Post on 11-Aug-2015
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o 2005, GIW. Laterza & FigiJ,~r la Traduz.Il>ne, l'Jmroduz.ione
~ I~ No[~ di Carlo Galli
Prima Mizione 2005
Francisco de Vitoria
De iure belliTraduzione., Introdw..ione e i\ot.edi Carlo Galli
Con testo latiJw aIronie
• Editori !AtervJ
Proprietà ieueraria riservataGius. Laterza & Figli Spa,Roma·Bari
Finito di stamparenel febbraio 200:5PoJigrafico Dehoniano .Stabilimento di Bari~r conto delJaGius. Laterza & Figli SpaCL ZO-7S00-SISBN 88-4Z0-7S00-0
Introduzionedi Carlo Galli
La Re/eelio' de iure belli che il domenicano Franciscode Vitoria (1483?-1546) tiene il 19 giugno 1539 a Salamanca, dove ha cattedra di Prima Theologia dal 1526, èla diretta prosecuzione della Releelio de Indii', pronunciata intorno alI o gennaio dello stesso anno, e risulta es·sere la penultima, in ordine cronologico, delle trediciReleeliones che conosciamo (sulle quindici complessive), che hanno luogo dal Natale 1528 (De poleslale civilt) allO luglio 1540 (De magia)'.
l La Releclio è una lezione solenne, ovvero conferenza o dissertazione originale, tenuta davanti all'intero corpo docente, diversa quindi dalla Leclurll, che è invece l'ordinario commento di un testo autoriale davanti agli studenti,
2 F. de Vitoria, Releclio de lndis. La questione degli Indio!, a curadi A. Lamacchia, Bari, Levante Editori, 1996. La strena dipendenzadel De iure belli dal De Indis è evidente anche per il fatto che in alcuni codici e in akune edirioni questa Re/l'Clio è indicata come De Indis, sivt! de iure belli Hispanorum in barbaros, re/l'dio posterior.
J Sul contenuto delle Re/ediones, e sulla loro cronologia, dr. A.Lamacchia, Frandsco de Vilona e l'innovazione moderna del 'Didllodelle genli'; Introduzione a Vitoria, Re/ectio de Indis. La questione degli Indios, cit., pp. IX-XCIV: XXIX, nonché U. Horst, Lehen und WerkeFrana"sco de Vi/odas, in F. de Vitoria, Vorlesungen. Vo/leerrecht, Poli-
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Le due Relecliones, De Indis e De iure belli (d'ora inpoi DIB), segnano un importante momento di elaborazione, da pane di Viroria, di un sapere teorico-pratico- cioè morale, giuridico e politico, iscriuo all'interno diun orizzonte teologico - che intende collocarsi all'altezzadelle sfide politiche del tempo: cioè delle grandi questioni con cui si apre l'età moderna, che vede mettere in discussione la tradizionale equivalenza -logica e categoriale, se non politica ed effettuale - fra Europa, cristianesimo, civiltà, umanità. Dal XVI secolo in poi, infatti, la respubliCll christiana è sempre più chiaramente solo una parte del mondo (è questo il primo effetto della scoperta dell'America); di fatto, né il papa né l'imperatore sono più ivertici della legittimità politica e spirituale (com'è mostrato dal formarsi degli Stati); il cristianesimo divide invece di unire (che è quanto emerge dalla Riforma). Questa situazione può essere affrontata - nello sforzo di cicondurvela - attraverso le categorie intellettuali e politiche elaborate all'interno della respubIiCIJ chnsliana; oppure può essere ricompresa attraverso l'immaginazionedi nuove vie, grazie alle quali si possa costruire e legittimare un nuovo ordine politico interno e internazionale:si trana, nell'ambito teorico, dd eazianalismo moderno,e, nell'ambito storico, dell'ordine degli Stati e dello iuspublicum europaeum, che nasce con le paci di Westtalia(1648-1649) e che muore nella prima metà del XX secolo. L'opera di Vitoria è un lertium genus: è cioè un esempio di una innovazione non statualistico-razionalistica, acui l'autore giunge disponendo in modi originali i mate·riali intellettuali offerti dalla tradizione antica e cristiana.
Vitoria deve confrontarsi in primo luogo col nominalismo, di cui, insieme aU'erasmismo umanistico e ireni-
tl"le. Kirche, a cura di U. Horst, H.-G. Justenhoven, J. Stuben, Stuttgan-Berlin-Koln, Kohlhammer, 1997,2 voU., I, pp. l}-99.
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stico, ha fatto esperienza aParigi, ai tempi dei suoi studie del primo insegnamento come bace1liere alla Sorbona(1510-1523); se dall'erasmismo, combattuto dai francescani spagnoli, egli si libera ufficialmente nel 1527,elencandone gli errori teologici nella]unla di Valladolid (pusessendo stato il destinatario, l'anno prima, di una letteradello stesso Erasmo che a lui si raccomandava, e puravendone assimilato l'universalismo)4, rispetto al nOm1nalismo volontaristico (di cui c'è forse traccia in forma diqualche influsso scotistico) la sua posizione consiste inuna diretta ripresa del testo di Tommaso: sotto la dire·zione del suo maestro Pietro Crockaert (Petrus de Brussellis) egli cura, nel 1512, l'edizione a stampa della Seeunda Seeundae. Per tutta la vita Vitoria interpreta e sviluppa, commentandolo direttamente all'Università(benché gli statuti di Salamanca prevedano ancora la lettura delle Senlenliae di Pietro Lombardo)', i.l razionalismo strutturale e metodologico di Tommaso, divenendocosì il caposcuola autorevolissimo - già in vita è definitoSacrae Theologiae reslauralor- del ramo domenicano diquel variegaw rinascimento intellettuale spagnolo, la cosiddetta Seconda Scolastica, che (solo per fare qualchenome) attraverso Domingo de SolO, Melchiorre Cano,Bartolomeo da Medina, Bartolomeo Carranza, Juan de
• Su Erasmo e Vitoria, dr. L. Legaz y Lacambra, Horizontes JdpenSIJmiento ;uridiro. Barcdona, Bosch, 1947, pp. 19'-198. Notiziesulla lettera di Erasmo theatogo cuiti4m hispanico sorboniro si trovanoin T. Urdanoz, lntrtXiua:ion biogrtifica a Obras de Francisco de Viton"a.Releceiones lea/Qgicas, Madrid, Biblioteca de Autores Cristianos,1960, pp. 14 e }o-},.
, Sul commemo di Viloria alla Summa, distimo per anni accademici (dal 1'26 al 1540) e per argom~ti, cfr. Urdanoz. Introducd6nbiograficd, CiI., pp. 76·78; cfr. F. de Viloria, Commentarios Il la Secunda Secundae de Santo Tomds, a cura di V. Bdtran de Hereilia, Salamanca, Biblioteca de Te61ogos Espailoles, 1932-1952,6 vaU.
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Mariana, Luis de Molina culmina, il secolo successivo,con Francisco Suarez. Animata dai domenicani e dai gesuiti, la Scolastica spagnola è non solo la risposta cattolica alla Riforma, in termini di oggettività opposta alla soggettività, di razionalismo opposto al voiomarismo, ma èanche il veicoio di una modemizzazione e di una cazionalizzazione dei pensiero europeo che, passando attraverso la ripresa non solo di Tommaso, ma anche di Aristotele e del diritto naturale antico, stoico e ciceroniano,ha potenti effetti anche in ambito protestante, in Melantone, Althusio, Grozio, Leibniz, Wolff6.
1. La l questione americana' - ossia )'esigenza di dare unaforma al rappono fra Vecchio Continente e resto delmondo - viene affrontata, a ridosso del descubrimienlo,ancora all'interno di categorie largamente improntate all'uruversaUsmo medievale: lo dimostra la bolla Intercoetera divinae (1493) con cui papa Alessandro VI Borgia- in analogia con quanto ha fatto iccolò V nel 1454, conla bolla Romanur Ponti/ex che concede al Ponogallo tutti i regni dell'Africa - assegna le zone d'influenza mondiali spartendole, con la raya, fra pagna e Ponogallo(modifiche alla linea-spostata di 370leghe a ovest-ven'gana pattuite fra le due potenze l'anno seguente, col trattoro di TordesiUas). TI presupposto è ancora la leoria medievale che vede il papa dominur orbir (e l'orbir coincidente in linea di principio con lo rerpublica chrirtiana),legittimato quindi a donare a un re cristiano sia il dominio di tecre e uomini privi di signoria sia il compito diproteggere l'opera ecciesiastica di evangelizzazione.
(o M. Villcy, La !ormtuiQ"e del pensiero giundico moderno (1975).Milano,)aca Book, 1991, pp. 295-J06; cfr. anche C. Schmin, Il nomo!dell4 terro nel dinuo int"nazionale dello «jU$ publicum europoeumll(1950), MiI.no, Adelph;, 1991, p. 128.
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1.1. Questo titolo di possesso dell'America da parte della Spagna è negato da Vitoria non solo in De Indir (2, 4e 5) ma, già dal 1532, dalla prima Relectio de potertataeEccleriae (V, 2), in coerente applicazione di quanto egliha sostenulO fino dalla Retectio de poterlate civi/i (6 e 9);qui, sulla base di una ripresa diretta di Aristotele (segnalamente della tesi dell'uomo animale politico) e diTommaso (la teoria della lex naturalirl, Vitoria sanciscela naturale perfezione delle comunità umane, ossia ilfatto che il potere politico (potertar temporalir, e quindi più che la sola iurirdiclio), in quanto funzione neces·saria all'esistenza delle varie comunità di popoli in cuisi articola l'umanità, è VOIUIO da Dio (ivi, 8) ed è del rutlO secondo la legge di natura, il che rende erroneo pensare che la sua legittirnazione risieda nell'autorità delpontefice o nell'adesione di re e popoli alla religione cristiana, o nell'assenza di peccato. Anzi, nella prima Retectio de potertate Eccleriae (IV), VilOria sostiene che anche la potertar rpin'tuotir (la religione, distinta dal potere politico) è in sé naturale, e che quindi si trova anchepresso gli infedeli e nell'Antico Testamento, benchéCristo istituisca ex novo quella perfetta, ossia quellameglio disrinta dal potere temporale, cioè il cristianesimo. L'indipendenza reciproca delle due poterlater significa insomma che per Vitoria il papa non è dominusorbir, e che quindi non può legittimare il dominio politico di un principe su terre vecchie e nuove.
Queste tesi - peraltro non nuove: sono infatti tomistiche, 'ma sono già presenti. in forme diverse, anche inBernardo di Chiaravalle' - implicano che la ierocraziagregoriana (e bonifaciana) venga criticata; e infatti inDIB e in De lndir Vitoria polemizza contro i decretalisti
7 Bernardo di ChiaravaUe, De comlderali()n~ad Eugen'-um,lI, VI,9·11, mPL 182, coli. 747·748.
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e i canonisti, o li utilizza in modo parziale: è il caso diNicola de' Tedeschi (il Panormitano), di una gloria deidomenicani come il teologo Silvestro Mozzolino daPrierio, o di teologi trecemeschi come Agostino da Ancona, autore di una Summa de ecc/esiashca potestate cheVitoria cita nella Re/ecJio de Indir (2, 4). Naturalmente,Vitoria critica anche i giuristi imperiali (Accursio e Bartolo, fra gli altri) che sostenevano da altro punto di vista l'imperfezione politica delle società, bisognose di essere legittimate dall'imperatore, signore dd mondo (Delndir 2, 2). Ciò significa che Vitoria vede ormai maturala vicenda politica degli Stati europei, delle grandi monarchie come delle repubbliche, anche se, ovviamente,non aderisce a nessuna delle due concorrenti strutturecategoriali moderne -la sovramtà assoluta dd principe,e il contratto legittimante e fondante dd popolo.
on a caso, quindi, il partito curialista spinge Sisto V(1585-1590) a mettere all'Indice le Relectioner; e non acaso nd 1608, durante la polemica fra Paolo V e Giacomo I d'lnghilterra, il giurista di curia Francisco de laPena pone in dubbio l'autenticità vitoriana (e quindil'autorevolezza) delle Relectioner, proprio perché antipapali". E non a caso la tesi che il papa non è dominurorbis - che fa venire meno un importante concetto utilizzato dal re di Spagna, insieme al diritto di scoperta,per legittimare il proprio dominio in America - vale aVitoria anche la temporanea ostilità di Carlo V, testimoniara dalla lettera dellO novembre 1539 al priore del
• L. Perena, li testo de/ill «Re/ectio de Indis». Introdu1.ione storico/i/ologicil, in Vitoria, Re/eclio de [ndis. lA questione degli Indios, cit.,pp. XCV·CX1X: XCV; Id., Estudio preliminar. LA tesis deltz poI. dimimica,in Francisco de Vitoria, Re/ectio de iure bellI; o Pa1. dinamica. EscueltzEspanoltz de IIJ Pa1.. Primera generaci6n, a cura di L. Perena, V. AbriJ,C. Badero, A. Garda, F. Mascda, Madrid, Conseto Superior de Lnve·stigaciones Cientificas, 19812, pp. 29-94: 81.
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Convento di Santo Stefano, in cui si vieta ai teologi diSalamanca di trattare ulteriormente questioni politicheamericane. Lettera rivelatrice di quanto le tesi di Vitoria - benché esposte con grande prudenza - siano reputate potenzialmente pericolose, dato che per il restoCarlo V ha grande stima del domenicano, tanto che il31 gennaio del medesimo anno 1539 (oltre che in altreoccasiom) gli ha ufficialmente sottoposto alcune questiom rdative all'amministrazione dd battesimo agli Indios, su cui si dividono i francescani, i domenicani, gliagostiniani, e sulla questione della loro schiavitù; e che,ancora nel 1545, a Vitoria viene propostO di partecipare al Concilio di Trento come teologo imperiale (ma deve rinunciare per motivi di salute)9.
Estraneo ai partiti fìJopapali e fùoimperiali, Vitorianon è certo uno spirito laico: infatti, anche il Concilio diCostanza (1414-1418) ha negato lapotertar direcla in lempora/ibur del papa; e, d'altra patte, benché nella Re/ecJiode potertate Papae et Conci/ii (534) avanzi una concezione non assolutistica né autocratica del papa (ai limitidel conciliarismo, almeno per quanto riguarda l'assenso- dichiarato non indispensabile - del pontefice alla convocazione dd Concilio), egli è un esplicito fautore dellapotestas indirecta: il papa «non è un sovrano temporale,ma ha nondimeno potestà sulle cose temporali in ordinealle spirituali», nel senso che «può ordinare le cose temporali com'è opportuno per quelle spirituali» (De lndir3,9). TI che lascia ampio spazio all'azione dd pontefice:in particolare, gli consente appunto di affidare Dd un sovrano cristiano la protezione dello sforzo della Chiesa dievangelizzare i pagani, e anche di escludere ogni altra potenza se il papa pensa che una presenza pluriIna di Stati
';l Urdinoz, Introducci6n biografica. ch .. pp. 41-45 e 53-57.
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cristiani sia di danno alla propagazione della fede. Così ildominio spagnolo in America pare a Vitoria riconduci·bile, benché indirerramenre e solo in parre, alla donazione papale, interpretata in senso non ierocratico.
Ma i modi per legirtimare il possesso spagnolo dell'America sono soprarrurro alrri. Benché infarti Vitoriasostenga nel De Indis (1 e 2) cb,e né il titolo della scoperta, né l'estraneità alla fede o il suo rifiuto. né la condizione di peccato, né la scarsità di raziocinio degli Indios giustificano il dominio spagnolo, o tolgono agli Indios laqualifica di legittimi signori e padroni de11oro territorio,capaci di potestos e di dominium come ius utendi re (laproprietà), nondimeno egli afferma (ivi, 3) che il re diSpagna si può richiamare ad alcuni giusti titoli per sostenere la legittimità del suo dominio americano. A parteuna eventuale loro libera scelra di essere governati dal ReCarrolico o di allearsi a questo (ivi, 3, 15-16), se gli Indiosprivano gli Spagnoli del diritto naturale di transitare perle loro terre (ivi, 3, 1) e di commerciare equamente conloro (un diritto che nasce dalla universale disponibilitàdei beni comuni, e dalla cognotio degli uomini tra di 10fO, espressa da Vitoria - in De lndis 3, 2 - attraverso lanegazione del derro plaurino nell'Asinona «bomo homini lupus» che sarà poi ripreso da Hobbes nella Dedico delDccive), e se ostacolano la Chiesa cattolica nel suo diritto di predicare (ma non di forzare alla conversione), o seperseguitano i convertiti; se insomma vulnerano il diritto naturale e il dirirro delle genti - o il dirirro della Chie53, di origine divina. alla evangelizzazione, che non è incontraddizione con la uguaglianza di dirirro naturale fraipopoli, daco che ovviamente questa non implica, per Vitoria, l'uguaglianza delle religioni -, allora gli Indioscommettono ingiustizia, e sono passibili di punizione,ossia possono essere oggetto di guerra giusta, fmo alla
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occupazione dd territorio e alla sottomissione al re diSpagna (ivi, 3,5-7), fatra salva la moderazione dei vincitori e il bene dei vinti.
Ma tutte queste clausole, eventualità e fattispecie, della guerra giusta contro gli Indios-motivata da Vitoria sulla base del diritro naturale e delle genti - valgono per loro (con l'eccezione della religione) in modi e misure nondiverse che se si trattasse di crisùani~ una concessione adifferenze culturali sta forse nel fatto che fra le cause diguerra giusta c'è in Vitoria anche la «ingerenza umanitaria» contro la tirannia dei loro governanti che consentono l'uccisione degli innocenti, cioè isacrifici umani e}'antropofagia; in ogni caso, però, non è legittima l'occupazione permanente del territorio dei vinti (Dc Ind.s 3,14)10. Cerro, sia pure in via subordinara (ivi, 3, 17), Vitoeia avanza l'ipotesi che gli Indios, data la loro primitiva.rozzezza, siano quasi (ma non dci tutto) incapaci di autogoverno, così che il dominio spagnolo può essere legittimato anche dal precetro della carità, ossia dell'aiuto delpiù forre verso il più debole (e quindi dall'utilità degli Indios stessi). La teoria giusnaturalistica aristotelico-cattolica e l'universalismo che ne consegue prevedono sì l'uguaglianza dei popoli, ma anèhe la differenza di gradi diciviltà (oltre che l'esclusività della vera religione); né Vitoria si fa un problema dell'ovvia asimmetria pratica fraEuropei, che di quell'universalismo sono i soggetti attivi,e Amerindi, che ne sono oggetto! l,
IO Si veda anche il frammento finale, scoperto nel 1929, della Relec/io de temperan/ia (1537) -la cui Quinta Cone/urio è rivolta controantropofagia e sacrifici umani -; trad. it. in Vitoria, Re/mio de Indù.La questione degli Indior, cil. pp. 98-116.
11 T. Todorov, La conquirta dell'America. 1/ problema dell'«altro»[1982], Torino, Einaudi, 1992, p. 182, sostiene che Vitoria fornisce laprima giustificazione moderna del colonialismo; sono critici anche L.Ferra;oU, La conquista delle Amenche e la dellrina de/la rovranità degli
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1.2. Benché Vitoria non entri apertamente nelia valuta·zione se nel caso americano ricorrano veramente le sin·gole fattispecie che legittimano la guerta giusta - datoche è primariamente interessato a defInire criteri generali -, la sua posizione è che il dominio spagnolo inAmerica è legittimo, anche se non per i titoli che comunemente si avanzano, mentre sono probabilmente illegittime molte delle fotme di quel dominio. La sua posizione si inserisce quindi all'interno dell'ostilità dei domenicani verso le concrete configurazioni, di fattoschiavistiche, della presenza spagnola nelle Indie; un'ostilità che si manifesta anche nel catdinale Caetani, generale dell'Ordine, il quale, commentando la SerondaSerondae, ticonosce agli Indios di essete legittimi pososessori delle loro terre l2 ; e che a Salamanca si nutre deiresoconti dei missionari, e anche della cronaca più recente, come si rende evidente nella lettera di Vitoria del1534 all'amico domenicano Miguel Arcos, in cui eglistigmatizza, sia pure con prudenza verbale, la sanguinosa conquista del Perù, avvenuta l'anno prima, con losterminio della nobiltà inca e con la messa a morte, no·nostante una conversione forzata e il pagamento di unenorme riscatto in oro, del re AtahualpalJ.
Sta/i, in 500 annidi solitudine. La conquista dell'AmeriCIJ e ildiritto in·/er1tt14ionale, Verona, Bertani, 1994, pp. 439478: 444; Id., La sovranitàdcimondo moderno. Nasà/a ecrisidelloS/atonazionale, Roma-Bari, Laterza 1997, p. 16; H. MechouJan, Vi/oria, père du droi/ in/erna/ional?,in A. Truyol Serra, H. Mechoulan, P. Haggenmacher, A. Ortiz·Arcedela Fucnte, P. Marino, J. Verhoeven, Adualité de la pensée juridique deFranàsco de Vitona, Bruxelles, Bruylant, 1988. pp. 15-17; G. Tosi, LaIcona della guerra giusta in Francisco de Vi/ona, in M. &attola (a curadO. Figure della guerra. LA nflessionesu pace, conflitto egiustizia tra Medioevo e prima età moderna, Milano, Franco Angeli, 2003. pp. 63-87:82·84.
12 Lamacchia, Francisco de Vitoria e l'innovazione moderna, cit.,p. L1X.
I) RA. lannarone, La maturazione delle idee coloniali in Francisco
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Nelle )unlas di Burgos del 1512 i teologi dichiaranoche gli indigeni americani sono uomini naturalmente liberi, e pertanto soggetti al dominio politico, non dispo·tico, del te di Spagna. In quella citcostanza sono elaborati i testi dotttinali di un giurista e consigliete del te comeJuan de Palacios Rubios, e di un teologo di Salamanca come Matias de Raz, autori rispettivamente del De insulis oceani e del De dominio regum Hispaniae super In·doso La logica di queste opere è ancora interna all'impostazione ierocratica della bolla Inter coe/era (e governaanche la bollaSublimis Deuscon la quale nel 1537 PaoloIII riconosce agli Indios la piena umanità - in virtù dell'unità del genere umano -, e la possibilità che questi, inquanto esseri dotati di ragione e di anima spirituale, abbiano la salvezza eterna se evangelizzati)14. Così, con lostrumento teologico-giuridico del requerimiento - elaborato a partire da quanto teorizzato a Burgos -, agli Indios viene imposto di riconoscere la signoria del pontefice, e conseguentemente del re di Spagna, e di accettarela predicazione e la conversione. Ancora su queste basi,nel 1513 vengono tedatte da Fetdinando il Cattolico leLeyes de Indias che introducono il sistema dell'encomienda, la quale prevede pet gli Indios non la schiavitùpura e semplice ma certo la cessione del lavoro in cambio della protezione e della istruzione religiosa dell'en·comiendero spagnolo. Applicate con fetoce avidità daicoloni, queste leggi ebbero effetti devastanti sulle popo·
de Vitoria, in ..Angclicum», 1970, pp. 3-43; Lamacchia, Francisco deVitona e l'innovazione moderna, cit., p. L; la lettera si legge in Vitoria,Relcc/io de [ndiI. lA questione degli Indios, cit., pp. 137·139.
\4 L.N. McAlister, Dalla scoperta alla conquista. Spagna e Portogallo nel Nuovo Mondo 1492-1700 (1985), Bologna, li Mulino, 1986,p. 126; Urdanoz, lntroduccion biogrdfica, cit., pp. 51·52.
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lazioni assoggettate, e risultarono nel medio periodocontroproducenti per la sressa Corona di Spagna, allaquale le rerre appartenevano. Invano - dal punto di vistapratico del miglioramento delle tragiche condizioni divita degli Indios -tentò di porre rimedio a queste pratiche Carlo V, nel 1543 , con le Leyes nuevas1'.
Vitoria - benché, lo si ripete, sia più attento al rigore dell'argomentazione che non agli effetti pratici delproprio discorso - si situa quindi in una posizione di·versa da quella ufficiale, sia dalle sue versioni più equilibrate sia da quella dell'umanista e cronista regio JuanGinés de SepUlveda, che nel Demacrales aller, sive de iusii belli causis (1547; ma il testo circola manoscritto negli anni precedenti), tearizza, restando in un contestoaristotelico, la subumanità degli Indios (homunculz), laloro natura servile e la liceità della guerra di conquistaContro di loro, per evangelizzarli ma anche per schiavizzarli. Piuttosto, la posizione di Vitoria ispira. pur noncoincidendovi del tutto, quella di Bartolomé de Las Casas (che con Sepulveda avrà a Valladolid una celebrecontroversia nel1550-155J): questi, nella sua postumaHistoria de las Indias, propugna tesi ancora più moderate, che prevedono una penetrazione pacifica degliSpagnoli nel Nuovo Mondo, la costruzione di fattezzesolo in zone pericolose, e l'attribuzione agli Indios della qualifica di sudditi liberi di Sua Maestà Cattolica.Tanto Vitoria quanto Las Casas, ciascuno a modo suo,potrebbero essere definiti alleati di fatto del re di Spagna (benché divergano dalle resi ufficiali della Coronasul possesso delle Indie), almeno in quanro convergonocon il suo tentativo di mettere riparo a quelle pratiche
l' SuUa situazione degli Amerindi cfr. O.E. Stannard, Olocaustoameneano. La conquista del Nuovo Mondo (1992), Torino, Bollati Bo·ringhieri,2001.
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dei coloni che si risolvono nel genocidio e nella devasrazione del Nuovo Mondo, e che quindi lo privano diparte dci suo valore economico16.
2_ e il papa non è dominus orbis, e se non lo è neppurel'imperarore, ciò implica che la legittimirà del parere risiede presso i popoli, e quindi, in Europa, negli Srari. Mapur riconoscendo questo processo, Vitoria non lo interpreta in senso pienamente moderno. È infatti estraneoe non solo per ovvi motivi cronologici - all'idea razionalistica, che si formalizzerà con Hobbes cenr'anni dopo lasua morte, che lo Stato (in Vitoria, civi/as o respub/ica;mentrestatus, ncl significato politico~istituzionale, compare una volra sola, in DIB IV, TI, 9) sia un astifieio costruito da uomini uguali tra loro per farne l'unica fontedi autorità e di ordine politico sovrano in un contesto didisordine naturale; ed è estraneo - anche in questo caso,non solo per motivi accidentali (il nome di Machiavellinon ricorre) - anche rispetto all'altra modalità di legittimazione dello Staro moderno, cioè all 'idea machiavelliana, e in seguito della Ragion di Stato, che la politica siaessenzialmente volontà di parere, e che il fine dello Stato non sia il bene comune, ma l'ampliamento: un'idea acui la Seconda Scolastica oppone la dottrina politica delprincipe cristiano!7.
Gli Stati sono riconosciuti come una realtà nuova so·
l' Urdlinoz,lntroducaon biografiCa, cit., pp. '7·60; cfr. anche G.Guozzi, Introduzione a ld., La scoperta dei selvaggi. An/ropowgia e c0
lonialismo d4 Colombo a Didero/, Milano, Principato, 1971, pp. 1-19,parto pp. )·6; testi di $epUlveda ivi, pp. 29·34, e di Las Casas ivi, pp.72-77. Sull'aristotelismo come quadro complessivo delle prime interpretazioni degli Amerindi, cfr. S. Landucci, Jfi"/mofi t i selvaggi 1580·1780, Bari, Laterza, 1972, ca".ll, pp. 93 sgg.
17 Q. Skinner, Le origini del pensiero poli/ico moderno (978),voI. II, L:età della RJjorma, Bologna, UMulino 1989, cap. V, parto pp.199·268.
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lo in quanto rendono impraticabili i sogni neomedievalidi Carlo V: il pensiero politico tli Vitoria Don è una rivoluzione ma una razionalizzazione della tradizione, soprattutto del tomismo e del diritto romano. Dal primo,che asua volta si rifà aPaolo, Vitoria trae la convinzioneche il potere politico - e in particolare il potere di puni.re con la morre - esiste, in quanto funzione, iure divino(De poleslale civili 6), e che quintli, a patte la differenzadel soggetto legislatore (Dio e gli uomini), vi è analogiafunzionale fra legge tlivina e legge umana (ivi, 16-17), così che anche quest'ultima obbliga in coscienza (DIB II, 1e IV, 1,.5). La spinta all'oggettività che deriva a Vitoria daltomismo non giunge certo a fargli sostenere che la strut·tura razionale del mondo - il tlisitto naturale (lex nalu·ralis), a cui è dovuta anche l'esistenza del potere politicoche pone la lex humana - sia autoooma da Dio e dalla lexaeterno, ossia che sussisterebbe «ersi Deus non daretur»come, oltre che in Grazio, si può leggere, implicitamente, anche io Gabriel V:izquez, in Molina, in Roberto Bellanninol8; e tuuaviaè assente, in tui,l'interpretazione solo punitiva del detto paolina «Ilon est potestas nisi aDea», che è invece propria di Lurero.
Se )a poter/ar, cioè il potere in quanto funzione intrinsecamente necessaria alle società, viene da Dio e alcontempo dal diritto naturale, per Vitoria l'auclorilas,cioè il potere di comando legittimo e reale, viene invece dal popolo che attua una transiatio auctoritatis versoil principe - è questo un elemento romanistico, in quan·to implica un evidente rinvio alla Lex regia de imperio-,così che egli può sostenere «creat respublica regem»(De poleslale civili 8)_ Questa Iransialio non è certo uncontratto individualistico, un moderno pactum unionis;semmai è più consono al pensiero di Vitoria il tradizio-
III Villey, ÙJ formavone, cit., p. 299.
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nale pactum subiectionis fra le comunità e il sovrano, chesarà previsto io seguito anche da Molina (De iUSlilia eliure, 1593-1600)'9; in ogni caso, per Vitoria (DIB II, 3)la Iransialio è nella quasi totalità dei casi irrevocabile, al.meno quando si tratra di governi legittimi, cioè che agiscono in vista del bene comune e attraverso le leggi - al.le quali anche i re, che pure le fanno, devono obbe.tlienza (De poleslale civili 21 e DIB IV, I, 8): non c'è ioVitoria il rex IegibuJ SOlulus. Su queste basi, l'assetto tlipolitica interna previsto da Viroria è organico e gerarchico: come si vedrà (ullra, S 5.1), Don c'è io lui intlivi.dualismo politico ugualitario - benché ciascun uomosia imago Dei -, dato che soggetti della politica sono ipopoli-nazione (le genles) e le comunità politiche (respublicae) COD i loro principes, ma c'è anzi una conce.ziooe tliseguale della società e dell'accesso alla capacitàpolitica e alle relative responsabilità (DIB IV, I, 7). l:u.guale dignità dell'uomo, cetto presente, noo è declina.ta nei tertnini tli uguali diritti civili e politici dell'uomo, . , . ,ne In un auteDUca prospettiva cosmopolitica20.
19 SuJ comra.tto in Vìtoria si vedano V"tlley, LAformozjone, ci[., p.302 e G. OestreJ.ch, Stona dei dinl/i limoni e de/le libntlÌ fondamentali (1951), Roma-Bari, Lalerza, 2001, p. 35.
20 L'opinione che si possa parlare di dirini umani in Vi[oria è invece p~te. in E. ~ni. Frandsco de Vitono nell'interpretazione diCari Schml/l, m S. Blolo (a cu.ra di), L'universalitlÌ dei dirilli umani eti penIiero aùtlono del '500. Torino, Rosen~rg & Sellier, 1995. pp.139-147: 146; cfr. anche A. Lamacchia, Francisco de Vitoria: j din·llium~ni ne/~ ~~/~II'o de lndis, ivi, pp. 105-137; L. Baccelli, 11 portico/a.n.s"!l:! de: ~mll~, Ro~a, Carocci, 2000, pp. 37 sgg., vede in Vitoria i~lr.. t~l ~~dl~I~Uali ~naJtzzati a legittimare la conquista. Che in Vitorial dlflm mdlvlduali non siano centrali è lesi di I. Trujillo Pé:rc:z Franasco de Vitoria. TI din~to alltJ comunicazione e i confini delltJ s~cialilàU1~ana, Torino. Gia~pi.cheUi, 1999, pp. 195 sgg. Si può sosrenere, distinguendo con Mamam fr.. soggetto moderno e persona che Viloriaè'pr~rsore dei diritti delle gem~ e deUn persona, più che'di quelli laiCI dell uomo: cfr. V. Ferrone, ChIesa cal/ollea e modernitlÌ. Lo scopertadei din~tj dell'uomo dopo /'esperienZJJ dei lotalitansmi, in F. Bolgiani,
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Dal punto di vista storico-politico, poi, Vitoria vede lapolitica europea dominata dal conflitto fra due Stati cristiani, in rapporto ambiguo con l'Impero turco. AssIstecioè alle controversie territoriali fra Spagna e Francia riguardo al possesso della Borgogna, di Mil~o, di Nal'Oli(ve ne è più di una traccia in DIB); ai tentatiVI francesI diimpedire l'egemonia spagnola in Europa, attraverso duealleanze (nd 1528 e nd 1536) tra Francesco I di Franciae Solirnano il Magnifico; agli sforzi di Carlo V di chiamare a raccolta l'Europa cristiana contro la minaccia turca(1a pace di Cambrai nd 1529 e la Conferenza di Bolognand 1530, l'anno in cui a Roma Gemente VII incoronaCarlo V imperalore dd Sacro Romano Impero); nonchéalle sconfitte militari che posero fine allenlativo spagnolo di ricacciare l'Impero lurco fuori dallo spazio politicoeuropeo; non vede. invece, il divampare in Francia delleguerre civili di religione, la cesura da cui ha origine, politicamente,la piena modernità". Davanti a questi scenari europei la posizione di Viloria - quale appare anche indue lettere dd 1536al coneslabiledi Castigliazz-è di nello rifiuto sia della politica di polenza sia delle vessazionialle popolazioni: egli propone un equilibrio pacifico frale potenze crisùane europee, in chiave anriturca, fondalO sul principio che le controversie devono essere decisein buona fede e con volontà di pace.
3. Aperto avversario della Rifonna. Vitoria contribuisceindirettamente, attraverso la partecipazione di alcuni
V. Ferrone, F. Margion8 Broglio (8 cura di), Chiesa CilIlOIiCil e modernil•. Atti del Conwgno de/kl Fondavone Michek Pellegrino, Bologna,li Mulino, 2004, pp. 17-147,65 e SO.
11 Un inquadramento storico d~'.epoca in~ matura il ~~si~rodi Vitoria è in Perefia, Es/udio preliminar. LA /em de la /Xlz dinamIca,ciI., pp. 29-52. .
:u Le due lettere, dd novembre e del dicembre, si leggono in V,toria, Relec/io de iure belli, a cura di L. Pereòa, cit., pp. 289·296.
