Post on 02-Oct-2021
Il divismo
Popolarità
Alla fine dell’Ottocento, la popolarità di alcuni personaggi dello
spettacolo non era un fatto nuovo, ma si trattava di una celebrità
strettamente connessa al talento (o a una posizione sociale
assolutamente preminente) e di portata piuttosto contenuta,
legata più alla distanza che alla prossimità. Già la stampa
popolare inizia a impastare le persone celebri in una sorta di
milieu dorato fatto di balli di corte, bagni termali, teatri dell’opera,
lusso e transatlantici.
Legame sociale
Ma i mezzi di comunicazione
più esplicitamente rivolti alle
masse mostrano un’inedita
capacità di costruire
immense popolarità in breve
tempo. La semplice
«apparizione mediatica» si
mostra in grado di accendere
subito un vincolo con un
numero grandissimo di
persone, rivelando un nuovo
tipo di legame sociale che
presenta aspetti funzionali e
confortanti, ma anche, per
altri versi, spaventosi.
Il cinema impiega
naturalmente un po’ di
tempo per mettere a
punto questa dinamica di
«conferimento di status».
Deve innanzitutto
superare le secche che
lo tengono nella palude
della mediocrità e poi
raffinare le modalità
espressive, come ad
esempio far uscire i
personaggi
dall’anonimato della
scena fissa e trovare il
modo di caratterizzarli.
Conferimento di status
Il sacro nel profano
Tuttavia il fenomeno del divismo non
è solo la conseguenza «tecnica» di
uno sviluppo mediatico inatteso, né
soltanto una valvola meccanica
aperta da un contesto sociale ormai
di massa gonfiato da un’insostenibile
pressione. È anche un fenomeno
culturale, che rispecchia alcune
trasformazioni mentali e culturali
dell’epoca, l’emergere di nuovi
bisogni sociali, come la riscoperta
del sacro nel mondo «disincantato».
Valori
I valori del tempo sono riflessi dal cinema alla superficie
mediante l’ansia della velocità, la ricerca del ritmo, la
celebrazione dei riti della civiltà urbana. Ma scendendo più a
fondo, il cinema che inizia ad esplorare i territori del sogno e della
fantasia si rivela in grado di interpretare le inquietudini che si
agitano nelle zone più appartate della coscienza sociale.
Turbamenti
I turbamenti che sembrano il
più credibile alimento del
fenomeno divistico sono il
disagio di fronte al
rimescolarsi dei ruoli sociali,
quello delle donne in primo
luogo, l’eccitazione per le
apparenti occasioni di
mobilità sociale verticale e,
in generale, la ricerca di
ancoraggi, di punti di
riferimento in un mondo
diventato all’improvviso
troppo veloce, esigente e
instabile.
Doris Eaton (1904–2010)
Isadora Duncan (1878-1927) Emancipazione
Nella dissoluzione degli ultimi residui del mondo aristocratico, i
languori del decadentismo enfatizzano la figura femminile, in una
miscela agrodolce di attrazione e diffidenza, mentre la spinta
verso l’emancipazione ci lascia ritratti di donne disinibite e
sensuali che sollevano tempeste di passione.
Emancipazione
Una cultura inquieta, che rifiuta la fiducia ottusa nel positivismo e
civetta con le pose decadenti e con le tentazioni proibite, si
cimenta con le turbe sessuali e con le profondità della psiche,
lasciando emergere la paura per la «rivolta» delle donne.
Theda Bara(1885-1955)
Femme fatale
La letteratura del periodo è
infatti popolata di donne
fatali, perverse e dominatrici.
John Singer Sargent, Portrait
of Madame X, 1884 Jane Burden Morris, musa dei Preraffaelliti
Salomè
Salomè di Oscar Wilde,
scritta in francese per Sarah
Bernhardt (che si rifiuta di
interpretarla) e pubblicata
nel 1893 con le illustrazioni
di Aubrey Beardsley.
La prima rappresentazione
si tiene a Parigi il 12
febbraio 1896, poiché a
Londra ne è vietato
l’allestimento e fino
al 1931 l’opera sarà proibita
nel Regno Unito.
Lulu
La Lulù di Wedekind del 1913, che unifica due
lavori precedenti - Lo spirito della terra e Il vaso
di Pandora – costati all’autore lo scandalo e un
lungo processo penale. Il personaggio, tragica e
moderna incarnazione della femme fatale, viene
consegnato al mito da Louise Brooks nel film Il
vaso di Pandora (Pabst, 1928).
