Belli e perdenti

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Silvia Albertazzi BELLI E PERDENTI Antieroi e post-eroi nella narrativa contemporanea di lingua inglese ARMANDO EDITORE

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Silvia Albertazzi

BELLI E PERDENTI

Antieroi e post-eroi nella narrativacontemporanea di lingua inglese

ARMANDOEDITORE

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Sommario

Introduzione 9

Nota dell’Autrice 17

Prologo: La solitudine dell’(anti)eroe 19

1. Belli e perdenti: estetica della sconfi tta 31La progenie di Bartleby 31Orfani 50

2. Figli della mezzanotte: magia e favola del fallimento 63Perdenti magici 63Scommettere sull’Impero 79

3. «Looks Like a Fucking Loser»: il fallimentocome strategia esistenziale 99

Punture di realtà 99Tempi come questi richiedono un Grande Lebowski 119

4. Lo scrittore come perdente 137

Epilogo: Il (non) senso della fi ne 165

Bibliografi a 171Filmografia 184Discografia 186

Indice dei nomi 187

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Introduzione

Questo libro viene, cronologicamente, da lontano, da un corso mo-nografi co tenuto all’Università di Bologna alla fi ne degli anni Ottan-ta, in cui mettevo a confronto una fi gura di perdente pre-modernista – il Jude the Obscure di Thomas Hardy, lacerato dal “vizio moderno dell’irrequietudine” (Hardy 1981: 90) – e i losers postmoderni, usciti dalle rivolte degli anni Sessanta e Settanta per ritrovarsi ad affoga-re nell’edonismo reaganiano (o, in Italia, nella “Milano da bere”). Illustrando agli studenti – allora solo poco più giovani di me – le somiglianze tra l’antieroe hardiano e alcuni personaggi di romanzi contemporanei, ripercorrevo un passato prossimo nel quale non po-tevo non ritrovarmi, e al tempo stesso proponevo di recuperare una ideologia fondata piuttosto sulla condivisione, la tolleranza e l’ugua-glianza che non sull’arrivismo, la competizione e il carrierismo. Pur-troppo, nei decenni successivi gli ideali cari ai miei antieroi sono stati spazzati via da una corsa sfrenata al successo e al raggiungimento di traguardi materiali, anche a scapito dell’integrità morale. Tuttavia, forse proprio perché si è andato imponendo con forza il mito di una identità granitica, da acquisirsi una volta per tutte, raggiungendo il successo ad ogni costo, fi gure di perdenti, magari non più così belli, ma sempre altrettanto falliti, hanno continuato a popolare la narrativa contemporanea, imponendo una rilettura del personaggio alla luce del cambiamento di prospettive storiche e sociali e della sua stessa, con-seguente, evoluzione (o involuzione).

Nel 2005 è uscito negli Stati Uniti e in Inghilterra il volume Born Losers. A History of Failure in America di Scott A. Sandage, un’ana-lisi molto puntuale e documentata del rovescio del Sogno Americano, attraverso la storia dei più vistosi fallimenti economici e sociali che,

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nel XIX secolo, hanno aperto la strada alla crisi del 1929. Il volume di Sandage si chiude con un epilogo in cui, a partire dal Willy Loman di Arthur Miller, l’autore offre una veloce panoramica dei protago-nisti perdenti reperibili nella letteratura nordamericana del secondo Novecento. Sono le uniche pagine letterarie in un testo di carattere socio-economico e storico, e sembrano perciò invitare a un appro-fondimento, sollecitare un ampliamento. Proprio dall’ultima frase di Sandage – «Il fallimento non è il lato oscuro del Sogno Americano; ne è, invece, il fondamento. Il Sogno Americano offre a ognuno di noi l’opportunità di essere un perdente nato» (Sandage 2005: 278) – prende le mosse questo lavoro, estendendo, però, la disamina del fallimento oltre i confi ni degli Stati Uniti, a tutti i Paesi di lingua in-glese in cui si siano sviluppate utopie identitarie tardo novecentesche.

Si comincia, nei primi anni Sessanta, con gli angry young men in-glesi, dal Jimmy Porter di Osborne, la cui rabbia diviene eponima di tutta una generazione, agli antieroi del free cinema britannico, ai pro-tagonisti dei romanzi proletari di Alan Sillitoe e David Storey. Poco dopo la metà del decennio, poi, esce in Canada un romanzo che tra-duce in visioni allucinate, stravolte e spesso oscene, le ansie confuse e il bisogno di modelli di tutta una generazione, rendendo omaggio fi n dal titolo, Beautiful Losers, a una tipologia tardo romantica che si ricollega per alcuni aspetti alla generazione perduta degli anni Venti (i beautiful and damned di Fitzgerald) e ai suoi epigoni soprattutto cinematografi ci del secondo dopoguerra (i James Dean, i Montgome-ry Clift, gli eroi tragici e maledetti della Hollywood anni Cinquanta), saltando a pie’ pari gli sconfi tti del modernismo, gli Ulisse alla deriva nella periferia dell’Impero britannico, e i Gregor Samsa trasformati senza apparente ragione in enormi insetti, ai margini di un altro Im-pero. Autore del romanzo canadese sulla bellezza della sconfi tta è un poeta prestato alla narrativa, che presto lascerà la letteratura per dedi-carsi esclusivamente alla canzone d’autore, Leonard Cohen, oggi ul-trasettantenne chansonnier amato incondizionatamente dai cosiddetti baby boomers, da rock star ormai mature come John Cale, Nick Cave o Michael Stype (il carismatico leader degli ormai sciolti R.E.M.), da musicisti entrati nella leggenda pop come Jeff Buckley o il nostro Fa-