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suoi discepoli come teologi imperiali - Domingo de Salazar e Domingo de Soto -, alIa chiarificazione dogmatica e organizzativa operata dal Concilio di Trento. Difatto contro Lutero è rivolta tutta la secunda quaestioprincipali< ddIa seconda Releclio de poleslale Ecclesiae,sul significato dd sacerdozio gerarchico; e antiIuleranaè la stessa lesi politica di fondo di Vilorio, che cioè il polere politico è legittimato solo dalla legge divina, naturale e razionale, e la sua fonna autoritativa solo dallaIranslalio dd popolo (benché Vitoria, evidentemente,preferisca che il principe sia buon cristiano).
Tale lesi infatti è rivolta (De Indis 1,2) oltre che contro alcune posizioni ufficiali delle gerarchie cattoliche- sia quelle ierocratiche, benché non esplicitamente cilale, sia quelle legale alle dispute sulla povertà di Cristo(il vescovo di Armagh - Armachanus -, criticala da Viloria già ndIa Re/eclio de poleslale civili) -, anche contro i Poveri di Lione e i Valdesi, e contro Wycliffe,la cuitesi «Q}ul1us est dominus civilis, dUffi est in peccato mortali» è stata già condannala dal Concilio di Costanza;ma, negli anni in cui scrive Vitoria. vale anche comeconfutazione di quelle posizioni protestanti per le quali è legittimo solo il porere di chi è in stato di grazia. Inverità, l'ambito protestante conosce al riguardo teoriemolteplici, e anche contraddittorie; in generale, muovendo dallo dottrina dei due regni dello stesso Lutero(Sul/'aulontà sewlare, 1523) - secondo la quale il potere politi<!o è da accettare come uno dei modi, quellocoercitivo e quello punitivo, con cui Dio governa gli uomini, l'altro essendo quello spirituale e interiore dellagrazia e della libertà -, si teorizza a volte, già con Melantone, la reciproca autonomia istituzionale delle duesfere, spirituale e temporale, ma di fatlo, poiché in lineadi principio entrambe vengono fatte derivare da Dio, si
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rende forremenre dipendenre il porere politico da quel.lo religioso, com'è il caso di Zwingli, e come accade nel·la Ginevra di Calvino2.'.
Comunque sia, si può dire che come tra le cause diguerra giusta non c'è, per Vitoria, la differenza di religione, così questa non sta neppure tra le giustificazionidel diritto di resistenza (ammesso, in ambito tomistico),Non è un'autonomia della politica in senso moderno·razionalistico, ma certamente è una via per la sua laicizzazione (nell'ottica di una sua intrinseca limitazione),ben lontana dalla costruzione luterana dell'interioritàcome riserva critica verso il potere.
4. Per passare - una volta delineato il quadro più generale in cui si colloca - a esaminare il De iure belli, prima di tutto si deve considerare che questa Releclio sipresenta come un ampliamento e una chiarificazio·ne non solo di quanto già trattato nella Lectura del1534 sulla guerra a commenro della Secunda Secundae", ma soprattutto nella Re/eclio de Indis. Infarti,poiché il possesso spagnolo dell'America è legirrimabi.le come esito di una guerra giusta, su di questa Viroria
2j Sul pensiero politico riformato, e suDa sua complessità, utilipunlualizzazioni in A.E. Baldini, 1/pensiero politico. idee Teorie DotIn"ne, Torino, Utet, 1999, voI. n, pp. 55·98.
24 Cfr. F. de Vitoria, Quaerlio de bello (commentario del 1534 alla Quaes/io XL della Secunda SecunMe), in Vitoria, Re/cclio de iurebelli, a cura di L. Pereii.a, cit.• pp. 209-261 (ivi, pp. 263-285, si leggeanche la Quaestio de seditione, Lectura del 1536); cfr. anche Vitoria,Comenlarios a iB SecunM Secundae, cic, tomo I, 1932, pp. 190-201(commento alla Quaestio X, aa. 8, 9, lO), [rado il. in Vitoria, Re/caiode lndis. lA questione degli Indio!, ci!., pp. 115-134. DlB rielaboraquesto materiale, ampliandolo e sislematizzancloio, ~za apportarvisostanziali variazioni.
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intende fornire un discorso più ragionato e meno bra·chilogico.
4.1. Le tesi fondamentali che Vitoria espone nel De iurebelli riguardano la liceità, la titolarità, la causa, i fmi e imodi della guerra. E le sue posizioni sono, in sintesi, chela guerra è lecira ai cristiani (1); che il suo principale pro·tagonista è la comunità politica O il suo principe (II); cheessa è lecita solo per una giusta causa, cioè se la guerra èla risposta a un torto subìto (III, 4) e mai per amplia.mento di potenza O per gloria del principe (III, 2 e3); cheil principe - per dirirto naturale (sulla base del principioromanistico «vim vi repellere licet»; I. 1) e per autoritàdell'intera umanità (IV, n, 5) -la conduce sia in formaimmediatamente difensiva sia in forma anche offensiva,come sanzione della lesione del dirirto naturale e dellegenti 0,2); che il fine della guerra giusta è quindi la dife·sa e la conservazione della comunità politica e del suo bene comune, il recupero delle cose ingiustamente sottratte dai nemici, la punizione di questi in quanto il vincitore è giudice del vinto (IV, I, 2 e 5), e il ristabilimento della pace e della giustizia (passim, ma con chiarezza sintetica in IV, n, 5); i modi e i limiti della guerra- cioè la minuziosa casistica di liceI e non liceI non solo nello ius adbellum (IV, I) ma soprarturto nelloius in bello (IV, II), perquanto riguarda le uccisioni di colpevoli e innocenti durante e dopo la guerra, gli espropri e le riparazioni diguerra e i tributi, i cambi di regime, la presa come prigionieri o ostaggi di donne e bambini,la distinzione fracombattenti e civili innocenti (contadini o chierici e let·teratD, l'obiezione di coscienza, i 'danni collaterali' -scaturiscono da queste finalità.
Secondo Vitoria la guerra - scandalo inevitabile fra icristiani (DIB IV, II, 5), mentre contro i pagani è una ne·
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cessità imposta dalla loro aggtessività (IV, II, 3 e 5) -è untapporto fra entità politiche, non fra teligioni: la guetragiusta non è guerra santa, né una guerra ideologica. E.nonostante le sue durezze, non è neppure rivolta ad annientare la società nemica, a sterminare popoli (ultra, S5.2), o all'incremento di potenza dei vincitori. Insomma,anche se la guerra va considerata come intrinseca - ratione peccati - alla condizione dell'umanità, né il suo ini·zio né la sua prosecuzione né la sua conclusione sono daaffidarsi a ciechi riflessi naturali, agli automatismi ddgioca di potenza, alla mera valutazione utilitaristic3. o alla nuda tragicità dell'eccezione; anche la guerra deve collocarsi all'interno della civiltà evolutasi attraverso la religione, /'idea di giustizia, la morale razionale, il dirittodelle genti e la politica rivolta al bene comune dd singo)0 tatoe dell'umanirà intera-cioè una politica chevuo·le la pace, anche se a volte attraverso la guerra giusta.
lus ad be/lum e ius in bello sono dedotti, in Vitoria, daun combinarsi, che si vuole non contraddittorio, tra fede e ragione, tra Scrittura e Aristotde, tra Padri e Dotto·ri della Chiesa, tra il Digesto e il Decretum Craliani, tragiuristi, canonisti, decretalisti e teologi; Vitoria utilizza latradizione con libertà, e fa dire ai testi a volte più e a volte meno eli quanto essi intendano2', all'interno di unastrategia argomentativa che tende a recuperare quanto èpossibile della tradizione, a sistematizzarla e ad armo·nizzarla in una sorta eli razionalismo critico cattolicoaperto alle esigenze nuove; ma quando c'è insanabile di·scordia fra Scrittura e ragione Vitoria non esita ad ab·bracciare la prima riconoscendovi l'imperscrutabile co·mando di Dio, sulla base del principio volontaristico «sit
v Perena, lJ les/o, cit., p. CXVIJ.
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pro ratione voluntas», in cui si riconoscono giovanili in·fluenze scotistiche (cfr. De potestale civili 16)26.
La posizione di Vitoria nella storia della dottrina ddla guerra giusta27 si basa su fonti classiche e canoniche:soprattutto Agostino, nd cui Contra Faustum viene ac·certata la compatibilità fra guerra e fede cristiana, con·tro le posizioni terrullianee di pacifismo integrale; il Decretum Cratiani (II, 23), in cui si raccolgono fonti romane e patristiche, nonché canonistiche, sull'argoment028; e Tommaso, che nella Secunda Secundae (q. 40, 14) sistemarizza la materia, facendo della guerra un peccato contro la carità, e ponendo fra le cause della guerra giusta appunto una culpa da punire, con retta mten·zione (inoltre, Tommaso tratta in quella sede anche questioni canonistiche come la liceità della guerra per ichierici, e dd combattimento di domenica). La produzione dei canonisti e dei legisti sulla guerra giusta (Raimondo di Peiiafort, Bartolo di Sassoferrato, Giovannida Legnano), abbondante e articolata ma non innovativa, è poi nota a Vitoria attraverso la Summa di SilvestroMozzolino da Prierio. La formulazione standard dellaguerra giusta - ad esempio, quella data dal canonista egenerale dei domenicani Raimondo di Peiiafort nellasua Summa (1240) - teorizza il divieto di guerra per gli
26 Cfr. DIB (V, U, l, sull'uccisione degli adolescenti da parte deivincitori; ma cfr. anche ivi, m, 4.
27 R Régout, LA doct,,,,e de la guerre juste de S. AugUJ/in à nOIflJurr, Paris; Pedone, 1934; EH. Russdl, The JUII War in Ihe Midd/eAges, Cambridge, Cambridge University Press, 197'; G. Minois, LAChiesa e la guerra. Da/la B,bbia al/'èrd atomica (1994), Bari, Dedalo,2003, pp. 221-227; nello specifico su DIB si vedano Urdanoz, In/n;.ducci6n a la Re/ecdon segunth, in Obras, cito pp. 727-810, H.-G. }uslenhoven, F,anaJco de Vi/oria ZU Krt~fI und Fn'eden Koln Bachem
6 " ,1991, e Tosi, LA teoniJ Jtl14 guerra giusliJ, cit.
28 ln Corpus ium uznonici, I, Lipsia, Tauchnitz., 1879, collo 889%5.
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ecclesiastici, la giusta causa (ossia lo stato di necessità),la esclusiva fmalità del recupero dei beni o della difesadella patria, l'obiettivo genetale della pace, la retta intenzione e l'assenza di odio e di vendetta, e l'obbligoche la guerra sia condotta SOttO l'autorità della Chiesaper quanto riguarda le questioni di fede, e altrimentisotto l'autorità dci principe29. Portatore di posizioni incerti punti simili a quelle di Vitoria è anche Alonso Tostado, teologo conciliarista e canonista spagnolo del XVsecolo, professore a Salamanca, per il quale il «bellumiustum» è «iustitiae executio», e durante la guerra giusta - per ottenere riparazione di torti e restituzione dicose asportate - si può fare contro il nemico ogni cosatranne che mancare alla veritàJO (ma questo consequen·zia1ismo è appunto soggetto a limitazioni, in Vitoria).
Tuttavia, Vitoria innova rispetto alla tradizione per·ché sposta l'asse della trattazione della guerra giustadal livello morale della culpa - presente, con toni particolarmente aspri, in Bernardo di Chiaravalle che vede nella guerra giusta la punizione dei malvagi, un«malicidio» (De Laude novae mililiae, 4), mentre il Decrelum Craliani articola la guerra nella direzione delladefinizione giuridica di specifici nemici, interni edesterni, della società cristiana}1 - a un livello giuridico.Ciò è evidente da varie motivazioni: Vitoria prevedecome causa di guerra giusta la iniuria accepta dal nemi·co, e non il peccato; non discute la guerra a partire dal-
29 Minois, La Chiesa e 14 guerra, cit., p. 223; Urdanoz, Introducd6n al4 Relecd6n segundd, in Obras, cil., p. 7'7.
)0 E. Nys, IntroducJion a Francisco de Viloria, De Indis et de iurebelli RelecJiones, Washington, Camegic lnsutulion, 1917, pp. 9-53: 17.
)1 Minois, LA Chiesa e la guerra, cit., p. 186 (su Bernardo); cfr. anche A. Melloni, I «nemim di Gravano, in G. Ruggieri (a cura di), Inemici de/kJ crisJianità, Bologna, TI Mulino, 1997, pp. 105·122.
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la carità, non tratta direttamente della retta intenzionee sottrae la guerra alla giurisdizione della Chiesa. L~guerra è giusta sulla base di considerazioni razionali deltutto immanenti alla struttura oggettiva - naturale estorica - della condizione umana.
Inoltre, egli è innovativo soprattutto perché modifica il contesto di diritto internazionale all'interno delquale si dà la guerra giusta. Watti (De Indi! 3, I), Vitona as~ume le gente! (e non gli homines, come pure suonava il testo di Caio -lnslituliones I, 2, l - che egli cita) come soggetti dello ius genlium (anzi, dello «ius inter gentes»),2 su un piano di parità (alla quale non è forse ~tranea una perdurante suggestione erasmiana) ga.ranura dall'unità ddl'umanità, creata e redenta d~ ununico Dio (tuttavia, lo si ripete, l'uguaglianza fra i po_poli non è uguaglianza fra le religioni - infatti, anche seVIeta la guerra santa, Vitoria affenna il diritto dei cristiani alla ~angeli~~zione missionaria -. e non è neppure uguaglianza dt livello fra le civiltà). Soprattutto, inprecedenza (De poleslale ciVili 21) Vitoria ba fatto delloiUI gentium un complesso di norme positive derivante«ex paeto et condicto inter homines» dalla noturalir ralio, ossia dal diritto naturale razionale - che in DJB IVII, 7 e 9 è menzionato anche come «ius divinum aut (et)naturale». Quindi. ancora una volta, non c'è un dominuso~bis, pap~ o imperatore che sia; c'è, invece. uno iUI gen./rum che m De Indi! (J, 3) è defmito come originantesidal «consensus maioris partis totius orbis», e che in DIB(IV, I, 5) si "presenta come «auctoritas totius orbis»H.
)2 J.M. K~lly, Stona del pensiero giuridico ocadenta/e (1992), Bologna, ~ Mulmo, 1996, p. 2'~~ sostiene che questo lennine può esse~e cons~derato come la dcsçnZJone deUe relazioni di fatto esislenti fral popoli, e non come sinonimo di un ordinamento normativa
)) AJ. riguardo cfr. V. Carro, La «communitas orbis» y kJs ~IIJJ delderecho mlernaaonal, Palcncia, Merino, 1%2.
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Nonostante questa teoria dd patto che coinvolgel'intera umanità, in DIB il nesso fra ragione e consuetudine non è paritetico come sarà in Grazio, e pende piùdalla parte della ragione naturale". Eppure, in questotesto Vitoria sembra modificare leggermente la posizione di Tommaso - il quale, per reagire alla positivizzaziODe consuetudinaria dello ius gentium propugnata dagiuristi e canonisti, ha istituito &a ius genlium e dirittonaturale un rappotto per cui il primo, pur distinto in linea di principio da quello, viene di fatto a sovrapporvisi del tutto quanto a funzione fonclativa rispetto agli istituti giuridici positivi (Summa the%gica I, q. 79, a. 12)-;infatti per Vitoria lo ius gentium è un diritto positivo vicino al diritto naturale, e da questo originato, che i popoli daborano avendo questo come fondamento e sviluppandone la razionalità lungo il corso storico della civiltà (DIB IV, I, 5 e IV, II, 3). Così, il diritto delle gentinon è solo prodotto della consuetudine (cioè non è solo «ius inter gentes»), ma non è neppure del tutto identico al diritto naturale: è «quasi necessario alla conser·vazione» di questo". In ogni caso, il termine-chiave rite(<<SeCondo le consuetudini») compare in DIB una voltasola, e anche consuetudo vi è menzionata poche volte (in
)4 ulla questione di quanto le tarde RtkctiontI anenuino il (relativo) positivismo o convenzionalismo dei Commm/ari a Tommasodel 1'27 e del U35. C: sulla divergenza interpretativa fra il d.isconti·nuista Urdinoz (Introduro6rt a fH I"Jù, in Obral, cit., pp. "1-565)e il continuista L. Perttia (El conctplo del tkrecho del genleI in Fran.cilCO de Vilona, in «Revista Espanola de Derecho intemacionabt,1952, pp. 603·628), cfr. Lamaechia, Francisco de Vilorùl e l'innovavone modnna, cit., pp. LXXXHJCXXVllI; cfr. anche Skinner, Le ongini,cit., voI. [l, pp. 217·227, nonché Trujillo Pé.rez, Frt1ffcUCO tk Viloria,cit., pp. 159 sgg.
"Vitoria, u,menlariol,cit. voI. li, p. 16 (Quaesllo LVll, a. 3 ad4).
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II, 2 essa integra il diritto naturale che colloca lo ius adbellum nelle comunità politiche perfette, estendendoloin certi casi anche ad alcune imperfette; in IV, II, 8 siparla di urus, ma insieme a ius); la forza normativa deldiritto delle genti deriva, più che dalla consuetudine,dal fatto che questo prodotto umano incorpora in séj'aequitas (o iustitia) che è l'essenza dd diritto naturale'6. Insomma, Vitoria fa un uso critico e razionale dddiritto naturale, come fondamento oggertivo e guidadello iUI gentium storicamente evolutosi. Che ci sia o nop~e~a continuità fra Tommaso e Vitoria, sul rappono fradm~to naturale e diritto delle genti", pare chiaro inogm caso che il materiale tomistico (e quello della tradizione giuridica e canonistica) è qui ri·oriemato versouna direzione giuridica.
Insomma, Vitoria fa delle genles i protagonisti formalmente paritari delle relazioni internazionali - sono ipopoli-nazione ad avere diritti e doveri in relazione aq.uei beni naturali che sono la tranquillità e la pace, osSia il bene comune dell'intera umanità (IV, I 4) -' èquindi all'interno dei popoli-nazione che, insi~e allaS?Cietà, cresce naturalmente il potere politico; sono esSI a daborare, sul fondamento della ragione naturale ildiritto delle genti; sono i popoli-nazione, in reciprdcacomunicazione fra loro e come parti di un'unica uma.nità (la t<oria della cognatio), a costituire l'auclorilas diquesto mondo. Lo ius gentium è anche la fome di legit-
)6 Ivi, p. 14 (Quaeslio LVII, a. 3 ad2)." Vili ' -/o . .ey, LM ormazlone, CII., pp. 307·.315 sostiene decisamente la
distanza ~ Vitoria da Tommaso. L'innovazione di Vitoria rispetto aTommaso e ~tenuta anche da A_ Truyol-Serra, De la notion Iradi/ione/k du droll tkl genI lÌ '" notion moderne du droll inlern41ional pubile, in td..c: Supplement», 1987, pp. 73.91.
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timazione dell'azione dei principi, che trova confermanel diritto naturale (diverso, quindi, e ancora più fondativo): i principi con la guerra giusta (e solo dopo chesiano state esaurite le opzioni non violente: DIB IV, I, 6)pongono infatti rimedio alle ferite che i malvagi arrecano alla giustizia, cioè al diritto narurale dei popoli di vivere in pace, cercando di distinguere sempre fra mnocenti e colpevoli, fra civili e combattenti (DIB, IV, Il, I).
4.2. ì;: questa costruzione razionale, universalistica epluralistica al contempo, oggettiva e tendenzialmenteegualitaria, a fare di Vitoria - secondo una vulgata cherisale a Grozio - il padre del moderno diritto internazionale, e a determinarne la fortuna, anche e soprattutto nel XX secolo. A patte la fama e la rilevanza in etàmoderna - non solo in Spagna, ma in Europa: benchécoinvolto nelle critiche della cultura francese (sia giansenista sia gallicana) alla Seconda Scolastica, è citato, tragli altri, da Bacone e da Grozio, da Selden (che ne.combatte la tesi della libertà di commercIo) e da Connng -,dalla metà dell'Ottocento viene recuperato, dapprimain ambito anglosassone, come iniziatore del diritto internazionale moderno e propugnatore della libertà deimari; dalla fine dell'Ottocento Vitoria gioca poi un ruo)0 sempre crescente nella reazione giuridica universalistica concro il nazionalismo: grazie a un belga come Ernest Nys, a un americano come James Brown Scott, auno spagnolo come Camilo Barda Trelles, a un tedescocome Paul Hadrossek, Vitoria diviene, per la culturaeuropea dei primi decenni del XX secolo, un grandegiurista internazionalista moderno, nonché un importante teorico del diritto coloniale, e uno dei padri dellaSocietà delle Nazioni; inoltre, soprattutto dopo la finedella seconda guerra mondiale, egli entra nel novero degli autori coinvolti nella rinascita del diritto naturale,
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propugnata dalla giurisprudenza di orientamento cattolico (tra gli altri, Rommen e Giacon). In modo particolare,la cultura spagnola della metà del XX secolo, laica e cattolica, vede nella Seconda Scolastica, e in Vitoria, un importante e originale contributo della Spagnaall'identità europea: il IV centenario della sua mnrte,nel 1946, è per le autorità spagnole l'occasione per rompere, promuovendo anche istituzionalmente la VitonilRenazJsance, l'isolamento internazionale in cui la sconfitta delle potenze dell'Asse ha lasciato la Spagna". Infme, è a studiosi spagnoli, laici e religiosi, come Vicente Beltran de Heredra, Luis Alonso Getino, TeomoUrdanoz e Luciano Pereiia, che si devono le edizionicritiche delle opere di Vitoria, Commentari e Relecliones (dr. ullra, ala alleslo).
Così, ancora nel 1975 in un testo di riferimento come lA formazione del pensiero giuridico moderno di Michel Vtlley, si legge: «siamo debitori a Vitoria delle coordinate del diritto internazionale: è lui che ha stabilito i
JI Fra i testi-chiave che hanno costruito la fortuna contemporanea di Vitoria si vedano almeno: E. Nys, u droit in/ema/ioMI.usprùuipes, les /héodes, les fai/s, Bruxdles, Weissenbruch, 19122, 3voU., pp. 59-60, 234·240 del I vol.; A. Vanderpol, Lo doctrine SCOM
stiqu~ du Droi/ fk gu~, Paris, Pedone, 1919 (con la trad. francesedelle due R~kctiones giuridiche e di moho materiale Storico); C.Barda TrelIes, Francisco de Vi/oniz ~/ l'&ale mod",,~ du Droi/ in/erna/ional,. Paris, Hachette, ~ 928; ) .B. ~~t, Th~ Sp~nish Conap/ion 01In/erna/tona/ Law. Franasco d~ VI/Orni and hls Low of Na/ions,Oxford-London, Clarendon.MuHord, 1934 (con (rado ingJese delledue Reiediones giuridiche, del De po/es/a/edvilie di parte del De pc/~s/a/e Eccknlze prio,); C. Giacon, La Seconda Sco4lS/ica. Igrandi com.menta/on° di San Tomma1O: il Gae/ano il Fe"arese il Vi/ona MilanoBocca, 1944; H. Romme:n, Lo Stato n;1 pensiero c;"olioo (1935), Mi:lano, Giuffrè, 1959; P. HlIdrossek, Leben und Wt7ke d~s Frandscus deVi/Dna, in De Indis recente' inven/is e/ de iurebe//i Hispanorum in ba,.baros, a cura di W. Schii{zel, Tlibingen, Mohr, 1952, pp. XI-XXX; G.van Hecke (a cura di), L'Espogn~ ~t /alo,ma/ion du droi/ des gens mode",~, Louvain, Peelers, 1988.
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principi per cui gli Stati devono rispettare reciprocamente le loro sovranità, non ingerirsi negli affari interni degli altri Stati, ammettere la libera circolazione daun territorio all'altro di persone e di merci, e la libertàdi predicazionej riconoscere la libertà dei mari e dei fiumi inte:~azionali e i diritti degli ambasciatori; protegg~r.e I. cIvili m caso d! guerra. Equesto senza parlare deidiritti delle popolazioni indiane dell'America [...). Sono t~~i princìpi, questi, che vediamo al giorno d'oggi ribadltl dalle Nazioni Unite [...). Vitoria applica a questonuovo ramo del diritto la regola poeta suni servanda, ilche consente di introdurre come nuova fonte di dirittoi trattati internazionaIDY9.
4.3. Una forte contrapposizione a queste interpretazioniattualizzanti (cerro, non direttamente a Villey) viene daCari Scbrnitt, il quale nel 1950, e quindi a ridosso delle celebrazioni del 1946 per il quattrocentesimo anniversariodella motte, dedica a Vitoria un denso capitolo del Nomosdella lemi'O. Per Schmitt rettificare la comprensione vulgata di Vitoria, e opporsi alla sua trasformazione in un«mito politico», è decisivo: infatti, la pretesa che esista unmo rosso che unisce il cattolicesimo alle potenze liberalie socialiste implica che la ricostruzione schmittiana dellapolitica internazionale moderna in termini di nomos di~eterminazione spaziale, di differenza tra Europa stat~alizzata e resto del mondo, cioè di iuspublicumeuropaeum,SIa ptlva d! fondamento (owero sia solo ideologico-propagandlstica); oppure implica che il mondo delle sovranità statali sia deI tutto tramontato, e sostituito da istituzioni e apparati categoriali universalistici, già presentinella tradizione moderna, ma alternativi alla principale
)9 Villey, LA/ormozione, cit., p. 309.40 Schmitt,1/ nomos, cit., pane 11, cap. 2, pp. 104-140.
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vicenda storica di questa. Per Schmitt, invece,l'universalismo è una malattia - individualistica e liberale, e poi socialista - interna allo Stato, che lo mina e lo distrugge, enon certo un'alternativa politica praticabile: la politica èper lui la concretezza particolare (e polemica), e non lagiuridificazione universale. delle relazioni interumane.La posta in gioco, per il cattolico (sui generis) Schmitt, èben più che la precisione storiografica, che la restaurazione dell'immagine di un autore su cui sono state passate successive mani di vernice che hanno reso irriconoscibile la pittura originaria: è sottrarre il cattolico Vitoria alla genealogia dell'universalismo liberale e socialista.
La prima mossa di Schmitt consiste dunque nel criticare quanto in Vitoria vi è di freddo e obiettivo: perSchmitt, Vitoria è troppo neutralizzante, e la sua considerazione paritetica di Indios e Spagnoli lo rende esterno alla politica del suo tempo; insomma, Vitoria, inquanto propugna un universalismo egualitario, non ragiona nei termini politici concreti di amico-nemico. Alcontrario, Schmitt valorizza in Vitoria gli elementi di disuguaglianza che egli conserva nel proprio pensiero: inprimo luogo, l'idea di 'missione' evangelizzatrice voluta dal papa, che legittimerebbe l'impresa spagnola inAmerica (poiché questo aspetto del pensiero di Vitoriasi fonda sulla poleslas indirecla del pontefice, che almeno dalla metà degli anni Venti è criticata da Schrnitt, èchiaro che questi pur di contrapporsi alla vulgata è disposto anche a contraddirsi). Ma più in generale la concretezza di Vitoria consiste per Schmitt nel fatto che egliè «un monaco spagnolo» ancora legato alla spazialitàpolitica concreta della respubl,,:a chrisliana, dalla qualederiva una netta contrapposizione all'Islam, una teoriaben determinata della guerra giusta, e un universalismospecificamente cattolico.
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· Per Vitoria, sostiene Scbmitt, il libero commercioC1~ntra in r~altà nel m~dievale i~s peregrinandi, mentred}vema tutt altra cosa LO mano 31 prmestanti come GraZIO o ai capitalisti inglesi e americani dell'Ottocento cheargomentano a favore del libero commercio contro ilmercantilismo degli Stati europei, che Vitoria neppureconos~eva. Inoltre, per Vitoria la guerra giusta è ancheoffensiva, mentre quella moderna è solo difensiva: infatti, le logi.che 'ginevrine' - per Schmitt, di origine Imerana.- d1Sltnguono fra aggressore e aggredito, facendo delpnmo un criminale in senso penale, passibile non solo dip.unizione ma anche di discriminazione morale e ideolog~ca, e. t:asformando quindi la guerra giusta in un'azionedl.p~lizla. Al contrario, il nemico, per Vitoria, non è unc~lmmale f~ori ~aU'u~anità, ma, pur essendo colpevoledi una specifica mfrazlOne allo ius gentium conselVa dignità e diritti; è un nemico concreto, e non ~n nemico assoluto. In g~erale, per Schmitt, Vitoria non può esseredecontestualizzato dalla respublica chrisliana, alla qualedopo tutto conttnua ad appartenere idealmente ed esistenzialmente: la sua fortuna è in realtà il frullo di estrapolazioni, da partedi anticristiani edi antispagnoli, di teSI nate.LO ~n onzz~nte intracristiano e intraspagnolo.
Qwndl, Schmm giunge a riconoscere che Vitoriapur ~eorico della guerra ex fusta causa, ha nd propri~pen~lero tanta 'concretezza' da giungere in realtà a una~eorta non discriminatoria dello iustus hortis. Certo unolustus borlis medievale, tipico di una guerra intracrisria.na" diverso quindi dallo iuslus hOSlis della piena modernIta :"estfalta~a che riconosce solo la guerra fra Stati europeI. In ogm caso, l'internazionalismo protestante li_berale esocialista - di Norimberga e dell'Onu _ è perSchmnt In forte e drammatica discontinuità rispetto nonsolo allo iur pub/icum europaeum pienamente moder-
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no, ma anche rispetto all'internazionalismo cattolico e:oncreto di Vitoria, in fondo premodemo. Insomma,Schmitt, pur distinguendo fra la concretezza medievaledi Vitoria e la propria concretezza moderna, tende asottolineare che entrambe le 'concretezze', benché diversefra loro, si situano agli antipodi dell'universalismo astratl ,ma in realtà discriminatorio, che sotto le vesti giuri·dico-morali del diritto internazionale a dominanza individualistica persegue fmi politici di distruzione dei vinti/colpevoli. Un pensiero 'situato' quello di Schmitt, ilquale, dopo le due sconfitte della Germania nel XX seC lo, e dopo che in entrambe le circostanze è stata fa~ta
valere contro la dirigenza politica tedesca un'istanza gIUridica penale, tenta di ddegittimare i vincitori e di rilanciare la propria teoria della politica come organizzazione di 'grandi spazi' e non come universalismo (Schmittnon riconosce mai la qualità di Grossraum alle sfere di in·fluenza bipolare generate dalla seconda guerra mondia1e'1). Schmitt cerca quindi non tanto di annettersi il pensiero di Vitoria, ma, definendo quest'ultimo a sua volta'situato', di sottrarlo aquelli che per Schmitt sono i morlali nemici della Germania, dell'Europa, dello Stato.
L'interpretazione di Vitoria diviene così per Schmittuno dei baricentri di una guerra intellettuale intorno all'essenza della politica moderna.
5. Scontata la 'parzialità' di Schmitt - anche se qui atteggiata come obiettività storiografica -, è bene lasciar·si provocare, con la dovuta attenzione, dalle sue tesi.
<41 C. Schmin, L'unità del mondo eal/ri .saggi (1951-1962), Roma,Pellicani, 200}}j Id., La ron/rappo.sitione pl4nelaria tra Oriente e Ocadente e 14 .sua .s/ruttura .s/orica (1955), in E.)Ungcr, C. Schmin, II nodo di Gordio. Diarogo.su Oriente e Oca·dente ne/iJJ .s/on"a del monda,Bologna, UMulino, 2004', pp. lJ t-t63.
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AI di là dei giudizi di valore, sembra difficile che, al.meno dal punto di vista della storia del pensiero politi.co, la modernità possa essere fatta coincidere con lo sviluppo lineare di un diritto naturale orientato sui dirittiumani, che da Vitoria passando per Grozioe Kant giun.ge alla Cana dell'Onu. Questo disegno - per accatti.vante che possa essere - manca di consistenza storicain età moderna il diritto naturale - che in ogni caso no~nasce solo in ambito ecclesiastico. e che anzi si nutre soprattutto di fonti antiche, e poi umanistiche, e quindiriformate, e mfine razionalisriche e illuministiche _ viene catturato dalle logiche della statualità, e solo all'in.temo dello Stato, sia pure in forte tensione rispetto a esso, si ripresenta come fondamento dei diritti umani individuali. Insomma, il potere politico moderno si razionalizza molto più perché passa attraverso la mediazionedello Stato e della sua potenza che non perché si confor.mi immediatamente al diritto naturale; all'interno delloStato, sarà l'individuo - che si concepisce come portatore di diritti - a farsi valere perché lo Stato si razionalizzi ulteriormente, trasformandosi in Stato di diritto. Enon solo il diritto interno, ma anche quello internazionale, in età moderna, è molto più statualistico cbe giusnaturalistico - è diritto di Stati, cioè iUI publicum europaeum -; benché il diritto naturale sia frequentemen.te invocato come origine di ogni giuridicità, in Gentiliin Grozio e in Vattel, è infatti ovvia la progressiva s(a~tualizzazione delle relazioni internazionali e della guerra, che sarà non a caso il problema di Kant"'. AII'affer-
..2 Sulla moderna inflessione sratalistica dci diritto narurale si vedaR. Tuck, War(md Peace. Politica/ Thought and the lnternationaJ Order/rom Grotius to Ka'!t, Oxford Unjversity Press, Oxford 1999; sul nesso fra potenza e raglon~ com~ chiave di ricostruzion~ della storia d'Europ~ cfr. B. De Gjovan~i, ~filosofia e /'Eut'OfJ4 moderna, Bologna, IlMulino, 2004; sul nesso mdlVlduo-Statodr. R. Schnur, Individualismo
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nlllrsi dei diritti umani come fondamento tanto del di·ntto interno quanto del dirino internazionale - che è iltipico portato della rivoluzione francese, ma che assume senso politico solo dalla metà del XX secolo - hanno contribuito sia l'daborazione giusnaturalistica cat·l \ica, che ha origini prestatuali e non individualistiche,quanto quella laica, di fatto nata dentro la moderna VI'
cenda dello Stato; ma entrambe le distinte tradizioni~iusnaturalistichesi sono potute contrapporre alla po:litica statocentrica in nome dei diritti umani - divenunun'idea universalistica - solo al prezzo di una forte tr3formazione del rispettivo materiale intellettuale tradi·
zionale, ossia tanto del paradigma poLitico modernoquanto del giusnaturalismo cllttolico.
In quest'ottica, si tratta di esaminare più davicino ilpensiero di Vitorill, per discernervi quello che Luis Legaz y Lacambra nel 1947 definiva «lo medievale y lomodemo»4J, e soprattutto per coglierne logiche, strut·Lure, e implicazioni.