Lulu, Wuppertaler Schauspielhaus, 2011
Wanda von Dunajew
Anche Wanda von Dunajew, la Venere in
pelliccia 1870) di Leopold von Sacher-
Masoch può essere un simbolo
dell’apprensione maschile verso il riscatto
delle donne.
Colette
Nel 1906 la scrittrice Colette
entra nelle grazie della
marchesa Mathilde de
Morny, di cui è nota la
passione per gli abiti
maschili. Nel 1907, durante
la pantomima Rêve d’Égypte
al Moulin Rouge, Colette, che
interpreta Cleopatra, e la
marchesa, nelle vesti
dell’archeologo innamorato,
si baciano sul palco con
passione; ne nasce un
putiferio e il Prefetto Lépine
fa chiudere lo spettacolo.
Mata Hari
Nel 1905 si spande per
Parigi il profumo di peccato
sprigionato da Mata Hari,
che con la sua danza,
solleticando torbide
fantasie su paesi
sconosciuti, offre agli
spettatori un assurdo
sincretismo fra la
saggezza buddista e i “riti
sanguinari” di fantomatiche
e dee indù, il fascino
proibito dell’erotismo e la
purezza dell’ascesi.
La vampira
La prima incarnazione
cinematografica di questa
minaccia femminile (che
diventa un trampolino
importante per il
protagonismo femminile e
per l’emergere delle prime
dive) è la donna-vampiro,
cioè la donna che risucchia
le energie dell’uomo per
assoggettarlo al suo potere
capriccioso. Asta Nielsen in Abisso (1909)
La vampira
Questa figura solletica la
cinematografia
americana e nel 1910
esce un primo film (The
Vampire, una dozzina di
minuti) ispirato
all’omonimo poema
di Rudyard Kipling del
1897 che inizia col verso
“A fool there was and he
made his prayer”; il film,
prodotto dalla Selig con
regia non accreditata, è
interpretato da Margarita
Fischer e Charles Clary.
La vampira
The Vampire, il celebre disegno di
Philip Burne Jones (1897) che ritrae
l’attrice Patrick Campbell, cui il
pittore era romanticamente legato.
La vampira
All’idea della donna vacua che
distrae le risorse dell’uomo si
aggiunge la sensualità della
danza. Sempre col titolo The
Vampire esce nelle sale il 15
ottobre 1913 un nuovo film
(stavolta 3 rulli per complessivi
38 minuti) prodotto dalla
Kalem Company, diretto
da Robert G. Vignola,
interpretato da Harry F.
Millarde, Marguerite Courtot e
Alice Hollister, nella parte
della vampira Loie.
La vampira
Con questo film approda al cinema la
Danza del Vampiro di Alice Eis, creata
con il suo partner Bert French nel 1909.
Questo film di Robert G. Vignola, con Alice
Hollister, deriva da una poesia di Rudyard
Kipling del 1897, a sua volta ispirata al celebre
quadro di Burne-Jones, e racconta di una
seduttrice che distrae un giovane dal lavoro e
dalla fidanzata.
The Vampire
(1913)
La Hollister interpreta la donna
fatale che attira il giovane nel
peccato e subito se ne stanca. La
città è vista come un antro di
depravazione che può facilmente
inghiottire anche l’uomo più
virtuoso. La prudente storia di
astuzia femminile ha un lieto fine
che vede la fidanzata
riconquistare il proprio uomo.
La morale implicita è quella di diffidare delle donne
lussuosamente vestite che mangiano in luoghi costosi,
ma il copione non prevede ancora che la “vampira”
paghi il fio delle sue malefatte.
Con questo film approda sullo schermo il fenomeno del
momento, la Vampire Dance. Alla danzatrice Alice Eis e al suo
partner Bert French vengono offerti ben 2000 dollari per inserire
nel film il loro celebre “numero”.
The Vampire Dance
La danza, inventata da French nel 1909 ispirandosi
ancora una volta a Burne-Jones, desta scandalo poiché
la Eis, vestita in modo sommario - un incrocio fra Eva, il
serpente e una baccante - si agita frenetica attorno al
suo uomo, seducendolo e annientandolo. La danza è
così nota che Vignola, per accontentare il pubblico, la
include per intero, operando solo piccolissimi tagli.
A Fool There Was
Questa versione «estrema»
della donna fatale viene
infine codificata
dall’interpretazione di una
quasi esordiente Theda
Bara, nel film A Fool There
Was (67 minuti), prodotto
da William Fox e diretto
da Frank Powell.
