De Vitoria - De Iure Belli

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o 2005, GIW. Laterza & FigiJ, la Traduz.Il>ne, l'Jmroduz.ione di Carlo Galli Prima Mizione 2005 Francisco de Vitoria De iure belli Traduzione., Introdw..ione e i\ot.e di Carlo Galli Con testo latiJw aIronie Editori !AtervJ

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De Iure Belli

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o 2005, GIW. Laterza & FigiJ,~r la Traduz.Il>ne, l'Jmroduz.ione

~ I~ No[~ di Carlo Galli

Prima Mizione 2005

Francisco de Vitoria

De iure belliTraduzione., Introdw..ione e i\ot.edi Carlo Galli

Con testo latiJw aIronie

• Editori !AtervJ

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Proprietà ieueraria riservataGius. Laterza & Figli Spa,Roma·Bari

Finito di stamparenel febbraio 200:5PoJigrafico Dehoniano .Stabilimento di Bari~r conto delJaGius. Laterza & Figli SpaCL ZO-7S00-SISBN 88-4Z0-7S00-0

Introduzionedi Carlo Galli

La Re/eelio' de iure belli che il domenicano Franciscode Vitoria (1483?-1546) tiene il 19 giugno 1539 a Sala­manca, dove ha cattedra di Prima Theologia dal 1526, èla diretta prosecuzione della Releelio de Indii', pronun­ciata intorno alI o gennaio dello stesso anno, e risulta es·sere la penultima, in ordine cronologico, delle trediciReleeliones che conosciamo (sulle quindici complessi­ve), che hanno luogo dal Natale 1528 (De poleslale ci­vilt) allO luglio 1540 (De magia)'.

l La Releclio è una lezione solenne, ovvero conferenza o disserta­zione originale, tenuta davanti all'intero corpo docente, diversa quin­di dalla Leclurll, che è invece l'ordinario commento di un testo auto­riale davanti agli studenti,

2 F. de Vitoria, Releclio de lndis. La questione degli Indio!, a curadi A. Lamacchia, Bari, Levante Editori, 1996. La strena dipendenzadel De iure belli dal De Indis è evidente anche per il fatto che in alcu­ni codici e in akune edirioni questa Re/l'Clio è indicata come De In­dis, sivt! de iure belli Hispanorum in barbaros, re/l'dio posterior.

J Sul contenuto delle Re/ediones, e sulla loro cronologia, dr. A.Lamacchia, Frandsco de Vilona e l'innovazione moderna del 'Didllodelle genli'; Introduzione a Vitoria, Re/ectio de Indis. La questione de­gli Indios, cit., pp. IX-XCIV: XXIX, nonché U. Horst, Lehen und WerkeFrana"sco de Vi/odas, in F. de Vitoria, Vorlesungen. Vo/leerrecht, Poli-

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Le due Relecliones, De Indis e De iure belli (d'ora inpoi DIB), segnano un importante momento di elabora­zione, da pane di Viroria, di un sapere teorico-pratico- cioè morale, giuridico e politico, iscriuo all'interno diun orizzonte teologico - che intende collocarsi all'altezzadelle sfide politiche del tempo: cioè delle grandi questio­ni con cui si apre l'età moderna, che vede mettere in di­scussione la tradizionale equivalenza -logica e categoria­le, se non politica ed effettuale - fra Europa, cristianesi­mo, civiltà, umanità. Dal XVI secolo in poi, infatti, la res­publiCll christiana è sempre più chiaramente solo una par­te del mondo (è questo il primo effetto della scoperta del­l'America); di fatto, né il papa né l'imperatore sono più ivertici della legittimità politica e spirituale (com'è mo­strato dal formarsi degli Stati); il cristianesimo divide in­vece di unire (che è quanto emerge dalla Riforma). Que­sta situazione può essere affrontata - nello sforzo di ci­condurvela - attraverso le categorie intellettuali e politi­che elaborate all'interno della respubIiCIJ chnsliana; op­pure può essere ricompresa attraverso l'immaginazionedi nuove vie, grazie alle quali si possa costruire e legitti­mare un nuovo ordine politico interno e internazionale:si trana, nell'ambito teorico, dd eazianalismo moderno,e, nell'ambito storico, dell'ordine degli Stati e dello iuspublicum europaeum, che nasce con le paci di Westtalia(1648-1649) e che muore nella prima metà del XX seco­lo. L'opera di Vitoria è un lertium genus: è cioè un esem­pio di una innovazione non statualistico-razionalistica, acui l'autore giunge disponendo in modi originali i mate·riali intellettuali offerti dalla tradizione antica e cristiana.

Vitoria deve confrontarsi in primo luogo col nomina­lismo, di cui, insieme aU'erasmismo umanistico e ireni-

tl"le. Kirche, a cura di U. Horst, H.-G. Justenhoven, J. Stuben, Stutt­gan-Berlin-Koln, Kohlhammer, 1997,2 voU., I, pp. l}-99.

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stico, ha fatto esperienza aParigi, ai tempi dei suoi studie del primo insegnamento come bace1liere alla Sorbona(1510-1523); se dall'erasmismo, combattuto dai france­scani spagnoli, egli si libera ufficialmente nel 1527,elen­candone gli errori teologici nella]unla di Valladolid (pusessendo stato il destinatario, l'anno prima, di una letteradello stesso Erasmo che a lui si raccomandava, e puravendone assimilato l'universalismo)4, rispetto al nOm1­nalismo volontaristico (di cui c'è forse traccia in forma diqualche influsso scotistico) la sua posizione consiste inuna diretta ripresa del testo di Tommaso: sotto la dire·zione del suo maestro Pietro Crockaert (Petrus de Brus­sellis) egli cura, nel 1512, l'edizione a stampa della Se­eunda Seeundae. Per tutta la vita Vitoria interpreta e svi­luppa, commentandolo direttamente all'Università(benché gli statuti di Salamanca prevedano ancora la let­tura delle Senlenliae di Pietro Lombardo)', i.l razionali­smo strutturale e metodologico di Tommaso, divenendocosì il caposcuola autorevolissimo - già in vita è definitoSacrae Theologiae reslauralor- del ramo domenicano diquel variegaw rinascimento intellettuale spagnolo, la co­siddetta Seconda Scolastica, che (solo per fare qualchenome) attraverso Domingo de SolO, Melchiorre Cano,Bartolomeo da Medina, Bartolomeo Carranza, Juan de

• Su Erasmo e Vitoria, dr. L. Legaz y Lacambra, Horizontes JdpenSIJmiento ;uridiro. Barcdona, Bosch, 1947, pp. 19'-198. Notiziesulla lettera di Erasmo theatogo cuiti4m hispanico sorboniro si trovanoin T. Urdanoz, lntrtXiua:ion biogrtifica a Obras de Francisco de Viton"a.Releceiones lea/Qgicas, Madrid, Biblioteca de Autores Cristianos,1960, pp. 14 e }o-},.

, Sul commemo di Viloria alla Summa, distimo per anni accade­mici (dal 1'26 al 1540) e per argom~ti, cfr. Urdanoz. Introducd6nbiograficd, CiI., pp. 76·78; cfr. F. de Viloria, Commentarios Il la Secun­da Secundae de Santo Tomds, a cura di V. Bdtran de Hereilia, Sala­manca, Biblioteca de Te61ogos Espailoles, 1932-1952,6 vaU.

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Mariana, Luis de Molina culmina, il secolo successivo,con Francisco Suarez. Animata dai domenicani e dai ge­suiti, la Scolastica spagnola è non solo la risposta cattoli­ca alla Riforma, in termini di oggettività opposta alla sog­gettività, di razionalismo opposto al voiomarismo, ma èanche il veicoio di una modemizzazione e di una cazio­nalizzazione dei pensiero europeo che, passando attra­verso la ripresa non solo di Tommaso, ma anche di Ari­stotele e del diritto naturale antico, stoico e ciceroniano,ha potenti effetti anche in ambito protestante, in Melan­tone, Althusio, Grozio, Leibniz, Wolff6.

1. La l questione americana' - ossia )'esigenza di dare unaforma al rappono fra Vecchio Continente e resto delmondo - viene affrontata, a ridosso del descubrimienlo,ancora all'interno di categorie largamente improntate al­l'uruversaUsmo medievale: lo dimostra la bolla Intercoe­tera divinae (1493) con cui papa Alessandro VI Borgia- in analogia con quanto ha fatto iccolò V nel 1454, conla bolla Romanur Ponti/ex che concede al Ponogallo tut­ti i regni dell'Africa - assegna le zone d'influenza mon­diali spartendole, con la raya, fra pagna e Ponogallo(modifiche alla linea-spostata di 370leghe a ovest-ven'gana pattuite fra le due potenze l'anno seguente, col trat­toro di TordesiUas). TI presupposto è ancora la leoria me­dievale che vede il papa dominur orbir (e l'orbir coinci­dente in linea di principio con lo rerpublica chrirtiana),legittimato quindi a donare a un re cristiano sia il domi­nio di tecre e uomini privi di signoria sia il compito diproteggere l'opera ecciesiastica di evangelizzazione.

(o M. Villcy, La !ormtuiQ"e del pensiero giundico moderno (1975).Milano,)aca Book, 1991, pp. 295-J06; cfr. anche C. Schmin, Il nomo!dell4 terro nel dinuo int"nazionale dello «jU$ publicum europoeumll(1950), MiI.no, Adelph;, 1991, p. 128.

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1.1. Questo titolo di possesso dell'America da parte del­la Spagna è negato da Vitoria non solo in De Indir (2, 4e 5) ma, già dal 1532, dalla prima Relectio de potertataeEccleriae (V, 2), in coerente applicazione di quanto egliha sostenulO fino dalla Retectio de poterlate civi/i (6 e 9);qui, sulla base di una ripresa diretta di Aristotele (se­gnalamente della tesi dell'uomo animale politico) e diTommaso (la teoria della lex naturalirl, Vitoria sanciscela naturale perfezione delle comunità umane, ossia ilfatto che il potere politico (potertar temporalir, e quin­di più che la sola iurirdiclio), in quanto funzione neces·saria all'esistenza delle varie comunità di popoli in cuisi articola l'umanità, è VOIUIO da Dio (ivi, 8) ed è del rut­lO secondo la legge di natura, il che rende erroneo pen­sare che la sua legittirnazione risieda nell'autorità delpontefice o nell'adesione di re e popoli alla religione cri­stiana, o nell'assenza di peccato. Anzi, nella prima Re­tectio de potertate Eccleriae (IV), VilOria sostiene che an­che la potertar rpin'tuotir (la religione, distinta dal pote­re politico) è in sé naturale, e che quindi si trova anchepresso gli infedeli e nell'Antico Testamento, benchéCristo istituisca ex novo quella perfetta, ossia quellameglio disrinta dal potere temporale, cioè il cristianesi­mo. L'indipendenza reciproca delle due poterlater si­gnifica insomma che per Vitoria il papa non è dominusorbir, e che quindi non può legittimare il dominio poli­tico di un principe su terre vecchie e nuove.

Queste tesi - peraltro non nuove: sono infatti tomi­stiche, 'ma sono già presenti. in forme diverse, anche inBernardo di Chiaravalle' - implicano che la ierocraziagregoriana (e bonifaciana) venga criticata; e infatti inDIB e in De lndir Vitoria polemizza contro i decretalisti

7 Bernardo di ChiaravaUe, De comlderali()n~ad Eugen'-um,lI, VI,9·11, mPL 182, coli. 747·748.

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e i canonisti, o li utilizza in modo parziale: è il caso diNicola de' Tedeschi (il Panormitano), di una gloria deidomenicani come il teologo Silvestro Mozzolino daPrierio, o di teologi trecemeschi come Agostino da An­cona, autore di una Summa de ecc/esiashca potestate cheVitoria cita nella Re/ecJio de Indir (2, 4). Naturalmente,Vitoria critica anche i giuristi imperiali (Accursio e Bar­tolo, fra gli altri) che sostenevano da altro punto di vi­sta l'imperfezione politica delle società, bisognose di es­sere legittimate dall'imperatore, signore dd mondo (Delndir 2, 2). Ciò significa che Vitoria vede ormai maturala vicenda politica degli Stati europei, delle grandi mo­narchie come delle repubbliche, anche se, ovviamente,non aderisce a nessuna delle due concorrenti strutturecategoriali moderne -la sovramtà assoluta dd principe,e il contratto legittimante e fondante dd popolo.

on a caso, quindi, il partito curialista spinge Sisto V(1585-1590) a mettere all'Indice le Relectioner; e non acaso nd 1608, durante la polemica fra Paolo V e Gia­como I d'lnghilterra, il giurista di curia Francisco de laPena pone in dubbio l'autenticità vitoriana (e quindil'autorevolezza) delle Relectioner, proprio perché anti­papali". E non a caso la tesi che il papa non è dominurorbis - che fa venire meno un importante concetto uti­lizzato dal re di Spagna, insieme al diritto di scoperta,per legittimare il proprio dominio in America - vale aVitoria anche la temporanea ostilità di Carlo V, testi­moniara dalla lettera dellO novembre 1539 al priore del

• L. Perena, li testo de/ill «Re/ectio de Indis». Introdu1.ione storico­/i/ologicil, in Vitoria, Re/eclio de [ndis. lA questione degli Indios, cit.,pp. XCV·CX1X: XCV; Id., Estudio preliminar. LA tesis deltz poI. dimimica,in Francisco de Vitoria, Re/ectio de iure bellI; o Pa1. dinamica. EscueltzEspanoltz de IIJ Pa1.. Primera generaci6n, a cura di L. Perena, V. AbriJ,C. Badero, A. Garda, F. Mascda, Madrid, Conseto Superior de Lnve·stigaciones Cientificas, 19812, pp. 29-94: 81.

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Convento di Santo Stefano, in cui si vieta ai teologi diSalamanca di trattare ulteriormente questioni politicheamericane. Lettera rivelatrice di quanto le tesi di Vito­ria - benché esposte con grande prudenza - siano re­putate potenzialmente pericolose, dato che per il restoCarlo V ha grande stima del domenicano, tanto che il31 gennaio del medesimo anno 1539 (oltre che in altreoccasiom) gli ha ufficialmente sottoposto alcune que­stiom rdative all'amministrazione dd battesimo agli In­dios, su cui si dividono i francescani, i domenicani, gliagostiniani, e sulla questione della loro schiavitù; e che,ancora nel 1545, a Vitoria viene propostO di partecipa­re al Concilio di Trento come teologo imperiale (ma de­ve rinunciare per motivi di salute)9.

Estraneo ai partiti fìJopapali e fùoimperiali, Vitorianon è certo uno spirito laico: infatti, anche il Concilio diCostanza (1414-1418) ha negato lapotertar direcla in lem­pora/ibur del papa; e, d'altra patte, benché nella Re/ecJiode potertate Papae et Conci/ii (534) avanzi una conce­zione non assolutistica né autocratica del papa (ai limitidel conciliarismo, almeno per quanto riguarda l'assenso- dichiarato non indispensabile - del pontefice alla con­vocazione dd Concilio), egli è un esplicito fautore dellapotestas indirecta: il papa «non è un sovrano temporale,ma ha nondimeno potestà sulle cose temporali in ordinealle spirituali», nel senso che «può ordinare le cose tem­porali com'è opportuno per quelle spirituali» (De lndir3,9). TI che lascia ampio spazio all'azione dd pontefice:in particolare, gli consente appunto di affidare Dd un so­vrano cristiano la protezione dello sforzo della Chiesa dievangelizzare i pagani, e anche di escludere ogni altra po­tenza se il papa pensa che una presenza pluriIna di Stati

';l Urdinoz, Introducci6n biografica. ch .. pp. 41-45 e 53-57.

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cristiani sia di danno alla propagazione della fede. Così ildominio spagnolo in America pare a Vitoria riconduci·bile, benché indirerramenre e solo in parre, alla donazio­ne papale, interpretata in senso non ierocratico.

Ma i modi per legirtimare il possesso spagnolo del­l'America sono soprarrurro alrri. Benché infarti Vitoriasostenga nel De Indis (1 e 2) cb,e né il titolo della scoper­ta, né l'estraneità alla fede o il suo rifiuto. né la condizio­ne di peccato, né la scarsità di raziocinio degli Indios giu­stificano il dominio spagnolo, o tolgono agli Indios laqualifica di legittimi signori e padroni de11oro territorio,capaci di potestos e di dominium come ius utendi re (laproprietà), nondimeno egli afferma (ivi, 3) che il re diSpagna si può richiamare ad alcuni giusti titoli per soste­nere la legittimità del suo dominio americano. A parteuna eventuale loro libera scelra di essere governati dal ReCarrolico o di allearsi a questo (ivi, 3, 15-16), se gli Indiosprivano gli Spagnoli del diritto naturale di transitare perle loro terre (ivi, 3, 1) e di commerciare equamente conloro (un diritto che nasce dalla universale disponibilitàdei beni comuni, e dalla cognotio degli uomini tra di 10­fO, espressa da Vitoria - in De lndis 3, 2 - attraverso lanegazione del derro plaurino nell'Asinona «bomo homi­ni lupus» che sarà poi ripreso da Hobbes nella Dedico delDccive), e se ostacolano la Chiesa cattolica nel suo dirit­to di predicare (ma non di forzare alla conversione), o seperseguitano i convertiti; se insomma vulnerano il dirit­to naturale e il dirirro delle genti - o il dirirro della Chie­53, di origine divina. alla evangelizzazione, che non è incontraddizione con la uguaglianza di dirirro naturale fraipopoli, daco che ovviamente questa non implica, per Vi­toria, l'uguaglianza delle religioni -, allora gli Indioscommettono ingiustizia, e sono passibili di punizione,ossia possono essere oggetto di guerra giusta, fmo alla

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occupazione dd territorio e alla sottomissione al re diSpagna (ivi, 3,5-7), fatra salva la moderazione dei vinci­tori e il bene dei vinti.

Ma tutte queste clausole, eventualità e fattispecie, del­la guerra giusta contro gli Indios-motivata da Vitoria sul­la base del diritro naturale e delle genti - valgono per lo­ro (con l'eccezione della religione) in modi e misure nondiverse che se si trattasse di crisùani~ una concessione adifferenze culturali sta forse nel fatto che fra le cause diguerra giusta c'è in Vitoria anche la «ingerenza umanita­ria» contro la tirannia dei loro governanti che consento­no l'uccisione degli innocenti, cioè isacrifici umani e}'an­tropofagia; in ogni caso, però, non è legittima l'occupa­zione permanente del territorio dei vinti (Dc Ind.s 3,14)10. Cerro, sia pure in via subordinara (ivi, 3, 17), Vito­eia avanza l'ipotesi che gli Indios, data la loro primitiva.rozzezza, siano quasi (ma non dci tutto) incapaci di auto­governo, così che il dominio spagnolo può essere legitti­mato anche dal precetro della carità, ossia dell'aiuto delpiù forre verso il più debole (e quindi dall'utilità degli In­dios stessi). La teoria giusnaturalistica aristotelico-catto­lica e l'universalismo che ne consegue prevedono sì l'u­guaglianza dei popoli, ma anèhe la differenza di gradi diciviltà (oltre che l'esclusività della vera religione); né Vi­toria si fa un problema dell'ovvia asimmetria pratica fraEuropei, che di quell'universalismo sono i soggetti attivi,e Amerindi, che ne sono oggetto! l,

IO Si veda anche il frammento finale, scoperto nel 1929, della Re­lec/io de temperan/ia (1537) -la cui Quinta Cone/urio è rivolta controantropofagia e sacrifici umani -; trad. it. in Vitoria, Re/mio de Indù.La questione degli Indior, cil. pp. 98-116.

11 T. Todorov, La conquirta dell'America. 1/ problema dell'«altro»[1982], Torino, Einaudi, 1992, p. 182, sostiene che Vitoria fornisce laprima giustificazione moderna del colonialismo; sono critici anche L.Ferra;oU, La conquista delle Amenche e la dellrina de/la rovranità degli

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1.2. Benché Vitoria non entri apertamente nelia valuta·zione se nel caso americano ricorrano veramente le sin·gole fattispecie che legittimano la guerta giusta - datoche è primariamente interessato a defInire criteri gene­rali -, la sua posizione è che il dominio spagnolo inAmerica è legittimo, anche se non per i titoli che comu­nemente si avanzano, mentre sono probabilmente ille­gittime molte delle fotme di quel dominio. La sua posi­zione si inserisce quindi all'interno dell'ostilità dei do­menicani verso le concrete configurazioni, di fattoschiavistiche, della presenza spagnola nelle Indie; un'o­stilità che si manifesta anche nel catdinale Caetani, ge­nerale dell'Ordine, il quale, commentando la SerondaSerondae, ticonosce agli Indios di essete legittimi pososessori delle loro terre l2 ; e che a Salamanca si nutre deiresoconti dei missionari, e anche della cronaca più re­cente, come si rende evidente nella lettera di Vitoria del1534 all'amico domenicano Miguel Arcos, in cui eglistigmatizza, sia pure con prudenza verbale, la sangui­nosa conquista del Perù, avvenuta l'anno prima, con losterminio della nobiltà inca e con la messa a morte, no·nostante una conversione forzata e il pagamento di unenorme riscatto in oro, del re AtahualpalJ.

Sta/i, in 500 annidi solitudine. La conquista dell'AmeriCIJ e ildiritto in·/er1tt14ionale, Verona, Bertani, 1994, pp. 439478: 444; Id., La sovranitàdcimondo moderno. Nasà/a ecrisidelloS/atonazionale, Roma-Bari, La­terza 1997, p. 16; H. MechouJan, Vi/oria, père du droi/ in/erna/ional?,in A. Truyol Serra, H. Mechoulan, P. Haggenmacher, A. Ortiz·Arcedela Fucnte, P. Marino, J. Verhoeven, Adualité de la pensée juridique deFranàsco de Vitona, Bruxelles, Bruylant, 1988. pp. 15-17; G. Tosi, LaIcona della guerra giusta in Francisco de Vi/ona, in M. &attola (a curadO. Figure della guerra. LA nflessionesu pace, conflitto egiustizia tra Me­dioevo e prima età moderna, Milano, Franco Angeli, 2003. pp. 63-87:82·84.

12 Lamacchia, Francisco de Vitoria e l'innovazione moderna, cit.,p. L1X.

I) RA. lannarone, La maturazione delle idee coloniali in Francisco

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Nelle )unlas di Burgos del 1512 i teologi dichiaranoche gli indigeni americani sono uomini naturalmente li­beri, e pertanto soggetti al dominio politico, non dispo·tico, del te di Spagna. In quella citcostanza sono elabo­rati i testi dotttinali di un giurista e consigliete del te co­meJuan de Palacios Rubios, e di un teologo di Salaman­ca come Matias de Raz, autori rispettivamente del De in­sulis oceani e del De dominio regum Hispaniae super In·doso La logica di queste opere è ancora interna all'impo­stazione ierocratica della bolla Inter coe/era (e governaanche la bollaSublimis Deuscon la quale nel 1537 PaoloIII riconosce agli Indios la piena umanità - in virtù del­l'unità del genere umano -, e la possibilità che questi, inquanto esseri dotati di ragione e di anima spirituale, ab­biano la salvezza eterna se evangelizzati)14. Così, con lostrumento teologico-giuridico del requerimiento - ela­borato a partire da quanto teorizzato a Burgos -, agli In­dios viene imposto di riconoscere la signoria del ponte­fice, e conseguentemente del re di Spagna, e di accettarela predicazione e la conversione. Ancora su queste basi,nel 1513 vengono tedatte da Fetdinando il Cattolico leLeyes de Indias che introducono il sistema dell'enco­mienda, la quale prevede pet gli Indios non la schiavitùpura e semplice ma certo la cessione del lavoro in cam­bio della protezione e della istruzione religiosa dell'en·comiendero spagnolo. Applicate con fetoce avidità daicoloni, queste leggi ebbero effetti devastanti sulle popo·

de Vitoria, in ..Angclicum», 1970, pp. 3-43; Lamacchia, Francisco deVitona e l'innovazione moderna, cit., p. L; la lettera si legge in Vitoria,Relcc/io de [ndiI. lA questione degli Indios, cit., pp. 137·139.

\4 L.N. McAlister, Dalla scoperta alla conquista. Spagna e Porto­gallo nel Nuovo Mondo 1492-1700 (1985), Bologna, li Mulino, 1986,p. 126; Urdanoz, lntroduccion biogrdfica, cit., pp. 51·52.

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lazioni assoggettate, e risultarono nel medio periodocontroproducenti per la sressa Corona di Spagna, allaquale le rerre appartenevano. Invano - dal punto di vistapratico del miglioramento delle tragiche condizioni divita degli Indios -tentò di porre rimedio a queste prati­che Carlo V, nel 1543 , con le Leyes nuevas1'.

Vitoria - benché, lo si ripete, sia più attento al rigo­re dell'argomentazione che non agli effetti pratici delproprio discorso - si situa quindi in una posizione di·versa da quella ufficiale, sia dalle sue versioni più equi­librate sia da quella dell'umanista e cronista regio JuanGinés de SepUlveda, che nel Demacrales aller, sive de iu­sii belli causis (1547; ma il testo circola manoscritto ne­gli anni precedenti), tearizza, restando in un contestoaristotelico, la subumanità degli Indios (homunculz), laloro natura servile e la liceità della guerra di conquistaContro di loro, per evangelizzarli ma anche per schia­vizzarli. Piuttosto, la posizione di Vitoria ispira. pur noncoincidendovi del tutto, quella di Bartolomé de Las Ca­sas (che con Sepulveda avrà a Valladolid una celebrecontroversia nel1550-155J): questi, nella sua postumaHistoria de las Indias, propugna tesi ancora più mode­rate, che prevedono una penetrazione pacifica degliSpagnoli nel Nuovo Mondo, la costruzione di fattezzesolo in zone pericolose, e l'attribuzione agli Indios del­la qualifica di sudditi liberi di Sua Maestà Cattolica.Tanto Vitoria quanto Las Casas, ciascuno a modo suo,potrebbero essere definiti alleati di fatto del re di Spa­gna (benché divergano dalle resi ufficiali della Coronasul possesso delle Indie), almeno in quanro convergonocon il suo tentativo di mettere riparo a quelle pratiche

l' SuUa situazione degli Amerindi cfr. O.E. Stannard, Olocaustoameneano. La conquista del Nuovo Mondo (1992), Torino, Bollati Bo·ringhieri,2001.

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dei coloni che si risolvono nel genocidio e nella deva­srazione del Nuovo Mondo, e che quindi lo privano diparte dci suo valore economico16.

2_ e il papa non è dominus orbis, e se non lo è neppurel'imperarore, ciò implica che la legittimirà del parere ri­siede presso i popoli, e quindi, in Europa, negli Srari. Mapur riconoscendo questo processo, Vitoria non lo inter­preta in senso pienamente moderno. È infatti estraneo­e non solo per ovvi motivi cronologici - all'idea raziona­listica, che si formalizzerà con Hobbes cenr'anni dopo lasua morte, che lo Stato (in Vitoria, civi/as o respub/ica;mentrestatus, ncl significato politico~istituzionale, com­pare una volra sola, in DIB IV, TI, 9) sia un astifieio co­struito da uomini uguali tra loro per farne l'unica fontedi autorità e di ordine politico sovrano in un contesto didisordine naturale; ed è estraneo - anche in questo caso,non solo per motivi accidentali (il nome di Machiavellinon ricorre) - anche rispetto all'altra modalità di legitti­mazione dello Staro moderno, cioè all 'idea machiavellia­na, e in seguito della Ragion di Stato, che la politica siaessenzialmente volontà di parere, e che il fine dello Sta­to non sia il bene comune, ma l'ampliamento: un'idea acui la Seconda Scolastica oppone la dottrina politica delprincipe cristiano!7.

Gli Stati sono riconosciuti come una realtà nuova so·

l' Urdlinoz,lntroducaon biografiCa, cit., pp. '7·60; cfr. anche G.Guozzi, Introduzione a ld., La scoperta dei selvaggi. An/ropowgia e c0­

lonialismo d4 Colombo a Didero/, Milano, Principato, 1971, pp. 1-19,parto pp. )·6; testi di $epUlveda ivi, pp. 29·34, e di Las Casas ivi, pp.72-77. Sull'aristotelismo come quadro complessivo delle prime inter­pretazioni degli Amerindi, cfr. S. Landucci, Jfi"/mofi t i selvaggi 1580·1780, Bari, Laterza, 1972, ca".ll, pp. 93 sgg.

17 Q. Skinner, Le origini del pensiero poli/ico moderno (978),voI. II, L:età della RJjorma, Bologna, UMulino 1989, cap. V, parto pp.199·268.

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lo in quanto rendono impraticabili i sogni neomedievalidi Carlo V: il pensiero politico tli Vitoria Don è una rivo­luzione ma una razionalizzazione della tradizione, so­prattutto del tomismo e del diritto romano. Dal primo,che asua volta si rifà aPaolo, Vitoria trae la convinzioneche il potere politico - e in particolare il potere di puni.re con la morre - esiste, in quanto funzione, iure divino(De poleslale civili 6), e che quintli, a patte la differenzadel soggetto legislatore (Dio e gli uomini), vi è analogiafunzionale fra legge tlivina e legge umana (ivi, 16-17), co­sì che anche quest'ultima obbliga in coscienza (DIB II, 1e IV, 1,.5). La spinta all'oggettività che deriva a Vitoria daltomismo non giunge certo a fargli sostenere che la strut·tura razionale del mondo - il tlisitto naturale (lex nalu·ralis), a cui è dovuta anche l'esistenza del potere politicoche pone la lex humana - sia autoooma da Dio e dalla lexaeterno, ossia che sussisterebbe «ersi Deus non daretur»come, oltre che in Grazio, si può leggere, implicitamen­te, anche io Gabriel V:izquez, in Molina, in Roberto Bel­lanninol8; e tuuaviaè assente, in tui,l'interpretazione so­lo punitiva del detto paolina «Ilon est potestas nisi aDea», che è invece propria di Lurero.

Se )a poter/ar, cioè il potere in quanto funzione in­trinsecamente necessaria alle società, viene da Dio e alcontempo dal diritto naturale, per Vitoria l'auclorilas,cioè il potere di comando legittimo e reale, viene inve­ce dal popolo che attua una transiatio auctoritatis versoil principe - è questo un elemento romanistico, in quan·to implica un evidente rinvio alla Lex regia de imperio-,così che egli può sostenere «creat respublica regem»(De poleslale civili 8)_ Questa Iransialio non è certo uncontratto individualistico, un moderno pactum unionis;semmai è più consono al pensiero di Vitoria il tradizio-

III Villey, ÙJ formavone, cit., p. 299.

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nale pactum subiectionis fra le comunità e il sovrano, chesarà previsto io seguito anche da Molina (De iUSlilia eliure, 1593-1600)'9; in ogni caso, per Vitoria (DIB II, 3)la Iransialio è nella quasi totalità dei casi irrevocabile, al.meno quando si tratra di governi legittimi, cioè che agi­scono in vista del bene comune e attraverso le leggi - al.le quali anche i re, che pure le fanno, devono obbe.tlienza (De poleslale civili 21 e DIB IV, I, 8): non c'è ioVitoria il rex IegibuJ SOlulus. Su queste basi, l'assetto tlipolitica interna previsto da Viroria è organico e gerar­chico: come si vedrà (ullra, S 5.1), Don c'è io lui intlivi.dualismo politico ugualitario - benché ciascun uomosia imago Dei -, dato che soggetti della politica sono ipopoli-nazione (le genles) e le comunità politiche (re­spublicae) COD i loro principes, ma c'è anzi una conce.ziooe tliseguale della società e dell'accesso alla capacitàpolitica e alle relative responsabilità (DIB IV, I, 7). l:u.guale dignità dell'uomo, cetto presente, noo è declina.ta nei tertnini tli uguali diritti civili e politici dell'uomo, . , . ,ne In un auteDUca prospettiva cosmopolitica20.

19 SuJ comra.tto in Vìtoria si vedano V"tlley, LAformozjone, ci[., p.302 e G. OestreJ.ch, Stona dei dinl/i limoni e de/le libntlÌ fondamen­tali (1951), Roma-Bari, Lalerza, 2001, p. 35.

20 L'opinione che si possa parlare di dirini umani in Vi[oria è in­vece p~te. in E. ~ni. Frandsco de Vitono nell'interpretazione diCari Schml/l, m S. Blolo (a cu.ra di), L'universalitlÌ dei dirilli umani eti penIiero aùtlono del '500. Torino, Rosen~rg & Sellier, 1995. pp.139-147: 146; cfr. anche A. Lamacchia, Francisco de Vitoria: j din·llium~ni ne/~ ~~/~II'o de lndis, ivi, pp. 105-137; L. Baccelli, 11 portico­/a.n.s"!l:! de: ~mll~, Ro~a, Carocci, 2000, pp. 37 sgg., vede in Vitoria i~lr.. t~l ~~dl~I~Uali ~naJtzzati a legittimare la conquista. Che in Vitorial dlflm mdlvlduali non siano centrali è lesi di I. Trujillo Pé:rc:z Fran­asco de Vitoria. TI din~to alltJ comunicazione e i confini delltJ s~cialilàU1~ana, Torino. Gia~pi.cheUi, 1999, pp. 195 sgg. Si può sosrenere, di­stinguendo con Mamam fr.. soggetto moderno e persona che Viloriaè'pr~rsore dei diritti delle gem~ e deUn persona, più che'di quelli lai­CI dell uomo: cfr. V. Ferrone, ChIesa cal/ollea e modernitlÌ. Lo scopertadei din~tj dell'uomo dopo /'esperienZJJ dei lotalitansmi, in F. Bolgiani,

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Dal punto di vista storico-politico, poi, Vitoria vede lapolitica europea dominata dal conflitto fra due Stati cri­stiani, in rapporto ambiguo con l'Impero turco. AssIstecioè alle controversie territoriali fra Spagna e Francia ri­guardo al possesso della Borgogna, di Mil~o, di Nal'Oli(ve ne è più di una traccia in DIB); ai tentatiVI francesI diimpedire l'egemonia spagnola in Europa, attraverso duealleanze (nd 1528 e nd 1536) tra Francesco I di Franciae Solirnano il Magnifico; agli sforzi di Carlo V di chiama­re a raccolta l'Europa cristiana contro la minaccia turca(1a pace di Cambrai nd 1529 e la Conferenza di Bolognand 1530, l'anno in cui a Roma Gemente VII incoronaCarlo V imperalore dd Sacro Romano Impero); nonchéalle sconfitte militari che posero fine allenlativo spagno­lo di ricacciare l'Impero lurco fuori dallo spazio politicoeuropeo; non vede. invece, il divampare in Francia delleguerre civili di religione, la cesura da cui ha origine, poli­ticamente,la piena modernità". Davanti a questi scena­ri europei la posizione di Viloria - quale appare anche indue lettere dd 1536al coneslabiledi Castigliazz-è di nel­lo rifiuto sia della politica di polenza sia delle vessazionialle popolazioni: egli propone un equilibrio pacifico frale potenze crisùane europee, in chiave anriturca, fonda­lO sul principio che le controversie devono essere decisein buona fede e con volontà di pace.