5.1. È, quella di Vitoria, una teologia morale-giuridica,razionalmente mediata e atteggiata. on c'è in lui il SI'·
/ele Ibeologi! di Gentili (anche se questo era rivolto contro un presunto comandamento dell'amore verso i Tur·chi che in Vitoria sicuramente è assente)44 da cui ha ori-, .gioe la moderna politica internazionale. C'è, lOvece, senon un si/eie iurisconsu/ii! certamente l'affermazione
eassolutismo (1963) Milano, Giuffrè, 1979, nonché: R Kosdleck, Critica iJJuminista ecris;' de/la società borgheu (1959), Bologna, li Mulino,1972.
..} Legaz y Lacambra, Horilontes cit., pp. 19'·211; l'autor~ sostiene che Vitoria non è mooemamente statualista, ma è un fLIosofomorale scolastico, e che proprio per questo è adano ai tempi in cui lamodernità roUassa.
44 A. Gentili, De iurt belli libri tres (I612), libro l, cap. J2, in C.Calli (a cura di), Gu~a, Roma·Bari, Laterza, 2QO...t, p. 60.
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(De Indis, Introd. 8) dell'esigenza cbe, nella fase storicain cui il diritto internazionale (ius genlium) deve aprirsi al Nuovo Mondo - il cbe lo rende un diritto ancorain fien° -, i teologi intervengano inelicando i principimorali su cui il dirino internazionale deve basarsi. QueS(Q è precisamente quanto fa Vitoria in DIB, che non èsolo una teoria giurielica dello ius belli (sia come ius adbellum sia come ius in bello), ma è ancbe una teoria morale della guerra - «in moralibus» defInisce Vitoria ilproprio ambito eli riflessione (DIB l, 2; TV, I, 6) -, fondata. implicitamente ma saldamente, sull'idea di giustizia4', ossia sull'oggettività dd bonum totiuIorbis. sull'ordinato vivere e prosperare delle genti (DIB I, 2), cbeè un fine e un dovere proprio perché è al contempo undiritto (anche se il termine in quanto tale è assente), oalmeno una possibilità reale di felicità terrena, scrittanell'essenza dell'umanità. Di fatto, le tesi eli fondo diDIB sono mutilare se non vengono comprese a partiredall'idea che esiste la giustizia. cioè un ordine morale erazionale del mondo - del quale Dio è in ultima istanzal'autore -, che l'umanità conosce come diritto naturaleoggettivo e al quale collabora sviluppandol0 storicamente come dirino delle genti, mai elivesgente dal eliritto naturale: è a questa giustizia ben fondata cbe rimanda lo ius belli. Se la politica interna - cbe pone il clisittopositivo, e lo amminisrra - può e deve conformare leproprie costruzioni alla giustizia, anche ]a politica in·ternazionale, e anche la guerra, può e deve atteggiarsi inmodo razionale e morale. La diretta autonomia della
.., Al riguardo si veda D. Deckers, GerechligJuù und Rechi. Einebistonrch-kntuche Untersucbung der Gerecbtigkeitslehre de, Francisco de Vùor,a (1483-J.546), Frciburg (Schwciz), Univcrsitatsverlag,t991.
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I litica e della guerra dalla religione è assicurata; ma ciònon implica per nulla una loro autonomia dalla moralettlzionale, ovvero non implica che il diritto possa essere1I11permeabile alla giustizia e al elirino naturale: l'esiM-nza eli Vitoria è cbe la razionalità della vita praticanon sia solo fonnale, e ciò lo fa appunto argomentare inI rmini eli 'giustizia' che escludono il positivismo nell'ambito interno e il convenzionalismo (sia antico-romano sia moderno) nell'ambito internazionale.
Così, questa presenza della giustizia nella politicao n è in Vitoria un'eccezione, l'irrompere nello spazio
litico chiuso dello Stato moderno di un Valore che,n i casi estremi del «diritto ingiusto»"6, fa saltare l'autosufficienza del djritto positivo: anzi, è una fondazioneche è anche normalità e norma, è un'essenza irrinunciabile sia della politica sia del eliritto. E come non si tratta di irruzione straordinaria, così non è neppure una sovrapposizione di ambiti fra morale e politica: si trattapiuttosto, in Vitoria, di una distinzione che non è estra·neità, ma che anzi presuppone una continuità fondativa. Questa continuità è insomma consentita da un ordine dell'essere -la giustizia, appunto - che non conoscecesure assolute e catastroficbe fra i diversi ambiti dellapratica (morale, diritto, politica, guerra): né il nicbili·mo originasio del Moderno, o in ogni caso la perenne
esposizione della sua ragione alle logicbe della potenza,né le graneli contrapposizioni che organizzano la politica moderna - il dualismo fra diritto privato e dirittopubblico, fra diritto interno e diritto internazionale, frasoggetto e Stato - sono presenti in Vitaria con la carica
46 H. Ho&nann, Introduzione alla filosofia del d,ritto e de/la politica (2000), Roma·Bari, Laterza, 2000, pp. 123·128 (con riferimentoalle lesi di G. Radbruch),
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al tempo stesso costruttiva e distruttiva che manifesta.no nd versante razionalistico della modernità: più chein termini di fronti conllinuali, egli argomenta in termi.ni di ambiti, fra l'uno e l'altro dei quali c'è comunica.zione e analogia.
E infatti fin dall'inizio DIB si fonda sull'analogia frail privato e il pubblico (Il, 1-2; ma si veda anche il ricorso all'analogia fra diritto matrimoniale e diritto diguerra in IV, I, 8), nonché fra l'interno e l'esterno (I, 2;m,4 e 5; IV, I, 2, 5 e 7; IV, il, 5). Una trasposizione, chegenera una sistematica «analogia domestica», che è re.sa possibile dall'esistenza di un terreno comune, appunto dalla giustizia. Il che implica che Vitoria sia estra.neo tanto alla distinzione moderna fra nemico e crimi.nale quanto anche alla discriminazione tardo-modernadd nemico/colpevole come criminale collocato fuoridell'umanità (il che non vale, per lui, neppure per i Tur.chi): il nemico/colpevole vinto è passibile di punizioneproprio in quanto condivide col vincitore un terrenocomune, che è la comunità pan-umana della giustizia.Questa, certo, è Stata da lui vulnerata, ma potrà ancheessere reintegrata, attraverso la punizione del torto.
Per quanto riguarda il rapporto tato/individuo, poi,è da notare che Vitoria non seme in modo drammatico laloro contrapposizione; anche in questo caso, c'è evidentemente una distinzione, che non genera però confljttiassoluti. La disposizione razionale e secondo giustiziadell'ordine politico interno elimina le occasioni di con.flitto; tranne che nel caso in cui il singolosia del tutto certo che la guerra è ingiusta (un caso quasi solo teorico, inrealtà), l'ubbidienza in buona fede alle autorità legittimeassolve in coscienza il soldato di basso rango, nei casi- questi sì frequenti e realistici - di incertezza sul sussistere di una giusta causa di guerra (DIB IV, I, 7-8). C'è
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dunque in Vitoria un rifiuto pratico - non però teori·0-47 _ dell'obiezione di coscienza, un rifiuto che non na-
da vessatoriostatalismo assolutistico, da cedimenti diVitoria alla Ragion di Stato o al probabilismo gesuitico,ma anzi dall'idea che la politica è un ordine autonomo in4uanto incorpora in sé, fm dalla propria origine e in ogniua articolazione, la giustizia; e che solo per questo mo
Uva è legittimata. Questo atteggiamento deriva dunque,lo si ripete, da una con iderazione dell'individuo chenon ne fa - insieme allo Stato e in concorrenza con esso
il centro assoluto della politica: non a caso, la libertà deiingoli (non invece quella delle gentes) non è per Vitoria
un diritto naturale, ma un bene accidentale (DIB IV, il,n In generale, non è attraverso il singolo (né, dd resto,come si è detto, attraverso lo Stato) che si legittima la politica, per Vitoria, ma attraverso la complessiva articolazione, priva di cesure e di contraddizioni assolu~e~ dd·l'ordine politico; così, se normalmente non .sono l sm~o
li cittadini a essere chiamati a capire se SUSSistono le glU·Me cause di guerra, devono esserlo i governanti, COD lamassima severità e con la più gsande attenzione (DIB IV,1,6·7). E proprio perché sono essi a dover esercitare laresponsabilità, non è opportuno che i sudditi abbraccino la morale della convinzione. Insomma, neI caSI normali è prescritta l'obbedienza dd singolo; e solo in casieccezionali in cui il comando politico è palesementecon·trario alla Jegge di natura, cioè alla morale e alla giustizia,è lecita la disobbedienza; e chi decide l'eccezione è il sog·getto singolo, certo: ma dello scarso valore po~itico .realeche Vitoria dà a questa riserva interiore è test1mOOlanZail fatto che l'esempio di comando ingiusto addotto in
'17 Minois, lA Chinll e III gUerTlI, cit., p. 282.
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DIB IV, I, 7 è la guerra sanra islamica, e la messa a mortedi Gesù.
È quindi l'arreggiarsi razionale del carrolicesimo- cioè l'affermazione di una conrinuirà deIJ'ordine dell'essere e deIJ'assenza di drammatiche cesure tra gli ambiti dell'esperienza- afar sì che in Vitoria non ci siano néla moderna politica assoluta né il suo interno deuteragonista, il soggerro libero e uguale; che la politica non abbia a che fare con la costruzione delJa forma di un irresistibile potere sovrano ma con la sostanzialirà di un benecomune gerarchicamente atteggiato e fondato. in ultimaistanza, sul diritto naturale; e che quindi, conseguentemente, il potere e la guerra non si legittimino se non attraverso la teoria del bene comune, di ciascuno Stato edeIJ'umanità intera (DIB IV, I, 5), e in quesro trovino illoro fine e illaro limite intrinseco. 'Bene comune' è infatti il nome politico deIJ'ordine dell'essere (come 'giustizia' è il suo nome categoriale). Da tutta la discussionein DIB IV appare chiaro che il bene comune non giustifica qualsivoglia prassi bellica; anzi, in De poleslale dviii13 - oltre che in DIB IV, I, lO e IV, II, l - Viroria affermache la guerra, anche giusta, non può produrre un malemaggiore di queIJo a cui pone rimedio.
Lo spazio politico di Viroria è quindi in realtà unasorta di respublica chrisliana liberata da molte angustiee da molti dogmatismi (soprattutto, non ierocratica), edilatata a inglobare anche le genles non cristiane, a cuiegli estende lo nozione di iuslilia e di bonum commune.Equesta attitudine cattolica a tematizzare la continuitàrazionale deIJ'ordine deIJ'essere ciò che consente a Viroria di essere universalistico eppure capace di operaredifferenze, rigoroso eppure non consequenzialista all'e·stremo, e in grado di temperare la giustizia con la pru·denza: infatti, la giustizia è un bene che va salvaguarda-
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lO (anche con la punizione di chi la viola) ma che nessun peccato può dawero distruggere, perché è dopolurro Dio a esserne l'autore. TI che esclude l'ammissibilità, e ancbe la sensatezza, di una posizione del tipo «fiatlustitia pereat mundus»; giustizia e mondo si coappar·tengono: insieme, sono appunto l'ordine (giusto) dell'essere. é il formalismo né il nichilismo hanno spazionel pensiero di Vitoria. Che ha il proprio limite, semmai, nd risultare di fano, una volta che si siano svilup·pate le dinamiche politiche delJa piena modernità, molto più un dover essere morale che una teoria politica efficace o una teoria giuridica effettuale. E un dover essere, per di più, meno radicale di quanto sarebbe necessario.
5.2. Come appunto si vede da un'analisi che cerchi dicomprendere le modalità d'azione della nozione di giustizia sull'impianto teorico della guerra giusta.
5.2.1. Si è già detto che la guerra è in Vitoria un fattogiuridico (è uno ius); è infatti valutata in relazione a undirino naturale che è in sé razionale e astorico ma che èanche storico nella sua realtà evolutiva di ius gentium;un dirirro che quindi non è solo formale e convenzionale ma anche una realtà concreta. Ciò significa cbe laguerra giusta non si qualifica solo a partire dalla giustacausa -l'iniuria accepta -, in senso universalistico, mache esiste un asperro 'siruato' del pensiero politico diVitoria, che lo orienta. Questo aspetto consiste nellapercezione di due differenze, che modificano il suo uni·versalismo, senza annullarlo: la differenza tra civiltà eharbarie (ossia fra Europa e America) e quelJa tra cristiani e infedeli (ossia il conflitto fra Europa e Islam). Laprima - già esaminata - è meno importante della se·
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conda, quanto alle sue conseguenze sulla teoria dellaguerra giusta (altro discorso vale per la pratica: è infatti evidente che l'universalismo è asimmetrico, e che difatto se ne possono giovare solo gli Spagnoli). Ma se, inogni caso, con gli Indios è almeno possibile la pace, invece, coi Turchi c'è, secondo Vitoria (DIB IV, n, 3),«guerra perpetua» (nozione che precede quindi il più illustre concetto antitetico di .:pace perpetull»L cioè unaguerra che nasce dall'esperienza storica della continuaaggressione islamica contro gli Stati cristiani (e dunquenon dalla natura, né dalla religione); una guerra assoluta, senza tregua e senza quartiere. Ciò implica differenze di trattamento del nemico vinto (ivi, IV, n, 5): se nelcaso della guerra fra Stati cristiani il vincitore, a guerrafmita, può uccidere tutti i colpevoli, ciò di fatto significa giustiziare coloro che harmo responsabilità dellaguerra ingiusta; od caso dei Turchi, invece, si possonouccidere «tutti quelli cbe possono portare le armi, purché si siano macchiati di colpa» (il che significa tutti imilitari, anche catturati prigionieri). La colpa da punire fra i cristiani sta presso i capi (ivi, Conclusioni: «ndla maggior parte dei casi, fra i Cristiani tutta la responsabilità è dei principi»); fra i pagani sta invece anche neisingoli combattenti. Analoghe differenze si registranopoi sulla riduzione in schiavitù dei prigionieri, consentita all'esterno, verso i Turchi, ma non all'interno, versoi cristiani (ivi, IV, n, 3). Eppure, Vitoria (D/B, Concluriom) nega che la guerra giusta - anche quella perpetuao assoluta - sia rivolta contro i popoli/nazione, controle genter e le rerpublicae (che sia una guerra totale contro le società, diremmo oggi), e meno che mai contro lasostanza biologica del nemico: la guerra di sterminio(l'uccisione dei non colpevoli) è vietata sia fra i cristiani (IV, n, 5) sia contro i Turchi (IV, n, l e 5) - con pie-
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na certezza per quanto riguarda il divieto dell'uccisionedi donne e bambini, e alla fme, benché con un ragionamento faticoso e tortuoso e con concessioni a un'interpretazione volontaristica di Dl 20, 13, poi corretta, anche per quanro riguarda l'uccisione degli adolescenti.Insomma, la differenza fra guerra intracristiana e guerra contro i Turchi, indubbiamente sussiste: evidentemente è un retaggio dd passato di inimicizia costantefra Impero oltornano (inteso come potenza politica, piùche come religione islamica) e Stati europei; un reraggioche Vitoria condivide con la stragrande maggioranzadegli intellettuali europei suoi contemporanei.
La concretezza di Viroria, ossia la caratteristica specificamente cristiano·cattolica del suo universalismo,colloca la sua teoria della guerra giusta in una zona media fra paciftsmo e sterminio cbe - a parre il caso dell'Islam - non conosce "estraneità radicale fra popoli europei ed extraeuropei che è propria dello iur publicumeuropaeum. E che non conosce neppure la criminalizzazione discriminatoria del nemico propria della tardamodernità.
Da alcuni punti di vista Schmitt ha quindi ragionenel segnalare che l'universalismo di Vitoria non coinei·de con quello moderno; ma non ha ragione nelle conseguenze che trae da queste caratteristiche dd pensierodi Vitoria, che non rendono il domenicano un monacomedievale, ma semmai una figura di pensatore cheestende alle novità del dercubrimienlo un paradigmatradizionale - quello deUa giustizia, cioè dell'ordine razionale dell'essere, di radice divina e poi di elaborazione umana -, modificandolo e trasformandolo in un mo·dello di regoIazione delle relazioni internazionali suscettibile di importanti sviluppi futuri.
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5.2.2. Ma quel modello è anche ricco di problemi, chenon stanno tanto in ciò che vi è ancora di medievale inVitoria (come ammettono anche i suoi estimatori modernizzanti), né in ciò che in lui vi è di moderno (comeinvece sostiene Schmitt). I problemi stanno proprio nell'impianto oggettivo della giustizia.
e risultano, come diretta conseguenza, alcuni tratti peculiari e problematici nella dottrina della guerragiusta. il primo dei quali (DIB IV, I, 2 e 5; IV, II, 5) è che- in linea con la dottrina tradizionale - il vincitore/giusto si trova ad essere il giudice del vinto/ingiusto, e adavere il diritto/dovere di punirlo (non è contemplata,perché ininfluente sotto il profilo teorico, l'ipotesi che,nella pratica, il vincitore sia il responsabile di una guerra ingiusta: il giudizio di condanna resterehbe in ognicaso invariato). Che il principe che conduce una guerragiusta sia iudex in causa propria ha effetti di grande durezza sulla conduzione della guerra e sulla gestione della pace, ma non produce, in Vitoria, ('effetto devastante di uno stato di natura a tal punto anarchico che se nedebba a tutti i costi uscire: a differenza di quanto è previsto da Hobbes, per Vitoria è indiscutibile che esistarealmente la trama ordinata della giustizia a sostenerel'umanità, e a garantire l'univocità, la non contraddittorietà e la non distruttività, del concetto di guerra giusta.La giustizia è oggettiva, non soggettiva; e ciò significache essa esiste univocamente anche se i principi erranonell'attribuirsela ciascuno per sé.
La distanza fra Vitoria e la modernità piena è tuttaqui: nel fatto che il domenicano non può far discendere dal cumulo di errori soggettivi dei principi l'assunto, su cui si fonda la politica moderna, che la giustizianaturale è assente - o poco o per nulla rilevante - dal·l'orizzonte delle relazioni interstataJi. e che va sostitui-
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la dal combinarsi storico e artificiale di ragione e potenza, dallo ius publicum europaeum. Vitoria sa beneche spesso la guerra fra cristiani è condotta, in buonafede, come bellum utrimque iustum (DIB IV, II, 9) siaper quanto riguarda i sudditi (che hanno l'obbligo diobbedienza in re dubia) sia perfUlO per quanto riguarda i principi (per una invincibile ignoranza, che tuttoscusa, o per un esame erroneo, benché accurato, dellecause di guerra). on ci sono, però, in Vitoria, le conseguenze convenzionalistiche - che lasciano la questio·ne della colpa alla coscienza personale dei principi, eche giustificano la guerra a partire non dalla giustacausa ma dallo iuslus hOSlis, cioè ne fanno una faccenda di Stati, un bellum utrimque iustum all'interno dello ius publicum europaeu,,"8 - che la modernità matura ha tratto tanto dalla crescente difficoltà a definire laiusto couso, quanto dalla catastrofica violenza implicitanella pretesa che la guerra sia giusta (cioè un'esecuzione di una sentenza) da entrambe le parti. Per Vitoria,in una guerra deve essere sempre distinguibile, in lineadi principio, chi ha ragione da cbi ha torto, in modounivoco e cerro: e quindi non può esistere, in quantosarebbe assurda, una guerra giusta da entrambe le parti (DIB III, 2 e IV, I, 6 e 9), e dunque gli hostes nonpossono essere, modernamente. oequoliter iusti. E nonc'è nemmeno il probabilismo gesuitico col suo sostanziale filoassolutismo: Vitoria sa bene che giustificare laguerra attraverso la mera probabilità che il principeche la dichiara abbia ragione - e non attraverso la certezza morale e razionale della iusto causo - sarebbefonte di guerra senza fine (DIB IV, I, 6) perché, a differenza della verità e della giustizia, la ammissibilità del
48 E. de Vattel, udroi/ des Genr (1758), libro m, cap. 12, in Gal.li (a cura di), Guerra, dt., pp. 96-98.
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5.2.2. Ma quel modello è anche ricco di problemi, chenon stanno tanto in ciò che vi è ancora di medievale inVitoria (come ammetrono anche i suoi estimatori mo·dernizzanti), né in ciò che in lui vi è di moderno (comeinvece sostiene Schmitt). I problemi stanno proprio nell'impianto oggettivo della giustizia.
Ne risultano. come diretta conseguenza, alcuni tratti peculiari e problematici nella dottrina della guerragiusta. TI primo dei quali (DIB IV, I, 2 e5; IV, II, 5) è che- in linea con la dottrina tradizionale - il vincitore/giusto si trova ad essere il giudice del vinto/ingiusto, e adavere il diritto/dovere di punirlo (non è contemplata,percbé ininfluente sotto il profilo teorico, l'ipotesi che,nella pratica, il vincitore sia il responsabile di una guerra ingiusta: il giudizio di condanna resterebbe in ognicaso invariato). Che il principe cbe conduce una guerragiusta sia iudex in causa propria ha effetti di grande durezza sulla conduzione della guerra e sulla gestione della pace, ma non produce, in Vitoria, l'effetto devastante di uno stato di natura a tal punto anarchico che se nedebba a tutti i costi uscire: a differenza di quanto è previsto da Hobbes, per Vitoria è indiscutibile che esistarealmente la trama ordinata della giustizia a sostenerel'umanità, e agarantire l'univocirà, la non contradditto~
rietà e la non distruttività, del concetto di guerra giusta.La giustizia è oggettiva, non soggettiva; e ciò significache essa esiste univocamenre anche se i principi erranonell'attribuirsela ciascuno per sé.
La distanza fra Vitoria e la modernità piena è tuttaqui: nel fatto che il domenicano non può far discendere dal cumulo di errori soggertivi dei principi l'assunto, su cui si fonda la politica moderna, che la giustizianaturale è assente - o poco o per nulla riJevante - dall'orizzonte delle relazioni interstatali, e che va sostitui-
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ta dal combinarsi storico e artificiale di ragione e potenza, dallo ius publicum europaeum. Vitoria sa beneche spesso la guerra fra cristiani è condotta, in buonafede, come bellum utrimque iustum (DIB IV, II, 9) siaper quanto riguarda i sudditi (che hanno l'obbligo diobbedienza in re dubia) sia perfmo per quanto riguarda i principi (per una invincibiJe ignoranza, che tuttoscusa, o per un esame erroneo, benché accurato, dellecause di guerra). Non ci sono, però, in Vitoria, le conseguenze convenzionalistiche - che lasciano la questione della colpa alla coscienza personale dei principi, eche giustificano la guerra a partire non dalla giustacausa ma dallo iustus hoslis, cioè ne fanno una faccenda di Stati, un bellum utrimque iustum all'interno dello ius publicum europaeunt'8 - che la modernirà matura ha tratto tanto dalla crescente difficoltà a definire laiusta causa, quanto dalla catastrofica violenza implicitanella pretesa che la guerra sia giusta (cioè un'esecuzione di una sentenza) da entrambe le pasti. Per Vitoria,in una guerra deve essere sempre distinguibile, in lineadi principio, chi ha ragione da chi ha totto, in modounivoco e certo: e quindi non può esistere, in quantosarebbe assurda, una guerra giusta da entrambe le parti (DIB III, 2 e IV, I, 6 e 9), e dunque gli hostes nonpossono essere, modernamente, aequa/iter iusti. E nonc'è nemmeno il probabilismo gesuitico col suo sostanziale filoassolutismo: Vitoria sa bene che giustificare laguerra attraverso la mera probabilità che il principeche la dichiara abbia ragione - e non attraverso la certezza morale e razionale della iusta causa - sarebbefonte di guerra senza fme (DIB IV, I, 6) perché, a differenza della verità e della giustizia, la ammissibilità del
.8 E. de Vand, Ledroil deI GenI (1758), libro DI, cap. 12, in Gal·li (a cura di), Guerra, cit., pp. 96-98.
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diritto può stare da entrambe le parti: e infarti in casodi incertezza sostiene che la guerra sia illecita (DIB IV,I, 8). Solo la certezza della giusta causa, e quindi deltorto altrui, è fonte di legittimità della guerra.
Insomma, la consapevolezza deUa problematicitàpratica della definizione corretta di guerra giusta (DIBIV, I, 9) agisce in lui solo in via prudenziale e non di principio, cioè come riconoscimento di una umana debolezza che deve indurre a comportamenti moderati, e noncome una caratteristica strutturale e oggettiva della ma·dema politica statualizzata: la guerra giusta da entrambele parti (per ignoranza e buona fede) sarà anche frequente di fatto (DIB IV, II, 9), ma, per Vitoria, non escedal suo s/alus di impossibilità logica e morale. La guerradeve poter essere sempre giudicata moralmente, e il bellum ius/um essere distinguihile dal bellum inius/um.
Questo primo tratto problematico della dottrinadella guerra giusta, originato dall'oggettività della giustizia, ne determina uo altro: il vincitore/giusto è panein causa e al tempo stesso deve essere sopra le parti, ecomportarsi Don come un accusatore ma come «un giu·dice che siede fra le due comunità politiche, quella chesubì l'offesa e l'altra, che la fece» (DIB, Conclusiom).L'impianto argomentativo di Vitoria, fondato sulla og·gettività della giustizia, compona insomma l'assenza diuna istituzione terza e super partes - che per Vitoria po.teva essere solo il papato e quindi sarebbe suonata co·me ierocratica -, e implica che al singolo principe sichieda di essere coinvolto nel conflitto e al tenlpo stesso di astrarsene, in una posizione superiore. Come si èvisto, un principe che per il proprio Stato combatte unaguerra giusta è autorizzato non solo dalla propria singolarità ma anche dall'intera umanità (DIB IV, I, 5): rap-
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I resenta tanto la propria volontà di esistenza politicaquanto il mondo intero.
Questo immediato cortocircuito fra particolare euniversale si attua in Vitoria perché la giustizia è po.la da una parte come universale presenza fondativa
del mondo della pratica, come bonum IOlius orbis, madall'altra è interpretata, al contempo, come il prodotto dell'azione politica concreta dei singoli principi,che combattono la guerra giusta per difendere il particolare bonum del loro Stato. Per Vitoria non c'èquindi comraddizione fra la universalità razionale della pace e il fatto che essa sia resa efferruale dall'autocomprensione utilitaristica del proprio bonum da parte di ciascuno Stato. Il conflitto politico moderno - generato dalle logiche della sovranità, capaci di attrarrel'universalità della ragione nel proprio campo gravitazionale e di sconvolgere l'ordine del mondo, striandolo con confmi che sono anche barriere alla comunicazione razionale e alla uguaglianza morale degli uomini - gli pare quindi poter essere risolto e superato grazie alla sua visione della 4<pace dinamica»"9, ossia grazie all'assunto, cristiano e umanistico, che la giustiziapuò sì essere sempre offesa e ferita, ma la sua tramaordinativa non può mai essere del tutto lacerata: il chelo pona a ipotizzare una pace che consiste in un con·dnuo agire riparatorio (in un susseguirsi di guerre giu·ste) ad opera dei singoli principi. Mentre la pace perKam ha caratteristiche radicali di necessità razionaleche implicano, anche quando si configura provvisoriamente come federazione di Stati, che la ragione del·
49 Pereii.a, Estudio p"/iminor. Lo lesis de ~ po1. dimimiC/l, cit., p.64; analoghe considerazioni in M. Scauola, GU~Q giusta eordinedel·/o giuslizio nello dal/n·na di Domingo de Sala, in $cartola, Figure de/i4guerra, cit., pp. 89·110.
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lo Stato debba spogliarsi delle proprie logiche particolaristiche, la pace di Vitoria, invece, riposa sull'assunto della giustizia come fondazione oggettiva dellapolitica, e sull'assenza, quindi,. della contraddizio~e,diprincipio fra particolare e unIversale, fra s~atualJta epace. Si dirà che Vitoria non ha ancora. pIena esperienza dei tratti nichilistici dd mondo poliuco moderno; e ciò è vero; ma è anche vero che in ogni c~so
l'impianto complessivamente oggettivo e f~ndauvo
dd suo pensiero è, necessariamente, meno r~dicale ?e1razionalismo moderno, tanto nella costruzione artlfi·ciale dello Stato particolare (Hobbes) quanto nell'daborazione dd dovere della pace universale (Kant).
6. Vitoria non è un autore 'premodemo', cioè parzialmente arretrato rispetto agli standard dd razionalismolaico (che peraltro giunge a maturità un secolo dopo lasua morte); piuttosto, le sue posizioni sono un esempiodi modernizzazione dd pensiero politico cattolico, esooo sviluppate, e SvUuppabili, secondo direttrici parallde - e quindi non coincidenti - rispetto alle vicendedella modernità 'laica', che ruota intorno allo Stato e alsoggetto. Quella di Vitoria è una modernità a sc.arso tasso di secolarizzazione: il trascendente non 51 e ancoramutato in trascendentale. né il teismo in deismo, e Dio,più che garanzia, è ancora il fondamento dell'ordinedell'essere e della sua razionalità oggettiva. Dal puntodi vista spaziale, poi, il uovo Mondo non è, per lui, oc·casione di una rivoluzione concettuale e politica - modernamente centrata sulla differenza e sull'equilibriofra spazio europeo, spazio libero extraeuropeo, e marelibero - ma viene inseri(Q in una sorta di estensione orizzontale della rerpublica christiana.
Vitoria è insomma l'artefice di una delle linee di pen-
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siero cattolico cbe, attraverso percorsi più o meno tortuosi (una tappa ne è Rosmini nd XIX secolo, e un'altra ne è Maritain nel XXj ma ovviamente si possonomoltiplicare e diversificare gli esempi e i tragitti), giungono a liberare l'universalismo cattolico e la sua teoriadella dignità umana dalle ipoteche gerarchico-ecclesiastiche del 'regime di cristianità', e si conciliano con lateoria dei diritti umani, pur senza condividerne l'individualismo e illaicismo, com'è appunto avvenuto con il
oncilio Vaticano II. È proprio la mancata coincidenzadel pensiero di Vitoria con la vicenda del razionalismomoderno ad averne permesso la ripresa e la rielaborazione in polemica con lo iUI publicum europaeum, sianella fase (la seconda metà dd XIX secolo) dd recupero IJberale"', sIa quando (nella seconda metà dd XX secolo) la vaIorizzazione di Vitoria è stata uno dei contributi della cultura cattolica all'umanesimo giuridico post-totalitaflO e al nuovo diritto internazionale _ quellodelle dichiarazioni dei diritti e dell'Onu.
Ciò è per alcuni versi una forzatura: il domenicanospagnolo vuole 'modernizzare'la dottrina morale cattolica applicandola alle rdazioni internazionali e spostandone il baricentro dal rapporto pontefice/imperatore eda qudlo pontefice/Stati al rapporto giustizia (morale)/Stati, ma è estraneo al problema dd rapporto dialettico fra la volontà di potenza dello Stato (il fulcro dd modo moderno di intendere il diritto internazionale) e i diritti universali dei singoli (che a loro volta costituisconoil centro della modalità contemporanea). Tuttavia, il suopensiero internazionalistico, nd quale la dignità dell'uomo è ben presente, non è incompatibile con la successi-
'0).8. Scott, in TbeSJN11ti1b uJ1taplion, cit., dedica un capitolo aTbl' /ibni1/mn o/Viloria (cap. XIII, pp. 275-280).
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va teoria dei diritti umani. Anzi, è stato riscopeno proprio perché suppona una reale esigenza di pace, dopoche Ja modernirà ha rrasfonnato la guerra fra gli Stati inuna guerra contro le società e contro l'umanità, e ha condotto lo ius pub/icum europaeum in un vicolo cieco.
Se ciò è vero per il pensiero internazionalistico di Vi·toria, per quanto riguarda specificamente la teoria dellaguerra giusta, che pure strutturalmente ne dipende, vi s0
no da fare considerazioni parzialmente diverse. eI conresto rardo-moderno del XX secolo, dominato dallaguerra fredda, e nell'affacciarsi, all'inizio del XXI seco·lo, di una realtà per molti versi post.moderna, quale quel.la globale, che segue la fIne del comunismo, la tematicadella guerra giusta ha fatto una decisa ricomparsa: ora come guerra di resistenza e di liberazione, ora (più spesso)come tentarivo laico (dal punto di vista della salvaguar.dia dei diritti umani, interpretati in senso soggettivo e democratico) e carrolico (all'interno del comandamentodell'amore per il prossimo, e come specificazione delquinto comandamento) di giudicare la minaccia dellaguerra nucleare, di delineare le condizioni che rendonomoralmente legittimo ricorrere alla guerra e di determinare (e limitare) che cosa sia lecito nello svolgimento diquesta; guerra giusta, infme, è anche quella, più propriamente defmibile 'legale', che si svolge su mandato del·l'Onu, quando ne occorrono le condizioni (autodifesa diuno Stato aggredito, o intervento umanitario). In generale, la ripresa della tematica della guerra giusta sta a indicare che non è più legirtimatala guerra come diritto disovranità, come naturale espressione sulla scena internazionale della potenza politica degli rati; e che la guerra- in età nucleare - è di farro quasi del rutto illegittima, ein ogni caso deve essere considerata un'eccezione, e ve-
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nire rigorosamente limitata quanto allo ius ad be//um, eseveramente regolamentata quanto allo ius in betlo'l.
i tratta però di teorie che sono state anche COntesta~e e combarrute, dentro e fuori la Chiesa; in primo luogo,In nome del principio che nella dotrrina della guerra giusta sopravvive l'idea di una Chiesa ancora 'costantiniana'e 'tridentina' che, senza essere più potere politico diret.to, conserva un rapporto privilegiato con i poteri politiCI, da Cli non prende a sufficienza le distanze, e in basealla considerazione che per ottenere la pace vale più lapromozione della giustizia che non l'elaborazione di unaleoria della guerra giusta; in secondo luogo perché le dotlrine?ella guerra giusta sono di farro impraticabili, per lacaslsuca quasI barocca a cui danno origine, e per le contraddizioni in cui incorrono (non è facile dettare nonnemorali su chi si può uccidere nelle attuali forme di combattimento, o su quanto si può torrurare)'2. E si tratta diteorie per certi versi lontane da quella di Vitoria, quantoa presupposti storici, teorici e politici: si pensi solo al fatoto che oggi esistono istituzioni internazionali che in lineateorica sollevano gli arrori politici dall'obbligo di esseregiudici in causa propria. Ma, anche se la storia le ha resepiù smaliziate, alle teorie della guerra giusta sono immanenti due rischi, interni anche al pensiero di Vitoria.