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brizio De André, e da raffi nati esponenti delle generazioni più giovani come Rufus Wainwright e Vincent Delerm. Tra follia e santità, sesso, droga e poesia, storia e leggenda, il romanzo di Cohen esalta il fascino dell’alterità e della sconfi tta e la necessità della ribellione. Come di lì a poco avrebbero manifestato i fi lm sulle lotte studentesche del Ses-santotto, la partecipazione alla rivolta riscatta dalla banalità di un’e-sistenza anonima: non c’è maggiore dignità di quella che acquisisce chi combatte per un ideale, nonostante la consapevolezza di andare incontro a una sconfi tta. Il modello della generazione del Sessantotto, ma anche, e forse più, di quella immediatamente successiva, quella, per intenderci, che darà vita in Italia al Settantasette, diviene il per-dente, in lotta contro un apparato iniquo destinato a schiacciarlo. Sua caratteristica è proprio il rifi uto di inserirsi nel sistema; egli sceglie, consapevolmente, di stare ai margini, rinuncia a qualsiasi forma di avanzamento sociale, se questo signifi ca scendere a patti con il potere. Come cantava John Lennon già a metà degli anni Sessanta nella sua canzone-manifesto Strawberry Fields Forever, «It’s getting hard to be someone. / But it all works out, / it doesn’t matter much to me». («È duro diventare qualcuno / Ma poi tutto si risolve / E a me non importa proprio»). Del resto, anche il nuovo cinema che si impone negli Stati Uniti alla fi ne degli anni Sessanta è popolato da dignitosi, bellissimi (in senso morale) perdenti: si pensi agli antieroi interpretati da Dustin Hoffmann, Jon Voight, Al Pacino, ai due motociclisti di Easy Rider, la cui volontà di vivere fuori dagli schemi di un Sogno Americano che si sta rivelando sempre più fasullo è uccisa dal bieco razzismo dei benpensanti conservatori; si pensi, infi ne, ai personaggi di giovani emarginati che Martin Scorsese cucirà addosso a Robert De Niro di lì a qualche anno, in Mean Street, prima, e in Taxi Driver, poi.

Siano disertori che rifi utano di partire per il Vietnam, emarginati che vivono di espedienti nelle grandi periferie urbane o intellettua-li in crisi di identità, i perdenti rappresentano l’Altro nell’iconogra-fi a alternativa degli anni Sessanta. Ciò risulterà ancora più evidente nel decennio successivo, quando il folle, in virtù della sua diversità, diventa il prototipo dell’individuo rigettato dal sistema, il perdente, bello nella sua pazzia. Nell’antipsichiatria di Ronald Laing e David

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Cooper si riconosce una maniera più democratica e libera da pregiu-dizi di rapportarsi al disagio psichico e alla malattia mentale. Uno dei primi fi lm di Ken Loach, Family Life, deve non poco tanto alle teorie di Laing sulla schizofrenia quanto a quelle di Cooper sulla morte della famiglia. E se questa pellicola oggi è forse ingiustamente dimenticata a vantaggio della più recente produzione politica e sociale del regista inglese, un fi lm come One Flew Over the Cuckoo’s Nest (Qualcuno volò sul nido del cuculo) di Milos Forman, tratto dall’omonimo ro-manzo di Ken Kesey, esaltazione incondizionata della bellezza della sragione, rimane nell’immaginario di molte generazioni, grazie an-che e soprattutto alla straordinaria performance di Jack Nicholson nei panni di uno dei più perfetti prototipi di “bello e perdente” mai ap-parsi sullo schermo. Per i ribelli della generazione immediatamente post-sessantottina, la parola d’ordine è non integrarsi, essere sempre e comunque contro, rifi utare qualsiasi forma di carrierismo. «Se arrivo, vuol dire che a qualcuno può far male», cantava Roberto Vecchioni a metà degli anni Settanta, rivolgendosi alla sua primogenita cui, em-blematicamente, non augurava di essere felice, ma di essere «sempre contro, fi nché ti lasciano la voce» (e sarebbe interessante scoprire se, a distanza di quasi quattro decenni, nonno Vecchioni augurerebbe la stessa sorte ai suoi nipotini…). È questo l’insegnamento delle lotte dei tardi anni Sessanta: che esiste un fascino della diversità e della sconfi tta; che l’importante è opporsi, anche se le istituzioni minaccia-te reagiscono stritolando regolarmente il trasgressore. Un colpo di pi-stola, l’8 dicembre del 1980, spazzerà via il mito dei belli e perdenti, inaugurando un periodo segnato da ideali diametralmente opposti a quello della bellezza nella sconfi tta: il successo, l’arrivismo, il carrie-rismo più sfrenato.

L’assassinio di John Lennon, mentre eleva agli altari del mito l’ul-timo “bello e perdente”, il working class hero che sognava un mondo senza religioni e senza nazioni, spaventa per la sua tragica assurdità, rivelando la brutalità e la violenza della follia. Così, mentre Nanni Moretti, in Italia, di lì a pochi anni metterà pesantemente in discus-sione, nel fi lm Bianca, l’idea che vi sia bellezza nella pazzia, in tutto il mondo si impone la fede nel successo a ogni costo, con l’inevitabile

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corollario della “bruttezza” insita nel fallimento. Si apre il decennio dei “belli e perversi”, nati per vincere e disposti a tutto pur di arrivare, pur di essere i primi, di superare, non importa con quali mezzi, i loro simili. Il perdente, come in Bright Lights, Big City (Le mille luci di New York) di Jay McInerney, è ora colui che si lascia stritolare dal-la fi losofi a dell’arrivismo e dalle lusinghe della metropoli; ma nella sua sconfi tta non c’è bellezza, al punto che la sua storia, narrata con pungente ironia, riesce a suscitare persino qualche risata. Non c’è più alcuna bellezza nella sconfi tta: tutta la bellezza è nella vittoria, non importa come ottenuta. Se il perdente degli anni Sessanta si identifi -cava con l’Altro, fi no a voler essere l’Altro (vi è un continuo sfuma-re delle identità dei protagonisti, per esempio, in Beautiful Losers di Cohen), aspirazione primaria del vincente degli anni Ottanta è essere più dell’Altro, di qualsiasi Altro.