A Fool There Was
La trama narra di un padre di famiglia amoroso e
devoto che incontra una donna misteriosa e
seducente che usa abbandonare i suoi amanti
dopo aver distrutto le loro vite; l’uomo resta
incantato e, nonostante gli sforzi di tutti per
salvarlo dalle grinfie del «vampiro», abbandona
la famiglia e si rovina la carriera in una caduta
inarrestabile. Distribuito in sala nel gennaio 1915,
è uno dei pochi film di Theda Bara sopravvissuti.
Vamp
Nel 1922 ne verrà
proposto un remake (70
minuti) diretto da Emmett
J. Flynn, con Lewis
Stone ed Estelle Taylor.
Il soggetto, tratto dal
lavoro teatrale di Porter
Emerson Browne,
racconta ancora una
volta la vicenda di un
rispettabile borghese che
si perde a causa della
passione per una
«mangiauomini» fredda
e calcolatrice.
Vamp
I produttori
modellano
addosso a Theda
Bara l’immagine
della donna
perversa e
tentatrice,
pubblicizzata con
un’iconografia
vivace fatta di
sguardi torbidi,
pose enfatiche e
abiti esotici.
The Soul of Buddha, 1918
Vamp
Negli anni
seguenti, una
serie di
interpretazioni
“eccessive” ma di
grande effetto -
come Carmen
(1915), Cleopatra
(1917) e Salomè
(1918) -
cristallizzano la
sua immagine di
femme fatale.
Vamp
«J’ai le visage d’un vampire
mais le coeur d’une femme”
Theda Bara
Edulcorazione
La figura della donna vampiro
subisce presto delle forme di
edulcorazione. Il cinema, alla
ricerca del gusto borghese e
di patenti di moralità, mentre
continua a porre l’enfasi sul
ruolo della donna fatale -
ampliandone diffusione e
penetrazione nell’immaginario
collettivo - cerca anche di
«annacquarlo» un po’,
rendendolo più schematico e
morbido.
Pola Negri (1894–1987)
Edulcorazione
Nel cinema americano, la vamp continua a sedurre e a
rendere schiavo l’uomo “debole”, ma senza distruggerlo
completamente, spesso limitandosi a sottrargli denaro o
a imporgli sacrifici e umiliazioni.
Edulcorazione
Soprattutto le esigenze dell’industria tendono per loro
natura a sganciare la forza del personaggio, riconvertita
in una serie di cliché, dalla bravura dell’interprete, a sua
volta ricondotta alla sola visibilità.
Diva film
Un contributo
importante al
fenomeno del divismo
viene dall’Italia, dove il
termine diva viene
inventato ma
soprattutto si sviluppa
un vero e proprio filone
di film sentimentali che
esaltano i ruoli delle
protagoniste femminili.
Francesca Bertini (1892–1985)
Edulcorazione
In quest’ambito - nella
terra del melodramma
lirico - la mangia-
uomini ammorbidisce
invece il senso della
perdizione e del
peccato al fuoco del
trasporto emotivo e
del culto della
bellezza, valorizzando
il fascino magnetico
delle nuove dive.
Inquadratura
Nei film con le dive le storie sembrano spesso poco più che un
pretesto per esplorare la visualizzazione della sensualità, con
inquadrature spesso lunghe e immobili, i corpi allungati in pose
estetizzanti, secondo uno stile più contemplativo che narrativo.
Primo piano
I primi piani sono lunghi e intensi, molto lontani dalla rapidità che
elettrizza il cinema americano. Il cinema italiano quindi avanza un
modello «divistico» in linea con la vocazione di tutto il cinema
europeo, più legato a una visione descrittiva e contemplativa
dell’inquadratura che non alla velocità del montaggio narrativo.
Primo piano
Il ricorso al primo piano, qui utilizzato per valorizzare l’enfasi
espressiva delle attrici sarà infatti ripreso dal cinema americano
con lo stesso intento, mentre in quello europeo (espressionismo
tedesco e avanguardia francese) diventerà uno strumento
d’indagine emotiva e interiore.
Evoluzioni
Il favore incontrato dalle dive introduce insomma nel linguaggio
del cinema un registro linguistico più ampio e la capacità di
descrivere i sentimenti e di suscitare emozioni. A loro volta
l’evoluzione tecnica delle riprese, il miglioramento di obiettivi e
pellicole, la lunga permanenza sullo schermo assicurata all’artista
dal lungometraggio, accentuano l’importanza degli attori.
Da attore a divo
Questa valorizzazione del ruolo dei protagonisti, intrecciata con
lo spirito commerciale, sfocerà in una consistente promozione
economica e in un fenomeno sociale di proporzioni incredibili.
