee. Le due speci più

importanti sono Thea sinensis e Thea assanica. La pianta del tè cresce bene su terreni

acidi ben drenati, da 500 a 2000 m d’altitudine, in zone tropicali o sub-tropicali con

adeguate precipitazioni piovose (200 cm/anno). Il terreno più adatto è quello

profondo, ricco di humus, al riparo dai venti.

E’ un arbusto sempreverde, occasionalmente un albero, molto ramificato; è

originario delle regioni montuose della Cina meridionale, Giappone ed India; è

intensamente coltivato in Cina, India, Giappone, Sri Lanka, Indonesia ed in altri

paesi tropicali e sub-tropicali (Kenia, Uganda, Turchia); è coltivata negli Stati Uniti,

nelle Caroline. Allo stato selvatico può raggiungere i 9-10 metri d’altezza, ma è

mantenuta in coltura allo stato d’arbusto (1-1,5 metri) per comodità di raccolta delle

foglie, che è effettuata a mano.

Le foglie sono sempreverdi, coriacee, nettamente seghettate ai margini, di colore

verde lucente, finemente pubescenti nella pagina inferiore, ricoperte da peluria

quando sono giovani. Sono queste foglie che danno il raccolto migliore; infatti, le

foglie giovani ed i giovani germogli, insieme, sono chiamati "tè splendido" e sono

raccolti dalla primavera all’autunno. Il frutto è una capsula, bianco-rosea e

profumata.

La composizione chimica del tè varia con il clima, la stagione, le pratiche agricole e

l’età della foglia, cioè posizione sul germoglio raccolto (Rababah et al., 2004;

Vinson et al., 1998; Atoui et al., 2005).

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Figura 2.6: La pianta del tè

Per quanto riguarda la composizione chimica del tè, riportata in tabella 2.5, i

componenti di maggior interesse sono i polifenoli (25-35%). I più importanti tra essi

sono i flavonoidi, (catechina, epicatechina, epicatechina gallata, epigallocatechina

gallata), i flavonoli (quercetina, kaempherol), i flavoni (vitexin), e le antocianidine;

ma non mancano anche gli acidi e gli esteri fenolici (acido clorogenico, caffeico e

gallico); i tannini idrolizzabili, ed i dimeri flavanici (proantocianidoli).

Il tè contiene inoltre alcaloidi xantinici, principalmente caffeina, ma anche

teobromina e teofilina sembra legati ai tannini di tipo catechinico e polifenoli.

Importante anche il contenuto in vitamine, soprattutto del gruppo B ed acido

nicotinico.

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Tabella 2.5: Composizione chimica delle foglie fresche di tè (% dry matter).

Polifenoli Quantità

(-)-Epicatechin 1-3%

(-)-Epicatechin gallate 3-6%

(-)-Epicatechin digallate + %

(-)-Epiallocatechine 3-6%

(-)-Epigallocatechine gallate 9-13%

(-)-Epiallocatechine digallate + %

(+)-Catechin + %

(+)-Gallocatechin 1-2%

Flavonoli, Flavonolglicosidi (quercetina,kaempherolo); Flavoni (vitexin,etc.) + %

Leucoantocianidine 2-3%

Acidi Fenolici ed Esteri (acido gallico ed acido clorogenico)

Acido p-cumaroilquinico, teogallina 5%

Alcaloidi xantinici

Caffeina 2,5-4,5%

Teobromina 0,05%

Teofillina 0,02-0,04%

Vitamine : gruppo B, acido nicotinico

Le proprietà farmacologiche del tè sono dovute ai suoi alcaloidi ed ai polifenoli. I

polifenoli (figura 2.7) rappresentano un’importante classe di composti sia per

l’aroma ed il sapore che per l’aspetto nutrizionale. La maggior parte degli studi

epidemiologici sul tè si sono concentrati sulla genesi e prevenzione del cancro.

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(-)-Epigallocatechine gallate (-)-Epicatechine gallate

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S

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O

OH

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OH

R

R

Catechina Epicatechina

Figura 2.7: Struttura chimica polifenoli

I polifenoli del tè verde sono potenti antiossidanti che negli studi sperimentali hanno

dimostrato una capacità protettiva all’ossidazione superiore alle vitamine C ed E.

Oltre ad esercitare un’attività antiossidante di per sé, il tè verde può accrescere

l’attività degli enzimi antiossidanti. Nei ratti la somministrazione di acqua potabile

per trenta giorni di una frazione polifenolica isolata dal tè verde ha prodotto un

aumento significativo dell’attività degli enzimi antiossidanti e detossificanti

(glutatione perossidasi, glutatione reduttasi, glutatione S-transferasi, catalasi e

chinone reduttasi) nell’intestino tenue, nel fegato e nei polmoni (Lin et al., 1998;

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Chou et al., 2000). Per quanto riguarda il cancro, numerosi modelli in vitro e

sperimentali hanno mostrato che i polifenoli del tè verde possono offrire una

protezione significativa; specificatamente, i polifenoli del tè verde prevengono il

cancro, in quanto sopprimono l’attivazione dei cancerogeni ed incrementano la

detossificazione o il sequestro degli agenti cancerogeni (Yang & Wang, 1993; Rice-

Evans, 1999; Fiander & Schneider, 2000; Kuo, 1997; Wenzel et al., 2000). Per

esempio, quando volontari umani ingeriscono tè verde con trecento mg di nitrato di

sodio e trecento mg di prolina, la formazione della nitrosoprolina è fortemente inibita

(Jane et al., 2003).

Studi popolazionstici hanno evidenziato come nell’est dell’Asia, specialmente in

Cina e Giappone, il tè verde viene usato per curare il diabete (Chen & Xie,

2001).Tale proprietà sembra essere legata alla presenza di polisaccaridi coniugati che

grazie alla loro potente azione antiossidante svolgono attività ipoglicemica (Chen et

al., 2003; Plumb et al., 1999).

Il principale uso del tè è quello domestico: come bevanda, generalmente in bustina

(tè finemente macinato) o come tè istantaneo (estratti di tè mescolati con altri

ingredienti). L’estratto di tè è usato anche come componente principale in molti

prodotti alimentari, comprese bevande alcoliche, dolciumi, prodotti da forno,

gelatine. E’ stato impiegato per millenni nella medicina cinese come stimolante,

diuretico, stomachico, espettorante ed antitossico. I disturbi per cui è

tradizionalmente utilizzato sono l’emicrania, la dissenteria; in India il succo delle

foglie è usato come emostatico topico per tagli e ferite.

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2.2.1: Ciclo produttivo del tè

La lavorazione del tè si differenzia da quella del caffè per il fatto che l’essiccazione

(parziale) avviene prima della fermentazione. Il tè, bevanda di grande diffusione

mondiale, si ottiene essiccando le foglie. Si procede alla raccolta delle foglie da

quando la pianta raggiunge il terzo anno e può continuare per altri dieci anni. Si

raccolgono solo le foglioline appena formate, sottili, molli, tomentose, chiare.

Esistono moltissime varietà di tè in base al differente trattamento cui vengono

sottoposte le foglie. Esso può essere classificato come : nero, verde , oolong, rosso e

bianco: ognuna delle tipologie presenta caratteristiche specifiche a livello di

produzione, composizione ed aroma (figura 2.8).

2.2.2: Il tè nero

Il tè nero, popolare in Occidente ed India (Majchrzak et al., 2004), si ottiene facendo

precedere la fermentazione (ossidazione) alla fase dell’essiccamento. Le foglie

subiscono un primo processo di appassimento, vengono cioè essiccate in camere o

utilizzando essiccatori a rulli riducendone l’umidità a circa il 55-65%: lo scopo è

quello di appassirle senza seccarle per non romperle durante la fase successiva di

arrotolamento. Le foglie appassite, divenute flaccide, vengono arrotolate, passaggio

che porta alla rottura delle pareti e membrane cellulari, alla liberazione degli oli

essenziali e dei sistemi enzimatici responsabili dell’ossidazione dei precursori

dell’aroma. Si passa quindi ad un ulteriore essiccazione (4-18 ore) fino ad una

riduzione del loro peso di circa il 50%. Vengono quindi trattate con dei rulli,

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trattamento che contribuisce alla distribuzione omogenea della polifenolossidasi

nello strato delle cellule epiteliali e successivamente macerate in rulli sotto pressione

per mettere a contatto gli enzimi col substrato. A questo punto le foglie sono disposte

in strato sottile (5-7 cm) su lastre di cemento, vetro o alluminio a 280C ed in ambienti

umidi per 1-3-ore affinchè avvenga la fermentazione che viene bloccata poi

termicamente una volta raggiuno il livello ottimale. Le foglie arrotolate e fermentate

assumono un colore rosso rame e dopo un’ulteriore essiccazione (87-930C per 20-30

min.) assumono il tipico colore bruno-nero. Durante questa fase per effetto di azioni

enzimatiche, numerose sostanze polifenoliche dotate di proprietà terapeutiche si

convertono in composti meno attivi, come tearubigine e teaflavine (dimeri di

catechine) ed inoltre si ha l’insolubilizzazione da parte del tannino: il risultato è un tè

meno astringente, colorato, bruno ed aromatico. Il Giappone, produce quasi

esclusivamente tè verde per il mercato interno, la piccola quota di tè nero è di qualità

scadente. La produzione di Ceylon, ha avuto un notevole incremento come in Africa.

In Brasile ed in Perù i procedimenti sono stati perfezionati con rinnovo degli

impianti.

2.2.3: Il tè rosso ed il tè giallo

Il tè rosso (oolong) ed il tè giallo occupano una posizione intermedia fra il tè verde

ed il tè nero. Il tè rosso deriva dal tè nero ma è un tè parzialmente fermentato. Si

distinguono oolong cinesi, in cui la fermentazione è portata circa al 20% rispetto al tè

nero, e oolong di Formosa, più fermentati, fino al 60% rispetto al tè nero. La sua

particolare fragranza, che non ha le note erbose tipiche del tè verde, si forma durante

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l’arrotolamento in forni ad alta temperatura. La produzione ed il tradizionale

consumo sono confinati alla Cina ed a Taiwan (Vinson et al., 1998); il tè giallo

deriva dal tè verde, ma la sua produzione non include la fermentazione. Tuttavia

durante l’appassimento, l’affumicatura e l’essiccazione una parte di tannini si ossida

e cosi il tè giallo secco appare più scuro del tè verde.

2.2.4: Il tè verde

Nella produzione di tè verde i fenomeni fermentativi ossidativi sono un fattore

avverso da evitare. Il tè verde, tipico del Giappone, dove costituisce il 98% della

produzione, della quale il 90% è di consumo interno, si ottiene per semplice

essiccamento delle foglie appena tagliate, dopo una pre-essiccazione (avvizzimento)

che inattiva la teasi (inattivando questo enzima i polifenoli presenti non vengono

ossidati) al sole o in ambienti ventilati, segue l’accartocciamento a mano o a

macchina, la setacciatura, la cernita ed il confezionamento. Esistono due metodi di

manifattura del tè verde: Giapponese e Cinese. Nel metodo Giapponese le foglie

sono trattate con vapore fluente a 95°C, poi raffreddate, essiccate ed arrotolate a

temperature comprese fra 75 ed 80°C. Nel metodo Cinese le foglie fresche sono

poste dentro un impianto di torrefazione a 75 °C senza fumo, dove avvizziscono.

Dopo l’arrotolamento e la selezione, l’ultimo passaggio di produzione è

l’essiccazione. Chiaramente le variazioni dei costituenti chimici nel tè verde sono

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minimizzate rispetto al nero, in particolare le variazioni di clorofilla, tannini, acidi

organici e vitamina C.

In Giappone, in Cina, nell’ Africa settentrionale e nel Medio Oriente per tradizione

viene consumato il tè verde anche se il suo consumo si sta estendendo ai paesi

occidentali (Vinson et al., 1998; Majchrzak et al., 2004).

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*rispetto alla fermentazione del tè nero

Figura 2.8: Ciclo di produzione dei vari tipi di tè.

Tostatura Trattamento con vapore

20% * oolong cinesi

60% * oolong

giapponesi

Thea sinensis

I essiccazione

(appassimento) I essiccazione

(appassimento)

pre-essiccazione

I essiccazione

(appassimento)

arrotolamento

macerazione

fermentazione

essiccazione

Tè nero

arrotolamento

macerazione

fermentazione

Tè oolong Tè verde

affumicatura

essiccazione

Tè giallo

M.Giapponese

Vapore fluente

Raffreddamento

Essiccazione

Arrotolamento

M.Cinese

Impianto

torrefazione

Arrotolamento

Selezione

Essiccazione

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Capitolo III

Produzione e consumo di caffé e tè

3.1 Il mercato del caffé

Ogni anno, milioni di sacchi di caffé partono dai paesi produttori, per soddisfare i

palati di milioni di consumatori residenti nei paesi dove, purtroppo, il caffé non

crescerà mai. Il mercato del caffé è quindi un di portata mondiale dal volume di

scambi enorme. A presiedere quest’enorme via vai di chicchi è preposta

l'Organizzazione Internazionale del caffé (ICO) cui aderiscono quasi tutti i paesi

produttori e quasi tutti quelli consumatori. L'ICO opera per sviluppare il consumo di

caffé nel mondo e per regolamentarne il mercato.