3. Aperto avversario della Rifonna. Vitoria contribuisceindirettamente, attraverso la partecipazione di alcuni

V. Ferrone, F. Margion8 Broglio (8 cura di), Chiesa CilIlOIiCil e moder­nil•. Atti del Conwgno de/kl Fondavone Michek Pellegrino, Bologna,li Mulino, 2004, pp. 17-147,65 e SO.

11 Un inquadramento storico d~'.epoca in~ matura il ~~si~rodi Vitoria è in Perefia, Es/udio preliminar. LA /em de la /Xlz dinamIca,ciI., pp. 29-52. .

:u Le due lettere, dd novembre e del dicembre, si leggono in V,­toria, Relec/io de iure belli, a cura di L. Pereòa, cit., pp. 289·296.

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suoi discepoli come teologi imperiali - Domingo de Sa­lazar e Domingo de Soto -, alIa chiarificazione dogma­tica e organizzativa operata dal Concilio di Trento. Difatto contro Lutero è rivolta tutta la secunda quaestioprincipali< ddIa seconda Releclio de poleslale Ecclesiae,sul significato dd sacerdozio gerarchico; e antiIuleranaè la stessa lesi politica di fondo di Vilorio, che cioè il po­lere politico è legittimato solo dalla legge divina, natu­rale e razionale, e la sua fonna autoritativa solo dallaIranslalio dd popolo (benché Vitoria, evidentemente,preferisca che il principe sia buon cristiano).

Tale lesi infatti è rivolta (De Indis 1,2) oltre che con­tro alcune posizioni ufficiali delle gerarchie cattoliche- sia quelle ierocratiche, benché non esplicitamente ci­lale, sia quelle legale alle dispute sulla povertà di Cristo(il vescovo di Armagh - Armachanus -, criticala da Vi­loria già ndIa Re/eclio de poleslale civili) -, anche con­tro i Poveri di Lione e i Valdesi, e contro Wycliffe,la cuitesi «Q}ul1us est dominus civilis, dUffi est in peccato mor­tali» è stata già condannala dal Concilio di Costanza;ma, negli anni in cui scrive Vitoria. vale anche comeconfutazione di quelle posizioni protestanti per le qua­li è legittimo solo il porere di chi è in stato di grazia. Inverità, l'ambito protestante conosce al riguardo teoriemolteplici, e anche contraddittorie; in generale, muo­vendo dallo dottrina dei due regni dello stesso Lutero(Sul/'aulontà sewlare, 1523) - secondo la quale il pote­re politi<!o è da accettare come uno dei modi, quellocoercitivo e quello punitivo, con cui Dio governa gli uo­mini, l'altro essendo quello spirituale e interiore dellagrazia e della libertà -, si teorizza a volte, già con Me­lantone, la reciproca autonomia istituzionale delle duesfere, spirituale e temporale, ma di fatlo, poiché in lineadi principio entrambe vengono fatte derivare da Dio, si

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rende forremenre dipendenre il porere politico da quel.lo religioso, com'è il caso di Zwingli, e come accade nel·la Ginevra di Calvino2.'.

Comunque sia, si può dire che come tra le cause diguerra giusta non c'è, per Vitoria, la differenza di reli­gione, così questa non sta neppure tra le giustificazionidel diritto di resistenza (ammesso, in ambito tomistico),Non è un'autonomia della politica in senso moderno·razionalistico, ma certamente è una via per la sua laiciz­zazione (nell'ottica di una sua intrinseca limitazione),ben lontana dalla costruzione luterana dell'interioritàcome riserva critica verso il potere.

4. Per passare - una volta delineato il quadro più ge­nerale in cui si colloca - a esaminare il De iure belli, pri­ma di tutto si deve considerare che questa Releclio sipresenta come un ampliamento e una chiarificazio·ne non solo di quanto già trattato nella Lectura del1534 sulla guerra a commenro della Secunda Secun­dae", ma soprattutto nella Re/eclio de Indis. Infarti,poiché il possesso spagnolo dell'America è legirrimabi.le come esito di una guerra giusta, su di questa Viroria

2j Sul pensiero politico riformato, e suDa sua complessità, utilipunlualizzazioni in A.E. Baldini, 1/pensiero politico. idee Teorie Dot­In"ne, Torino, Utet, 1999, voI. n, pp. 55·98.

24 Cfr. F. de Vitoria, Quaerlio de bello (commentario del 1534 al­la Quaes/io XL della Secunda SecunMe), in Vitoria, Re/cclio de iurebelli, a cura di L. Pereii.a, cit.• pp. 209-261 (ivi, pp. 263-285, si leggeanche la Quaestio de seditione, Lectura del 1536); cfr. anche Vitoria,Comenlarios a iB SecunM Secundae, cic, tomo I, 1932, pp. 190-201(commento alla Quaestio X, aa. 8, 9, lO), [rado il. in Vitoria, Re/caiode lndis. lA questione degli Indio!, ci!., pp. 115-134. DlB rielaboraquesto materiale, ampliandolo e sislematizzancloio, ~za apportarvisostanziali variazioni.

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intende fornire un discorso più ragionato e meno bra·chilogico.

4.1. Le tesi fondamentali che Vitoria espone nel De iurebelli riguardano la liceità, la titolarità, la causa, i fmi e imodi della guerra. E le sue posizioni sono, in sintesi, chela guerra è lecira ai cristiani (1); che il suo principale pro·tagonista è la comunità politica O il suo principe (II); cheessa è lecita solo per una giusta causa, cioè se la guerra èla risposta a un torto subìto (III, 4) e mai per amplia.mento di potenza O per gloria del principe (III, 2 e3); cheil principe - per dirirto naturale (sulla base del principioromanistico «vim vi repellere licet»; I. 1) e per autoritàdell'intera umanità (IV, n, 5) -la conduce sia in formaimmediatamente difensiva sia in forma anche offensiva,come sanzione della lesione del dirirto naturale e dellegenti 0,2); che il fine della guerra giusta è quindi la dife·sa e la conservazione della comunità politica e del suo be­ne comune, il recupero delle cose ingiustamente sottrat­te dai nemici, la punizione di questi in quanto il vincito­re è giudice del vinto (IV, I, 2 e 5), e il ristabilimento del­la pace e della giustizia (passim, ma con chiarezza sinte­tica in IV, n, 5); i modi e i limiti della guerra- cioè la mi­nuziosa casistica di liceI e non liceI non solo nello ius adbellum (IV, I) ma soprarturto nelloius in bello (IV, II), perquanto riguarda le uccisioni di colpevoli e innocenti du­rante e dopo la guerra, gli espropri e le riparazioni diguerra e i tributi, i cambi di regime, la presa come pri­gionieri o ostaggi di donne e bambini,la distinzione fracombattenti e civili innocenti (contadini o chierici e let·teratD, l'obiezione di coscienza, i 'danni collaterali' -sca­turiscono da queste finalità.

Secondo Vitoria la guerra - scandalo inevitabile fra icristiani (DIB IV, II, 5), mentre contro i pagani è una ne·

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cessità imposta dalla loro aggtessività (IV, II, 3 e 5) -è untapporto fra entità politiche, non fra teligioni: la guetragiusta non è guerra santa, né una guerra ideologica. E.nonostante le sue durezze, non è neppure rivolta ad an­nientare la società nemica, a sterminare popoli (ultra, S5.2), o all'incremento di potenza dei vincitori. Insomma,anche se la guerra va considerata come intrinseca - ra­tione peccati - alla condizione dell'umanità, né il suo ini·zio né la sua prosecuzione né la sua conclusione sono daaffidarsi a ciechi riflessi naturali, agli automatismi ddgioca di potenza, alla mera valutazione utilitaristic3. o al­la nuda tragicità dell'eccezione; anche la guerra deve col­locarsi all'interno della civiltà evolutasi attraverso la re­ligione, /'idea di giustizia, la morale razionale, il dirittodelle genti e la politica rivolta al bene comune dd singo­)0 tatoe dell'umanirà intera-cioè una politica chevuo·le la pace, anche se a volte attraverso la guerra giusta.

lus ad be/lum e ius in bello sono dedotti, in Vitoria, daun combinarsi, che si vuole non contraddittorio, tra fe­de e ragione, tra Scrittura e Aristotde, tra Padri e Dotto·ri della Chiesa, tra il Digesto e il Decretum Craliani, tragiuristi, canonisti, decretalisti e teologi; Vitoria utilizza latradizione con libertà, e fa dire ai testi a volte più e a vol­te meno eli quanto essi intendano2', all'interno di unastrategia argomentativa che tende a recuperare quanto èpossibile della tradizione, a sistematizzarla e ad armo·nizzarla in una sorta eli razionalismo critico cattolicoaperto alle esigenze nuove; ma quando c'è insanabile di·scordia fra Scrittura e ragione Vitoria non esita ad ab·bracciare la prima riconoscendovi l'imperscrutabile co·mando di Dio, sulla base del principio volontaristico «sit

v Perena, lJ les/o, cit., p. CXVIJ.

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pro ratione voluntas», in cui si riconoscono giovanili in·fluenze scotistiche (cfr. De potestale civili 16)26.

La posizione di Vitoria nella storia della dottrina dd­la guerra giusta27 si basa su fonti classiche e canoniche:soprattutto Agostino, nd cui Contra Faustum viene ac·certata la compatibilità fra guerra e fede cristiana, con·tro le posizioni terrullianee di pacifismo integrale; il De­cretum Cratiani (II, 23), in cui si raccolgono fonti ro­mane e patristiche, nonché canonistiche, sull'argomen­t028; e Tommaso, che nella Secunda Secundae (q. 40, 1­4) sistemarizza la materia, facendo della guerra un pec­cato contro la carità, e ponendo fra le cause della guer­ra giusta appunto una culpa da punire, con retta mten·zione (inoltre, Tommaso tratta in quella sede anche que­stioni canonistiche come la liceità della guerra per ichierici, e dd combattimento di domenica). La produ­zione dei canonisti e dei legisti sulla guerra giusta (Rai­mondo di Peiiafort, Bartolo di Sassoferrato, Giovannida Legnano), abbondante e articolata ma non innovati­va, è poi nota a Vitoria attraverso la Summa di SilvestroMozzolino da Prierio. La formulazione standard dellaguerra giusta - ad esempio, quella data dal canonista egenerale dei domenicani Raimondo di Peiiafort nellasua Summa (1240) - teorizza il divieto di guerra per gli

26 Cfr. DIB (V, U, l, sull'uccisione degli adolescenti da parte deivincitori; ma cfr. anche ivi, m, 4.

27 R Régout, LA doct,,,,e de la guerre juste de S. AugUJ/in à nOIflJurr, Paris; Pedone, 1934; EH. Russdl, The JUII War in Ihe Midd/eAges, Cambridge, Cambridge University Press, 197'; G. Minois, LAChiesa e la guerra. Da/la B,bbia al/'èrd atomica (1994), Bari, Dedalo,2003, pp. 221-227; nello specifico su DIB si vedano Urdanoz, In/n;.ducci6n a la Re/ecdon segunth, in Obras, cito pp. 727-810, H.-G. }u­slenhoven, F,anaJco de Vi/oria ZU Krt~fI und Fn'eden Koln Bachem

6 " ,1991, e Tosi, LA teoniJ Jtl14 guerra giusliJ, cit.

28 ln Corpus ium uznonici, I, Lipsia, Tauchnitz., 1879, collo 889­%5.

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ecclesiastici, la giusta causa (ossia lo stato di necessità),la esclusiva fmalità del recupero dei beni o della difesadella patria, l'obiettivo genetale della pace, la retta in­tenzione e l'assenza di odio e di vendetta, e l'obbligoche la guerra sia condotta SOttO l'autorità della Chiesaper quanto riguarda le questioni di fede, e altrimentisotto l'autorità dci principe29. Portatore di posizioni incerti punti simili a quelle di Vitoria è anche Alonso To­stado, teologo conciliarista e canonista spagnolo del XVsecolo, professore a Salamanca, per il quale il «bellumiustum» è «iustitiae executio», e durante la guerra giu­sta - per ottenere riparazione di torti e restituzione dicose asportate - si può fare contro il nemico ogni cosatranne che mancare alla veritàJO (ma questo consequen·zia1ismo è appunto soggetto a limitazioni, in Vitoria).

Tuttavia, Vitoria innova rispetto alla tradizione per·ché sposta l'asse della trattazione della guerra giustadal livello morale della culpa - presente, con toni par­ticolarmente aspri, in Bernardo di Chiaravalle che ve­de nella guerra giusta la punizione dei malvagi, un«malicidio» (De Laude novae mililiae, 4), mentre il De­crelum Craliani articola la guerra nella direzione delladefinizione giuridica di specifici nemici, interni edesterni, della società cristiana}1 - a un livello giuridico.Ciò è evidente da varie motivazioni: Vitoria prevedecome causa di guerra giusta la iniuria accepta dal nemi·co, e non il peccato; non discute la guerra a partire dal-

29 Minois, La Chiesa e 14 guerra, cit., p. 223; Urdanoz, Introduc­d6n al4 Relecd6n segundd, in Obras, cil., p. 7'7.

)0 E. Nys, IntroducJion a Francisco de Viloria, De Indis et de iurebelli RelecJiones, Washington, Camegic lnsutulion, 1917, pp. 9-53: 17.

)1 Minois, LA Chiesa e la guerra, cit., p. 186 (su Bernardo); cfr. an­che A. Melloni, I «nemim di Gravano, in G. Ruggieri (a cura di), Inemici de/kJ crisJianità, Bologna, TI Mulino, 1997, pp. 105·122.

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la carità, non tratta direttamente della retta intenzionee sottrae la guerra alla giurisdizione della Chiesa. L~guerra è giusta sulla base di considerazioni razionali deltutto immanenti alla struttura oggettiva - naturale estorica - della condizione umana.

Inoltre, egli è innovativo soprattutto perché modifi­ca il contesto di diritto internazionale all'interno delquale si dà la guerra giusta. Watti (De Indi! 3, I), Vito­na as~ume le gente! (e non gli homines, come pure suo­nava il testo di Caio -lnslituliones I, 2, l - che egli ci­ta) come soggetti dello ius genlium (anzi, dello «ius in­ter gentes»),2 su un piano di parità (alla quale non è for­se ~tranea una perdurante suggestione erasmiana) ga.ranura dall'unità ddl'umanità, creata e redenta d~ ununico Dio (tuttavia, lo si ripete, l'uguaglianza fra i po_poli non è uguaglianza fra le religioni - infatti, anche seVIeta la guerra santa, Vitoria affenna il diritto dei cri­stiani alla ~angeli~~zione missionaria -. e non è nep­pure uguaglianza dt livello fra le civiltà). Soprattutto, inprecedenza (De poleslale ciVili 21) Vitoria ba fatto delloiUI gentium un complesso di norme positive derivante«ex paeto et condicto inter homines» dalla noturalir ra­lio, ossia dal diritto naturale razionale - che in DJB IVII, 7 e 9 è menzionato anche come «ius divinum aut (et)naturale». Quindi. ancora una volta, non c'è un dominuso~bis, pap~ o imperatore che sia; c'è, invece. uno iUI gen./rum che m De Indi! (J, 3) è defmito come originantesidal «consensus maioris partis totius orbis», e che in DIB(IV, I, 5) si "presenta come «auctoritas totius orbis»H.

)2 J.M. K~lly, Stona del pensiero giuridico ocadenta/e (1992), Bo­logna, ~ Mulmo, 1996, p. 2'~~ sostiene che questo lennine può esse­~e cons~derato come la dcsçnZJone deUe relazioni di fatto esislenti fral popoli, e non come sinonimo di un ordinamento normativa

)) AJ. riguardo cfr. V. Carro, La «communitas orbis» y kJs ~IIJJ delderecho mlernaaonal, Palcncia, Merino, 1%2.

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Nonostante questa teoria dd patto che coinvolgel'intera umanità, in DIB il nesso fra ragione e consuetu­dine non è paritetico come sarà in Grazio, e pende piùdalla parte della ragione naturale". Eppure, in questotesto Vitoria sembra modificare leggermente la posizio­ne di Tommaso - il quale, per reagire alla positivizza­ziODe consuetudinaria dello ius gentium propugnata dagiuristi e canonisti, ha istituito &a ius genlium e dirittonaturale un rappotto per cui il primo, pur distinto in li­nea di principio da quello, viene di fatto a sovrapporvi­si del tutto quanto a funzione fonclativa rispetto agli isti­tuti giuridici positivi (Summa the%gica I, q. 79, a. 12)-;infatti per Vitoria lo ius gentium è un diritto positivo vi­cino al diritto naturale, e da questo originato, che i po­poli daborano avendo questo come fondamento e svi­luppandone la razionalità lungo il corso storico della ci­viltà (DIB IV, I, 5 e IV, II, 3). Così, il diritto delle gentinon è solo prodotto della consuetudine (cioè non è so­lo «ius inter gentes»), ma non è neppure del tutto iden­tico al diritto naturale: è «quasi necessario alla conser·vazione» di questo". In ogni caso, il termine-chiave rite(<<SeCondo le consuetudini») compare in DIB una voltasola, e anche consuetudo vi è menzionata poche volte (in

)4 ulla questione di quanto le tarde RtkctiontI anenuino il (re­lativo) positivismo o convenzionalismo dei Commm/ari a Tommasodel 1'27 e del U35. C: sulla divergenza interpretativa fra il d.isconti·nuista Urdinoz (Introduro6rt a fH I"Jù, in Obral, cit., pp. "1-565)e il continuista L. Perttia (El conctplo del tkrecho del genleI in Fran.cilCO de Vilona, in «Revista Espanola de Derecho intemacionabt,1952, pp. 603·628), cfr. Lamaechia, Francisco de Vilorùl e l'innova­vone modnna, cit., pp. LXXXHJCXXVllI; cfr. anche Skinner, Le ongini,cit., voI. [l, pp. 217·227, nonché Trujillo Pé.rez, Frt1ffcUCO tk Viloria,cit., pp. 159 sgg.

"Vitoria, u,menlariol,cit. voI. li, p. 16 (Quaesllo LVll, a. 3 ad4).

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II, 2 essa integra il diritto naturale che colloca lo ius adbellum nelle comunità politiche perfette, estendendoloin certi casi anche ad alcune imperfette; in IV, II, 8 siparla di urus, ma insieme a ius); la forza normativa deldiritto delle genti deriva, più che dalla consuetudine,dal fatto che questo prodotto umano incorpora in séj'aequitas (o iustitia) che è l'essenza dd diritto natura­le'6. Insomma, Vitoria fa un uso critico e razionale dddiritto naturale, come fondamento oggertivo e guidadello iUI gentium storicamente evolutosi. Che ci sia o nop~e~a continuità fra Tommaso e Vitoria, sul rappono fradm~to naturale e diritto delle genti", pare chiaro inogm caso che il materiale tomistico (e quello della tra­dizione giuridica e canonistica) è qui ri·oriemato versouna direzione giuridica.

Insomma, Vitoria fa delle genles i protagonisti for­malmente paritari delle relazioni internazionali - sono ipopoli-nazione ad avere diritti e doveri in relazione aq.uei beni naturali che sono la tranquillità e la pace, os­Sia il bene comune dell'intera umanità (IV, I 4) -' èquindi all'interno dei popoli-nazione che, insi~e allaS?Cietà, cresce naturalmente il potere politico; sono es­SI a daborare, sul fondamento della ragione naturale ildiritto delle genti; sono i popoli-nazione, in reciprdcacomunicazione fra loro e come parti di un'unica uma.nità (la t<oria della cognatio), a costituire l'auclorilas diquesto mondo. Lo ius gentium è anche la fome di legit-

)6 Ivi, p. 14 (Quaeslio LVII, a. 3 ad2)." Vili ' -/o . .ey, LM ormazlone, CII., pp. 307·.315 sostiene decisamente la

distanza ~ Vitoria da Tommaso. L'innovazione di Vitoria rispetto aTommaso e ~tenuta anche da A_ Truyol-Serra, De la notion Iradi/io­ne/k du droll tkl genI lÌ '" notion moderne du droll inlern41ional pu­bile, in td..c: Supplement», 1987, pp. 73.91.

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timazione dell'azione dei principi, che trova confermanel diritto naturale (diverso, quindi, e ancora più fon­dativo): i principi con la guerra giusta (e solo dopo chesiano state esaurite le opzioni non violente: DIB IV, I, 6)pongono infatti rimedio alle ferite che i malvagi arreca­no alla giustizia, cioè al diritto narurale dei popoli di vi­vere in pace, cercando di distinguere sempre fra mno­centi e colpevoli, fra civili e combattenti (DIB, IV, Il, I).

4.2. ì;: questa costruzione razionale, universalistica epluralistica al contempo, oggettiva e tendenzialmenteegualitaria, a fare di Vitoria - secondo una vulgata cherisale a Grozio - il padre del moderno diritto interna­zionale, e a determinarne la fortuna, anche e soprattut­to nel XX secolo. A patte la fama e la rilevanza in etàmoderna - non solo in Spagna, ma in Europa: benchécoinvolto nelle critiche della cultura francese (sia gian­senista sia gallicana) alla Seconda Scolastica, è citato, tragli altri, da Bacone e da Grozio, da Selden (che ne.com­batte la tesi della libertà di commercIo) e da Connng -,dalla metà dell'Ottocento viene recuperato, dapprimain ambito anglosassone, come iniziatore del diritto in­ternazionale moderno e propugnatore della libertà deimari; dalla fine dell'Ottocento Vitoria gioca poi un ruo­)0 sempre crescente nella reazione giuridica universali­stica concro il nazionalismo: grazie a un belga come Er­nest Nys, a un americano come James Brown Scott, auno spagnolo come Camilo Barda Trelles, a un tedescocome Paul Hadrossek, Vitoria diviene, per la culturaeuropea dei primi decenni del XX secolo, un grandegiurista internazionalista moderno, nonché un impor­tante teorico del diritto coloniale, e uno dei padri dellaSocietà delle Nazioni; inoltre, soprattutto dopo la finedella seconda guerra mondiale, egli entra nel novero de­gli autori coinvolti nella rinascita del diritto naturale,

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propugnata dalla giurisprudenza di orientamento cat­tolico (tra gli altri, Rommen e Giacon). In modo parti­colare,la cultura spagnola della metà del XX secolo, lai­ca e cattolica, vede nella Seconda Scolastica, e in Vito­ria, un importante e originale contributo della Spagnaall'identità europea: il IV centenario della sua mnrte,nel 1946, è per le autorità spagnole l'occasione per rom­pere, promuovendo anche istituzionalmente la Vitonil­RenazJsance, l'isolamento internazionale in cui la scon­fitta delle potenze dell'Asse ha lasciato la Spagna". In­fme, è a studiosi spagnoli, laici e religiosi, come Vicen­te Beltran de Heredra, Luis Alonso Getino, TeomoUrdanoz e Luciano Pereiia, che si devono le edizionicritiche delle opere di Vitoria, Commentari e Releclio­nes (dr. ullra, ala alleslo).

Così, ancora nel 1975 in un testo di riferimento co­me lA formazione del pensiero giuridico moderno di Mi­chel Vtlley, si legge: «siamo debitori a Vitoria delle coor­dinate del diritto internazionale: è lui che ha stabilito i

JI Fra i testi-chiave che hanno costruito la fortuna contempora­nea di Vitoria si vedano almeno: E. Nys, u droit in/ema/ioMI.usprùuipes, les /héodes, les fai/s, Bruxdles, Weissenbruch, 19122, 3voU., pp. 59-60, 234·240 del I vol.; A. Vanderpol, Lo doctrine SCOM­

stiqu~ du Droi/ fk gu~, Paris, Pedone, 1919 (con la trad. francesedelle due R~kctiones giuridiche e di moho materiale Storico); C.Barda TrelIes, Francisco de Vi/oniz ~/ l'&ale mod",,~ du Droi/ in/er­na/ional,. Paris, Hachette, ~ 928; ) .B. ~~t, Th~ Sp~nish Conap/ion 01In/erna/tona/ Law. Franasco d~ VI/Orni and hls Low of Na/ions,Oxford-London, Clarendon.MuHord, 1934 (con (rado ingJese delledue Reiediones giuridiche, del De po/es/a/edvilie di parte del De pc­/~s/a/e Eccknlze prio,); C. Giacon, La Seconda Sco4lS/ica. Igrandi com.menta/on° di San Tomma1O: il Gae/ano il Fe"arese il Vi/ona MilanoBocca, 1944; H. Romme:n, Lo Stato n;1 pensiero c;"olioo (1935), Mi:lano, Giuffrè, 1959; P. HlIdrossek, Leben und Wt7ke d~s Frandscus deVi/Dna, in De Indis recente' inven/is e/ de iurebe//i Hispanorum in ba,.baros, a cura di W. Schii{zel, Tlibingen, Mohr, 1952, pp. XI-XXX; G.van Hecke (a cura di), L'Espogn~ ~t /alo,ma/ion du droi/ des gens mo­de",~, Louvain, Peelers, 1988.

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principi per cui gli Stati devono rispettare reciproca­mente le loro sovranità, non ingerirsi negli affari inter­ni degli altri Stati, ammettere la libera circolazione daun territorio all'altro di persone e di merci, e la libertàdi predicazionej riconoscere la libertà dei mari e dei fiu­mi inte:~azionali e i diritti degli ambasciatori; proteg­g~r.e I. cIvili m caso d! guerra. Equesto senza parlare deidiritti delle popolazioni indiane dell'America [...). So­no t~~i princìpi, questi, che vediamo al giorno d'oggi ri­badltl dalle Nazioni Unite [...). Vitoria applica a questonuovo ramo del diritto la regola poeta suni servanda, ilche consente di introdurre come nuova fonte di dirittoi trattati internazionaIDY9.

4.3. Una forte contrapposizione a queste interpretazioniattualizzanti (cerro, non direttamente a Villey) viene daCari Scbrnitt, il quale nel 1950, e quindi a ridosso delle ce­lebrazioni del 1946 per il quattrocentesimo anniversariodella motte, dedica a Vitoria un denso capitolo del Nomosdella lemi'O. Per Schmitt rettificare la comprensione vul­gata di Vitoria, e opporsi alla sua trasformazione in un«mito politico», è decisivo: infatti, la pretesa che esista unmo rosso che unisce il cattolicesimo alle potenze liberalie socialiste implica che la ricostruzione schmittiana dellapolitica internazionale moderna in termini di nomos di~eterminazione spaziale, di differenza tra Europa stat~a­lizzata e resto del mondo, cioè di iuspublicumeuropaeum,SIa ptlva d! fondamento (owero sia solo ideologico-pro­pagandlstica); oppure implica che il mondo delle sovra­nità statali sia deI tutto tramontato, e sostituito da istitu­zioni e apparati categoriali universalistici, già presentinella tradizione moderna, ma alternativi alla principale

)9 Villey, LA/ormozione, cit., p. 309.40 Schmitt,1/ nomos, cit., pane 11, cap. 2, pp. 104-140.

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vicenda storica di questa. Per Schmitt, invece,l'universa­lismo è una malattia - individualistica e liberale, e poi so­cialista - interna allo Stato, che lo mina e lo distrugge, enon certo un'alternativa politica praticabile: la politica èper lui la concretezza particolare (e polemica), e non lagiuridificazione universale. delle relazioni interumane.La posta in gioco, per il cattolico (sui generis) Schmitt, èben più che la precisione storiografica, che la restaura­zione dell'immagine di un autore su cui sono state passa­te successive mani di vernice che hanno reso irriconosci­bile la pittura originaria: è sottrarre il cattolico Vitoria al­la genealogia dell'universalismo liberale e socialista.

La prima mossa di Schmitt consiste dunque nel cri­ticare quanto in Vitoria vi è di freddo e obiettivo: perSchmitt, Vitoria è troppo neutralizzante, e la sua consi­derazione paritetica di Indios e Spagnoli lo rende ester­no alla politica del suo tempo; insomma, Vitoria, inquanto propugna un universalismo egualitario, non ra­giona nei termini politici concreti di amico-nemico. Alcontrario, Schmitt valorizza in Vitoria gli elementi di di­suguaglianza che egli conserva nel proprio pensiero: inprimo luogo, l'idea di 'missione' evangelizzatrice volu­ta dal papa, che legittimerebbe l'impresa spagnola inAmerica (poiché questo aspetto del pensiero di Vitoriasi fonda sulla poleslas indirecla del pontefice, che alme­no dalla metà degli anni Venti è criticata da Schrnitt, èchiaro che questi pur di contrapporsi alla vulgata è di­sposto anche a contraddirsi). Ma più in generale la con­cretezza di Vitoria consiste per Schmitt nel fatto che egliè «un monaco spagnolo» ancora legato alla spazialitàpolitica concreta della respubl,,:a chrisliana, dalla qualederiva una netta contrapposizione all'Islam, una teoriaben determinata della guerra giusta, e un universalismospecificamente cattolico.

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· Per Vitoria, sostiene Scbmitt, il libero commercioC1~ntra in r~altà nel m~dievale i~s peregrinandi, mentred}vema tutt altra cosa LO mano 31 prmestanti come Gra­ZIO o ai capitalisti inglesi e americani dell'Ottocento cheargomentano a favore del libero commercio contro ilmercantilismo degli Stati europei, che Vitoria neppureconos~eva. Inoltre, per Vitoria la guerra giusta è ancheoffensiva, mentre quella moderna è solo difensiva: infat­ti, le logi.che 'ginevrine' - per Schmitt, di origine Imera­na.- d1Sltnguono fra aggressore e aggredito, facendo delpnmo un criminale in senso penale, passibile non solo dip.unizione ma anche di discriminazione morale e ideolo­g~ca, e. t:asformando quindi la guerra giusta in un'azionedl.p~lizla. Al contrario, il nemico, per Vitoria, non è unc~lmmale f~ori ~aU'u~anità, ma, pur essendo colpevoledi una specifica mfrazlOne allo ius gentium conselVa di­gnità e diritti; è un nemico concreto, e non ~n nemico as­soluto. In g~erale, per Schmitt, Vitoria non può esseredecontestualizzato dalla respublica chrisliana, alla qualedopo tutto conttnua ad appartenere idealmente ed esi­stenzialmente: la sua fortuna è in realtà il frullo di estra­polazioni, da partedi anticristiani edi antispagnoli, di te­SI nate.LO ~n onzz~nte intracristiano e intraspagnolo.

Qwndl, Schmm giunge a riconoscere che Vitoriapur ~eorico della guerra ex fusta causa, ha nd propri~pen~lero tanta 'concretezza' da giungere in realtà a una~eorta non discriminatoria dello iustus hortis. Certo unolustus borlis medievale, tipico di una guerra intracrisria.na" diverso quindi dallo iuslus hOSlis della piena moder­nIta :"estfalta~a che riconosce solo la guerra fra Stati eu­ropeI. In ogm caso, l'internazionalismo protestante li_berale esocialista - di Norimberga e dell'Onu _ è perSchmnt In forte e drammatica discontinuità rispetto nonsolo allo iur pub/icum europaeum pienamente moder-

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no, ma anche rispetto all'internazionalismo cattolico e:oncreto di Vitoria, in fondo premodemo. Insomma,Schmitt, pur distinguendo fra la concretezza medievaledi Vitoria e la propria concretezza moderna, tende asot­tolineare che entrambe le 'concretezze', benché diversefra loro, si situano agli antipodi dell'universalismo astrat­l ,ma in realtà discriminatorio, che sotto le vesti giuri·dico-morali del diritto internazionale a dominanza indi­vidualistica persegue fmi politici di distruzione dei vin­ti/colpevoli. Un pensiero 'situato' quello di Schmitt, ilquale, dopo le due sconfitte della Germania nel XX se­C lo, e dopo che in entrambe le circostanze è stata fa~ta

valere contro la dirigenza politica tedesca un'istanza gIU­ridica penale, tenta di ddegittimare i vincitori e di rilan­ciare la propria teoria della politica come organizzazio­ne di 'grandi spazi' e non come universalismo (Schmittnon riconosce mai la qualità di Grossraum alle sfere di in·fluenza bipolare generate dalla seconda guerra mondia­1e'1). Schmitt cerca quindi non tanto di annettersi il pen­siero di Vitoria, ma, definendo quest'ultimo a sua volta'situato', di sottrarlo aquelli che per Schmitt sono i mor­lali nemici della Germania, dell'Europa, dello Stato.

L'interpretazione di Vitoria diviene così per Schmittuno dei baricentri di una guerra intellettuale intorno al­l'essenza della politica moderna.

5. Scontata la 'parzialità' di Schmitt - anche se qui at­teggiata come obiettività storiografica -, è bene lasciar·si provocare, con la dovuta attenzione, dalle sue tesi.

<41 C. Schmin, L'unità del mondo eal/ri .saggi (1951-1962), Roma,Pellicani, 200}}j Id., La ron/rappo.sitione pl4nelaria tra Oriente e Oc­adente e 14 .sua .s/ruttura .s/orica (1955), in E.)Ungcr, C. Schmin, II no­do di Gordio. Diarogo.su Oriente e Oca·dente ne/iJJ .s/on"a del monda,Bologna, UMulino, 2004', pp. lJ t-t63.

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AI di là dei giudizi di valore, sembra difficile che, al.meno dal punto di vista della storia del pensiero politi.co, la modernità possa essere fatta coincidere con lo svi­luppo lineare di un diritto naturale orientato sui dirittiumani, che da Vitoria passando per Grozioe Kant giun.ge alla Cana dell'Onu. Questo disegno - per accatti.vante che possa essere - manca di consistenza storica­in età moderna il diritto naturale - che in ogni caso no~nasce solo in ambito ecclesiastico. e che anzi si nutre so­prattutto di fonti antiche, e poi umanistiche, e quindiriformate, e mfine razionalisriche e illuministiche _ vie­ne catturato dalle logiche della statualità, e solo all'in.temo dello Stato, sia pure in forte tensione rispetto a es­so, si ripresenta come fondamento dei diritti umani in­dividuali. Insomma, il potere politico moderno si razio­nalizza molto più perché passa attraverso la mediazionedello Stato e della sua potenza che non perché si confor.mi immediatamente al diritto naturale; all'interno delloStato, sarà l'individuo - che si concepisce come porta­tore di diritti - a farsi valere perché lo Stato si raziona­lizzi ulteriormente, trasformandosi in Stato di diritto. Enon solo il diritto interno, ma anche quello internazio­nale, in età moderna, è molto più statualistico cbe giu­snaturalistico - è diritto di Stati, cioè iUI publicum eu­ropaeum -; benché il diritto naturale sia frequentemen.te invocato come origine di ogni giuridicità, in Gentiliin Grozio e in Vattel, è infatti ovvia la progressiva s(a~tualizzazione delle relazioni internazionali e della guer­ra, che sarà non a caso il problema di Kant"'. AII'affer-

..2 Sulla moderna inflessione sratalistica dci diritto narurale si vedaR. Tuck, War(md Peace. Politica/ Thought and the lnternationaJ Order/rom Grotius to Ka'!t, Oxford Unjversity Press, Oxford 1999; sul nes­so fra potenza e raglon~ com~ chiave di ricostruzion~ della storia d'Eu­rop~ cfr. B. De Gjovan~i, ~filosofia e /'Eut'OfJ4 moderna, Bologna, IlMulino, 2004; sul nesso mdlVlduo-Statodr. R. Schnur, Individualismo

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nlllrsi dei diritti umani come fondamento tanto del di·ntto interno quanto del dirino internazionale - che è iltipico portato della rivoluzione francese, ma che assu­me senso politico solo dalla metà del XX secolo - han­no contribuito sia l'daborazione giusnaturalistica cat·l \ica, che ha origini prestatuali e non individualistiche,quanto quella laica, di fatto nata dentro la moderna VI'

cenda dello Stato; ma entrambe le distinte tradizioni~iusnaturalistichesi sono potute contrapporre alla po:litica statocentrica in nome dei diritti umani - divenunun'idea universalistica - solo al prezzo di una forte tr3­formazione del rispettivo materiale intellettuale tradi·

zionale, ossia tanto del paradigma poLitico modernoquanto del giusnaturalismo cllttolico.