E tuttavia, mentre in Occidente impazza la norma del successo ad ogni costo, nel Terzo Mondo e nei Paesi che già furono colonie euro-pee si ripropone l’epopea dei vinti, in una serie di narrazioni epiche e magiche al tempo stesso, in cui la Storia viene rivisitata dalla parte di chi l’ha sofferta, dei perdenti, che giungono in massa a raccontare i loro secoli di solitudine, con la forza del rimosso di tutto un conti-nente (il nostro, ovviamente) che all’improvviso riaffi ora. Adesso, il perdente è il perturbante, l’Altro, che ci spaventa e ci attrae al tempo stesso con la sua diversità, l’Altro che col suo racconto fa riaffi orare i nostri atavici sensi di colpa e che pure non siamo capaci di smettere di ascoltare: è l’indiano, l’aborigeno, il maori, il meticcio; ma è anche l’immigrato, l’extracomunitario, l’emarginato. Sono tutti perdenti, gli eroi dei più famosi romanzi postcoloniali: Saleem Sinai, il narratore di Midnight’s Children (I fi gli della mezzanotte) di Salman Rushdie, ammanettato alla Storia e a una vita troppo breve; l’anonimo narra-tore delle Shadow Lines (Linee d’ombra) di Amitav Ghosh, che tra Oriente e Occidente perde la propria innocenza; e poi, in Australia, Oscar e Lucinda, i giocatori d’azzardo di Peter Carey, sconfi tti dal bluff della colonizzazione; e, in Sudafrica il Michael K. di J.M. Co-etzee, relitto meticcio alla deriva nella società dei bianchi. Tutti scon-fi tti, certo – come i Buendia e il colonnello di García Márquez cui

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nessuno scrive; come i frequentatori della casa verde di Vargas Llosa; come l’Artemio Cruz di Fuentes – tutti sconfi tti e proprio per questo belli nella loro dignità di perdenti.

In Occidente, al contrario, passata la sbornia del successo a tutti i costi, emerge una nuova fi gura di perdente, apaticamente adagiato nel proprio orizzonte di banali sconfi tte quotidiane, un loser né bello né brutto, assolutamente normale, il cui prototipo si può ravvisare nei protagonisti di The Colour of Memory (Brixton Bop) di Geoff Dyer, da noi uscito nel 1998, ma pubblicato in Inghilterra nel 1989. Sulla trentina, disoccupati, schifati dal thatcherismo, i giovani di Dyer fan-no del loro essere perdenti nella società del benessere non una forma di rivolta attiva quantunque destinata alla sconfi tta, ma una condizio-ne di disagio sulla quale cementare la loro amicizia. La situazione del perdente viene a smarrire ogni connotazione socio-politica: «I’m a loser, baby, so why don’t you kill me?», canta Beck, con tono tra l’ironico e lo spavaldo, nei primi anni Novanta. «Sono un perdente, ragazza: perché non mi ammazzi?», a suggerire l’assoluta indisponi-bilità a uscire dalla propria condizione di perdente, o magari, l’uso di tale condizione, presunta o reale, come alibi per rifuggire dalle proprie responsabilità. Non più esempio positivo, non più mito, in una parola, non più bello, il perdente non ha – o non vuole avere – cause per cui lottare, per cui perdersi. E non ha – o non vuole avere – nep-pure ideali da difendere. «Alla fi ne degli anni Sessanta e negli anni Settanta sentivo di appartenere a qualcosa, ad altre persone giovani, e a qualche sorta di movimento di opposizione», ha scritto Hanif Ku-reishi. «[…] c’è una cosa che mi manca: sì, perdermi in una causa più grande» (Kureishi 1999: 101). La letteratura degli ultimi perdenti del Novecento sembra scaturire proprio da questa nostalgia per qualco-sa che non si è mai conosciuto, da questa mancanza di qualcosa per cui altri, in altre epoche, si è combattuto, dallo smarrimento – spesso inconscio – di sentirsi perdenti senza causa, sconfi tti senza motivo, e non avere voglia di fare nulla per mutare la situazione.

All’alba del Terzo Millennio, un evento terroristico di portata inaudita, l’attacco al World Trade Center di New York, l’11 settembre 2001, imponendo una inedita dimensione del fallimento, generalizza-

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ta e collettiva, suggerisce anche, al contempo, la necessità di recupe-rarne un’interpretazione positiva, come momento evolutivo di crisi, imprescindibile premessa alla trasformazione. Se il culto del successo nega la possibilità di sviluppo attraverso l’errore, l’accettazione della sconfi tta, l’ammissione della perdita appare il primo passo verso una nuova coscienza di sé, nel riconoscimento dell’Altro. Occorre impa-rare a crescere attraverso il fallimento, che risulta, invece, dall’inca-pacità di perdere, dal non voler perdere. Paradossalmente, però, di fronte a situazioni così sconvolgenti, è ora lo scrittore ad apparire per-dente, incapace di trovare le parole per raccontare la realtà, confuso in un mondo di personaggi quasi afasici, che non sanno più comunicare, inabili, come il loro autore, a reinventare il reale nel linguaggio. Si tratta, allora, di riconoscere la perdita, di tentare comunque di dar-le un nome, perché soltanto attraverso l’assunzione della sconfi tta si realizza la trasformazione. Perché, come si legge nel romanzo L’in-ventore della luce (The Invention of Everything Else) che la scrittrice americana Samantha Hunt ha dedicato al più straordinario dei per-denti novecenteschi, lo scienziato Nikola Tesla, «è proprio grazie ai fallimenti che va avanti il mondo» (Hunt 2010: 226).

Un’ultima nota: i versi di canzoni posti in esergo ai singoli capitoli si potrebbero giustifi care con l’affermazione di Scott A. Sandage, se-condo cui «dagli anni Cinquanta in avanti, i perdenti hanno occupato una sorta di nicchia nel mercato, specialmente quello della musica popolare» (Sandage 2005: 267). In realtà, essi rispondono piuttosto a una convinzione che chi scrive condivide con il romanziere irlandese Joseph O’ Connor: «Sarebbe un navigare ben triste, senza una canzo-ne» (O’Connor 2010: 37).

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Nota dell’Autrice

Le mie prime osservazioni sulla fi gura del loser a partire dagli anni Sessanta – ampliate e rimaneggiate nell’introduzione al presente volume – apparvero proprio con il titolo Belli e perdenti sulla rivista «Pulp. Libri», 30, marzo-aprile 2001, pp. 60-65.