L’ICO pubblica trimestralmente un documento, Coffee Statistic, contenente le

statistiche riguardanti il mercato del caffé e preparato sulla base delle informazioni

statistiche ricevute dai paesi produttori e consumatori. La prima sezione di tale

documento è dedicata all’offerta e contiene i dati riguardanti la produzione totale,

quella esportabile, i consumi interni e gli stock dei paesi esportatori. I fattori che

influenzano maggiormente l’offerta mondiale di caffé, sono il livello dei prezzi ed i

fattori meteorologici e biologici. Questi ultimi giocano un ruolo rilevante

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nell’imprevedibilità della produzione. I livelli dei raccolti sono particolarmente

vulnerabili alle bizzarrie climatiche, alle piogge eccessive o fuori stagione, ai forti

venti, alle gelate ed alla siccità. Da quando il Brasile ha esteso le piantagioni in aree

che possono essere colpite dal gelo, l’offerta mondiale è divenuta ancora più

instabile. Per quello che riguarda invece la domanda di caffé essa è influenzata da

vari fattori quali il prezzo al dettaglio, il reddito del consumatore, lo stile di vita e

l’alimentazione. Il caffé è, infatti, consumato durante determinate attività ed in

specifiche occasioni: nei paesi anglosassoni, la tendenza a consumare i pasti in

maniera informale e non nella propria abitazione, ha avuto degli effetti negativi sul

consumo della bevanda. Negli Stati Uniti i giovani, sollecitati da ingenti campagne

pubblicitarie, hanno ridotto i loro caffé sostituendoli con soft drinks; nel Regno Unito

ed in Giappone, con il diffondersi dei coffee bars è accaduto l’opposto. La quantità di

bevanda consumata è influenzata anche dal tipo di alimentazione. Il caffé, per gusto

o per abitudine, si accompagna meglio ad alcuni cibi rispetto ad altri: ciò spiega

perché il caffé è poco popolare nei ristoranti che servono cibi orientali. Inoltre, negli

ultimi anni l’opinione pubblica è sempre più attenta alle informazioni provenienti da

pubblicazioni medico-scientifiche sulla propria salute e fino alla metà degli anni’80

un gran numero di articoli medici riferiva di presunti effetti nocivi del caffé sulla

salute con particolare riferimento alla caffeina. Per risposta, l’industria del caffé ha

aumentato gli sforzi per far emergere quelle ricerche scientifiche provanti gli effetti

positivi di un consumo moderato di caffé.

Il caffé è scambiato in due mercati, nettamente distinti sul piano strutturale ma

collegati su quello funzionale: il cash market ed il futures market. Il cash market è il

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mercato del disponibile, in cui le contrattazioni hanno per oggetto la consegna

“fisica” della merce. Il prezzo di negoziazione si definisce prezzo a contanti (cash). Il

cash market si può suddividere in spot market e shipment market. Il primo ha come

oggetto il caffé che è stato già trasportato nel paese di destinazione; il secondo quello

pronto ad essere imbarcato dal paese di produzione (Pieters & Silvis, 1988). Il

futures market è un mercato organizzato in cui l’oggetto delle negoziazioni è un

contratto futures, in base al quale ci si obbliga a comprare o a vendere una quantità

standard di una determinata qualità di caffé, ad una data futura ed ad un prezzo

concordato fra i contraenti (Fronzoni, 1989). Si tratta quindi di una negoziazione per

consegna differita a termine. Il mercato del caffé (Wall Street, Londra, Parigi, Le

Havre) è regolato da norme che s’ispirano agli standard di classificazione del

prodotto. La qualità intrinseca del caffé dipende da un insieme di fattori. Il principale

è la specie botanica: l’Arabica è più dolce ed aromatico, sensibilmente meno amaro

ed astringente rispetto al Robusta. Poi c’è da menzionare la varietà: ad esempio,

“Bourbon”, “Mondo Nuovo”, “Blue Montain”, “Caturra” per l’Arabica, e “Indenie”,

“Kovillou”, “Niaouli” per la Robusta; altri fattori sono l’altitudine, le condizioni del

suolo, le tecniche agricole ed i metodi di lavorazione usati. Ogni paese adotta un

proprio metodo di classificazione che tiene conto di determinati fattori che

caratterizzano il prodotto. Generalmente i metodi di classificazione (tabella 3.1) si

basano sui seguenti elementi: provenienza, difetti, aspetto e caratteristiche della

grana.

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Tabella 3.1: Metodi di classificazione del caffé.

Classificazione per provenienza Classificazione secondo aspetto e

caratteristiche grana

Classificazione secondo difetti

Provenienza e porto d’imbarco a) Annata di raccolto Difetti intrinseci***

Specie piante * b) Metodo di lavorazione Difetti estrinseci****

Tipo di lavorazione ** c) Forma grana

d) Grossezza grana

e) Colore grani

f) Rendimento alla torrefazione

g) Aroma

h) Gusto

i) Corpo

Legenda: * Arabica o Robusta ** Caffé lavati o naturali a) Per distinguere i vari raccolti si usano le seguenti denominazioni: 1a: new crop 2a: current crop 3a: past crop 4a: old crop 5a: crop 2005-2006. c) La grana si distingue in: 1c: flat bean ( grana piatta ed allungata) 2c: bourbon ( grana arrotondata e convessa) 3c: maragogype ( grana molto grossa) 4c: pea berry o caracolito ( grana rotonda).

d) La grossezza della grana può essere determinata in due modi: - metodo empirico : extra large bean large bean to extra large bean large bean good to large bean good bean medium to good bean medium bean beany small bean to beany small bean -metodo setacci con fori calibrati :

per gli arabica: AA - A - B - C che definiscono le dimensioni in ordine decrescente,

per i robusta: I - II – III. e) Secondo quest’elemento i caffè sono così classificati: 1e: fine roast (maw 0,5% di grani chiari in tostatura) 2e: good to fine roast (max 2%) 3e: good roast (max 5%) 4e: fair roast 5e: poor roast 6e: dull f) Le espressioni usate non corrispondono a classificazioni standardizzate: 1f: fine flavour 2f: good flavor, etc. I difetti sono evidenziati con una numerazione che va da 2 a 6 (tipo 2 corrisponde alla % di difetti più bassa).

*** : impurità e corpi estranei **** : grani rotti, bruciati, avariati, non puliti.

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3.1.1 I maggiori paesi produttori

L’ICO classifica i paesi produttori in due grandi gruppi in base al tipo di caffé

prevalentemente prodotto: il gruppo Arabica, che comprende quei paesi che

coltivano ed esportano prevalentemente gli “Arabica” sia lavati (“Arabica dolci”) che

non lavati (“Arabica naturali”) ed il gruppo Robusta. Fra i paesi appartenenti al

gruppo Arabica il più importante è senza dubbio il Brasile che è il maggior

produttore mondiale e continua a giocare un ruolo chiave nel mercato internazionale

del caffé. La produzione nell’anno di raccolta 2005 è stata di 32,950 milioni di

sacchi. La maggior parte del caffé prodotto in Brasile è “Arabica naturale”. La

Colombia è il secondo produttore ed esportatore di caffé. Nell’ultimo anno di

raccolto 2005 la produzione è stimata intorno a 11,000 milioni di sacchi; è il primo

produttore di “Arabica” lavorati in umido. Il terzo produttore d’Arabica è il Messico

che nell’anno 2005-2006 ne ha prodotti circa 4,200 milioni di sacchi. I consumi

interni assorbono circa il 18% della produzione nazionale; la restante parte è

esportata verso Stati Uniti, Germania e Spagna. Il caffé messicano è considerato tra i

migliori” Arabica Dolci” e la sua qualità molto apprezzata. Il Guatemala è un altro

paese produttore appartenente al gruppo Arabica: le piantagioni sono diffuse

principalmente nel Meridione dove si trovano le condizioni ideali per la produzione

dell’Arabica. Il caffé guatemalteco coltivato ad elevate latitudini è molto ricercato ed

ottiene riconoscimenti sul mercato internazionale. El Salvador, il più piccolo e

densamente popolato paese dell’America Centrale, è uno dei principali produttori

d’Arabica d’alta qualità cosi come la Costa Rica. L’Ecuador è uno dei pochi paesi

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dell’America Latina che produce sia Arabica sia Robusta. L’Arabica è coltivata sugli

altopiani confinanti la cordigliera delle Ande, mentre la Robusta è coltivata nelle

regioni collinari dell’Amazzonia. Le prospettive future indicano un continuo

incremento della produzione di Robusta per l’esaurirsi della disponibilità di nuove

terre adatte alla coltivazione dell’Arabica. Nell’anno di raccolta 2005-2006 la

produzione totale di caffé è stata circa 1,100 milioni di sacchi. La maggior parte

dell’Arabica dell’Ecuador è trattata in umido. I principali paesi importatori sono Stati

Uniti, Germania, Spagna ed Italia. Esaminiamo ora i principali paesi appartenenti al

gruppo Robusta. Il più importante è l’Indonesia: il paese è costituito da molte isole

distribuite su una vasta area e con diverse condizioni ecologiche che si sono rivelate

le più idonee alla produzione di Robusta. Gran parte della produzione è rappresentata

da Robusta non lavati. I principali paesi acquirenti sono Europa, Giappone e Stati

Uniti. Nell’anno di raccolta 2005 la produzione si è aggirata intorno agli 8 milioni di

sacchi. Altri paesi appartenenti al gruppo Robusta sono Vietnam, Uganda, Camerun,

Madagascar e Costa d’Avorio. Questa ultima è stata, nei primi anni ’80, il terzo più

gran produttore di caffé ed il maggiore di Robusta. La Costa d’avorio esporta il suo

caffé principalmente alla Francia ed all’Italia. Nell’anno di raccolta 2005 la

produzione totale è stata pari a circa 2 milioni di sacchi. La produzione mondiale è

calcolata dall’ICO sulla base delle informazioni che circa regolarmente riceve dai

paesi produttori, in merito alle esportazioni registrate, ai consumi interni ed alle

variazioni delle riserve. La tabella 3.2 mostra la produzione mondiale relativa al

periodo 2000-2005.

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Tabella 3.2: Produzione totale 2000-2005 espressa in migliaia di sacchi (Fonte ICO).

Paese Tipo1 Periodo

raccolto

2000 2001 2002 2003 2004 2005

Angola R Apr.Mar 50 21 57 38 15 25

Benin R Sett.Ott. 0 0 0 0 0 1

Bolivia A Apr.Mar 173 118 149 125 161 115

Brasile A/R Apr.Mar 34100 30837 48616 28787 39273 32944

Burundi A/R Apr.Mar 446 261 342 470 350 384

Camerun R/A Sett.Ott. 1113 686 801 900 727 1000

Rep.Centro

Africa

R Sett.Ott. 122 75 92 43 61 100

Colombia A Sett.Ott. 10532 11999 11889 11197 12042 11000

Rep. Dem.