In quest'ottica, si tratta di esaminare più davicino ilpensiero di Vitorill, per discernervi quello che Luis Le­gaz y Lacambra nel 1947 definiva «lo medievale y lomodemo»4J, e soprattutto per coglierne logiche, strut·Lure, e implicazioni.

5.1. È, quella di Vitoria, una teologia morale-giuridica,razionalmente mediata e atteggiata. on c'è in lui il SI'·

/ele Ibeologi! di Gentili (anche se questo era rivolto con­tro un presunto comandamento dell'amore verso i Tur·chi che in Vitoria sicuramente è assente)44 da cui ha ori-, .gioe la moderna politica internazionale. C'è, lOvece, senon un si/eie iurisconsu/ii! certamente l'affermazione

eassolutismo (1963) Milano, Giuffrè, 1979, nonché: R Kosdleck, Cri­tica iJJuminista ecris;' de/la società borgheu (1959), Bologna, li Mulino,1972.

..} Legaz y Lacambra, Horilontes cit., pp. 19'·211; l'autor~ so­stiene che Vitoria non è mooemamente statualista, ma è un fLIosofomorale scolastico, e che proprio per questo è adano ai tempi in cui lamodernità roUassa.

44 A. Gentili, De iurt belli libri tres (I612), libro l, cap. J2, in C.Calli (a cura di), Gu~a, Roma·Bari, Laterza, 2QO...t, p. 60.

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(De Indis, Introd. 8) dell'esigenza cbe, nella fase storicain cui il diritto internazionale (ius genlium) deve aprir­si al Nuovo Mondo - il cbe lo rende un diritto ancorain fien° -, i teologi intervengano inelicando i principimorali su cui il dirino internazionale deve basarsi. Que­S(Q è precisamente quanto fa Vitoria in DIB, che non èsolo una teoria giurielica dello ius belli (sia come ius adbellum sia come ius in bello), ma è ancbe una teoria mo­rale della guerra - «in moralibus» defInisce Vitoria ilproprio ambito eli riflessione (DIB l, 2; TV, I, 6) -, fon­data. implicitamente ma saldamente, sull'idea di giusti­zia4', ossia sull'oggettività dd bonum totiuIorbis. sul­l'ordinato vivere e prosperare delle genti (DIB I, 2), cbeè un fine e un dovere proprio perché è al contempo undiritto (anche se il termine in quanto tale è assente), oalmeno una possibilità reale di felicità terrena, scrittanell'essenza dell'umanità. Di fatto, le tesi eli fondo diDIB sono mutilare se non vengono comprese a partiredall'idea che esiste la giustizia. cioè un ordine morale erazionale del mondo - del quale Dio è in ultima istanzal'autore -, che l'umanità conosce come diritto naturaleoggettivo e al quale collabora sviluppandol0 storica­mente come dirino delle genti, mai elivesgente dal elirit­to naturale: è a questa giustizia ben fondata cbe riman­da lo ius belli. Se la politica interna - cbe pone il clisittopositivo, e lo amminisrra - può e deve conformare leproprie costruzioni alla giustizia, anche ]a politica in·ternazionale, e anche la guerra, può e deve atteggiarsi inmodo razionale e morale. La diretta autonomia della

.., Al riguardo si veda D. Deckers, GerechligJuù und Rechi. Einebistonrch-kntuche Untersucbung der Gerecbtigkeitslehre de, Franci­sco de Vùor,a (1483-J.546), Frciburg (Schwciz), Univcrsitatsverlag,t991.

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I litica e della guerra dalla religione è assicurata; ma ciònon implica per nulla una loro autonomia dalla moralettlzionale, ovvero non implica che il diritto possa essere1I11permeabile alla giustizia e al elirino naturale: l'esi­M-nza eli Vitoria è cbe la razionalità della vita praticanon sia solo fonnale, e ciò lo fa appunto argomentare inI rmini eli 'giustizia' che escludono il positivismo nel­l'ambito interno e il convenzionalismo (sia antico-ro­mano sia moderno) nell'ambito internazionale.

Così, questa presenza della giustizia nella politicao n è in Vitoria un'eccezione, l'irrompere nello spazio

litico chiuso dello Stato moderno di un Valore che,n i casi estremi del «diritto ingiusto»"6, fa saltare l'au­tosufficienza del djritto positivo: anzi, è una fondazioneche è anche normalità e norma, è un'essenza irrinuncia­bile sia della politica sia del eliritto. E come non si trat­ta di irruzione straordinaria, così non è neppure una so­vrapposizione di ambiti fra morale e politica: si trattapiuttosto, in Vitoria, di una distinzione che non è estra·neità, ma che anzi presuppone una continuità fondati­va. Questa continuità è insomma consentita da un ordi­ne dell'essere -la giustizia, appunto - che non conoscecesure assolute e catastroficbe fra i diversi ambiti dellapratica (morale, diritto, politica, guerra): né il nicbili·mo originasio del Moderno, o in ogni caso la perenne

esposizione della sua ragione alle logicbe della potenza,né le graneli contrapposizioni che organizzano la politi­ca moderna - il dualismo fra diritto privato e dirittopubblico, fra diritto interno e diritto internazionale, frasoggetto e Stato - sono presenti in Vitaria con la carica

46 H. Ho&nann, Introduzione alla filosofia del d,ritto e de/la poli­tica (2000), Roma·Bari, Laterza, 2000, pp. 123·128 (con riferimentoalle lesi di G. Radbruch),

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al tempo stesso costruttiva e distruttiva che manifesta.no nd versante razionalistico della modernità: più chein termini di fronti conllinuali, egli argomenta in termi.ni di ambiti, fra l'uno e l'altro dei quali c'è comunica.zione e analogia.

E infatti fin dall'inizio DIB si fonda sull'analogia frail privato e il pubblico (Il, 1-2; ma si veda anche il ri­corso all'analogia fra diritto matrimoniale e diritto diguerra in IV, I, 8), nonché fra l'interno e l'esterno (I, 2;m,4 e 5; IV, I, 2, 5 e 7; IV, il, 5). Una trasposizione, chegenera una sistematica «analogia domestica», che è re.sa possibile dall'esistenza di un terreno comune, ap­punto dalla giustizia. Il che implica che Vitoria sia estra.neo tanto alla distinzione moderna fra nemico e crimi.nale quanto anche alla discriminazione tardo-modernadd nemico/colpevole come criminale collocato fuoridell'umanità (il che non vale, per lui, neppure per i Tur.chi): il nemico/colpevole vinto è passibile di punizioneproprio in quanto condivide col vincitore un terrenocomune, che è la comunità pan-umana della giustizia.Questa, certo, è Stata da lui vulnerata, ma potrà ancheessere reintegrata, attraverso la punizione del torto.

Per quanto riguarda il rapporto tato/individuo, poi,è da notare che Vitoria non seme in modo drammatico laloro contrapposizione; anche in questo caso, c'è eviden­temente una distinzione, che non genera però confljttiassoluti. La disposizione razionale e secondo giustiziadell'ordine politico interno elimina le occasioni di con.flitto; tranne che nel caso in cui il singolosia del tutto cer­to che la guerra è ingiusta (un caso quasi solo teorico, inrealtà), l'ubbidienza in buona fede alle autorità legittimeassolve in coscienza il soldato di basso rango, nei casi- questi sì frequenti e realistici - di incertezza sul sussi­stere di una giusta causa di guerra (DIB IV, I, 7-8). C'è

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dunque in Vitoria un rifiuto pratico - non però teori·0-47 _ dell'obiezione di coscienza, un rifiuto che non na-

da vessatoriostatalismo assolutistico, da cedimenti diVitoria alla Ragion di Stato o al probabilismo gesuitico,ma anzi dall'idea che la politica è un ordine autonomo in4uanto incorpora in sé, fm dalla propria origine e in ogniua articolazione, la giustizia; e che solo per questo mo­

Uva è legittimata. Questo atteggiamento deriva dunque,lo si ripete, da una con iderazione dell'individuo chenon ne fa - insieme allo Stato e in concorrenza con esso

il centro assoluto della politica: non a caso, la libertà deiingoli (non invece quella delle gentes) non è per Vitoria

un diritto naturale, ma un bene accidentale (DIB IV, il,n In generale, non è attraverso il singolo (né, dd resto,come si è detto, attraverso lo Stato) che si legittima la po­litica, per Vitoria, ma attraverso la complessiva articola­zione, priva di cesure e di contraddizioni assolu~e~ dd·l'ordine politico; così, se normalmente non .sono l sm~o­

li cittadini a essere chiamati a capire se SUSSistono le glU·Me cause di guerra, devono esserlo i governanti, COD lamassima severità e con la più gsande attenzione (DIB IV,1,6·7). E proprio perché sono essi a dover esercitare laresponsabilità, non è opportuno che i sudditi abbracci­no la morale della convinzione. Insomma, neI caSI nor­mali è prescritta l'obbedienza dd singolo; e solo in casieccezionali in cui il comando politico è palesementecon·trario alla Jegge di natura, cioè alla morale e alla giustizia,è lecita la disobbedienza; e chi decide l'eccezione è il sog·getto singolo, certo: ma dello scarso valore po~itico .realeche Vitoria dà a questa riserva interiore è test1mOOlanZail fatto che l'esempio di comando ingiusto addotto in

'17 Minois, lA Chinll e III gUerTlI, cit., p. 282.

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DIB IV, I, 7 è la guerra sanra islamica, e la messa a mortedi Gesù.

È quindi l'arreggiarsi razionale del carrolicesimo- cioè l'affermazione di una conrinuirà deIJ'ordine del­l'essere e deIJ'assenza di drammatiche cesure tra gli am­biti dell'esperienza- afar sì che in Vitoria non ci siano néla moderna politica assoluta né il suo interno deuterago­nista, il soggerro libero e uguale; che la politica non ab­bia a che fare con la costruzione delJa forma di un irresi­stibile potere sovrano ma con la sostanzialirà di un benecomune gerarchicamente atteggiato e fondato. in ultimaistanza, sul diritto naturale; e che quindi, conseguente­mente, il potere e la guerra non si legittimino se non at­traverso la teoria del bene comune, di ciascuno Stato edeIJ'umanità intera (DIB IV, I, 5), e in quesro trovino illoro fine e illaro limite intrinseco. 'Bene comune' è in­fatti il nome politico deIJ'ordine dell'essere (come 'giu­stizia' è il suo nome categoriale). Da tutta la discussionein DIB IV appare chiaro che il bene comune non giusti­fica qualsivoglia prassi bellica; anzi, in De poleslale dviii13 - oltre che in DIB IV, I, lO e IV, II, l - Viroria affermache la guerra, anche giusta, non può produrre un malemaggiore di queIJo a cui pone rimedio.

Lo spazio politico di Viroria è quindi in realtà unasorta di respublica chrisliana liberata da molte angustiee da molti dogmatismi (soprattutto, non ierocratica), edilatata a inglobare anche le genles non cristiane, a cuiegli estende lo nozione di iuslilia e di bonum commune.Equesta attitudine cattolica a tematizzare la continuitàrazionale deIJ'ordine deIJ'essere ciò che consente a Vi­roria di essere universalistico eppure capace di operaredifferenze, rigoroso eppure non consequenzialista all'e·stremo, e in grado di temperare la giustizia con la pru·denza: infatti, la giustizia è un bene che va salvaguarda-

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lO (anche con la punizione di chi la viola) ma che nes­sun peccato può dawero distruggere, perché è dopolurro Dio a esserne l'autore. TI che esclude l'ammissibi­lità, e ancbe la sensatezza, di una posizione del tipo «fiatlustitia pereat mundus»; giustizia e mondo si coappar·tengono: insieme, sono appunto l'ordine (giusto) del­l'essere. é il formalismo né il nichilismo hanno spazionel pensiero di Vitoria. Che ha il proprio limite, sem­mai, nd risultare di fano, una volta che si siano svilup·pate le dinamiche politiche delJa piena modernità, mol­to più un dover essere morale che una teoria politica ef­ficace o una teoria giuridica effettuale. E un dover esse­re, per di più, meno radicale di quanto sarebbe neces­sario.

5.2. Come appunto si vede da un'analisi che cerchi dicomprendere le modalità d'azione della nozione di giu­stizia sull'impianto teorico della guerra giusta.

5.2.1. Si è già detto che la guerra è in Vitoria un fattogiuridico (è uno ius); è infatti valutata in relazione a undirino naturale che è in sé razionale e astorico ma che èanche storico nella sua realtà evolutiva di ius gentium;un dirirro che quindi non è solo formale e convenzio­nale ma anche una realtà concreta. Ciò significa cbe laguerra giusta non si qualifica solo a partire dalla giustacausa -l'iniuria accepta -, in senso universalistico, mache esiste un asperro 'siruato' del pensiero politico diVitoria, che lo orienta. Questo aspetto consiste nellapercezione di due differenze, che modificano il suo uni·versalismo, senza annullarlo: la differenza tra civiltà eharbarie (ossia fra Europa e America) e quelJa tra cri­stiani e infedeli (ossia il conflitto fra Europa e Islam). Laprima - già esaminata - è meno importante della se·

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conda, quanto alle sue conseguenze sulla teoria dellaguerra giusta (altro discorso vale per la pratica: è infat­ti evidente che l'universalismo è asimmetrico, e che difatto se ne possono giovare solo gli Spagnoli). Ma se, inogni caso, con gli Indios è almeno possibile la pace, in­vece, coi Turchi c'è, secondo Vitoria (DIB IV, n, 3),«guerra perpetua» (nozione che precede quindi il più il­lustre concetto antitetico di .:pace perpetull»L cioè unaguerra che nasce dall'esperienza storica della continuaaggressione islamica contro gli Stati cristiani (e dunquenon dalla natura, né dalla religione); una guerra assolu­ta, senza tregua e senza quartiere. Ciò implica differen­ze di trattamento del nemico vinto (ivi, IV, n, 5): se nelcaso della guerra fra Stati cristiani il vincitore, a guerrafmita, può uccidere tutti i colpevoli, ciò di fatto signifi­ca giustiziare coloro che harmo responsabilità dellaguerra ingiusta; od caso dei Turchi, invece, si possonouccidere «tutti quelli cbe possono portare le armi, pur­ché si siano macchiati di colpa» (il che significa tutti imilitari, anche catturati prigionieri). La colpa da puni­re fra i cristiani sta presso i capi (ivi, Conclusioni: «nd­la maggior parte dei casi, fra i Cristiani tutta la respon­sabilità è dei principi»); fra i pagani sta invece anche neisingoli combattenti. Analoghe differenze si registranopoi sulla riduzione in schiavitù dei prigionieri, consen­tita all'esterno, verso i Turchi, ma non all'interno, versoi cristiani (ivi, IV, n, 3). Eppure, Vitoria (D/B, Conclu­riom) nega che la guerra giusta - anche quella perpetuao assoluta - sia rivolta contro i popoli/nazione, controle genter e le rerpublicae (che sia una guerra totale con­tro le società, diremmo oggi), e meno che mai contro lasostanza biologica del nemico: la guerra di sterminio(l'uccisione dei non colpevoli) è vietata sia fra i cristia­ni (IV, n, 5) sia contro i Turchi (IV, n, l e 5) - con pie-

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na certezza per quanto riguarda il divieto dell'uccisionedi donne e bambini, e alla fme, benché con un ragiona­mento faticoso e tortuoso e con concessioni a un'inter­pretazione volontaristica di Dl 20, 13, poi corretta, an­che per quanro riguarda l'uccisione degli adolescenti.Insomma, la differenza fra guerra intracristiana e guer­ra contro i Turchi, indubbiamente sussiste: evidente­mente è un retaggio dd passato di inimicizia costantefra Impero oltornano (inteso come potenza politica, piùche come religione islamica) e Stati europei; un reraggioche Vitoria condivide con la stragrande maggioranzadegli intellettuali europei suoi contemporanei.

La concretezza di Viroria, ossia la caratteristica spe­cificamente cristiano·cattolica del suo universalismo,colloca la sua teoria della guerra giusta in una zona me­dia fra paciftsmo e sterminio cbe - a parre il caso dell'I­slam - non conosce "estraneità radicale fra popoli eu­ropei ed extraeuropei che è propria dello iur publicumeuropaeum. E che non conosce neppure la criminaliz­zazione discriminatoria del nemico propria della tardamodernità.

Da alcuni punti di vista Schmitt ha quindi ragionenel segnalare che l'universalismo di Vitoria non coinei·de con quello moderno; ma non ha ragione nelle con­seguenze che trae da queste caratteristiche dd pensierodi Vitoria, che non rendono il domenicano un monacomedievale, ma semmai una figura di pensatore cheestende alle novità del dercubrimienlo un paradigmatradizionale - quello deUa giustizia, cioè dell'ordine ra­zionale dell'essere, di radice divina e poi di elaborazio­ne umana -, modificandolo e trasformandolo in un mo·dello di regoIazione delle relazioni internazionali su­scettibile di importanti sviluppi futuri.

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5.2.2. Ma quel modello è anche ricco di problemi, chenon stanno tanto in ciò che vi è ancora di medievale inVitoria (come ammettono anche i suoi estimatori mo­dernizzanti), né in ciò che in lui vi è di moderno (comeinvece sostiene Schmitt). I problemi stanno proprio nel­l'impianto oggettivo della giustizia.

e risultano, come diretta conseguenza, alcuni trat­ti peculiari e problematici nella dottrina della guerragiusta. il primo dei quali (DIB IV, I, 2 e 5; IV, II, 5) è che- in linea con la dottrina tradizionale - il vincitore/giu­sto si trova ad essere il giudice del vinto/ingiusto, e adavere il diritto/dovere di punirlo (non è contemplata,perché ininfluente sotto il profilo teorico, l'ipotesi che,nella pratica, il vincitore sia il responsabile di una guer­ra ingiusta: il giudizio di condanna resterehbe in ognicaso invariato). Che il principe che conduce una guerragiusta sia iudex in causa propria ha effetti di grande du­rezza sulla conduzione della guerra e sulla gestione del­la pace, ma non produce, in Vitoria, ('effetto devastan­te di uno stato di natura a tal punto anarchico che se nedebba a tutti i costi uscire: a differenza di quanto è pre­visto da Hobbes, per Vitoria è indiscutibile che esistarealmente la trama ordinata della giustizia a sostenerel'umanità, e a garantire l'univocità, la non contradditto­rietà e la non distruttività, del concetto di guerra giusta.La giustizia è oggettiva, non soggettiva; e ciò significache essa esiste univocamente anche se i principi erranonell'attribuirsela ciascuno per sé.

La distanza fra Vitoria e la modernità piena è tuttaqui: nel fatto che il domenicano non può far discende­re dal cumulo di errori soggettivi dei principi l'assun­to, su cui si fonda la politica moderna, che la giustizianaturale è assente - o poco o per nulla rilevante - dal·l'orizzonte delle relazioni interstataJi. e che va sostitui-

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la dal combinarsi storico e artificiale di ragione e po­tenza, dallo ius publicum europaeum. Vitoria sa beneche spesso la guerra fra cristiani è condotta, in buonafede, come bellum utrimque iustum (DIB IV, II, 9) siaper quanto riguarda i sudditi (che hanno l'obbligo diobbedienza in re dubia) sia perfUlO per quanto riguar­da i principi (per una invincibile ignoranza, che tuttoscusa, o per un esame erroneo, benché accurato, dellecause di guerra). on ci sono, però, in Vitoria, le con­seguenze convenzionalistiche - che lasciano la questio·ne della colpa alla coscienza personale dei principi, eche giustificano la guerra a partire non dalla giustacausa ma dallo iuslus hOSlis, cioè ne fanno una faccen­da di Stati, un bellum utrimque iustum all'interno del­lo ius publicum europaeu,,"8 - che la modernità matu­ra ha tratto tanto dalla crescente difficoltà a definire laiusto couso, quanto dalla catastrofica violenza implicitanella pretesa che la guerra sia giusta (cioè un'esecuzio­ne di una sentenza) da entrambe le parti. Per Vitoria,in una guerra deve essere sempre distinguibile, in lineadi principio, chi ha ragione da cbi ha torto, in modounivoco e cerro: e quindi non può esistere, in quantosarebbe assurda, una guerra giusta da entrambe le par­ti (DIB III, 2 e IV, I, 6 e 9), e dunque gli hostes nonpossono essere, modernamente. oequoliter iusti. E nonc'è nemmeno il probabilismo gesuitico col suo sostan­ziale filoassolutismo: Vitoria sa bene che giustificare laguerra attraverso la mera probabilità che il principeche la dichiara abbia ragione - e non attraverso la cer­tezza morale e razionale della iusto causo - sarebbefonte di guerra senza fine (DIB IV, I, 6) perché, a dif­ferenza della verità e della giustizia, la ammissibilità del

48 E. de Vattel, udroi/ des Genr (1758), libro m, cap. 12, in Gal.li (a cura di), Guerra, dt., pp. 96-98.

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5.2.2. Ma quel modello è anche ricco di problemi, chenon stanno tanto in ciò che vi è ancora di medievale inVitoria (come ammetrono anche i suoi estimatori mo·dernizzanti), né in ciò che in lui vi è di moderno (comeinvece sostiene Schmitt). I problemi stanno proprio nel­l'impianto oggettivo della giustizia.

Ne risultano. come diretta conseguenza, alcuni trat­ti peculiari e problematici nella dottrina della guerragiusta. TI primo dei quali (DIB IV, I, 2 e5; IV, II, 5) è che- in linea con la dottrina tradizionale - il vincitore/giu­sto si trova ad essere il giudice del vinto/ingiusto, e adavere il diritto/dovere di punirlo (non è contemplata,percbé ininfluente sotto il profilo teorico, l'ipotesi che,nella pratica, il vincitore sia il responsabile di una guer­ra ingiusta: il giudizio di condanna resterebbe in ognicaso invariato). Che il principe cbe conduce una guerragiusta sia iudex in causa propria ha effetti di grande du­rezza sulla conduzione della guerra e sulla gestione del­la pace, ma non produce, in Vitoria, l'effetto devastan­te di uno stato di natura a tal punto anarchico che se nedebba a tutti i costi uscire: a differenza di quanto è pre­visto da Hobbes, per Vitoria è indiscutibile che esistarealmente la trama ordinata della giustizia a sostenerel'umanità, e agarantire l'univocirà, la non contradditto~

rietà e la non distruttività, del concetto di guerra giusta.La giustizia è oggettiva, non soggettiva; e ciò significache essa esiste univocamenre anche se i principi erranonell'attribuirsela ciascuno per sé.

La distanza fra Vitoria e la modernità piena è tuttaqui: nel fatto che il domenicano non può far discende­re dal cumulo di errori soggertivi dei principi l'assun­to, su cui si fonda la politica moderna, che la giustizianaturale è assente - o poco o per nulla riJevante - dal­l'orizzonte delle relazioni interstatali, e che va sostitui-

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ta dal combinarsi storico e artificiale di ragione e po­tenza, dallo ius publicum europaeum. Vitoria sa beneche spesso la guerra fra cristiani è condotta, in buonafede, come bellum utrimque iustum (DIB IV, II, 9) siaper quanto riguarda i sudditi (che hanno l'obbligo diobbedienza in re dubia) sia perfmo per quanto riguar­da i principi (per una invincibiJe ignoranza, che tuttoscusa, o per un esame erroneo, benché accurato, dellecause di guerra). Non ci sono, però, in Vitoria, le con­seguenze convenzionalistiche - che lasciano la questio­ne della colpa alla coscienza personale dei principi, eche giustificano la guerra a partire non dalla giustacausa ma dallo iustus hoslis, cioè ne fanno una faccen­da di Stati, un bellum utrimque iustum all'interno del­lo ius publicum europaeunt'8 - che la modernirà matu­ra ha tratto tanto dalla crescente difficoltà a definire laiusta causa, quanto dalla catastrofica violenza implicitanella pretesa che la guerra sia giusta (cioè un'esecuzio­ne di una sentenza) da entrambe le pasti. Per Vitoria,in una guerra deve essere sempre distinguibile, in lineadi principio, chi ha ragione da chi ha totto, in modounivoco e certo: e quindi non può esistere, in quantosarebbe assurda, una guerra giusta da entrambe le par­ti (DIB III, 2 e IV, I, 6 e 9), e dunque gli hostes nonpossono essere, modernamente, aequa/iter iusti. E nonc'è nemmeno il probabilismo gesuitico col suo sostan­ziale filoassolutismo: Vitoria sa bene che giustificare laguerra attraverso la mera probabilità che il principeche la dichiara abbia ragione - e non attraverso la cer­tezza morale e razionale della iusta causa - sarebbefonte di guerra senza fme (DIB IV, I, 6) perché, a dif­ferenza della verità e della giustizia, la ammissibilità del

.8 E. de Vand, Ledroil deI GenI (1758), libro DI, cap. 12, in Gal·li (a cura di), Guerra, cit., pp. 96-98.

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diritto può stare da entrambe le parti: e infarti in casodi incertezza sostiene che la guerra sia illecita (DIB IV,I, 8). Solo la certezza della giusta causa, e quindi deltorto altrui, è fonte di legittimità della guerra.

Insomma, la consapevolezza deUa problematicitàpratica della definizione corretta di guerra giusta (DIBIV, I, 9) agisce in lui solo in via prudenziale e non di prin­cipio, cioè come riconoscimento di una umana debolez­za che deve indurre a comportamenti moderati, e noncome una caratteristica strutturale e oggettiva della ma·dema politica statualizzata: la guerra giusta da entrambele parti (per ignoranza e buona fede) sarà anche fre­quente di fatto (DIB IV, II, 9), ma, per Vitoria, non escedal suo s/alus di impossibilità logica e morale. La guerradeve poter essere sempre giudicata moralmente, e il bel­lum ius/um essere distinguihile dal bellum inius/um.

Questo primo tratto problematico della dottrinadella guerra giusta, originato dall'oggettività della giu­stizia, ne determina uo altro: il vincitore/giusto è panein causa e al tempo stesso deve essere sopra le parti, ecomportarsi Don come un accusatore ma come «un giu·dice che siede fra le due comunità politiche, quella chesubì l'offesa e l'altra, che la fece» (DIB, Conclusiom).L'impianto argomentativo di Vitoria, fondato sulla og·gettività della giustizia, compona insomma l'assenza diuna istituzione terza e super partes - che per Vitoria po.teva essere solo il papato e quindi sarebbe suonata co·me ierocratica -, e implica che al singolo principe sichieda di essere coinvolto nel conflitto e al tenlpo stes­so di astrarsene, in una posizione superiore. Come si èvisto, un principe che per il proprio Stato combatte unaguerra giusta è autorizzato non solo dalla propria sin­golarità ma anche dall'intera umanità (DIB IV, I, 5): rap-

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I resenta tanto la propria volontà di esistenza politicaquanto il mondo intero.

Questo immediato cortocircuito fra particolare euniversale si attua in Vitoria perché la giustizia è po.la da una parte come universale presenza fondativa

del mondo della pratica, come bonum IOlius orbis, madall'altra è interpretata, al contempo, come il prodot­to dell'azione politica concreta dei singoli principi,che combattono la guerra giusta per difendere il par­ticolare bonum del loro Stato. Per Vitoria non c'èquindi comraddizione fra la universalità razionale del­la pace e il fatto che essa sia resa efferruale dall'auto­comprensione utilitaristica del proprio bonum da par­te di ciascuno Stato. Il conflitto politico moderno - ge­nerato dalle logiche della sovranità, capaci di attrarrel'universalità della ragione nel proprio campo gravita­zionale e di sconvolgere l'ordine del mondo, striando­lo con confmi che sono anche barriere alla comunica­zione razionale e alla uguaglianza morale degli uomi­ni - gli pare quindi poter essere risolto e superato gra­zie alla sua visione della 4<pace dinamica»"9, ossia gra­zie all'assunto, cristiano e umanistico, che la giustiziapuò sì essere sempre offesa e ferita, ma la sua tramaordinativa non può mai essere del tutto lacerata: il chelo pona a ipotizzare una pace che consiste in un con·dnuo agire riparatorio (in un susseguirsi di guerre giu·ste) ad opera dei singoli principi. Mentre la pace perKam ha caratteristiche radicali di necessità razionaleche implicano, anche quando si configura provviso­riamente come federazione di Stati, che la ragione del·

49 Pereii.a, Estudio p"/iminor. Lo lesis de ~ po1. dimimiC/l, cit., p.64; analoghe considerazioni in M. Scauola, GU~Q giusta eordinedel·/o giuslizio nello dal/n·na di Domingo de Sala, in $cartola, Figure de/i4guerra, cit., pp. 89·110.

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lo Stato debba spogliarsi delle proprie logiche parti­colaristiche, la pace di Vitoria, invece, riposa sull'as­sunto della giustizia come fondazione oggettiva dellapolitica, e sull'assenza, quindi,. della contraddizio~e,diprincipio fra particolare e unIversale, fra s~atualJta epace. Si dirà che Vitoria non ha ancora. pIena espe­rienza dei tratti nichilistici dd mondo poliuco moder­no; e ciò è vero; ma è anche vero che in ogni c~so

l'impianto complessivamente oggettivo e f~ndauvo

dd suo pensiero è, necessariamente, meno r~dicale ?e1razionalismo moderno, tanto nella costruzione artlfi·ciale dello Stato particolare (Hobbes) quanto nell'da­borazione dd dovere della pace universale (Kant).

6. Vitoria non è un autore 'premodemo', cioè parzial­mente arretrato rispetto agli standard dd razionalismolaico (che peraltro giunge a maturità un secolo dopo lasua morte); piuttosto, le sue posizioni sono un esempiodi modernizzazione dd pensiero politico cattolico, esooo sviluppate, e SvUuppabili, secondo direttrici pa­rallde - e quindi non coincidenti - rispetto alle vicendedella modernità 'laica', che ruota intorno allo Stato e alsoggetto. Quella di Vitoria è una modernità a sc.arso tas­so di secolarizzazione: il trascendente non 51 e ancoramutato in trascendentale. né il teismo in deismo, e Dio,più che garanzia, è ancora il fondamento dell'ordinedell'essere e della sua razionalità oggettiva. Dal puntodi vista spaziale, poi, il uovo Mondo non è, per lui, oc·casione di una rivoluzione concettuale e politica - mo­dernamente centrata sulla differenza e sull'equilibriofra spazio europeo, spazio libero extraeuropeo, e marelibero - ma viene inseri(Q in una sorta di estensione oriz­zontale della rerpublica christiana.

Vitoria è insomma l'artefice di una delle linee di pen-

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siero cattolico cbe, attraverso percorsi più o meno tor­tuosi (una tappa ne è Rosmini nd XIX secolo, e un'al­tra ne è Maritain nel XXj ma ovviamente si possonomoltiplicare e diversificare gli esempi e i tragitti), giun­gono a liberare l'universalismo cattolico e la sua teoriadella dignità umana dalle ipoteche gerarchico-ecclesia­stiche del 'regime di cristianità', e si conciliano con lateoria dei diritti umani, pur senza condividerne l'indi­vidualismo e illaicismo, com'è appunto avvenuto con il

oncilio Vaticano II. È proprio la mancata coincidenzadel pensiero di Vitoria con la vicenda del razionalismomoderno ad averne permesso la ripresa e la rielabora­zione in polemica con lo iUI publicum europaeum, sianella fase (la seconda metà dd XIX secolo) dd recupe­ro IJberale"', sIa quando (nella seconda metà dd XX se­colo) la vaIorizzazione di Vitoria è stata uno dei contri­buti della cultura cattolica all'umanesimo giuridico po­st-totalitaflO e al nuovo diritto internazionale _ quellodelle dichiarazioni dei diritti e dell'Onu.

Ciò è per alcuni versi una forzatura: il domenicanospagnolo vuole 'modernizzare'la dottrina morale catto­lica applicandola alle rdazioni internazionali e spostan­done il baricentro dal rapporto pontefice/imperatore eda qudlo pontefice/Stati al rapporto giustizia (mora­le)/Stati, ma è estraneo al problema dd rapporto dialet­tico fra la volontà di potenza dello Stato (il fulcro dd mo­do moderno di intendere il diritto internazionale) e i di­ritti universali dei singoli (che a loro volta costituisconoil centro della modalità contemporanea). Tuttavia, il suopensiero internazionalistico, nd quale la dignità dell'uo­mo è ben presente, non è incompatibile con la successi-

'0).8. Scott, in TbeSJN11ti1b uJ1taplion, cit., dedica un capitolo aTbl' /ibni1/mn o/Viloria (cap. XIII, pp. 275-280).

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va teoria dei diritti umani. Anzi, è stato riscopeno pro­prio perché suppona una reale esigenza di pace, dopoche Ja modernirà ha rrasfonnato la guerra fra gli Stati inuna guerra contro le società e contro l'umanità, e ha con­dotto lo ius pub/icum europaeum in un vicolo cieco.