Le parti del capitolo terzo dedicate ai romanzi Una canzone che ti strappa il cuore, Tutta un’altra musica, I terribili segreti di Maxwell Sim e Le mie rivoluzioni costituiscono l’approfondimento delle se-guenti recensioni apparse su “il manifesto”: L’ultimo romanzo di Hornby a tu per tu con Dickens, 13 dicembre 2009, p. 12; Jonathan Coe ritrae il profi lo di un perdente, 21 agosto 2010, p. 12; La fanta-smatica luce di Joseph O’ Connor, 4 novembre 2010, p. 12; La lotta armata inglese in una fi nzione postmoderna, 17 giugno 2011, p. 11.

Per introdurre la fi gura e l’importanza di Salman Rushdie nel capi-tolo secondo, sono partita da alcune rifl essioni contenute in un artico-lo scritto per celebrare il trentennale della pubblicazione di Midnight’s Children: Fantasie postcoloniali, “il manifesto”, 6 marzo 2011, p. 11, mentre un panorama della narrativa post-11 settembre, qui trattata nel capitolo quarto, si trova in Tutti i romanzi del dopo trauma, «Alias – il manifesto», 10 settembre 2011, p. 16, articolo in cui tuttavia è assente la problematica dello scrittore impotente di fronte al dolore, da me accennata invece in La narrazione del trauma, «Nuova rivista Letteraria», 4, 2011, pp. 27-30.

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Prologo: La solitudine dell’(anti)eroe

I’m a loserI’m a loser

And I’m not what I appear to be.(The Beatles, I’m a loser)

Alla XX Mostra del cinema di Venezia, nel 1959, il Leone d’Oro fu vinto, ex-aequo, da due fi lm italiani per molti versi complemen-tari, entrambi volti a mettere a nudo l’epica della guerra classica, in tutte le sue meschinità e miserie, l’uno – La grande guerra di Ma-rio Monicelli – demitizzando il primo confl itto mondiale, l’altro – Il Generale Della Rovere di Roberto Rossellini – rivisitando un epi-sodio del secondo, la fucilazione di 67 internati politici nel campo di deportazione di Fossoli al poligono di Cibeno (Carpi), attraverso la vicenda di un truffatore collaborazionista che riscatta una vita di espedienti preferendo, da ultimo, la morte al tradimento dei compagni di prigionia. Ciò che accomuna i due fi lm – e ne fa anche l’oggetto di aspre polemiche, soprattutto ad opera di esponenti della destra – è l’incentrarsi su protagonisti perdenti, vigliacchi, che proprio nell’ac-cettazione di una morte tragica acquisiscono un’impensabile statura eroica. Se, come ha scritto Gian Piero Brunetta, i due personaggi prin-cipali de La grande guerra, Oreste e Giovanni, «sono le avanguardie di un esercito di diversi […] che si muovono in tutte le direzioni della storia, spingendosi avanti e indietro tra le due guerre, alla ricerca di un’occasione di riscatto, di un momento di dignità capace di attenuare il senso storico della loro sconfi tta» (Brunetta 1988: 3, 805), Bertone, il falso generale Della Rovere, antieroe eponimo del fi lm di Rossel-

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lini, in quell’esercito di diversi si pone alla retroguardia, arrivando alla gloria dopo un susseguirsi di ignominie e bassezze, perpetrate ai danni di chi già è vittima dell’atrocità della guerra. «Eroi negativi che trovano nella stessa paura il coraggio di morire» (Bernardi 1994: 231), Oreste, Giovanni e Bertone dimostrano tutti, in diversa maniera e misura, l’assunto di Rossellini secondo cui «nel mondo attuale non esistono più eroi. Esistono solo momenti accidentali in cui si diventa eroi» (cit. in Bignardi 2008: 27). Del resto, di loro lo spettatore non ricorda tanto il fi nale consegnarsi alla morte, quanto la somma di me-diocrità, ciarlataneria, pusillanimità e, nel caso di Bertone, impostura, che caratterizza il loro atteggiamento nei confronti sia dell’esperienza bellica sia della propria individuale esistenza.

Perdenti nati, gli antieroi di Rossellini e Monicelli si impongono a Venezia in quello stesso 1959 che vede affermarsi una nuova ti-pologia di sconfi tti anche nell’altro grande festival cinematografi co europeo. È questo l’anno, infatti, che segna la nascita della nouvelle vague francese, con il trionfo di François Truffaut a Cannes, grazie alla prima apparizione sullo schermo del suo alter ego cinematogra-fi co Antoine Doinel nel fi lm che vale la Palma d’Oro al giovane cri-tico dei «Cahiers du Cinéma», Les 400 coups (I 400 colpi). Doinel, interpretato dall’allora quattordicenne Jean Pierre Léaud, è destinato a crescere attraverso la carriera del regista, tratteggiando il ritratto di un giovane assolutamente normale, nato perdente e non destina-to, malgrado i suoi sforzi, a particolari traguardi esistenziali, sotto gli occhi degli spettatori, che lo vedono dapprima adolescente, poi giovane senza particolari talenti alla ricerca di occupazione, quindi innamorato romantico, marito fedifrago e, da ultimo, scrittore vel-leitario sempre stupito e affascinato dall’universo femminile. E se la vicenda di Doinel, di fi lm in fi lm, si snoda con particolare leggerezza, fi no ad aprirsi completamente all’accettazione del gioco dell’amore e del caso nell’ultimo atto, L’amour en fuite (L’amore fugge, 1978), il primo capitolo della sua storia è volto piuttosto a smascherare il modo in cui la famiglia e le istituzioni (prima fra tutte la scuola) possono trasformare un ragazzo esuberante e ribelle in un perfetto perdente. Malgrado faccia “il diavolo a quattro” (“i 400 colpi” secondo l’e-

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spressione idiomatica francese che dà il titolo al fi lm), l’adolescente è il loser per antonomasia, la cui rivolta senza programma è destinata a essere sconfi tta da ogni sorta di autorità: i genitori, in primo luogo, ma anche gli insegnanti e, in generale, i tutori dell’ordine costituito in qualsiasi forma si venga a palesare.