Congo

R/A Sett.Ott. 362 421 319 427 360 575

Rep. Congo R Giug./Lug. 3 3 3 3 3 3

Costa Rica A Sett.Ott. 2293 2127 1893 1783 1887 1778

Costa d’Avorio R Sett.Ott. 4846 3595 3145 2689 2328 2171

Cuba A Giug./Lug. 313 285 239 224 242 229

Repubblica

Dominicana

A Giug./Lug. 466 387 455 361 481 471

Ecuador A/R Apr.Mar 872 893 732 766 938 1125

El Salvador A Sett.Ott. 1752 1686 1438 1477 1438 1372

Guinea

Equatoriale

R Sett.Ott. 0 0 0 0 0 3

Etiopia A Sett.Ott. 2768 3756 3693 3874 5000 4500

Gabon R Sett.Ott. 0 1 1 0 0 2

Ghana R Sett.Ott. 76 13 32 16 11 25

Guatemala A/R Sett.Ott. 4940 3669 4070 3610 3703 3675

Guinea R Sett.Ott. 368 254 272 407 245 310

Haiti A Giug./Lug. 420 402 374 373 355 352

Honduras A Sett.Ott. 2667 3036 2497 2968 2575 2990

India A/R Sett.Ott. 4516 4970 4683 4495 3844 4630

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Indonesia R/A Apr.Mar 6978 6833 6785 6571 7536 8340

Jamaica A Sett.Ott. 37 30 38 36 26 35

Kenya A Sett.Ott. 1001 991 945 673 709 1002

Liberia R Sett.Ott. 14 10 14 5 6 10

Madagascar R/A Apr.Mar 366 147 445 434 388 425

Malawi A Apr.Mar 63 60 42 48 21 25

Messico A Sett.Ott. 4815 4200 4000 4550 3407 4200

Nicaragua A Sett.Ott. 1595 1116 1199 1546 1130 1718

Nigeria R Sett.Ott. 48 43 51 45 42 45

Panama A Sett.Ott. 170 160 140 172 148 170

Papuasia

Nuova Guinea

A/R Apr.Mar 1041 1062 1085 1155 997 1267

Paraguay A Apr.Mar 46 20 26 52 26 51

Perù A Apr.Mar 2596 2749 2900 2616 3355 2420

Filippine R/A Giug./Lug. 775 759 721 433 373 778

Rwanda A Apr.Mar 273 296 319 265 450 300

Sierra Leone R Sett.Ott. 53 53 32 24 5 25

Sri Lanka R/A Sett.Ott. 43 32 35 36 32 35

Tanzania A/R Giug./Lug. 809 624 824 611 763 720

Tailandia R Sett.Ott. 1692 715 732 827 884 764

Togo R Sett.Ott. 197 113 68 144 166 168

Trinidad e

Tobago

R Sett.Ott. 14 15 15 15 14 10

Uganda R/A Sett.Ott. 3401 3158 2890 2598 2593 2366

Venezuela A/R Sett.Ott. 956 721 869 786 701 820

Vietnam R Sett.Ott. 14939 13133 11555 15230 13844 11000

Zambia A Giug./Lug 94 100 119 101 111 103

Zimbabwe A Apr.Mar 109 121 106 84 96 58

Altri paesi

produttori 2

1296 1432 1682 1767 1582 1587

1: A: arabica; R: robusta; A/R: entrambi i tipi di caffé con prevalenza di arabica; R/A: entrambi i tipi

di caffé con prevalenza di Robusta 2: Guyana, Laos, Malaysia, New Caledonia e Yemen.

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3.1.2 Il mercato del caffé in Italia

L'Italia occupa un posto di notevole importanza nel mercato del caffé. Ogni anno

importiamo circa 387.498 tonnellate di caffé verde (Fonte ISTAT 2004) e ne

esportiamo circa 4.199 tonnellate di caffé verso l'estero (Fonte ISTAT 2004) grazie

al lavoro di ben 750 torrefattori presenti nel nostro Paese dove il 70% del consumo

avviene tra le pareti domestiche, il 25% nei locali e la quota restante in ufficio.

L’importazione di caffé verde in Italia rivela, attraverso il tempo, un continuo, anche

se non regolare incremento, che si è andato accentuando negli anni successivi alla

seconda guerra mondiale.

Il Brasile continua ad essere il nostro maggiore fornitore seguito da Colombia

Camerun ed Uganda. La tabella 3.3 mostra i dati relativi alle importazioni in Italia

nel quinquennio 2000-2004.

Tabella 3.3: Importazioni di caffé in Italia nel quinquennio 2000-2004 (dati

espressi in Kg di caffé) Fonte ISTAT.

Anno Kg di caffé totali Kg caffé verde non

decaffeinizzato

Kg caffè verde

decaffeinizzato

Kg caffè

torrefatto non

decaffeinizzato

Kg caffé

torrefatto

decaffeinizzato

2000 369.243.661 352.954.739 3.733.510 12.352.886 202.526

2001 382.126.308 364.698.359 4.349.425 12.940.189 138.335

2002 380.654.079 362.387.904 5.943.570 12.121.912 200.693

2003 404.413.477 382.925.614 6.951.193 14.183.572 290.499

2004 409.413.477 387.498.565 7.239.664 14.364.277 310.971

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Prevale la varietà Arabica sulla Robusta; la prima copre il 55,68% delle importazioni

totali, la seconda il restante 44,32%.

Per ciò che riguarda le esportazioni si è osservata una diminuzione per il caffé verde

tra gli anni 2001 e 2003 ed un aumento nell’anno 2004 ed una decisa ripresa per il

caffé torrefatto che rafforza il trend degli ultimi anni di rapida espansione sui mercati

esteri del caffé espresso all’italiana (tabella 3.4).

Tabella 3.4: Esportazioni, in ogni forma, dal 2000 al 2004 (dati espressi in Kg di

caffé) Fonte ISTAT.

Anno Kg di caffé totali Kg caffé verde non

decaffeinizzato

Kg caffé verde

decaffeinizzato

Kg caffé torrefatto

non decaffeinizzato

Kg caffé torrefatto

decaffeinizzato

2000 59.455.312 6.326.820 818.827 50.441.805 1.867.860

2001 65.410.974 6.943.165 728.275 55.728.909 2.010.625

2002 67.178.682 2.783.617 617.479 61.637.987 2.139.599

2003 70.797.726 3.698.053 607.425 64.218.484 2.273.764

2004 77.994.506 4.199.482 891.498 70.497.420 2.406.106

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Per ciò che riguarda le abitudini gli abitanti dei paesi dell’Europa settentrionale,

consumano la bevanda ottenuta per filtrazione, come dissetante durante i pasti e

come soft drink durante il giorno, al contrario gli italiani consumano la bevanda

molto concentrata, preparata con la moka o con la macchina espresso; essi

attribuiscono al caffé una valenza rituale che scandisce i ritmi della giornata, grazie

al suo effetto digestivo-stimolanti e corroborante. Secondo rilevamenti statistici, in

Italia i maggiori consumi si hanno il mattino e dopo il pasto di mezzogiorno. Gli

italiani ogni giorno consumano 2-3 tazzine in media. I giovani si avvicinano a

quest’abitudine man mano che crescono con l’età; al contrario gli anziani tendono

sempre più a controllare il loro consumo.

In tabella 3.5 è riportata la spesa mensile degli italiani relativa al caffé per l’anno

2004.

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Tabella 3.5: Spesa media mensile familiare per il caffé anno 2004 (dati espressi

in euro) Fonte ISTAT.

Regioni Caffé

Piemonte 9,91

Valle d Aosta 10,51

Lombardia 9,16

Trentino A. A. 8,19

Veneto 8,18

Friuli Venezia-Giulia 8,25

Liguria 9,11

Emilia-Romagna 7,42

Toscana 8,96

Umbria 8,78

Marche 9,95

Lazio 10,06

Abruzzo 9,9

Molise 10,63

Campania 10,01

Puglia 10,03

Basilicata 10,77

Calabria 11,11

Sicilia 10,29

Sardegna 9,76

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3.2 Il mercato del tè

Il tè proviene dalla Cina, ma la sua coltivazione oggi è ampiamente diffusa in Asia

ed Africa. I maggiori paesi produttori di tè sono attualmente India, Cina, Kenya, Sri

Lanka, Turchia, Indonesia, Giappone, Iran, Bangladesh, Vietnam e Malawi. Alcuni

paesi producono gran parte del tè per il consumo interno; in genere il tè prodotto per

l’esportazione è di una qualità più alta rispetto a quello prodotto per il mercato

interno ed è anche più suscettibile alle fluttuazioni dei prezzi di mercato facendo

aumentare i rischi per produttori ed esportatori. I prezzi del tè variano ampiamente

rispecchiando la gran differenza in termini di qualità. Diversamente dal caffè, non

esiste un mercato mondiale unico per il tè ed i prezzi sono soggetti ad ampie

fluttuazioni. Il prezzo del tè è determinato principalmente dalle leggi della domanda

e dell’offerta, ma le multinazionali del tè hanno un’influenza considerevole su questi

due fattori, quindi sul processo di definizione del prezzo.

Il 90% del commercio occidentale è nelle mani di sette società multinazionali che

sono: Unilever, Hillsdown, Holdings, Lyons Allies, Co-operative Wholesales

Society, James Finlay e la Associate British Foods. Le prime tre società detengono il

60% della quota di mercato nel Regno Unito, il 9% in Francia, il 67% in Germania

ed il 66% in Italia.

L’85% della produzione mondiale è venduto dalle multinazionali: il loro potere di

mercato è un fattore importante nelle aste del tè, infatti, con la loro politica d’acquisti

queste società influenzano fortemente le variazioni dei prezzi e la domanda su alcune

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varietà di tè. Non solo possiedono piantagioni e stabilimenti di lavorazione, ma

controllano anche imprese di trasporti e di spedizioni. Per esempio alla metà degli

anni ’80, come risposta alla caduta del raccolto interno, l’Unione Sovietica si

approvvigionò di grandi quantità di tè dall’India in un momento in cui anche il

consumo interno in India era in crescita; l’aumento della domanda provocò

un’impennata nel prezzo del tè indiano al quale le multinazionali risposero

sospendendo temporaneamente gli acquisti del tè indiano in modo da far scendere

nuovamente il prezzo. Per garantire l’approvvigionamento locale, il governo indiano

a due riprese tentò di controllare il mercato imponendo restrizioni alle esportazioni

ed impose anche un prezzo minimo d’esportazione nel tentativo di mantenere i prezzi

ad un livello proficuo. Per tutta risposta le grandi multinazionali del tè si ritirarono in

blocco dal mercato indiano col risultato che non si poté esportare più nulla. Alla fine,

il governo indiano non ebbe altra scelta che ritirare le misure (Annuario del

Commercio Equo, 2001).

Negli ultimi dieci anni, il consumo mondiale di tè è aumentato del 2,25% annuo

(tabella 3.6). L’India continua ad occupare il primo posto, seguita dalla Cina. In

Russia, rispetto all’anno precedente si è osservato un aumento del consumo per

l’anno 2005 pari al 5%, segue il Giappone con un aumento del 4,5%. Infine nel

Regno Unito e negli Stati Uniti i consumi sono rimasti pressoché invariati.

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Tabella 3.6: Consumi mondiali di tè (dati espressi in milioni di tonnellate).

Fonte FAO

1996-2000 2001 2002 2003 2004 2005

Totale 2833.4 2985.8 3092.6 3199.1 3227.2 3361.6

India 635.4 671.3 693.0 714.0 735.0 757.0

Cina 482.0 496.2 537.8 555.3 603.7 675.3

Russia 145.6 156.0 166.1 168.6 169.1 180.3

Regno Unito 142.2 136.7 134.2 119.3 127.8 128.2

Stati Uniti 91.0 96.7 93.5 94.1 99.5 100.1

Giappone 138.1 149.1 134.9 138.2 156.0 150.2

Pakistan 108.6 106.8 99.4 118.3 120.0 134.1

Per quanto riguarda le esportazioni (tabella 3.7) i paesi più importanti sono Kenya,

Cina e Sri Lanka. Il Kenya continua a dominare sulle esportazioni superando per il

secondo anno consecutivo lo Sri Lanka che nel 2003 occupava il primo posto fra i

paesi esportatori. Gli aumenti che si sono osservati per Kenya, Cina, Sri Lanka,

Indonesia e Rwanda sono sufficienti per compensare le diminuzioni osservate in

India, Malawi, Tanzania ed Uganda.

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Tabella 3.7: Esportazioni mondiali di tè (dati espressi in milioni di tonnellate).

Fonte FAO

2000-2002 2002 2003 2004 2005

Totale 1390.5 1439.4 1404.0 1523.8 1531.2

Kenya 247.1 266.3 269.3 292.7 309.2

Malawi 38.7 39.4 42.0 46.6 43.0

Rwanda 11.1 12.0 11.5 11.5 11.7

Tanzania 22.4 22.6 20.4 24.2 23.21

Uganda 29.3 31.1 34.1 35.0 33.1

Zimbawe 17.2 17.6 17.1 14.9 8.41

Bangladesh 14.9 13.7 12.2 13.1 9.0

Cina 245.9 254.9 262.7 279.5 286.6

India 196.8 201.0 173.7 197.7 187.62

Indonesia 101.8 100.2 90.0 97.7 102.3

Sri Lanka3 284.5 286.0 291.5 289.7 298.8

Viet Nam 66.2 74.8 60.0 95.0 89.0

Argentina 55.4 57.6 58.8 66.41 66.41

Brasile 3.9 4.0 4.2 3.61 3.71

Oceania 8.7 8.8 6.7 6.7 6.7

Altri 38.9 42.6 42.9 42.2 46.5

Legenda:

1 : dati provvisori.

2 : F.O.Licht.

3 : includendo tè istantaneo.

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Le importazioni mondiali di tè hanno subito per l’anno 2005 un aumento del 1,9%

raggiungendo le 1389.1 milioni di tonnellate (tabella 3.8) in accordo con gli aumenti

osservati in Russia e nei paesi in via di sviluppo in particolare Pakistan, Libia e

Sudan.

Tabella 3.8: Importazioni mondiali di tè (dati espressi in milioni di tonnellate).