Se ciò è vero per il pensiero internazionalistico di Vi·toria, per quanto riguarda specificamente la teoria dellaguerra giusta, che pure strutturalmente ne dipende, vi s0­

no da fare considerazioni parzialmente diverse. eI con­resto rardo-moderno del XX secolo, dominato dallaguerra fredda, e nell'affacciarsi, all'inizio del XXI seco·lo, di una realtà per molti versi post.moderna, quale quel.la globale, che segue la fIne del comunismo, la tematicadella guerra giusta ha fatto una decisa ricomparsa: ora co­me guerra di resistenza e di liberazione, ora (più spesso)come tentarivo laico (dal punto di vista della salvaguar.dia dei diritti umani, interpretati in senso soggettivo e de­mocratico) e carrolico (all'interno del comandamentodell'amore per il prossimo, e come specificazione delquinto comandamento) di giudicare la minaccia dellaguerra nucleare, di delineare le condizioni che rendonomoralmente legittimo ricorrere alla guerra e di determi­nare (e limitare) che cosa sia lecito nello svolgimento diquesta; guerra giusta, infme, è anche quella, più propria­mente defmibile 'legale', che si svolge su mandato del·l'Onu, quando ne occorrono le condizioni (autodifesa diuno Stato aggredito, o intervento umanitario). In gene­rale, la ripresa della tematica della guerra giusta sta a in­dicare che non è più legirtimatala guerra come diritto disovranità, come naturale espressione sulla scena interna­zionale della potenza politica degli rati; e che la guerra- in età nucleare - è di farro quasi del rutto illegittima, ein ogni caso deve essere considerata un'eccezione, e ve-

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nire rigorosamente limitata quanto allo ius ad be//um, eseveramente regolamentata quanto allo ius in betlo'l.

i tratta però di teorie che sono state anche COntesta­~e e combarrute, dentro e fuori la Chiesa; in primo luogo,In nome del principio che nella dotrrina della guerra giu­sta sopravvive l'idea di una Chiesa ancora 'costantiniana'e 'tridentina' che, senza essere più potere politico diret.to, conserva un rapporto privilegiato con i poteri politi­CI, da Cli non prende a sufficienza le distanze, e in basealla considerazione che per ottenere la pace vale più lapromozione della giustizia che non l'elaborazione di unaleoria della guerra giusta; in secondo luogo perché le dot­lrine?ella guerra giusta sono di farro impraticabili, per lacaslsuca quasI barocca a cui danno origine, e per le con­traddizioni in cui incorrono (non è facile dettare nonnemorali su chi si può uccidere nelle attuali forme di com­battimento, o su quanto si può torrurare)'2. E si tratta diteorie per certi versi lontane da quella di Vitoria, quantoa presupposti storici, teorici e politici: si pensi solo al fatoto che oggi esistono istituzioni internazionali che in lineateorica sollevano gli arrori politici dall'obbligo di esseregiudici in causa propria. Ma, anche se la storia le ha resepiù smaliziate, alle teorie della guerra giusta sono imma­nenti due rischi, interni anche al pensiero di Vitoria.

,. M. Wa..lttr, CUet'Tr gius/~ ~ tng'us/~. Un dISCOrso mO"lk con~U11lplifi..C8v.'oni s/'!rU:!'~ (19n). Napoli, Liguori, 1990; sulla pienarongnllta ~ .Virana ns~to alla posizi~ della Chiesa sulla guerragIUsta, ~ di Pio xn sulla guern. atomica, dr. Urdanoz ln,rodua:i6" Il

/o R~kcri6". s~gund4, in OhriU, cit., pp. 727·810: nO-757; si veda anoch~ ~/«h1~11tO della Chiesa Ca//olica, Città del Vaticano, LibreriaEdunce Vatlc~na, J99~, ai punti 2302·2317; sulle problematiche in.lerne alla t~(>na cattohca della guerra giusta dr. Minois. La Chiesa eltJ guerra, CIl., pp..:S37-591.

'2 Un eso:nPio ~ queste contnlddizioni è dato da M. 19natieff,The .'essn EVIl Pollttcal E/hiCI In 1m Age 0/T~" Edinburgh Uni.verslry Press, 2004.

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li primo dei quali è di restare al di qua di una efficacecomprensione della guerra: infatti, per quanto sia coe­rente. generOSO e per certi versi lungimirante il tentati~ovitoriano di teorizzare la guerra giusta, e per quanto siaanche 'concreto' cioè inserito nelle logicbe politicbe delsuo tempo, la pr~cupazione di a~c~lare un gi~?iziosulla guerra subordrna fatalmente a se l eSigenza (pIU Ull~le ai fmi della pace) di comprendere le cause strutturalidella guerra, i suoi rapporti - in tutta la compl~ità delloro articolarsi - con le condizioni sociali e con I SlstemJ

politici ed economici. E assume, q~di, ~a connota­zione astratta, solo morale, cbe rende difficile fame le ba-si per un ordine giuridico concreto e~ efficace. .

Un altro limite, opposto, delle teone della guerra gIU­sta consiste invece proprio Dd fatto che possono essere,appunto come pensiero morale, fin trop~ attive politi­camente; che cioè possono mtrodurre nell o~dme m(~r­nazionale forti elementi di instabilità, propno a pamredall'idea che esista una giustizia oggettiva, oggi odIa for­ma dei diritti umani da rispettare, le cui violazioni vannoautomaticamente perseguite. Una simile idea, infatti,consente a rigore una guerra non solo difensiva, ma anoche offensiva, come guerra umanitaria o anche comeguerra preventiva (bencbé quest'ultima fattispecie nonsia presente in Vitoria, il quale non ac~et~a che venganopuniti i torti prima cbe vengano cOmpl~lI: DIB IV, II, I).Si dirà cbe oggi la difesa della glUstlzta e affidata, almenoin teoria non ai singoli Stati ma ad un'istituzione supe,partes c~me l'Onu, il cui obiettivo è garantire sia i~ttiumani sia le sovranità statuali; ma sono le stesse lOgIchedella guerra giusta a non escludere il rischio cbe una po­tenza preponderante si senta legittimata a punire le offe­se alla giustizia ovunque nel mondo si p~esent1no. V,ltO­ria teorizza, è vero, l'impossibilità che esLSta un dommus

uv

orbis; nelle sue pagine risuona l'invito alla moderazione,unito alla preoccupazione che tutte le potenze bdlige·ranti reputino in buona fede di essere nel giusto; ma que­sti segnali di acutezza intellettuale e di spirito pruden­ziale non bastanoa far sì cbe la sua teoria della guerra giu­sta, come in fondo ogni altra, non rischi di trasformare la«pace dinamica» in una «polizia perpetua»".

Così, l'assunto centrale della teoria della guerra giu­sta - di Vitoria, ma anche di quelle più vicine a noi neltempo-, owero che sia possibile ancbe se non facile giu­stificare il male (la guerra), nonnarlo e limitarlo, a fm dibene, cioè di pace, corre il rischio di non risultare quelloche vuole essere, cioè un discorso critico sulla guerra, edi rovesciarsi invece nell'opposto. ossia di essere attrat·ta nella logica della potenza politica e di rivelarsi infineun discorso della guerra, un'ennesima giustificazionedell'antica schiavitù del conflitto annato, una funzionedi autoleginimazione interna - per di più. inconsapevol­mente - al nicbilismo occidentale, ormai planetario.

Quindi, anche per chi è insoddisfatto delle tautolo·gie del 'realismo' politico, e per cbi all'opposto vedel'interpretazione giuridico-universalistica delle rdazio·ni internazionali sempre più largamente smentita daJcorso dei fatti, la dottrina della guerra giusta non puòessere che un complemento - e non un momento cen­trale - nello sforzo di pensare la guerra: cioè può espri­mere la tensione a condannare la guerra, a lirnitarne gliorrori, ma è anche. aJ tempo stesso, una dimostrazionedi quanto profondamente le istanze giuridicbe e mora­li di pace siano, loro malgrado, esse stesse esposte alla

" D, Zolo, l rignori ddla paa. Una cn/iC/J d~l glabalirmo giun"Ji·co, Roma, Carocci, 1998; Id., Chi dic~ umam~à. Gue"a, dinì/o ~ ardi·ne globale, Torino, Einaudi, 2000.

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guerra, polemiche e polemogene. L'idea - largamentecondivisibile - che sia moralmente doveroso razionaliz­zare e pacificare la politica internazionale, e accedere aforme di cooperazione fra le nazioni, non può coinci­dere, oggi, con la teoria della guerra giusta; semmai, ilcompito che ci attende è considerare la giustizia, piùche come metro oggettivo della guerra giusta, comeprocesso di emancipazione reale dell'umanità dalle in­giustizie che costituiscono la trama ddJe rdazioni inter­nazionali: un processo che si fonda sulla comprensionedella storia e dci contesti concreti più che sull'a prion°della giustizia; un processo, infIDe, al quale può a voltenon essere estranea la violenza, legittimata, però, piùche da astratte istanze morali, da puntuali esigenze con­tingenti.

Eppure, Vitoria parla anche a noi, il che lo rende unclassico. E non solo per il suo ruolo intellettualmentecruciale agli inizi della modernità e per la forza dd suo ri­torno nd momento dd declino di questa, ma anche peril suo senso ddJa realtà, che gli consente di spalancareuna finestra, che ci riguarda da vicino, su guerre di po­poli accecati, su principi ingannati dalle proprie ideolo­gie, e su cattivi consiglieri che non voglioDo o nOD sannocapire le ragioni dd giusto e dd tono. Inoltre, la serietàdelle sue teorizzazioni - soprattutto. che non esiste undominus orbis. e che le genti non possono avere altra tu·tela che se stesse - è quanto meno di monito a chi. oggi,si investe del compito di esercitare la guerra giusta, per­chéin ogni caso valuti il peso e lacogenza delle dure con­dizioni (di rigore morale, di buona fede, di coerenza, dimoderazione) che questa impone ai vinti ma anche aivincitori, agli 'ingiusti' ma anche ai 'giusti'.

ota al testo

otizie sulla vicenda testuale di DIB sono in L. PereiiaE~tudlO prelimil1ar La tesis de la paz dil1amica, in F. d~Vltor:a, Relectio de iure belli, o Paz dil1amica. EscuelaEs[!al1ola de la Paz. Primera gel1eraciol1, a cura di L. Pe­rena, V. Abril, C. Baaero, A. Garda, F. Maseda, Ma­drid, Conselo Supenor de Investigaciones Cientifìcas1981', pp. 29-94: 81-94. '

Le Relectiones sono circolate manoscritte fino allaprima ~dizione1a.tina, a cura di]. Boyer, Lione, 1557; aquesta e seguJta, m fone concorrenza l'edizione a curadi A. Muiioz, Salamanca 1565. '. Dopo alcune edizioni dd xvne dd xvm secolo, nonlI1nO~~tlVe,nel XX secolo la prima edizione critica-a lun.go utilizzata, soprattuno in ambiro anglofnno - delle dueRe!ecltOl1es, Dell1dis e DIB, appare nd 1917 nei ClassicsolIl1tematiol1al Law (Washington, Camegie Institution~917), con Introductiol1 di E. ys (pp. 9-53 l; il testo latin~c procurato da H. F. Wright (DIB si legge alle pp. 268-297)e la traduzione inglese da].P Bate (pp. 163-187)1. '

. I Altre infIUttlci induzioni ingJesi sono qudJ~ d.iJ.B. Scott, TiNSpamrh eonupllOn ollnl"'lal,onal uw. Francisco d~ V,/onQ tlnd hir

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Discussa e poco utilizzata è invece l'edizione criticacomplessiva di L.G.A. Getino, Relecaimes leologicosdel maeSiro fra, Francisco de Viloria, Madrid, Asocia­cion Francisco de Viroria 1933-1935,3 voli.

DIB - in un testo critico nuovamente stabilito, contraduzione spagnola - si legge poi alle pp. 811-858 diObras de Francisco de Viloria. Relecciones teologicos, acura di T. Urdanoz, Madrid, Biblioteca de Aurores Cri­srianos, 1960.

Buona anche l'edizione di Leçons sur les Indiens elsur le droil de guerre, a cura di M. Barbier, Genève, Li­brairie Droz, 1966.

Infme, DIB ha trovato la sua fonna per ora definiti­va in F. de Viroria, Releclio de iure belli, o Pax dinamico.Escuela Espanola de la Pax. Primera generacion, a curacU L. Perciia, V. Abril, C Baciero, A. Garcia, F. Mase­da, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Cien­tificas, 1981' (prima ed. 1967); è una ecUzione criticanuova, con apparato di note e traduzione spagnola, chetiene conto tanto dei due cOcUci (di Palencia e di Valen­cia) che tramandano DIB quanro delle due ecUzioni astampa cinquecentesche.

DalI'edizionePereiia 1%7-1981,coo la correzione dialcune sviste o lezioni dubbie, è tratto infine il testo lati­no (a cui si affianca la traduziooe tedesca) di De Indi< ecU DIB (quest'u1timosi legge alle pp. 542-605 del vol.lI),raccolto in Francisco de Vitoria, Vorlerungen. V6lker­rechi, Poli/ik, Kirche, a cura di U. Horst, H.-G.]usteo­hoven, J. tiiben, Stuttgart-Berlin-K6ln, Kohlhammer,

uw o/NQtions, Oxford-London, Clarendon.Mulford, 1934, e j Poli·tical W,ittngs, a cura di A. Pagden e J. Lawrance, Cambridge.NewYork, Cambridge UniversilY Press, 1991 (trad. di sette delle trediciRd«aonn).

Lvm

1997,2 voli., con un saggio introduttivo di U. Horst Le­ben und Werke Francisco de Vilorias, pp. 13-99 (le ~treRelecllOnes sono tralte dall'edizione Urdanoz 1960).,. S, traduce da questa edizione, seguendone le lezioni,

I tnterpunZJone e ~uasj sempre gli'a capo', e correggen­do alcune.mende. tipografiche; le parentesi acute e gli al­tn segm diaCfltlCI- presenti nel testo latino ma non nel­la traduzione, sulJ'esempio dell'edizione ;edesca _ se­gnalano le presumibili integrazioni (autorizzate dal Mae­s~ro) .di dis~epoli di Vitoria, o le divergenze tra i testi ori­ginali, o le mtegrazioni dei curatori.

Per le note si è fatto riferimento alle edizioni Pereiia1981 e Horst-]ustenhoven-Stiiben 1997, semplificandomoltissimo, e integrando qualche dato mancante.

La sigla PL seguita da un numero indica i volumi del­la Palrologia Lalina curata daJ.-P Migne; si aggiunge lamenzIOne delle colonne a cui si riferisce il brano citato.

CG.

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De iure belli

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Praeludiurn

Quia possessio et occupatio provinciarum illarum bar­bararum. quos Indos vacant, videntur tandem maximeiure belli posse defendi, ideo postquam in prima relec·tione disputavi late de tirulis, quos Hispani possuntpraetendere ad alias provincias, sive iustis, si~e iniusus,visum est de iuce belli brevem utique disputatlonem ha­bere, ut superior relectio absolutior videatur. Sed quiatemporis angustia compressi non poterirnus hic tracta­re amnia, quae in hac materia dispurari possent, ideonon licuit extendere calamum pro amplitudine et di·gnitate materiae, ideoque salurn dicemus, quanturntemporis brevitas patieeur. !taque salurn norabo propo­siriones in hac materia cum brevissimis probationibusabstinens me a multis dubiis, quae hac disputationeconferei possent.

Tractabo autem quatuor quaestiones:Prima an omnino Christianis siI /icitum be/la gerere.Secunda, apud quem sii iusta Due/ori/as oul gerendi autindicendi bel/um.

2

Premes a

Poiché il possesso e l'occupazione delle terre dei barbarichiamatiIndiani sembrano dopo tutto poter essere legit.tlmatl pnmanamente sulla base del diritto di guerra, mi èparso opponuno - dopo che nella prima dissenazione hodiscusso ampiamente i titoli, giusti e ingiusti, in base aiquali gli Spagnoli possono pretendere quelle terre _ trat.lare brevemente il dirino cfj guerra, per dare maggiorecompletezza alla precedente dissertazione. Ma poichéper ristrettezza di tempo non potremo in questa sede par.lare di tutto ciò di cui su questo argomento si può trana.re, non ci è stato possibile estendere il lavoro quanto sa.rebbe stato richiesto dall'ampiezza e dall'imponanza del­l'argomento e della materia; perciò parleremo solo quan­lO lo consentirà la !imitatezza del tempo'. E così mi !imi.terò soltanto ad annotare le mie tesi su questa materiacon dimostrazioni brevissime, e mi asterrò da molti dub~bi che potrebbero essere avanzati in questa discussione.

Tratterò, in ogni caso, quattro questioni:La prima, se in generale sia leci/oaiCristlamfare lo guerra.La seconda, chi abbia l'auton"tà di condu"e o di di­chiarare la gue"o.

J

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Tenia, quae possint el debeant esse C/Jusae iuSli bel/i.

Quarta, quid et quantum liceol aristionis contra suoshosles.Hae eront quaestiones principales.

La terza, quali possano e debbano essere le C/Juse di unaguerra giusta.La quarta, che cosa ai Cristiani sia ledto fare, e in qua·le misura, contro i nemici.Saranno queste le questioni principali.

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QuaesLio prim..

An omnino Christianissit licitum bella gerere

l. <Exponirur sensus huius quaestionis.>2. LiceI Christianis militare el bella gerere.

I. Qu:mrum ad primam posset videri, quod omninobella smt mterdicta Christianis. Prohibitum enim vide­tur elS se defendere, iuxta illud: Non vos defendentes, ca­TlSstmt, sed date /ocum irae (Rom 12,19). Et Dominus ineva.n~elio: Si quis te percusserit in Ul10m maxi!lam~ proe­be dII el a/teram. Et in eodem capite: Ego aulem dico va­b~s non resistere ma/o. Et: Omnes, qui occeperint g/o­dtum, gladio penbunl.

Ad hoc satis videtur responderi, quod omnia haccsunt in consillo, non autero in praecepto. Satis enim ma­gnu~ ~conveniens est, si bella omnia, quae aChristianisSUSClplUntur, ~int Contra consilium Christi redemptoris.

In COntraCium tamen est sententia omnium docto.rum et usus in universali ecclesia receptus. Omnes enimdemonsrrant in muJtis casibus esse licita bella.

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Prima quesLione

e in generale ia lecitoai Cristiani fare la guerra

l. Si espone il senso della questione.2. Ai Cristiani è lecito l'esercizio delle armi, e fare la guerra.

I. Per quanto riguarda la prima questione, potrebbesembrare che le guerre siano del tutto interdelle ai Cri­stiani. Infatti, ad essi sembra sia proibito difendersi, se­condo il dellO di Paolo (Rom 12,19): «non vendicatevi,carissimi, ma lasciate che agisca la collera divina». E ilSignore nel Vangelo dice: «se qualcuno ti percuote nel­la guancia destra, porgigli anche )'altra», e nello stessocapitolo: «io vi dico: non resistete al male» (Mt5, 39); einoltre: «tutti quelli che ptendetarmo la spada periran­no di spada» (MI 26, 52).

Sembra sufficiente rispondere che lUtti questi non so­no comandamenti ma esortazioni. È infatti già abbastan­za disdicevole che tulle le guerre intraprese dai Cristianisiano contrarie alle esonazioni di Cristo redentore.

Comunque sia,l'opinione di tutti i dottori è contra·ria, e così anche la consuetudine delia Chiesa universale.Tutti infatti dimostrano in molteplici circostanze che laguerra è lecita.

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. Pro qua~tionjsexplicatione notandum, quod licetltlter ca~o.li~os s~tlS conveniae de hac re. Lurnerus ta­~en, ~w nihil rcliquit incontaminatum, negar Chrisria­ms e.nam ~dve~us Turcas licere arma sumere, innixust~~ ~ loclS sc~pturae supra positis, tum etiam, quia di­Cit. ,SI ~urca.e Invadan! chrir/i(Jnitatem~ ilio est va/untasD~I) ,CUI rerzs/ere non "~et. In qua [amen re non ira po_[un ~mp~~ere Gem:ams hominibus ad arma paratis si­cut In. allis dogmatlbus. Et quidem Tertullianus nonadeo Vldeturabhorrere hanc sententiam. Nam in librof?e corona ,!UllllS dlsputat, ao in [mum Christianis mili­tla convenJat. Et tandem profecto in iIIa opinione vide­tur pe~erare, ut C~ristianomilitare interdictum pu­tet, CUI, rnqult, nec llllgare qurdem liceat.

2. Sed relictis extraneis opinionibus respondetur adqua~~on.em per urucam conclusionem taJem: LiceIChmtloms militare et bello gerere.

. Probatur haec conclusio ex Augustino in multis 10­CIS. Nam et Contro Foustum et Libro LXXXIII quoestio­num et De verbis Domini et 22 Contra Manichaeos et insermone De puero centurionis et in epistola Ad Bom/a­ctum hanc conclusionem diserte adstruiL

Et probatur, ut probat Augustinus, ex verbis Ioannisb.arustae: :v.eml~em con~tiatis, nemin; iniuriam feceri.tlS. Ergo st, IJlqwt Augustlnus, Christiana disciplina om­ntnO bello eulporet, hoc potius comilium solutis petentl'bus '~ evangellO daretur, ut abicerent arma seque mllitiaeommn~ s~btraherent, Dictum est autem cis: 'Neminemconcutlatls) contenti estote stipcndiis vestris!',

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Per chiarire la questione si deve notare che, mentrefra i cattolici c'è consenso al riguardo. nondimeno Lu·tero _ che corrompe tutto - nega che ai Cristiani sia le·cito prendere le armi, anche contro i Turchi; egli si fon­da sui passi della Scrittura sopra citati e inolrre dice: «sei Turchi fanno guerra alla cristianità è questa la volontàdi Dio, a cui non si può resistere»I , Ma su questo pun·lO non è stato in grado di farsi obbedire, come invece gliè riuscito per le altre sue opinioni, dai tedeschi, uominipronti alle armi. Anche Tertulliano sembra non ripu­diare questa opinione, dato che nel suo libro De coronomilitis si chiede se il servizio militase si adatti in gene­rale ai cristiani'. E in definitiva sembra persistere nellatesi che esso sia vietato al cristiano, al quale, dice, «Ilonè lecito neppure portare qualcuno in giudizio».2. Ma, lasciate da parte le opinioni altrui, la mia rispo­sta alla questione sta in questa sola conclusione: ai Cri·stiani è ledto prestare servizio militare, e fare la gue"a,

Questa conclusione è dimostrata da Agostino, inmolti passi. Infatti, egli ne offre una brillante dimostra­zione in Contra Faustum, nel Liber LXXXIII quaestio­num, in De verbis Domini, e ancora in Contra Mani·chaeos (libro 22), nel sermone De puero centurionis enella lettera a Bonifacio'.

E questa conclusione è dimostrata, come appunto faAgostino, a partire dalle parole di Giovanni Battista aisoldati: «non fate violenza ad alcuno, non fate ingiusti­zie ad alcuno» (Le 3, 14). Quindi, dice Agostino, «se ladottrina cristiana condannasse completamente le guer·re, il Vangelo darebbe, a coloro che lo richiedono per lapropria salvezza, il consiglio di abbandonare le armi edi sottrarsi del tutto alla vita militare. Al contrario, si di·ce loro 'non fate violenza ad alcuno, e accontentatevidelle vostre paghe'»4.

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Secundo probatur ratione sancti Thomae II-II, q. 40,a. 1: Licet uti armis et stringere gladium adversus male­factores et seditiosos cives et interiores, secundum illud:Non sine causa gladium portato Minister enim Dei estvindex in iram el: qui male agito Ergo etiam licet uti gla·dio et armis adversus hostes exteriores. Unde principi­bus dictum est in psalmo (82, 4): Eripite pallperem elegenum de manu peccatoris liberale.

Tertioin legenaturae hoclicuit, ut patet deAbraham,qui pugnavit contra quatuor reges (Cen 14, l-17).ltemin lege scripta, ut patet de David et de Machabaeis. Sedlex evangelica nihil imerdicit, quod iure naturali licitumsit, ut sanctus Thomas eleganter tradit l-II, q. 107, a.ulLUnde etiam dicitur lex liberlali< (lac l, 25 et 2, 12). Ergoquod licebat in lege naturae et scripta, non minus licet inlege evangelica. Et quia de bello defensivo revocati indubium non potest, quia vim vi repellere licet (ff. De ill­sti/ia et iure, l. Ut vim).

Quarto etiam probatur de bello offensivo, id est inqua non solum offenduntur, sed ubi petitur vindictapro iniuria accepta. Probarur auctontate Augustini Li­bro LX.XX111 quaeSlionllm et habetur capite Dominlls(23, q. 2): Iusta bella solent definir;, quae IIlcisCl/ntllriniurias, si genI vei civitas p/ec/endo est, quae ve! vindi­care neglexit, qllod a suis improbe factllm est, vel redde­re. quod per iniuriam ablatum est.

IO

In secondo luogo, quella conclusione è dimostrabil~secondo l'asgomento di san Tommaso (Ila lIae, 2<.L' I): elecito impugnare la spada e usare le arrm contro I delin­quenti e icittadini sediziosi all'interno, sulla base del det­lodi Paolo (Rom 13,4) «l'autorità pubblica non per nul:la potta la spada: essendo minima di Dio punisce chiopera il male». Quindi è an~he lecito servl:-'~ della spadae delle armi contro i nemici esternI. PerelO e stato dettoai principi nei Salmi (82, 4) «salvate il povero e il mendi­co e sottraerdi alle mani degli iniqui»,

,In terzo luogo, la guerra fu lecita nella legge di natu­ra come dimostra Abramo che combatté contro qual­tr~ re (Cen 14, 1-17); e anche nella legge delle Scrittu­re come dimostrano Davide e i Maccabei. Ma la leggedd Vangelo non vieta nulla che sia ammesso dalla leggenaturale, come spiega con eleganza To~maso ~Ia llae,cvn ultimo articolo); è per questo che e deftruta «leg­ge deÌJa libertà» (lac 1,25 e 2, 12). Quindi ~iò che eralecito nella legge naturale e nella legge sc:ltta ~ leCito an:che nella legge evangelica. E, inoltre, e lecito perch~non si può dubitare della guerra dif~nsiva, dato che «elecito respingere la violenza con la vIOlenza» (D,g. I, l,3: De iustitia et iure, legge Ut vim).

In quarto luogo, ciò si può dimostrare vero anche aproposito della guerra offensiva, cioè di quella guerranella quale non soltanto si subisce offesa, ma SI perse­gue anche la punizione ,di un'~~fesa. in prece.denza n,ce­vuta. Lo dimostra I autonta dI Agostmo (L,berLXXXIII qllaestionum), e il canone Dominlls: «si è ~li­ti defmire 'giuste'le guerre che vendican? ~e IngtUStlZle,

come quando si deve imp~rtire una pun~zlone a ~n po­polo o a una città che abbIano omesso di pe,:,egulfe unatto ingiusto dei propri concittadini o dI restitUIre qual­cosa ingiustamente sottratto»'.

Il

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Quinto probatur etiam de bello offensivo, quia bel.lum etiam defensivum geri commode non potest, nisietiam vindieerur in bostes, qui iniuriam iam fecerontaut conati sunt facere. Fierent enlm hostes audacioresad iterum invadendum, nisi timore poe.nae dererreren.tue ab iniuria.

Sexto probarur, quia finis belli est pax et securitas reipublicae et <Augustinus inquit De verbi, Domini et AdBomfocium. Sed non potest esse securitas in re publi.ca,> nisi hostes coerceantur ab iniuria metu belli. Esserenim amnino iniqua condicio belli, si hostibus inva­dentibus iniuste rem publicam solum liceret rei publi.cae avertere hostes nec posser ulterius persequi.

Septimo probatur ex fIne et bono totius orbis. Pror.sus enim orbis consistere in felici sratu non posser, im­m~ esser rerum omnium pessima condicio, si lycanniqUldem et latrones et raprores possent impune iniuriasfacere et opprimere bonos et innocentes nec licerer vi.cissim innocentibus animadvenere nocenres.

Ultimo probatuc, quia. ut saepe dicrum est, in mora­libus potissimum argurnentum est exemplurn sancto­:um et bonorurn. Sed fuerunt multi taJes, qui non salurnIn. bello defensivo tutati sum patriam resque suas, sedetIam bello offensivo prosecuti sum iniurias ab hostibusacceptas vel et.iam anematas, ut pater de Ionalha et Si-

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In quinto luogo, che anche la guerra offensiva sia le·cita è dimostrato dal fano che neppure la guerra difen·siva può essere condotta convenientemente se al con­tempo non si puniscono i nemici che hanno arrecato of­fesa, o che l'hanno tentata. Se infani non fossero distol·ti dal recare nuovamente offesa dal timore di una puni­zione, i nemici diventerebbero sempre più baldanzosi epropensi ad un nuovo attacco.

lo sesto luogo, lo dimostra il fano che il fme dellaguerra sono la pace e la sicurezza della comunità politi­ca, come afferma Agostino (De verbis Domini; Epistulaad Bomfadu",r). Ma non ci può essere sicurezza in unacomunità politica se i nemici non sono costretti, dallapaura della guerra, a non recare offesa. Sarebbe infattiuna condizione di guerra del turto iniqua per una co­munità politica ingiustamente invasa dai nemici, se lefosse lecito soltanto respingerli e non potesse prosegui·re ulteriormente le ostilità.

La settima dimostrazione deriva dalla fInalità, e dalbene di tutto il mondo. lnfani, il mondo non potrebbeavere alcuna condizione di felicità - e anzi ogni cosa sitroverebbe in gravissima condizione - se proprio i ti­ranni, i briganti, i saccheggiatori, potessero impune­mente arrecare le proprie offese e opprimere i buoni egli innocenti, e non fosse lecito a questi prendere a lorovolta misure contro quelli.

Infine, l'ultima dimostrazione deriva dal fatto che- come spesso si è detto - in ambito morale una provaimportantissima è data dall'autorità e dagli esempi diuomini santi e buoni. Ma appunro molti di questi nonsolo hanno difeso la propria patria e i propri beni conuna guerra difensiva, ma hanno anche perseguito conuna guerra offensiva i torti ricevuti o tentati dai nemici,come appare chiaro da Gionata e Simone (l Moch 9, 38)

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mone l Mac 9, qui vindicaverunt mortem Ioannis fra­tris sui comra filios Iambri. Et in ecclesia Christiana pa­tet de Constantino Magno et Theodosio Maiore et allisc1arissimis et christianissimis imperatoribus J qui multabella utriusque generis gesserunt J cum haberem a con­siliis doctissimos et sanctissimos episcopos. Ergo nonest dubitandum de conclusione.

che vendicarono la morte di Giovanni loro fratello con­tro i figli di Jambri. La Chiesa cristiana lo dimostra conCostantino il Grande, con Teodosio I, e con altri famo­sissimi e cristianissimi imperatori, che condussero mol­le guerre di entrambi i tipi, avendo nei propri consiglivescovi santissimi e dottissimi. Quindi non si può dubi·tare di questa conclusione.

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Quaest..io sccunda

Apud quern sit iusta auctoritasineliceneli ve] gereneli bellurn

l. BelIum defensivum quilibet polest suscipere, etiam ho.mo privatus.

2. Quadiber res publica haber auctoritatem indicendi et in­ferendi bellum.

J. Eandem auctoritatem habent quantum ad hoc principessicm res publica.

l. Pro qua sit prima propositio: Bellum defensivum qui­/jbel polest susa"pere, etiam homo pn·vatus.

Haec patet. aro vim vi repellere licet (ff. ubi supra).Unde hoc beI1um quilibet potest gerere sine aUCloritatecuiuscumque alterius, non solurn pro defensione pro­priae personae, sed etiam bonorurn suorurn.

. Sed circa istam conclusionem dubitatur primo, anlflvasus a latrone aut inimico possit repercutere invaso­rem, si posset fugiendo evadere.

Et archiepiscopus quidem respondet, quod non,quia iam non est defensio cum moderamine incul­patae tutelae. Quilibet enim tenetur se defendere,quantum potuerit, cum minimo detrimento invasoris.

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Seconda questione

Chi abbia l'autorità eli fareo eli elichiarare la guerra

1. Chiunque può intraprendere una guerra difensiva, ancheun privato.

2. Ogni comunità politica ha l'aucorirà di dichiarare e dicondurre la guerra.

J. I principi hanno a questo riguardo la medesima autoritàche ha una comunità politica.

l. Su tale questione la prima tesi è la seguente: chiunquepuò intraprendere una guerra dIfensiva, anche un privato.

Ciò è evidente: infatti, «è lecito respingere la violen­za con la violenza» (Vig. I, 1,3). Pertanto, chiunque puòcondurre una guerra siffalla, senza avere bisogno del­l'autorizzazione di chicchessia, per difendere non solola propria persona, ma anche i propri beni.

A proposito di questa conclusione nasce tuttavia unprimo dubbio, se cioè colui che è aggredito da un bri­gante o da un nemico possa colpire l'aggressore anchese potrebbe invece salvarsi con la fuga.

I.:Arcivescovo' lo nega, e afferma che questo com­portamento difensivo non rientra nei limiti della legitti­ma difesa. Ciascuno infatti è tenuto a difendersi recanodo per quantn è possibile il minor danno all'aggressore.

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Si ergo. resistendo oportet aut occidere aut graviter vuJ­nera~e mvasorem, potest autem se liberare fugiendo, er­go VIdetur, quod teneatur. Sed Panormitanus, c. O/im,De res/ilulione rpo/iatorum, distingui t: Si enim invasusmagnum dedecus subiret fugiendo, non tenetur fugere,sed potest repercutiendo iniuriam repellere. Si enimnon faceret iacturam famae aut honoris, ut monachusve1 ruscicus invasus a nobili et foni viro, tenetur fugere.

Banolus autem in lege prima ff., De poenis, et in le­ge Furem, De sicariis, indistincte tenet, quod licet se de­fendere nec tenetur fugere, quia fuga est iniuria (llemapud Labeonem ff., De iniu'lis). Si autem pro rerum de­fensione lidtum est armis resistere, ut patet in dicto ca­pite O/im et in capite Di/eclo. De senlenlia excommuni­calionis, lib. 6, ~rgo multo magis pro iniuria corporali,quae multo ffialOr est quam rerum iactura (L In servo­rum, De poenis). Haec profecto potest probabiliter sa­cis sustentari, maxirne cum iura avilla hoc concedantut patet in dicta lege Furem. Auctoritate autem legis ne~ma peccat, quia leges dam ius in foro conscienciae. Un­de si iure naturali non liceret occidere pro defensionererum, videtur, quod iure civili faetum sit licitum. Ethoc revera viderur licere seduso scandalo non salurnlaico, sed eciam clerico et religioso viro. .

2. Secunda propositio: Quaelibet res publiea babet aue­tO'l/atem indieendi et inferendi bellum.

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Se quindi per resistergli deve ucciderlo o ferirlo grave­mente, mentre potrebbe aver scampo nella fuga, questaopzione pare obbligatoria. Ma il Panormitano" (cap.Olim, De restitutione spoliatorum) distingue: se l'aggre­dito subisse un grande disonore col fuggire, allora nonvi è obbligato, e può respingere l'offesa restituendo ilcolpo. Se invece l'aggredito non macchi~. ~on la fuga ilproprio nome o il propno onore - com e il caso di unmonaco o di un contadino assalito da un uomo nobile eforte - allora è tenuto a fuggire.

Barrolo (commento alla prima legge De poenis; allalegge Furem, De sieariis) affenna però che in ogni casoè lecito difendersi, e che non si è obbligari a fuggire, POI­ché la fuga è essa stessa un ingiusto danno (ltem apudlAbeonem, De iniuriisp. Ma se è lecito resistere con learmi ad un'aggressione contro i propri beni, com'è evi­dente (cap. Olim già citato; e anche cap. Dileeto, De sen­tentia excommunicationis, VI)\ molto di più sarà lecitoresistere al fine di difendere se stessi da un danno per­sonale, che è più grave di un danno alle cose (Dig. 48,19, lO: legge In servorum, De poenis). Questa opinionepuò essere osservata con sufficiente sicurezza come am­missibile, sopratturto quando le leggi civili pennettonosimili comportamenti (com'è evidente dalla citata leggeFurem). Infatti, chi agisce secondo l'autorità della leggenon pecca, poiché le leggi danno giustificazione nel fo­ro della coscienza. Di conseguenza si mostra che, anchese la legge di natura non consentisse di uccidere per di­fendere la proprietà. questa uccisione sarebbe resa leCI­ta dalle leggi civili. E senz'altro è permessa non soltan­to ai laici ma - se non ne deriva scandalo - anche al chJe­rici e agii uomini di religione.2. Seconda tesi: ogni comunità politica ha l'autorità di di­chiarare e di condu"e la guerra.