Da attore a divo
«Nascosti dal trucco pesante, ripresi da lontano e presenti in film
troppo brevi perché il pubblico si potesse affezionare, gli attori del
cinema erano di solito anonimi. I primi a diventare popolari furono
così non gli attori, ma i personaggi che essi interpretavano». I
diva-film, per la prima volta nella storia del cinema, addensano
una potente funzione simbolica direttamente sugli interpreti.
Da attore a divo
Di film in film, gli elementi distintivi replicabili che plasmano il
profilo degli attori diventano sempre più riconoscibili, fino a
costituire il nucleo centrale del racconto cinematografico e quindi
anche dell’interesse del pubblico. La Borelli, ad esempio,
esibisce fin dal primo film posture, gesti ed espressioni che
diventano ricorrenti nella sua recitazione e sui quali la macchina
da presa indugia, spesso con piani ravvicinati che marcano la
«centralità» del personaggio e la sua seduttività.
Da attore a divo
Attrici e attori assumono un’aura
stabile di tipo «meta-identitario»,
che non appartiene cioè a un
solo determinato personaggio né
esclusivamente alla dimensione
privata dell’interprete, ma usa il
corpo e la «personalità» del divo
per attraversare i diversi ruoli
mantenendo sempre una cifra
riconoscibile, secondo
determinati caratteri di prestanza
fisica, forza morale, simpatia o
sex appeal.
Da attore a divo
Questa «maniera» plasma
un’immagine divistica spesso
non banale, derivata dal
repertorio teatrale ma
armonizzata con le
prorompenti peculiarità del
nuovo medium, e soprattutto
conscia del capovolgimento
del rapporto fra l’attore e il
personaggio: l’interprete non
si annulla più nel
personaggio, ma è questi che
invece confluisce nella
creazione dell’immagine
pubblica dell’attore.
Avvicinandosi alle
contemporanee
sperimentazioni delle
avanguardie e del futurismo,
alle performance del teatro
espressionista e della danza di
famose ballerine come la
Duncan, il modello recitativo
delle attrici del cinema, spesso
frutto di una cosciente scelta
strategica, traduce sullo
schermo, tra l’altro, le istanze
della espressività moderna,
della liberazione del corpo e
dell’emancipazione femminile.
Divi per caso
L’impeto e la precisione con cui negli Stati Uniti il divismo diventa
un sistema ferreamente organizzato ne fanno spesso dimenticare
l’origine piuttosto casuale. «Storicamente in Italia» dice Brunetta
«il divismo non è l’esito di una progettazione di mercato, di una
operazione commerciale, quanto piuttosto una manifestazione
che compare improvvisamente e inaspettatamente nello scenario
dell’industria cinematografica, la cui internazionalità, nondimeno,
comprova il prestigio del cinema e la sua capacità di influenzare
e subordinare i comportamenti e l’immaginario». Gian Piero Brunetta, in Fotogenia: storie e teorie del cinema, v. IV, n. 4-5, 1998, p. 27.
Una sfacciata promozione
di se stessi che approfitta
di un mezzo poco selettivo;
un complesso meccanismo
commerciale che riduce il
divo a una marionetta; una
sintesi astuta delle qualità
più gradite all’immaginario
dell’epoca. Il divismo è
tutte queste cose, ma dà
luogo a miscele diverse a
seconda dei contesti
produttivi e culturali e si
evolve nel corso del tempo.
Il divo
È evidente che il divo
diventa qualcosa di più di
un semplice attore, perché
riesce a dare al proprio
personaggio, con poco
sforzo, continuità e fama;
ma anche qualcosa di
meno poiché se un attore
può recitare molte parti
diverse, il divo è un
“prodotto” collegato alla
propria immagine, costretto
a conservare e ripetere un
modello di stampo più o
meno conformista.
La «serializzazione» dei ruoli è un
elemento chiave del divismo, ma
per capirne il funzionamento
occorre aggiungere un nuovo
effetto introdotto dal cinema:
l’identificazione tra schermo e realtà,
che permette la riconoscibilità da
parte del pubblico e la sensazione
di conoscere “personalmente”
l’attore, come un vicino di casa,
solo più simpatico o attraente.
Ricciotto Canudo nel 1923, sottolinea la differenza fra una
qualsiasi celebrità del mondo politico o del teatro, conosciuta in
modo esteriore e superficiale, e il divo cinematografico, con cui si
ha un contatto più profondo, quasi intimo, perché traduce «in
movimento vitale un certo sentimento che ci ha colpito, una certa
avventura, che è stata, per la magia dell’arte, la nostra avventura
di un’intera serata».