Fonte FAO

2000-2002 2002 2003 2004 2005

Totale 1304.3 1358.3 1353.9 1363.1 1389.1

CE(15) 213.9 217.2 208.5 200.7 201.3

Francia 13.5 13.6 14.0 13.1 14.11

Germania 21.3 22.4 27.0 16.2 14.0

Paesi Bassi 16.2 16.5 15.5 16.5 17.1

Regno Unito 134.8 134.2 119.3 127.81 128.21

Polonia 28.5 27.6 27.0 27.3 25.5

Kazakhstan 19.2 19.4 21.6 18.3 18.31

Russia 157.8 163.5 165.9 166.3 177.4

Ucraina 17.0 18.2 18.2 18.2 22.0

Uzbekistan 22.3 21.6 21.2 20.7 20.71

Stati Uniti 92.8 93.5 94.1 99.5 100.1

Canada 18.4 18.7 18.7 18.2 16.1

Altri 57.9 59.7 64.0 55.4 55.9

Legenda: 1 : dati provvisori.

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3.2.1 I maggiori paesi produttori

La produzione mondiale di tè continua ad aumentare nel corso degli anni come si

evince dalla tabella 3.9 raggiungendo le 3,5 milioni di tonnellate nell’anno 2005.

L’aumento è dovuto principalmente ai raccolti record che si sono avuti in Cina, Viet

Nam, India, Sri Lanka e Kenya. Per l’anno 2005 si è osservata una crescita pari al

9% per la Cina che è passata dalle 856.200 tonnellate del 2004 alle 934.900

tonnellate nel 2005 sorpassando l’India che fino al quadriennio 2000-2004 era il

paese leader. Un aumento significativo del 7% è stato raggiunto dal Viet Nam che è

passato dalle 97000 tonnellate del 2004 per arrivare nel 2005 ad una produzione pari

a 104000 tonnellate. Anche in India si è osservata una crescita della produzione: ha,

infatti, prodotto 928000 tonnellate di tè nell’anno 2005 rispetto alle 893000 prodotte

nell’anno precedente raggiungendo, in questo modo, un aumento della produzione

pari al 4%. Lo Sri Lanka è un altro dei paesi in cui si è osservato un aumento della

produzione. In Indonesia, al contrario, si è avuta una diminuzione della produzione a

causa delle non ottimali condizioni atmosferiche. Anche in Malawi si è avuto un calo

della produzione pari circa al 24% imputabile però al record di produzione raggiunto

nell’anno precedente.

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Tabella 3.9: Produzione mondiale di tè (dati espressi in milioni di tonnellate).

Fonte FAO

2000-2002 2002 2003 2004 2005

Totale 3067.7 3173.7 3249.3 3387.9 3503.7

Burundi 7.6 6.6 7.5 7.51 7.01

Kenya 272.7 287.1 293.7 324.6 328.5

Malawi 40.2 39.2 41.7 50.1 38.0

Rwanda 15.7 14.9 15.6 15.6 16.5

Tanzania 25.4 27.5 29.5 30.7 30.41

Uganda 31.2 33.8 36.5 37.0 37.7

Zimbabwe 22.5 22.5 22.0 18.7 14.91

Argentina 55.3 62.0 61.1 65.01 73.01

Brasile 8.0 8.2 8.3 8.3 8.3

Iran 50.9 49.5 58.0 40.0 27.8

Turchia 143.9 150.0 155.0 205.6 205.61

Bangladesh 54.3 52.9 58.3 55.5 56.0

Cina2 730.3 765.7 791.0 856.2 934.9

India 861.3 883.0 907.0 893.0 928.0

Indonesia 167.7 172.8 167.5 169.8 165.8

Sri Lanka1 304.6 310.6 303.2 308.2 317.2

Viet Nam 81.7 93.0 94.5 97.0 104.0

Oceania 10.6 10.5 9.3 9.3 9.4

Giappone 87.8 84.2 91.9 100.7 100.0

Altri 81.6 85.4 83.2 80.5 91.1

Legenda:

1 : dati provvisori; 2 : includendo tè oolong.

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Il tè nero, rispetto al tè verde domina la scena mondiale con una produzione pari a

2455.9 milioni di tonnellate per l’anno 2005 (Fonte FAO). La produzione di tè verde

continua, in ogni modo, a crescere negli anni grazie alla Cina dove rappresenta il

76% della sua produzione (Fonte FAO). Le proiezioni sulla produzione di tè nero e

verde, fatte secondo stime di coefficienti di crescita su osservazioni del passato,

parlano di una crescita minore rispetto agli anni passati nella produzione delle due

bevande (tabella 3.10). La produzione di tè nero dovrebbe mantenersi stabile in Iran

e Turchia, mentre dovrebbe diminuire in Kenya, Uganda ed India ed infine dovrebbe

aumentare in Malati e Bangladesh. Con riferimento, invece, alla produzione di tè

verde la Cina dovrebbe ancora dominare lo scenario mondiale con una produzione

pari a 887500 tonnellate nel 2016, anche se ci si aspetta un aumento della produzione

da parte del Giappone dove quest’ultima dovrebbe arrivare alle 100400 tonnellate nel

2016.

Tabella 3.10: Proiezioni produzione tè nero e verde (dati espressi in migliaia di

tonnellate) Fonte FAO

Produzione

mondiale

Attuale

(2005)

Futura

(2016)

Percentuali di

accrescimento

1995/2005

Percentuali di

accrescimento

2005/2016

Tè nero 2455.9 2972.7 2.3 1.8

Tè verde 883.9 1097.7 2.5 2.0

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Capitolo IV

Normativa

4.1: Valutazioni di cancerogenicità ad opera di Enti

internazionali e nazionali

Numerosi IPA, nonché miscele complesse e prodotti di combustione contenenti IPA,

sono stati presi in considerazione per "l’end-point" cancerogenesi da Enti con fini di

regolamentazione e da istituzioni scientifiche indipendenti che si occupano di

identificare e classificare i rischi di cancerogenicità. Fra questi: la Commissione della

Unione Europea (UE), l’US National Toxicology Program (NTP), l' Environmental

Protection Agency statunitense (EPA), l'International Agency for Research on

Cancer (IARC) emanazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità con sede a

Lione e l’International Programme on Chemical Safety (IPCS). A livello nazionale

ha operato, sino al 2001, la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale

(CCTN) del Centro Studi del Ministero della Sanità Italiana istituita nel 1977.

Alcune di queste valutazioni e classificazioni non hanno formalmente, a livello

nazionale, alcun valore legale ma rappresentano comunque un riferimento, mentre

altre sono espressamente citate da norme quali il D.Lgs. 626/94 e successive

modifiche che si basa, per applicare le misure di prevenzione e protezione dei

lavoratori, sulla allocazione, da parte della UE, nelle categorie 1 e 2 di

cancerogenesi. Gli schemi di classificazione dei cancerogeni, anche

appropriatamente standardizzati e formalmente definiti, possono non coincidere nei

diversi paesi ed istituzioni e portare a risultati differenti (tabella 4.1).

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(Tabella 4.1): Categorie di cancerogenesi UE, CCTN, IARC, EPA e NTP (Binetti et al., 2001).

CE CCTN* IARC EPA NTP

Categoria 1 1 1 Gruppo A Categoria 1

Categoria 2 2 2A Gruppo B

B1 e B2

Categoria 2

Categoria 3 3

3a e 3b

2B Gruppo C Categoria 3

4

4a e 4b

3 Gruppo D Categoria 4

5 4 Gruppo E Categoria 5

Legenda: Classificazione CE (Direttiva 93/21/CEE) Categoria 1: sostanze note per gli effetti cancerogeni sull’uomo. Esistono prove

sufficienti per stabilire un nesso causale tra esposizione dell’uomo ad una sostanza e lo sviluppo dei tumori; Categoria 2:

sostanze che dovrebbero considerarsi cancerogene per l’uomo. Esistono elementi sufficienti per ritenere verosimile che

l’esposizione dell’uomo ad una sostanza possa provocare lo sviluppo di tumori sulla base di adeguati studi a lungo termine

effettuati su animali ed altre informazioni specifiche; Categoria 3: sostanze da considerarsi con sospetto per i possibili effetti

cancerogeni sull’uomo per le quali tuttavia le informazioni disponibili sono sufficienti per procedere ad una valutazione

soddisfacente. Esistono alcune prove ottenute da adeguati studi sugli animali che non bastano tuttavia per classificare la

sostanza nella categoria 2.

Classificazione CCTN: 1: Sostanze note per gli effetti cancerogeni sull’uomo; 2: Sostanze da considerare cancerogene per

l’uomo; 3 (3a e 3b): sostanze da considerare con attenzione per i possibili effetti cancerogeni sull’uomo; 4 (4a e 4b): sostanze

non valutabili per la cancerogenicità; 5: sostanze probabilmente non cancerogene. *Da Criteri guida della CCTN per la

valutazione di alcune sostanze chimiche. ISS, 1996 (Serie relazioni 96/2)

Classificazione IARC: 1: Cancerogeno per l’uomo; 2A Cancerogeno probabile (limitata evidenza nell’uomo e sufficiente

evidenza nell’animale); 2B: Cancerogeno possibile (Limitata evidenza sull’uomo o in assenza di sufficiente evidenza

nell’animale o sufficiente evidenza nell’animale ed inadeguata evidenza o assenza nell’uomo); 3: Non classificabile per la

cancerogenicità per l’uomo; 4: Probabile non cancerogeno per l’uomo.

Classificazione EPA: Gruppo A: cancerogeno per l’uomo, vi è sufficiente evidenza di cancerogenicità negli studi

epidemiologici; Gruppo B: si divide in 2 parti: B1 probabile cancerogeno per l’uomo con evidenza limitata di cancerogenicità

in studi epidemiologici ed evidenza sufficiente in studi su animali. B2 probabile cancerogeno per l’uomo con evidenza

sufficienza di cancerogenicità in studi su animali ed evidenza inadeguata o assenza di dati in studi sull’uomo; Gruppo C:

sospetto cancerogeno per l’uomo con evidenza limitata di cancerogenicità in studi su animali in assenza di dati sull’uomo;

Gruppo D: non classificabile come cancerogeno, per evidenza inadeguata sia nell’uomo sia negli animali da esperimento o

sostanza per cui non sono disponibili dati; Gruppo E: nessuna evidenza di cancerogenicità nell’uomo, in assenza di evidenza di

cancerogenicità sia negli animali da esperimento che in studi sull’uomo.

Classificazione NTP:Categoria 1: chiara evidenza di attività cancerogena; Categoria 2: esiste qualche evidenza di attività

cancerogena; Categoria 3: l’evidenza di attività cancerogena è incerta; Categoria 4: non esiste nessuna evidenza di effetti

cancerogeni (la classe viene assegnata quando gli studi hanno messo in evidenza un’assenza dell’aumento di tumori);

Categoria 5: viene assegnata quando gli studi non possono essere utilizzati in maniera adeguata per una valutazione a causa di

loro gravi limitazioni sia qualitative sia quantitative.

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In generale, le cause di tali differenze sono molteplici e possono essere dovute sia ai

diversi obiettivi che gli enti si prefiggono, sia a differenti procedure ed approcci che

essi seguono. Ad esempio, mentre la IARC prende in considerazione solo rapporti

pubblicati nella letteratura scientifica aperta, l’UE usa anche documentazione

scientifica confidenziale, di adeguata qualità sottoposta dall’industria per scopi di

regolamentazione (Binetti et al., 2001).

Il programma IPCS (International Programme on Chemical Safety) è stato avviato

nel 1980 ad opera del WHO (World Health Organization), dell’UNEP (United

Nations Environment Programe) e dell’ILO (International Labour Organization), con

il compito specifico di valutare i rischi per l’uomo e per l’ambiente derivanti

dall’esposizione a sostanze chimiche ed altri agenti. L’IPCS ha preso in

considerazione gli IPA nel 1998 valutando sia studi epidemiologici sia studi

sperimentali su animali da laboratorio disponibili per questi xenobiotici (IPCS,

1998). L’IPCS conclude raccomandando di:

• valutare gli effetti che gli IPA potrebbero esercitare sulla salute dell’uomo e

sull’ambiente mediante un numero maggiore di studi;

• ottimizzare e standardizzare le strategie di campionamento e le procedure

analitiche dopo aver individuato le fonti di esposizione a tali contaminanti.

Ai fini della protezione della salute, l’IPCS propone di:

• minimizzare, ove possibile, l’esposizione a tali contaminanti;

• intraprendere campagne di educazione pubblica riguardo alle fonti di

esposizione ed agli effetti, da esse derivanti, a carico della salute dell’uomo.

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L’IPCS raccomanda, inoltre, di "studiare l’affidabilità" del B[a]P come indicatore

degli effetti degli IPA sulla salute umana e sull’ambiente e di esaminare l’uso di altri

IPA come "surrogati".

L’International Agency for Research on Cancer (IARC) ha preso in considerazione

gli IPA nel 1973 (IARC, 1973), li ha rivalutati nel 1983 (IARC, 1984), li ha allocati

nel 1987 nel Supplemento 7 (IARC, 1987)e sottoposti ad ulteriore rivalutazione nel

2005 (IARC, 2005).