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Pro probatione est notandum, quod diffetentia estquantum ad hoc inter horninem privatum et rem publi·camo Quia privata persona habet quidem ius defenden·di se et sua, ur dictum est. sed non habet ius vindicandiiniurias, immo nec repetundi ex intervallo temporis resablatas. Sed defensio oportet, ut fiat in praesenti, quodiurisconsulti dicunt in continenti. Unde transacta ne·cessitate defensionis cessar causa belli. Credo (amen,quod per iniuriam percussus posset statim repercurere,etiam si invasor non deberet ultra progredi. Sed ad vi­tandam ignom.iniam passero verbi gratia qui colaphumaccepit, gladio statim repercurere. non ad sumendamvindictam, sed, ur dictum est, ad vitandam infamiam etignominiam.

Sed res publica habet auctoritatem non solurn de­fendendi se, sed etiam vindicandi se et suos. Et proba­tur, guia, ur Aristoteles tradir 3 Politicorum, res publicadebet esse sibi sufficiens. Sed non posset sufficienterservare bonum publicum. si non posset vindicare iniu·riam et animadvertere in hostes. Fierent enim ipsepromptiores et audaciores ad inferendum maluro, sipossent boe impune facere. Et ideo necessarium est adcommodarn rerum moralium administrationem, uthaec concedatur auetoritas rei publicae.

3. Tertia propositio: Eandem auctoritatem habent quan·tum ad hoc principes sicul res publica.

Haec est expresse Augustini (Contra Fauslum): Ordo,inquit, naturaliJ paci accommodatus hoc poscit, ut susci·piendi belli auctoritas atque consilium apud principes rito

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Per dimostrare ciò è da notare che su questo punto c'èdifferenza fra la persona privata e la comunità politica. In­fatti il privato ha certo il diritto di difendere se stesso e ipropri beni, come si è detto; ma non ha il diritto di vendi~care le offese e neppure di reclamare, dopo che è trascor·so un certo lasso di tempo, le cose rubate. È necessario chela difesa venga fatta contro un pericolo in atto - ossia, co­me dicono i giuristi, in continenti'. Pertanto, una voltapassata la necessità della difesa, cessa anche, per un priva·to, la causa di guerra. Credo però che colui che è stato in·giustamente offeso possa restituire il colpo, sul momento,anche se l'aggressore non dovesse proseguire il suo attac­co. Inoltre, per evitare la vergogna e il disonore, colui che,ad esempio, ha ricevuto uno schiaffo può rispondere sulmomento con la spada, non per vendicarsi ma - come si èappunto detto - per evitare infamia e disonore.

Ma la comunità politica ha l'autorità non solo di di­fendersi, sì anche di vendicare sé e i propri cittadini. Eciò è dimostrato dal fatto che, come dice Aristotde (Po­litica li), la comunità politica deve essere autosufficien·te. Ma non potrebbe adeguatamente salvaguardare il be­ne pubblico se non potesse punire le offese e prenderemisure contro i nemici. I quali diventerebbero ancorapiù pronti al male e più audaci alle offese, se potesseroagire impunemente. È quindi necessario, per un ade·guato governo delle faccende morali, che questa autoritàsia concessa alla comunità politica.3. Terza tesi: I principi hanno a questo riguardo la mede­sima autorità che ha una comunità politica

Questo è espressamente il parere di Agostino (Con·tra Faustum XXII, 75): egli afferma che <d'ordine natu­rale, destinato a produrre la pace fra gli uomini, richie­de che l'autorità di fare la guerra, e la capacità di giudi·care al riguardo, stiano od principe».

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Et catione probatur, quia princeps non est nisi exelectione rei publicae. Ergo gerit vicem et auctoritatemillius. Immo iam ubi sunt legitimi principes, tota aucto­ritas residet circa ilIos, nec sine illis aliquid aut bello autpace geri potest.

<Sed tota difficultas est, quid sit res publica etqui-s- proprie dicatur princeps.> Ad hoc breviter re­spondetur, quod res publica proprie vocatur perfectacommunitas. Sed hoc ipsum est dublUm, quae sU per­fecta communitas.

Pro quo notandum, quod perfectum est, cui nihi!deest, et imperfectum, cui aliquid deest; quod totum estpecfectum quid. Est ergo perfecta co~munitas aut respublica, quae est per se unuro totum, m qua n~n est al­terius rei publicae pars, sed quae habet propnas leges,proprium concilium et proprios magistratus, quale estregnum Castellae und Aragoniae et alli similes.

ec enim obstat, quin sint plures principatus et respublicae perfecrae sub uno principe. Talis ~rgo res pu­blica aut princeps illius habet banc auctorltatem. Sedhoc ex ipso dubitari merito potest, an si plures huius­modi res publicae habeant unum communem doml­nuro aut principem, an possint inferre bellum per se Sl­

ne auctoritate principis superioris.

Ad quod respondetur, quod sine dubio possunt, utreges, qui sunt subiecti imperato,ri, pos~un~ ~vicem

belligerare non exspectata auctorlt~te pnnclpl~ ~upe­

rioris, quia, ut dictum est, res publica debet slbl essesufficiens nec tamen sufficeret sibi sioe ista libertate etfacultate.

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. E ciò è anche dimostrato dalla ragione, poiché un prin­CIpe rrae la propria origine solo da una scelta della comu­nità politica. E quindi fa le veci di quella, e agisce in nomedella sua autorità. Anzi, dove già ci sono principi legitti­mi, l'autorità si trova interamente presso di loro, né senzadi loro si può condurre alcun affare di guerra o di pace.

Ma tutta la difficoltà sta nella questione: che cosa sia'comunità politica', e chi ne possa essere detto propria­mente 'principe'. A ciò in breve si risponde che la co­munità politica è propriamente defmita comunità per­fetta. Ma proprio questo è l'oggetto del dubbio, cioèquale sia la comunità perfetta.

A tal fine si noti che perfetto è ciò a cui nulla mancae imperfetto ciò a cui manca qualcosa; poiché una tota~lità è qualcosa di perfetto. Quindi è una comunità politi­ca, o una comunità perfetta, quella che è in se stessa un'u­nità e una totalità, ossia che non ha in sé alcuna parte diun'altra comunità politica ma ha invece proprie leggi, unproprio consiglio e proprie magistrature, come ad esem­pio i regni di Castiglia e Aragona, e altri simili.

E nulla asta a che esistano parecchi principati e co­munità politiche perfette SOtto un unico principe. Talicomunità politiche, o i loro principi, hanno l'autorità didichiarare la guerra. Ma a tale riguardo si può giusta­mente avere i! dubbio se parecchie comunità politicheslffatte, che hanno un signore o un principe comuneabbiano in se stesse il diritto di fare la guerra senza l'au~torizzazione del principe superiore.

E ~ispondo che certamente la possono fare, proprioc?me I re, che sono soggetti all'Imperatore, possono far­SI guerra tra loro, senza attendere l'autorizzazione del­l'Lmperatore. Poiché, come si è già detto, una comunitàpolitica deve essere sufficiente a se stessa, e, priva di ta­le libertà e facoltà, non lo sarebbe.

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Ex quibus sequitut, quod alli teguli seu ptinci~,qui non praesunt rei publicae, non possunt bellum m­ferre aut gerere, quernadmodum dux A1banus aut co­mes Beneventanus. Sunt enim panes regro Castellae etper consequens non babent perfectas res publi~as, sedtruncatas. Sed est notandum, quod curo haec smt ma­803 ex parre aut iure genti~ aut h~ano. c.onsuer~d?potest dare facultatem belli gerendl. Unde SIquae CtV!­ras aut princeps ohtinuit antiqua consuetudme 1US. ge~rendi per se be1lum, non est ei neganda haec auctorttas,etiam si alias non esser res publica perfecta.

Item etiam necessitas hanc licentiam et auetoritatemconcedere posset. Si enim in eodem regno una civitasaliam oppugoatet ve! aliquis ex ducibus <alium. du­cem> et rex negligeret aut non auderer vrndlcare ~~u·rias illatas, posset civitas aut dux, qui passus es.t tmu­riam non salurn se defendere, sed eriaro bellum mferreet a~imadvertere in hostes et malefactores et eriam ~c­cidere nisi defendere commode se posset. Non enJmhostes' abstinerent se ab iniuria, si illi. qui passi suntiniuriam contenti essent solum defendendo se. Qua ra­ciane co~ceditur eriaro privato homini, quod possit vin:dicare inimicuro, si aliter non patet ei via se defendendlab iniuria.

Haec sinr satis de bac quaestione.

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Da ciò consegue che gli altri principi di rango mino­re, ossia i principi che non sono a capo di una comunitàpolitica, non possono dichiarare e condurre la guerra,proprio come il duca d'Alba o il conte di Benevento. In­fatti, sono parte de! regno di Castiglia e di conseguenzasono a capo di comunità politiche non perferre ma mao.che. Ma si noti che, poiché questa materia è in gran par­te regolata o dal dirino delle genti o da un diritto uma­no, la consuetudine può dare loro la facoltà di fare laguerra. E quindi, se una qualche città oppure un pelo.cipe hanno ottenuto per antica consuetudine il dirittodi condurre autonomamente la guerra. non deve essereloro negata questa facoltà, anche se da altri punti di vi.sta non costituiscono una comunità politica perfetta.

Inoltre, anche lo stato di necessità potrebbe conce­dere questo permesso e questa facoltà. Se infatti all'in­terno dd medesimo regno una città ne assalisse un'altra,o uno dei duchi assalisse un altro duca, e il re trascuras­se di punire le aggressioni, o non osasse farlo, la città o ilduca che hanno patito l'offesa potrebbero non solo di­fendersi ma anche fare guerra e prendere misure cont.roi nemici e gli ingiusti offensori, e anche ucciderli, se nonfossero praticabili altre vie per difendersi. Infatti i nemi.ci non desisterebbero dall'aggressione se coloro che nesono vittime si limitassero a difendersi. Per lo stesso mo­tivo è lecito anche ad un privato punire il nemico, se nonha un'altra via per difendersi da un'offesa.

E ciò basti, su questa questione.

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Quaestio tertia

Quae po sit esse ratioet causa belli

l. Causa iusti belli non est diversitas religionis.2. 00 est iusta causa belli amplificatio imperli.

3. Non est iusr.a causa belli gloria propria aut aliud com­modum principis.

4. Una sola est causa iusti belli, scilicet iniuria accepta.

5. on quae1ibet et quanr.avis iniuria sufficit ad inferendumbellum.

Quae quaestio magis conducit ad hanc disputationembarbarorum.1. Pro qua sit prima propositio: Causo iusti belli non estdiverritar religionis.

Haec probata est prol.ixe in proxima relectione, ubiimpugnamus quartum titulum, qui praetendi posset adpossessionern barbarorum, quia scilicet nolunt reciperefidem Christianam. Et est sententia sancti Thomae II­II, q. 66, a. 8 et sententia communis doctorum, et nescioaliquem, qui conrrarium sentiat.

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Ter7..a quesùone

Quali possano essere la ragionee la causa eli una guerra

1. La differenza di religione non è causa di guerra giusta.2. L'ingrandimento del dominio politico non è giusta causa

di guerra.3. La gloria personale dd principe, o un altro suo vantag­

gio, non è giusta causa di guerra.4. Una soltanto è la causa di una guerra giusta, cioè aver ri­

cevuto un'offesa.5. Non un'offesa qualsiasi, né di qualsivoglia entità, è suffi­

ciente a dare inizio a una guerra.

Tale questione tocca più da vicino la presente con­troversia sui barbari.1. A questo proposito, la prima tesi è questa: /o diffe­ren1.ll di religione non è causa di gue"a giusta.

Ciò è stato distesamente dimostrato nella preceden­le dissertazione (De Indz:r), dove impugniamo il quartotitolo ID base al quale si potrebbe pretendere la conqui­sta dei barbari, che cioè non vogliono accogliere la fedecristiana. E questa è anche l'opinione di san Tommaso(Ilo Iloe, LXVI, 8), nonché opinione diffusa dei dotto­ri; e non conosco chi pensi in modo contrario.

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2. Secunda propositio: Non est iusta causa belli amplifi.

calia imperii. . .'Et haec ex se notior est, quam ur probatlone mdl-

geat, quia alias esser acque. lusta causa b:lli ~x utr~quepane, et sic essent omnes LOnoc~tes. Mi~abile ~t. Exqua iteruro sequitur. quod non licer ~cldere illos, etimplicar eontradictionem, quod esser IUstum bellum etnon liceret occidere illos.

3. Tertia propositio: ec etiam est iusta. causa belli gi<>­ria propria aut aliud commodum prmaplS.

Haec etiam patet. Nam princeps debet et bellum etpacern ordinare ad bon~ commune rei publicae necpublicos redditus propna glorIa aut commodo erogareet multo minus cives suos penculis exponere. Hoc eruminterest imcr regem legitimum et ryrannum. aro ty­rannus ordinar regimen ad proprium quaestu~ et (000­

modum, rex autem legitimus ad bonum publicum, uttradit Aristoteles 4 Politicorum, c. lO.

Itern habet auclOritatem a re publica. Ergo debet utiilla auetoritate in bonum rei publicae.

Itern leges debent esse nullo privato commodo, sedpro communi uwitate civi~m conscnp(ae~ ur habetu~d. 4, c. Erit autem lex (ex ISldoro). Ergo ellam lex bell,debet esse communi utilitate, et non propria pnnclpls.

!tem in hoc differunt liberi a servis, quia dominiutuntur servis ad propriam utilitatem et non adutilitatem servorum. Liberi autem sunt propter sesolos, non propter alios. Unde quod principes abu·

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2. Seconda tesi: J.;ingrandimento del dominio politù:onon è giusta causa di guerra

Ciò è di per sé troppo noto perché ci sia bisogno didimostrarlo; in caso contrario, infatti, entrambi i con~tendenti avrebbero ugualmente una giusta causa diguerra, e così sarebbero tutti innocenti. Che cosa stu­pefacente! E ne consegue poi che non sarebbe lecito uc­cidere il nemico, il che implica contraddizione perché sitratterebbe di una guerra giusta e al contempo non sa­rebbe lecito uccidere i nemici.3. Terza tesi: non è giusta causa di guerra neppure la gi<>­ria personale del pn'ncipe, o un altro suo vantaggio.

Anche ciò è evidente: infatti il principe deve indiriz­zare la guerra e la pace al bene comune della comunitàpolitica, e non può spendere le pubbliche entrate, e tan­to meno esporre al pericolo i propri cilladini, per la pro­pria gloria e il proprio vantaggio. Infarti, questa è la dif­ferenza che intercorre fra un re legittimo e un tiranno:questi orienta il governo al proprio guadagno e vantag­gio, mentre quello lo rivolge al pubblico bene, come di·ce Aristotele (Politica IV, lO).

Inoltre, il principe trae la propria autorità dalla co­munità politica, e quindi deve servirsene per il bene diquesta.

Allo stesso modo, le leggi debbono essere infonnate«non al vantaggio di alcun privato ma alla utilità comu­ne dei cilladini» (Isidoro, Etymologiae' , in DecretumCratiani II, 4, 2: Erit autem lex). Quindi anche la leggedella guerra deve essere rivolta all'utile comune, e nona quello del principe.

Inoltre. gli uomini liberi sono diversi dagli schiaviperché i padroni si servono degli schiavi per l'utilità pro­pria e non per la loro; mentre invece gli uomini liberi nonesistono per altri, ma per sé. Di conseguenza, che i prin-

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tamur civibus cogendo eos militare et pecuniam in bel~lo conferre non pro publico bono, sed pro privatocommodo, est cives servos facere.

4. Quarta propositio: Una solo C/Jusa iusli belli esi, scili­cet iniuria accepta.

Haec probatur primo ex auctoritate Augustini (li­bro LXXX1Il quaeslionum) dicenris hoc manifeste. Etest determinatio sancri Thomae II-II, q. 40, a. 1 et om­nium doctorum.

Et ratione probatur, quod bellum offensivum est advindicandam iniuriam, ut dicrurn est. Se<! vindicra essenon potest, ubi non praecessit iniuria. Ergo.

Item non maiorem auetoritatem habet princeps su·per extraneos quam supe:r suos. Sed in suos non pot~t

gladium stringere, nisi faciant iniuriam - ergo neque In

exrraneos.Et confirmatur, ut supra dicrurn est, ex Paulo (Rom

13,4) de principe: Non sine C/Jusa glodium porlal. Mim·s/er enim Dei est vindex in iram ei qui male agito Ex quaconstat, quod adversus eos, qui nobis non nocent, nonlicet ita gladio uti super eos, cum occidere innocentesprohibirum sit iure naturali. Omitto autem, si fortDeus aliud praeciperet; ipse enim est dominus vitae elmortis er posset pro suo libito aliter disponere.

5. Quinta propositio: Non quaelibel el quanlavis iniurlOsufficit ad inferendum bellum.

Haec probatur, quia nec etiam in saeculares etnaturales et populares licet pro quacumque culpapoenas atroces inferre, ut mortem aut ex~ium <~utconfiscationem bonomm. Cum ergo quae m bello geo

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cipi abusino dei cittadini, costringendoli a prestare il ser­VIZl~ militare e a ~ontribuire con denaro alla guerra, nonper il bene pubblico ma per il loro vantaggio privato si-gni1ìca che trasformano i cittadini in schiavi. '4. Q~a~a tesi: una soltanto è la ClJusa di una gue"a giu+slal ct.?e..aver ncevuto un'offesa.

. CIO e provato in primo luogo dall'autorità di Ago­stino (Liber 1.J!-XX11Iquaeslionum)2, che lo dice espres­samente. Ed e .Ia poSIZIone di san Tommaso (I/o lIae,XL, 1) e dI tUtti I dottori.

E anche la ragione lo dimostra, perché la guerra of­fenSIva, come SI è detto, è rivolta a vendicare le offeseMa non può esser . d . . .CI ven etta se pnrna non CI sono sta~

le colpa e offesa. Pertanto, la tesi è dimostrata.ln?ltre, ~ principe non ha sugli stranieri un'autorità

maggIOre di quella che ha sui propri sudditi. Ma controtUesu n~n ~uò impugnare la spada, se non arrecano of~esa. Q~~dl neppure lo può COntro gli stranieri.

E CtO ~ confermato da quanto in precedenza si è ri­portato di Paolo sul potere del principe (Rom 13, 4):.non per nulla porta la spada. Essendo ministro di Dio,pUnIsce ch, opera il male». Da ciò risulta che non è le­CU? m;pu~are le ~~i COntro chi non ci arreca danno,I>OIche UCCIdere g~. mnocenti è proibito dalla legge na­lurale: TralaSCIO l'POlesi che Dio eventualmente co­mand, m modo speciale qualcosa d'altro; Egli è infattisIgnore della vita e della morte, e potrebbe a Suo arbi­lno disporre altrimenti.

5. Q~in.ta tesi:non un'offesa qualsiasi, nédi qualsivoglùJentlt~: ~ su,/ficzente a dare inizio a una guerra.

CIO e dunostrato dal fatto che anche COntro i civili iconnazionali e i citt~dini di condizione popolare, n~npossono essere applicate per quaJsiasi colpa pene durecome la marre, "esilio e la confisca dei beni. E poiché

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runtur omnia sint gravia et atrocia, ut caedes,> incen­dia v~tationes etc., <non licet pro levibus iniuriis bel-,lo pe.rsequi auctores iniuriarum,> quia iuxto mensuromdelieli debel esse plagarum modus (DI 25, 2). sed se­cundum gravitatem delietorum. Ergo non pro qua­cumque culpa ve! iniutia licer inferti bellum.

Et haec satis de ista quaestione_

luttO. ciò che si ~a ~ guerra è grave e duro _ stragi, in­cendi, d~a..stazlont -) non è lecito perseguire COn laguerra :"1 e responsabile di offese lievi, dato che «lamodalita delle punizioni deve essere giustamente com­misurata al d~tto» (DI 25,2). ma lo si deve punire se­condo la gravita della sua colpa. Quindi, non è lecito fa­re la gu~r:a per punire ogni tipo di colpa o di offesa_

E CIO e sufficiente per questa questione.

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Quaestio quarta

I pan;

Quid et quan~ liceatin bello IUstO

. f e necessaria sunt adl bello iusto licet aroma acere, qua . bI··

1. n . d defensionem bom pu ICI.bonum publicum et a rrutaS vd pre·In bello iusto etiam licet recuperare res pe2.tium illarum. .' im nsam belli et om-Licer occupare ex boOl~ ~osu~ pe

3. nia damna ab hostibus tnlUste illata.

. .beIl' . uae sunt necessaria ad4 Potest princeps IUSU I o.roma, q h ·b

. d et securllatem ex oso uso .haben .u~ pac~.. b hostibus acceptam et pUnire

5. Licet vtndicare U1Iodu~~~.illos pro huiu~m i Imuros. d bellum iustum sufficiat.

6 Primum dublUffi, utruffi a. . utet se habere iustam causam.

quod prmceps ~ t an subditi teneantur examinarc7. Secundum dublU~ es , ilitare nulla diligentia super hacr

causam vel an possmt m

adhibita. Q ·d f . nduro --t cum iusta cau- d b' t· U1 aCle ....." ,8. Terubellum

dub.lu:

t~~ est cum ex utraque parte sunt f"J,

sa I Ula .....". bbi1;>tiones apparen.tes et pro a ~it esse bellum iustum ex

9. Quartum dublum est, an pos

utraque parte.. ui ex ignorantia secutUS t10. Quintum dublUm,. utrum q . . . de iniustitia bel

bellum iniustum, SI postea consment et

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Quarta questione

I parte

Che cosa sia lecito in una guerra giusta,e in quale mi ura

1. In una guerra giusta è lecito fare tuttO ciò che è necessa­rio per il pubblico bene e la sua difesa.

2. In una guerra giusta è lecito inoltre recuperare tutte le co­se sottratte, o il loro controvalore.

3. lo una guerra giusta è lecito rivalersi, sui beni dei nemi­ci, delle spese di guerra e di tutti i danni ingiustamentearrecati dai nemici.

4. li principe che conduce una guerra giusta può fare tutto ciòche è necessario per ottenere pace e sicurezza dai nemici.

S. È lecito punire il torto ricevuto dai nemici, e punirli peroffese di questo tipo.

6. Primo dubbio: se a rendere giusta la guerra sia sufficien­te che il principe creda di avere una giusta causa.

7. Il secondo dubbio è se i sudditi siano tenuti a esaminarela causa della guerra, o se possano prendere le armi sen­za farsene un problema.

8. II ter.lO dubbio è su che cosa si debba fare quando la giu­stizia della causa della guerra è dubbia, cioè quando da en­trambe le parti ci sono ragioni verosimili e ammissibili.

9. li quano dubbio è se possa esistere una guerra giusta daentrambe le pani.

IO. il quinto dubbio è se chi - si tratti dd principe o dd sud·dito - per sua ignoranza ha partecipato ad una guerra

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li, utrum teneatur restituere - sive loquamur de principe,sive de subdi[Q.

l. Pro qua sit prima propositio: In bello iusto licet om­nia facere, quae necessaria sunt ad bonum publicum et adde/ensionem boni publici.

Haec nota est, cum ilIe sit fmis belli defendere etconservare rero publicam. Item haec licent hominibusprivatis, ut probatum est - ergo multo magis publico etprincipi.

2. Secunda propositio: In bello iusto etiam licet recupe­rare res perditas vel pretium illarum ad unguem.

Haec enim nocior est, quam ur indigeat probacione.Ad hoc enim ve! infertur ve! suscipitur bellum.

3. Tertia propositio: Licet occupare ex bonis hostzbur im­penram belli et omnia damna ab hortibur iniurte illata.

Haec patet, quia ad omnia haec tenentur hosres, quiiniuriam fecerunt. Ergo principes possunt omnia illa ac·cipere et bello exigere.

ltem si quis esser legitimus iudex utriusque partis gerentis bellum, potesr condemnare iniustos aggressore.et a-u-crores belli, non salurn ad restituendas res ablatas, sed etiam ad resarciendum impensam belli et omnilldamna. Sed princeps, qui getit iustum beUum, habet _in casu belli tanquam iudex, ut statim dicemus. Er~n

etiam ilIe potest omnia illa ab hostibus exigere.

Item, ut dicebamus, licet homini privato, cum onnpotest alia via, occupare Offine debitum a debitore - Cf

go etiam principi.

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giusta si accorge in segujto delJa sua ingiustizia sia tenu­to a restitujee ciò che ha preso.

1. La prima tesi al riguardo è: in una guerra giusta è le.cito fare tutto ciò che è necessano al pubblico bene e allasua d/fera.

È una tesi già nota, dato che il fine della guerra è di­fendere e conservare la comunità politica. E ciò è pari­menti lecito ai privati, come si è dimostrato. E quindi amaggior ragione è lecito a una persona pubblica e alprmclpe.

2. Seconda tesi: in una guerra giusta è leàto inoltre recu­perare tutte le cose sottrattel o il loro controvalore preàso.

Anche questa è troppo nota per aver bisogno di di.mostrazione. È infatti questo il motivo per cui viene in­trapresa o iniziata una guerra.3. Terza tesi: in una guerra giusta è lea'to rivalers~ sui be.ni dei nemia: delle spese di guerra e di tutti i danni il:.giustamente arrecati dai nemici.

E ciò è chiaro, perché i nemici che hanno commes­so ingiustizia sono tenuti a tutto questo. Quindi i prin­cipi possono prendersi tutte queste cose, ed esigerle conla guerra.

Inoltre, se ci fosse un giudice legittimo sopra entram­be le parti belligeranti potrebbe condannare gli ingiustiaggressori, responsabili della guerra, non solo a restitui.re le cose sottratte ma anche a rifondere le spese di guer­ra e tutti i danni. Ma il principe che conduce una guerragiusta ha come giudice se stesso, per le cose che riguar.dano quella guerra, come si è appena detto. E quindi puòanch'egli esigere dai nemici tutte le riparazioni.

Eancora, come dicevamo, è lecito a un privato, quan­do non può fare altrimenti. impossessarsi di tutto ciò cheil debitore gli deve. E quindi è lecito anche al principe.

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4. Quana propositio: Potest enim princeps iusti beLliom·niol quae sunI necessaria ad habendam pocem et securi­la/cm ex hostibus, pula diruere orcem et a/ia amnio, quaead hoc exspeclant.

Probatur, quia, ut supta diximus, finis belli est pax.Ergo gerenti bellum licenr aronia, quae necessaria suntad securitatem et pacern.

Item tranquillitas et pax computanrur imer bona hu­mana. Unde nec summa etiam bona fadunt statum feli·cem sioe securitate. Ergo hostibus rurbantibus tran­quillitatern rei publicae llcer vindictam sumere ab illis<per media convenientia. Ttem contra hostes intraneos,hoc est contra malos cives, licer haec omnia facere - er­go etiam contra hostes extraneos. Antecedens pareto Siquis enim in re pubLica fecit iniuriam civi, magistratusnon salurn cagir auclacero iniuriae satisfacere iaeso, sedetiam si rimetur ab ilio, cogitue dare fideiussores aut re·cedere a civitate, ita ut vicetur periculurn ab ilio.

Ex quibus patet, quod parta victoria et recuperatisrebus licet ab hostibus exigere obsides, naves, arma etalia, quae sine fraude et dolo necessaria sunt ad reti·nendum bostes in officio et vitandum ab illis pericu·lum.>

5. Quinta propositio: Nec tantum hoc licet in bello iusto,sed babita vieloria el recuperatis rebus et pace eliam el se·curitate habita licet vindicare iniuriam ab hostibus accep·tam et punire illos pro huiusmodi iniuriis.

Pto cwus ptobatione notandum, quod ptinceps nontantum habet auctoritatem in suos, sed etiam in extra·neos ad coercendum illos, ut abstineant se ab iniuriis, et

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4. Quana tesi: il principe che conduce una guerra giustapuòfare tutto ciò che è necessario per ottenere pace e sicu­r/!Wl dai nemici, ad esempio distruggere una fortev.a efa·re tutte le altre cose che banno ottinenlJl con questofine.

Lo dimostra il fatto che, come si è detto, il fine dellaguerta è la pace. E quindi a chi f.la guerta sono lecite tU[­te le cose che sono necessarie alla sicurezza e alla pace.

Inoltre, la tranquillità e la pace sono annoverate fta ibeni dell'uomo; quindi, neppure i beni più alti rendonouna situazione felice, se non c'è la sicurezza. Perciò è le·cito punirei con mezzi appropriati, i nemici che disturba­no la tranquillità della comunità politica. Parimenti, è le­cito fare tutto ciò contro i nemici interni, ossia contro icattivi cittadini: quindi, anche contro i nemici esterni. Ilpresupposto è evidente: se qualcuno in una comunità po­litica fa ingiustizia a un cittadino. il magistrato non soloobbliga l'autore dell'offesa a tendere soddisfazione allapane lesa; ma, se vi è motivo di non fidarsene,lo costrin·ge anche a presentare un mallevadore, o ad allontanarsidalla città, pet eliminare il pericolo che da lui deriva.

Da ciò risulta evidente che, una volta raggiunta lavittoria e recuperati i beni, è lecito esigere dal nemicoostaggi, navi, armi, e le altre cose che sono necessarie- in buona fede e senza animo fraudolento - a far sì chei nemici osservino i propri doveri, e ad evitare che sia·no ancora pericolosi.5. Quinta tesi; non solo in una guerra giusto sono lecitetutte queste cose, ma - una volta ottenuto lo vittorio, re·cuperati i beni, stabilita /o pace eanche /o sicur/!Wl - è le­cito punire il lorto ricevuto dai nemict~ e punirii per offe­se di questo tipo.

Per dimostrare ciò si deve notare che il principe haautorità non soltanto sui propri sudditi, ma anche suglistranieri, per costringerli ad astenersi dalle offese; e ciò

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hoc iure gentium er orbis totius aucroritate. !mmo vi­derur, quod etiam iure naturali, quia videtur, quod ali­ter orbis stare non posset, nisi esset penes aliquos vis etauctoritas deterrendi improbos, ne bonis noceant. EaaUlem, quae necessaria sunt ad gubemationem et con­servationem orbis, sunt de iure narurali. ec alia ratio­ne probari potest, quod res publica iure naturali habeatauetoritatem afficiendi supplicio et poenis cives suos,qui sunt rei publicae perniciosi. Quodsi res publica hocpotest in suos, haud dubium, quin hoc possit orbisin quoscumque perniciosos homines, et hoc non nisiper principes. Ergo sine dubio principes possunt puni·re hostes, qui iniuriam fecernot rei publicae; et omninopostquam bellum rite et iuste susceptum est, hostes ob­nom sunt principi tanquam iudici proprio. <Et confLr­matur haec. Quia revera nec pax nec tranquillitas, quaeest fmis belli, aliter haberi potest, nisi hostes malis etdamnis afficiantur, quibus deterreantur, ne iterum ali­quid tale comminane>

Et etiam probatur et confinnatur auctocitate bono­rum, ut supra dictum est de Machabaeis, qui gesseruntbella non solum ad recuperandas res amissas, sed eriamad vindicandas iniurias. Et idem fecerunt christianissi-. . .mi prmclpes.

Et primum non tol1itur ignominia et dedecus reipublicae profligatis tantum hosdbus, sed etiam se­curitate poenae afflictis et castigatis. Princeps autem

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avviene secondo il dirino delle genti, e con l'au(Qrizza­zione di tutto il mondo. Quindi sembra che ciò valgaanche secondo il diritto naturale, poiché pare che ilmondo non potrebbe sussistere altrimenti, se qualcunonon detenesse la forza e l'autorità di minacciare i mal­vagi affinché non nuocciano ai buoni. Del resto, ciò cheè necessario al governo e alla conservazione del mondorientra nel diritto naturale. È questo l'unico modo at­traverso il quale si può dimostrare che una comunitàpolitica ha, in virtù del diritto naturale, l'autorità dimenere a morte e punire i propri cittadini che le arre­cano danno. E se una comunità politica può fare ciòconuo i propri cittadini, non v'è dubbio che il mondopossa farlo contro tutti gli uomini pericolosi; e ciò nonè possibile se non attraverso i principi. Quindi certa­mente i principi possono punire i nemici che hanno re­cato offesa alla comunità politica; e soprattutto dopoche una guerra giusta è stata intrapresa secondo gli usie secondo giustizia, i nemici si trovano assoggettati alprincipe giusto come al proprio giudice. E ciò è dimo·strato dal fatto che, in verità, né la pace né la tranquil­lità - i fini della guerra - possono essere ottenuti a1ui·menti che col colpire con punizioni dure e dolorose inemici, che ne siano spaventati e ne vengano distolti dalcommettere nuovamente tali delitti.

E ciò è dimostrato e confermato anche dall'autoritàdei buoni, come si è già detto a proposito dei Maccabei,che hanno fatto guerre non solo per recuperare le coseche avevano perduro ma anche per punire le offese ri­cevute. E la stessa cosa hanno fatto anche principi cri­stianissimi.

Inoltre, non si cancellano la vergogna e il disonore del­la comunità politica solo con lo sconfiggere i nemici, chedevono anche essere puniti e castigati da una sanzione

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non solum res alias, sed honorem et auetorit3tem reipublicae defendere haberur.

6. Sed ex omnibus supra dictis oriunrur multa dubia.Primum est circa iustitiam belli, utrum vide/icet ad bel­lum iustum su/fidat, quod princeps putet se habere iu­stam causam.

Ad hoc sit prima propositio: on satis est hoc sem­per.

Probatur primo, quia in aliis minoribus causis ve1negotiis non sufficit principibus ve1 privatis, quod cre­dant se iuste agere, ut notum est. Possunt enim vincibi­titer errare et affectate. Et ad acrum bonum non sufficitsententia cuiuscumque, sed requiritur sententia sapien­tis, ut patet 2 Ethicorum.

Item sequitur alias, quod essent bella iusta ex utra­que parte. Communiter enim non contingit, quod prin·cipes gerant bellum mala fide, sed unusquisque putat sehabere iustitiam in alium. Et sic omnes bcllantes essentinnocentes, et per consequens neutri exercirui liceretoccidere alium ex altero exercitu. Et etiam alias Turcaeet Saraceni gererent iusta bella adversus Christianos.Putant enim obsequium praestare Dea.

Secunda propositio: Oportet ad iustum beltum magna diligenlia eXilminare causas belli el audire ralionesadversan'orum, si ve/int ex aequo el bono disceplare.

Omnia enim sapientem, ut ai! comicus, verbisprius experiri aportet quam armis. Et oportet consu­lere probos et sapientes viros et qui cum libertate Cl

sine ira aut odio loquantur. Haec propositio manifesta est. <Nam curo in rebus moralibus difficile si.