Del fi lm di Truffaut colpì soprattutto la rappresentazione non edul-corata dell’età di trapasso tra infanzia e adolescenza, un periodo dif-fi cile, confl ittuale e tutt’altro che spensierato, «un brutto momento da superare» (Truffaut 1992: VII), secondo le parole dello stesso regista. Non solo ad Antoine Doinel era negato anche quell’eroismo acciden-tale che caratterizzava i protagonisti adulti di Monicelli e Rossellini, ma la sua condizione di perdente si sarebbe protratta per tutta la sua esistenza cinematografi ca, accompagnandolo dalla scuola al riforma-torio, dall’esercito al mondo del lavoro, tanto presente e costante da apparire quasi un presupposto genetico e, come tale, essere non solo accettata ma, addirittura, divenire un punto d’orgoglio. Se di eroismo si vuole parlare, il piccolo Antoine Doinel è un eroe della fuga: da casa, da scuola, dal riformatorio. Al contrario di Oreste, Giovanni e Bertone, che riscattano le loro vite da vigliacchi offrendosi al plotone d’esecu-zione, Antoine fugge dalle situazioni che lo soffocano, salvo ritrovar-si regolarmente al punto di partenza. Non c’è via di scampo alla sua condizione di perdente: l’ultima, bellissima, scena del fi lm, lo mostra stupito di fronte al mare, che non ha mai visto prima e che scopre al ter-mine della sua fuga dal riformatorio. Purtroppo, però, non si può scap-pare oltre il mare. Qui termina la sua evasione, con una scoperta e una resa; la promessa di altri mondi e la realtà di un confi ne invalicabile; un fi nale aperto verso il futuro, ma chiuso dalla vasta distesa delle onde.

Antoine corre, corre, corre tra i campi e le colline, fi no a che ai campi non succede la sabbia e all’orizzonte non appare quel mare che la macchina da presa, inquadrandolo in tutta la sua vastità, svela allo spettatore prima che a Doinel. Emergendo infi ne dall’entroterra, sen-za mai fermarsi, il ragazzo corre alla riva, corre sulla riva, fermandosi solo, stupito, quando l’acqua gli inghiotte i piedi. Allora si gira verso l’obiettivo e guarda in macchina: su questo sguardo, triste e severo al tempo stesso, si chiude il fi lm, sugli occhi di Antoine che fi ssano,

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diritti e senza abbassarsi, com’è proprio dei ragazzi, gli occhi degli spettatori, chiamandoli a rispondere delle sue sofferenze, mettendo in causa il loro appartenere al mondo degli adulti, colpevole della sua sconfi tta, domandando loro, com’è lo stesso Truffaut a suggerire: «Che cosa avete fatto di me? Che cosa farete di me? Cosa diventerò?» (Mizrahi 1994: 321). Nel prosieguo della sua storia, attraverso altri quattro fi lm che lo vedono protagonista, Doinel risponderà a questi interrogativi mostrandosi paradossalmente fedele a se stesso bambi-no: «un uomo in fuga […] perennemente proiettato in avanti» (ivi: 323), come lo descrive il suo autore, incapace di trasformarsi in un vero adulto, desideroso di essere felice, ma che non riesce mai a con-servare la felicità raggiunta.

Lo sguardo in macchina di Antoine Doinel che, chiamando diret-tamente in causa lo spettatore, ne ipotizza la complicità con il mondo degli adulti, ricorda l’atteggiamento, altrettanto spiazzante (in questo caso, per il lettore), di un altro adolescente apparso sulla scena cul-turale europea nello stesso 1959: Smith, il protagonista disadattato e ribelle della novella di Alan Sillitoe, The Loneliness of the Long Di-stance Runner (La solitudine del maratoneta). Rinchiuso al riforma-torio per furto, Smith, fi glio del proletariato – un padre operaio morto prematuramente a causa del duro lavoro in fabbrica e una madre su-perfi ciale, che non si fa scrupolo di rimpiazzarlo a tempo di record – ha modo di mettere a punto una sua personale interpretazione della lotta di classe durante i lunghi allenamenti solitari tra i boschi in pre-parazione alla corsa campestre in cui dovrà rappresentare il carcere minorile contro i suoi coetanei più privilegiati, allievi del prestigioso liceo locale. La scarna fi losofi a politica di Smith si regge tutta sulla contrapposizione manichea tra “noi” e “loro”, “in-laws” e “out-laws”, ovvero “difensori della legge” e “fuorilegge” (Sillitoe 1993: 6), e sul presupposto che chi legge e chi racconta in prima persona non appar-tengono alla medesima categoria. Affermare che il Paese è pieno di «difensori della legge come te e loro, tutti in guardia per fuorilegge come me e noi» (ibidem), è il modo di Smith per “guardare in macchi-na”, “fi ssare”, in altre parole, con sguardo inquisitorio (o accusatorio) il suo lettore come già Antoine Doinel il suo spettatore, facendone al

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tempo stesso parte in causa nel confl itto sociale di cui la maratona che dà il titolo alla storia è metafora.

«Ciò che conta nella vita è l’astuzia», rifl ette Smith aprendo la sua narrazione, «e anche quella devi usarla nel modo più accorto possibi-le; diciamolo francamente, loro sono furbi e io pure. Solo che “loro” e “noi” avessimo le stesse idee fi leremmo d’amore e d’accordo come due innamorati, ma loro non la pensano esattamente come noi e noi non la pensiamo esattamente come loro, così stanno le cose e così staranno sempre» (ivi: 3-4).