,. M. Wa..lttr, CUet'Tr gius/~ ~ tng'us/~. Un dISCOrso mO"lk con~U11lplifi..C8v.'oni s/'!rU:!'~ (19n). Napoli, Liguori, 1990; sulla pienarongnllta ~ .Virana ns~to alla posizi~ della Chiesa sulla guerragIUsta, ~ di Pio xn sulla guern. atomica, dr. Urdanoz ln,rodua:i6" Il
/o R~kcri6". s~gund4, in OhriU, cit., pp. 727·810: nO-757; si veda anoch~ ~/«h1~11tO della Chiesa Ca//olica, Città del Vaticano, LibreriaEdunce Vatlc~na, J99~, ai punti 2302·2317; sulle problematiche in.lerne alla t~(>na cattohca della guerra giusta dr. Minois. La Chiesa eltJ guerra, CIl., pp..:S37-591.
'2 Un eso:nPio ~ queste contnlddizioni è dato da M. 19natieff,The .'essn EVIl Pollttcal E/hiCI In 1m Age 0/T~" Edinburgh Uni.verslry Press, 2004.
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li primo dei quali è di restare al di qua di una efficacecomprensione della guerra: infatti, per quanto sia coerente. generOSO e per certi versi lungimirante il tentati~ovitoriano di teorizzare la guerra giusta, e per quanto siaanche 'concreto' cioè inserito nelle logicbe politicbe delsuo tempo, la pr~cupazione di a~c~lare un gi~?iziosulla guerra subordrna fatalmente a se l eSigenza (pIU Ull~le ai fmi della pace) di comprendere le cause strutturalidella guerra, i suoi rapporti - in tutta la compl~ità delloro articolarsi - con le condizioni sociali e con I SlstemJ
politici ed economici. E assume, q~di, ~a connotazione astratta, solo morale, cbe rende difficile fame le ba-si per un ordine giuridico concreto e~ efficace. .
Un altro limite, opposto, delle teone della guerra gIUsta consiste invece proprio Dd fatto che possono essere,appunto come pensiero morale, fin trop~ attive politicamente; che cioè possono mtrodurre nell o~dme m(~rnazionale forti elementi di instabilità, propno a pamredall'idea che esista una giustizia oggettiva, oggi odIa forma dei diritti umani da rispettare, le cui violazioni vannoautomaticamente perseguite. Una simile idea, infatti,consente a rigore una guerra non solo difensiva, ma anoche offensiva, come guerra umanitaria o anche comeguerra preventiva (bencbé quest'ultima fattispecie nonsia presente in Vitoria, il quale non ac~et~a che venganopuniti i torti prima cbe vengano cOmpl~lI: DIB IV, II, I).Si dirà cbe oggi la difesa della glUstlzta e affidata, almenoin teoria non ai singoli Stati ma ad un'istituzione supe,partes c~me l'Onu, il cui obiettivo è garantire sia i~ttiumani sia le sovranità statuali; ma sono le stesse lOgIchedella guerra giusta a non escludere il rischio cbe una potenza preponderante si senta legittimata a punire le offese alla giustizia ovunque nel mondo si p~esent1no. V,ltOria teorizza, è vero, l'impossibilità che esLSta un dommus
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orbis; nelle sue pagine risuona l'invito alla moderazione,unito alla preoccupazione che tutte le potenze bdlige·ranti reputino in buona fede di essere nel giusto; ma questi segnali di acutezza intellettuale e di spirito prudenziale non bastanoa far sì cbe la sua teoria della guerra giusta, come in fondo ogni altra, non rischi di trasformare la«pace dinamica» in una «polizia perpetua»".
Così, l'assunto centrale della teoria della guerra giusta - di Vitoria, ma anche di quelle più vicine a noi neltempo-, owero che sia possibile ancbe se non facile giustificare il male (la guerra), nonnarlo e limitarlo, a fm dibene, cioè di pace, corre il rischio di non risultare quelloche vuole essere, cioè un discorso critico sulla guerra, edi rovesciarsi invece nell'opposto. ossia di essere attrat·ta nella logica della potenza politica e di rivelarsi infineun discorso della guerra, un'ennesima giustificazionedell'antica schiavitù del conflitto annato, una funzionedi autoleginimazione interna - per di più. inconsapevolmente - al nicbilismo occidentale, ormai planetario.
Quindi, anche per chi è insoddisfatto delle tautolo·gie del 'realismo' politico, e per cbi all'opposto vedel'interpretazione giuridico-universalistica delle rdazio·ni internazionali sempre più largamente smentita daJcorso dei fatti, la dottrina della guerra giusta non puòessere che un complemento - e non un momento centrale - nello sforzo di pensare la guerra: cioè può esprimere la tensione a condannare la guerra, a lirnitarne gliorrori, ma è anche. aJ tempo stesso, una dimostrazionedi quanto profondamente le istanze giuridicbe e morali di pace siano, loro malgrado, esse stesse esposte alla
" D, Zolo, l rignori ddla paa. Una cn/iC/J d~l glabalirmo giun"Ji·co, Roma, Carocci, 1998; Id., Chi dic~ umam~à. Gue"a, dinì/o ~ ardi·ne globale, Torino, Einaudi, 2000.
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guerra, polemiche e polemogene. L'idea - largamentecondivisibile - che sia moralmente doveroso razionalizzare e pacificare la politica internazionale, e accedere aforme di cooperazione fra le nazioni, non può coincidere, oggi, con la teoria della guerra giusta; semmai, ilcompito che ci attende è considerare la giustizia, piùche come metro oggettivo della guerra giusta, comeprocesso di emancipazione reale dell'umanità dalle ingiustizie che costituiscono la trama ddJe rdazioni internazionali: un processo che si fonda sulla comprensionedella storia e dci contesti concreti più che sull'a prion°della giustizia; un processo, infIDe, al quale può a voltenon essere estranea la violenza, legittimata, però, piùche da astratte istanze morali, da puntuali esigenze contingenti.
Eppure, Vitoria parla anche a noi, il che lo rende unclassico. E non solo per il suo ruolo intellettualmentecruciale agli inizi della modernità e per la forza dd suo ritorno nd momento dd declino di questa, ma anche peril suo senso ddJa realtà, che gli consente di spalancareuna finestra, che ci riguarda da vicino, su guerre di popoli accecati, su principi ingannati dalle proprie ideologie, e su cattivi consiglieri che non voglioDo o nOD sannocapire le ragioni dd giusto e dd tono. Inoltre, la serietàdelle sue teorizzazioni - soprattutto. che non esiste undominus orbis. e che le genti non possono avere altra tu·tela che se stesse - è quanto meno di monito a chi. oggi,si investe del compito di esercitare la guerra giusta, perchéin ogni caso valuti il peso e lacogenza delle dure condizioni (di rigore morale, di buona fede, di coerenza, dimoderazione) che questa impone ai vinti ma anche aivincitori, agli 'ingiusti' ma anche ai 'giusti'.
ota al testo
otizie sulla vicenda testuale di DIB sono in L. PereiiaE~tudlO prelimil1ar La tesis de la paz dil1amica, in F. d~Vltor:a, Relectio de iure belli, o Paz dil1amica. EscuelaEs[!al1ola de la Paz. Primera gel1eraciol1, a cura di L. Perena, V. Abril, C. Baaero, A. Garda, F. Maseda, Madrid, Conselo Supenor de Investigaciones Cientifìcas1981', pp. 29-94: 81-94. '
Le Relectiones sono circolate manoscritte fino allaprima ~dizione1a.tina, a cura di]. Boyer, Lione, 1557; aquesta e seguJta, m fone concorrenza l'edizione a curadi A. Muiioz, Salamanca 1565. '. Dopo alcune edizioni dd xvne dd xvm secolo, nonlI1nO~~tlVe,nel XX secolo la prima edizione critica-a lun.go utilizzata, soprattuno in ambiro anglofnno - delle dueRe!ecltOl1es, Dell1dis e DIB, appare nd 1917 nei ClassicsolIl1tematiol1al Law (Washington, Camegie Institution~917), con Introductiol1 di E. ys (pp. 9-53 l; il testo latin~c procurato da H. F. Wright (DIB si legge alle pp. 268-297)e la traduzione inglese da].P Bate (pp. 163-187)1. '
. I Altre infIUttlci induzioni ingJesi sono qudJ~ d.iJ.B. Scott, TiNSpamrh eonupllOn ollnl"'lal,onal uw. Francisco d~ V,/onQ tlnd hir
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Discussa e poco utilizzata è invece l'edizione criticacomplessiva di L.G.A. Getino, Relecaimes leologicosdel maeSiro fra, Francisco de Viloria, Madrid, Asociacion Francisco de Viroria 1933-1935,3 voli.
DIB - in un testo critico nuovamente stabilito, contraduzione spagnola - si legge poi alle pp. 811-858 diObras de Francisco de Viloria. Relecciones teologicos, acura di T. Urdanoz, Madrid, Biblioteca de Aurores Crisrianos, 1960.
Buona anche l'edizione di Leçons sur les Indiens elsur le droil de guerre, a cura di M. Barbier, Genève, Librairie Droz, 1966.
Infme, DIB ha trovato la sua fonna per ora definitiva in F. de Viroria, Releclio de iure belli, o Pax dinamico.Escuela Espanola de la Pax. Primera generacion, a curacU L. Perciia, V. Abril, C Baciero, A. Garcia, F. Maseda, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, 1981' (prima ed. 1967); è una ecUzione criticanuova, con apparato di note e traduzione spagnola, chetiene conto tanto dei due cOcUci (di Palencia e di Valencia) che tramandano DIB quanro delle due ecUzioni astampa cinquecentesche.
DalI'edizionePereiia 1%7-1981,coo la correzione dialcune sviste o lezioni dubbie, è tratto infine il testo latino (a cui si affianca la traduziooe tedesca) di De Indi< ecU DIB (quest'u1timosi legge alle pp. 542-605 del vol.lI),raccolto in Francisco de Vitoria, Vorlerungen. V6lkerrechi, Poli/ik, Kirche, a cura di U. Horst, H.-G.]usteohoven, J. tiiben, Stuttgart-Berlin-K6ln, Kohlhammer,
uw o/NQtions, Oxford-London, Clarendon.Mulford, 1934, e j Poli·tical W,ittngs, a cura di A. Pagden e J. Lawrance, Cambridge.NewYork, Cambridge UniversilY Press, 1991 (trad. di sette delle trediciRd«aonn).
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1997,2 voli., con un saggio introduttivo di U. Horst Leben und Werke Francisco de Vilorias, pp. 13-99 (le ~treRelecllOnes sono tralte dall'edizione Urdanoz 1960).,. S, traduce da questa edizione, seguendone le lezioni,
I tnterpunZJone e ~uasj sempre gli'a capo', e correggendo alcune.mende. tipografiche; le parentesi acute e gli altn segm diaCfltlCI- presenti nel testo latino ma non nella traduzione, sulJ'esempio dell'edizione ;edesca _ segnalano le presumibili integrazioni (autorizzate dal Maes~ro) .di dis~epoli di Vitoria, o le divergenze tra i testi originali, o le mtegrazioni dei curatori.
Per le note si è fatto riferimento alle edizioni Pereiia1981 e Horst-]ustenhoven-Stiiben 1997, semplificandomoltissimo, e integrando qualche dato mancante.
La sigla PL seguita da un numero indica i volumi della Palrologia Lalina curata daJ.-P Migne; si aggiunge lamenzIOne delle colonne a cui si riferisce il brano citato.
CG.
De iure belli
Praeludiurn
Quia possessio et occupatio provinciarum illarum barbararum. quos Indos vacant, videntur tandem maximeiure belli posse defendi, ideo postquam in prima relec·tione disputavi late de tirulis, quos Hispani possuntpraetendere ad alias provincias, sive iustis, si~e iniusus,visum est de iuce belli brevem utique disputatlonem habere, ut superior relectio absolutior videatur. Sed quiatemporis angustia compressi non poterirnus hic tractare amnia, quae in hac materia dispurari possent, ideonon licuit extendere calamum pro amplitudine et di·gnitate materiae, ideoque salurn dicemus, quanturntemporis brevitas patieeur. !taque salurn norabo proposiriones in hac materia cum brevissimis probationibusabstinens me a multis dubiis, quae hac disputationeconferei possent.
Tractabo autem quatuor quaestiones:Prima an omnino Christianis siI /icitum be/la gerere.Secunda, apud quem sii iusta Due/ori/as oul gerendi autindicendi bel/um.
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Premes a
Poiché il possesso e l'occupazione delle terre dei barbarichiamatiIndiani sembrano dopo tutto poter essere legit.tlmatl pnmanamente sulla base del diritto di guerra, mi èparso opponuno - dopo che nella prima dissenazione hodiscusso ampiamente i titoli, giusti e ingiusti, in base aiquali gli Spagnoli possono pretendere quelle terre _ trat.lare brevemente il dirino cfj guerra, per dare maggiorecompletezza alla precedente dissertazione. Ma poichéper ristrettezza di tempo non potremo in questa sede par.lare di tutto ciò di cui su questo argomento si può trana.re, non ci è stato possibile estendere il lavoro quanto sa.rebbe stato richiesto dall'ampiezza e dall'imponanza dell'argomento e della materia; perciò parleremo solo quanlO lo consentirà la !imitatezza del tempo'. E così mi !imi.terò soltanto ad annotare le mie tesi su questa materiacon dimostrazioni brevissime, e mi asterrò da molti dub~bi che potrebbero essere avanzati in questa discussione.
Tratterò, in ogni caso, quattro questioni:La prima, se in generale sia leci/oaiCristlamfare lo guerra.La seconda, chi abbia l'auton"tà di condu"e o di dichiarare la gue"o.
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Tenia, quae possint el debeant esse C/Jusae iuSli bel/i.
Quarta, quid et quantum liceol aristionis contra suoshosles.Hae eront quaestiones principales.
La terza, quali possano e debbano essere le C/Juse di unaguerra giusta.La quarta, che cosa ai Cristiani sia ledto fare, e in qua·le misura, contro i nemici.Saranno queste le questioni principali.
QuaesLio prim..
An omnino Christianissit licitum bella gerere
l. <Exponirur sensus huius quaestionis.>2. LiceI Christianis militare el bella gerere.
I. Qu:mrum ad primam posset videri, quod omninobella smt mterdicta Christianis. Prohibitum enim videtur elS se defendere, iuxta illud: Non vos defendentes, caTlSstmt, sed date /ocum irae (Rom 12,19). Et Dominus ineva.n~elio: Si quis te percusserit in Ul10m maxi!lam~ proebe dII el a/teram. Et in eodem capite: Ego aulem dico vab~s non resistere ma/o. Et: Omnes, qui occeperint g/odtum, gladio penbunl.
Ad hoc satis videtur responderi, quod omnia haccsunt in consillo, non autero in praecepto. Satis enim magnu~ ~conveniens est, si bella omnia, quae aChristianisSUSClplUntur, ~int Contra consilium Christi redemptoris.
In COntraCium tamen est sententia omnium docto.rum et usus in universali ecclesia receptus. Omnes enimdemonsrrant in muJtis casibus esse licita bella.
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Prima quesLione
e in generale ia lecitoai Cristiani fare la guerra
l. Si espone il senso della questione.2. Ai Cristiani è lecito l'esercizio delle armi, e fare la guerra.
I. Per quanto riguarda la prima questione, potrebbesembrare che le guerre siano del tutto interdelle ai Cristiani. Infatti, ad essi sembra sia proibito difendersi, secondo il dellO di Paolo (Rom 12,19): «non vendicatevi,carissimi, ma lasciate che agisca la collera divina». E ilSignore nel Vangelo dice: «se qualcuno ti percuote nella guancia destra, porgigli anche )'altra», e nello stessocapitolo: «io vi dico: non resistete al male» (Mt5, 39); einoltre: «tutti quelli che ptendetarmo la spada periranno di spada» (MI 26, 52).
Sembra sufficiente rispondere che lUtti questi non sono comandamenti ma esortazioni. È infatti già abbastanza disdicevole che tulle le guerre intraprese dai Cristianisiano contrarie alle esonazioni di Cristo redentore.
Comunque sia,l'opinione di tutti i dottori è contra·ria, e così anche la consuetudine delia Chiesa universale.Tutti infatti dimostrano in molteplici circostanze che laguerra è lecita.
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. Pro qua~tionjsexplicatione notandum, quod licetltlter ca~o.li~os s~tlS conveniae de hac re. Lurnerus ta~en, ~w nihil rcliquit incontaminatum, negar Chrisriams e.nam ~dve~us Turcas licere arma sumere, innixust~~ ~ loclS sc~pturae supra positis, tum etiam, quia diCit. ,SI ~urca.e Invadan! chrir/i(Jnitatem~ ilio est va/untasD~I) ,CUI rerzs/ere non "~et. In qua [amen re non ira po_[un ~mp~~ere Gem:ams hominibus ad arma paratis sicut In. allis dogmatlbus. Et quidem Tertullianus nonadeo Vldeturabhorrere hanc sententiam. Nam in librof?e corona ,!UllllS dlsputat, ao in [mum Christianis militla convenJat. Et tandem profecto in iIIa opinione videtur pe~erare, ut C~ristianomilitare interdictum putet, CUI, rnqult, nec llllgare qurdem liceat.
2. Sed relictis extraneis opinionibus respondetur adqua~~on.em per urucam conclusionem taJem: LiceIChmtloms militare et bello gerere.
. Probatur haec conclusio ex Augustino in multis 10CIS. Nam et Contro Foustum et Libro LXXXIII quoestionum et De verbis Domini et 22 Contra Manichaeos et insermone De puero centurionis et in epistola Ad Bom/actum hanc conclusionem diserte adstruiL
Et probatur, ut probat Augustinus, ex verbis Ioannisb.arustae: :v.eml~em con~tiatis, nemin; iniuriam feceri.tlS. Ergo st, IJlqwt Augustlnus, Christiana disciplina omntnO bello eulporet, hoc potius comilium solutis petentl'bus '~ evangellO daretur, ut abicerent arma seque mllitiaeommn~ s~btraherent, Dictum est autem cis: 'Neminemconcutlatls) contenti estote stipcndiis vestris!',
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Per chiarire la questione si deve notare che, mentrefra i cattolici c'è consenso al riguardo. nondimeno Lu·tero _ che corrompe tutto - nega che ai Cristiani sia le·cito prendere le armi, anche contro i Turchi; egli si fonda sui passi della Scrittura sopra citati e inolrre dice: «sei Turchi fanno guerra alla cristianità è questa la volontàdi Dio, a cui non si può resistere»I , Ma su questo pun·lO non è stato in grado di farsi obbedire, come invece gliè riuscito per le altre sue opinioni, dai tedeschi, uominipronti alle armi. Anche Tertulliano sembra non ripudiare questa opinione, dato che nel suo libro De coronomilitis si chiede se il servizio militase si adatti in generale ai cristiani'. E in definitiva sembra persistere nellatesi che esso sia vietato al cristiano, al quale, dice, «Ilonè lecito neppure portare qualcuno in giudizio».2. Ma, lasciate da parte le opinioni altrui, la mia risposta alla questione sta in questa sola conclusione: ai Cri·stiani è ledto prestare servizio militare, e fare la gue"a,
Questa conclusione è dimostrata da Agostino, inmolti passi. Infatti, egli ne offre una brillante dimostrazione in Contra Faustum, nel Liber LXXXIII quaestionum, in De verbis Domini, e ancora in Contra Mani·chaeos (libro 22), nel sermone De puero centurionis enella lettera a Bonifacio'.
E questa conclusione è dimostrata, come appunto faAgostino, a partire dalle parole di Giovanni Battista aisoldati: «non fate violenza ad alcuno, non fate ingiustizie ad alcuno» (Le 3, 14). Quindi, dice Agostino, «se ladottrina cristiana condannasse completamente le guer·re, il Vangelo darebbe, a coloro che lo richiedono per lapropria salvezza, il consiglio di abbandonare le armi edi sottrarsi del tutto alla vita militare. Al contrario, si di·ce loro 'non fate violenza ad alcuno, e accontentatevidelle vostre paghe'»4.
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Secundo probatur ratione sancti Thomae II-II, q. 40,a. 1: Licet uti armis et stringere gladium adversus malefactores et seditiosos cives et interiores, secundum illud:Non sine causa gladium portato Minister enim Dei estvindex in iram el: qui male agito Ergo etiam licet uti gla·dio et armis adversus hostes exteriores. Unde principibus dictum est in psalmo (82, 4): Eripite pallperem elegenum de manu peccatoris liberale.
Tertioin legenaturae hoclicuit, ut patet deAbraham,qui pugnavit contra quatuor reges (Cen 14, l-17).ltemin lege scripta, ut patet de David et de Machabaeis. Sedlex evangelica nihil imerdicit, quod iure naturali licitumsit, ut sanctus Thomas eleganter tradit l-II, q. 107, a.ulLUnde etiam dicitur lex liberlali< (lac l, 25 et 2, 12). Ergoquod licebat in lege naturae et scripta, non minus licet inlege evangelica. Et quia de bello defensivo revocati indubium non potest, quia vim vi repellere licet (ff. De illsti/ia et iure, l. Ut vim).
Quarto etiam probatur de bello offensivo, id est inqua non solum offenduntur, sed ubi petitur vindictapro iniuria accepta. Probarur auctontate Augustini Libro LX.XX111 quaeSlionllm et habetur capite Dominlls(23, q. 2): Iusta bella solent definir;, quae IIlcisCl/ntllriniurias, si genI vei civitas p/ec/endo est, quae ve! vindicare neglexit, qllod a suis improbe factllm est, vel reddere. quod per iniuriam ablatum est.
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In secondo luogo, quella conclusione è dimostrabil~secondo l'asgomento di san Tommaso (Ila lIae, 2<.L' I): elecito impugnare la spada e usare le arrm contro I delinquenti e icittadini sediziosi all'interno, sulla base del detlodi Paolo (Rom 13,4) «l'autorità pubblica non per nul:la potta la spada: essendo minima di Dio punisce chiopera il male». Quindi è an~he lecito servl:-'~ della spadae delle armi contro i nemici esternI. PerelO e stato dettoai principi nei Salmi (82, 4) «salvate il povero e il mendico e sottraerdi alle mani degli iniqui»,
,In terzo luogo, la guerra fu lecita nella legge di natura come dimostra Abramo che combatté contro qualtr~ re (Cen 14, 1-17); e anche nella legge delle Scritture come dimostrano Davide e i Maccabei. Ma la leggedd Vangelo non vieta nulla che sia ammesso dalla leggenaturale, come spiega con eleganza To~maso ~Ia llae,cvn ultimo articolo); è per questo che e deftruta «legge deÌJa libertà» (lac 1,25 e 2, 12). Quindi ~iò che eralecito nella legge naturale e nella legge sc:ltta ~ leCito an:che nella legge evangelica. E, inoltre, e lecito perch~non si può dubitare della guerra dif~nsiva, dato che «elecito respingere la violenza con la vIOlenza» (D,g. I, l,3: De iustitia et iure, legge Ut vim).
In quarto luogo, ciò si può dimostrare vero anche aproposito della guerra offensiva, cioè di quella guerranella quale non soltanto si subisce offesa, ma SI persegue anche la punizione ,di un'~~fesa. in prece.denza n,cevuta. Lo dimostra I autonta dI Agostmo (L,berLXXXIII qllaestionum), e il canone Dominlls: «si è ~liti defmire 'giuste'le guerre che vendican? ~e IngtUStlZle,
come quando si deve imp~rtire una pun~zlone a ~n popolo o a una città che abbIano omesso di pe,:,egulfe unatto ingiusto dei propri concittadini o dI restitUIre qualcosa ingiustamente sottratto»'.
Il
Quinto probatur etiam de bello offensivo, quia bel.lum etiam defensivum geri commode non potest, nisietiam vindieerur in bostes, qui iniuriam iam fecerontaut conati sunt facere. Fierent enlm hostes audacioresad iterum invadendum, nisi timore poe.nae dererreren.tue ab iniuria.
Sexto probarur, quia finis belli est pax et securitas reipublicae et <Augustinus inquit De verbi, Domini et AdBomfocium. Sed non potest esse securitas in re publi.ca,> nisi hostes coerceantur ab iniuria metu belli. Esserenim amnino iniqua condicio belli, si hostibus invadentibus iniuste rem publicam solum liceret rei publi.cae avertere hostes nec posser ulterius persequi.
Septimo probatur ex fIne et bono totius orbis. Pror.sus enim orbis consistere in felici sratu non posser, imm~ esser rerum omnium pessima condicio, si lycanniqUldem et latrones et raprores possent impune iniuriasfacere et opprimere bonos et innocentes nec licerer vi.cissim innocentibus animadvenere nocenres.
Ultimo probatuc, quia. ut saepe dicrum est, in moralibus potissimum argurnentum est exemplurn sancto:um et bonorurn. Sed fuerunt multi taJes, qui non salurnIn. bello defensivo tutati sum patriam resque suas, sedetIam bello offensivo prosecuti sum iniurias ab hostibusacceptas vel et.iam anematas, ut pater de Ionalha et Si-
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In quinto luogo, che anche la guerra offensiva sia le·cita è dimostrato dal fano che neppure la guerra difen·siva può essere condotta convenientemente se al contempo non si puniscono i nemici che hanno arrecato offesa, o che l'hanno tentata. Se infani non fossero distol·ti dal recare nuovamente offesa dal timore di una punizione, i nemici diventerebbero sempre più baldanzosi epropensi ad un nuovo attacco.
lo sesto luogo, lo dimostra il fano che il fme dellaguerra sono la pace e la sicurezza della comunità politica, come afferma Agostino (De verbis Domini; Epistulaad Bomfadu",r). Ma non ci può essere sicurezza in unacomunità politica se i nemici non sono costretti, dallapaura della guerra, a non recare offesa. Sarebbe infattiuna condizione di guerra del turto iniqua per una comunità politica ingiustamente invasa dai nemici, se lefosse lecito soltanto respingerli e non potesse prosegui·re ulteriormente le ostilità.
La settima dimostrazione deriva dalla fInalità, e dalbene di tutto il mondo. lnfani, il mondo non potrebbeavere alcuna condizione di felicità - e anzi ogni cosa sitroverebbe in gravissima condizione - se proprio i tiranni, i briganti, i saccheggiatori, potessero impunemente arrecare le proprie offese e opprimere i buoni egli innocenti, e non fosse lecito a questi prendere a lorovolta misure contro quelli.
Infine, l'ultima dimostrazione deriva dal fatto che- come spesso si è detto - in ambito morale una provaimportantissima è data dall'autorità e dagli esempi diuomini santi e buoni. Ma appunro molti di questi nonsolo hanno difeso la propria patria e i propri beni conuna guerra difensiva, ma hanno anche perseguito conuna guerra offensiva i torti ricevuti o tentati dai nemici,come appare chiaro da Gionata e Simone (l Moch 9, 38)
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mone l Mac 9, qui vindicaverunt mortem Ioannis fratris sui comra filios Iambri. Et in ecclesia Christiana patet de Constantino Magno et Theodosio Maiore et allisc1arissimis et christianissimis imperatoribus J qui multabella utriusque generis gesserunt J cum haberem a consiliis doctissimos et sanctissimos episcopos. Ergo nonest dubitandum de conclusione.
che vendicarono la morte di Giovanni loro fratello contro i figli di Jambri. La Chiesa cristiana lo dimostra conCostantino il Grande, con Teodosio I, e con altri famosissimi e cristianissimi imperatori, che condussero molle guerre di entrambi i tipi, avendo nei propri consiglivescovi santissimi e dottissimi. Quindi non si può dubi·tare di questa conclusione.
Quaest..io sccunda
Apud quern sit iusta auctoritasineliceneli ve] gereneli bellurn
l. BelIum defensivum quilibet polest suscipere, etiam ho.mo privatus.
2. Quadiber res publica haber auctoritatem indicendi et inferendi bellum.
J. Eandem auctoritatem habent quantum ad hoc principessicm res publica.
l. Pro qua sit prima propositio: Bellum defensivum qui/jbel polest susa"pere, etiam homo pn·vatus.
Haec patet. aro vim vi repellere licet (ff. ubi supra).Unde hoc beI1um quilibet potest gerere sine aUCloritatecuiuscumque alterius, non solurn pro defensione propriae personae, sed etiam bonorurn suorurn.
. Sed circa istam conclusionem dubitatur primo, anlflvasus a latrone aut inimico possit repercutere invasorem, si posset fugiendo evadere.
Et archiepiscopus quidem respondet, quod non,quia iam non est defensio cum moderamine inculpatae tutelae. Quilibet enim tenetur se defendere,quantum potuerit, cum minimo detrimento invasoris.
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Seconda questione
Chi abbia l'autorità eli fareo eli elichiarare la guerra
1. Chiunque può intraprendere una guerra difensiva, ancheun privato.
2. Ogni comunità politica ha l'aucorirà di dichiarare e dicondurre la guerra.
J. I principi hanno a questo riguardo la medesima autoritàche ha una comunità politica.
l. Su tale questione la prima tesi è la seguente: chiunquepuò intraprendere una guerra dIfensiva, anche un privato.
Ciò è evidente: infatti, «è lecito respingere la violenza con la violenza» (Vig. I, 1,3). Pertanto, chiunque puòcondurre una guerra siffalla, senza avere bisogno dell'autorizzazione di chicchessia, per difendere non solola propria persona, ma anche i propri beni.
A proposito di questa conclusione nasce tuttavia unprimo dubbio, se cioè colui che è aggredito da un brigante o da un nemico possa colpire l'aggressore anchese potrebbe invece salvarsi con la fuga.
I.:Arcivescovo' lo nega, e afferma che questo comportamento difensivo non rientra nei limiti della legittima difesa. Ciascuno infatti è tenuto a difendersi recanodo per quantn è possibile il minor danno all'aggressore.
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Si ergo. resistendo oportet aut occidere aut graviter vuJnera~e mvasorem, potest autem se liberare fugiendo, ergo VIdetur, quod teneatur. Sed Panormitanus, c. O/im,De res/ilulione rpo/iatorum, distingui t: Si enim invasusmagnum dedecus subiret fugiendo, non tenetur fugere,sed potest repercutiendo iniuriam repellere. Si enimnon faceret iacturam famae aut honoris, ut monachusve1 ruscicus invasus a nobili et foni viro, tenetur fugere.
Banolus autem in lege prima ff., De poenis, et in lege Furem, De sicariis, indistincte tenet, quod licet se defendere nec tenetur fugere, quia fuga est iniuria (llemapud Labeonem ff., De iniu'lis). Si autem pro rerum defensione lidtum est armis resistere, ut patet in dicto capite O/im et in capite Di/eclo. De senlenlia excommunicalionis, lib. 6, ~rgo multo magis pro iniuria corporali,quae multo ffialOr est quam rerum iactura (L In servorum, De poenis). Haec profecto potest probabiliter sacis sustentari, maxirne cum iura avilla hoc concedantut patet in dicta lege Furem. Auctoritate autem legis ne~ma peccat, quia leges dam ius in foro conscienciae. Unde si iure naturali non liceret occidere pro defensionererum, videtur, quod iure civili faetum sit licitum. Ethoc revera viderur licere seduso scandalo non salurnlaico, sed eciam clerico et religioso viro. .
2. Secunda propositio: Quaelibet res publiea babet auetO'l/atem indieendi et inferendi bellum.
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Se quindi per resistergli deve ucciderlo o ferirlo gravemente, mentre potrebbe aver scampo nella fuga, questaopzione pare obbligatoria. Ma il Panormitano" (cap.Olim, De restitutione spoliatorum) distingue: se l'aggredito subisse un grande disonore col fuggire, allora nonvi è obbligato, e può respingere l'offesa restituendo ilcolpo. Se invece l'aggredito non macchi~. ~on la fuga ilproprio nome o il propno onore - com e il caso di unmonaco o di un contadino assalito da un uomo nobile eforte - allora è tenuto a fuggire.
Barrolo (commento alla prima legge De poenis; allalegge Furem, De sieariis) affenna però che in ogni casoè lecito difendersi, e che non si è obbligari a fuggire, POIché la fuga è essa stessa un ingiusto danno (ltem apudlAbeonem, De iniuriisp. Ma se è lecito resistere con learmi ad un'aggressione contro i propri beni, com'è evidente (cap. Olim già citato; e anche cap. Dileeto, De sententia excommunicationis, VI)\ molto di più sarà lecitoresistere al fine di difendere se stessi da un danno personale, che è più grave di un danno alle cose (Dig. 48,19, lO: legge In servorum, De poenis). Questa opinionepuò essere osservata con sufficiente sicurezza come ammissibile, sopratturto quando le leggi civili pennettonosimili comportamenti (com'è evidente dalla citata leggeFurem). Infatti, chi agisce secondo l'autorità della leggenon pecca, poiché le leggi danno giustificazione nel foro della coscienza. Di conseguenza si mostra che, anchese la legge di natura non consentisse di uccidere per difendere la proprietà. questa uccisione sarebbe resa leCIta dalle leggi civili. E senz'altro è permessa non soltanto ai laici ma - se non ne deriva scandalo - anche al chJerici e agii uomini di religione.2. Seconda tesi: ogni comunità politica ha l'autorità di dichiarare e di condu"e la guerra.
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Pro probatione est notandum, quod diffetentia estquantum ad hoc inter horninem privatum et rem publi·camo Quia privata persona habet quidem ius defenden·di se et sua, ur dictum est. sed non habet ius vindicandiiniurias, immo nec repetundi ex intervallo temporis resablatas. Sed defensio oportet, ut fiat in praesenti, quodiurisconsulti dicunt in continenti. Unde transacta ne·cessitate defensionis cessar causa belli. Credo (amen,quod per iniuriam percussus posset statim repercurere,etiam si invasor non deberet ultra progredi. Sed ad vitandam ignom.iniam passero verbi gratia qui colaphumaccepit, gladio statim repercurere. non ad sumendamvindictam, sed, ur dictum est, ad vitandam infamiam etignominiam.
Sed res publica habet auctoritatem non solurn defendendi se, sed etiam vindicandi se et suos. Et probatur, guia, ur Aristoteles tradir 3 Politicorum, res publicadebet esse sibi sufficiens. Sed non posset sufficienterservare bonum publicum. si non posset vindicare iniu·riam et animadvertere in hostes. Fierent enim ipsepromptiores et audaciores ad inferendum maluro, sipossent boe impune facere. Et ideo necessarium est adcommodarn rerum moralium administrationem, uthaec concedatur auetoritas rei publicae.
3. Tertia propositio: Eandem auctoritatem habent quan·tum ad hoc principes sicul res publica.
Haec est expresse Augustini (Contra Fauslum): Ordo,inquit, naturaliJ paci accommodatus hoc poscit, ut susci·piendi belli auctoritas atque consilium apud principes rito
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Per dimostrare ciò è da notare che su questo punto c'èdifferenza fra la persona privata e la comunità politica. Infatti il privato ha certo il diritto di difendere se stesso e ipropri beni, come si è detto; ma non ha il diritto di vendi~care le offese e neppure di reclamare, dopo che è trascor·so un certo lasso di tempo, le cose rubate. È necessario chela difesa venga fatta contro un pericolo in atto - ossia, come dicono i giuristi, in continenti'. Pertanto, una voltapassata la necessità della difesa, cessa anche, per un priva·to, la causa di guerra. Credo però che colui che è stato in·giustamente offeso possa restituire il colpo, sul momento,anche se l'aggressore non dovesse proseguire il suo attacco. Inoltre, per evitare la vergogna e il disonore, colui che,ad esempio, ha ricevuto uno schiaffo può rispondere sulmomento con la spada, non per vendicarsi ma - come si èappunto detto - per evitare infamia e disonore.