Le classificazioni sono riportate in tabella 4.2.

Nell’ultima valutazione, il gruppo di lavoro della IARC (IARC, 2005) ha preso in

considerazione numerosi studi sull’esposizione umana ad IPA tramite la dieta che

suggeriscono un’associazione tra consumo di IPA negli alimenti ed aumentato

rischio di adenomi colorettali e tumori a carico del pancreas. Una fonte sostanziale di

esposizione ad IPA, in non fumatori esposti professionalmente, è rappresentata dal

consumo di alcuni alimenti, in particolare prodotti a base di cereali e carni grigliate.

Questi alimenti contengono quantità misurabili di B[a]P e di altri IPA che possono

indurre in animali da laboratorio, in seguito ad ingestione, tumori a carico del tratto

digerente superiore. Tuttavia, i nuovi studi epidemiologici presi in considerazione

sono limitati agli USA e sono di dimensioni troppo limitate per essere considerati

conclusivi. Per studiare queste associazioni in maniera più definitiva, necessitano

studi di coorte indipendenti su larga scala.

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Tabella 4.2: Classificazione di cancerogenicità degli IPA (Fonte IARC).

Sostanza Categoria Acenaftene Gruppo 3

Acepirene Gruppo 3

Antantrene Gruppo 3

Antracene Gruppo 3

Benzo[a]antracene Gruppo 2B

11H-Benzo[b,c]aceantrilene Gruppo 3

Benzo[l]aceantrilene Gruppo 3

Benzo[b]crisene Gruppo 3

Benzo[a]fluorantene Gruppo 3

Benzo[b]fluorantene Gruppo 2B

Benzo[j]fluorantene Gruppo 2B

Benzo[k]fluorantene Gruppo 2B

Benzo[g,h,i]fluorantene Gruppo 3

Benzo[a]fluorene Gruppo 3

Benzo[b]fluorene Gruppo 3

Benzo[c]fluorene Gruppo 3

Benzo[g,h,i]perilene Gruppo 3

Benzo[c]fenantrene Gruppo 2B

Benzo[a]pirene Gruppo 1

Benzo[e]pirene Gruppo 3

Crisene Gruppo 2B

Coronene Gruppo 3

4H-Ciclopenta[d,e,f]crisene Gruppo 3

Ciclopenta[c,d]pirene Gruppo 2A

5,6-Ciclopenten-1,2-benzantracene Gruppo 3

Dibenzo[a,c]antracene Gruppo 3

Dibenzo[a,h]antracene Gruppo 2A

Dibenzo[a,j]antracene Gruppo 3

Dibenzo[a,e]fluorantene Gruppo 3

13H-Dibenzo[a,g]fluorene Gruppo 3

Dibenzo[h,rst]pentafene Gruppo 3

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Dibenzo[a,e]pirene Gruppo 3

Dibenzo[a,h]pirene Gruppo 2B

Dibenzo[a,i]pirene Gruppo 2B

Dibenzo[a,l]pirene Gruppo 2A

Dibenzo[e,l]pirene Gruppo 3

1,2-Diidroaceantrilene Gruppo 3

1,4-Dimetilfenantrene Gruppo 3

Fluorantene Gruppo 3

Fluorene Gruppo 3

Indeno[1,2,3-c,d]pirene Gruppo 2B

1-Metilcrisene Gruppo 3

2-Metilcrisene Gruppo 3

3-Metilcrisene Gruppo 3

4-Metilcrisene Gruppo 3

5-Metilcrisene Gruppo 2B

6-Metilcrisene Gruppo 3

2-Metilfluorantene Gruppo 3

3-Metilfluorantene Gruppo 3

1-Metilfenantrene Gruppo 3

Naftol[1,2-b]fluorantene Gruppo 3

Naftol[2,1-a]fluorantene Gruppo 3

Perilene Gruppo 3

Fenantrene Gruppo 3

Picene Gruppo 3

Pirene Gruppo 3

Trifenilene Gruppo 3

Legenda:

Classificazione IARC

Gruppo 1:Cancerogeno per l’uomo; Gruppo 2A Cancerogeno probabile (limitata evidenza nell’uomo e sufficiente evidenza

nell’animale); Gruppo 2B: Cancerogeno possibile (Limitata evidenza sull’uomo o in assenza di sufficiente evidenza

nell’animale o sufficiente evidenza nell’animale ed inadeguata evidenza o assenza nell’uomo); Gruppo 3: Non classificabile

per la cancerogenicità per l’uomo; Gruppo 4: Probabile non cancerogeno per l’uomo.

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Inoltre, la IARC ha valutato nel 1991 (IARC, 1991) il rischio cancerogeno associato

all’assunzione di bevande a base di caffè e tè, di uso molto diffuso. L’interesse verso

tali matrici derivava dal fatto che alcuni studi caso-controllo hanno suggerito

un’associazione fra tumore a carico della vescica nell’uomo e consumo di bevande a

base di caffè (Armstrong et al., 1976; La Vecchia et al., 1989; Rebelakos et al.,

1985; Simon et al., 1975; Slattery et al., 1988). Inoltre sia le bevande a base di tè sia

quelle a base di caffè contengono varie sostanze mutagene per proprio conto (ad es.

metilglicossale oppure xantine metilate quali caffeine, teobromina e teofillina). Dopo

valutazione dei dati riguardanti l’esposizione, dei dati sperimentali e di

cancerogenicità sull’uomo e degli altri dati rilevanti (quali effetti tossici, effetti sulla

riproduzione e tossicità prenatale), la IARC ha concluso che esiste:

• "evidenza limitata di cancerogenicità nell’uomo" delle bevande a base di

caffè per il tumore della vescica urinaria;

• "evidenza che suggerisce assenza di cancerogenicità" delle bevande a base di

caffè per il tumore a carico delle mammelle e dell’intestino;

• "evidenza inadeguata di cancerogenicità" delle bevande a base di caffè per il

tumore a carico di pancreas, ovaie ed altri sedi;

• "evidenza di cancerogenicità inadeguata " negli animali da esperimento per il

caffé.

Pertanto, il caffé è classificato come "possibile cancerogeno per la vescica urinaria

nell’uomo" ed è stato allocato nel gruppo 2B.

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Riguardo al tè, la IARC conclude che:

• esiste "evidenza di cancerogenicità inadeguata" nell’uomo per le bevande a

base di tè;

• esiste "evidenza di cancerogenicità inadeguata" negli animali da esperimento

per il tè.

Pertanto il tè "non è classificabile come cancerogeno per l’uomo" ed è stato allocato

nel gruppo 3.

4.2: IPA, alimenti e la normativa italiana

Gli IPA sono stati valutati anche dal WHO che ha stabilito valori di linee guida per la

qualità dell’acqua potabile (WHO, 1998, pag.641). Il WHO ha condotto una stima

quantitativa del rischio utilizzando il modello a due stadi (birth-death mutation); il

valore di linea guida risultante per il B[a]P in acqua potabile, corrispondente ad un

eccesso di rischio di cancro "lifetime" di 10-5 è pari a 0,7 µg/L. I dati disponibili sono

insufficienti per ricavare valori di linee guida per l’acqua potabile per gli altri IPA

ma sono riportate in merito delle raccomandazioni generali, quali:

• cercare di minimizzare la perdita di IPA dai materiali di rivestimento delle

tubature ed interrompere l’uso di tali materiali per detti rivestimenti;

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• monitorare regolarmente i livelli di IPA usando alcuni composti specifici

come indicatori del gruppo in toto;

• laddove si fosse verificata una contaminazione da IPA bisognerebbe

individuare i composti specifici presenti e la fonte della contaminazione

poiché il potenziale cancerogeno varia a seconda dell’IPA.

La cancerogenicità degli IPA è stata presa in considerazione a livello internazionale

dal Comitato congiunto di esperti sugli additivi alimentari (JECFA-Joint Expert

Committee on Food Additives) dell’Organizzazione per l’Alimentazione e

l’Agricoltura (FAO) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e, a livello

europeo dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA-Eurepean Food

Safety Agency), agenzia dell’Unione Europea che fornisce consulenza scientifica

su tutte le questioni riguardanti la sicurezza di alimenti e mangimi e che è organo

di valutazione e comunicazione sia pur senza competenze esecutive.

Le ampie differenze fra l’assunzione umana stimata di B[a]P e le dosi che inducono

tumori negli animali da laboratorio suggeriscono che alcuni degli effetti sulla salute

umana sono probabilmente di entità minore. Nonostante questo, considerato le

notevoli incertezze nella stima del rischio, entrambi i comitati concordano sulla

necessità di minimizzare, ove possibile, l’esposizione umana al B[a]P.

La Commissione riconosce la complessità del problema di ridurre l’esposizione al

B[a]P ed agli altri IPA. Osserva, inoltre, che l’esposizione al B[a]P costituisce solo

una frazione dell’esposizione dei consumatori agli IPA e che anche altri appartenenti

a questa classe di composti, hanno mostrato un profilo tossicologico simile a quello

del B[a]P e possono pertanto contribuire al rischio cancerogeno totale. A tale

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riguardo, le strategie per minimizzare l’esposizione al B[a]P dovrebbero essere anche

efficaci nella riduzione dell’esposizione complessiva agli IPA. Queste includono

regole che il consumatore può effettuare, quali il lavaggio molto accurato di frutta e

vegetali per rimuovere qualsiasi contaminazione superficiale e, prima di far arrostire

la carne, eliminare il grasso in eccesso per evitare gli "scoppi" e cuocere in maniera

da evitare il contatto tra il cibo e le fiamme. Misure che possono essere intraprese

dall’industria alimentare includono uso di sistemi di tostatura non su fiamma diretta,

uso di rivestimenti protettivi quando gli alimenti sono affumicati convenzionalmente.

Per quanto concerne le disposizioni normative in materia di contaminanti nei prodotti

alimentari dal 2001 ha avuto inizio un percorso di armonizzazione a livello

comunitario con l’emanazione di una serie di regolamenti e direttive che definiscono

limiti massimi di tolleranza dei contaminanti più significativi dal punto di vista

sanitario nelle diverse matrici alimentari .

In questo contesto si è proceduto a regolamentare il livello di accettabilità degli IPA

attraverso il Regolamento 1881/2006 che ha inserito il limite per una serie di prodotti

alimentari considerati prioritari dal punto di vista sanitario, riportati in tabella 4.3.

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Tabella 4.3: Parte 6: Idrocarburi policiclici aromatici

Prodotti alimentari Tenori massimi

(µg/kg di peso fresco)

Benzo[a]pirene (35)

Oli e grassi (escluso il burro di cacao) destinati al consumo umano diretto o all'impiego

quali ingredienti di prodotti alimentari.

2,0

Carni affumicate e prodotti a base di carni affumicate 5,0

Muscolo di pesce affumicato e prodotti della pesca affumicati esclusi i molluschi bivalvi.

Il tenore massimo si applica ai crostacei affumicati, escluse le carni scure del granchio

e quelle della testa e del torace dell'aragosta e di grossi

crostacei analoghi (Nephropidae e Palinuridae).

5,0

Muscolo di pesce non affumicato

2,0

Crostacei e cefalopodi non affumicati

(Nephropidae e Palinuridae).

5,0

Molluschi bivalvi

10,0

Alimenti a base di cereali e altri alimenti destinati ai lattanti e ai bambini

1,0

Alimenti per lattanti e alimenti di proseguimento

1,0

Alimenti dietetici a fini medici speciali destinati specificatamente ai lattanti

1,0

Legenda: (35) Il benzo(a)pirene, per il quale sono indicati i tenori massimi, è utilizzato come marcatore della presenza e degli

effetti degli idrocarburi policiclici aromatici cancerogeni. Le presenti disposizioni prevedono pertanto, in tutti gli Stati membri,

una totale armonizzazione in materia di idrocarburi policiclici aromatici per i prodotti alimentari indicati.

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E’ fondamentale far presente che nei consideranda del citato Regolamento

comunitario al punto 63) è riportato testualmente: "Entro il 1 aprile 2007 occorre

riesaminare i tenori massimi per gli IPA e l'opportunità di stabilire un tenore

massimo per gli IPA nel burro di cacao, alla luce dei progressi delle conoscenze

scientifiche e tecnologiche sull'occorrenza del benzo(a)pirene e di altri IPA

cancerogeni negli alimenti".

Tale atto rappresenta dunque l’avvio di un percorso finalizzato alla definizione di

limiti massimi di IPA negli alimenti nervini.