Il determinismo sociale di Smith e la sua lotta di classe a-ideologi-ca sono fi gli della temperie sociale che, ancora una volta in quel fati-dico 1959, porta al governo in Gran Bretagna il conservatore Harold McMillan, il cui slogan elettorale è: “You’ve never had it so good” (“Non siete mai stati così bene”). Lasciato alle spalle il lungo dopo-guerra, il livello di vita dei ceti medio-bassi comincia a migliorare: si affaccia quello che presto verrà defi nito consumismo: «l’antico sfrut-tamento si è mitigato, certo, ma per far posto alla nuova alienazione, al rimbambimento mediatico, al benessere di paccottiglia, al diluvio delle merci» (Cicala 2009: 77). Alla falsa promessa di felicità mate-riale, Smith oppone la sua rabbia, volta a smascherare le menzogne di quell’establishment cui lui non apparterrà mai, mentre i suoi lettori, in virtù del proprio essere acculturati e inseriti nella società borghese, volenti o nolenti, già ne fanno parte. Non per caso, due sono i concet-ti-chiave della “fi losofi a” smithiana: la guerra, intesa come metafora delle relazioni tra le classi, e l’onestà, che nella sua accezione è sino-nimo di coerenza, sincerità, integrità e non ha nulla a che vedere con l’obbedienza alle leggi stabilite dal potere costituito:

[…] io so che cosa signifi ca onesto secondo me e [il direttore del ri-formatorio] sa soltanto che cosa signifi ca secondo lui. Io penso che la mia onestà sia l’unica al mondo, e lui pensa che l’unica al mondo sia la sua. […] E se il coltello per il manico l’avessi io non mi prenderei neanche la briga di costruire un posto come questo […]: no, io li sbat-

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terei contro un muro per dargli il fatto loro […] Vedete, mandandomi al riformatorio mi hanno fatto vedere il coltello, e d’ora in poi io so una cosa che non sapevo prima: che c’è una guerra tra me e loro (Sil-litoe 1993: 10-11).

Resosi conto della menzogna insita nel concetto di onestà del di-rettore, che lo vuole vincitore nella corsa campestre soltanto per dare lustro al proprio operato ed esaltare la propria fi gura pubblica, Smith, in piena coerenza con il suo ribellismo nichilista, decide di perdere di proposito la gara, per non piegarsi al volere dell’establishment e fi nire trasformato da “out-law bloke” a “in-law”.

Allora pensai: no, non mi lascio mettere nel sacco da questa presa in giro della gara, questo correre e cercare di vincere, questo trottare per un pezzo di nastro azzurro, perché non è questo il mondo di tirare avanti, per quanto loro spergiurino che lo è […] vincere signifi ca […] correre diritto nelle loro robuste braccia inguantate di bianco e verso i loro brutti musi sorridenti e restarvi per il resto della mia lunga vita di spaccapietre, sì, ma di spaccapietre nella maniera in cui voglio farlo io e non nella maniera in cui mi dicono loro (ivi: 36-37).

Disertore piuttosto che perdente (cfr. Cicala 2009: 77), Smith ri-nuncia a vincere per non entrare nelle fi la degli avversari, per non dover riconsiderare gli schieramenti di “noi” e “loro” nella sua guer-ra infi nita. Del resto, per Smith i concetti di sconfi tta e vittoria non hanno senso: refrattario alla retorica del successo, a cominciare da quello sportivo (cfr. Hughson 2005), giura a se stesso che toccherà la corda del traguardo solo «dopo morto, quando una comoda bara è pronta dall’altra parte» e aggiunge, programmaticamente: «Fino a quel momento io sono un maratoneta, e conduco la corsa a modo mio per male che vada» (Sillitoe 1993: 43), coerente con la propria con-sapevolezza di non poter essere battuto da nessuno nella corsa, «ma deciso a batter[s]i da solo» (ivi: 35).

Solo tre anni, e Smith troverà un nome (Colin) e un volto (quello angoloso e terrigno di Tom Courtenay) nel fi lm di Tony Richardson tratto dal racconto di Sillitoe, che in italiano reca l’improbabile titolo

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di Gioventù, amore e rabbia. Più vecchio di una decina d’anni tanto del suo omologo narrativo quanto dell’Antoine Doinel interpretato da Jean Pierre Léaud, Colin Smith è una sorta di antieroe romantico, la cui ribellione non è tanto contro le istituzioni borghesi quanto, più generi-camente, contro il mondo adulto e la sua mancanza di sensibilità. Sor-ta di giovane Holden proletario e inglese, lo Smith del fi lm, assetato di libertà, si rivolta contro il mondo brutale in cui è rinchiuso cedendo a un impulso improvviso: se nel romanzo fi n dalle prime pagine sappia-mo che Smith, in conseguenza di una precisa motivazione ideologica, è deciso a non vincere la gara, nel fi lm ci confrontiamo con il risultato fi nale di un’ispirazione romantica momentanea (cfr. Quirk 1981). Il Colin che corre all’alba nella fredda campagna inglese, rimuginando i suoi tormenti di adolescente problematico, somiglia al Doinel di Truf-faut in fuga dal riformatorio molto di più dello Smith letterario che, nella stessa situazione, si sente «il primo e l’ultimo uomo sulla terra, l’uno e l’altro insieme» (Sillitoe 1993: 4). Ma mentre Doinel appro-fi tta di una distrazione dei guardiani durante una partita di calcio per evadere dal correzionale, Colin Smith non scappa, anche se potrebbe farlo, durante i suoi allenamenti mattutini. Conscio che «ogni corsa come questa è una vita – una piccola vita, lo so – ma una vita piena di sofferenza e felicità e cose che accadono proprio come quelle che ti circondano sempre» (ivi: 14), Smith identifi ca nella solitudine del maratoneta (ma sarebbe meglio dire del fondista) in corsa attraverso la campagna «l’unica onestà e realtà esistente al mondo» (ivi: 36): una realtà che gli conferma la propria impossibilità – o meglio, non vo-lontà – di cambiamento, il proprio dovere – volere – continuare senza sosta a correre, non per scappare, ma per sentirsi vivo:

e allora compresi che cos’era la solitudine del maratoneta in corsa attraverso la campagna, rendendomi conto che per quanto mi riguar-dava questa sensazione era l’unica onestà e realtà esistente al mondo e io sapendolo non sarei mai stato diverso, quali che fossero le mie sensazioni in certi momenti, e qualsiasi cosa gli altri cercassero di dir-mi. […] e tutto ciò che sapevo era che dovevi correre, correre, senza sapere perché correvi (ibidem).