Ma la comunità politica ha l'autorità non solo di difendersi, sì anche di vendicare sé e i propri cittadini. Eciò è dimostrato dal fatto che, come dice Aristotde (Politica li), la comunità politica deve essere autosufficien·te. Ma non potrebbe adeguatamente salvaguardare il bene pubblico se non potesse punire le offese e prenderemisure contro i nemici. I quali diventerebbero ancorapiù pronti al male e più audaci alle offese, se potesseroagire impunemente. È quindi necessario, per un ade·guato governo delle faccende morali, che questa autoritàsia concessa alla comunità politica.3. Terza tesi: I principi hanno a questo riguardo la medesima autorità che ha una comunità politica
Questo è espressamente il parere di Agostino (Con·tra Faustum XXII, 75): egli afferma che <d'ordine naturale, destinato a produrre la pace fra gli uomini, richiede che l'autorità di fare la guerra, e la capacità di giudi·care al riguardo, stiano od principe».
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Et catione probatur, quia princeps non est nisi exelectione rei publicae. Ergo gerit vicem et auctoritatemillius. Immo iam ubi sunt legitimi principes, tota auctoritas residet circa ilIos, nec sine illis aliquid aut bello autpace geri potest.
<Sed tota difficultas est, quid sit res publica etqui-s- proprie dicatur princeps.> Ad hoc breviter respondetur, quod res publica proprie vocatur perfectacommunitas. Sed hoc ipsum est dublUm, quae sU perfecta communitas.
Pro quo notandum, quod perfectum est, cui nihi!deest, et imperfectum, cui aliquid deest; quod totum estpecfectum quid. Est ergo perfecta co~munitas aut respublica, quae est per se unuro totum, m qua n~n est alterius rei publicae pars, sed quae habet propnas leges,proprium concilium et proprios magistratus, quale estregnum Castellae und Aragoniae et alli similes.
ec enim obstat, quin sint plures principatus et respublicae perfecrae sub uno principe. Talis ~rgo res publica aut princeps illius habet banc auctorltatem. Sedhoc ex ipso dubitari merito potest, an si plures huiusmodi res publicae habeant unum communem domlnuro aut principem, an possint inferre bellum per se Sl
ne auctoritate principis superioris.
Ad quod respondetur, quod sine dubio possunt, utreges, qui sunt subiecti imperato,ri, pos~un~ ~vicem
belligerare non exspectata auctorlt~te pnnclpl~ ~upe
rioris, quia, ut dictum est, res publica debet slbl essesufficiens nec tamen sufficeret sibi sioe ista libertate etfacultate.
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. E ciò è anche dimostrato dalla ragione, poiché un prinCIpe rrae la propria origine solo da una scelta della comunità politica. E quindi fa le veci di quella, e agisce in nomedella sua autorità. Anzi, dove già ci sono principi legittimi, l'autorità si trova interamente presso di loro, né senzadi loro si può condurre alcun affare di guerra o di pace.
Ma tutta la difficoltà sta nella questione: che cosa sia'comunità politica', e chi ne possa essere detto propriamente 'principe'. A ciò in breve si risponde che la comunità politica è propriamente defmita comunità perfetta. Ma proprio questo è l'oggetto del dubbio, cioèquale sia la comunità perfetta.
A tal fine si noti che perfetto è ciò a cui nulla mancae imperfetto ciò a cui manca qualcosa; poiché una tota~lità è qualcosa di perfetto. Quindi è una comunità politica, o una comunità perfetta, quella che è in se stessa un'unità e una totalità, ossia che non ha in sé alcuna parte diun'altra comunità politica ma ha invece proprie leggi, unproprio consiglio e proprie magistrature, come ad esempio i regni di Castiglia e Aragona, e altri simili.
E nulla asta a che esistano parecchi principati e comunità politiche perfette SOtto un unico principe. Talicomunità politiche, o i loro principi, hanno l'autorità didichiarare la guerra. Ma a tale riguardo si può giustamente avere i! dubbio se parecchie comunità politicheslffatte, che hanno un signore o un principe comuneabbiano in se stesse il diritto di fare la guerra senza l'au~torizzazione del principe superiore.
E ~ispondo che certamente la possono fare, proprioc?me I re, che sono soggetti all'Imperatore, possono farSI guerra tra loro, senza attendere l'autorizzazione dell'Lmperatore. Poiché, come si è già detto, una comunitàpolitica deve essere sufficiente a se stessa, e, priva di tale libertà e facoltà, non lo sarebbe.
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Ex quibus sequitut, quod alli teguli seu ptinci~,qui non praesunt rei publicae, non possunt bellum mferre aut gerere, quernadmodum dux A1banus aut comes Beneventanus. Sunt enim panes regro Castellae etper consequens non babent perfectas res publi~as, sedtruncatas. Sed est notandum, quod curo haec smt ma803 ex parre aut iure genti~ aut h~ano. c.onsuer~d?potest dare facultatem belli gerendl. Unde SIquae CtV!ras aut princeps ohtinuit antiqua consuetudme 1US. ge~rendi per se be1lum, non est ei neganda haec auctorttas,etiam si alias non esser res publica perfecta.
Item etiam necessitas hanc licentiam et auetoritatemconcedere posset. Si enim in eodem regno una civitasaliam oppugoatet ve! aliquis ex ducibus <alium. ducem> et rex negligeret aut non auderer vrndlcare ~~u·rias illatas, posset civitas aut dux, qui passus es.t tmuriam non salurn se defendere, sed eriaro bellum mferreet a~imadvertere in hostes et malefactores et eriam ~ccidere nisi defendere commode se posset. Non enJmhostes' abstinerent se ab iniuria, si illi. qui passi suntiniuriam contenti essent solum defendendo se. Qua raciane co~ceditur eriaro privato homini, quod possit vin:dicare inimicuro, si aliter non patet ei via se defendendlab iniuria.
Haec sinr satis de bac quaestione.
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Da ciò consegue che gli altri principi di rango minore, ossia i principi che non sono a capo di una comunitàpolitica, non possono dichiarare e condurre la guerra,proprio come il duca d'Alba o il conte di Benevento. Infatti, sono parte de! regno di Castiglia e di conseguenzasono a capo di comunità politiche non perferre ma mao.che. Ma si noti che, poiché questa materia è in gran parte regolata o dal dirino delle genti o da un diritto umano, la consuetudine può dare loro la facoltà di fare laguerra. E quindi, se una qualche città oppure un pelo.cipe hanno ottenuto per antica consuetudine il dirittodi condurre autonomamente la guerra. non deve essereloro negata questa facoltà, anche se da altri punti di vi.sta non costituiscono una comunità politica perfetta.
Inoltre, anche lo stato di necessità potrebbe concedere questo permesso e questa facoltà. Se infatti all'interno dd medesimo regno una città ne assalisse un'altra,o uno dei duchi assalisse un altro duca, e il re trascurasse di punire le aggressioni, o non osasse farlo, la città o ilduca che hanno patito l'offesa potrebbero non solo difendersi ma anche fare guerra e prendere misure cont.roi nemici e gli ingiusti offensori, e anche ucciderli, se nonfossero praticabili altre vie per difendersi. Infatti i nemi.ci non desisterebbero dall'aggressione se coloro che nesono vittime si limitassero a difendersi. Per lo stesso motivo è lecito anche ad un privato punire il nemico, se nonha un'altra via per difendersi da un'offesa.
E ciò basti, su questa questione.
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Quaestio tertia
Quae po sit esse ratioet causa belli
l. Causa iusti belli non est diversitas religionis.2. 00 est iusta causa belli amplificatio imperli.
3. Non est iusr.a causa belli gloria propria aut aliud commodum principis.
4. Una sola est causa iusti belli, scilicet iniuria accepta.
5. on quae1ibet et quanr.avis iniuria sufficit ad inferendumbellum.
Quae quaestio magis conducit ad hanc disputationembarbarorum.1. Pro qua sit prima propositio: Causo iusti belli non estdiverritar religionis.
Haec probata est prol.ixe in proxima relectione, ubiimpugnamus quartum titulum, qui praetendi posset adpossessionern barbarorum, quia scilicet nolunt reciperefidem Christianam. Et est sententia sancti Thomae IIII, q. 66, a. 8 et sententia communis doctorum, et nescioaliquem, qui conrrarium sentiat.
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Ter7..a quesùone
Quali possano essere la ragionee la causa eli una guerra
1. La differenza di religione non è causa di guerra giusta.2. L'ingrandimento del dominio politico non è giusta causa
di guerra.3. La gloria personale dd principe, o un altro suo vantag
gio, non è giusta causa di guerra.4. Una soltanto è la causa di una guerra giusta, cioè aver ri
cevuto un'offesa.5. Non un'offesa qualsiasi, né di qualsivoglia entità, è suffi
ciente a dare inizio a una guerra.
Tale questione tocca più da vicino la presente controversia sui barbari.1. A questo proposito, la prima tesi è questa: /o differen1.ll di religione non è causa di gue"a giusta.
Ciò è stato distesamente dimostrato nella precedenle dissertazione (De Indz:r), dove impugniamo il quartotitolo ID base al quale si potrebbe pretendere la conquista dei barbari, che cioè non vogliono accogliere la fedecristiana. E questa è anche l'opinione di san Tommaso(Ilo Iloe, LXVI, 8), nonché opinione diffusa dei dottori; e non conosco chi pensi in modo contrario.
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2. Secunda propositio: Non est iusta causa belli amplifi.
calia imperii. . .'Et haec ex se notior est, quam ur probatlone mdl-
geat, quia alias esser acque. lusta causa b:lli ~x utr~quepane, et sic essent omnes LOnoc~tes. Mi~abile ~t. Exqua iteruro sequitur. quod non licer ~cldere illos, etimplicar eontradictionem, quod esser IUstum bellum etnon liceret occidere illos.
3. Tertia propositio: ec etiam est iusta. causa belli gi<>ria propria aut aliud commodum prmaplS.
Haec etiam patet. Nam princeps debet et bellum etpacern ordinare ad bon~ commune rei publicae necpublicos redditus propna glorIa aut commodo erogareet multo minus cives suos penculis exponere. Hoc eruminterest imcr regem legitimum et ryrannum. aro tyrannus ordinar regimen ad proprium quaestu~ et (000
modum, rex autem legitimus ad bonum publicum, uttradit Aristoteles 4 Politicorum, c. lO.
Itern habet auclOritatem a re publica. Ergo debet utiilla auetoritate in bonum rei publicae.
Itern leges debent esse nullo privato commodo, sedpro communi uwitate civi~m conscnp(ae~ ur habetu~d. 4, c. Erit autem lex (ex ISldoro). Ergo ellam lex bell,debet esse communi utilitate, et non propria pnnclpls.
!tem in hoc differunt liberi a servis, quia dominiutuntur servis ad propriam utilitatem et non adutilitatem servorum. Liberi autem sunt propter sesolos, non propter alios. Unde quod principes abu·
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2. Seconda tesi: J.;ingrandimento del dominio politù:onon è giusta causa di guerra
Ciò è di per sé troppo noto perché ci sia bisogno didimostrarlo; in caso contrario, infatti, entrambi i con~tendenti avrebbero ugualmente una giusta causa diguerra, e così sarebbero tutti innocenti. Che cosa stupefacente! E ne consegue poi che non sarebbe lecito uccidere il nemico, il che implica contraddizione perché sitratterebbe di una guerra giusta e al contempo non sarebbe lecito uccidere i nemici.3. Terza tesi: non è giusta causa di guerra neppure la gi<>ria personale del pn'ncipe, o un altro suo vantaggio.
Anche ciò è evidente: infatti il principe deve indirizzare la guerra e la pace al bene comune della comunitàpolitica, e non può spendere le pubbliche entrate, e tanto meno esporre al pericolo i propri cilladini, per la propria gloria e il proprio vantaggio. Infarti, questa è la differenza che intercorre fra un re legittimo e un tiranno:questi orienta il governo al proprio guadagno e vantaggio, mentre quello lo rivolge al pubblico bene, come di·ce Aristotele (Politica IV, lO).
Inoltre, il principe trae la propria autorità dalla comunità politica, e quindi deve servirsene per il bene diquesta.
Allo stesso modo, le leggi debbono essere infonnate«non al vantaggio di alcun privato ma alla utilità comune dei cilladini» (Isidoro, Etymologiae' , in DecretumCratiani II, 4, 2: Erit autem lex). Quindi anche la leggedella guerra deve essere rivolta all'utile comune, e nona quello del principe.
Inoltre. gli uomini liberi sono diversi dagli schiaviperché i padroni si servono degli schiavi per l'utilità propria e non per la loro; mentre invece gli uomini liberi nonesistono per altri, ma per sé. Di conseguenza, che i prin-
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tamur civibus cogendo eos militare et pecuniam in bel~lo conferre non pro publico bono, sed pro privatocommodo, est cives servos facere.
4. Quarta propositio: Una solo C/Jusa iusli belli esi, scilicet iniuria accepta.
Haec probatur primo ex auctoritate Augustini (libro LXXX1Il quaeslionum) dicenris hoc manifeste. Etest determinatio sancri Thomae II-II, q. 40, a. 1 et omnium doctorum.
Et ratione probatur, quod bellum offensivum est advindicandam iniuriam, ut dicrurn est. Se<! vindicra essenon potest, ubi non praecessit iniuria. Ergo.
Item non maiorem auetoritatem habet princeps su·per extraneos quam supe:r suos. Sed in suos non pot~t
gladium stringere, nisi faciant iniuriam - ergo neque In
exrraneos.Et confirmatur, ut supra dicrurn est, ex Paulo (Rom
13,4) de principe: Non sine C/Jusa glodium porlal. Mim·s/er enim Dei est vindex in iram ei qui male agito Ex quaconstat, quod adversus eos, qui nobis non nocent, nonlicet ita gladio uti super eos, cum occidere innocentesprohibirum sit iure naturali. Omitto autem, si fortDeus aliud praeciperet; ipse enim est dominus vitae elmortis er posset pro suo libito aliter disponere.
5. Quinta propositio: Non quaelibel el quanlavis iniurlOsufficit ad inferendum bellum.
Haec probatur, quia nec etiam in saeculares etnaturales et populares licet pro quacumque culpapoenas atroces inferre, ut mortem aut ex~ium <~utconfiscationem bonomm. Cum ergo quae m bello geo
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cipi abusino dei cittadini, costringendoli a prestare il serVIZl~ militare e a ~ontribuire con denaro alla guerra, nonper il bene pubblico ma per il loro vantaggio privato si-gni1ìca che trasformano i cittadini in schiavi. '4. Q~a~a tesi: una soltanto è la ClJusa di una gue"a giu+slal ct.?e..aver ncevuto un'offesa.
. CIO e provato in primo luogo dall'autorità di Agostino (Liber 1.J!-XX11Iquaeslionum)2, che lo dice espressamente. Ed e .Ia poSIZIone di san Tommaso (I/o lIae,XL, 1) e dI tUtti I dottori.
E anche la ragione lo dimostra, perché la guerra offenSIva, come SI è detto, è rivolta a vendicare le offeseMa non può esser . d . . .CI ven etta se pnrna non CI sono sta~
le colpa e offesa. Pertanto, la tesi è dimostrata.ln?ltre, ~ principe non ha sugli stranieri un'autorità
maggIOre di quella che ha sui propri sudditi. Ma controtUesu n~n ~uò impugnare la spada, se non arrecano of~esa. Q~~dl neppure lo può COntro gli stranieri.
E CtO ~ confermato da quanto in precedenza si è riportato di Paolo sul potere del principe (Rom 13, 4):.non per nulla porta la spada. Essendo ministro di Dio,pUnIsce ch, opera il male». Da ciò risulta che non è leCU? m;pu~are le ~~i COntro chi non ci arreca danno,I>OIche UCCIdere g~. mnocenti è proibito dalla legge nalurale: TralaSCIO l'POlesi che Dio eventualmente comand, m modo speciale qualcosa d'altro; Egli è infattisIgnore della vita e della morte, e potrebbe a Suo arbilno disporre altrimenti.
5. Q~in.ta tesi:non un'offesa qualsiasi, nédi qualsivoglùJentlt~: ~ su,/ficzente a dare inizio a una guerra.
CIO e dunostrato dal fatto che anche COntro i civili iconnazionali e i citt~dini di condizione popolare, n~npossono essere applicate per quaJsiasi colpa pene durecome la marre, "esilio e la confisca dei beni. E poiché
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runtur omnia sint gravia et atrocia, ut caedes,> incendia v~tationes etc., <non licet pro levibus iniuriis bel-,lo pe.rsequi auctores iniuriarum,> quia iuxto mensuromdelieli debel esse plagarum modus (DI 25, 2). sed secundum gravitatem delietorum. Ergo non pro quacumque culpa ve! iniutia licer inferti bellum.
Et haec satis de ista quaestione_
luttO. ciò che si ~a ~ guerra è grave e duro _ stragi, incendi, d~a..stazlont -) non è lecito perseguire COn laguerra :"1 e responsabile di offese lievi, dato che «lamodalita delle punizioni deve essere giustamente commisurata al d~tto» (DI 25,2). ma lo si deve punire secondo la gravita della sua colpa. Quindi, non è lecito fare la gu~r:a per punire ogni tipo di colpa o di offesa_
E CIO e sufficiente per questa questione.
Quaestio quarta
I pan;
Quid et quan~ liceatin bello IUstO
. f e necessaria sunt adl bello iusto licet aroma acere, qua . bI··
1. n . d defensionem bom pu ICI.bonum publicum et a rrutaS vd pre·In bello iusto etiam licet recuperare res pe2.tium illarum. .' im nsam belli et om-Licer occupare ex boOl~ ~osu~ pe
3. nia damna ab hostibus tnlUste illata.
. .beIl' . uae sunt necessaria ad4 Potest princeps IUSU I o.roma, q h ·b
. d et securllatem ex oso uso .haben .u~ pac~.. b hostibus acceptam et pUnire
5. Licet vtndicare U1Iodu~~~.illos pro huiu~m i Imuros. d bellum iustum sufficiat.
6 Primum dublUffi, utruffi a. . utet se habere iustam causam.
quod prmceps ~ t an subditi teneantur examinarc7. Secundum dublU~ es , ilitare nulla diligentia super hacr
causam vel an possmt m
adhibita. Q ·d f . nduro --t cum iusta cau- d b' t· U1 aCle ....." ,8. Terubellum
dub.lu:
t~~ est cum ex utraque parte sunt f"J,
sa I Ula .....". bbi1;>tiones apparen.tes et pro a ~it esse bellum iustum ex
9. Quartum dublum est, an pos
utraque parte.. ui ex ignorantia secutUS t10. Quintum dublUm,. utrum q . . . de iniustitia bel
bellum iniustum, SI postea consment et
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Quarta questione
I parte
Che cosa sia lecito in una guerra giusta,e in quale mi ura
1. In una guerra giusta è lecito fare tuttO ciò che è necessario per il pubblico bene e la sua difesa.
2. In una guerra giusta è lecito inoltre recuperare tutte le cose sottratte, o il loro controvalore.
3. lo una guerra giusta è lecito rivalersi, sui beni dei nemici, delle spese di guerra e di tutti i danni ingiustamentearrecati dai nemici.
4. li principe che conduce una guerra giusta può fare tutto ciòche è necessario per ottenere pace e sicurezza dai nemici.
S. È lecito punire il torto ricevuto dai nemici, e punirli peroffese di questo tipo.
6. Primo dubbio: se a rendere giusta la guerra sia sufficiente che il principe creda di avere una giusta causa.
7. Il secondo dubbio è se i sudditi siano tenuti a esaminarela causa della guerra, o se possano prendere le armi senza farsene un problema.
8. II ter.lO dubbio è su che cosa si debba fare quando la giustizia della causa della guerra è dubbia, cioè quando da entrambe le parti ci sono ragioni verosimili e ammissibili.
9. li quano dubbio è se possa esistere una guerra giusta daentrambe le pani.
IO. il quinto dubbio è se chi - si tratti dd principe o dd sud·dito - per sua ignoranza ha partecipato ad una guerra
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li, utrum teneatur restituere - sive loquamur de principe,sive de subdi[Q.
l. Pro qua sit prima propositio: In bello iusto licet omnia facere, quae necessaria sunt ad bonum publicum et adde/ensionem boni publici.
Haec nota est, cum ilIe sit fmis belli defendere etconservare rero publicam. Item haec licent hominibusprivatis, ut probatum est - ergo multo magis publico etprincipi.
2. Secunda propositio: In bello iusto etiam licet recuperare res perditas vel pretium illarum ad unguem.
Haec enim nocior est, quam ur indigeat probacione.Ad hoc enim ve! infertur ve! suscipitur bellum.
3. Tertia propositio: Licet occupare ex bonis hostzbur impenram belli et omnia damna ab hortibur iniurte illata.
Haec patet, quia ad omnia haec tenentur hosres, quiiniuriam fecerunt. Ergo principes possunt omnia illa ac·cipere et bello exigere.
ltem si quis esser legitimus iudex utriusque partis gerentis bellum, potesr condemnare iniustos aggressore.et a-u-crores belli, non salurn ad restituendas res ablatas, sed etiam ad resarciendum impensam belli et omnilldamna. Sed princeps, qui getit iustum beUum, habet _in casu belli tanquam iudex, ut statim dicemus. Er~n
etiam ilIe potest omnia illa ab hostibus exigere.
Item, ut dicebamus, licet homini privato, cum onnpotest alia via, occupare Offine debitum a debitore - Cf
go etiam principi.
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giusta si accorge in segujto delJa sua ingiustizia sia tenuto a restitujee ciò che ha preso.
1. La prima tesi al riguardo è: in una guerra giusta è le.cito fare tutto ciò che è necessano al pubblico bene e allasua d/fera.
È una tesi già nota, dato che il fine della guerra è difendere e conservare la comunità politica. E ciò è parimenti lecito ai privati, come si è dimostrato. E quindi amaggior ragione è lecito a una persona pubblica e alprmclpe.
2. Seconda tesi: in una guerra giusta è leàto inoltre recuperare tutte le cose sottrattel o il loro controvalore preàso.
Anche questa è troppo nota per aver bisogno di di.mostrazione. È infatti questo il motivo per cui viene intrapresa o iniziata una guerra.3. Terza tesi: in una guerra giusta è lea'to rivalers~ sui be.ni dei nemia: delle spese di guerra e di tutti i danni il:.giustamente arrecati dai nemici.
E ciò è chiaro, perché i nemici che hanno commesso ingiustizia sono tenuti a tutto questo. Quindi i principi possono prendersi tutte queste cose, ed esigerle conla guerra.
Inoltre, se ci fosse un giudice legittimo sopra entrambe le parti belligeranti potrebbe condannare gli ingiustiaggressori, responsabili della guerra, non solo a restitui.re le cose sottratte ma anche a rifondere le spese di guerra e tutti i danni. Ma il principe che conduce una guerragiusta ha come giudice se stesso, per le cose che riguar.dano quella guerra, come si è appena detto. E quindi puòanch'egli esigere dai nemici tutte le riparazioni.
Eancora, come dicevamo, è lecito a un privato, quando non può fare altrimenti. impossessarsi di tutto ciò cheil debitore gli deve. E quindi è lecito anche al principe.
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4. Quana propositio: Potest enim princeps iusti beLliom·niol quae sunI necessaria ad habendam pocem et securila/cm ex hostibus, pula diruere orcem et a/ia amnio, quaead hoc exspeclant.
Probatur, quia, ut supta diximus, finis belli est pax.Ergo gerenti bellum licenr aronia, quae necessaria suntad securitatem et pacern.
Item tranquillitas et pax computanrur imer bona humana. Unde nec summa etiam bona fadunt statum feli·cem sioe securitate. Ergo hostibus rurbantibus tranquillitatern rei publicae llcer vindictam sumere ab illis<per media convenientia. Ttem contra hostes intraneos,hoc est contra malos cives, licer haec omnia facere - ergo etiam contra hostes extraneos. Antecedens pareto Siquis enim in re pubLica fecit iniuriam civi, magistratusnon salurn cagir auclacero iniuriae satisfacere iaeso, sedetiam si rimetur ab ilio, cogitue dare fideiussores aut re·cedere a civitate, ita ut vicetur periculurn ab ilio.
Ex quibus patet, quod parta victoria et recuperatisrebus licet ab hostibus exigere obsides, naves, arma etalia, quae sine fraude et dolo necessaria sunt ad reti·nendum bostes in officio et vitandum ab illis pericu·lum.>
5. Quinta propositio: Nec tantum hoc licet in bello iusto,sed babita vieloria el recuperatis rebus et pace eliam el se·curitate habita licet vindicare iniuriam ab hostibus accep·tam et punire illos pro huiusmodi iniuriis.
Pto cwus ptobatione notandum, quod ptinceps nontantum habet auctoritatem in suos, sed etiam in extra·neos ad coercendum illos, ut abstineant se ab iniuriis, et
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4. Quana tesi: il principe che conduce una guerra giustapuòfare tutto ciò che è necessario per ottenere pace e sicur/!Wl dai nemici, ad esempio distruggere una fortev.a efa·re tutte le altre cose che banno ottinenlJl con questofine.
Lo dimostra il fatto che, come si è detto, il fine dellaguerta è la pace. E quindi a chi f.la guerta sono lecite tU[te le cose che sono necessarie alla sicurezza e alla pace.
Inoltre, la tranquillità e la pace sono annoverate fta ibeni dell'uomo; quindi, neppure i beni più alti rendonouna situazione felice, se non c'è la sicurezza. Perciò è le·cito punirei con mezzi appropriati, i nemici che disturbano la tranquillità della comunità politica. Parimenti, è lecito fare tutto ciò contro i nemici interni, ossia contro icattivi cittadini: quindi, anche contro i nemici esterni. Ilpresupposto è evidente: se qualcuno in una comunità politica fa ingiustizia a un cittadino. il magistrato non soloobbliga l'autore dell'offesa a tendere soddisfazione allapane lesa; ma, se vi è motivo di non fidarsene,lo costrin·ge anche a presentare un mallevadore, o ad allontanarsidalla città, pet eliminare il pericolo che da lui deriva.
Da ciò risulta evidente che, una volta raggiunta lavittoria e recuperati i beni, è lecito esigere dal nemicoostaggi, navi, armi, e le altre cose che sono necessarie- in buona fede e senza animo fraudolento - a far sì chei nemici osservino i propri doveri, e ad evitare che sia·no ancora pericolosi.5. Quinta tesi; non solo in una guerra giusto sono lecitetutte queste cose, ma - una volta ottenuto lo vittorio, re·cuperati i beni, stabilita /o pace eanche /o sicur/!Wl - è lecito punire il lorto ricevuto dai nemict~ e punirii per offese di questo tipo.
Per dimostrare ciò si deve notare che il principe haautorità non soltanto sui propri sudditi, ma anche suglistranieri, per costringerli ad astenersi dalle offese; e ciò
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hoc iure gentium er orbis totius aucroritate. !mmo viderur, quod etiam iure naturali, quia videtur, quod aliter orbis stare non posset, nisi esset penes aliquos vis etauctoritas deterrendi improbos, ne bonis noceant. EaaUlem, quae necessaria sunt ad gubemationem et conservationem orbis, sunt de iure narurali. ec alia ratione probari potest, quod res publica iure naturali habeatauetoritatem afficiendi supplicio et poenis cives suos,qui sunt rei publicae perniciosi. Quodsi res publica hocpotest in suos, haud dubium, quin hoc possit orbisin quoscumque perniciosos homines, et hoc non nisiper principes. Ergo sine dubio principes possunt puni·re hostes, qui iniuriam fecernot rei publicae; et omninopostquam bellum rite et iuste susceptum est, hostes obnom sunt principi tanquam iudici proprio. <Et confLrmatur haec. Quia revera nec pax nec tranquillitas, quaeest fmis belli, aliter haberi potest, nisi hostes malis etdamnis afficiantur, quibus deterreantur, ne iterum aliquid tale comminane>
Et etiam probatur et confinnatur auctocitate bonorum, ut supra dictum est de Machabaeis, qui gesseruntbella non solum ad recuperandas res amissas, sed eriamad vindicandas iniurias. Et idem fecerunt christianissi-. . .mi prmclpes.
Et primum non tol1itur ignominia et dedecus reipublicae profligatis tantum hosdbus, sed etiam securitate poenae afflictis et castigatis. Princeps autem
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avviene secondo il dirino delle genti, e con l'au(Qrizzazione di tutto il mondo. Quindi sembra che ciò valgaanche secondo il diritto naturale, poiché pare che ilmondo non potrebbe sussistere altrimenti, se qualcunonon detenesse la forza e l'autorità di minacciare i malvagi affinché non nuocciano ai buoni. Del resto, ciò cheè necessario al governo e alla conservazione del mondorientra nel diritto naturale. È questo l'unico modo attraverso il quale si può dimostrare che una comunitàpolitica ha, in virtù del diritto naturale, l'autorità dimenere a morte e punire i propri cittadini che le arrecano danno. E se una comunità politica può fare ciòconuo i propri cittadini, non v'è dubbio che il mondopossa farlo contro tutti gli uomini pericolosi; e ciò nonè possibile se non attraverso i principi. Quindi certamente i principi possono punire i nemici che hanno recato offesa alla comunità politica; e soprattutto dopoche una guerra giusta è stata intrapresa secondo gli usie secondo giustizia, i nemici si trovano assoggettati alprincipe giusto come al proprio giudice. E ciò è dimo·strato dal fatto che, in verità, né la pace né la tranquillità - i fini della guerra - possono essere ottenuti a1ui·menti che col colpire con punizioni dure e dolorose inemici, che ne siano spaventati e ne vengano distolti dalcommettere nuovamente tali delitti.
E ciò è dimostrato e confermato anche dall'autoritàdei buoni, come si è già detto a proposito dei Maccabei,che hanno fatto guerre non solo per recuperare le coseche avevano perduro ma anche per punire le offese ricevute. E la stessa cosa hanno fatto anche principi cristianissimi.
Inoltre, non si cancellano la vergogna e il disonore della comunità politica solo con lo sconfiggere i nemici, chedevono anche essere puniti e castigati da una sanzione
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non solum res alias, sed honorem et auetorit3tem reipublicae defendere haberur.
6. Sed ex omnibus supra dictis oriunrur multa dubia.Primum est circa iustitiam belli, utrum vide/icet ad bellum iustum su/fidat, quod princeps putet se habere iustam causam.
Ad hoc sit prima propositio: on satis est hoc semper.
Probatur primo, quia in aliis minoribus causis ve1negotiis non sufficit principibus ve1 privatis, quod credant se iuste agere, ut notum est. Possunt enim vincibititer errare et affectate. Et ad acrum bonum non sufficitsententia cuiuscumque, sed requiritur sententia sapientis, ut patet 2 Ethicorum.
Item sequitur alias, quod essent bella iusta ex utraque parte. Communiter enim non contingit, quod prin·cipes gerant bellum mala fide, sed unusquisque putat sehabere iustitiam in alium. Et sic omnes bcllantes essentinnocentes, et per consequens neutri exercirui liceretoccidere alium ex altero exercitu. Et etiam alias Turcaeet Saraceni gererent iusta bella adversus Christianos.Putant enim obsequium praestare Dea.
Secunda propositio: Oportet ad iustum beltum magna diligenlia eXilminare causas belli el audire ralionesadversan'orum, si ve/int ex aequo el bono disceplare.
Omnia enim sapientem, ut ai! comicus, verbisprius experiri aportet quam armis. Et oportet consulere probos et sapientes viros et qui cum libertate Cl
sine ira aut odio loquantur. Haec propositio manifesta est. <Nam curo in rebus moralibus difficile si.
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certa. E il principe non deve difendere solo le altre cose,ma anche l'onore e il prestigio della comunità politica.
6. Ma da tutto ciò che è stato detto nascono molti dubbi. Il primo riguarda la giustizia della guerra, se cioè arendere giusta la gue"a sia su/fidente che il prindpe creda di avere una giusla causa.
A questo dubbio, rispondo con questa lesi: non sempre dò è su//idente.
E lo dirnosrra, in primo luogo, il fatto che in altre cause minori non è sufficiente- com'è noto - né ai principiné ai privati credere di essere dalla parte dd giusto: possono infatti errare, per loro colpa e a causa delle loro passioni. E per giudicare buona un'azione non basta il pareredi uno qualsiasi, ma si deve ricorrere all'opinione delsapiente, come sta scritto (Aristotde, Etica II, 6).
Inoltre, in caso contrario ne conseguirebbe che ci sarebbero guerre giuste da enttambe le parti. Infatti, di solito non càpita che i principi facciano guerra in malafede, ma anzi ciascuno crede di essere nel giusto rispettoall'altro. E così rurti i belligeranti sarebbero senza colpa,e di conseguenza a nessuno dei due eserciti sarebbe leci·to uccidere qualcuno dell'altro esercito. E così anche leguerre dei Turchi e dei Saraceni contro i Cristiani sarebbero giuste: infarti credono di obbedire a Dio.
Seconda tesi: perché una guerra sia giusta è necessano molla attenzione neil'esaminare le cause della guerra,e ascoltare le ragioni degli avversari, se questi vogliono discutere della giustizia e delw bontà delle cause di guerra.
[j commediografo dice infatti: «è bene che il sapientefaccia ogni tentativo con le parole, prima di passare allenrmi»'. Ed è bene chiedere il consiglio cli uomini onesti esapienti, che parlino in libertà, e senza ira né odio. Questalesi è evidente. Infarti, dato che nelle questioni morali è
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verum et iustum attingere, si negligenter ista tracten·tur, facile errabitur, nec talis error excusahit auctores maxime in re tanta et uhi agitur de periculo et calamitate multorum, qui tandem sunt proximi et quos diIigere tenemur sicut nos ipsos.>
7. Secundum duhium est, on subditi teneontur exomi·nore causam vei an possint militare nulla diligentia superhoc adhibita, quemadmodum liclores exequi possunl sententiam iudicis sine olia examinatione.
De hac quaestione sit prima propositio: Si subdiloconstat de iniustitia belll~ non licet ei militare etiam depraeceplo principis.