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certa. E il principe non deve difendere solo le altre cose,ma anche l'onore e il prestigio della comunità politica.

6. Ma da tutto ciò che è stato detto nascono molti dub­bi. Il primo riguarda la giustizia della guerra, se cioè arendere giusta la gue"a sia su/fidente che il prindpe cre­da di avere una giusla causa.

A questo dubbio, rispondo con questa lesi: non sem­pre dò è su//idente.

E lo dirnosrra, in primo luogo, il fatto che in altre cau­se minori non è sufficiente- com'è noto - né ai principiné ai privati credere di essere dalla parte dd giusto: pos­sono infatti errare, per loro colpa e a causa delle loro pas­sioni. E per giudicare buona un'azione non basta il pa­reredi uno qualsiasi, ma si deve ricorrere all'opinione delsapiente, come sta scritto (Aristotde, Etica II, 6).

Inoltre, in caso contrario ne conseguirebbe che ci sa­rebbero guerre giuste da enttambe le parti. Infatti, di so­lito non càpita che i principi facciano guerra in malafe­de, ma anzi ciascuno crede di essere nel giusto rispettoall'altro. E così rurti i belligeranti sarebbero senza colpa,e di conseguenza a nessuno dei due eserciti sarebbe leci·to uccidere qualcuno dell'altro esercito. E così anche leguerre dei Turchi e dei Saraceni contro i Cristiani sareb­bero giuste: infarti credono di obbedire a Dio.

Seconda tesi: perché una guerra sia giusta è necessa­no molla attenzione neil'esaminare le cause della guerra,e ascoltare le ragioni degli avversari, se questi vogliono di­scutere della giustizia e delw bontà delle cause di guerra.

[j commediografo dice infatti: «è bene che il sapientefaccia ogni tentativo con le parole, prima di passare allenrmi»'. Ed è bene chiedere il consiglio cli uomini onesti esapienti, che parlino in libertà, e senza ira né odio. Questalesi è evidente. Infarti, dato che nelle questioni morali è

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verum et iustum attingere, si negligenter ista tracten·tur, facile errabitur, nec talis error excusahit auctores ­maxime in re tanta et uhi agitur de periculo et calami­tate multorum, qui tandem sunt proximi et quos diIi­gere tenemur sicut nos ipsos.>

7. Secundum duhium est, on subditi teneontur exomi·nore causam vei an possint militare nulla diligentia superhoc adhibita, quemadmodum liclores exequi possunl sen­tentiam iudicis sine olia examinatione.

De hac quaestione sit prima propositio: Si subdiloconstat de iniustitia belll~ non licet ei militare etiam depraeceplo principis.

Patet, quia non licet interficere innocentem in nullocasu quacumque auctoritate. Sed hostes sunt innocen­tes in casu. Ergo non !icet interficere illos.

ltem principes peccant inferendo bellum in ilio casll.Sed non salurn, qui male agunt, sed qui consentiunt, di­gni suni morle (Ram 1,32). Ergo milites etiam mala fi­de pugnantes non excusantur. Item non !icet interfice·re cives proprios mandato principis - ergo nec extra·neos.

Ex quo sequitur corollarium, quod etiom si subditihabeanl conscienliam de iniusla causa belli, non licei il­lis sequi bellum - sive errent, sive non.

Patet, quia omne, quod non est ex /tde, peccatum est(Rom 14,23).

Secunda propositio: Senatores et duces, breviter om·nes, qui admittuntur ad consilium publicum vel principis,debent et tenentur examinare causam iusti belli.

Patet haec, quia quicumque potest impedire pericll

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difficile attingere il vero e il giusto, se queste discussionivengono condotte con negligenza sarà facile cadere in er­rore; e gli autori non potranno esserne scusati - soprat­tutto data l'imponanza ddJ'argornento, che implica peri­colo e calamità per molti uomini, che infine sono il nostroprossimo, e che dobbiamo amare come noi stessi.7. Il secondo dubbio è se i sudditi siano tenuti a esamina­re la causa della gue"a, o se possano prendere le armi sen­za farsene un problema, come i littori possono dare esecu·zione alle sentenze del giudice sen1.ll più esaminarle.

lntorno a questo dubbio la prima tesi è questa: se ilsuddito è certo che la guerra è ingiusta non gli è lecitoprendere le armI; nemmeno se il principe glielo comanda.

E ciò deriva con chiarezza dal fatto che non è lecitouccidere un innocente, qualunque sia l'autorità che loordina. Ma in questo caso i nemici sono innocenti. Edunque non è lecito ucciderli.

Inoltre! i principi! in quel caso, peccano se dichiara·no guerra. Ma «non solo quelli che fanno il male! sì an­che quelli che vi consentono, sono degni di morte»(Rom 1,32). Quindi, anche i soldati che combattono inmala fede non sono innocenti. Parimenti, non è lecitouccidere i propri cittadini per semplice ordine del prin­cipe; e quindi neppure gli estranei.

Ne segue come corollario che anche i sudditl~ quan·do hanno certezza che la guerra è ingiusta~ non possonoprendervi parte, che si sbaglino o no.

E ciò è chiaro perché «ciò che non procede dalla fe­de è peccato» (Ram 14, 23).

Seconda tesi: i senatori e i comandantt: e in breve tut­li colora che sano ammessi al consiglia pubblico a al con­siglio del principe, sono strettamente tenuti a esaminarela causa di una gue"a giusta.

E ciò è chiaro, dato che chiunque possa impedire il

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lum et damnum proximorum, tenetur. maxime ubi decausa mortis agitur et maiorum malorum. quale est inbello. Sed tales possunt consilio suo et auctoritate cau­sas belli examinantes avertere bellum, si forte iniustumest. Ergo tenentur ad hoc.

Item si negligentia istorum bellum iniustum gerere­tur, isti viderentur consentire. lmputarur enim alicui,quod potest et debet impedire, si non impediat.

!tem, quia solus rex non sufficit ad examinandascausas iusti belli et potest errare magna cum perniciemultorum. Ergo non ex sola sententia regis, immo necex sententia paucorum, sed multorum sapientium de­bet geri bellum.

Sit tenia propositio: Alii minores, qui non admittun­tur nec audiuntur apud regem neque a consi/io publico,non tenentur examinare causas belh sed possunt creden­tes maioribus licite militare.

Probatur primo. quia nec fieri potest nec expediretreddere rauonem negotiorum arduorum et publicorumomnibus de plebe.

Item, quia homines inferioris condicionis et ordinis,etiam si intelligerent iniustitiam belli, non possuntprohibere et sententia eorum non audiretur. Ergo fru­stra examinarent causas belli. Non est dubiuffi.

<Item. quia eiusmodi hominibus. nisi contrariumconstiterit, sufficiens argumentum debet esse pro iusu­Ua belli, guod publico consilio et auctoritate geratur.Ergo non est opus illis ulteriore examinatione.>

Quarta propositio: Nihilominus possent esse talia ar-

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pericolo e il danno del prossimo, è obbligato a farlo, so­prattutto quando si tratta di morte e dei più grandi ma­li, come appunto càpita in guerra. Ma costoro, con illo­ro consiglio e la loro autorità, esaminando le cause del­la guerra possono evitarla, nel caso sia ingiusta; e quin­di sono tenuti a questo esame.

Inoltre, se per negligenza di costoro si combattesseuna guerra ingiusta, sembrerebbero aver dato il loroconsenso. Chi può e deve impedire una certa cosa, in­fatri, ne è responsabile, se non l'impedisce.

Ancora, non basta che il re da solo esamini le causedi una guerra giusta; può infatti sbagliarsi, con grandedanno per molti. Quindi, la guerra deve essere decisasulla base del parere non del solo re, né di pochi, ma dimolti uomini sapienti.

Terza tesi: la popolazione di rango inferiore, che nonè né ammessa né ascoltata presso il re o presso il consigliopubblico, non è tenuta ad esaminare le cause della guer­ra, ma le è lecito prendere le armi sulla base della fiducianelle autorità superiori.

Lo si dimostra in primo luogo col fatto che non è pos­sibile né sarebbe opportuno rendere ragione a tutti i po­polani di faccende difficili che riguardano la politica.

Parimenti, uomini di condizione e ceto inferiore, an­che se comprendessero l'ingiustizia ddla guerra, nonpotrebbero impedirla, e il loro parere non sarebbeascoltato. Quindi esaminerebbero invano le cause dellaguerra. Su ciò non v'è dubbio.

Inoltre, a uomini di tal sorta. se non hanno notiziecerte in senso contrario, deve bastare come argomentoa favore della giustizia della guerra il fatto che essa è de­cisa per autorità di un pubblico consiglio. E quindi nonhanno bisogno di operare ulteriori esami.

Quarta tesi: nondimeno, à possono essere tali dimo-

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gumenta et indidtJ de iniustitia bel/i, quod ignorantia nonexcusaret etiam huiusmodi aves et subditos militantes.

Patet, quia posset esse ista ignorantia affectata etpravo studio adversus hostes concepra.

Item alias infiddes excusarenlur in belJum sequen·res principes suos, et Christianis non ticeret illos reper·curere, quia cenum est, quod credunr se habere iusramcausam belli.

Irem, quod alias excusarentur milites, qui crucifixe·runt Christum ex ignorantia sequenres edictum Pilati.

Iran excusaretur populus ludaeorum, qui persuasusa maioribus ciamabal: Tolle, tolle, crucifige eum (Io 19,15)! Quae omnia non SunI concedenda. Ergo.

8. Tercium dubium esI: Quid faàendum est, cum iustacausa belli dubia est, hoc est, cum ex utraque parte suntrationes apparentes et probabiles?

Ad quod sit prima proposicio: Quoad ipsos principesvidetur, quod si quis illorum est in legitima possessione,quod manente dubio non possit alter bello repetere.Exempli gratia, si rex Francorum est in legitima pos·sessione Burgundiae, etiam si est dubium, an habeat iusad illam, non videtur, quod imperaror noster possit ar·mis repetere neque e contra rex Francorum.

Haec probarur, quia in dubiis mdior est condiciopossidentis. Ergo non liceI expoliare possessorem illumpro re dubia.

Irem si res ageretur coram iudice legitimo, num-

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strazioni e indizi che lo guerra è ingiusta, che lo loro igno­ran1,l1 non può essere scusata neppure nei cittadini di ce­to basso e nei sudditi chiamati alle armi.

E ciò è chiatO dal falla che lale ignoranza polrebbeessere artificiosa. e coltivata con volontà malvagia neiconfronti dei nemici.

Inoltre, in caso contrario gli infedeli sarebbetO scusa­ti nd seguire i loro principi nelle guerre, e ai Cristiani nonsarebbe lecilo colpirli a lotO volta, poiché è certo chequclli credono di avere una giusta causa di guerra.

Allo stesso modo, in caso contrario sarebbero giu­stificati i soldati che crocifissero Gesù per ignoranza.obbedendo all'eelillo di Pilalo.

E sarebbe giustificala anche il popolo ebraico, che per­suaso dai suoi maggiorenti gridava: «prendilo, prendilo,crocifiggilo!» (Iov 19, 15). Ma tUlle quesle conseguenzenon sono ammissibili. Quindi, la tesi è dimostrata.8. li terzo dubbio è: che cosa si deve fare quando la giu­stizia della causa di guerra è dubbia, cioè quando da en­trambe le parti ci sono ragioni verosimili e ammissibili?

Su ciò questa è la prima tesi: per quanto riguardo iprinai"; sembra che se qualcuno di loro esercita un legit­timo possesso, un altro non possa reclamarlo con la guer­ra, fin tanto che permangono dubbi.

Ad esempio, se il re eli Francia è legiltimamenle inpossesso deUa Borgogna, benché sia dubbio se ne abbiail clirillO, non sembra che il noslro Imperatore la possareclamare con le armi; né, in caso contrario, lo potreb­be il re di Francia.

Quesla lesi è dimoslrala dal falla che nei casi dubbiè favorila la siluazione di chi è già in possesso dd bene.E quineli non è lecilo privarlo di ciò che possiede, sullabase di un dubbio.

Allo stesso modo. se il caso venisse trattato davanti a un

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quam in re dubia spoliaret possessorem. Ergo dato,quod ille princeps, qui praerendit ius, sit iudex in illacausa, non potest spaliare lidre possessorem dubia ma·nente.

!tem in rebus et causis privarofum numquam in cau­sa dubia licet spoliare possessorem <1egitimum> - ergonec in causis principum. Leges enim sunt principum. Siergo secundum leges humanas non licet spoliare pos­sessarem, ergo merito patest obici principibus: <Potere/egem. quam ipse tuleris! Quod enim quisque iuris inalios s/aluil, ipse eodem iUTe uti debet.>

ltem alias esser bellum iustuffi ex utraque parte<etc., et bellum numquam componi posset. Si enim incausa dubia licet uni armis repetere, ergo alteri defen­dere. Et postquam unus recuperasset, posset iterumalius reposcere, et sic numquam esser fmis bcllorumcum pemicie et calamitate populorum.>

Secunda propositio: Si civitas vel provincia, de quadubitaluT, non hahet legilimum possessorem, ut si deser·ta essei morte legitimi domim: et dubitalur, an haerer SI/

rex Hispaniae aut rex Galiorum, nec potest certum scirJ~

<iure> videtw; quod si unus velit componere et divider<'et compensare pro parte, quod alter tenetur recipere con·dicionem, etiam si vi sit potentior et possit <armis> lo·tum occupare, nec haberet iustam causam belli.

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giuclice legittimo, questi, in una faccenda dubbia nonesproprierebbe il possessore. E quincli ammettendo'che ilprincipeche rivendica il proprio cliritt;sia anchegiuclice inquella causa, egli non può legittimamente espropriare ilpossessore, fin tanto che permane un dubbio., In.olt.r~, n~lle faccende e neUe cause fra privati none mal lecltn, In una causa dubbia, espropriare illegit­~o possessore. E dunque non si può neppure nei ca.SI dei principi, poiché le leggi sono fatte dai principi.Se. qumdJ se.cnndo le leggi umane non è lecito espro­pnare ch, gta ~nde del pos~esso, allora si può ben op­porre al prtnCtpt il detto: «e ben chiara la legge che tu

stess~ hat emanato!». Infatti, «il principio giuridicoche aascuno ha stabilito per gli altri deve valere ancheper lui stesSO»2.

Parimenti, se così non fosse la guerra sarebbe giustada entrambe le pani, e non potrebbe mai trovare unasoluzione. Infatti, se in una causa dubbia fosse lecito auno prendere le armi, lo sarebbe anche all'altro difen­dersi. E dopo che l'uno fosse venuto in possesso cii ciòche rivendicava, l'altro potrebbe nuovamente reclamar.lo per sé, e così le guerre non avrebbero mai fine condanno e calamità per i popoli. '

Seconda tesi: se la città o la provincia sulla quale c'èun dubbIO non ha un possessore legittimo - come adesempio ~~ ~esta ~acante per la morte del signore legitti­mo - e ~l e znc~rtl se lo successione spetti al re di Spagnao al re d, Franaa, e non lo sipuò sapere con certezzo, sem­bra conforme al diritto che, se uno deidue contendentio[Ire una compOSIZIOne con una spartizione e una equa com­pensazione, l'altro sia obbligato ad accettare queste con.dizioni, anche se è più potente per forzfl militare e può oc­cl~pare c~n le armi tutto il territorio; e che non abbia quin.dI una giusta causa di guerra.

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Probatur, quia alius non facit illi iniuriam m paricausa pelendo aequalem panem.

Item in privatis in re dubia non liceret totum occu-. ...pare - ergo neque 111 caUSlS pnnclpum.

Item esset bellum iustum ex utraque parte. Item iu·stus iudex non totum alleri tribueret, sed dividere!. Er­go etc.

Tertia propositio: Qui dubitat de iure suo, etiam si pa­cilice possideat, tenetur examinare causam diligenter etpactfice audire rationes alterius partis, siforte possit cer·tum scire pro se ve! pro alio.

Hacc probatur, quia alias non bona fide possideret,qui dubitans negligeret scire veritatem.

ltem in causa matrimoniali. si quis etiam legitimuspossessor incipit dubitare, utrum haec uxor sit sua nee·ne, certum est, quod tenetur rero examinare - ergo ea·dem ratione in allis causis.

Item principes sunt iudices in propriis causis, quianoo habent superiores. Sed cenum est, quod si quiscootra legitimum possessorem opponat aliquid, iudextenetur examinare illudo Ergo etiam principes in re du·bia tenentur causam suam examinare.

Quarta propositio: Examinoto causa, quontumdiu ra·tionobiliter perseverai dubium, legitimus possessor nontenetur cedere possessione, sed potest /icite retinere.

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Lo dimostra il fano che il primo non reca offesa al­l'altro, chiedendo una pane uguale di un bene, in unacausa in cui entrambi hanno uguali diritti.

Parimenti. ndle cause &a privati non è lecito pren­dersi l'intero bene, quando c'è un dubbio. E quindi noolo è neppure nelle cause fra principi.

Inoltre, in caso contrario la guerra sarebbe giusta daentrambe le pani. E, ancora, un giudice giusto non at­tribuirebbe per intero il bene conteso all'una o all'altraparte, ma lo dividerebbe. Quindi la tesi è dimostrata.

Terza tesi: colui che dubita del propno diritto - anchese non esercita il dominio in seguito ad una gue"a - è te­nuto ad esaminare diligentemente la questione, e a ascol·tare pacificamente le ragioni dell'altra parle, per vedere semai possa raggiungere una certezza, a favore proprio odell'allro.

Lo dimostra il fatto che, in caso contrario, colui ilquale pur dubitando trascurasse di conoscere la veritànon eserciterebbe il proprio dominio in buona fede.

Allo stesso modo, in una causa matrimoniale se qual­cuno, pur essendo legittimo titolare di un diritto. iniziaad avere dubbi se una cena donna è sua moglie o 00, ècertamente tenuto ad esaminare la cosa. E quindi. perla stessa ragione, si è tenuti anche in altre cause.

Inoltre, i principi sono giudici nelle proprie cause,poiché non hanno autorità superiori. Ma è certo che, sequalcuno eccepisce alcunché contro chi è titolare di unpossesso legittimo, il giudice è obbligato a esaminarlo.Perciò anche i principi in un caso dubbio sono tenuti adesaminare la propria causa.

Quarta tesi: una volta che la questione sia stata esa­minala, fino a quando permane un ragionevole dubbio ilpossessore legittimo non è obbligato a cedere ciò che pos­siede, ma può legittimamente conservarlo.

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Patet primo, quia iudex non tenet{ur}spoliare. Ergonec ipse tenetur cedere - nec in toto nec in parte.

ltem in causa matrimoniali in re dubia non tenetur,ur habetur in c. Inqujsitjom~ De sententia excommum"·cationis, et in c. Dominus, De secundis nupliis, - ergonec in allis causis. Et Adrianus expresse (in Quodlibelis,q. 2) tenet, quod dubitans licile pOIeSI rellnere rem pos­sessam.

Haec quoad principes in re dubia.

Sed quoad subditos in dubio belli iusti Adrianusquidem (Quodlibelis, q. 2, ad primum argumenrumprincipale) dicit, quod subditus dubitans de iustiria bel­li <, id est, utruro causa, quae a1legaruf, sit sufficiens, ve!simpliciter, an subsit causa sufficiens ad indicendurobel1um>, non potest licite ad imperium superioris roili·tare. Quod probat, quia runc subditus non operatur exfìde.ltem, quia exponit se periculo peccandi mortaliter.Idem videtur tenere Silvester (v. bellum I, S 9).

Sed sit quinta proposmo: Primo non est dubiumJ

quin in bello delemivo liceal subditis in re dubia milita­re et sequi principem suum in bello, immo quod tenean­lur sequi; sed eliam de bello offensivo.

Probatur primo, quia princeps nec palese sempernec debet reddere rationes subditis. Et si subditi nonpossent militare, nisi postquam scirem iustam causambelli, res publica periclitaretur vehementer <et patere·tuc iniurias hostium>.

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La tesi è chiara, in primo luogo perché il giudice nonè tenuto all'esproprio. E quindi neppure il possessore ètenuto a cedere il possesso, né dci tutto né in parte.

Ancbe in una causa di matrimonio, in caso di dubbionon si è tenuti a rinunciare al proprio dirittO (come si vedenel cap. Inquisitiom: De sententia excommunicationis e nelcap. Dominus, Desecundisnupliis). E quindi non si è tenu­ti neppure in cause d'altro tipo. E Adriano (Quodlibela 2)sostiene espressamente cbe colui cbe ha un dubbio «puòlecitamente trattenere presso di sé la cosa posseduta»'.

E questo è tuttO, per quanto riguarda i principi, incaso di dubbio.

Ma per quanto riguarda i sudditi in caso di dubbio sul­la guerra giusta proprio Adriano (Quodlibela 2, primo ar­gomento principale) afferma cbe il suddito cbe dubita dci­la giustizia della guerra - cbe è incerto, cioè, se la causa cbeviene addotta sia sufficiente,owero se semplicementesus­sista una causa sufficiente a dichiarare la guerra - non puòlecitamente prendere le armi al comando delle autorità su­periori. E lo dimostra sostenendo cbe allora il suddito nonagirebbe in buona fede; e ancbe cbe in tal modo si espor­rebbe al pericolo di commettere peccato mortale. Dellastessa opinione sembra Silvestro (voce bellum, l, § 9)4.

Ma questa è la quinta tesi: in primo luogo, non c'èdubbio che in una guerra difensiva sia lecilo ai sudditi incaso di dubbio prendere le armi e seguire il loro prinàpein gue"a, e che anzi Sil1110 tenuti a seguirlo; ma ciò valeanche in una guerra offensiva.

La si dimostra in primo luogo col fatto che il princi­pe non può né deve sempre rendere ragione ai sudditi.E se i sudditi non potessero fare la guerra se non dopoavere conosciuto la giusta causa della guerra, la comu­nità politica sarebbe in grave pericolo, e soffrirebbe leoffese dei nemici.

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!tem in dubiis tutiOt pars sequenda est. Sed si sub­diti in casu clubii non sequerenrur principem suuro, ex·ponunt se periculo prodendi hostibus rem publicam,quod multo peius est quam pugnare contra hostes cumdubio. Ergo debent potius pugnare.

Item manifeste paret, quod lictar tenetur exequi sen·tentiam iudicis, etiam si dubitet, an sit iusta. Contra·rium est enim valde periculosum.

Item aperte videtur hoc dicere Augustinus (ContraManiehaeos): Iustus si/orte etiam sub rege sacrilego mi­litet, reete potest eo iubente belÙJre, si quod ei iubetur velnon esse contra Dei praeceptum <certum est vel utrumSII, eertum non esI> (23, q. 1, c. Quid eulpatur). Ecce Au­gustinus expresse definivit, quod si non est certum, idest si dubium est, an sit conera Dei praeceptum, quodsubdito licitum est bellare. ec Adrianus -se expeilirepotest ab illa Augustini auetoritate, quarnvis in omnempartem vertat. Sìne dubio enim conclusio nostra est de­terminatio Augustini-.

Nec valet dicere, quod talis debet tollere dubium etformare sibi conceptum et conscientiam, quod bellumsit iustum. Nam stat, quod moraliter loquendo non pos­sit sicut in allis dubiis.

Adrianus autem videtur errasse in hoc, quod pu­tavit: Si dubito, an hoc bellum sit iustum princi­pi ve1 utruro sit causa iusta huius belli, quod sta­tiro consequirur: Dubito, urrum liceat mihi ire ad hocbellum necne. Fateor en101, quod nullo modo liceI

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Inoltre, nel dubbio si deve seguire l'alternativa piùcerta. Ma se i sudditi in caso di dubbio non seguissero illoro principe, si esporrebbero al rischio di consegnare alnemico la propria comunità politica, il che è molto peg­gio che combattere contro i nemici restando in dubbio.Quindi, i sudditi devono, piuttosto, combattere.

Allo stesso modo, è del tutto evidente che illittore ètenuto a dare esecuzione alla sentenza del giudice, an­che se è in dubbio se sia giusta. L'agire comrario, infat­ti, è molto pericoloso.

Inoltre, la stessa cosa sembra dire chiaramente Ago­stino (Contra Maniehaeos): «se per caso il giusto porta learmi agli ordini di un re sacrilego, può a buon diritto fa­re la guerra al comando di quello, tanto che quello che gliviene comandato non vada con sicurezza contro i co·mandamenti di Dio quanto che ve ne sia il dubbio»' (ve­di anche Decretum Cratiani II 23, 1,4, cap. Quid eulpa­tur). Ecco quindi che Agostino ha apertamente dichia­rato che- se l'ordine del re non va senz'altro contro i co­mandamenti di Dio, ma la cosa è soltanto dubbia - è le­cito al suddito fare la guerra. E Adriano non può sottrarsia questa autorevole affermazione di Agostino, anche sela rigira da tutte le parti. Senza dubbio la nostra conclu­sione coincide con la posizione di Agostino.

E non vale affermare che il suddito deve togliersi ildubbio, e formarsi un'opinione e una certezza sulla giu­stizia della guerra. È chiaro, infatti, che dal punto di vi­sta morale ciò non è possibile, come in altri casi dubbi.

Adriano sembra essersi sbagliato, in questa circostan­za, perché ha creduto che se ho dubbi se questa guerra siagiusta per il mio principe. o se sia giusta la causa di que­sta guerra, ne consegue immediatamente che ho dubbisulla liceità, o meno, che io partecipi aquesta guerra: pro-

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facere contra dubium conscientiae. Et si dubito, utrumliceat mihi facere hoc necne, pecco, si faciam. ed nonsequitur: Dubito, an sit iusta causa bdli. Ergo dubito,an liceat mihi -bellare- vel militare in hoc bello. Im·mo oppositum sequitur. Si enim dubito, an be11um sitiustum, sequitur, quod ucet mihi ad imperium princi·pis mei militare, sicut non sequitur: Lietor dubita t, ansententia iudicis sit iusta. Ergo dubitat, an uceat ci cxe·qui sententiam. Nibil omnino valet conscientia, immoscit, quod -tenerur exequi. Et idem est de hoc dubio:Ego dubito, an haec sit uxor mea. Ergo teneor ei red·dere debitum.-

9. Quartum dubium est, an possit esse be/lum iustum exutraque parte.

Pro quo sit prima propositio: Su/usa ignorantia ma·nifestum est~ quod non potest contingere.

Quia si constat de iure et iustitia utriusque panis,non ucet in contrarium bdlare, nec offendendo nec de·fendendo.

Secunda propositio: Posila ignoranlia probabilifacliaut iuris potest esse ex ea parte, qua est vera iustitia, bel·lum iustum per se; ex altera autem parte bellum iustum,id esi excusalum a peccalo bona fide.

Quia ignorantia invincibilis excusat a toto. Item exparte subditorum saepe potest contingere. Dato enim,quod princeps, qui gerit bellum iniustUffi, sciret iniusti·tiam belli, tamen, ut dictum est, subditi possunt bonafide sequi principem suum. Et sic ex urraque parte sub·diti licite pugnant, ut notum est.

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dama infatti che in nessun modo è lecito agire contro undubbio di coscienza; e che se sono in dubbio se mi sia le­cito fare una tal cosa, o no, pecco se la faccio. Ma dal fat­to che io sia in dubbio se esista una giusta causa per unaguerra non consegue che io debba essere in dubbio se misia lecito fare la guerra o prendere le anni in questa guer·ra. Anzi, ne consegue l'opposto. Se infatti sooo in dubbiose la guerra sia giusta, ne consegue che mi è lecito pren·dere le armi su ordine del mio principe. Allo stesso mododal dubbio dellittore se la sentenza del giudice sia giustanon consegue il dubbio se gli sia lecito eseguirla. La co­scienza non gioca qui alcun ruolo; anzi, illittore sa che ètenuto a dare esecuzionealla sentenza. E lo stesso vale perquesto dubbio: «sono in dubbio se questa donna sia miamoglie; quindi sono tenuto a darle ciò che le è dovuto».9. li quartn dubbio è se una guerra possa essere giusla doenlrambe le parli.

La prima tesi al riguardo è: a parte i casi di ignoran·lO, è evidente che non può accadere.

Infatti, se vi è certezza del buon diritto" della giu­stizia di entrambe le parti, non è lecito far la guerra al­l'avversario, né d'attacco né di difesa.

Seconda tesi: dola una ammiSSIbile ignoranZil dei fal­ti o del dirillo, la gue"a può essere giusla in sé, per la par­te presso cui sia la vera giuslizia; ma anche dall'altra par­te può esserci una gue"a giusta, cioè una gue"a che labuona fede non rende un peccalo.

Infatti un'insuperabile ignoranza assolve completa.mente. Inoltre, ciò può accadere spesso ai sudditi. Po·sto infatti che il principe che conduce una guerra in­giusta sia consapevole dell'ingiustizia della guerra, tut·tavia, come si è detto, i sudditi possono seguire in buo·na rede il loro principe. E così da entrambe le parti isudditi combatterebbero legittimamente, come è noto.

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IO. Ex hoc sequitur quintum dubium, ulrum qui exignoran/io secutus est belium iniustum, si pos/ea consti·teri/ ei de iniustitia bel/i, utrum tenca!ur restituere - si·ve Ioquamur de principe, sive de subdito.

Pro qua sit prima propositio: Siquidem habebal pro­babilitatem de iustitia belli, lenelur adveniente <notiliode> iniustiJia res/i/uere ablata, quae nondum consum·psit, id est, quanlum faclus est locupletior; non autem,quoe iom conrumpsli.

Quia regula iuris est, quod qui non esI in culpa, nondebel esse in danno, sicut qui bona fide fui! in conviviolautissimo furis) uhi scilicet res furtivae consumptaesunt, non tenetur restituere, nisi forte quantum domiconsumpsisser et in prandio suo communi. Si autem du·bitavit de iustitia belli secutusque est aucwcitatem prin~

cipis, Silvester (in v. bellum I, S 9) dicit, quod teneturde omnibus, quia mala fide pugnavit.

Sed sit secunda propositio: Nec isle lenelur de con·sumptis sicut nec olius.

Quia, ut dictum est, Iicite etiam et bona fide pugna·vito Sed esset verum, quod Silvester dieit, si revera du­bitasser, an liceret ire ad bellum, quia iam facit contraconscientiam. ed est notandum, quod stat, quod beI­lum sit iusrum per se et illicitum et iniustum per acci­denso Stat quidem, quod quis habeat ius ad recuperan­duro civitatem ve! provinciam et tamen ratione scanda~

li fiat prorsus illicitum. Cum enim. ut supra diximus,

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IO. Da ciò consegue il quinto dubbio: se coilli - che sitralli del principe o del suddilo - il quale per sua igno­ranza ha partecipato a una guerra giusta, accortosi in se­guito dell'ingiustaia di questa, sia tenuto a restituire ciòche ha preso.

Qui la prima tesi è questa: se aveva ammissibili ra­gioni per creder~ alla giuSlizio d~l'" guerra, non app~na

ha certeua della sua ingiustiz.ia è tenuto a restituire le r0­

se che ha preso e che non ha ancora distrullo, ovvero lecose che lo hanno reso più neco; ma non è tenuto a n/on­dere ciò che ha dislrullo.

Infatti è regola di diritto che «chi non ha colpa nondeve subire pena»; come colui che in buona fede ha par·tecipato a un ricchissimo banchetto offerto da un ladro,nd quale sono state consumate vivande rubate, non è te­nuto alla restituzione se non eventualmente nella misuradi ciò che avrebbe consumato in casa propria, in un pa­sto ordinario. Ma se invece già aveva dubbi sulla giusti­zia della guerra, e vi ha partecipato per ordine del prin­cipe, Silvestro (voce bellum, l 59) afferma che è tenutoa rendere tuno, perché ha combattuto in mala fede.

Ma la mia seconda tesi è che neppure costui è tenutoa restituire ciò che ha consumato, come non lo è l'altro.

Infatti, come si è derto, ha combattuto lecitamente ein buona fede. Ciò che affenna Silvestro sarebbe vero sequesti avesse realmente dubitato sulla Iiceità della pro·pria partecipazione alla guerra, perché in tal caso egliavrebbe agito contro i dettami della propria coscienza.

Ma si deve notare che può essere che una guerra siagiusta in sé e al contempo illecita e ingiusta secondo lecircostanze accidentali. Può essere, insomma, che qual­cuno abbia diritto a riprendersi una città o una provin­cia, e che tuttavia la cosa sia senz'altro illecita, per loscandalo che comporta. Infatti, poiché, come abbiamo

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bella geri debeant pro bono communi, si ad recuperan­dum unam dvitatem necesse est, ut sequantur maioramala in re publica - U[ vastatio multarum civitatum etc..irritatio principum. occasiones novorum bellorum _,non est dubium, quin reneatur talis princeps cedere iu­re suo et abstinere se a bello. ClarissUnum est <, quodsi rex Gallorum, verbi gratia, haberet ius ad recuperan­dum Mediolanum, ex bello autem et regnum Galliae etipsa provincia Mediolanensis paterentur inrolerandamala et calamir3tes graves. non licer ci recuperare, quiabellum ipsum aut fieri debet ve! propter bonum Galliaeaut Mecliolani. Quando ergo e contrario utriusque ma­gna mala ex bello futura sunt, non potest bellum iustumesse>.

detto, le guerre devono essere fatte per il bene comune,se per riprendere una città la comunità politica va ne­cessariamente incontco a mali più grandi - devastazio­ne di molte città, ecc.. provocazione dei principi, occa­sione di nuove guerre -, non c'è dubbio che quel prin­cipe è tenuto a rinunciare al proprio diritto, e a astenersidalla guerra. È chiarissimo che se, ad esempio, il re diFrancia avesse diritto di riprendersi Milano, ma se dal­Ia guerra il regno di Francia e la stessa provincia di Mi­lano soffrissero mali intollerabili e gravi calamità, nonsarebbe lecito riprendere la città, perché questa guerradeve essere fatta per il bene della Francia o di Milano.E penanto quando, al contrario, dalla guerra derivino aentrambe grandj mali, la guerra non può essere giusta.

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Quacstio quartn

\I pars

Quantum liceatin bello iusto

1. Primum dubium et bonum profecto, an liceat in bello in­terficere innocentes.

2. Secundum dubium est, an liceat saltem spoliare in belloIUsto Innocenles.

J. Teroum dubium est, dato quod non liceat interficerepueros et innocentes, an saltem liceat ducere illos in cap­tivitatem.

4. Quartum dubium est, utrum saltem obsides, qui vel tem­pore indutiarum vel peracto bello ab hostibus recipiuntur,inter/ici possint, si hostes fidem fregerint.