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CAPITOLO V

Parte Sperimentale

5.1 Gli IPA negli alimenti: studio bibliografico per la

determinazione analitica

La messa a punto di metodiche analitiche innovative per la determinazione degli IPA

in matrici alimentari ha rivestito e riveste un’importanza fondamentale, sia a causa

della elevata cancerogenicità di questi composti organici sia perchè contaminazioni

da IPA sono sempre più frequenti negli alimenti. Gli IPA sono stati ritrovati in

differenti categorie alimentari come: latticini, vegetali, frutta, oli, caffè, tè, cereali e

carni affumicate (Kruijf et al., 1987; De Vos et al., 1990; Lodovici et al., 1995;

García Falcón et al., 1996; Kazerouni et al., 2001; Camargo & Toledo, 2003; Simko,

2002; Lin et al., 2005). La loro eventuale presenza negli alimenti può essere dovuta a

contaminazione ambientale, ai processi di lavorazione cui sono sottoposti

(affumicatura, essiccazione, tostatura) oppure ai trattamenti termici di cottura

(grigliatura, frittura, cottura arrosto o al forno). Fra le matrici alimentari

maggiormente studiate si annoverano gli alimenti affumicati. La temperatura

d’affumicamento gioca un ruolo molto importante nel processo di formazione degli

IPA: la quantità di IPA che si forma nel fumo durante la pirolisi aumenta, infatti,

linearmente con la temperatura d’affumicamento nell’intervallo 400-1000°C (Tóth &

Blaas, 1972). Altri processi di lavorazione che possono provocare la sintesi degli IPA

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sono l’essiccazione e la tostatura (tè, caffè) a causa delle alte temperature che si

raggiungono (Schlemitz & Pfannhauser, 1997). Negli oli vegetali, invece, la

principale via di contaminazione è risultata essere l’inquinamento atmosferico

seguita dai solventi d’estrazione e dal contatto con gli oli minerali residui, ricchi di

IPA alchilati, che si generano nel corso di processi geochimici (Bories, 1988; Lee et

al., 1981).

L’intero processo analitico può essere suddiviso in tre passaggi fondamentali:

estrazione o isolamento degli IPA dalla matrice, purificazione dell’estratto,

determinazione analitica finale.

La maggior parte degli alimenti non si presenta in forma omogenea e deve essere

dunque accuratamente omogeneizzata prima dell’analisi. La successiva estrazione

degli IPA e la purificazione dell’estratto, sono fasi critiche nella determinazione a

causa sia delle quantità generalmente molto basse di IPA sia della presenza di

sostanze che potrebbero interferire nell’analisi (Wenzl et al., 2006) e che devono

essere eliminate con procedure adatte d’estrazione e purificazione. Quest’ultimo

problema è frequente nel caso di matrici alimentari complesse quali oli, latte,

alimenti affumicati, caratterizzate da un’elevata concentrazione di lipidi. In linea di

massima, in fase d’estrazione molti dei metodi tradizionali (tabella 5.1) usati per la

determinazione degli IPA in matrici alimentari complesse, richiedono una prima fase

di saponificazione seguita da un’estrazione liquido-liquido (LLE) ed una fase di

purificazione (colonna impaccata con gel di silice o florisil, cromatografia a

permeazione di gel (GPC), cromatografia su strato sottile (TLC)), (Grimmer &

Brönke, 1975; Stive & Hischenhuber, 1987), anche se, recentemente l’interesse degli

operatori è rivolto verso techiche che permettano risparmio di tempo e di solventi

(estrazione in fase solida, SPE, estrazione accelerata con solvente, ASE, estrazione

con fluidi supercritici, SFE, etc.).

Fra le matrici alimentari complesse gli oli vegetali sono stati quelli maggiormente

studiati. Le procedure usate più frequentemente per l’estrazione degli IPA da tale

matrice sono: la LLE, il metodo della caffeina e la saponificazione. Con la LLE

(Grimmer & Böhnke, 1975) il campione è disciolto in un solvente organico,

cicloesano (CE) o isottano nel quale rimangono i composti lipidici, mentre gli IPA

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sono estratti con una soluzione di dimetilformammide (DMF) ed acqua (H2O) in

rapporto 9:1 (v/v) (Hopia et al., 1986; Lawrence & Das, 1986; Speer et al.,1990;

Toledo & Camargo, 1998) oppure con dimetilsolfossido (DMSO) (Menichini et al.,

1991a). In seguito, diluendo con H2O l’estratto in DMF/H2O, cambiano i coefficienti

di ripartizione degli IPA tra i due solventi per cui gli IPA vengono riestratti in CE, in

seguito eliminato per evaporazione. Altri autori (Sagredos et al., 1979, 1988;

Kolarovic & Traitler, 1982) utilizzano il metodo della caffeina che sfrutta la capacità

dell’alcaloide di complessare gli IPA. Il campione di olio è disciolto in CE e gli IPA

sono estratti selettivamente tramite una vigorosa agitazione in una soluzione di

caffeina ed acido formico. L’estratto così ottenuto è trattato con una soluzione salina

e gli IPA riestratti in CE. Un’alternativa è rappresentata dal metodo della

saponificazione che è condotta con una soluzione di idrossido di potassio (KOH) in

metanolo (ebollizione a riflusso per 40’) e l’insaponificabile è estratto con CE (Stive

& Hischenhuber, 1987; Gertz & Kogelheide, 1994; Balenovic et al., 1995).

L’estratto ottenuto potrebbe contenere ancora apprezzabili quantità di materiale

indesiderato nel qual caso è necessario intervenire con tecniche di purificazione. In

relazione al grado di purificazione ottenuto in fase d’estrazione ed alla selettività

della determinazione analitica finale si possono impiegare diverse procedure di

purificazione dell’estratto. Quelle tradizionali sono la TLC (Sagredos et al., 1979,

1988) e le colonne cromatografiche impaccate con diversi materiali adsorbenti (Lee

et al., 1981), quali resina XAD-2 combinata con altri adsorbenti (Vaessen et al.,

1988; Welling & Kaandorp, 1986), Florisil (Howard, 1979; AOAC, 2000), gel di

silice (Stijve & Hischenhuber, 1987; Balenovic et al., 1995), allumina combinata col

gel di silice (Perfetti et al., 1992), Sephadex LH-20 (Di Muccio et all., 1979). E’

stato descritto anche l’impiego della GPC su resine di stirene-divinilbenzene, Bio-

Beds SX-8, Bio-beds SX-3 (Grimmer & Brönke, 1975; Speer et al., 1990; Cejpek et

al., 1995). Alcuni autori (Dennis et al., 1983; García Falcón et al., 1996; Moret et

al., 1996; Kayali-Sayadi et al., 1998), già da alcuni anni, utilizzano cartucce

commerciali pre-impaccate per la SPE che sono una valida alternativa alla classica

cromatografia su colonna in quanto risultano più convenienti sia in termini di tempi

di preparazione del campione che di volumi di eluenti richiesti. Lage Yusty e Cortizo

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Davina utilizzano invece, la SFE (Lage Yusty & Cortizo Davina, 2005) il cui

vantaggio è rappresentato dal fatto che lo stadio d’estrazione e purificazione

avvengono contemporaneamente consentendo quindi una notevole riduzione sia nei

tempi dell’analisi sia in quelli di manipolazione del campione che di solventi.

Per gli alimenti affumicati, in letteratura sono riportate metodiche che usano la

saponificazione con potassio seguita da LLE e da purificazione con SPE o GPC

(Grimmer e Brönke, 1975; Fretheim, 1976; Mottier et al., 2000) o estrazione tramite

Soxhlet seguita da purificazione su Florisil (Chen et al., 1996) o ancora estrazione

con sonicatore, previa liofilizzazione del prodotto, seguita da purificazione con

cartucce di silice (García Falcón et all., 1996). Altre tecniche d’estrazione, valide

alternative a quella convenzionale sono: l’estrazione con fluido supercritico (SFE),

per esempio nel caso di pesce affumicato o cotto alla griglia (Jävenpää et al., 1996) e

di pane tostato (Kayali-Sayadi et al., 2000) e l’estrazione accelerata con solvente

(ASE) nel caso di carne affumicata (Wang et al., 1999). Anche l’estrazione con

ultrasuoni permette la riduzione di tempo ed in alcuni casi aumenta l’efficienza di

recupero e la riproducibilità; tuttavia, i risultati dipendono dalla matrice, dal solvente

e dalle condizioni sperimentali (Coates & Elzrman., 1986; García Falcón et al.,

1996).

Un’altra matrice a lungo studiata, oltre agli oli vegetali ed agli alimenti affumicati, è

l’acqua potabile in quanto gli IPA possono essere rilasciati dal rivestimento

bituminoso delle tubature. Si tratta di una matrice meno complessa rispetto a quelle

in precedenza trattate, infatti non necessita di una purificazione spinta. Le metodiche

classiche, soprattutto a livello di metodi ufficiali (APAT IRSA-CNR, 2003; ISO

17993:2002), prevedono l’estrazione liquido-liquido o la estrazione in fase solida

(Barceló et all., 1993; Valor et all., 1995) e la determinazione in HPLC-FL o GC-

MS/FID. Recentemente si è osservata la tendenza a sostituire le tecniche classiche

d’estrazione con metodiche che riducano i tempi di manipolazione del campione

quali la microestrazione in fase solida (SPME) (Arthur e Pawliszyn., 1990) e

l’estrazione con barra di metallo assorbente (SBSE) (Baltussen et al., 1999). La

SPME (Pawliszyn J., 1997) consiste nel far assorbire gli analiti su una fibra (silice

fusa e polidimetilsilossano, PDMS), situata all’interno dell’ago di una siringa, che

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entra a diretto contatto con la matrice solo al momento del campionamento; questa

tecnica ha il vantaggio di combinare campionamento e preconcentrazione in un unico

step. Baltussen et all hanno sviluppato una tecnica alternativa d’estrazione, nota

come SBSE che è molto simile alla SPME; il principale vantaggio della SBSE

rispetto alla SPME è che la fibra è rivestita con una quantità maggiore di PDMS ed

estrae quindi una quantità maggiore di analiti facendo aumentare di conseguenza la

sensibilità della tecnica. La SBSE, applicata con successo da diversi autori a

campioni d’acqua di rubinetto (García-Falcón et all., 2004; León et al., 2006), può

essere considerata una valida alternativa ad altre metodiche analitiche quali la LLE,

SPE, SPME sia per la sua semplicità sia perchè consente un notevole risparmio di

solventi.

Nel caso di matrici quali caffè e tè, pochi lavori sono presenti in letteratura e la

maggior parte riguardano, la LLE con solvente organico e l’ausilio di colonne (silice

o allumina) in fase di purificazione (Lintas et al., 1979; Stijve & Hischenhuber,

1987). Altri autori (Kayali-Sayadi et al., 1998; Houessou et al, 2005) utilizzano

invece la SPE con cartucce impaccate (silice, polistirene-divinilbenzene, etc.).

L’estrazione è possibile grazie all’ausilio di uno strumento, manifold, il quale

sfruttando il vuoto permette l’eluizione del solvente estraente con vantaggi legati al

risparmio di tempo, alla quantità di solventi ed alla riproducibilità. García-Falcón et

al., 2005 invece, combinano la LLE con la purificazione con cartucce SPE ottenendo

buoni risultati.

L’estratto ottenuto con i diversi procedimenti, dopo essere stato portato alla

concentrazione idonea per la separazione cromatografica, in alcuni casi deve essere

filtrato per eliminare eventuali residui solidi sospesi in soluzione che potrebbero

influire non solo sull’esito della separazione, ma soprattutto generare intasamenti e

contaminazioni nelle parti meccaniche in contatto con la soluzione. Le filtrazioni

sono effettuate in genere su membrane per microfiltrazione di diverso tipo per

dimensione e grado di porosità. Le più utilizzate sono i filtri idrofobi in

politetrafluoroetilene (PTFE) (Kayali-Sayadi et al., 1998; Nieva-Cano et al., 2001;

Lage Yusty & Cortizo-Daviňa, 2005) e quelli in poliammide idrofila (nylon)

(Houessou et al., 2005).

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Per la determinazione analitica finale, le procedure più comunemente usate sono la

cromatografia liquida (LC), in particolare quella ad elevate prestazioni (HPLC) a

fase inversa (De Vos et al., 1990; Cejpek et all., 1995) e la gascromatografia (GC)

con colonna capillare (Kolarovic & Traitler 1982; Menichini et al., 1991b; León et

al., 2006).