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Se è vero che la più aspra critica mossa a Truffaut all’uscita de I 400 colpi fu quella di aver concepito la libertà del protagonista solo sotto specie di fuga, «una fuga fi ne a se stessa, senza una meta, senza uno sbocco», che annullerebbe le responsabilità del ragazzo, conducendo-lo infi ne a una strada senza uscita (il mare oltre il quale non è possibile avventurarsi) «che viene però vagheggiata dal regista come l’unica vera in un mondo di compromessi e di falsità» (Valorba 1958), la cor-sa di Smith contro il sistema, che continua all’infi nito senza portare a nessuna meta, a nessuna vittoria, appare in qualche modo il capovolgi-mento speculare di quella fuga. Non per caso, adattando per il cinema il proprio racconto, Sillitoe trasforma «un antieroe aggressivamente nichilista in uno stereotipo, il proletario urbano sfruttato che, dietro la propria apparenza sciatta e gli atteggiamenti difensivi è una fi gura di-gnitosa e simpatica, il tipo dell’eroe operaio che nella letteratura ingle-se si può far risalire a Stephen Blackpool in Hard Times di Dickens» (Quirk 1981). In altre parole, per raccontare il Colin Smith cinemato-grafi co, lo scrittore mette in campo una serie di situazioni che, analiz-zabili secondo parametri sociologici, giustifi cano la microcriminalità del ragazzo, al tempo stesso deresponsabilizzandolo, al pari del Doinel truffautiano, almeno secondo l’opinione dei suoi detrattori. Ad esergo di entrambe le storie si potrebbe apporre una citazione dal dramma di Cocteau Les Enfants Terribles molto cara a Truffaut: «Non esistendo a scuola la pena di morte, Dargelos fu bocciato». Ironicamente, visto che Truffaut considerava l’espressione “cinema inglese” una contrad-dizione in termini, non dimostrando alcuna simpatia per il lavoro dei suoi colleghi d’Oltremanica, il fi lm di Richardson mostra più di un debito verso la prima storia della saga di Doinel, al punto che viene quasi spontaneo, con buona pace del regista francese, accostarne i pro-tagonisti. E anche se la pellicola di Richardson appare più naturalistica e tradizionale di quella di Truffaut, una stessa poetica sembra animare lo scrittore inglese e l’autore de I 400 colpi. Così come quest’ulti-mo, secondo l’assunto della nouvelle vague, si proponeva di fi lmare per le strade, negli appartamenti, storie quotidiane con dialoghi reali, Sillitoe, ricordando ancora poco prima di morire le motivazioni che animavano i narratori della sua generazione, affermava:

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Raccontavamo storie di gente di cui, fi no allora, non si era interes-sato nessuno scrittore, almeno in Inghilterra. Ma non lo facevamo in chiave neorealista. La nostra idea di realtà non aveva a che fare con le ideologie o la sociologia: era un racconto in presa diretta (Sillitoe in Cicala 2009: 77).

Ma non basta. Un altro, interessante, motivo accomuna Antoine Doinel e Smith: la volontà di contrastare il potere, di prendere il po-tere, anzi, attraverso la scrittura. Così, se Antoine fi n dall’inizio del-la sua vicenda scrive per lasciare una traccia di sé – scribacchiando versi dietro la lavagna dov’è in punizione; falsifi cando la fi rma della madre; riproducendo a memoria una pagina di Balzac in un compito in classe; rubando infi ne una pesante macchina da scrivere – Smith consegna la propria storia a un racconto – quello che noi leggiamo – che conclude con queste parole:

Nel frattempo (come dicono nei due o tre libri che ho letto da allora, tempo perso però perché fi nivano tutti con un traguardo e non mi hanno insegnato un accidente) darò questa storia a un amico mio e gli dirò che se fi nisco di nuovo tra le braccia dei poliziotti può provare a farla mettere in un libro o qualcosa, perché mi piacerebbe vedere la faccia del direttore quando la legge, se lo fa, cosa che credo non farà mai; e anche se la leggesse non credo capirebbe di che cosa si tratta (Sillitoe 1993: 46).

Scrivere è, per Antoine come per Smith, un gesto di rivolta. Come ha notato Jean Collet a proposito de I 400 colpi, «il Potere non proi-bisce di pensare male, ma di impossessarsi della scrittura. Perché la scrittura è il Potere» (Collet 1977: 43). E se Antoine alla fi ne trova la sua effi mera libertà inscrivendo il proprio corpo nello spazio naturale (cfr. Collet 1985: 31), l’indipendenza di Smith è messa in discussio-ne dallo stesso racconto che il lettore si trova tra le mani. In effetti, il fatto che la storia esista, e sia pubblicata, può implicare tanto una resa all’establishment (nella sua veste culturale/editoriale) quanto il possibile ritorno del narratore in carcere, l’ennesima perdita di libertà

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secondo i canoni degli “in-law blokes”. Scrive a tale proposito Domi-nic Head:

L’esistenza del racconto implica sia una vittoria sia una sconfi tta: la vittoria di Smith come autore pubblicato, in spregio alle aspettative classiste della cultura letteraria, e la sconfi tta delle sue ripetute in-carcerazioni. Ma il concetto del fi nale ci impone anche di rivedere la nozione stessa di sconfi tta. Secondo Smith, la conferma del suo rimanere un “out-law” è segno del suo continuo rifi uto di conformar-si, e quindi deve essere giudicata una vittoria. La conferma di Smith come scrittore serve pertanto a privilegiare una voce che di solito non si ode, conferendole dignità e preservando una prospettiva oltre i parametri sociali e letterari convenzionali. Tuttavia, il successo di Smith come autore pubblicato, pur ampliando i parametri della “let-terarietà”, porta anche alla sua assimilazione proprio in quella cultura che lui rigetta (Head 2002: 66).