5. Quintum dubium est, an saltem in bello liceat inter/ice­re omnes nocentes.

6. Sextum dubium est, an liceat ùlter/icere captivos, suppo­sito etiam, quodfuerunt nocenles.

7. Sequitur septimum dubium, utrum omnia capla in bello/tant capientium et occupanlium.

8. Octavum dubium est, utrum liceat imponere victis hosti­bus tributa.

9. Nonum dubium est, an liceat deponere principes hostiumet novos constiluere vel sibi retinere pn·ncipatum.

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Quarta queslione

Il parte

Quale sia la misura del lecitoin una guerra giusta

1. TI primo dubbio, e più importante, è se in guerra sia leci­to uccidere gli innocenti.

2. TI secondo dubbio è se, in una guerra giusta, almeno sialecito espropriare gli innocenti.

J. TI terzo dubbio è, dato che non è lecito uccidere i fan­ciulli e gli innocenti, se almeno sia lecito trarli in prigio­ma.

4. TI quarto dubbio è se almeno gli ostaggi che il nemico hainviato, durante una tregua o a guerra terminata, possa­no essere uccisi, nel caso che i nemici non mamengano laparola data.

5. TI quinto dubbio è se almeno sia leciro in guerra uccide­re tutti i colpevoli.

6. TI sesco dubbio è se sia lecito uccidere i prigionieri, nel­l'ipotesi che siano stati colpevoli.

7. TI settimo dubbio, poi, è se tutte le cose prese in guerra di­vengano proprietà di coloro le hanno prese e le detengono.

8. L'ottavo dubbio è se sia lecico imporre tributi ai nemiciVLntl.

9. li nono dubbio è se sia lecito deporre i principi dei ne­mici, e costituirne di nuovi, o annettersi il principato.

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Circa aliam etiam quaestionem sunt multa dubia, vi­delicet quaestio erat, quantum liceat in bello iusto.

1. Primum dubium et bonurn profecto, an liceat in bel­lo inter/icere innocentes.

Potest probari, quod sir-. Primo, quia filii Israel in­terfecerunt infantes, ut patet Ios 6, 20-21, in Iericho etpostea Saul interfecit in Arnalec pueros - utrumque exauctoritate et mandato Domini, ur habetur 1 Sam 15,8.Quaecumque autem scripta sunt, ad nostram doctrinamscripta sunto Ergo etiam nunc, si beUum sit iustum, lice­bit interficere innocentes.

Sed de hoc dubio sit prima propositio: Numquam li­cet per se et ex intentione interficere innocentem.

Probatur primo Ex 23,7, ubi dicitur: lnsontem et iu­stum non occides.'

Secundo probatur: Fundamentum iusti belli estiniuria, ut supra dictum est. Sed innocens nihil malumfecir. Ergo <non licet bello uti contra illum>.

Tertio probatur sic: Non licet in re publica pro de­lictis malorum punire innocentes. Ergo etiam nec proiniuria malorum non licet interficere innocentes apudhostes.

Quarto, quia alias esset iam bellum iustum ex utra·que parte <seclusa ignorantia>. Patet, quia etiam inno­centibus liceret se defendere. Et confirmatu! totumhoc, quia Dt 20, 13-14 mandatur filiis Israel, ut cum viceperint civitatem, alios quidem interficiant, parcantautem mulieribus et parvulis.

Ex quo sequitur, quod etiam in bello contra Turcasnon licet interficere infantes. Patet, quia sunt innocen-

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Anche circa l'altra questione vi sono molti dubbi; laquestione era quale sia la misura del lecito in una guerragiusta.1. TI primo dubbio, e più importante, è se in guerra sialecito uccidere gli innocenti.

Si può dimostrare di sì. In primo luogo perché i figlid'Israele uccisero i bambini a Gerico (los 6, 20-21), e poianche Saul uccise i fanciulli in Amalec, in entrambi i ca­si per autorità e comando di Dio (l Sam 15,8). Ma «tut­to quello che è stato scritto, è stato scritto per nostro amomaestramento» (Rom 15, 4); quindi anche ora, se unaguerra è giusta, è lecito uccidere innocenti.

Ma su questo dubbio la prima tesi è questa: nOI1 èmai lecito uccidere /Jinnocente in quanto tale, e intenzio­nalmente. Lo dimostra dapprima l'Esodo (23, 7): «tunon ucciderai l'innocente e il giusto».

In secondo luogo, la si dimostra col fatto che, comesi è detto prima, il fondamento di una guerra giusta èl'offesa. Ma l'innocente non ha commesso alcun male.Quindi non è lecito fargli guerra.

In terzo luogo, la si dimostra perché in una comunitàpolitica non è lecito punire gli innocenti per i delitti deimalvagi. Quindi neppure fra i nemici è lecito uccideregli innocenti, neppure per i torti compiuti dai malvagi.

In quarto luogo, perché in caso contrario la guerrarisulterebbe giusta da entrambe le parti, in una circo­stanza diversa dall'ipotesi dell'ignoranza. È infatti evi­dente che anche agli innocenti sarebbe lecito difender­si. E tutto ciò trova conferma, perché è stato comanda·to ai figli d'Israele (Dt 20,13-14) di uccidere pure i ne­mici, quando prendevano con la forza una città, ma dirisparmiare le donne e i bambini.

Ne consegue che neppure nella guerra contro i Tur­chi è lecito uccidere i fanciulli. È chiaro, infatti, che so-

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teso Immo nec feminas. Patet, qula, quamum ad be1lumspectat, praesumuntur innocentes, oisi forte constet dealiqua femina, quod fuerit in culpa.

<Item idem videtur iUcllcium de innoxiis agricolisapud Christianos, immo de alia gente togata et pacifica,quia omnes praesumuntur innocentes, nlsi contrariumconstaret.>

Secundo sequitur, quod non licet imerficere pere­grinos neque hospites, qui sunt apud hostes, quia pIae­sumuntur rnnocentes.

Tertio sequltur idem de clericis et religiosis, nisi con·stet de contrario vel inventi fuerint actualiter pugnantesin bello. Non dubito de hoc.

Secunda propositio: Per accidens autem etiam sàen­ter aliquando licet interficere innocentes, puta cum OppU­gnatur arx aut dvitas iuste, in qua tamen constat essemultos innocentes, nee possunt maehinae solvi velalia te­ia vel ignis aedi/iciis subicl~ quin etiam opprimantur in­nocentes sicut nocentes.

Probatur, quia alias non posset geri be1lum contraipsos nocentes et frustraretur iustitia be1lantium <, si·cut, e contrario, si oppidum oppugnarur iniuste et iustedefenditur, licet mittere machinas et alia tela in obses­sores et in castra hostium, dato quod inter illos sint ali­qui pueri aut innoxll>.

Sed esI considerandum, quod paulo ante dictum est,quod oportet cavere, ne ex ipso bdIo sequantur maiora

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no innocenti. E anzi neppure è lecito uccidere le don­ne. È chiaro, infatti, che per quanto riguarda la guerraè da presumersi siano innocenti, tranne che non vi sia lacertezza che qualche donna sia colpevole.

Parimenti, il medesimo sembra il criterio per giudi­care, nelle guerre fra i cristiani, dei contadini inermi, eanche di altri, come i pacifici letterati, poiché sono tut­ti da presumere innocenti, se non c'è la certezza del con­trario.

Ne consegue, in secondo luogo, che non è lecito uc·cidere i viaggiatori stranieri e gli ospiti che si trovano frai nemici, poiché si presume siano innocenti.

In terzo luogo ne consegue la medesima cosa per gliuomini di Chiesa e i religiosi, se non si ha la certezza delcontrario, o se non sono stati sorpresi sul fatto a com­battere in guerra. Su ciò non c'è dubbio.

Seconda tesi: tuttavia incidentalmente, anche se con·sapevolmente, è lecito in certi casi uccidere innocentl~ adesempio quando, nel corso di una guerra giusta, si assediauna fortezza o una città nella quale pure si sa che ci sonomolti innocentI: e non si possono sparare i cannom: né sipossono lanciare altri proiettili o appiccare il fuoco agliedifiCl~ senza che si travolgano anche degli innocentJ~ in­sieme ai colpevoli.

Ciò è dimostrato dal fatto che in caso contrario nonsi potrebbe far guerra contro gli stessi colpevoli, e sa­rebbe frustrala la giusta causa di chi fa la guerra; allostesso modo, nel caso contrario, se una città è ingiusta­mente aggredita e giustamente si difende, è lecito rivol·gere i cannoni e gli altri proiettili contro gli assedianti econtro gli accampamenti dei nemici, anche se in essi sitrovano alcuni fanciulli o degli inermi.

Ma bisogna considerare ciò che è stato detto poc'an·zi, cioè che si deve evitare che dalla guerra derivino mali

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mala quam vitenrur per ipsum bdlum. Si enim ad vic­toriam parum confert expugnare arcem aut oppidum,ubi est praesidium hostium et sunt multi innocentes,non videtur, quod liceat ad expugnandum paucos no­centes occidere mu1tos innocentes subiciendo ignemvd rnachinas. quibus opprimantur innocentes cum 00­

centibus. Et tandem numquam videtur licitum oppri­mere innocentes etiam per accidens et praeter inrentio­nem, nisi quando <ad> bellum iustum expedit et gerialitet non potest, iuxta illud Mt 13,29-30: Sinite crerce­re ziuznio, ne eradicetis simul et tritù:um.'

Sed cuca haec potest dubitari, an liceat interficere in­nocentes, (J quibus tamen futurum imminel perictllum, ut

puta fùii Saracenorum sunt innocentes, sed timendummerito est, ne facti adulti pugnent contra Christianos.Et praeterea etiam cagati puberes apud hostes etiampraesumuntur innocentes, sed isd postea accipient ar·ma et pugnarent contra Christianos. Quaerituf, an licealtaler interficere.

Et videtur, quod sic, quia per accidens etiam licet in­terficere alios innocentes. Item Dt 20,13-14 praecipiturfùiis Israel, ut cum expugnaverint aliquam civitatem, in·terociant omnes puberes. on autem est praesumen·dum, quod omnes sunt nocentes. Ergo.

Respondetur tamen ad hoc: Licet fortasse possetdefendi, quod in tali casu licet eos interficere, ta­men credo, quod nullo modo licet, quia non suntfacienda mala, ut vitentur etiam alia mala maiora.Et intolerabile est plOfecto, quod occidatur aliquispro peccato futuro. Et primum sunt multa alia re·media ad cavendum in futurum ab illis, ut captivi-

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superiori a quelli a cui la guerra pone rimedio. Infatti, seai fini della vittoria poco impona espugnare una fortez­za o una città fortificata in cui si trova un presidio di ne·mici insieme a molti innocenti, allora non sembra lecitoper sconfiggere pochi colpevoli uccidere molti innocen­ti, appiccando il fuoco o sparando i cannoni, che posso­no colpire innocenti e colpevoli. Insomma, non pare mailecito uccidere innocenti, neppure incidentalmente eininrenzionalmente, se non quando giova alJaguerra giu­sta, e quando questa non può essere condotta in altromodo, secondo il detto (Mt 13,29-30) «1asciate crescerela zizzania, per non sradicarla insieme al grano».

Ma a questo proposito ci si può interrogare se sia Le­cito uccidere quegLi innocenti dai quali tuttavia deriveràun luturo pericolo; come, ad esempio, i figli dei Sarace·ni sono innocenti, ma ci sono buoni motivi per temereche, divenuti adulti, combattano contro i Cristiani.Inoltre, anche i giovinetti adolescenti che stanno fra inemici sono presunti innocenti, ma questi poi prende­ranno le armi e potrebbero combattere contro i Cristia­ni. Si chiede re ria lecito uccidere cortoro.

Patrebbe di sì, poiché in via accidentale è lecito an­che uccidere degli innocenti. Così (Dt 20, 13-14) vienecomandalO ai figli d'Israde che, quando espugnano unacittà, uccidano lUtti gli adolescenti. Ma non si può pre­sumere che questi siano rutti colpevoli. Quindi sembralecito.

Ma a ciò si deve tuttavia rispondere così: anche se for·se si può sostenere che in qud caso è lecito ucciderli, cre­do nondimeno che non sia in alcun modo lecito, poichénon si deve fare il male per evirare altti mali maggiori. Edè proprio intollerabile che qualcuno venga ucciso per unpeccato futuro. E in primo luogo vi sana molti altri ri­medi per guardarsi, per il futuro, da qudli, come la pri-

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tas. exilium etc. Item non licet hoc in propriis civibus:occidere aliquem pro peccato futuro. Ergo non licet inextraneos. Non dubito de hoc. Vnde sequitur, quod si·ve iam parta victoria, sive cum actu bellum geritur etconstat de innocentia alicuius et milites possunt eUffiliberare. tenentur.

Ad argurnentum autem in conuarium respondetur,quod illud facrum fuit ex speciali mandaro Dei, qui indi·gnatus contra populos illos voluit perdere omnino. sicutmisit ignem in Sodomam et Gomorrham, qui devoravittam nocentes quam innocentes. Ipse enim erat dominusomnlum, nec istam legem voluit esse in communi.

Et ad illud Deuteronomii (20, 13·14) posset eodemmodo responderi. Sed quia illic dara est lex belli com·munls in Offine tempus futurum. potius videtur, quod il·lud Domlnus dixit, quia revera omnes puberes -repu·tantur- in civitate inimica nocentes et non possunt di·stingui innocentes a nocentibus. Et ideo omnes possuntoccidi.

2. Secundum bonum dubium est, an liceat saltem spo·bare in bello iusto innocentes.

Ad quod sit prima propositio: Certum est, quod licetspollare illos bonis et rebus, quibus hostes usuri sunt ad·versum nos <.ut armis, navibus, machinis>.

Patet, quia alias victoriam consequi non possemus.!mmo etiam licet accipere pecunias innocentium etcomburere et corrumpere frumenta et occidere equos,et ita opus est ad debilitandas hostium vires. Non estdubium de hoc.

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gionia. l'esilio, ecc.; e inoltre come non è lecito ucciderei propri cittadini per un peccato futuro così non lo è nep­pure nei riguardi degli stranieri. Su ciò non ho dubbi. Neconsegue che se - una volta ottenuta la vittoria. oppurequando ancora la guerra è effettivamente ln corso - si hala certezza dell'innocenza di qualcuno. e i soldati posso·no liberarlo, vi sono tenuti.

All'argomentazione contraria si risponde che quellamisura era stata presa dietro comando speciale di Dio,che indignato contro quei popoli li volle far scompariredel tutto, allo stesso modo in cui inviò contro Sodomae Gomorra il fuoco, che consumò tanto i colpevoliquanto gli innocenti. Egli era infatti il Signore di rutti gliuomini, ma non volle certo che questa legge divenisseuna regola generale.

E a quel brano del Deuteronomio (20, 13·14) si po·trebbe rispondere allo stesso modo. Ma poiché lì si è vo·Iuta stabilire una legge generale di guerra, che deve va·lere per ogni tempo futuro, sembra piuttosro che il Si·gnore abbia fatto quell'affermazione perché davverotutti gli adolescenti in una città nemica vengono ritenu­ti colpevoli, e non si possono distinguere i colpevoli da·gli innocenti. E quindi possono essere tutti uccisi.2. Usecondo importante dubbio è se, in una guerra giu­sta, almeno sia tedto espropriare gli innocenti.

A questo riguardo, la prima tesi è: certamente è Le·cito espropriarli di quei beni e di quelle cose di cui i ne·mici si serviranno contro di no~ come arml~ navi. can­nOni.

È chiaro infatti che altrimenti non potremmo conse­guire la vittoria. Anzi, è anche lecito prendere denarodagli innocemi, bruciare e distruggere i raccolti, ucci­dere i cavalli: così è necessario, per indebolire le forzedel nemico. Su ciò non c'è dubbio.

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Ex quo sequitur corollarium, quod si bellum sit per­petuum, [icet indifferente, spoliare omnes, 10m innocen·les quam nocentes, quia ex opibus suorum hostes o/unibellum iniustum et e contrario dehilitantur vires eorum,si aver eorum spoliantur.

Secunda propositio: Si bellum satis commode geripo­test non spoliando agricolas aut alios innocentes, non vi·detu" quod liceat eos spoliare.

Hoe tenet Silvester (in v. bellum 1,5 IO), quia bel­lum fundarur in iniuria. Ergo non licet iuce belli inter­fiecce innocenres neque spaliare, si aliunde polest com­pensare iniuria. lmmo addit Silvester, quod eriam si fue­rir iusta causa spoliandi innocentes, quod transac[Q bel­lo tenetur vietor restituere illis quicquid superest.

Sed hoe non puto esse necessarium, quia, ut infra di­ceme, si iuce belli faetum <sit>. omnia cedunt in favo­ccm gerentium iustum bellum. Unde si I.icite sunt cap­t3, puto, quod non teneantur ad restirutionem. Dictumtamen domini Silvestri pium est et non improbabile.

Spoliare autem peregrinos et hospites <, qui suntapud hastes>, oisi constet de culpa illorum, nullo mo­do licet, quia illi non sunt de numero hosrium, sed po­tius reputantur innocentes.

Tenia propositio: Si hostes nolunt restituere res iniu­ria ablatas et non possit, qui laesus est, aliunde commoderecuperare, potest undecumque satisfactionem capere- sive a nocentibus, sive ab innocentibus.

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Ne consegue come corollario che se vi è una guerraperpetUIJ è lecito espropriare tutti senza distinzione, sia gliinnocenti sia i colpevou; poiché i nemio' con le ricchezzedei loro cittadini alimentano la guerra ingiusta, e, al con­trario, se i loro o'lladini vengono espropriati, le loro for­ze vengono indebolite.

Seconda tesi: se la guerra può eHere condoIla abba­stanza efficacemente senza espropnare i contadini o altn'innocenti, sembra che non SIa lecito espropnarli.

È questa la posizione di Silvesrro (v. bellum, I 5 IO),poiché la guerra ha come origine un rorto. Quindi anorma dd dirino di guerra non è lecito né uccidere néespropriare innocenti, se il torto subìto può essere ripa­rato in altro modo. Anzi, Silvestro aggiunge che, anchese ci fosse stata una giusta causa per espropriare gli in­nocenti. una volta che la guerra sia finita il vincitore ètenuto a restituire loro tuno ciò che è rimasto.

Ma questo non lo credo necessario, perché, come sidirà oltre, se l'esproprio è fano secondo il dirino diguerra tutto va a favore di coloro che combattono laguerra giusta. Pertanto, se questi beni sono stati presilecitamente, credo che i vincitori non siano tenuti a re­sutuirli. Tuttavia, la tesi di Silvestro è ricca di pietà cri­stiana, e non inammissibile.

Ma non è in alcun modo lecito spogliare i viaggiato­ri stranieri e gli ospiti che si trovano fra i nemici, se nonsi è certi della loro colpa, poiché quelli non sono da an­noverarsi fra i nemici, e sono piuttosto ritenuti inno­centi.

Terza tesi: se i nemici non vogliono restituire i beni in­giustamente sollratll; e chi ha subìto il torto non lipotes­se recuperare in altro modo con /aaHlà, questi può pren­dersi soddisfazione da un'altra parte, sia dai colpevoli siadagli innocenti.

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Ut si latrones Galli fecerinr praedas in agrum ili­spanorum et rex Francorum nalit cogere illos ad resti·tutionem, cum possit, possunt Hispani auctocitate suiprincipis spaliare mercatores Gallos aut agricolas quan·turncumque innocences. QUi3 licet forre a principio respublica aur princeps Gallorum non fuerit in culpa, iamest in culpa, quia neglegit vendicare, ur ait Augustinus.quod improbe a suis factum est, et princeps laesus patestex amni parte satisfactionem accipere. Unde litteraemarcharum aut represaliaruffi, quae a principibus inhuiusmodi casibus conceduntur, non sunt amnino iniu­stae, quia per negligentiam et iniuriam alterius principisconcedit laeso suus princeps, ur possit recuperare bonasua etiam ab innocentibus. Sunt autem periculosae etpraebenr occasionem rapinarum.

3. Tertium dubium: DOlO, quod non liceol inlerficerepueros et innocentes, on sal/cm liceal ducere il/aJ in cap­tivitatem.

Ad hoc sit prima propositio: Eodem modo licei du­cere il/os in captivi/atem, sicu! licet spaliare il/os, quia li·ber/as et captivitas inter bona fortunae reputan/Uf.

Unde quando bellum est talis condicionis, quod li­cet spaliare indifferenter omnes hostes et occupare om­nia bona illorum. etiaro !icer ducere in captivitatem Offi­

Des hostes, sive nocentes, sive innocentes. Et cum bel·lum adversus paganos sit huiusmodi, quia est perpe·tuum et numquam satisfacere possunt pro iniuriis etdamnis illatis, ideo non est dubitandum, quin liceat etpueros et feminas Saracenorum ducere in captivitatem.Sed quia iute gentium viderur reeeptum, ur Christian iinter Christianos non Rant servi, in bello quidem inrer

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Se ad esempio dei briganti francesi saccheggiasseroi campi spagnoli e il re di Francia, pur avendone il po­tere, non li volesse costringere alla restituzione, gli Spa­gnoli con l'autorizzazione del loro principe possonoespropriare i mercanti o i contadini francesi, benché in~

nocenti. Perché, benché forse all'inizio la comunità po­litica di Francia o il principe dei Francesi non fosserocolpevoli, ormai lo sono, dato che, come dice Agostino,«omettono di punire i propri cittadini per ciò che han~

no fatto di male"" e il principe che ha subito il tortopuò prendersi soddisfazione da qualsiasi parte. Pertan­to, le lettere di corsa o di rappresaglia che in siffatle cir­costanze vengono concesse dai principi non sono com·pletameme ingiuste, perché, a causa della negligenza edell'ingiustizia di un altro principe, a chi ha subìto il toroto il suo principe concede di poter recuperare i suoi be~ni anche dagli innocenti. Ma sono pericolose, e dannooccasione a rapine.3. Terzo dubbio: dolo che non è lecilo UCCIdere ifonciul­li e gli innocentz~ se almeno sia lecito trarli in prigionia.

Su ciò, questa è la prima tesi: è lecito trarli in prigionia,01medesimo modoin cuiè lecilo espropriarli, poichéliberlàe prigionia sono da annoverarsi/ra i beniacaaentali.

Pertamo, quando la guerra è di tipo tale che è lecitoespropriare senza distinzione tutti i nemici e imposses~

sarsi di tutti i loro beni, è lecito anche trarre in prigio­nia tutti i nemici, colpevoli o innocenti che siano. E da­to che la guerra contro i pagani è appunto di tal fatta- poiché è perpetua, e i nemici non possono mai rende~re soddisfazione delle offese e dei danni procurati -, èquindi fuori di dubbio che sia leciro trarre in prigioniaanche i fanciulli e le donne dei Saraceni. Ma poichésembra che sia entrato nel diritto delle genti il principioche i Cristiani non riducono in servitù altri Cristiani,

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Christianos licet, si ita opus est ad fmem belli <captivosducere etiam innocemes, ur pueros et feminas, non qui·clero in servitutem, sed ur pro illorum redemptione pe·cunias recipiamus, licitum esser. Quod tamen exten­dendum non est ultra quam belli necessitas postulet;consuetudo legitirne belligerantium obtinuit>.

4. Quartum dubium est, utrum saltem obsides, qui veltempore indutiarum vel peracto bello ab hostibus rea­piuntur, interfici possint, si hostes fidem [regerint.

Respondetur per unicam conclusionem, quod si ab­sides alias sini de numero pula nocentium, qui tulerunlcontra arma, interfiei <iuTe> possunt in hoc casu. Si au­tem sini innocentes, ex supro dictis constai, quOti inter/i­ci non possunt. Non est dubitandum de hoc.

5. Quintum dubium est, an saltem in bello iusto liceatinterfieeTe omnes nocenles.

Pro responsione notandum, quod bellum geriturprimo ad defendendum nos et nostra, secundo ad recu­perandum res ablatas, tenio ad vindicandum iniuriamacceptam, quarto ad pacem et securitatem paranclam.

His suppositis sit prima propositio: In ipso actua"conflictu proelii vel in impugnatione vel de[ensione civi­tatis licet indifferenter inter/ieeTe omnes, qui contra pu­gnon!, et, brevi/eT, quamdiu res est in periculo.

Hoc patet, quia aliter bellum bene gerere non pos­sent be1lantes nisi tollendo ornnes in contrarium bel­lantes.

Sed totum dubium est, an habita iam scilicet victo-

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sembra lecito in una guerra fra Cristiani - se è necessa­rio ai fini della guerra - prendere prigionieri anche gliinnocenti. come i fanciulli e le donne; e non per farnedegli schiavi, ma perché possiamo acquisire denaro dalloro riscano. E questa pratica, tuttavia, non deve essereestesa al di là di ciò che è richiesto dalla necessità dellaguerra; lo ha sancito la consuetudine dei legittimi belli­geranti.4. TI quarto dubbio è se almeno gli ostaggi che il nemicoha invia/o, durante una tregua o a guerra terminata, pos­sano essere ucds~ nel caso che j nemid non mantenganola parola data.

Si risponde con una sola conclusione, che se gliostaggi provengono da un gruppo di colpevoli che, adesempio, in passato hanno imbracciato le armi: in tal ca­so possono a buon diritto essere ucdri. Ma se sono inntrcent~ da quanto si è detto poc'anzi emerge che non pos­sono essere ucasi. Su ciò non vi è dubbio.5. TI quinto dubbio è se a/meno, nella guerra giusta, sialecito uccidere tutti i colpevoli.

Per rispondere si deve notare che la guerra viene fat­(a in primo luogo per difendere noi e le nostre cose, insecondo luogo per recuperare le cose sottratte, in terzoluogo per punire l'offesa ricevuta, in quarto luogo perprocurare pace e sicurezza.

Sulla base di questi presupposti, la prima tesi è chedurante l'impeto del combattimento di una battaglia, odurante un assalto oppure una dIfesa di una città, è lecitouccidere indistintamente tutti i nemici combattentz: e, inbreve, che è lecito finché lo situazione è in pericolo.

Ciò è chiaro, perché i combattenti non potrebberocondurre bene la guerra in altro modo, se non toglien­do di mezzo tutti queUi che combattono contro di loro.

Ma il cuore del dubbio è se, ottenuta ormai la vitto-

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ria, utrum liceat interficere omnes hostes, qui arma tu­temnt, ubi iam nullum est periculum ab hostibus. Et vi­detur, quod sic. Naro, ut supra dictum est, inter prae­cepta, quae Dominus dedit Dt 20, unum est, quod estnotandum, quod expugnata civitate hostium interfice­rentur omnes habitatores illius. Haec sunt verba illius100: Quando aeeesseris ad pugnandam dvitatem, offeresei primum pacem. Si autem reeeperit et aperuit tibi por·tas, cunetus populus, qui in ea est, salvabitur et seroiet ti·bi sub tributo. Sin autem noluent et roepent rontra tebe//um, oppugnabis rontra il/am. Cumque tradiderit Do­minus Deu! tuus il/am in manu tua, percuties omne, quodin ea est generis masculini, in ore gladii absque mulieri·bus et infantibus.

Sed sit secunda propositio: Habita vietoria et rebusiam extra periculum positis licet inter/ieere nocentes.

Prohatur, quia non solum ordinatur ad recuperan­das res perditas, sed etiam ad vindicandum iniuriam.Ergo -pro iniuria praeterita- licet interficere auetoresmlUnae.

Item hoc licet in proprios cives malefacrores - ergoetiam in extraneos, quia, ut supra dictum est, belli prin­cipes iure belli auetoritatem habent in hostes sicut legi­timi principes et iudices.

Item, quia licet in praesentia non esset periculuro, ta­men in futururo securitas non haberetur.

Tertia propositio: Solum ad vindicandam iniuriamnon semper licet inter/ieere omnes noeentes.

Probatur, quia etiam inter cives non liceret, si etiamesset delictum totius civitatis, interficere omnesdelinquentes, nec in communi rebellione liceret

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ria, ~ia lecito uccidere tutti i nemici che hanno preso learmi, anche se dai nemici non proviene più alcun peri­colo. E sembra di sì. Infatti, come si è detto sopra, fra icomandi che il Signore ha dato (Dt 20,10-(4) ce n'è unoche d~~ essere notato, e cioè che, una volta espugnata~na citta neImca, se ne devono uccidere tutti gli abitan­ti. Queste sono le parole di quel passo: «Quando ti av­vicinerai a una cirtà per assalisla, proponile prima la pa­ce. Se l'accetta e ti apre le porte, tutto il popolo che laabita sia salvo, e ti sia tributario e soggetto. Ma se rifiu­ta la pace, e intraprende COntro di te una guerra, com­battila. E quando il Signore tuo Dio te la darà nelle ma­ni passa a fù di spada cutti i maschi che sono in essa, manon le donne e i bambini».

E questa è la seconda tesi: raggiunta la vittoria e mes­sa al sicuro la situazione, è ledto ucddere tutti i colpevoli.

Lo dimostra il fatto che la guerra ha come proprio fi­ne non solo recuperare le cose sottratte ma anche puni­re un'offesa. Quindi a causa dell'offesa passata è lecitoucciderne i responsabili.

Inoltre, è lecito agire così contro i propri concittadi.ni che hanno compiuto delitti; quindi, è lecito anchecontro gli estranei, poiché - come si è detto in prece­denza - i principi che fanno guerra hanno, per diritto diguerra, autorità sui nemici, come se ne fossero i princi­pi legittimi e i giudici.

Iofme, è lecito perché, nonostante sul momento nonvi sia pericolo, nondimeno in futuro non si avrebbe si­curezza.

Terza tesi: se Il fine è solo que//o di punire le offese,non sempre è ledto uccidere tutti i colpevoli.

Lo dimostra il fatto che anche fra i cittadini, se fos­se commesso un delitto da parte di un'intera città nonsarebbe lecito uccidere tutti coloro che se ne sono ~ac-

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perdere totum populum. Vnde et cum simili factoTheodosius ab Ambrosio -.- ab eccles.a est proh.bltus.Esset enim hoc contra publicum bonum, quod tamenest finis belli et pacis. Ergo etiam non licet occidere om­nes nocentes ex hostibus.

Oportet ergo habere rationem iniuriae ab hostibusacceptae et damni ilIati et aliorum delictorum et ex. hacconsideratione procedere ad vindictam amni 3trootate

et inhumanitate seclusa. In hoc enim proposito CiceroDe ojfidis air, quod animadverten~um est in obnox~'os~quantum aequi/ar et humanitos potlon/uf. Et S~~s~u~:Maiores, inquit, nostri religiosissimi mortaies nthtl VlctlS

eripiebant praeter iniuriae licentiam.

Quarta propositio: Aliquando licei el expedil inler/i­cere omnes nocentes.

Probatur, quia etiam bellum gcrirur ad pariend~pacem. Sed aliquando obtineri securitas non potest, s.non opprimancur omnes hosres. Et hoc .max1ID.e ~d~rurcontra infideles, a quibus numquam ullis condiclornbuspax spectari potest. Et ideo unicum remedium est om­nes tollere, qui contra arma ferre possunt. dummodoiam fuerint in culpa. Et ita intelligendum est praecep­tum ilIud DI 20, 13.

Alias autero in bello contra Christianos non puto,quod hoe sit licitum. Cum enim neeesse sit, u~ veniantscandala et bella inter principes (MI 18, 7), s. sempervietar interfieeret adversarios orones, esset magna per·nicies generis humani <et Christianae religionis et orbiscito in solitudinem redigerelUr nec bella pro bono pu-

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chiati, e che neppure nel caso di una ribellione di mas­sa è le~it~ distrugge.re un intero popolo. E quindi per unfatto simile TeodoslO fu allontanato, da Ambrogio, dal­la Chiesa. S. tratterebbe infatri di un comportamentocomrario al pubblico bene, che è invece il ftne dellaguerra e della pace. Quindi, neppure fra i nemici è leci­to uccidere tutti i colpevoli.

Pertanto si deve valutare la misura dell'offesa rice­vuta dai nemici, del danno arrecato e degli altri delittie da q.uesta vaJutazione si deve procedere alla punizio~ne, eVitandosi ogni atrocità e ogni disumanità. E infattia questo proposito Cicerone afferma, in De officiis (II,5), ehe «SI devono prendere misure eontro i colpevoli,per quanto lo consentano la giustizia e l'umanità». ESallustio dice: «1 nostri antenati, uomini piissimi, nonsottraevano ai vinti nulla se non la libertà di recare of.fesa»2.

~uarta tesi: in alcuni CIlsi è anche lecitol

e opportuno,ucadere lulli i colpevoli.

10.dimostra il fatto che la guerra è fatta perché nescarunsca la pace. Ma in certi casi la sicurezza non puòessere ottenuta se non attraverso l'eliminazione di ruttii nemici. Quesro sembra essere soprarrutto il caso dellaguerra contro gli infedeli, dai quali non ci si può maiaspettare una pace, a nessuna condizione. E penantol'unico rimedio è eliminare tutti quelli che possono por­tare le anrn, purché si siano macchiati di colpa. È cosìche deve essere interpretato il precetto di DI 20, 13.

Ma nd caso di una guerra fra Cristiani non credo checiò sia lecito. Poiché è infatti inevitabile che si produ­cano scandali e guerre fra i principi (MI 18, 7), se il vin­citore uccidesse sempre tutti gli avversari ciò sarebbem?lt.o dannoso per il genere umano e per la rdigioneCristiana, e presto tutto il mondo sarebbe ridotto a un

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blico, sed in publicam calamitatem perdite geteten­tur>. Oportet ergo, ut pro mensura delicti sit plagarummodus <nec ultra progrediacur vinclicta>.

In quo etiarn habenda est consideratio, quod, ut s~­

pra dictum est, subditi non tenentur oec debent eX~l·nare causas belli, sed possunt sequi principem suum '?bellum, contenti auctorirate principis et publici ~onsl.

ili. Unde pro maiore parte, licet ex altera parte Sll beI­lum iniustUffi, tamen milires, qui veniunr ad belIum etpugnant aut defendunt civit3tes, ex utraque pane ~unt

mnocentes. Unde cum iam vieti sunt et non est pencu­lum ab iIlis, credo, quod non licet ilIos interficere, neeunum quidem ex illis, si praesumitur, quod bona fidevenerunt in proelium.

6. Sextum dubium est, an liceat interficere captivos sup­posi/o eliam, quod/uerint nocenles.

Responderur, quod per se loquendo nihil obstat,quin dediti aut captivi in bello iusto, si fuerinr noc~t~,internci possinr - servata [amen aequitate. Sed qwa mbello multa iuce gentium constituta sunt, viderur recep­rum consuetudine, ur captivi habita victoria et periculotranseunte non inrerociantur, nisi forte sioe profugae.Et servandum est istud ius gentium eo modo, quo interbonus viros servatum est. De deditis autem non legooec audio talem consuerudinem. <lmmo in deditioni·bus arcium civitarum solent, qui se dederunt, cavere si­bi condicionibus, ur salva sint capita et salvi mittantur,

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deserto; e le guerre risulterebbero non condotte per ilpubblico bene ma, rovinosamente, per la pubblica ca­lamità. Occorre dunque che <d'entità delJe pene siacommisurata alla colpa» (Dt 25, 2), e che la vendettanon si spinga oltre.