Nell’analisi HPLC, i materiali impaccati più usati consistono di particelle di silice

chimicamente legate a catene idrocarburiche lineari C18. Sono utilizzati rivelatori

UV-VIS a lunghezza d’onda fissa (Moret et all., 1997), rivelatori UV a serie di diodi

(DAD) a lunghezza d’onda variabile (Houessou et al, 2005), rivelatori a fluorescenza

(Stive & Hischenhuber, 1987; Cejpek K. et all., 1995; García Falcón et al., 1996;

Nieva Cano et all, 2001; García Falcón et al., 2004; Tfouni et all., 2006) e

spettrofluorimetri (Kruijf et al., 1987; De Vos et al., 1990; Camargo & Toledo, 2003;

Lage-Yusty & Coritzo-Davina, 2005). Il rivelatore a fluorescenza è il più sensibile

per la determinazione degli IPA e la sua specificità ne permette la determinazione in

presenza di sostanze interferenti non fluorescenti. Il DAD (Houessou et al, 2005)

consente di confermare l’identificazione dei picchi cromatografici tramite gli spettri

UV acquisiti durante l’eluizione. Nell’analisi GC, le fasi stazionarie più utilizzate

sono i metilpolisilossani o altre fasi equivalenti. Come rivelatore, è impiegato quello

a ionizzazione di fiamma (FID) (Zedek, 1980; Kolarovic & Traitler 1982; Zamperlini

et all., 2000) o lo spettrometro di massa (MS) (Speer et al., 1990; Chen & Lin, 1997;

Chiu et al., 1997; Zamperlini et all., 2000; Mottier et al., 2000; Crozier et all., 2001;

Grova et all, 2002; León et al., 2006) o FID ed MS per conferma (Grimmer e

Böhnke 1975; Lawrence & Weber 1984; Zamperlini et all., 2000). Il FID, d’impiego

più semplice, dà una risposta lineare eccellente ed, accoppiato ad un iniettore on-

column a freddo, permette una quantificazione accurata e precisa; a causa della sua

mancanza di selettività tuttavia, i campioni necessitano di una purificazione spinta. I

rivelatori a spettrometria di massa costituiscono strumenti potenti per

l’identificazione e la conferma dei composti, e permettono di determinare

concentrazioni più basse: per questi motivi, attualmente sono comunemente preferiti.

Concludendo, da un lato c’è la tendenza a ricercare metodi semplici e rapidi che

utilizzano un unico step o tecniche accoppiate di concentrazione e purificazione,

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dall’altro l’utilizzo di metodiche ufficiali che a volte prevedono metodi più lunghi

con diversi passaggi per l’estrazione e la purificazione (soprattutto a livello di metodi

ufficiali ISO 15302:1998; ISO17993:2002). L’impiego di questi ultimi non incontra

certamente le esigenze dei laboratori di controllo che hanno necessità di avere metodi

rapidi che riducano il più possibile i tempi di manipolazione del campione ed i

volumi di solvente in gioco in modo da diminuire le potenziali cause di scarsa

riproducibilità e contaminazione esterna.

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Tabella 5.1: Schema riassuntivo delle metodiche per la determinazione degli

IPA in alimenti. Campioni Estrazione Purificazione Determinazione analitica

Alimenti affumicati

(carne, pesce)

Saponificazione ed LLE

Saponificazione ed LLE

Saponificazione ed LLE

lavaggio con NaCl

LLE

Soxhlet , saponificazione ed

LLE

SFE

Saponificazione ed LLE

ASE

GPC

Su colonna+GPC

Su colonna

GPC

Su colonna

SPE

Su colonna

GC- MSe/FID[Grimmer eBöhnke1975]

GC-FID [Fretheim et al., 1976]

HPLC-FL [Stijve & Hischenhuber, 1987]

HPLC-FL [Cejpek et all, 1995]

HPLC UV-VIS e FL[Chen et al., 1996]

HPLC-FL [Jävenpää et al., 1996]

GC-MS [ Chen e Lin, 1997]

GC-MS [Wang et all., 1999 ]

Pane tostato Sonicazione

SFE

HPLC-FL [ Nieva Cano et all., 2001]

HPLC-FL[Kayali-Sayadi, et all., 2000]

Oli

Metodo della caffeina

ed LLE

LLE

Saponificazione ed LLE

SFE

Su colonna

+TLC

Su colonna+GPC

Su colonna

Spettroscopia UV, misurazione FL [Sagredos et

al., 1979; 1988]

GC-MS [Speer et all., 1990]

GC-MS/HPLC-FL[Balenovicetal.1995]

HPLC-FL [Yusty e Favina, 2005]

Latte SPE

Saponificazione ed LLE

GC-MS [ Grova et all, 2002]

HPLC-FL[Kishikawa et al., 2003]

Acqua di rubinetto LLE o SPE

SPE

SBSE

/

/

/

HPLC-FL o GC-MS [Metodo IRSA]

GC-MS [Crozier et all, 2001]

HPLC-FL [García-Falcón e al., 2004];

GC-MS [ León et al., 2006]

Caffè LLE

SPE

SPE HPLC-UV-VIS [Bishnoi et all, 2005]

HPLC-FL [García-Falcón e al., 2005]

HPLC-FL [Houessou et al., 2005]

Tè LLE

SPE

SFE

SPE

Colonna ed SPE

HPLC-UV-VIS [Bishnoi et all, 2005]

HPLC-FL [Kayali-Sayadi et al., 1998]

GC-MS [Schlemitz & Pfannhauser, 1997]

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Legenda:

ASE: estrazione accelerata con solvente

CE: cicloesano

CHCl3: cloroformio

DMF: dimetilformammide

FID: rivelatore ad ionizzazione di fiamma

FL: rivelatore a fluorescenza

GPC: cromatografia a permeazione di gel

H2O: acqua

HPLC: cromatografia liquida ad elevate prestazioni

LLE: estrazione liquido-liquido

MS: rivelatore spettrometro di massa

MtOH: metanolo

NaCl: cloruro di sodio

KOH: idrossido di potassio

SFE: estrazione con fluidi supercritici

SBSE: estrazione con barra di metallo assorbente

SPE: estrazione in fase solida

TLC: cromatografia su strato sottile

UV: rivelatore ultravioletto

UV-VIS: rivelatore ultravioletto-visibile

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5.2 Materiali e metodi

Reagenti: la miscela dei 15 composti considerati sciolti in acetonitrile

(CHEM.SERVICE PAH Control Sample Misture) presentava le seguenti

concentrazioni: Naftalene (NAF)100µg/ml, Acenaftilene (ACE) 100µg/ml,

Acenaftene (ACF) 100µg/ml, Fluorene (FLU) 10µg/ml, Fenantrene (PHE) 100µg/ml,

Antracene (ANT) 100µg/ml, Fluorantene (FLN) 10µg/ml, Pirene (PYR) 10µg/ml,

Benzo(α)antracene (BaA) 10µg/ml, Crisene (CHR) 10µg/ml, Benzo(β )fluorantene

(BbF) 10µg/ml, Benzo(k)fluorantene (BkF) 5µg/ml, Benzo(α)pirene (BaP) 10µg/ml,

Dibenzo(a,h)antracene (DahB) 10µg/ml, Benzo(g,h,i)perilene(BghiP) 10µg/ml e

Indeno(1,2,3 c-d)pirene (IcdP) 10µg/ml.

Tutti i solventi utilizzati per l’analisi cromatografica presentavano un grado di

purezza HPLC grade: H2O, Acetonotrile (ACN), Metanolo (MeOH), Tetraidrofurano

(THF).

Campioni: Sette campioni commerciali di caffè e sette di tè sono stati acquistati

presso diversi supermercati per la successiva analisi. La purificazione degli infusi è

stata effettuata utilizzando cartucce SPE C18 (Supelco).

Preparazione degli standard: per diluizione con ACN della miscela standard sono

state preparate diverse soluzioni per la successiva valutazione del range di linearità

degli analiti (diluizione 100÷50000).

Apparato: Tutte le misure sono state effettuate utilizzando un sistema

cromatografico Schimadzu LC-10 ATVP con rivelatore (Shimadzu) UV-Vis SP-10

AVP (λ= 254 nm), e rivelatore fluorimetrico (Shimadzu) RF-10AXL in serie. La

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colonna utilizzata è Pinnacle II PAH (Restek) (150 x 3.2mm x 5µm) con una

precolonna Restek Pinnacle II PAH (10 x 2 mm). Le analisi sono state condotte

condizionando la colonna ad una temperatura di 30°C. Per la purificazione degli

infusi è stato usato il Resprep Manifold (Restek). La preparazione dei campioni di

caffè è stata effettuata utilizzando una caffettiera tipo Moka (Bialetti).

Metodo Cromatografico: per la separazione cromatografica la fase mobile utilizzata

è una soluzione di H2O (A)/ACN (B) con un gradiente di eluizione (t=0 A=60%

B=40%, t=30 min B=100% per 10 minuti, t=51 min A=60% B=40%) e flusso di 0,5

ml/min. Le lunghezze d’onda di eccitazione ed emissione del fluorimentro sono state

variate durante l’analisi. In particolare tra 0 e 10,0 min. λ exc 280 nm, λ em 340 nm;

18,4 min. λ exc 295 nm, λ em 380 nm; 20,3 min. λ exc 280 nm, λ em 430 nm; 25,0 min.

λ exc 285 nm, λ em 460 nm; 29,0 min. λ exc 290 nm, λ em 420 nm; 33,5 min. λ exc 293 nm,

λ em 498 nm.

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Preparazione dei campioni di caffè

La preparazione dei campioni di caffè è stata eseguita utilizzando una caffettiera di

tipo Moka. L’estratto di caffè ottenuto è stato quindi filtrato su carta da filtro; al

filtrato è stato aggiunto il 14% di MeOH. 40-50 ml della miscela così ottenuta

(caffè+MeOH) sono stati purificati attraverso passaggio su Sepak C18,

precedentemente attivata con 5 ml di MeOH, 5 ml di THF-MeOH 1:1 e 5 ml di H2O,

mentre l’eluizione dei composti trattenuti in colonna è stata ottenuta con una miscela

THF-MeOH 9:1. Il campione è stato quindi filtrato con filtro di nylon e 20 µl iniettati

per l’analisi HPLC-RF (fig. 5.1).

Figura 5.1: schema di preparazione campioni di caffè.

caffè macinato

Preparazione caffè

con caffettiera

di tipo Moka

estratto

di caffè

Filtrazione su

Carta da filtro

Filtrato + 14%

metanolo

Attivazione

Sepak C18

5 ml CH3OH

5 ml THF : CH3OH

5 ml H2O

40/50 ml di caffè + MeOH

passaggio su

Sepak C18 attivata

eluizione con

THF : CH3OH 90:10

f i l t razione

con f i l t r i

0,22µm

HPLC-RF 20 µL

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Preparazione dei campioni di tè

I campioni di tè sono stati preparati utilizzando due bustine di tè (circa 4 g) lasciate

in infusione per 10 min in 200 ml di acqua distillata (T=80 °C). 150 ml di tè sono

stati filtrati su carta da filtro ed è stato aggiunto il 14% di MeOH. 150 ml di miscela

metanolica sono stati purificati attraverso passaggio su C18, attivata come per i

campioni di caffè e gli IPA così trattenuti sono stati eluiti con la miscela THF-MeOH

9:1. Dopo filtrazione con filtro di nylon, 20 µl sono stati sottoposti ad analisi HPLC-

RF (fig. 5.2).

Figura 5.2: schema di preparazione campioni di tè.

2 bustine di Te

(3-4 g)

200 ml

acqua deionizzata

T=80°C per 10 min.

150 ml

di Tè

Filtrazione su

Carta da filtro

Filtrato+14%

di metanolo

Attivazione

Sepak C18

5 ml CH3OH

5 ml THF : CH3OH 1:1

5 ml H2O

150 ml di Te + CH3OH

passaggio su

Sepak C18 attivata

eluizione con

THF : CH3OH 90:10

f i l t razione

con f i l t r i

0,22µm

HPLC-RF 20 µL

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Recupero degli IPA da soluzione standard

Per valutare l’influenza della procedura di concentrazione e purificazione sul

recupero dei 15 IPA, 4 ml di soluzione standard sono stati portati ad un volume di

circa 0.2 ml sotto flusso di azoto e portati ad un volume finale di 4 ml con una

soluzione di H2O:MeOH (60:40). Successivamente è stato effettuato il passaggio su

C18, attivata come di consueto con 5 ml di MeOH, 5 ml di THF-MeOH 1:1 e 5 ml di

H2O. I composti trattenuti, sono stati eluiti con una soluzione THF:MeOH 9:1. Dopo

filtrazione con filtro di nylon 20 µl sono stati iniettati per l’analisi HPLC-RF (fig.

5.3).

Figura 5.3: schema recupero IPA da soluzione standard.

4ml SS

concentrazione

a 0,2 ml sotto flusso di N2

portati a 4 ml

con H2O:CH3OH

60:40

Attivazione

Sepak C18

5 ml CH3OH

5 ml THF : CH3OH 1:1

5 ml H2O

passaggio su

Sepak C18 attivata

eluizione con

4 ml di

THF : CH3OH 90:10

f i l t razione

con f i l t r i

0,22µm

HPLC-RF 20 µL

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Recupero degli IPA da campioni di caffè e tè

Una volta valutati i valori di recupero degli IPA in campioni di soluzioni standard, è

stato effettuato lo stesso esperimento su campioni reali di caffè e tè. La procedura di

preparazione dell’infuso, come pure quella relativa all’attivazione della colonna C18

e successivo passaggio della miscela metanolica di caffè (32 ml) con aggiunta (1 ml

di SS 1:100) ed eluizione degli IPA non presentano variazioni rispetto alle stesse

descritte in precedenza. La stessa procedura è stata effettuata su campioni di tè.