Patet, quia non licet interficere innocentem in nullocasu quacumque auctoritate. Sed hostes sunt innocentes in casu. Ergo non !icet interficere illos.
ltem principes peccant inferendo bellum in ilio casll.Sed non salurn, qui male agunt, sed qui consentiunt, digni suni morle (Ram 1,32). Ergo milites etiam mala fide pugnantes non excusantur. Item non !icet interfice·re cives proprios mandato principis - ergo nec extra·neos.
Ex quo sequitur corollarium, quod etiom si subditihabeanl conscienliam de iniusla causa belli, non licei illis sequi bellum - sive errent, sive non.
Patet, quia omne, quod non est ex /tde, peccatum est(Rom 14,23).
Secunda propositio: Senatores et duces, breviter om·nes, qui admittuntur ad consilium publicum vel principis,debent et tenentur examinare causam iusti belli.
Patet haec, quia quicumque potest impedire pericll
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difficile attingere il vero e il giusto, se queste discussionivengono condotte con negligenza sarà facile cadere in errore; e gli autori non potranno esserne scusati - soprattutto data l'imponanza ddJ'argornento, che implica pericolo e calamità per molti uomini, che infine sono il nostroprossimo, e che dobbiamo amare come noi stessi.7. Il secondo dubbio è se i sudditi siano tenuti a esaminare la causa della gue"a, o se possano prendere le armi senza farsene un problema, come i littori possono dare esecu·zione alle sentenze del giudice sen1.ll più esaminarle.
lntorno a questo dubbio la prima tesi è questa: se ilsuddito è certo che la guerra è ingiusta non gli è lecitoprendere le armI; nemmeno se il principe glielo comanda.
E ciò deriva con chiarezza dal fatto che non è lecitouccidere un innocente, qualunque sia l'autorità che loordina. Ma in questo caso i nemici sono innocenti. Edunque non è lecito ucciderli.
Inoltre! i principi! in quel caso, peccano se dichiara·no guerra. Ma «non solo quelli che fanno il male! sì anche quelli che vi consentono, sono degni di morte»(Rom 1,32). Quindi, anche i soldati che combattono inmala fede non sono innocenti. Parimenti, non è lecitouccidere i propri cittadini per semplice ordine del principe; e quindi neppure gli estranei.
Ne segue come corollario che anche i sudditl~ quan·do hanno certezza che la guerra è ingiusta~ non possonoprendervi parte, che si sbaglino o no.
E ciò è chiaro perché «ciò che non procede dalla fede è peccato» (Ram 14, 23).
Seconda tesi: i senatori e i comandantt: e in breve tutli colora che sano ammessi al consiglia pubblico a al consiglio del principe, sono strettamente tenuti a esaminarela causa di una gue"a giusta.
E ciò è chiaro, dato che chiunque possa impedire il
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lum et damnum proximorum, tenetur. maxime ubi decausa mortis agitur et maiorum malorum. quale est inbello. Sed tales possunt consilio suo et auctoritate causas belli examinantes avertere bellum, si forte iniustumest. Ergo tenentur ad hoc.
Item si negligentia istorum bellum iniustum gereretur, isti viderentur consentire. lmputarur enim alicui,quod potest et debet impedire, si non impediat.
!tem, quia solus rex non sufficit ad examinandascausas iusti belli et potest errare magna cum perniciemultorum. Ergo non ex sola sententia regis, immo necex sententia paucorum, sed multorum sapientium debet geri bellum.
Sit tenia propositio: Alii minores, qui non admittuntur nec audiuntur apud regem neque a consi/io publico,non tenentur examinare causas belh sed possunt credentes maioribus licite militare.
Probatur primo. quia nec fieri potest nec expediretreddere rauonem negotiorum arduorum et publicorumomnibus de plebe.
Item, quia homines inferioris condicionis et ordinis,etiam si intelligerent iniustitiam belli, non possuntprohibere et sententia eorum non audiretur. Ergo frustra examinarent causas belli. Non est dubiuffi.
<Item. quia eiusmodi hominibus. nisi contrariumconstiterit, sufficiens argumentum debet esse pro iusuUa belli, guod publico consilio et auctoritate geratur.Ergo non est opus illis ulteriore examinatione.>
Quarta propositio: Nihilominus possent esse talia ar-
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pericolo e il danno del prossimo, è obbligato a farlo, soprattutto quando si tratta di morte e dei più grandi mali, come appunto càpita in guerra. Ma costoro, con illoro consiglio e la loro autorità, esaminando le cause della guerra possono evitarla, nel caso sia ingiusta; e quindi sono tenuti a questo esame.
Inoltre, se per negligenza di costoro si combattesseuna guerra ingiusta, sembrerebbero aver dato il loroconsenso. Chi può e deve impedire una certa cosa, infatri, ne è responsabile, se non l'impedisce.
Ancora, non basta che il re da solo esamini le causedi una guerra giusta; può infatti sbagliarsi, con grandedanno per molti. Quindi, la guerra deve essere decisasulla base del parere non del solo re, né di pochi, ma dimolti uomini sapienti.
Terza tesi: la popolazione di rango inferiore, che nonè né ammessa né ascoltata presso il re o presso il consigliopubblico, non è tenuta ad esaminare le cause della guerra, ma le è lecito prendere le armi sulla base della fiducianelle autorità superiori.
Lo si dimostra in primo luogo col fatto che non è possibile né sarebbe opportuno rendere ragione a tutti i popolani di faccende difficili che riguardano la politica.
Parimenti, uomini di condizione e ceto inferiore, anche se comprendessero l'ingiustizia ddla guerra, nonpotrebbero impedirla, e il loro parere non sarebbeascoltato. Quindi esaminerebbero invano le cause dellaguerra. Su ciò non v'è dubbio.
Inoltre, a uomini di tal sorta. se non hanno notiziecerte in senso contrario, deve bastare come argomentoa favore della giustizia della guerra il fatto che essa è decisa per autorità di un pubblico consiglio. E quindi nonhanno bisogno di operare ulteriori esami.
Quarta tesi: nondimeno, à possono essere tali dimo-
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gumenta et indidtJ de iniustitia bel/i, quod ignorantia nonexcusaret etiam huiusmodi aves et subditos militantes.
Patet, quia posset esse ista ignorantia affectata etpravo studio adversus hostes concepra.
Item alias infiddes excusarenlur in belJum sequen·res principes suos, et Christianis non ticeret illos reper·curere, quia cenum est, quod credunr se habere iusramcausam belli.
Irem, quod alias excusarentur milites, qui crucifixe·runt Christum ex ignorantia sequenres edictum Pilati.
Iran excusaretur populus ludaeorum, qui persuasusa maioribus ciamabal: Tolle, tolle, crucifige eum (Io 19,15)! Quae omnia non SunI concedenda. Ergo.
8. Tercium dubium esI: Quid faàendum est, cum iustacausa belli dubia est, hoc est, cum ex utraque parte suntrationes apparentes et probabiles?
Ad quod sit prima proposicio: Quoad ipsos principesvidetur, quod si quis illorum est in legitima possessione,quod manente dubio non possit alter bello repetere.Exempli gratia, si rex Francorum est in legitima pos·sessione Burgundiae, etiam si est dubium, an habeat iusad illam, non videtur, quod imperaror noster possit ar·mis repetere neque e contra rex Francorum.
Haec probarur, quia in dubiis mdior est condiciopossidentis. Ergo non liceI expoliare possessorem illumpro re dubia.
Irem si res ageretur coram iudice legitimo, num-
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strazioni e indizi che lo guerra è ingiusta, che lo loro ignoran1,l1 non può essere scusata neppure nei cittadini di ceto basso e nei sudditi chiamati alle armi.
E ciò è chiatO dal falla che lale ignoranza polrebbeessere artificiosa. e coltivata con volontà malvagia neiconfronti dei nemici.
Inoltre, in caso contrario gli infedeli sarebbetO scusati nd seguire i loro principi nelle guerre, e ai Cristiani nonsarebbe lecilo colpirli a lotO volta, poiché è certo chequclli credono di avere una giusta causa di guerra.
Allo stesso modo, in caso contrario sarebbero giustificati i soldati che crocifissero Gesù per ignoranza.obbedendo all'eelillo di Pilalo.
E sarebbe giustificala anche il popolo ebraico, che persuaso dai suoi maggiorenti gridava: «prendilo, prendilo,crocifiggilo!» (Iov 19, 15). Ma tUlle quesle conseguenzenon sono ammissibili. Quindi, la tesi è dimostrata.8. li terzo dubbio è: che cosa si deve fare quando la giustizia della causa di guerra è dubbia, cioè quando da entrambe le parti ci sono ragioni verosimili e ammissibili?
Su ciò questa è la prima tesi: per quanto riguardo iprinai"; sembra che se qualcuno di loro esercita un legittimo possesso, un altro non possa reclamarlo con la guerra, fin tanto che permangono dubbi.
Ad esempio, se il re eli Francia è legiltimamenle inpossesso deUa Borgogna, benché sia dubbio se ne abbiail clirillO, non sembra che il noslro Imperatore la possareclamare con le armi; né, in caso contrario, lo potrebbe il re di Francia.
Quesla lesi è dimoslrala dal falla che nei casi dubbiè favorila la siluazione di chi è già in possesso dd bene.E quineli non è lecilo privarlo di ciò che possiede, sullabase di un dubbio.
Allo stesso modo. se il caso venisse trattato davanti a un
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quam in re dubia spoliaret possessorem. Ergo dato,quod ille princeps, qui praerendit ius, sit iudex in illacausa, non potest spaliare lidre possessorem dubia ma·nente.
!tem in rebus et causis privarofum numquam in causa dubia licet spoliare possessorem <1egitimum> - ergonec in causis principum. Leges enim sunt principum. Siergo secundum leges humanas non licet spoliare possessarem, ergo merito patest obici principibus: <Potere/egem. quam ipse tuleris! Quod enim quisque iuris inalios s/aluil, ipse eodem iUTe uti debet.>
ltem alias esser bellum iustuffi ex utraque parte<etc., et bellum numquam componi posset. Si enim incausa dubia licet uni armis repetere, ergo alteri defendere. Et postquam unus recuperasset, posset iterumalius reposcere, et sic numquam esser fmis bcllorumcum pemicie et calamitate populorum.>
Secunda propositio: Si civitas vel provincia, de quadubitaluT, non hahet legilimum possessorem, ut si deser·ta essei morte legitimi domim: et dubitalur, an haerer SI/
rex Hispaniae aut rex Galiorum, nec potest certum scirJ~
<iure> videtw; quod si unus velit componere et divider<'et compensare pro parte, quod alter tenetur recipere con·dicionem, etiam si vi sit potentior et possit <armis> lo·tum occupare, nec haberet iustam causam belli.
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giuclice legittimo, questi, in una faccenda dubbia nonesproprierebbe il possessore. E quincli ammettendo'che ilprincipeche rivendica il proprio cliritt;sia anchegiuclice inquella causa, egli non può legittimamente espropriare ilpossessore, fin tanto che permane un dubbio., In.olt.r~, n~lle faccende e neUe cause fra privati none mal lecltn, In una causa dubbia, espropriare illegit~o possessore. E dunque non si può neppure nei ca.SI dei principi, poiché le leggi sono fatte dai principi.Se. qumdJ se.cnndo le leggi umane non è lecito espropnare ch, gta ~nde del pos~esso, allora si può ben opporre al prtnCtpt il detto: «e ben chiara la legge che tu
stess~ hat emanato!». Infatti, «il principio giuridicoche aascuno ha stabilito per gli altri deve valere ancheper lui stesSO»2.
Parimenti, se così non fosse la guerra sarebbe giustada entrambe le pani, e non potrebbe mai trovare unasoluzione. Infatti, se in una causa dubbia fosse lecito auno prendere le armi, lo sarebbe anche all'altro difendersi. E dopo che l'uno fosse venuto in possesso cii ciòche rivendicava, l'altro potrebbe nuovamente reclamar.lo per sé, e così le guerre non avrebbero mai fine condanno e calamità per i popoli. '
Seconda tesi: se la città o la provincia sulla quale c'èun dubbIO non ha un possessore legittimo - come adesempio ~~ ~esta ~acante per la morte del signore legittimo - e ~l e znc~rtl se lo successione spetti al re di Spagnao al re d, Franaa, e non lo sipuò sapere con certezzo, sembra conforme al diritto che, se uno deidue contendentio[Ire una compOSIZIOne con una spartizione e una equa compensazione, l'altro sia obbligato ad accettare queste con.dizioni, anche se è più potente per forzfl militare e può occl~pare c~n le armi tutto il territorio; e che non abbia quin.dI una giusta causa di guerra.
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Probatur, quia alius non facit illi iniuriam m paricausa pelendo aequalem panem.
Item in privatis in re dubia non liceret totum occu-. ...pare - ergo neque 111 caUSlS pnnclpum.
Item esset bellum iustum ex utraque parte. Item iu·stus iudex non totum alleri tribueret, sed dividere!. Ergo etc.
Tertia propositio: Qui dubitat de iure suo, etiam si pacilice possideat, tenetur examinare causam diligenter etpactfice audire rationes alterius partis, siforte possit cer·tum scire pro se ve! pro alio.
Hacc probatur, quia alias non bona fide possideret,qui dubitans negligeret scire veritatem.
ltem in causa matrimoniali. si quis etiam legitimuspossessor incipit dubitare, utrum haec uxor sit sua nee·ne, certum est, quod tenetur rero examinare - ergo ea·dem ratione in allis causis.
Item principes sunt iudices in propriis causis, quianoo habent superiores. Sed cenum est, quod si quiscootra legitimum possessorem opponat aliquid, iudextenetur examinare illudo Ergo etiam principes in re du·bia tenentur causam suam examinare.
Quarta propositio: Examinoto causa, quontumdiu ra·tionobiliter perseverai dubium, legitimus possessor nontenetur cedere possessione, sed potest /icite retinere.
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Lo dimostra il fano che il primo non reca offesa all'altro, chiedendo una pane uguale di un bene, in unacausa in cui entrambi hanno uguali diritti.
Parimenti. ndle cause &a privati non è lecito prendersi l'intero bene, quando c'è un dubbio. E quindi noolo è neppure nelle cause fra principi.
Inoltre, in caso contrario la guerra sarebbe giusta daentrambe le pani. E, ancora, un giudice giusto non attribuirebbe per intero il bene conteso all'una o all'altraparte, ma lo dividerebbe. Quindi la tesi è dimostrata.
Terza tesi: colui che dubita del propno diritto - anchese non esercita il dominio in seguito ad una gue"a - è tenuto ad esaminare diligentemente la questione, e a ascol·tare pacificamente le ragioni dell'altra parle, per vedere semai possa raggiungere una certezza, a favore proprio odell'allro.
Lo dimostra il fatto che, in caso contrario, colui ilquale pur dubitando trascurasse di conoscere la veritànon eserciterebbe il proprio dominio in buona fede.
Allo stesso modo, in una causa matrimoniale se qualcuno, pur essendo legittimo titolare di un diritto. iniziaad avere dubbi se una cena donna è sua moglie o 00, ècertamente tenuto ad esaminare la cosa. E quindi. perla stessa ragione, si è tenuti anche in altre cause.
Inoltre, i principi sono giudici nelle proprie cause,poiché non hanno autorità superiori. Ma è certo che, sequalcuno eccepisce alcunché contro chi è titolare di unpossesso legittimo, il giudice è obbligato a esaminarlo.Perciò anche i principi in un caso dubbio sono tenuti adesaminare la propria causa.
Quarta tesi: una volta che la questione sia stata esaminala, fino a quando permane un ragionevole dubbio ilpossessore legittimo non è obbligato a cedere ciò che possiede, ma può legittimamente conservarlo.
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Patet primo, quia iudex non tenet{ur}spoliare. Ergonec ipse tenetur cedere - nec in toto nec in parte.
ltem in causa matrimoniali in re dubia non tenetur,ur habetur in c. Inqujsitjom~ De sententia excommum"·cationis, et in c. Dominus, De secundis nupliis, - ergonec in allis causis. Et Adrianus expresse (in Quodlibelis,q. 2) tenet, quod dubitans licile pOIeSI rellnere rem possessam.
Haec quoad principes in re dubia.
Sed quoad subditos in dubio belli iusti Adrianusquidem (Quodlibelis, q. 2, ad primum argumenrumprincipale) dicit, quod subditus dubitans de iustiria belli <, id est, utruro causa, quae a1legaruf, sit sufficiens, ve!simpliciter, an subsit causa sufficiens ad indicendurobel1um>, non potest licite ad imperium superioris roili·tare. Quod probat, quia runc subditus non operatur exfìde.ltem, quia exponit se periculo peccandi mortaliter.Idem videtur tenere Silvester (v. bellum I, S 9).
Sed sit quinta proposmo: Primo non est dubiumJ
quin in bello delemivo liceal subditis in re dubia militare et sequi principem suum in bello, immo quod teneanlur sequi; sed eliam de bello offensivo.
Probatur primo, quia princeps nec palese sempernec debet reddere rationes subditis. Et si subditi nonpossent militare, nisi postquam scirem iustam causambelli, res publica periclitaretur vehementer <et patere·tuc iniurias hostium>.
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La tesi è chiara, in primo luogo perché il giudice nonè tenuto all'esproprio. E quindi neppure il possessore ètenuto a cedere il possesso, né dci tutto né in parte.
Ancbe in una causa di matrimonio, in caso di dubbionon si è tenuti a rinunciare al proprio dirittO (come si vedenel cap. Inquisitiom: De sententia excommunicationis e nelcap. Dominus, Desecundisnupliis). E quindi non si è tenuti neppure in cause d'altro tipo. E Adriano (Quodlibela 2)sostiene espressamente cbe colui cbe ha un dubbio «puòlecitamente trattenere presso di sé la cosa posseduta»'.
E questo è tuttO, per quanto riguarda i principi, incaso di dubbio.
Ma per quanto riguarda i sudditi in caso di dubbio sulla guerra giusta proprio Adriano (Quodlibela 2, primo argomento principale) afferma cbe il suddito cbe dubita dcila giustizia della guerra - cbe è incerto, cioè, se la causa cbeviene addotta sia sufficiente,owero se semplicementesussista una causa sufficiente a dichiarare la guerra - non puòlecitamente prendere le armi al comando delle autorità superiori. E lo dimostra sostenendo cbe allora il suddito nonagirebbe in buona fede; e ancbe cbe in tal modo si esporrebbe al pericolo di commettere peccato mortale. Dellastessa opinione sembra Silvestro (voce bellum, l, § 9)4.
Ma questa è la quinta tesi: in primo luogo, non c'èdubbio che in una guerra difensiva sia lecilo ai sudditi incaso di dubbio prendere le armi e seguire il loro prinàpein gue"a, e che anzi Sil1110 tenuti a seguirlo; ma ciò valeanche in una guerra offensiva.
La si dimostra in primo luogo col fatto che il principe non può né deve sempre rendere ragione ai sudditi.E se i sudditi non potessero fare la guerra se non dopoavere conosciuto la giusta causa della guerra, la comunità politica sarebbe in grave pericolo, e soffrirebbe leoffese dei nemici.
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!tem in dubiis tutiOt pars sequenda est. Sed si subditi in casu clubii non sequerenrur principem suuro, ex·ponunt se periculo prodendi hostibus rem publicam,quod multo peius est quam pugnare contra hostes cumdubio. Ergo debent potius pugnare.
Item manifeste paret, quod lictar tenetur exequi sen·tentiam iudicis, etiam si dubitet, an sit iusta. Contra·rium est enim valde periculosum.
Item aperte videtur hoc dicere Augustinus (ContraManiehaeos): Iustus si/orte etiam sub rege sacrilego militet, reete potest eo iubente belÙJre, si quod ei iubetur velnon esse contra Dei praeceptum <certum est vel utrumSII, eertum non esI> (23, q. 1, c. Quid eulpatur). Ecce Augustinus expresse definivit, quod si non est certum, idest si dubium est, an sit conera Dei praeceptum, quodsubdito licitum est bellare. ec Adrianus -se expeilirepotest ab illa Augustini auetoritate, quarnvis in omnempartem vertat. Sìne dubio enim conclusio nostra est determinatio Augustini-.
Nec valet dicere, quod talis debet tollere dubium etformare sibi conceptum et conscientiam, quod bellumsit iustum. Nam stat, quod moraliter loquendo non possit sicut in allis dubiis.
Adrianus autem videtur errasse in hoc, quod putavit: Si dubito, an hoc bellum sit iustum principi ve1 utruro sit causa iusta huius belli, quod statiro consequirur: Dubito, urrum liceat mihi ire ad hocbellum necne. Fateor en101, quod nullo modo liceI
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Inoltre, nel dubbio si deve seguire l'alternativa piùcerta. Ma se i sudditi in caso di dubbio non seguissero illoro principe, si esporrebbero al rischio di consegnare alnemico la propria comunità politica, il che è molto peggio che combattere contro i nemici restando in dubbio.Quindi, i sudditi devono, piuttosto, combattere.
Allo stesso modo, è del tutto evidente che illittore ètenuto a dare esecuzione alla sentenza del giudice, anche se è in dubbio se sia giusta. L'agire comrario, infatti, è molto pericoloso.
Inoltre, la stessa cosa sembra dire chiaramente Agostino (Contra Maniehaeos): «se per caso il giusto porta learmi agli ordini di un re sacrilego, può a buon diritto fare la guerra al comando di quello, tanto che quello che gliviene comandato non vada con sicurezza contro i co·mandamenti di Dio quanto che ve ne sia il dubbio»' (vedi anche Decretum Cratiani II 23, 1,4, cap. Quid eulpatur). Ecco quindi che Agostino ha apertamente dichiarato che- se l'ordine del re non va senz'altro contro i comandamenti di Dio, ma la cosa è soltanto dubbia - è lecito al suddito fare la guerra. E Adriano non può sottrarsia questa autorevole affermazione di Agostino, anche sela rigira da tutte le parti. Senza dubbio la nostra conclusione coincide con la posizione di Agostino.
E non vale affermare che il suddito deve togliersi ildubbio, e formarsi un'opinione e una certezza sulla giustizia della guerra. È chiaro, infatti, che dal punto di vista morale ciò non è possibile, come in altri casi dubbi.
Adriano sembra essersi sbagliato, in questa circostanza, perché ha creduto che se ho dubbi se questa guerra siagiusta per il mio principe. o se sia giusta la causa di questa guerra, ne consegue immediatamente che ho dubbisulla liceità, o meno, che io partecipi aquesta guerra: pro-
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facere contra dubium conscientiae. Et si dubito, utrumliceat mihi facere hoc necne, pecco, si faciam. ed nonsequitur: Dubito, an sit iusta causa bdli. Ergo dubito,an liceat mihi -bellare- vel militare in hoc bello. Im·mo oppositum sequitur. Si enim dubito, an be11um sitiustum, sequitur, quod ucet mihi ad imperium princi·pis mei militare, sicut non sequitur: Lietor dubita t, ansententia iudicis sit iusta. Ergo dubitat, an uceat ci cxe·qui sententiam. Nibil omnino valet conscientia, immoscit, quod -tenerur exequi. Et idem est de hoc dubio:Ego dubito, an haec sit uxor mea. Ergo teneor ei red·dere debitum.-
9. Quartum dubium est, an possit esse be/lum iustum exutraque parte.
Pro quo sit prima propositio: Su/usa ignorantia ma·nifestum est~ quod non potest contingere.
Quia si constat de iure et iustitia utriusque panis,non ucet in contrarium bdlare, nec offendendo nec de·fendendo.
Secunda propositio: Posila ignoranlia probabilifacliaut iuris potest esse ex ea parte, qua est vera iustitia, bel·lum iustum per se; ex altera autem parte bellum iustum,id esi excusalum a peccalo bona fide.
Quia ignorantia invincibilis excusat a toto. Item exparte subditorum saepe potest contingere. Dato enim,quod princeps, qui gerit bellum iniustUffi, sciret iniusti·tiam belli, tamen, ut dictum est, subditi possunt bonafide sequi principem suum. Et sic ex urraque parte sub·diti licite pugnant, ut notum est.
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dama infatti che in nessun modo è lecito agire contro undubbio di coscienza; e che se sono in dubbio se mi sia lecito fare una tal cosa, o no, pecco se la faccio. Ma dal fatto che io sia in dubbio se esista una giusta causa per unaguerra non consegue che io debba essere in dubbio se misia lecito fare la guerra o prendere le anni in questa guer·ra. Anzi, ne consegue l'opposto. Se infatti sooo in dubbiose la guerra sia giusta, ne consegue che mi è lecito pren·dere le armi su ordine del mio principe. Allo stesso mododal dubbio dellittore se la sentenza del giudice sia giustanon consegue il dubbio se gli sia lecito eseguirla. La coscienza non gioca qui alcun ruolo; anzi, illittore sa che ètenuto a dare esecuzionealla sentenza. E lo stesso vale perquesto dubbio: «sono in dubbio se questa donna sia miamoglie; quindi sono tenuto a darle ciò che le è dovuto».9. li quartn dubbio è se una guerra possa essere giusla doenlrambe le parli.
La prima tesi al riguardo è: a parte i casi di ignoran·lO, è evidente che non può accadere.
Infatti, se vi è certezza del buon diritto" della giustizia di entrambe le parti, non è lecito far la guerra all'avversario, né d'attacco né di difesa.
Seconda tesi: dola una ammiSSIbile ignoranZil dei falti o del dirillo, la gue"a può essere giusla in sé, per la parte presso cui sia la vera giuslizia; ma anche dall'altra parte può esserci una gue"a giusta, cioè una gue"a che labuona fede non rende un peccalo.
Infatti un'insuperabile ignoranza assolve completa.mente. Inoltre, ciò può accadere spesso ai sudditi. Po·sto infatti che il principe che conduce una guerra ingiusta sia consapevole dell'ingiustizia della guerra, tut·tavia, come si è detto, i sudditi possono seguire in buo·na rede il loro principe. E così da entrambe le parti isudditi combatterebbero legittimamente, come è noto.
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IO. Ex hoc sequitur quintum dubium, ulrum qui exignoran/io secutus est belium iniustum, si pos/ea consti·teri/ ei de iniustitia bel/i, utrum tenca!ur restituere - si·ve Ioquamur de principe, sive de subdito.
Pro qua sit prima propositio: Siquidem habebal probabilitatem de iustitia belli, lenelur adveniente <notiliode> iniustiJia res/i/uere ablata, quae nondum consum·psit, id est, quanlum faclus est locupletior; non autem,quoe iom conrumpsli.
Quia regula iuris est, quod qui non esI in culpa, nondebel esse in danno, sicut qui bona fide fui! in conviviolautissimo furis) uhi scilicet res furtivae consumptaesunt, non tenetur restituere, nisi forte quantum domiconsumpsisser et in prandio suo communi. Si autem du·bitavit de iustitia belli secutusque est aucwcitatem prin~
cipis, Silvester (in v. bellum I, S 9) dicit, quod teneturde omnibus, quia mala fide pugnavit.
Sed sit secunda propositio: Nec isle lenelur de con·sumptis sicut nec olius.
Quia, ut dictum est, Iicite etiam et bona fide pugna·vito Sed esset verum, quod Silvester dieit, si revera dubitasser, an liceret ire ad bellum, quia iam facit contraconscientiam. ed est notandum, quod stat, quod beIlum sit iusrum per se et illicitum et iniustum per accidenso Stat quidem, quod quis habeat ius ad recuperanduro civitatem ve! provinciam et tamen ratione scanda~
li fiat prorsus illicitum. Cum enim. ut supra diximus,
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IO. Da ciò consegue il quinto dubbio: se coilli - che sitralli del principe o del suddilo - il quale per sua ignoranza ha partecipato a una guerra giusta, accortosi in seguito dell'ingiustaia di questa, sia tenuto a restituire ciòche ha preso.
Qui la prima tesi è questa: se aveva ammissibili ragioni per creder~ alla giuSlizio d~l'" guerra, non app~na
ha certeua della sua ingiustiz.ia è tenuto a restituire le r0
se che ha preso e che non ha ancora distrullo, ovvero lecose che lo hanno reso più neco; ma non è tenuto a n/ondere ciò che ha dislrullo.
Infatti è regola di diritto che «chi non ha colpa nondeve subire pena»; come colui che in buona fede ha par·tecipato a un ricchissimo banchetto offerto da un ladro,nd quale sono state consumate vivande rubate, non è tenuto alla restituzione se non eventualmente nella misuradi ciò che avrebbe consumato in casa propria, in un pasto ordinario. Ma se invece già aveva dubbi sulla giustizia della guerra, e vi ha partecipato per ordine del principe, Silvestro (voce bellum, l 59) afferma che è tenutoa rendere tuno, perché ha combattuto in mala fede.
Ma la mia seconda tesi è che neppure costui è tenutoa restituire ciò che ha consumato, come non lo è l'altro.
Infatti, come si è derto, ha combattuto lecitamente ein buona fede. Ciò che affenna Silvestro sarebbe vero sequesti avesse realmente dubitato sulla Iiceità della pro·pria partecipazione alla guerra, perché in tal caso egliavrebbe agito contro i dettami della propria coscienza.
Ma si deve notare che può essere che una guerra siagiusta in sé e al contempo illecita e ingiusta secondo lecircostanze accidentali. Può essere, insomma, che qualcuno abbia diritto a riprendersi una città o una provincia, e che tuttavia la cosa sia senz'altro illecita, per loscandalo che comporta. Infatti, poiché, come abbiamo
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bella geri debeant pro bono communi, si ad recuperandum unam dvitatem necesse est, ut sequantur maioramala in re publica - U[ vastatio multarum civitatum etc..irritatio principum. occasiones novorum bellorum _,non est dubium, quin reneatur talis princeps cedere iure suo et abstinere se a bello. ClarissUnum est <, quodsi rex Gallorum, verbi gratia, haberet ius ad recuperandum Mediolanum, ex bello autem et regnum Galliae etipsa provincia Mediolanensis paterentur inrolerandamala et calamir3tes graves. non licer ci recuperare, quiabellum ipsum aut fieri debet ve! propter bonum Galliaeaut Mecliolani. Quando ergo e contrario utriusque magna mala ex bello futura sunt, non potest bellum iustumesse>.
detto, le guerre devono essere fatte per il bene comune,se per riprendere una città la comunità politica va necessariamente incontco a mali più grandi - devastazione di molte città, ecc.. provocazione dei principi, occasione di nuove guerre -, non c'è dubbio che quel principe è tenuto a rinunciare al proprio diritto, e a astenersidalla guerra. È chiarissimo che se, ad esempio, il re diFrancia avesse diritto di riprendersi Milano, ma se dalIa guerra il regno di Francia e la stessa provincia di Milano soffrissero mali intollerabili e gravi calamità, nonsarebbe lecito riprendere la città, perché questa guerradeve essere fatta per il bene della Francia o di Milano.E penanto quando, al contrario, dalla guerra derivino aentrambe grandj mali, la guerra non può essere giusta.
Quacstio quartn
\I pars
Quantum liceatin bello iusto
1. Primum dubium et bonum profecto, an liceat in bello interficere innocentes.
2. Secundum dubium est, an liceat saltem spoliare in belloIUsto Innocenles.
J. Teroum dubium est, dato quod non liceat interficerepueros et innocentes, an saltem liceat ducere illos in captivitatem.
4. Quartum dubium est, utrum saltem obsides, qui vel tempore indutiarum vel peracto bello ab hostibus recipiuntur,inter/ici possint, si hostes fidem fregerint.
5. Quintum dubium est, an saltem in bello liceat inter/icere omnes nocentes.
6. Sextum dubium est, an liceat ùlter/icere captivos, supposito etiam, quodfuerunt nocenles.
7. Sequitur septimum dubium, utrum omnia capla in bello/tant capientium et occupanlium.
8. Octavum dubium est, utrum liceat imponere victis hostibus tributa.
9. Nonum dubium est, an liceat deponere principes hostiumet novos constiluere vel sibi retinere pn·ncipatum.
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Quarta queslione
Il parte
Quale sia la misura del lecitoin una guerra giusta
1. TI primo dubbio, e più importante, è se in guerra sia lecito uccidere gli innocenti.
2. TI secondo dubbio è se, in una guerra giusta, almeno sialecito espropriare gli innocenti.
J. TI terzo dubbio è, dato che non è lecito uccidere i fanciulli e gli innocenti, se almeno sia lecito trarli in prigioma.
4. TI quarto dubbio è se almeno gli ostaggi che il nemico hainviato, durante una tregua o a guerra terminata, possano essere uccisi, nel caso che i nemici non mamengano laparola data.
5. TI quinto dubbio è se almeno sia leciro in guerra uccidere tutti i colpevoli.
6. TI sesco dubbio è se sia lecito uccidere i prigionieri, nell'ipotesi che siano stati colpevoli.
7. TI settimo dubbio, poi, è se tutte le cose prese in guerra divengano proprietà di coloro le hanno prese e le detengono.
8. L'ottavo dubbio è se sia lecico imporre tributi ai nemiciVLntl.
9. li nono dubbio è se sia lecito deporre i principi dei nemici, e costituirne di nuovi, o annettersi il principato.
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Circa aliam etiam quaestionem sunt multa dubia, videlicet quaestio erat, quantum liceat in bello iusto.
1. Primum dubium et bonurn profecto, an liceat in bello inter/icere innocentes.
Potest probari, quod sir-. Primo, quia filii Israel interfecerunt infantes, ut patet Ios 6, 20-21, in Iericho etpostea Saul interfecit in Arnalec pueros - utrumque exauctoritate et mandato Domini, ur habetur 1 Sam 15,8.Quaecumque autem scripta sunt, ad nostram doctrinamscripta sunto Ergo etiam nunc, si beUum sit iustum, licebit interficere innocentes.
Sed de hoc dubio sit prima propositio: Numquam licet per se et ex intentione interficere innocentem.
Probatur primo Ex 23,7, ubi dicitur: lnsontem et iustum non occides.'
Secundo probatur: Fundamentum iusti belli estiniuria, ut supra dictum est. Sed innocens nihil malumfecir. Ergo <non licet bello uti contra illum>.
Tertio probatur sic: Non licet in re publica pro delictis malorum punire innocentes. Ergo etiam nec proiniuria malorum non licet interficere innocentes apudhostes.
Quarto, quia alias esset iam bellum iustum ex utra·que parte <seclusa ignorantia>. Patet, quia etiam innocentibus liceret se defendere. Et confirmatu! totumhoc, quia Dt 20, 13-14 mandatur filiis Israel, ut cum viceperint civitatem, alios quidem interficiant, parcantautem mulieribus et parvulis.
Ex quo sequitur, quod etiam in bello contra Turcasnon licet interficere infantes. Patet, quia sunt innocen-
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Anche circa l'altra questione vi sono molti dubbi; laquestione era quale sia la misura del lecito in una guerragiusta.1. TI primo dubbio, e più importante, è se in guerra sialecito uccidere gli innocenti.