In questo senso, il vero perdente, quello che anticipa i losers dei tardi anni Sessanta e dei primi anni Settanta, non è lo Smith cartaceo, ma il Colin di celluloide. Infatti se, come ha opportunamente notato Marco Cicala, la diserzione di Smith rimanda piuttosto all’“onesta insurrezione dei punk” (Cicala 2009: 77) che non alle trasgressioni variopinte della Swinging London, la protesta del suo omologo ci-nematografi co si inserisce, invece, nella casistica delle tante rivolte senza programma e senza volontà di vittoria che segnano la lettera-tura e la cinematografi a del decennio ’67-’77. Come afferma la voce fuori campo dello stesso Colin mentre ancora scorrono i titoli di testa, per lui e per quelli come lui, «la meta non è il traguardo»: ciò che davvero conta è il fascino della solitudine insita nella corsa solitaria, nella rivolta individuale, in una parola, nella diversità del proprio agi-re. Mentre Smith nel racconto attribuisce un signifi cato metaforico alla sua corsa – «la maratona d’un primo mattino mi fa pensare che ogni corsa come questa è la vita […] una vita piena di sofferenza e felicità e cose che accadono proprio come quelle che ti circondano sempre» (Sillitoe 1993: 14) – e, di conseguenza, riconosce nella soli-

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tudine del maratoneta in corsa attraverso la campagna «l’unica onestà e realtà esistente al mondo» (ivi: 36), la parabola cinematografi ca di Colin è costellata di segnali volti a indicare la natura adolescenziale prim’ancora che politica della sua rivolta. Se l’auto-sconfi tta di Smith si inserisce in un quadro rabbioso di lotta di classe – «mandandomi al riformatorio mi hanno fatto vedere il coltello, e d’ora in poi io so una cosa che non sapevo prima: che c’è una guerra tra me e loro» (ivi: 11), nel fi lm il suo gesto fi nale si trasforma in un atto di spregio del mondo adulto e borghese, delle sue istituzioni e delle ideologie su cui si regge (non ultimi, l’amor di patria e il nazionalismo). Allo stesso modo, mentre nel racconto Smith è una sorta di rabbioso disadattato, nei confronti del quale lo scrittore non cerca di suscitare nel lettore empatia né tanto meno simpatia, nel fi lm egli appare, prima di tutto, un adolescente confuso che, come lui stesso afferma, ha fatto tante (troppe) esperienze, senza per questo essere riuscito a comprendere la vita. Incapace di interpretare i propri desideri o di intravedere un pos-sibile futuro, egli rilegge la propria breve esistenza come una lunga fuga: «Cercavo sempre di scappare quando ero piccolo, ma presto mi accorsi che era tutto inutile», confessa alla ragazza che gli piace, in un intermezzo sentimentale assente nel racconto.

Così nel fi lm di Richardson, in uno dei tanti fl ash back che raccon-tano la vita di Smith prima della cattura, il ragazzo brucia una ban-conota proveniente dall’assicurazione sulla vita del padre, mentre, in una scena chiave del fi lm, ai giovani del riformatorio che cantano Je-rusalem, il più patriottico degli inni inglesi (testo di William Blake su musica di Hubert Parry), un montaggio impietoso sovrappone scene di sevizie e violenze perpetrate dai guardiani sui minorenni internati. Rifi utare di vincere per lo Smith cinematografi co, dunque, è rigettare il mito nazionalista veicolato in Jerusalem, e propugnato dal direttore del riformatorio, convinto che la massima realizzazione – e riabilita-zione – per un individuo come Smith consista nel diventare un grande atleta e, magari, rappresentare l’Inghilterra alle Olimpiadi. Vincere la gara di corsa campestre signifi cherebbe essere accolto da pari in quella società che lo ha imprigionato, ovvero accettare l’integrazione nella cultura uffi ciale di quel mondo “onesto” che ha ammazzato di

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lavoro suo padre e ha risarcito la sua morte con una manciata di bi-glietti di banca. A differenza di quanto accade nel racconto, dove il protagonista matura la sua decisione di perdere la gara fi n dalle prime pagine, nel fi lm il suo rifi uto di vincere è un gesto di spregio alla società che il direttore e tutti gli adulti convenuti per l’evento rappre-sentano; un gesto inatteso, estremo, di trasgressione adolescenziale. Un gesto che Colin Smith pagherà caro, come la breve scena fi nale nell’offi cina del riformatorio lascia intuire, e dal quale non troverà alcun riscatto perché, a differenza del suo omologo narrativo, a lui non è dato né scrivere né tanto meno pubblicare le proprie avven-ture. Il suo destino di perdente si compie nell’attimo del rifi uto: ma proprio in quell’istante il suo volto, sino a quel momento spigoloso, contraffatto dalla fatica e segnato dalla rabbia, si distende, i suoi occhi chiari risplendono e un lieve sorriso di scherno, rivolto al direttore, si sostituisce al suo solito ghigno. E in quell’attimo, Colin Smith appare bello. Bello e perdente1.

1 Più di tre decenni dopo, uno scrittore australiano, Richard Flanagan, rein-terpreterà il gesto di Smith come espressione di quella “religione del fallimento” grazie alla quale i figli del sottoproletariato sopravvivono a scuola, in attesa di una sicura sconfitta nella vita. Nella sua opera prima, Death of a River Guide (Gli ultimi minuti di una guida fluviale, 1994), Flanagan rivisita la storia raccontata da Sillitoe nell’episodio del “fallito eroico” Slattery che, in una finale di campionato, ormai prossimo al traguardo, inizia a correre all’indietro, «arriva fino al lato oppo-sto della pista e poi alza le lunghe braccia in segno di trionfo». Così commenta il narratore del romanzo, suo compagno di classe e, come lui, proveniente dagli strati infimi della società: «solo i ragazzi capiscono che vincere per Slattery significa partecipare alla menzogna che tutti nella vita hanno una possibilità di vincere se ci credono abbastanza. Perdendo in modo così spettacolare, trasformando la sconfitta in un trionfo, ha cambiato il loro destino collettivo in una celebrazione e in una sfida agli insegnanti, che non riescono minimamente a capire il senso di tutto ciò. […] per un attimo della loro intera vita scolastica hanno posto la questione dell’in-giustizia del loro destino, e gli adulti non hanno saputo rispondere, anzi, gli adulti erano troppo ignoranti anche solo per capire il problema. Ma niente di tutto questo può essere tradotto in parole. E nessuno ci prova» (Flanagan 2005: 88-89).