Dopo filtrazione con filtro di nylon 20 µl di campione sono stati iniettati per l’analisi

HPLC-RF.

5.3 Risultati e Discussione

In fig. 5.4 è riportato il cromatogramma della soluzione standard 1:400 dei 15 IPA. I

valori dei recuperi percentuali ottenuti su questo campione variano tra il 78.4% per il

benzo(g,h,i) perilene e il 112.0% per il naftalene (tab.5.2), mentre le analisi

effettuate a

Figura 5.4. Cromatogramma di una soluzione standard 1:400 dei 15 IPA

Minuti

Volts

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Tabella 5.2: valori di recupero degli IPA da soluzione standard, campioni di

caffè e campioni di tè.

tr (min) R% (SS) R% (Caffè) R% (Tè)

Naftalene 13,2 95.4 92.3 98.5

Acenaftene 16,9 104.0 93.7 97.2

Fluorene 17,4 91.4 89.4 90.8

Fenantrene 18,9 101.5 100.3 98.3

Antracene 20,2 92.6 89.8 91.2

Fluorantene 21,8 99.0 95.1 92.8

Pirene 23,2 100,2 94.4 97.1

Benzo(α)Antracene 26,5 102.3 91.0 96.4

Crisene 27,2 88.8 89.9 99.9

Benzo(β)Fluorantene 30,3 93.9 90.9 98.5

Benzo(k)Fluorantene 31,5 98.9 86.3 94.2

Benzo(α)Pirene 32,8 103.2 90.1 98.4

Dibenzo(a,h)Antracene 34,6 98.5 95.2 95.2

Benzo(g,h,i)Perilene 36,2 88.7 87.8 87.8

Indeno(1,2,3-c,d)Pirene 36,9 95.7 90.8 93.4

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diverse concentrazioni (media di tre determinazioni distinte) mostrano per tutti i

composti linearità nell’intero range di concentrazioni considerato, con valori di R2

mai inferiori a 0.999.

In fig. 5.5 è riportato un cromatogramma relativo ad un campione di caffè in cui è

possibile evidenziare la presenza di alcuni IPA. Analoghe analisi condotte sugli altri

campioni hanno mostrato una concentrazione variabile di idrocarburi policiclici

aromatici, come mostrato in tab.5.3. I valori di concentrazione ottenuti derivano dalla

media di tre determinazioni distinte con errori percentuali associati mai superiori al

3%. Gli analoghi valori di concentrazione in campioni di tè sono riportati in tabella

5.4. I valori di concentrazione ottenuti derivano dalla media di tre determinazioni

distinte con errori percentuali associati mai superiori al 3%.

Minuti

Volts

Figura 5.5. Cromatogramma di un campione di caffè.

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Tabella 5.3: concentrazioni di IPA (µg/kg) in campioni di caffè.

1 2 3 4 5 6 7

Naftalene nr nr nr nr nr nr nr

Acenaftene nr nr nr nr nr nr nr

Fluorene nr nr nr nr nr nr nr

Fenantrene nr nr nr nr nr nr nr

Antracene nr nr nr nr nr nr nr

Fluorantene nr nr nr nr nr nr nr

Pirene nr nr nr nr nr nr nr

Benzo(α)Antracene nr nr nr nr nr nr nr

Crisene nr nr nr nr nr nr nr

Benzo(β)Fluorantene 0.279 0.748 0.156 0.978 0.176 nr 0.096

Benzo(k)Fluorantene 0.168 0.461 0.094 0.660 0.207 0.061 0.684

Benzo(α)Pirene 0.420 0.777 0.293 1.023 0.431 0.073 0.824

Dibenzo(a,h)Antracene 0.311 0.161 nr 0.051 0.177 0.433 nr

Benzo(g,h,i)Perilene 0.346 0.365 0.413 0.711 nr 0.344 0.189

Indeno(1,2,3nrc,d)Pirene 0.207 0.852 0.166 0.860 0.506 0.179 0.091

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Tabella 5.4: concentrazioni di IPA (µg/kg) in campioni di tè.

1 2 3 4 5 6 7

Naftalene 9.540 3.320 3.875 1.753 1.573 2.584 3.698

Acenaftene nr nr 0.218 0.319 nr 0.018 0.147

Fluorene 4.357 nr 0.286 0.641 0.567 nr 0.258

Fenantrene 17.331 7.737 3.437 10.895 4.228 1.958 6.885

Antracene nr nr nr 1.075 0.084 nr 0.014

Fluorantene 7.590 1.750 3.437 3.802 nr 0.989 nr

Pirene 4.240 nr 1.182 0.365 0.742 1.745 nr

Benzo(α)Antracene 0.315 nr 3.674 0.2015 0.431 nr 1.335

Crisene nr nr nr nr nr nr nr

Benzo(β)Fluorantene 0.323 0.065 0.416 0.411 0.095 0.551 0.225

Benzo(k)Fluorantene 0.063 0.019 0.260 0.147 0.351 0.065 0.347

Benzo(α)Pirene 0.256 0.130 0.444 0.207 0.114 0.214 0.247

Dibenzo(a,h)Antracene 0.977 nr nr nr 0.724 nr nr

Benzo(g,h,i)Perilene 0.465 nr 0.321 0.625 0.068 0.158 nr

Indeno(1,2,3-c,d)Pirene 0.079 nr 0.744 0.120 nr nr 0.091

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Il problema principale associato alla determinazione degli IPA in campioni di caffè e

tè e in generale in matrici complesse sono i bassi livelli di concentrazione e

l’abbondanza di potenziali interferenti che potrebbero impedire una corretta

determinazione analitica. Per risolvere il problema è indispensabile quindi una

procedura di purificazione molto spinta.

Diversi studi, infatti, riportano la necessità di liberare gli IPA fortemente trattenuti ad

altri componenti della matrice alimentare (Guillen, Sopelana, Partearroyo, 2000) e

rimuovere alcune classi di composti interferenti (Tamakawa, Kato, Oba, 1996). A tal

riguardo, il passaggio dell’infuso attraverso la SPE C18 che trattiene molti composti

non polari, sembra permettere di ottenere buoni risultati in termini di purificazione,

concentrazione e riproducibilità.

La presenza degli IPA in campioni di caffè potrebbe essere attribuita sia alla

contaminazione dei chicchi di caffè verde sia alla loro formazione durante la fase di

tostatura (Maier, 1991). Dall’analisi dei dati ottenuti (Tabella 5.3) si evidenzia che i

campioni di caffè analizzati presentano concentrazioni di IPA variabili tra 0.061

µg/Kg per il benzo(k)Fluorantene e 1.023 µg/Kg per benzo(α)Pirene. Tra i diversi

composti, non si riscontra la presenza di composti con meno di cinque anelli

probabilmente a causa delle condizioni di temperatura e pressione durante la

preparazione del caffè che potrebbero favorire la volatilizzazione degli IPA con 2, 3

e 4 anelli. D’altro canto le concentrazioni di composti tossici quali il benzo(a)pirene,

considerato dalla normativa Comunitaria (Reg. CE n. 208/2005) come marcatore

della presenza e dell’effetto nei prodotti alimentari di IPA cancerogeni, quando

presenti nei campioni in esame, risultano sempre al di sotto del limite previsto dalla

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normativa (1.0÷10.0 µg/Kg per alimenti per lattanti e molluschi bivalvi

rispettivamente).

Per quanto riguarda i campioni di tè, le quantità dei composti in esame variano in un

range di concentrazioni da 0.014 µg/Kg per l’antracene a 17.331 µg/Kg per il

fenantrene. In questo caso però si riscontrano tutti gli idrocarburi policiclici

aromatici, indipendentemente dal numero di anelli di cui sono costituiti. In

particolare, le maggiori concentrazioni riscontrate si riferiscono ai composti con 2, 3

e 4 anelli, non presenti nei campioni di caffè. Ciò potrebbe essere attribuito in parte

alla temperatura utilizzata per la preparazione del tè (80°C) ritenuta inferiore alla

temperatura di volatilizzazione dei composti a più basso PM, come pure alla

maggiore solubilità in acqua dei composti con minor numero di anelli aromatici.

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Conclusioni

Gli IPA sono presenti, in quantità ampiamente variabili, pressoché in tutti gli

alimenti. Tale presenza può essere dovuta a contaminazione ambientale

(principalmente per deposizione di materiale particolato atmosferico e per

assorbimento da matrici contaminate, quali suolo e acque fluviali o marine), oppure a

formazione durante determinati processi di lavorazione (soprattutto l’essiccazione

attraverso fumi di combustione e l’affumicatura con metodi tradizionali) e alcuni

trattamenti termici (in particolare, la cottura alla griglia).

Le concentrazioni dei singoli IPA variano generalmente da meno di 1 µg/kg ad

alcuni µg/kg, occasionalmente fino a valori dell’ordine delle decine, e talvolta delle

centinaia, di µg/kg. I livelli più alti sono riscontrati negli alimenti grigliati

(soprattutto carni e prodotti carnei grigliati ad alte temperature e per tempi

prolungati), nel pesce affumicato con tecniche tradizionali, nei vegetali a foglia larga

coltivati in aree esposte ad elevato inquinamento atmosferico d’origine industriale o

autoveicolare, nei mitili provenienti da acque inquinate.

Elevate concentrazioni di IPA possono essere inoltre presenti negli oli di semi,

generalmente a seguito di processi d’essiccazione diretta dei semi (su fiamma,

usando legna od olio come combustibile). L’essiccazione tramite fumi di

combustione è anche responsabile della contaminazione talvolta riscontrata in

cereali. Per quanto riguarda la presenza di IPA nel caffè e nel tè, oltre all’eventuale

contaminazione ambientale, la quantità di composti presenti può aumentare in

relazione al processo di tostatura del caffè (T=190-240 °C).

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Gli studi disponibili relativi al contributo dei vari alimenti all’assunzione di IPA

attraverso la dieta sono scarsi e condotti con procedure non omogenee; essi sembrano

in ogni modo concordare sulla conclusione che, tra gli alimenti maggiormente

responsabili, vi sono gli oli e i grassi, i cereali e i vegetali. Carni e pesci affumicati,

così come gli alimenti grigliati, nonostante gli elevati contenuti in IPA,

contribuiscono invece solo in piccola parte a causa del loro consumo generalmente

basso.

Dal confronto dell’assunzione stimata di IPA attraverso la dieta con l’assunzione

attraverso le altre due principali vie d’esposizione (l’inalazione d’aria e l’ingestione

d’acqua), risulta che, per un adulto non fumatore, l’ingestione di alimenti

contribuisce largamente alla maggior parte dell’assunzione globale di IPA. In

particolare, l’assunzione media giornaliera di B[a]P attraverso la dieta risulta

stimabile in un intervallo approssimativamente compreso tra 50 e 300 ng/persona,

valore corrispondente circa al 90% dell’assunzione globale media. Per i fumatori di

sigarette, i contributi provenienti dall’ingestione di alimenti e dal fumo possono

essere su ordini di grandezza simili. Ciò tuttavia non implica in alcun modo un

rischio cancerogeno confrontabile, per il diverso significato tossicologico della

esposizione inalatoria e orale ad IPA, e per la presenza nel fumo di sigarette di

molteplici sostanze cancerogene oltre gli stessi IPA.

Nonostante le difficoltà e le incertezze insite nella valutazione quantitativa del

rischio associato all’esposizione a basse dosi di cancerogeni, le stime attuali

suggeriscono che l’ingestione di IPA con gli alimenti può essere associata ad un

rischio aggiuntivo di circa 10-100 casi di tumore per milione di persone, ben

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inferiore al rischio di tumore polmonare nei fumatori, stimato in circa 1 caso su 10

fumatori (Amos et al., 1999). Sebbene il rischio individuale non sia elevato,

l’ampiezza della popolazione esposta e la gravità della patologia, suggeriscono

comunque l’opportunità di mantenere i livelli di IPA negli alimenti ai livelli più bassi

ragionevolmente ottenibili.

Data la varietà delle fonti responsabili della presenza di IPA negli alimenti, la

riduzione della loro assunzione attraverso la dieta può essere perseguita percorrendo

contemporaneamente diverse strade. Tra le principali, si segnalano: il controllo delle

emissioni di questa classe di sostanze nell’ambiente, l’adozione–per determinati

gruppi di alimenti–di valori limite di concentrazione che tengano conto delle migliori

tecnologie produttive disponibili, interventi – di tipo sia normativo sia informativo –

atti ad impedire determinati processi produttivi (ad esempio, l’uso di processi di

affumicatura ed essiccazione in cui i prodotti di combustione entrano a contatto

diretto con l’alimento), un’adeguata informazione dei consumatori (ad esempio,

mirata ad evitare consumi eccessivi di alimenti fortemente grigliati).

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