Si può dimostrare di sì. In primo luogo perché i figlid'Israele uccisero i bambini a Gerico (los 6, 20-21), e poianche Saul uccise i fanciulli in Amalec, in entrambi i casi per autorità e comando di Dio (l Sam 15,8). Ma «tutto quello che è stato scritto, è stato scritto per nostro amomaestramento» (Rom 15, 4); quindi anche ora, se unaguerra è giusta, è lecito uccidere innocenti.
Ma su questo dubbio la prima tesi è questa: nOI1 èmai lecito uccidere /Jinnocente in quanto tale, e intenzionalmente. Lo dimostra dapprima l'Esodo (23, 7): «tunon ucciderai l'innocente e il giusto».
In secondo luogo, la si dimostra col fatto che, comesi è detto prima, il fondamento di una guerra giusta èl'offesa. Ma l'innocente non ha commesso alcun male.Quindi non è lecito fargli guerra.
In terzo luogo, la si dimostra perché in una comunitàpolitica non è lecito punire gli innocenti per i delitti deimalvagi. Quindi neppure fra i nemici è lecito uccideregli innocenti, neppure per i torti compiuti dai malvagi.
In quarto luogo, perché in caso contrario la guerrarisulterebbe giusta da entrambe le parti, in una circostanza diversa dall'ipotesi dell'ignoranza. È infatti evidente che anche agli innocenti sarebbe lecito difendersi. E tutto ciò trova conferma, perché è stato comanda·to ai figli d'Israele (Dt 20,13-14) di uccidere pure i nemici, quando prendevano con la forza una città, ma dirisparmiare le donne e i bambini.
Ne consegue che neppure nella guerra contro i Turchi è lecito uccidere i fanciulli. È chiaro, infatti, che so-
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teso Immo nec feminas. Patet, qula, quamum ad be1lumspectat, praesumuntur innocentes, oisi forte constet dealiqua femina, quod fuerit in culpa.
<Item idem videtur iUcllcium de innoxiis agricolisapud Christianos, immo de alia gente togata et pacifica,quia omnes praesumuntur innocentes, nlsi contrariumconstaret.>
Secundo sequitur, quod non licet imerficere peregrinos neque hospites, qui sunt apud hostes, quia pIaesumuntur rnnocentes.
Tertio sequltur idem de clericis et religiosis, nisi con·stet de contrario vel inventi fuerint actualiter pugnantesin bello. Non dubito de hoc.
Secunda propositio: Per accidens autem etiam sàenter aliquando licet interficere innocentes, puta cum OppUgnatur arx aut dvitas iuste, in qua tamen constat essemultos innocentes, nee possunt maehinae solvi velalia teia vel ignis aedi/iciis subicl~ quin etiam opprimantur innocentes sicut nocentes.
Probatur, quia alias non posset geri be1lum contraipsos nocentes et frustraretur iustitia be1lantium <, si·cut, e contrario, si oppidum oppugnarur iniuste et iustedefenditur, licet mittere machinas et alia tela in obsessores et in castra hostium, dato quod inter illos sint aliqui pueri aut innoxll>.
Sed esI considerandum, quod paulo ante dictum est,quod oportet cavere, ne ex ipso bdIo sequantur maiora
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no innocenti. E anzi neppure è lecito uccidere le donne. È chiaro, infatti, che per quanto riguarda la guerraè da presumersi siano innocenti, tranne che non vi sia lacertezza che qualche donna sia colpevole.
Parimenti, il medesimo sembra il criterio per giudicare, nelle guerre fra i cristiani, dei contadini inermi, eanche di altri, come i pacifici letterati, poiché sono tutti da presumere innocenti, se non c'è la certezza del contrario.
Ne consegue, in secondo luogo, che non è lecito uc·cidere i viaggiatori stranieri e gli ospiti che si trovano frai nemici, poiché si presume siano innocenti.
In terzo luogo ne consegue la medesima cosa per gliuomini di Chiesa e i religiosi, se non si ha la certezza delcontrario, o se non sono stati sorpresi sul fatto a combattere in guerra. Su ciò non c'è dubbio.
Seconda tesi: tuttavia incidentalmente, anche se con·sapevolmente, è lecito in certi casi uccidere innocentl~ adesempio quando, nel corso di una guerra giusta, si assediauna fortezza o una città nella quale pure si sa che ci sonomolti innocentI: e non si possono sparare i cannom: né sipossono lanciare altri proiettili o appiccare il fuoco agliedifiCl~ senza che si travolgano anche degli innocentJ~ insieme ai colpevoli.
Ciò è dimostrato dal fatto che in caso contrario nonsi potrebbe far guerra contro gli stessi colpevoli, e sarebbe frustrala la giusta causa di chi fa la guerra; allostesso modo, nel caso contrario, se una città è ingiustamente aggredita e giustamente si difende, è lecito rivol·gere i cannoni e gli altri proiettili contro gli assedianti econtro gli accampamenti dei nemici, anche se in essi sitrovano alcuni fanciulli o degli inermi.
Ma bisogna considerare ciò che è stato detto poc'an·zi, cioè che si deve evitare che dalla guerra derivino mali
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mala quam vitenrur per ipsum bdlum. Si enim ad victoriam parum confert expugnare arcem aut oppidum,ubi est praesidium hostium et sunt multi innocentes,non videtur, quod liceat ad expugnandum paucos nocentes occidere mu1tos innocentes subiciendo ignemvd rnachinas. quibus opprimantur innocentes cum 00
centibus. Et tandem numquam videtur licitum opprimere innocentes etiam per accidens et praeter inrentionem, nisi quando <ad> bellum iustum expedit et gerialitet non potest, iuxta illud Mt 13,29-30: Sinite crercere ziuznio, ne eradicetis simul et tritù:um.'
Sed cuca haec potest dubitari, an liceat interficere innocentes, (J quibus tamen futurum imminel perictllum, ut
puta fùii Saracenorum sunt innocentes, sed timendummerito est, ne facti adulti pugnent contra Christianos.Et praeterea etiam cagati puberes apud hostes etiampraesumuntur innocentes, sed isd postea accipient ar·ma et pugnarent contra Christianos. Quaerituf, an licealtaler interficere.
Et videtur, quod sic, quia per accidens etiam licet interficere alios innocentes. Item Dt 20,13-14 praecipiturfùiis Israel, ut cum expugnaverint aliquam civitatem, in·terociant omnes puberes. on autem est praesumen·dum, quod omnes sunt nocentes. Ergo.
Respondetur tamen ad hoc: Licet fortasse possetdefendi, quod in tali casu licet eos interficere, tamen credo, quod nullo modo licet, quia non suntfacienda mala, ut vitentur etiam alia mala maiora.Et intolerabile est plOfecto, quod occidatur aliquispro peccato futuro. Et primum sunt multa alia re·media ad cavendum in futurum ab illis, ut captivi-
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superiori a quelli a cui la guerra pone rimedio. Infatti, seai fini della vittoria poco impona espugnare una fortezza o una città fortificata in cui si trova un presidio di ne·mici insieme a molti innocenti, allora non sembra lecitoper sconfiggere pochi colpevoli uccidere molti innocenti, appiccando il fuoco o sparando i cannoni, che possono colpire innocenti e colpevoli. Insomma, non pare mailecito uccidere innocenti, neppure incidentalmente eininrenzionalmente, se non quando giova alJaguerra giusta, e quando questa non può essere condotta in altromodo, secondo il detto (Mt 13,29-30) «1asciate crescerela zizzania, per non sradicarla insieme al grano».
Ma a questo proposito ci si può interrogare se sia Lecito uccidere quegLi innocenti dai quali tuttavia deriveràun luturo pericolo; come, ad esempio, i figli dei Sarace·ni sono innocenti, ma ci sono buoni motivi per temereche, divenuti adulti, combattano contro i Cristiani.Inoltre, anche i giovinetti adolescenti che stanno fra inemici sono presunti innocenti, ma questi poi prenderanno le armi e potrebbero combattere contro i Cristiani. Si chiede re ria lecito uccidere cortoro.
Patrebbe di sì, poiché in via accidentale è lecito anche uccidere degli innocenti. Così (Dt 20, 13-14) vienecomandalO ai figli d'Israde che, quando espugnano unacittà, uccidano lUtti gli adolescenti. Ma non si può presumere che questi siano rutti colpevoli. Quindi sembralecito.
Ma a ciò si deve tuttavia rispondere così: anche se for·se si può sostenere che in qud caso è lecito ucciderli, credo nondimeno che non sia in alcun modo lecito, poichénon si deve fare il male per evirare altti mali maggiori. Edè proprio intollerabile che qualcuno venga ucciso per unpeccato futuro. E in primo luogo vi sana molti altri rimedi per guardarsi, per il futuro, da qudli, come la pri-
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tas. exilium etc. Item non licet hoc in propriis civibus:occidere aliquem pro peccato futuro. Ergo non licet inextraneos. Non dubito de hoc. Vnde sequitur, quod si·ve iam parta victoria, sive cum actu bellum geritur etconstat de innocentia alicuius et milites possunt eUffiliberare. tenentur.
Ad argurnentum autem in conuarium respondetur,quod illud facrum fuit ex speciali mandaro Dei, qui indi·gnatus contra populos illos voluit perdere omnino. sicutmisit ignem in Sodomam et Gomorrham, qui devoravittam nocentes quam innocentes. Ipse enim erat dominusomnlum, nec istam legem voluit esse in communi.
Et ad illud Deuteronomii (20, 13·14) posset eodemmodo responderi. Sed quia illic dara est lex belli com·munls in Offine tempus futurum. potius videtur, quod il·lud Domlnus dixit, quia revera omnes puberes -repu·tantur- in civitate inimica nocentes et non possunt di·stingui innocentes a nocentibus. Et ideo omnes possuntoccidi.
2. Secundum bonum dubium est, an liceat saltem spo·bare in bello iusto innocentes.
Ad quod sit prima propositio: Certum est, quod licetspollare illos bonis et rebus, quibus hostes usuri sunt ad·versum nos <.ut armis, navibus, machinis>.
Patet, quia alias victoriam consequi non possemus.!mmo etiam licet accipere pecunias innocentium etcomburere et corrumpere frumenta et occidere equos,et ita opus est ad debilitandas hostium vires. Non estdubium de hoc.
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gionia. l'esilio, ecc.; e inoltre come non è lecito ucciderei propri cittadini per un peccato futuro così non lo è neppure nei riguardi degli stranieri. Su ciò non ho dubbi. Neconsegue che se - una volta ottenuta la vittoria. oppurequando ancora la guerra è effettivamente ln corso - si hala certezza dell'innocenza di qualcuno. e i soldati posso·no liberarlo, vi sono tenuti.
All'argomentazione contraria si risponde che quellamisura era stata presa dietro comando speciale di Dio,che indignato contro quei popoli li volle far scompariredel tutto, allo stesso modo in cui inviò contro Sodomae Gomorra il fuoco, che consumò tanto i colpevoliquanto gli innocenti. Egli era infatti il Signore di rutti gliuomini, ma non volle certo che questa legge divenisseuna regola generale.
E a quel brano del Deuteronomio (20, 13·14) si po·trebbe rispondere allo stesso modo. Ma poiché lì si è vo·Iuta stabilire una legge generale di guerra, che deve va·lere per ogni tempo futuro, sembra piuttosro che il Si·gnore abbia fatto quell'affermazione perché davverotutti gli adolescenti in una città nemica vengono ritenuti colpevoli, e non si possono distinguere i colpevoli da·gli innocenti. E quindi possono essere tutti uccisi.2. Usecondo importante dubbio è se, in una guerra giusta, almeno sia tedto espropriare gli innocenti.
A questo riguardo, la prima tesi è: certamente è Le·cito espropriarli di quei beni e di quelle cose di cui i ne·mici si serviranno contro di no~ come arml~ navi. cannOni.
È chiaro infatti che altrimenti non potremmo conseguire la vittoria. Anzi, è anche lecito prendere denarodagli innocemi, bruciare e distruggere i raccolti, uccidere i cavalli: così è necessario, per indebolire le forzedel nemico. Su ciò non c'è dubbio.
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Ex quo sequitur corollarium, quod si bellum sit perpetuum, [icet indifferente, spoliare omnes, 10m innocen·les quam nocentes, quia ex opibus suorum hostes o/unibellum iniustum et e contrario dehilitantur vires eorum,si aver eorum spoliantur.
Secunda propositio: Si bellum satis commode geripotest non spoliando agricolas aut alios innocentes, non vi·detu" quod liceat eos spoliare.
Hoe tenet Silvester (in v. bellum 1,5 IO), quia bellum fundarur in iniuria. Ergo non licet iuce belli interfiecce innocenres neque spaliare, si aliunde polest compensare iniuria. lmmo addit Silvester, quod eriam si fuerir iusta causa spoliandi innocentes, quod transac[Q bello tenetur vietor restituere illis quicquid superest.
Sed hoe non puto esse necessarium, quia, ut infra diceme, si iuce belli faetum <sit>. omnia cedunt in favoccm gerentium iustum bellum. Unde si I.icite sunt capt3, puto, quod non teneantur ad restirutionem. Dictumtamen domini Silvestri pium est et non improbabile.
Spoliare autem peregrinos et hospites <, qui suntapud hastes>, oisi constet de culpa illorum, nullo modo licet, quia illi non sunt de numero hosrium, sed potius reputantur innocentes.
Tenia propositio: Si hostes nolunt restituere res iniuria ablatas et non possit, qui laesus est, aliunde commoderecuperare, potest undecumque satisfactionem capere- sive a nocentibus, sive ab innocentibus.
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Ne consegue come corollario che se vi è una guerraperpetUIJ è lecito espropriare tutti senza distinzione, sia gliinnocenti sia i colpevou; poiché i nemio' con le ricchezzedei loro cittadini alimentano la guerra ingiusta, e, al contrario, se i loro o'lladini vengono espropriati, le loro forze vengono indebolite.
Seconda tesi: se la guerra può eHere condoIla abbastanza efficacemente senza espropnare i contadini o altn'innocenti, sembra che non SIa lecito espropnarli.
È questa la posizione di Silvesrro (v. bellum, I 5 IO),poiché la guerra ha come origine un rorto. Quindi anorma dd dirino di guerra non è lecito né uccidere néespropriare innocenti, se il torto subìto può essere riparato in altro modo. Anzi, Silvestro aggiunge che, anchese ci fosse stata una giusta causa per espropriare gli innocenti. una volta che la guerra sia finita il vincitore ètenuto a restituire loro tuno ciò che è rimasto.
Ma questo non lo credo necessario, perché, come sidirà oltre, se l'esproprio è fano secondo il dirino diguerra tutto va a favore di coloro che combattono laguerra giusta. Pertanto, se questi beni sono stati presilecitamente, credo che i vincitori non siano tenuti a resutuirli. Tuttavia, la tesi di Silvestro è ricca di pietà cristiana, e non inammissibile.
Ma non è in alcun modo lecito spogliare i viaggiatori stranieri e gli ospiti che si trovano fra i nemici, se nonsi è certi della loro colpa, poiché quelli non sono da annoverarsi fra i nemici, e sono piuttosto ritenuti innocenti.
Terza tesi: se i nemici non vogliono restituire i beni ingiustamente sollratll; e chi ha subìto il torto non lipotesse recuperare in altro modo con /aaHlà, questi può prendersi soddisfazione da un'altra parte, sia dai colpevoli siadagli innocenti.
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Ut si latrones Galli fecerinr praedas in agrum ilispanorum et rex Francorum nalit cogere illos ad resti·tutionem, cum possit, possunt Hispani auctocitate suiprincipis spaliare mercatores Gallos aut agricolas quan·turncumque innocences. QUi3 licet forre a principio respublica aur princeps Gallorum non fuerit in culpa, iamest in culpa, quia neglegit vendicare, ur ait Augustinus.quod improbe a suis factum est, et princeps laesus patestex amni parte satisfactionem accipere. Unde litteraemarcharum aut represaliaruffi, quae a principibus inhuiusmodi casibus conceduntur, non sunt amnino iniustae, quia per negligentiam et iniuriam alterius principisconcedit laeso suus princeps, ur possit recuperare bonasua etiam ab innocentibus. Sunt autem periculosae etpraebenr occasionem rapinarum.
3. Tertium dubium: DOlO, quod non liceol inlerficerepueros et innocentes, on sal/cm liceal ducere il/aJ in captivitatem.
Ad hoc sit prima propositio: Eodem modo licei ducere il/os in captivi/atem, sicu! licet spaliare il/os, quia li·ber/as et captivitas inter bona fortunae reputan/Uf.
Unde quando bellum est talis condicionis, quod licet spaliare indifferenter omnes hostes et occupare omnia bona illorum. etiaro !icer ducere in captivitatem Offi
Des hostes, sive nocentes, sive innocentes. Et cum bel·lum adversus paganos sit huiusmodi, quia est perpe·tuum et numquam satisfacere possunt pro iniuriis etdamnis illatis, ideo non est dubitandum, quin liceat etpueros et feminas Saracenorum ducere in captivitatem.Sed quia iute gentium viderur reeeptum, ur Christian iinter Christianos non Rant servi, in bello quidem inrer
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Se ad esempio dei briganti francesi saccheggiasseroi campi spagnoli e il re di Francia, pur avendone il potere, non li volesse costringere alla restituzione, gli Spagnoli con l'autorizzazione del loro principe possonoespropriare i mercanti o i contadini francesi, benché in~
nocenti. Perché, benché forse all'inizio la comunità politica di Francia o il principe dei Francesi non fosserocolpevoli, ormai lo sono, dato che, come dice Agostino,«omettono di punire i propri cittadini per ciò che han~
no fatto di male"" e il principe che ha subito il tortopuò prendersi soddisfazione da qualsiasi parte. Pertanto, le lettere di corsa o di rappresaglia che in siffatle circostanze vengono concesse dai principi non sono com·pletameme ingiuste, perché, a causa della negligenza edell'ingiustizia di un altro principe, a chi ha subìto il toroto il suo principe concede di poter recuperare i suoi be~ni anche dagli innocenti. Ma sono pericolose, e dannooccasione a rapine.3. Terzo dubbio: dolo che non è lecilo UCCIdere ifonciulli e gli innocentz~ se almeno sia lecito trarli in prigionia.
Su ciò, questa è la prima tesi: è lecito trarli in prigionia,01medesimo modoin cuiè lecilo espropriarli, poichéliberlàe prigionia sono da annoverarsi/ra i beniacaaentali.
Pertamo, quando la guerra è di tipo tale che è lecitoespropriare senza distinzione tutti i nemici e imposses~
sarsi di tutti i loro beni, è lecito anche trarre in prigionia tutti i nemici, colpevoli o innocenti che siano. E dato che la guerra contro i pagani è appunto di tal fatta- poiché è perpetua, e i nemici non possono mai rende~re soddisfazione delle offese e dei danni procurati -, èquindi fuori di dubbio che sia leciro trarre in prigioniaanche i fanciulli e le donne dei Saraceni. Ma poichésembra che sia entrato nel diritto delle genti il principioche i Cristiani non riducono in servitù altri Cristiani,
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Christianos licet, si ita opus est ad fmem belli <captivosducere etiam innocemes, ur pueros et feminas, non qui·clero in servitutem, sed ur pro illorum redemptione pe·cunias recipiamus, licitum esser. Quod tamen extendendum non est ultra quam belli necessitas postulet;consuetudo legitirne belligerantium obtinuit>.
4. Quartum dubium est, utrum saltem obsides, qui veltempore indutiarum vel peracto bello ab hostibus reapiuntur, interfici possint, si hostes fidem [regerint.
Respondetur per unicam conclusionem, quod si absides alias sini de numero pula nocentium, qui tulerunlcontra arma, interfiei <iuTe> possunt in hoc casu. Si autem sini innocentes, ex supro dictis constai, quOti inter/ici non possunt. Non est dubitandum de hoc.
5. Quintum dubium est, an saltem in bello iusto liceatinterfieeTe omnes nocenles.
Pro responsione notandum, quod bellum geriturprimo ad defendendum nos et nostra, secundo ad recuperandum res ablatas, tenio ad vindicandum iniuriamacceptam, quarto ad pacem et securitatem paranclam.
His suppositis sit prima propositio: In ipso actua"conflictu proelii vel in impugnatione vel de[ensione civitatis licet indifferenter inter/ieeTe omnes, qui contra pugnon!, et, brevi/eT, quamdiu res est in periculo.
Hoc patet, quia aliter bellum bene gerere non possent be1lantes nisi tollendo ornnes in contrarium bellantes.
Sed totum dubium est, an habita iam scilicet victo-
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sembra lecito in una guerra fra Cristiani - se è necessario ai fini della guerra - prendere prigionieri anche gliinnocenti. come i fanciulli e le donne; e non per farnedegli schiavi, ma perché possiamo acquisire denaro dalloro riscano. E questa pratica, tuttavia, non deve essereestesa al di là di ciò che è richiesto dalla necessità dellaguerra; lo ha sancito la consuetudine dei legittimi belligeranti.4. TI quarto dubbio è se almeno gli ostaggi che il nemicoha invia/o, durante una tregua o a guerra terminata, possano essere ucds~ nel caso che j nemid non mantenganola parola data.
Si risponde con una sola conclusione, che se gliostaggi provengono da un gruppo di colpevoli che, adesempio, in passato hanno imbracciato le armi: in tal caso possono a buon diritto essere ucdri. Ma se sono inntrcent~ da quanto si è detto poc'anzi emerge che non possono essere ucasi. Su ciò non vi è dubbio.5. TI quinto dubbio è se a/meno, nella guerra giusta, sialecito uccidere tutti i colpevoli.
Per rispondere si deve notare che la guerra viene fat(a in primo luogo per difendere noi e le nostre cose, insecondo luogo per recuperare le cose sottratte, in terzoluogo per punire l'offesa ricevuta, in quarto luogo perprocurare pace e sicurezza.
Sulla base di questi presupposti, la prima tesi è chedurante l'impeto del combattimento di una battaglia, odurante un assalto oppure una dIfesa di una città, è lecitouccidere indistintamente tutti i nemici combattentz: e, inbreve, che è lecito finché lo situazione è in pericolo.
Ciò è chiaro, perché i combattenti non potrebberocondurre bene la guerra in altro modo, se non togliendo di mezzo tutti queUi che combattono contro di loro.
Ma il cuore del dubbio è se, ottenuta ormai la vitto-
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ria, utrum liceat interficere omnes hostes, qui arma tutemnt, ubi iam nullum est periculum ab hostibus. Et videtur, quod sic. Naro, ut supra dictum est, inter praecepta, quae Dominus dedit Dt 20, unum est, quod estnotandum, quod expugnata civitate hostium interficerentur omnes habitatores illius. Haec sunt verba illius100: Quando aeeesseris ad pugnandam dvitatem, offeresei primum pacem. Si autem reeeperit et aperuit tibi por·tas, cunetus populus, qui in ea est, salvabitur et seroiet ti·bi sub tributo. Sin autem noluent et roepent rontra tebe//um, oppugnabis rontra il/am. Cumque tradiderit Dominus Deu! tuus il/am in manu tua, percuties omne, quodin ea est generis masculini, in ore gladii absque mulieri·bus et infantibus.
Sed sit secunda propositio: Habita vietoria et rebusiam extra periculum positis licet inter/ieere nocentes.
Prohatur, quia non solum ordinatur ad recuperandas res perditas, sed etiam ad vindicandum iniuriam.Ergo -pro iniuria praeterita- licet interficere auetoresmlUnae.
Item hoc licet in proprios cives malefacrores - ergoetiam in extraneos, quia, ut supra dictum est, belli principes iure belli auetoritatem habent in hostes sicut legitimi principes et iudices.
Item, quia licet in praesentia non esset periculuro, tamen in futururo securitas non haberetur.
Tertia propositio: Solum ad vindicandam iniuriamnon semper licet inter/ieere omnes noeentes.
Probatur, quia etiam inter cives non liceret, si etiamesset delictum totius civitatis, interficere omnesdelinquentes, nec in communi rebellione liceret
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ria, ~ia lecito uccidere tutti i nemici che hanno preso learmi, anche se dai nemici non proviene più alcun pericolo. E sembra di sì. Infatti, come si è detto sopra, fra icomandi che il Signore ha dato (Dt 20,10-(4) ce n'è unoche d~~ essere notato, e cioè che, una volta espugnata~na citta neImca, se ne devono uccidere tutti gli abitanti. Queste sono le parole di quel passo: «Quando ti avvicinerai a una cirtà per assalisla, proponile prima la pace. Se l'accetta e ti apre le porte, tutto il popolo che laabita sia salvo, e ti sia tributario e soggetto. Ma se rifiuta la pace, e intraprende COntro di te una guerra, combattila. E quando il Signore tuo Dio te la darà nelle mani passa a fù di spada cutti i maschi che sono in essa, manon le donne e i bambini».
E questa è la seconda tesi: raggiunta la vittoria e messa al sicuro la situazione, è ledto ucddere tutti i colpevoli.
Lo dimostra il fatto che la guerra ha come proprio fine non solo recuperare le cose sottratte ma anche punire un'offesa. Quindi a causa dell'offesa passata è lecitoucciderne i responsabili.
Inoltre, è lecito agire così contro i propri concittadi.ni che hanno compiuto delitti; quindi, è lecito anchecontro gli estranei, poiché - come si è detto in precedenza - i principi che fanno guerra hanno, per diritto diguerra, autorità sui nemici, come se ne fossero i principi legittimi e i giudici.
Iofme, è lecito perché, nonostante sul momento nonvi sia pericolo, nondimeno in futuro non si avrebbe sicurezza.
Terza tesi: se Il fine è solo que//o di punire le offese,non sempre è ledto uccidere tutti i colpevoli.
Lo dimostra il fatto che anche fra i cittadini, se fosse commesso un delitto da parte di un'intera città nonsarebbe lecito uccidere tutti coloro che se ne sono ~ac-
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perdere totum populum. Vnde et cum simili factoTheodosius ab Ambrosio -.- ab eccles.a est proh.bltus.Esset enim hoc contra publicum bonum, quod tamenest finis belli et pacis. Ergo etiam non licet occidere omnes nocentes ex hostibus.
Oportet ergo habere rationem iniuriae ab hostibusacceptae et damni ilIati et aliorum delictorum et ex. hacconsideratione procedere ad vindictam amni 3trootate
et inhumanitate seclusa. In hoc enim proposito CiceroDe ojfidis air, quod animadverten~um est in obnox~'os~quantum aequi/ar et humanitos potlon/uf. Et S~~s~u~:Maiores, inquit, nostri religiosissimi mortaies nthtl VlctlS
eripiebant praeter iniuriae licentiam.
Quarta propositio: Aliquando licei el expedil inler/icere omnes nocentes.
Probatur, quia etiam bellum gcrirur ad pariend~pacem. Sed aliquando obtineri securitas non potest, s.non opprimancur omnes hosres. Et hoc .max1ID.e ~d~rurcontra infideles, a quibus numquam ullis condiclornbuspax spectari potest. Et ideo unicum remedium est omnes tollere, qui contra arma ferre possunt. dummodoiam fuerint in culpa. Et ita intelligendum est praeceptum ilIud DI 20, 13.
Alias autero in bello contra Christianos non puto,quod hoe sit licitum. Cum enim neeesse sit, u~ veniantscandala et bella inter principes (MI 18, 7), s. sempervietar interfieeret adversarios orones, esset magna per·nicies generis humani <et Christianae religionis et orbiscito in solitudinem redigerelUr nec bella pro bono pu-
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chiati, e che neppure nel caso di una ribellione di massa è le~it~ distrugge.re un intero popolo. E quindi per unfatto simile TeodoslO fu allontanato, da Ambrogio, dalla Chiesa. S. tratterebbe infatri di un comportamentocomrario al pubblico bene, che è invece il ftne dellaguerra e della pace. Quindi, neppure fra i nemici è lecito uccidere tutti i colpevoli.
Pertanto si deve valutare la misura dell'offesa ricevuta dai nemici, del danno arrecato e degli altri delittie da q.uesta vaJutazione si deve procedere alla punizio~ne, eVitandosi ogni atrocità e ogni disumanità. E infattia questo proposito Cicerone afferma, in De officiis (II,5), ehe «SI devono prendere misure eontro i colpevoli,per quanto lo consentano la giustizia e l'umanità». ESallustio dice: «1 nostri antenati, uomini piissimi, nonsottraevano ai vinti nulla se non la libertà di recare of.fesa»2.
~uarta tesi: in alcuni CIlsi è anche lecitol
e opportuno,ucadere lulli i colpevoli.
10.dimostra il fatto che la guerra è fatta perché nescarunsca la pace. Ma in certi casi la sicurezza non puòessere ottenuta se non attraverso l'eliminazione di ruttii nemici. Quesro sembra essere soprarrutto il caso dellaguerra contro gli infedeli, dai quali non ci si può maiaspettare una pace, a nessuna condizione. E penantol'unico rimedio è eliminare tutti quelli che possono portare le anrn, purché si siano macchiati di colpa. È cosìche deve essere interpretato il precetto di DI 20, 13.
Ma nd caso di una guerra fra Cristiani non credo checiò sia lecito. Poiché è infatti inevitabile che si producano scandali e guerre fra i principi (MI 18, 7), se il vincitore uccidesse sempre tutti gli avversari ciò sarebbem?lt.o dannoso per il genere umano e per la rdigioneCristiana, e presto tutto il mondo sarebbe ridotto a un
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blico, sed in publicam calamitatem perdite getetentur>. Oportet ergo, ut pro mensura delicti sit plagarummodus <nec ultra progrediacur vinclicta>.
In quo etiarn habenda est consideratio, quod, ut s~
pra dictum est, subditi non tenentur oec debent eX~l·nare causas belli, sed possunt sequi principem suum '?bellum, contenti auctorirate principis et publici ~onsl.
ili. Unde pro maiore parte, licet ex altera parte Sll beIlum iniustUffi, tamen milires, qui veniunr ad belIum etpugnant aut defendunt civit3tes, ex utraque pane ~unt
mnocentes. Unde cum iam vieti sunt et non est penculum ab iIlis, credo, quod non licet ilIos interficere, neeunum quidem ex illis, si praesumitur, quod bona fidevenerunt in proelium.
6. Sextum dubium est, an liceat interficere captivos supposi/o eliam, quod/uerint nocenles.
Responderur, quod per se loquendo nihil obstat,quin dediti aut captivi in bello iusto, si fuerinr noc~t~,internci possinr - servata [amen aequitate. Sed qwa mbello multa iuce gentium constituta sunt, viderur receprum consuetudine, ur captivi habita victoria et periculotranseunte non inrerociantur, nisi forte sioe profugae.Et servandum est istud ius gentium eo modo, quo interbonus viros servatum est. De deditis autem non legooec audio talem consuerudinem. <lmmo in deditioni·bus arcium civitarum solent, qui se dederunt, cavere sibi condicionibus, ur salva sint capita et salvi mittantur,
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deserto; e le guerre risulterebbero non condotte per ilpubblico bene ma, rovinosamente, per la pubblica calamità. Occorre dunque che <d'entità delJe pene siacommisurata alla colpa» (Dt 25, 2), e che la vendettanon si spinga oltre.
A questo riguardo si deve inoltre considerare che- come si è detto prima - i sudditi non hanno né il dovere né il diritto di giudicare le cause delJa guerra, mapossono seguire iliaco principe alla guerra, accontentandosi delJ'autorità sua e del consiglio pubblico. Quindi, anche se la guerra di una delJe due parti è ingiusta,nondimeno i soldati che vengono alla guerra e combattono, o che difendono le città, sono per la maggioranzainnocenti dall'una e dall'altra parte. E quindi, quandosono vinti e non sono più fonte di pericolo, credo chenon possano essere uccisi, neppure uno solo, se si presume che siano scesi in battaglia in buona fede.6. Sesto dubbio: se sia lecito uccidere i prigionieri, nell'ipotesi che siano stati colpevoli
Si risponde che, a rigore, nulla osta a che coloro chesi sono arresi o sono stati fatti prigionieri in una guerragiusta, vengano uccisi, purché siano stati colpevoli, efatta salva la giustizia. Ma poiché in guerra molte regole sono istituite per diritto delle genti, sembra ormai accolto come consuetudine che i prigionieri, una volta chesia stata conseguita la vittoria e sia passato il pericolo,non vengano uccisi, tranne che non siano dei rinnegati.E questa regola del clisitto delle genti deve essere rispettata, come tradizione consolidata fra persone civili.Ma per coloro che si sono arresi non leggo né sento chesia in uso una tale consuetudine. Anzi, nelle rese dellefottezze delJe città coloro che si arrendono sono solititutelarsi ponendo condizioni, cioè che sia loro risparmiata la vita e vengano lasciati andare salvi, evidente-
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scilicet veriti, ne si simpliciter et nullis condicionibusdedantur, interficiantut. Et hoc a1iquoties factum legi.muso Unde non videtur iniquum, ut si oppidum nihil ca·vendo dedatur, mandato principis aut iudicis a1iqui, quifuerunt nocentiores, occidantur.>
7. Sequitut septimum dubium, ulrum omnia capla inbello/ianl capienlium eloccupanlium.
Ad hoc sit prima propositio: Non esi dubilandum,quin amnia capta in bello iusta usque ad sulficientem sa·tisfactionem rerum ablatarum per iniuriam et etiam impensarum belli/ianl occupanlium.
Nec indiget probatione ista conclusio, quia ilIe est fi·nis belli. Sed seclusa consideratione restitutionis standoin solo iure belli distinguendum est-o Nam- capta inbello aut sunt mobilia, ut pecuniae, vestes, aurum, autimmobilia, ut agri, oppida, arces etc.
Quo supposito sit secunda propositio: Mobilia qui·dem iure gentium omnia fiunt occupantium. eliam si excedant compensationem damnorum.
Hoc patet ex lege Si quid bello et lege Hosles ff., Decaptivis, et capitulo lus gentium, d.l, et expressius Inst.•De rerum divisione, S /Iem ea, quae ab hoslibus, ubi di·citur, quod iure gentium quae ab hostibus capiuntur,statim nostra fium, adeo ut etiam liberi homines in nostram servitutem deducantur. Et Ambrosius l. De patriarchis dicit, cum Abraham occidit qumtuor reges(Cen 14), praedam quidem fuisse Abrahae victoris,quamquam recusaverit accipere. Et habetur 24, q. 5, C.
Dical.
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mente temendo, se si arrendono semplicemente e senzaconclizioni, di venire uccisi. E leggiamo che qualche volta ciò è avvenuto. Pertanto non sembra ingiusto che, seuna città fortificata si arrende senza condizioni, alcuni,che siano stati più colpevoli, vengano uccisi per ordinedel principe o di un giudice.7. Settimo dubbio: se lulle le cose prese in guerra divenogano proprielà di coloro che le prendono e le delengono.
Su ciò questa è la prima tesi: non vi è dubbio che lui·to quanto viene preso in una gue"a giusta. fino al pienoammontare del valore delle cose sottratte ingiustamente.e anche delle spese di guerra, divenga proprielà di chi ledetiene.
Questa conclusione non ha bisogno di dimostrazione, poiché è questo il fine della guerra. Tuttavia, unavolta esdusa la restituzione, restando strettamente al diritto di guerra si deve distinguere. Infatti le prede diguerra sono o beni mobili (come il denaro, i vestiti, l'o·ro) o beni immobili (campi, città fortificate, fortezze).
Ciò premesso, questa è la seconda tesi: secondo il di·rillo delle genli lulli i beni mobili divengono propnelàdegli occupanli, anche se eccedono l'ammonlare dei dan·ni di guerra.
Ciò è evidente dalla legge Si quid bello e dalla leggeHosles, de caplivis' e dal capitolo lus Cenlium, primadistinzione', e più espressamente dalle /nsliluliones (Dererum divisione, S /Iem ea quae ab hoslibus)', dove si di·ce che secondo il diritto delle genti ciò che prendiamoal nemico diviene subiw nostro, tanto che perfmo gliuomini liberi diventano nostri schiavi. E Ambrogio inDe Palriarchi!" dice, quando Abramo uccise quattro re(Cen 14), che il bottino era di Abramo in quanto vinci·tore, benché egli abbia rifiutato di prenderlo (anche inDecrelum Craliani 1123, 5, 25: capitolo Dical).
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E[ confirma[ur auc[ori[a[e Domini Dt 2D, 14, ubi decivitate expugnanda dieit: Omnem praedam exercitui divides et comedes de spoliis hoslium luorum.' Hanc sententiam tener Adrianus in quaestionibus De restitutione(q. speciali De bel/o) e[ Silves[er (in v. bel/um, S l e' 9),uhi dicit, quod qui iuste pugnavit, non tenetur restituere praedam. Er haberur 24, q. 2, c. <Si de rebus. Ex quoinfert, quod capta in bello iusto non compensantur eumdebilo principali, ullenel eliam archidiaconus 23, q. 2>,c. Dominus nosler. l,a [ene[ Bartolw in dicta lege Siquidin bello. Et hoc intelligetur, etiam si hostis sit paratus satisfacere de damno et iniuria. Quod tamen limitat Silvester, et bene, quousque domini aequitati sit sufficien(er satisfactum de damno et iniuriis. 00 enim est in·telligendum, quod si Galli destruerent unum pagum autignobile oppidum Hispanorum, quod licet Hispanis,etiam si possint, praedari [o[am Galliam, sed pro modoet quantitate iniuriae.
Sed ex hac de[erminatione sequirur dubium, an liceal permittere mi/itibus dvitatcm in praedam.
Responderur et si, [ertia propositio: Hoc de per se nonesI il/icilum, sinecessarium esi ad bel/um gerendum veladdelerrendos hosles vel ad accendendum mililum animoso
Ira dici[ Silvester (S lO). Sicut etiam lice[ incenderecivitatem ex rationabili causa. Sed quia ex huiusmodipermissionibus sequuntur multa saeva et crudelia malapraeter omnem humanitatem. quae a barbaris in militi·bus committuntur - innocentium caedes et cruciatus,virginum raptus, matronarum srupra, templorum spo-
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Lo conferma anche l'autorità dd Signore (DI 2D,14), là dove Egli dice, sulle città da espugnare: «distribuisci la preda fra il tuo esercito, e cibati dd bottino deituoi nemici». Ques[O è il parere di Adriano nelle questioni De reslilulione (questione speciale De bel/o)7 e diSilves[ro (voce bel/um SS l e 9), là dove dice che chi hacombattuto una guerra giusta non è tenmo a restituireil bottino. Anche il Decrelum Craliani (ll 23, 7, 2: Si derebus) sostiene che <<le prede di una guerra giusta nonrientrano nd computo principale delle riparazioni diguerra», com'è anche opinione dell'Arcidiacono (23,2,2: Dominus nosler)·. È questa anche la posizione di Bartolo, nd commento alla citata legge Si quid in bello'. Eciò deve intendersi anche se il nemico è disposto a riparare i danni e le offese. Tuttavia Silvestro pone, ara·gione, un limite, che cioè il signore offeso non vada oltre un'equa soddisfazione, sufficiente a ripagarlo dddanno e delle offese. on è infatti da intendersi che,nell'ipotesi che i Francesi disttuggano un solo borgo ouna miserabile città fortifica'a in Spagna, sia lecito agliSpagnoli, anche se lo potessero, saccheggiare tutta laFrancia; ma deve esserci proporzione rispeno alla misura e all'entità dell'offesa.
Da questa precisazione deriva un dubbio, se sia lea··lo abbandonare una cillà al saccheggio dei soldoIi.
Si risponde con questa terza tesi: dò di per sé non èillecito, se è necessario a condurre la gue"a o a spaventare i nemici o ad infiammare gli animi dei soldati.
Così sostiene Silvestro (S ID). E allo stesso modo èlecito incendiare la città, se ve ne è un motivo ragionevole. Ma poiché da simili concessioni derivano - commessi da soldati simili a barbari - molti mali atroci e crudeli al di là di ogni umanità, come stragi e torture di in·nocenti, ratti di vergini, stupri di donne, spoliazione di
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lia -, ideo sine dubio sine magna necessitate et causamaxime civiratem Christianarn perdere iniquum est.Sed si ita necessitas poscit, non est illicitum, etiam sicredibile sir, quod milites aliqua huiusmodi debent perpetrare, quae tamen duces prohibere tenentur.
Quarta conclusio: His omnibus non obstantibus nonlicet militibus sine auctontate pnndpis aut duds praedasagere aut incendia lacere, quia ipsi non sunt iudices, sedexecutores, et alias tenentur ad satisfactionem et restitutionem.
Sed de bonis et rebus immobilibus est maior difficultas. Sed sit quinta propositio: Non est dubium, quinliceat occupare et tenere ogrum et arces et quantum necessorium est ad compensationem damnorum. <Puta sihostes diruerint arcem nostram incenderunt civitatem, ,siJvas aut vineas aut oliveta, licebit occupare vicissimagrum hostium aut arcem aut oppiclum et tenere. Sienim licet capere compensacionem ab hostibus pro rebus ablatis,> certum est, quod iure divino aut naturalinon plus licet hanc dispensationem accipere ex rebusmobilibus quam immobilibus.
Sexta conclusio: Etiam ad paranJam securitatem etvitandum periculum ab hostibus licet occupare aut tenere arcem aliquam aut dvitatem bostium necessariam adde/ensionem nostram <aut ad tol/endam hostibus occasionem, unde possint nocere>.
eptima conclusio: Etiom pro iniuria i/iota et nomi·ne poenae, id est in vindictam, licet pro qualitate iniurioeacceptoe multare bostes parte agri aut etiam bac rationeoccupare arcem aliquando aut oppidum.
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Chiese, senza dubbio è ingiusto distruggere una città,soprattutto cristiana, senza una grave causa che lo renda necessario. Ma se lo richiede la necessità non è illecito, anche se è probabile che i soldati commetterannoalcuni atti di quel tipo, che i comandanti, però, sono obbligati a proibire.
Quana conclusione: nonostante tutto dò, non è ledto ai soldati saccheggiare o incendiare senza autoriu.a1i~
ne del principe o del comandante; in/atti essi non sonogiudici ma esecutori. In caso contrano sono tenuti a/la n'parazione e alla restituzione.
Ma per i beni e le cose immobili la difficoltà è maggiore. Tuttavia, al riguardo la quinta tesi è: non vi è dubhio che è lecito impadronirsi durevolmente di terre e /ortezze, e di quanto è necessario a compensare i danni. Adesempio, se i nemici hanno distrutto una nostra fortezza, hanno incendiato una città, boschi, vigne, oliveti,sarà lecito impadronirci, a nostra volta, di un territoriodei nemici, o di una fortezza, o di una città fortificata, eteneru. Se infauj è lecito prendersi una riparazionecompensatoria dai nemici per le cose che ci hanno portato via, ecerto che secondo il diritto divino o naturalequesta riparazione non deve awenire in misura maggiore dai beni mobili che da quelli immobili.
Sesta conclusione: per garantire la sicurezza e per evi·tare pericoli dai nemici è ledto impadronirsi durevolmente di qualche/ort= o àttà dei nemici, necessarie alla nostra d,fesa o a togliere ai nemici occasioni per nuocere.
Settima conclusione: ugualmente - per le offese a"ecote, e a titolo di pena, ossia di castigo - è lecito sanzionare i nemiCl~ secondo la qualità del torto che ci bannofatto, privandoli di una parte del loro temiorio, o, per lamedesima ragione, in certe circostanze anche impadronirsi di una /ort= o di una àttà fortificata.
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Sed hoc debet fieri cum moderamine, et non quanrum arma possunt. Et si necessitas et ratio belli postulet, ur maior pars agri hostium occuperur aut quod plures civir3res capiantur. oponet, ur compositis rebus etperaero bello restiruantur tantum retinendo. quanrumsit iustum pro impensatione damnorum et impensarumct pro vindieta iniuriae - servat3 3Ulem bumanit3re etaequitatc, quia poena debet esse proportionara cwpae.Et iotolerabile esset, quod si Galli agerent praedam inpecora Hispanorum ve! incenderent pagurn unum,quod licear occupare torum regnum Francorum.
Quod autem hoc titulo liceat occupare aut partemagri aut aliquam civir3rem hostium, parer ex ilio Deuteronomii, uhi datur licentia in bello occupandi civitarem,quae pacem recipere noluerit (Dt 20,10-12).
Item. quia malefactores nostros licer punire hoc modo, puta privando illos aut aree aut domo pro rei qualitate - ergo etiam extraneos.
ltem superior princeps et iudex legitimus posscrcommode multare auctorem iniuriae toUendo civitatemaut arcem ab 00. Ergo etiam princeps, qui laesus est,hoc poterit, quia iure belli factus est tanquam iudex.
Ttem, quia imperium Romanum hoc modo et tituloauctum et amplificatum est, occupando scilieet iure bel·Li civitates et provincias hostium, a quibus iniuriam acceperant. Et tamen imperium Romanorum tanquam iustum er legitimum defenditur ab Augustino, Hierony-
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Ma ciò deve avvenire con moderazione, e non sullabase di quanto è consentito dalla potenza militare. E sele necessità e le ragioni della guerra richiedono che siapresa una parte maggiore del territorio dei nemici, o unmaggior numero di città, è necessario, una volta che la situazione si sia calmata e la guerra sia finita, che venganorestituite, e che venga trattenuto soltanto ciò che è giusto al fine di riparare i danni e le spese, e di punire l'offesa - in ogni caso sulla base di principi di umanità e di giustizia, poiché la pena deve essere proporzionata alla col·pa. E sarebbe intollerabile, se i Francesi predassero armenti spagnoli o se incendiassero un solo villaggio, chefosse lecito impadronirsi di tutto il regno di Francia.
Ma che a questo titolo sia lecito impadronirsi o diuna parte di territorio o di una qualche città dei nemiciè chiaro da quel luogo del Deuteronomio in cui si dà ilpermesso, durante una guerra, di impadronirsi di unacirtà che non ha voluto accertare le offerte di pace (Dt20, 10-12).
Allo stesso modo, è lecito punire così chi agisce male all'interno di una comunità politica, ad esempio privandalo di una fortezza o della casa, secondo la qualitàpersonale del reo. E quindi è lecito punire anche chi staall'esterno.
Inoltre, un principedi rango superiore e un giudice legittimo potrebbero tranquillamente sanzionare il responsabile di un'offesa, privandolo di una cirtà o di unafortezza. Pertanto, anche il principe offeso lo potrà, poiché per diritto di guerra egli è diventaro come un giudice.
Infine, l'Impero romano fu aumentato e ingranditoin questo modo e a questo titolo, cioè con l'occupazione per diritto di guerra delle cirtà e delle province deinemici dai quali Roma era stata offesa. E tuttavia l'Impero romano è difeso, come giusto e legittimo, da Ago-
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mo, Ambrosia et sancto Thoma et ab aliis sanctis docroribus.
Immo posset videri approbatum a Domino ae redemptore nostto Iesu Cbristo in ilio loeo: Reddile ergo,quae sunt Coesaris, Coesari erc., et -a- Paulo, qui Caesarem appellavit (Acl 25, IO-Il). Admonet nos potestatibus sublimioribus subditos esse et principibus subditos esse et tributa persolvere illis (Rom 13, 1,7). Quiomnes eo tempore habebant aucroritatem ab imperioRomano.8. Octavum dubium esr, utrum liceat imponere vict/I hoslibus Iribula.
Respondetur, quod sine dubio liceI, non solum adcompensandum damna, sed etiam -ratione- poenae etin vindictam. Haec satis patet ex supradictis et ex ilioDeuteronomii (20,10-11) <,ubi dicit, quod postquamex iusta causa accesserint ad expugnandum civitatem, sir~~perint eos et aperuerinr portas, cunctus popuIus,qUi m ea est, salvabitur et serviet illis sub tributo. Et hocius et usus belli obtinuit.> Non est dubium.
9. onum dubium est, an liceal deponere principes hostium et novos constituere vel sibi retinere prinàpatum.
Ad hoc sit prima propositio: Hoc non passim et exquacumque causa belli iUSIi licei facere.
Haec patet ex dictis. Nam poena non debet excedere quantitarem iniuriae, immo poenae sunt restringendae et favores ampliandi. Quae non solurn est regula iuris humani, sed etiam naturalis et divini. Ergodato, quod iniuria iliata ab hostibus sit sufficiens causa belli, non semper erit sufficiens ad exterminationemstatus hostiJis et ad depositionem legitimorum et natti-
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stino, Girolamo, Ambrogio e san Tommaso, e da altrisanti dottori.
Anzi, può sembrare che lo stesso nostro Signore eRedentore, Gesù Crislo, lo approvi, là dove dice: «restituite dunque a Cesare ciò che è di Cesare» (M122, 21;Le 20,25), ecc.; e Paolo, che si è appellato a Cesare (Acl25, 10-11; Rom 13, l e 7), ci ammonisce di essere sonomessi ai poreri supremi, e ai principi, e di pagare loro itributi. Tutti questi poteri, a quei tempi, traevano la loro validità dall'autorità dell'Impero romano.8. L'ottavo dubbio è: se sia lecito imporre tnbuti ai nemici vinti.
Si risponde che senza dubbio è lecito, non solo a riparazione dei danni, ma anche a titolo di pena, e per punizione. È chiaro abbastanza da ciò che si è detto in precedenza, e da quel passo del Deuleronomio (20, 10-11)che dice che, quando gli Ebrei si avviano verso una cittàa espugnarla per giusta causa, se vengono accolti e se siaprono loro le porte tutto il popolo della città verrà rispanniato, e sarà servo degli Ebrei come tributario. Eciò è divenuto dirino di guerra, e consuetudine. Su questo non vi è dubbio.9. il nono dubbio è se sia lecito depo"e i principi dei nemia: e costituirne di nuov/~ o annettersi il pn·ndpato.
Su ciò la prima tesi è che non è lecito farlo comunemente, né per qualsivoglia causa di gue"a giusta.
Ciò risulta evidente da quanto si è detto. Infatti lapena non deve eccedere la grandezza dell'offesa; e anzile pene vanno diminuite, e le clausole di favore vannoampliate. E questa è una regola non solo del dirittoumano ma anche del diritto naturale e divino. Quindi,posto che l'offesa arrecata dai nemici sia causa sufficiente di guerra, non sempre sarà sufficiente perchévenga annientato lo Stato nemico e perché vengano de-
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ralium principum. Hoc enim esset prorsus saevum etinhumanum.
Secunda conciusio: Non est negandum, quin aliquando contingant legitimae causae vel ad mUlandumprincipatum vel ad mutandos principes, et hoc multitudine et atrocitate damnorum et iniuriarum, vel maximequando aliter securitas el pax ab hostibus obtineri non potest et immineret grande pen·culum rei publicae, nisi hocfieret.
Hoc patct. Si cnim licet occupare civitatem ex causa, ut dictum est, ergo occupare civitatem et tollereprincipem. <Et eadem est ratio de provincia et principe provinciae, si causa maior contingat.>
Sed notandum circa septimum et octavum dubium,quod aliquando, immo et frequenter non salurn principes ipsi, sed etiam subditi, qui revera non habent causam iustam, tamen bona fide gerunt bellum, ita, inquam, bona fide, quod excusantur ab amni culpa, putacum facta mediocri examinatione ex sententia et consi·Lo sapientium geratur bellum. Et cum nemo debeat sine culpa punici, in tali casu, quarnvis liceat victori recu~
perare res ablatas et forte impensam belli, tamen sicutnon Lcet parta victoria quemcumque interficere, ita neciniustam satisfactionem accipere nec exigere in rebustemporalibus, quia ornnia talia fieri non possunt nisi nomine poenae, quae in innocentes cadere non debet, utrnanifestum est.
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posti i principi legittimi e naturali. Questo sarebbe infatti del tutto crudele e disumano.
Seconda conclusione: non si può negare che in alcune circostanz.e si diano cause legittime per un cambio diregime politico, o per una sostituzione dei principt~· e ciòa causa della quantità e dell'atrocità dei danni e delle oJfese arrecate, o soprattutto quando non vi è altro modoper ottenere dai nemici sicurezza e pace, e quando la comunità politica andrebbe incontro a un grande e imminente pericolo se ciò non avvenisse.
Ciò è chiaro. Se infatti è lecito impadronirsi di una cittàper una causa, come si è detto, è lecito anche impadronirsi di una città e eliminare il principe. E per la stessa ragione è lecito farlo per una provincia, e per il principe dellaprovincia, se si presenta una causa di maggiore rilievo.
Ma intorno ai dubbi settimo e ottavo si deve notareche talvolta, e anzi spesso, non soltanto gli stessi principi - ma anche i sudditi - che in verità non hanno una giusta causa, tuttavia fanno la guerra in buona fede; con unabuona fede tale, dico, da essere esenti da ogni colpa, come ad esempio quando la guerra viene fatta dopo un discreto esame delle circostanze, dopo aver sentito il parere e il consiglio dei saggi. E poiché nessuno deve esserepunito senza avere commesso una colpa, in tal caso- sebbene sia lecito al vincitore riprendersi le cose sottratte e,eventualmente, farsi rifondere le spese di guerra - comenon è lecito una volta ottenuta la vittoria uccidere qualsivoglia persona, così non lo è neppure pretendere e esigere un'ingiusta riparazione in beni materiali; tali cose,infatti, possono essere fatte solo a titolo di punizione, equesta non deve colpire chi è innocente, com'è evidente.
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Conclusiones
Ex his omnibus possunt componi pauci canones et regulae belligerandi.
Primus est: Supposito, quodprincipes habent auctonlatem gerendibellum, primum omnium debent non quaerereoccasiones et C/lusas bell,: seti. si/ien' polest, cum omnihuscupumt pacem habere, ut Paulus praecepit Rom 12, 18.
Debet autem recagitare. quod alli sunt proximi,quos tenemur diiigere sicut nos ipsos, et quod habemusnos omnes unum communem Dorninurn, ante cuius tribunal debemus reddere rationem omnes nos de actibusnostris. Est enim ultimae immanitatis eausas quaerere etgaudere, quod sint ad interficiendum et persequendumhomines, quos Deus creavi t et pro quihus Christus mortuus est. Sed coactum et inviturn venire oportet ad necessitatem beIJi.
Secundus canon: Con/lato iam ex iustis causis belloaporlel illud gerere non ad perniciem gen/is~ contra quam
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Conclusioni
Da rutto ciò possono venire derivate alcune poche nor·me, o regole di guerra.
La prima è: dato che i principi hanno l'autorità difare la gue"o, in primo luogo non devono cercare occa·sioni e cause di gue"o, ma «se è possibile. desiderinostare in pace con tutti», come insegna Paolo (Rom 12,18).
Si deve inoltre considerare che gli altri sono il pros·simo, che siamo tenuti ad «amare come noi stessi». eche tutti abbiamo un solo comune Signore davanti alcui tribunale siamo tutti obbligati a rendere ragione ddle nostre azioni. È infatti manifestazione di estrema basbarie cercare motivi - e goderne - per uccidere e per·seguitare gli uomini, che Dio ha creato e per i quali Cristo è morto. Al contrario, è necessario che un principegiunga alla guerra messo alle strette e suo malgrado, come a una necessità.
Seconda norma: quando ormai è scoppiata una guerra per giuste cause, è necessario condurla con la finalitànon tanto di danneggiare il popolo contro cui si deve com-
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be/londum est, sed od consecutionem iun"s sui et defensionem patrioe, ut ex ilio bello pax a/iquando et securitasconsequatur.
Tenius canon: Parta vietOrta et completo bello oportet moderate et modestia Christiana victoria uti. Et opor·tet vietorem existimare se iudicem sedere inter duas respub/icas: alteram, quae loesa est, alteram, quae iniuriamfecit, ut l10n tanquam accusator sententiam ferat, sed tanquam iudex satis/acial quidem faesae, seti, quanlum /ieripoterit, sine calamitate rei publicoe nocentis, et maximel
quza ut in plurimum, praecipue inter Christianos, totoculpa est penes principes. Nam subditi bona fide pro principibus pugnant. <Et est periniquum, quod poeta ah:
Ut quicquid delirant reges, plectantur Achivi>
Et sic tota haec disputatio, quam de Indis suscepimus disputandam, finita est ad laudem Dei et proximorum utilitatem.
Explicit relectio secunda de Indis reverendi admoduro patris fratris Francisci de Vitoria magistri eruditissimi, quam habuit Salamanucae anno Domini 1539, 19die Iunii, ad laudem omnipotenris Dei et beatissimaevirginis Mariae matris eius et ad eruclitionem proximorum nostrorUffi.
Fr. Ioannes de Heredia
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ballere ma di conseguire il proprio dirillo e di difenderelo. propria patria, così che da quella guerra st' ottenganouna buona volta pace e sicureUJl.
Terza norma: ottenuta lo vittorta e portata a terminela guerra, è necessario approfittare dello vittoria con ma·derazione e con cristiana modestia. Ed è necessario che ilvincitore concepisca se stesso come un giudice che siedefra le due comunità polItiche -l'una, che subll'offesa el'altra, che la fece -) non perché giunga a emanare unasentenza come accusatore sl perché come giudice dia, certo, soddisfazione alla parte lesa ma, per quanto sarà possihile, col minimo di danno della comunità politica colpevole, soprallullo dato che nelw maggior parte dei casifra i Cristiani tulla Wresponsabilità èdei principi. In/atti i sudditi comballono in buona fede per i principi. Èquindi molto ingiusto ciò che dice il poeta,
«che di ogni follia dei re subiscano le conseguenzegli Achei»'.
E così è conclusa tutta questa trattazione sugli Indiani, che abbiamo intrapreso per discuterla, in lode diDio e per utilità del prossimo.
Termina la seconda dissertazione sugli Indiani delmolto reverendo Padre fr. Francisco de Vitoria, Maestro dottissimo, che egli tenne in Salamanca l'anno delSignore 1539, il 19 giugno, in lode di Dio onnipotentee della beatissima Vergine Maria, Sua Madre, e ad ammaestramento del nostro prossimo.
fr. Giovanni di Heredia
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Note
Premessa
J La Re/ectio durava circa due ore.
Prima questione
I M. Lmero, Resolufiones disputationu11l de indulgentiarum virlule (1518), Weimarer Ausgabe. 1883, voI. l, p. 535.
2 Terrulliano, De corona, cap. Il (PL 2, coli. 91-92).J I lesti di Agostino sono, rispettivamente: Contra Faustu," Mani
chaeum, libro XXll. cap. 75 (PL 42, col. 448); De diversiI quaestionibus LXXXIII, quaest. 31 (PL 40, coli. 20-21); De ve,bis Domini (ogginoto come Senno 82), cap. 19 (PL 39, colI. 1904-1905); Contra FausIu11I Moltich. XXII, cap. 74 (PL 42, col. 447); Ad Marce//inum (Epi·st. 138), cap. 2 (PL 33, coU. 531·5J2); Epistola ad &ni/acium (Epist.IB9; PL33, col. B55).
~ Ad Marcellinum, di., coLI. 531·5J2., Agostino, Quaestiones in Heptoteucum, libro VI, lO (PL 34, colI.
780-781); Deeretum Cro/iorri, 23, 2, 2.(, Epist. ad Sonl/aàunI, cit., col. 856.
Seconda questione
I Antoninus Florentinus, Summa Sacrae Theologiae, II. 7, 8, S l"2 icolaus de Tudcschis, Ccmmentaria Pn"mae Partis in Secundum
Decreta/ium ubrum, 17 (commento a Decreta/esGregoriiIX, n,l3, J2).} Banolo di Sassoferrato, In secundam Digesti Novi partem, com
menti a Dig. 48, 19, l; a Dig. 48.8,9; a Dig. 47. IO, 15.
IOJ
4 D«re/. Gregorii IX, Il, 13, 12; Uht'r JeX/Ul D~cre/altum,V, Il,6., Sul posto, sul momento.
Terza questione
l lsidoro, Etymologiarum llve On'gznum libn' XX, Il, IO e V,21(PL 82 col. IJ1 e col. 20J).
2 Agostino, Qua~j/, zn f-l~p/a/eucum, cit., col. 781.
Quarta questione. [ parte
l Terttlzio, Eunuchus, TV, scena VU, v. 789.2 La prima dtaz. è da Dis/icha Ca/onis: brtws s~n/~n/ùl~, 49; la se
conda è da Dtg. 2, 2 (rubrica).I Le prime citu. sono da lJ«re/aks Gregom IX, V, 39, 44 c: IV, 21,
2; la seconda è da Adriano V1, QU4~j/lOn~s Juodmm quod/ilN/iC4~
(1522).2.• Silvestro Prierio, Summa summarum (1518) l, ad IJQ«m., Agostino, Con/ra Faus/um Maltich. cil., col. 448.
Quarta questione. 11 parte
l Agostino, Quo~s/. In H~p/a/nlCUm,cit., coU. 720-721.2 Sallustio. Coniura/io CA/ilina~, 12,3-4.J Dig., 49, 15,28 e Dtg. 49,1.5,24.4 Dea. Gral I, 1,9.'Ins/l/u/tones2, I, 17.6 Ambrogio, De Abraham. I, 3 (PL 14, col. 427).7 Adriano VI, Quot!S/iones in IVSen/en/i4rum De sacramentoP«
ttI/en/i4e: de res/l/u/tQn~.
8 Guido da Baisio, Rosan"um, Ieu in Decre/Qrum vo/umen u,mmen/an"a (1508), in commento a Dea: Gra/. il 23. 7,2.
.. 83nolo di Sassoferrato, In secundam Diges/i Novi parlem, dl.,commento a Dlg. 49, 15,28.
Conclusioni
I Orazio, Epir/ukte, I, 2, 14.
Indici
Indice dei nomi'
Abril, v., Xn, LVII-LVUI.
Accursio, x.Adriano VI,55,57,89, 104.Agostino da Ancona, x.Agostino d'lppona, xxv, 9, 11,
13,21,31,57,77,93,95,103104.
Alessandro VI, VIII.
Allhusio,J., VIII.
Ambrogio, 83, 87,95. 104.Antoninus Florentinus, 17. 103.Arcos, M., XIV.
Aristotele, VIII-IX, XXIV, 21, 29, 43.Armachanus, XXI.
Atahualpa, XIV.
Baccelli, L.. Xlxn.Baciere, c., xn. LVII-LVIII.
Bacone, E, xxx.Balclini, A.E., XXUn.
Barbier, M., LVIJl.
Barda Trelles, c., xxx, XXXln.
Banolo di Sassoferrato, x, XXV,
19,89,103-104.Bartolomeo de Medina, VIl.
Bate.].P., LVII.
Be.Uannino, R., XVIII.Beltrlin de Heredfa, v., VTIn, XXXI.
Bernardo di Chiarovalle, IX e n,XXVI co.
Berti, E" XlXn.Biolo, S., xlxn.Bolgiani, E, XIxn.Bonifacio l, 9.Boyer,J.. LVII.
Caetani, T. de Via, XIV.Calvino, G., XXII.
Cano, M., VII.Carlo V d'Asburgo, X-XI, XVI,
XVIII, xx.Carranza, B., VII.
Carro, v.. XXVlln.
Cicerone, 83.Clemente VII, xx.
* Non sono indicizzati Francisco de Vitoria, per la frequenza concui ricorre nel lesto, né i personaggi biblici. Le pagine qui indicate siriferiscono al testo della lraduzione italiana.
107
Conring, 1-1., xxx.Costantino I il Grande, 15.Crockaen, P. (Perrus de Brussd-
lis), VU.
Deckers, D., XXXVllln.Dt: Giovanni, B., XXXVln.
Erasmo da Ronerdam, Vil e n.
Ferdinando II il Cauoliro, xv.Ferrajoli, L., XIlIn, Xl\'n.Ferrone, V., XI.xn, xxn.Francesco l di Valois, xx.
Gaio,xxvu.Galli, C, xxxvnn, XLvnn.Garcia, A., XO, LVII-LVW.
Genrili, A., xxxvr, XXX\11 e n.Getino, L.G.A, XXXl, LVIll.
Giacomo l, x.Giacon, C, XXXJ e n.Giovanni da Legnano, xxv.Giovanni di Heredia, tOI.Girolamo, 95.Gliozzi, G., XVlln.
Grozio, V., VIII, XViU, XXV"" xxx,XXXIV, XXXVi.
Guido da Baisio, 89, 10..t,
Had.rossek, P., XXX, XXXln.
Ila8Renmacher, P., XIVTl.
Hecke, G. van, XXXln ..Hobbes, Th., XII, XVII, XLVI, L.
Hofmann, i I.. , XXXlXn.
Ilol'Sl, V .. , vn, VIn, LVIll-UX.
lannaronc, RA, XlVn ..
Ignatieff, M., 1.I11n.
lsidoro di Siviglja, 29, 104.
jUnger, E., xxxvn.Juslenhoven, H.-G., VIn, XXVn,
LVllI·L1X.
Kant, L, XXXVI, XLIX-L.
KeUy,j ..M.. XXVlIn.
KoseUeck, R., XXXVIln ..
Lamacchia, A, Vn, xvn, XVo,
XIXn, XXVlIln.
Landucci, S., xvlin ..Las Casas, B. de, XVI, XVlln.Lawrance,j., L\1I1n ..
Legazy LacambOl, L., VHn, XXXVIIen.
Le:ibniz, G.W.., \111 ..
Lmero, M., XVIII, XXI, 9, 103.
Machia\'e11i, N., )(\11.
Margiorta Broglio, E, xxo..Mariana,].. de, \'11-\'111 ..
Marino, P.. , Xl\·n.
Maritain,j., XIxn, u ..Maseda, E, Xn, l,VII-LVIII.
McA1isrer, L..N., XVn.Mechoulan, H., XlVn.Mdamone, F. ,\<111, XXl.Melloni, A., XX\'In.
Migne,J.·P.. ux.Minois, G .. , XXVo, XXVln, XLln,
L1un.
Molina, L. de, VIII, )(\'IIJ.)(JX ..
Mozzolino da Prierio, S., x, XX",55.61.75.89.104.
Muiloz, A., LVII.
Niccolò V, VIII.Nicola de' Tedeschi ( icolaus de
Tudeschisl, x, 19, lOJ.Nys, E., XXVIn, xxx, xxxm.
Oeslreich, G., XlXn ..Orazio,l04.Ortiz-Arce de la Fueme, A,xlvn.
Pagden, A., LVllln ..
Palacios Rubios,j .. de, xv.Paolo DI, xv.Paolo V,x.
Paolo di Tarso, XVIII, 7,11,31,95.99.
Pena, E de la, x.Pereiia, L., xn, xxn. XXlln, :C(Jvn,
xxvutn, XXXI, xuxn, LVII-UX..
Petrus de Brussellis, vedi Croe-kaen. P.
Pietro Lombardo, \'11.
Pilato, 49.Pio XII, L1Dn.
Radbruch. G.• XXXIXn.
Raimondo di Peiiafon, xxv.Raz, M.. de, xv.~I, R, xx"n..Rommen, H.. XXXI e n.Rosmini, A., u.Ruggieri, G., XX\1n.
Russd, EH., XX\'n.
alazar, O. de,lOO.Sallustio, 104.Scauota, M., X1\'n, xuxn.Sch.ud. W. XXXUl.
Schmitt, C, VIUn, XXXllen.Xxxm·XXXIV, xxx\'e n, XLV·XL\'I.
Schnur, R., XXX\'lln.Scou,j ..B., XXX, XXXln, Lin. Lvnn.
Selden.J .• xxx.Sepwvttia, J. Ginés de, X\1. xvlJn.Silvesrro Prierio, vedi Mozzolino
da Prierio, S.Sisto V,x_Skinner, Q.., XVlln, XXVlIln.
Solimano il Magnifico. xx..
Sota, D.. de, VIl, XXJ.Stannard, D.E.. , XVI.
Sluben,j., VIn, LVIIl-LIX ..
Suarez, E. VIIl.
Teodosio 1,15,83.Terenzio, 104.Tertulliano,9,IOJ.Todorov. T.., xlUn.Tommaso d'Aquino, VIJ-IX, XXV,
XXVlIJ e n, XXiX e n, Il,27,31,95.
Tosi, G.. XIvn, XXvn ..
Tostado, A.. , XX\'I.
TrujiUo Pérez. I.. , XlXn, XX\'1IIn.Tru)'01 Serra. A, XI\'o, XXlXn.
Tuck, R., XXX\1n ..
Vrdanoz. T., \<11n, XIn, X\-n, XVlIn,XXVn. XX\1n, XX\'Inn, XXXI, Ulln,
L\111-L1X ..
Vanderpol, A, XXXln ..Vanel, E. de, XXXVI, XLVIIn.
Vazque.z, G., XVW.
Verhoe...co,)., XI"o ..Villey, M., VIUn, XVlJJn, XIXn,
XXIXn. XXXI, XXXJJ e n..
Walzer, M., L1l1n.
Wolff, Ch., VlII.
WriWtt, I-I.E. LVII.Wycliff.J .• XXI.
Zolo, D., L1Vn.
Zwingli, 11.., XXII ..
108
Indice del volume
Ln1rociuzionc di Carlo Galli,
ola al testo
DE IUHE llELU
v
LVII
Premessa 3
Prima questioneSe in generale sia lecito ai Crisliani fare la guerra 7
Seconda questioneChi abbia l'autorità di fare o di dichiarare la guerra 17
Terza questioneQuaJi possano essere hl ragione e la causadi una guerra :n
Quarta questione. I parteChe cosa sia lecito in llna hl'lJcrra giusta,e in quale misura 35
111
Quarta questione. nparteQuale sia la misura dcI Iccitoin una guerra giusta
Conclusionj
Nole
Indice dci nomj
65
99
103
107