A questo riguardo si deve inoltre considerare che- come si è detto prima - i sudditi non hanno né il do­vere né il diritto di giudicare le cause delJa guerra, mapossono seguire iliaco principe alla guerra, acconten­tandosi delJ'autorità sua e del consiglio pubblico. Quin­di, anche se la guerra di una delJe due parti è ingiusta,nondimeno i soldati che vengono alla guerra e combat­tono, o che difendono le città, sono per la maggioranzainnocenti dall'una e dall'altra parte. E quindi, quandosono vinti e non sono più fonte di pericolo, credo chenon possano essere uccisi, neppure uno solo, se si pre­sume che siano scesi in battaglia in buona fede.6. Sesto dubbio: se sia lecito uccidere i prigionieri, nell'i­potesi che siano stati colpevoli

Si risponde che, a rigore, nulla osta a che coloro chesi sono arresi o sono stati fatti prigionieri in una guerragiusta, vengano uccisi, purché siano stati colpevoli, efatta salva la giustizia. Ma poiché in guerra molte rego­le sono istituite per diritto delle genti, sembra ormai ac­colto come consuetudine che i prigionieri, una volta chesia stata conseguita la vittoria e sia passato il pericolo,non vengano uccisi, tranne che non siano dei rinnegati.E questa regola del clisitto delle genti deve essere ri­spettata, come tradizione consolidata fra persone civili.Ma per coloro che si sono arresi non leggo né sento chesia in uso una tale consuetudine. Anzi, nelle rese dellefottezze delJe città coloro che si arrendono sono solititutelarsi ponendo condizioni, cioè che sia loro rispar­miata la vita e vengano lasciati andare salvi, evidente-

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scilicet veriti, ne si simpliciter et nullis condicionibusdedantur, interficiantut. Et hoc a1iquoties factum legi.muso Unde non videtur iniquum, ut si oppidum nihil ca·vendo dedatur, mandato principis aut iudicis a1iqui, quifuerunt nocentiores, occidantur.>

7. Sequitut septimum dubium, ulrum omnia capla inbello/ianl capienlium eloccupanlium.

Ad hoc sit prima propositio: Non esi dubilandum,quin amnia capta in bello iusta usque ad sulficientem sa·tisfactionem rerum ablatarum per iniuriam et etiam im­pensarum belli/ianl occupanlium.

Nec indiget probatione ista conclusio, quia ilIe est fi·nis belli. Sed seclusa consideratione restitutionis standoin solo iure belli distinguendum est-o Nam- capta inbello aut sunt mobilia, ut pecuniae, vestes, aurum, autimmobilia, ut agri, oppida, arces etc.

Quo supposito sit secunda propositio: Mobilia qui·dem iure gentium omnia fiunt occupantium. eliam si ex­cedant compensationem damnorum.

Hoc patet ex lege Si quid bello et lege Hosles ff., Decaptivis, et capitulo lus gentium, d.l, et expressius Inst.•De rerum divisione, S /Iem ea, quae ab hoslibus, ubi di·citur, quod iure gentium quae ab hostibus capiuntur,statim nostra fium, adeo ut etiam liberi homines in no­stram servitutem deducantur. Et Ambrosius l. De pa­triarchis dicit, cum Abraham occidit qumtuor reges(Cen 14), praedam quidem fuisse Abrahae victoris,quamquam recusaverit accipere. Et habetur 24, q. 5, C.

Dical.

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mente temendo, se si arrendono semplicemente e senzaconclizioni, di venire uccisi. E leggiamo che qualche vol­ta ciò è avvenuto. Pertanto non sembra ingiusto che, seuna città fortificata si arrende senza condizioni, alcuni,che siano stati più colpevoli, vengano uccisi per ordinedel principe o di un giudice.7. Settimo dubbio: se lulle le cose prese in guerra divenogano proprielà di coloro che le prendono e le delengono.

Su ciò questa è la prima tesi: non vi è dubbio che lui·to quanto viene preso in una gue"a giusta. fino al pienoammontare del valore delle cose sottratte ingiustamente.e anche delle spese di guerra, divenga proprielà di chi ledetiene.

Questa conclusione non ha bisogno di dimostrazio­ne, poiché è questo il fine della guerra. Tuttavia, unavolta esdusa la restituzione, restando strettamente al di­ritto di guerra si deve distinguere. Infatti le prede diguerra sono o beni mobili (come il denaro, i vestiti, l'o·ro) o beni immobili (campi, città fortificate, fortezze).

Ciò premesso, questa è la seconda tesi: secondo il di·rillo delle genli lulli i beni mobili divengono propnelàdegli occupanli, anche se eccedono l'ammonlare dei dan·ni di guerra.

Ciò è evidente dalla legge Si quid bello e dalla leggeHosles, de caplivis' e dal capitolo lus Cenlium, primadistinzione', e più espressamente dalle /nsliluliones (Dererum divisione, S /Iem ea quae ab hoslibus)', dove si di·ce che secondo il diritto delle genti ciò che prendiamoal nemico diviene subiw nostro, tanto che perfmo gliuomini liberi diventano nostri schiavi. E Ambrogio inDe Palriarchi!" dice, quando Abramo uccise quattro re(Cen 14), che il bottino era di Abramo in quanto vinci·tore, benché egli abbia rifiutato di prenderlo (anche inDecrelum Craliani 1123, 5, 25: capitolo Dical).

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E[ confirma[ur auc[ori[a[e Domini Dt 2D, 14, ubi decivitate expugnanda dieit: Omnem praedam exercitui di­vides et comedes de spoliis hoslium luorum.' Hanc sen­tentiam tener Adrianus in quaestionibus De restitutione(q. speciali De bel/o) e[ Silves[er (in v. bel/um, S l e' 9),uhi dicit, quod qui iuste pugnavit, non tenetur restitue­re praedam. Er haberur 24, q. 2, c. <Si de rebus. Ex quoinfert, quod capta in bello iusto non compensantur eumdebilo principali, ullenel eliam archidiaconus 23, q. 2>,c. Dominus nosler. l,a [ene[ Bartolw in dicta lege Siquidin bello. Et hoc intelligetur, etiam si hostis sit paratus sa­tisfacere de damno et iniuria. Quod tamen limitat Sil­vester, et bene, quousque domini aequitati sit sufficien­(er satisfactum de damno et iniuriis. 00 enim est in·telligendum, quod si Galli destruerent unum pagum autignobile oppidum Hispanorum, quod licet Hispanis,etiam si possint, praedari [o[am Galliam, sed pro modoet quantitate iniuriae.

Sed ex hac de[erminatione sequirur dubium, an li­ceal permittere mi/itibus dvitatcm in praedam.

Responderur et si, [ertia propositio: Hoc de per se nonesI il/icilum, sinecessarium esi ad bel/um gerendum veladdelerrendos hosles vel ad accendendum mililum animoso

Ira dici[ Silvester (S lO). Sicut etiam lice[ incenderecivitatem ex rationabili causa. Sed quia ex huiusmodipermissionibus sequuntur multa saeva et crudelia malapraeter omnem humanitatem. quae a barbaris in militi·bus committuntur - innocentium caedes et cruciatus,virginum raptus, matronarum srupra, templorum spo-

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Lo conferma anche l'autorità dd Signore (DI 2D,14), là dove Egli dice, sulle città da espugnare: «distri­buisci la preda fra il tuo esercito, e cibati dd bottino deituoi nemici». Ques[O è il parere di Adriano nelle que­stioni De reslilulione (questione speciale De bel/o)7 e diSilves[ro (voce bel/um SS l e 9), là dove dice che chi hacombattuto una guerra giusta non è tenmo a restituireil bottino. Anche il Decrelum Craliani (ll 23, 7, 2: Si derebus) sostiene che <<le prede di una guerra giusta nonrientrano nd computo principale delle riparazioni diguerra», com'è anche opinione dell'Arcidiacono (23,2,2: Dominus nosler)·. È questa anche la posizione di Bar­tolo, nd commento alla citata legge Si quid in bello'. Eciò deve intendersi anche se il nemico è disposto a ri­parare i danni e le offese. Tuttavia Silvestro pone, ara·gione, un limite, che cioè il signore offeso non vada ol­tre un'equa soddisfazione, sufficiente a ripagarlo dddanno e delle offese. on è infatti da intendersi che,nell'ipotesi che i Francesi disttuggano un solo borgo ouna miserabile città fortifica'a in Spagna, sia lecito agliSpagnoli, anche se lo potessero, saccheggiare tutta laFrancia; ma deve esserci proporzione rispeno alla mi­sura e all'entità dell'offesa.

Da questa precisazione deriva un dubbio, se sia lea··lo abbandonare una cillà al saccheggio dei soldoIi.

Si risponde con questa terza tesi: dò di per sé non èillecito, se è necessario a condurre la gue"a o a spaventa­re i nemici o ad infiammare gli animi dei soldati.

Così sostiene Silvestro (S ID). E allo stesso modo èlecito incendiare la città, se ve ne è un motivo ragione­vole. Ma poiché da simili concessioni derivano - com­messi da soldati simili a barbari - molti mali atroci e cru­deli al di là di ogni umanità, come stragi e torture di in·nocenti, ratti di vergini, stupri di donne, spoliazione di

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lia -, ideo sine dubio sine magna necessitate et causamaxime civiratem Christianarn perdere iniquum est.Sed si ita necessitas poscit, non est illicitum, etiam sicredibile sir, quod milites aliqua huiusmodi debent per­petrare, quae tamen duces prohibere tenentur.

Quarta conclusio: His omnibus non obstantibus nonlicet militibus sine auctontate pnndpis aut duds praedasagere aut incendia lacere, quia ipsi non sunt iudices, sedexecutores, et alias tenentur ad satisfactionem et restitu­tionem.

Sed de bonis et rebus immobilibus est maior diffi­cultas. Sed sit quinta propositio: Non est dubium, quinliceat occupare et tenere ogrum et arces et quantum ne­cessorium est ad compensationem damnorum. <Puta sihostes diruerint arcem nostram incenderunt civitatem, ,siJvas aut vineas aut oliveta, licebit occupare vicissimagrum hostium aut arcem aut oppiclum et tenere. Sienim licet capere compensacionem ab hostibus pro re­bus ablatis,> certum est, quod iure divino aut naturalinon plus licet hanc dispensationem accipere ex rebusmobilibus quam immobilibus.

Sexta conclusio: Etiam ad paranJam securitatem etvitandum periculum ab hostibus licet occupare aut tene­re arcem aliquam aut dvitatem bostium necessariam adde/ensionem nostram <aut ad tol/endam hostibus occa­sionem, unde possint nocere>.

eptima conclusio: Etiom pro iniuria i/iota et nomi·ne poenae, id est in vindictam, licet pro qualitate iniurioeacceptoe multare bostes parte agri aut etiam bac rationeoccupare arcem aliquando aut oppidum.

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Chiese, senza dubbio è ingiusto distruggere una città,soprattutto cristiana, senza una grave causa che lo ren­da necessario. Ma se lo richiede la necessità non è ille­cito, anche se è probabile che i soldati commetterannoalcuni atti di quel tipo, che i comandanti, però, sono ob­bligati a proibire.

Quana conclusione: nonostante tutto dò, non è led­to ai soldati saccheggiare o incendiare senza autoriu.a1i~

ne del principe o del comandante; in/atti essi non sonogiudici ma esecutori. In caso contrano sono tenuti a/la n'­parazione e alla restituzione.

Ma per i beni e le cose immobili la difficoltà è mag­giore. Tuttavia, al riguardo la quinta tesi è: non vi è dub­hio che è lecito impadronirsi durevolmente di terre e /or­tezze, e di quanto è necessario a compensare i danni. Adesempio, se i nemici hanno distrutto una nostra fortez­za, hanno incendiato una città, boschi, vigne, oliveti,sarà lecito impadronirci, a nostra volta, di un territoriodei nemici, o di una fortezza, o di una città fortificata, eteneru. Se infauj è lecito prendersi una riparazionecompensatoria dai nemici per le cose che ci hanno por­tato via, ecerto che secondo il diritto divino o naturalequesta riparazione non deve awenire in misura mag­giore dai beni mobili che da quelli immobili.

Sesta conclusione: per garantire la sicurezza e per evi·tare pericoli dai nemici è ledto impadronirsi durevolmen­te di qualche/ort= o àttà dei nemici, necessarie alla no­stra d,fesa o a togliere ai nemici occasioni per nuocere.

Settima conclusione: ugualmente - per le offese a"e­cote, e a titolo di pena, ossia di castigo - è lecito sanzio­nare i nemiCl~ secondo la qualità del torto che ci bannofatto, privandoli di una parte del loro temiorio, o, per lamedesima ragione, in certe circostanze anche impadro­nirsi di una /ort= o di una àttà fortificata.

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Sed hoc debet fieri cum moderamine, et non quan­rum arma possunt. Et si necessitas et ratio belli postu­let, ur maior pars agri hostium occuperur aut quod plu­res civir3res capiantur. oponet, ur compositis rebus etperaero bello restiruantur tantum retinendo. quanrumsit iustum pro impensatione damnorum et impensarumct pro vindieta iniuriae - servat3 3Ulem bumanit3re etaequitatc, quia poena debet esse proportionara cwpae.Et iotolerabile esset, quod si Galli agerent praedam inpecora Hispanorum ve! incenderent pagurn unum,quod licear occupare torum regnum Francorum.

Quod autem hoc titulo liceat occupare aut partemagri aut aliquam civir3rem hostium, parer ex ilio Deute­ronomii, uhi datur licentia in bello occupandi civitarem,quae pacem recipere noluerit (Dt 20,10-12).

Item. quia malefactores nostros licer punire hoc mo­do, puta privando illos aut aree aut domo pro rei quali­tate - ergo etiam extraneos.

ltem superior princeps et iudex legitimus posscrcommode multare auctorem iniuriae toUendo civitatemaut arcem ab 00. Ergo etiam princeps, qui laesus est,hoc poterit, quia iure belli factus est tanquam iudex.

Ttem, quia imperium Romanum hoc modo et tituloauctum et amplificatum est, occupando scilieet iure bel·Li civitates et provincias hostium, a quibus iniuriam ac­ceperant. Et tamen imperium Romanorum tanquam iu­stum er legitimum defenditur ab Augustino, Hierony-

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Ma ciò deve avvenire con moderazione, e non sullabase di quanto è consentito dalla potenza militare. E sele necessità e le ragioni della guerra richiedono che siapresa una parte maggiore del territorio dei nemici, o unmaggior numero di città, è necessario, una volta che la si­tuazione si sia calmata e la guerra sia finita, che venganorestituite, e che venga trattenuto soltanto ciò che è giu­sto al fine di riparare i danni e le spese, e di punire l'offe­sa - in ogni caso sulla base di principi di umanità e di giu­stizia, poiché la pena deve essere proporzionata alla col·pa. E sarebbe intollerabile, se i Francesi predassero ar­menti spagnoli o se incendiassero un solo villaggio, chefosse lecito impadronirsi di tutto il regno di Francia.

Ma che a questo titolo sia lecito impadronirsi o diuna parte di territorio o di una qualche città dei nemiciè chiaro da quel luogo del Deuteronomio in cui si dà ilpermesso, durante una guerra, di impadronirsi di unacirtà che non ha voluto accertare le offerte di pace (Dt20, 10-12).

Allo stesso modo, è lecito punire così chi agisce ma­le all'interno di una comunità politica, ad esempio pri­vandalo di una fortezza o della casa, secondo la qualitàpersonale del reo. E quindi è lecito punire anche chi staall'esterno.

Inoltre, un principedi rango superiore e un giudice le­gittimo potrebbero tranquillamente sanzionare il re­sponsabile di un'offesa, privandolo di una cirtà o di unafortezza. Pertanto, anche il principe offeso lo potrà, poi­ché per diritto di guerra egli è diventaro come un giudice.

Infine, l'Impero romano fu aumentato e ingranditoin questo modo e a questo titolo, cioè con l'occupazio­ne per diritto di guerra delle cirtà e delle province deinemici dai quali Roma era stata offesa. E tuttavia l'Im­pero romano è difeso, come giusto e legittimo, da Ago-

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mo, Ambrosia et sancto Thoma et ab aliis sanctis doc­roribus.

Immo posset videri approbatum a Domino ae re­demptore nostto Iesu Cbristo in ilio loeo: Reddile ergo,quae sunt Coesaris, Coesari erc., et -a- Paulo, qui Cae­sarem appellavit (Acl 25, IO-Il). Admonet nos potesta­tibus sublimioribus subditos esse et principibus subdi­tos esse et tributa persolvere illis (Rom 13, 1,7). Quiomnes eo tempore habebant aucroritatem ab imperioRomano.8. Octavum dubium esr, utrum liceat imponere vict/I ho­slibus Iribula.

Respondetur, quod sine dubio liceI, non solum adcompensandum damna, sed etiam -ratione- poenae etin vindictam. Haec satis patet ex supradictis et ex ilioDeuteronomii (20,10-11) <,ubi dicit, quod postquamex iusta causa accesserint ad expugnandum civitatem, sir~~perint eos et aperuerinr portas, cunctus popuIus,qUi m ea est, salvabitur et serviet illis sub tributo. Et hocius et usus belli obtinuit.> Non est dubium.

9. onum dubium est, an liceal deponere principes ho­stium et novos constituere vel sibi retinere prinàpatum.

Ad hoc sit prima propositio: Hoc non passim et exquacumque causa belli iUSIi licei facere.

Haec patet ex dictis. Nam poena non debet exce­dere quantitarem iniuriae, immo poenae sunt restrin­gendae et favores ampliandi. Quae non solurn est re­gula iuris humani, sed etiam naturalis et divini. Ergodato, quod iniuria iliata ab hostibus sit sufficiens cau­sa belli, non semper erit sufficiens ad exterminationemstatus hostiJis et ad depositionem legitimorum et natti-

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stino, Girolamo, Ambrogio e san Tommaso, e da altrisanti dottori.

Anzi, può sembrare che lo stesso nostro Signore eRedentore, Gesù Crislo, lo approvi, là dove dice: «re­stituite dunque a Cesare ciò che è di Cesare» (M122, 21;Le 20,25), ecc.; e Paolo, che si è appellato a Cesare (Acl25, 10-11; Rom 13, l e 7), ci ammonisce di essere sono­messi ai poreri supremi, e ai principi, e di pagare loro itributi. Tutti questi poteri, a quei tempi, traevano la lo­ro validità dall'autorità dell'Impero romano.8. L'ottavo dubbio è: se sia lecito imporre tnbuti ai ne­mici vinti.

Si risponde che senza dubbio è lecito, non solo a ri­parazione dei danni, ma anche a titolo di pena, e per pu­nizione. È chiaro abbastanza da ciò che si è detto in pre­cedenza, e da quel passo del Deuleronomio (20, 10-11)che dice che, quando gli Ebrei si avviano verso una cittàa espugnarla per giusta causa, se vengono accolti e se siaprono loro le porte tutto il popolo della città verrà ri­spanniato, e sarà servo degli Ebrei come tributario. Eciò è divenuto dirino di guerra, e consuetudine. Su que­sto non vi è dubbio.9. il nono dubbio è se sia lecito depo"e i principi dei ne­mia: e costituirne di nuov/~ o annettersi il pn·ndpato.

Su ciò la prima tesi è che non è lecito farlo comune­mente, né per qualsivoglia causa di gue"a giusta.

Ciò risulta evidente da quanto si è detto. Infatti lapena non deve eccedere la grandezza dell'offesa; e anzile pene vanno diminuite, e le clausole di favore vannoampliate. E questa è una regola non solo del dirittoumano ma anche del diritto naturale e divino. Quindi,posto che l'offesa arrecata dai nemici sia causa suffi­ciente di guerra, non sempre sarà sufficiente perchévenga annientato lo Stato nemico e perché vengano de-

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ralium principum. Hoc enim esset prorsus saevum etinhumanum.

Secunda conciusio: Non est negandum, quin ali­quando contingant legitimae causae vel ad mUlandumprincipatum vel ad mutandos principes, et hoc multitudi­ne et atrocitate damnorum et iniuriarum, vel maximequando aliter securitas el pax ab hostibus obtineri non po­test et immineret grande pen·culum rei publicae, nisi hocfieret.

Hoc patct. Si cnim licet occupare civitatem ex cau­sa, ut dictum est, ergo occupare civitatem et tollereprincipem. <Et eadem est ratio de provincia et princi­pe provinciae, si causa maior contingat.>

Sed notandum circa septimum et octavum dubium,quod aliquando, immo et frequenter non salurn princi­pes ipsi, sed etiam subditi, qui revera non habent cau­sam iustam, tamen bona fide gerunt bellum, ita, in­quam, bona fide, quod excusantur ab amni culpa, putacum facta mediocri examinatione ex sententia et consi·Lo sapientium geratur bellum. Et cum nemo debeat si­ne culpa punici, in tali casu, quarnvis liceat victori recu~

perare res ablatas et forte impensam belli, tamen sicutnon Lcet parta victoria quemcumque interficere, ita neciniustam satisfactionem accipere nec exigere in rebustemporalibus, quia ornnia talia fieri non possunt nisi no­mine poenae, quae in innocentes cadere non debet, utrnanifestum est.

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posti i principi legittimi e naturali. Questo sarebbe in­fatti del tutto crudele e disumano.

Seconda conclusione: non si può negare che in alcu­ne circostanz.e si diano cause legittime per un cambio diregime politico, o per una sostituzione dei principt~· e ciòa causa della quantità e dell'atrocità dei danni e delle oJfese arrecate, o soprattutto quando non vi è altro modoper ottenere dai nemici sicurezza e pace, e quando la co­munità politica andrebbe incontro a un grande e immi­nente pericolo se ciò non avvenisse.

Ciò è chiaro. Se infatti è lecito impadronirsi di una cittàper una causa, come si è detto, è lecito anche impadronir­si di una città e eliminare il principe. E per la stessa ragio­ne è lecito farlo per una provincia, e per il principe dellaprovincia, se si presenta una causa di maggiore rilievo.

Ma intorno ai dubbi settimo e ottavo si deve notareche talvolta, e anzi spesso, non soltanto gli stessi princi­pi - ma anche i sudditi - che in verità non hanno una giu­sta causa, tuttavia fanno la guerra in buona fede; con unabuona fede tale, dico, da essere esenti da ogni colpa, co­me ad esempio quando la guerra viene fatta dopo un di­screto esame delle circostanze, dopo aver sentito il pare­re e il consiglio dei saggi. E poiché nessuno deve esserepunito senza avere commesso una colpa, in tal caso- seb­bene sia lecito al vincitore riprendersi le cose sottratte e,eventualmente, farsi rifondere le spese di guerra - comenon è lecito una volta ottenuta la vittoria uccidere qual­sivoglia persona, così non lo è neppure pretendere e esi­gere un'ingiusta riparazione in beni materiali; tali cose,infatti, possono essere fatte solo a titolo di punizione, equesta non deve colpire chi è innocente, com'è evidente.

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Conclusiones

Ex his omnibus possunt componi pauci canones et re­gulae belligerandi.

Primus est: Supposito, quodprincipes habent auctonla­tem gerendibellum, primum omnium debent non quaerereoccasiones et C/lusas bell,: seti. si/ien' polest, cum omnihuscupumt pacem habere, ut Paulus praecepit Rom 12, 18.

Debet autem recagitare. quod alli sunt proximi,quos tenemur diiigere sicut nos ipsos, et quod habemusnos omnes unum communem Dorninurn, ante cuius tri­bunal debemus reddere rationem omnes nos de actibusnostris. Est enim ultimae immanitatis eausas quaerere etgaudere, quod sint ad interficiendum et persequendumhomines, quos Deus creavi t et pro quihus Christus mor­tuus est. Sed coactum et inviturn venire oportet ad ne­cessitatem beIJi.

Secundus canon: Con/lato iam ex iustis causis belloaporlel illud gerere non ad perniciem gen/is~ contra quam

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Conclusioni

Da rutto ciò possono venire derivate alcune poche nor·me, o regole di guerra.

La prima è: dato che i principi hanno l'autorità difare la gue"o, in primo luogo non devono cercare occa·sioni e cause di gue"o, ma «se è possibile. desiderinostare in pace con tutti», come insegna Paolo (Rom 12,18).

Si deve inoltre considerare che gli altri sono il pros·simo, che siamo tenuti ad «amare come noi stessi». eche tutti abbiamo un solo comune Signore davanti alcui tribunale siamo tutti obbligati a rendere ragione dd­le nostre azioni. È infatti manifestazione di estrema bas­barie cercare motivi - e goderne - per uccidere e per·seguitare gli uomini, che Dio ha creato e per i quali Cri­sto è morto. Al contrario, è necessario che un principegiunga alla guerra messo alle strette e suo malgrado, co­me a una necessità.

Seconda norma: quando ormai è scoppiata una guer­ra per giuste cause, è necessario condurla con la finalitànon tanto di danneggiare il popolo contro cui si deve com-

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be/londum est, sed od consecutionem iun"s sui et defen­sionem patrioe, ut ex ilio bello pax a/iquando et securitasconsequatur.

Tenius canon: Parta vietOrta et completo bello opor­tet moderate et modestia Christiana victoria uti. Et opor·tet vietorem existimare se iudicem sedere inter duas respub/icas: alteram, quae loesa est, alteram, quae iniuriamfecit, ut l10n tanquam accusator sententiam ferat, sed tan­quam iudex satis/acial quidem faesae, seti, quanlum /ieripoterit, sine calamitate rei publicoe nocentis, et maximel

quza ut in plurimum, praecipue inter Christianos, totoculpa est penes principes. Nam subditi bona fide pro prin­cipibus pugnant. <Et est periniquum, quod poeta ah:

Ut quicquid delirant reges, plectantur Achivi>

Et sic tota haec disputatio, quam de Indis suscepi­mus disputandam, finita est ad laudem Dei et proximo­rum utilitatem.

Explicit relectio secunda de Indis reverendi admo­duro patris fratris Francisci de Vitoria magistri eruditis­simi, quam habuit Salamanucae anno Domini 1539, 19die Iunii, ad laudem omnipotenris Dei et beatissimaevirginis Mariae matris eius et ad eruclitionem proximo­rum nostrorUffi.

Fr. Ioannes de Heredia

100

ballere ma di conseguire il proprio dirillo e di difenderelo. propria patria, così che da quella guerra st' ottenganouna buona volta pace e sicureUJl.

Terza norma: ottenuta lo vittorta e portata a terminela guerra, è necessario approfittare dello vittoria con ma·derazione e con cristiana modestia. Ed è necessario che ilvincitore concepisca se stesso come un giudice che siedefra le due comunità polItiche -l'una, che subll'offesa el'altra, che la fece -) non perché giunga a emanare unasentenza come accusatore sl perché come giudice dia, cer­to, soddisfazione alla parte lesa ma, per quanto sarà pos­sihile, col minimo di danno della comunità politica col­pevole, soprallullo dato che nelw maggior parte dei casifra i Cristiani tulla Wresponsabilità èdei principi. In/at­ti i sudditi comballono in buona fede per i principi. Èquindi molto ingiusto ciò che dice il poeta,

«che di ogni follia dei re subiscano le conseguenzegli Achei»'.

E così è conclusa tutta questa trattazione sugli In­diani, che abbiamo intrapreso per discuterla, in lode diDio e per utilità del prossimo.

Termina la seconda dissertazione sugli Indiani delmolto reverendo Padre fr. Francisco de Vitoria, Mae­stro dottissimo, che egli tenne in Salamanca l'anno delSignore 1539, il 19 giugno, in lode di Dio onnipotentee della beatissima Vergine Maria, Sua Madre, e ad am­maestramento del nostro prossimo.

fr. Giovanni di Heredia

101

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Note

Premessa

J La Re/ectio durava circa due ore.

Prima questione

I M. Lmero, Resolufiones disputationu11l de indulgentiarum virlu­le (1518), Weimarer Ausgabe. 1883, voI. l, p. 535.

2 Terrulliano, De corona, cap. Il (PL 2, coli. 91-92).J I lesti di Agostino sono, rispettivamente: Contra Faustu," Mani­

chaeum, libro XXll. cap. 75 (PL 42, col. 448); De diversiI quaestioni­bus LXXXIII, quaest. 31 (PL 40, coli. 20-21); De ve,bis Domini (ogginoto come Senno 82), cap. 19 (PL 39, colI. 1904-1905); Contra Fau­sIu11I Moltich. XXII, cap. 74 (PL 42, col. 447); Ad Marce//inum (Epi·st. 138), cap. 2 (PL 33, coU. 531·5J2); Epistola ad &ni/acium (Epist.IB9; PL33, col. B55).

~ Ad Marcellinum, di., coLI. 531·5J2., Agostino, Quaestiones in Heptoteucum, libro VI, lO (PL 34, colI.

780-781); Deeretum Cro/iorri, 23, 2, 2.(, Epist. ad Sonl/aàunI, cit., col. 856.

Seconda questione

I Antoninus Florentinus, Summa Sacrae Theologiae, II. 7, 8, S l"2 icolaus de Tudcschis, Ccmmentaria Pn"mae Partis in Secundum

Decreta/ium ubrum, 17 (commento a Decreta/esGregoriiIX, n,l3, J2).} Banolo di Sassoferrato, In secundam Digesti Novi partem, com­

menti a Dig. 48, 19, l; a Dig. 48.8,9; a Dig. 47. IO, 15.

IOJ

Page 83: De Vitoria - De Iure Belli

4 D«re/. Gregorii IX, Il, 13, 12; Uht'r JeX/Ul D~cre/altum,V, Il,6., Sul posto, sul momento.

Terza questione

l lsidoro, Etymologiarum llve On'gznum libn' XX, Il, IO e V,21(PL 82 col. IJ1 e col. 20J).

2 Agostino, Qua~j/, zn f-l~p/a/eucum, cit., col. 781.

Quarta questione. [ parte

l Terttlzio, Eunuchus, TV, scena VU, v. 789.2 La prima dtaz. è da Dis/icha Ca/onis: brtws s~n/~n/ùl~, 49; la se­

conda è da Dtg. 2, 2 (rubrica).I Le prime citu. sono da lJ«re/aks Gregom IX, V, 39, 44 c: IV, 21,

2; la seconda è da Adriano V1, QU4~j/lOn~s Juodmm quod/ilN/iC4~

(1522).2.• Silvestro Prierio, Summa summarum (1518) l, ad IJQ«m., Agostino, Con/ra Faus/um Maltich. cil., col. 448.

Quarta questione. 11 parte

l Agostino, Quo~s/. In H~p/a/nlCUm,cit., coU. 720-721.2 Sallustio. Coniura/io CA/ilina~, 12,3-4.J Dig., 49, 15,28 e Dtg. 49,1.5,24.4 Dea. Gral I, 1,9.'Ins/l/u/tones2, I, 17.6 Ambrogio, De Abraham. I, 3 (PL 14, col. 427).7 Adriano VI, Quot!S/iones in IVSen/en/i4rum De sacramentoP«­

ttI/en/i4e: de res/l/u/tQn~.

8 Guido da Baisio, Rosan"um, Ieu in Decre/Qrum vo/umen u,m­men/an"a (1508), in commento a Dea: Gra/. il 23. 7,2.

.. 83nolo di Sassoferrato, In secundam Diges/i Novi parlem, dl.,commento a Dlg. 49, 15,28.

Conclusioni

I Orazio, Epir/ukte, I, 2, 14.

Indici

Page 84: De Vitoria - De Iure Belli

Indice dei nomi'

Abril, v., Xn, LVII-LVUI.

Accursio, x.Adriano VI,55,57,89, 104.Agostino da Ancona, x.Agostino d'lppona, xxv, 9, 11,

13,21,31,57,77,93,95,103­104.

Alessandro VI, VIII.

Allhusio,J., VIII.

Ambrogio, 83, 87,95. 104.Antoninus Florentinus, 17. 103.Arcos, M., XIV.

Aristotele, VIII-IX, XXIV, 21, 29, 43.Armachanus, XXI.

Atahualpa, XIV.

Baccelli, L.. Xlxn.Baciere, c., xn. LVII-LVIII.

Bacone, E, xxx.Balclini, A.E., XXUn.

Barbier, M., LVIJl.

Barda Trelles, c., xxx, XXXln.

Banolo di Sassoferrato, x, XXV,

19,89,103-104.Bartolomeo de Medina, VIl.

Bate.].P., LVII.

Be.Uannino, R., XVIII.Beltrlin de Heredfa, v., VTIn, XXXI.

Bernardo di Chiarovalle, IX e n,XXVI co.

Berti, E" XlXn.Biolo, S., xlxn.Bolgiani, E, XIxn.Bonifacio l, 9.Boyer,J.. LVII.

Caetani, T. de Via, XIV.Calvino, G., XXII.

Cano, M., VII.Carlo V d'Asburgo, X-XI, XVI,

XVIII, xx.Carranza, B., VII.

Carro, v.. XXVlln.

Cicerone, 83.Clemente VII, xx.

* Non sono indicizzati Francisco de Vitoria, per la frequenza concui ricorre nel lesto, né i personaggi biblici. Le pagine qui indicate siriferiscono al testo della lraduzione italiana.

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Page 85: De Vitoria - De Iure Belli

Conring, 1-1., xxx.Costantino I il Grande, 15.Crockaen, P. (Perrus de Brussd-

lis), VU.

Deckers, D., XXXVllln.Dt: Giovanni, B., XXXVln.

Erasmo da Ronerdam, Vil e n.

Ferdinando II il Cauoliro, xv.Ferrajoli, L., XIlIn, Xl\'n.Ferrone, V., XI.xn, xxn.Francesco l di Valois, xx.

Gaio,xxvu.Galli, C, xxxvnn, XLvnn.Garcia, A., XO, LVII-LVW.

Genrili, A., xxxvr, XXX\11 e n.Getino, L.G.A, XXXl, LVIll.

Giacomo l, x.Giacon, C, XXXJ e n.Giovanni da Legnano, xxv.Giovanni di Heredia, tOI.Girolamo, 95.Gliozzi, G., XVlln.

Grozio, V., VIII, XViU, XXV"" xxx,XXXIV, XXXVi.

Guido da Baisio, 89, 10..t,

Had.rossek, P., XXX, XXXln.

Ila8Renmacher, P., XIVTl.

Hecke, G. van, XXXln ..Hobbes, Th., XII, XVII, XLVI, L.

Hofmann, i I.. , XXXlXn.

Ilol'Sl, V .. , vn, VIn, LVIll-UX.

lannaronc, RA, XlVn ..

Ignatieff, M., 1.I11n.

lsidoro di Siviglja, 29, 104.

jUnger, E., xxxvn.Juslenhoven, H.-G., VIn, XXVn,

LVllI·L1X.

Kant, L, XXXVI, XLIX-L.

KeUy,j ..M.. XXVlIn.

KoseUeck, R., XXXVIln ..

Lamacchia, A, Vn, xvn, XVo,

XIXn, XXVlIln.

Landucci, S., xvlin ..Las Casas, B. de, XVI, XVlln.Lawrance,j., L\1I1n ..

Legazy LacambOl, L., VHn, XXXVIIen.

Le:ibniz, G.W.., \111 ..

Lmero, M., XVIII, XXI, 9, 103.

Machia\'e11i, N., )(\11.

Margiorta Broglio, E, xxo..Mariana,].. de, \'11-\'111 ..

Marino, P.. , Xl\·n.

Maritain,j., XIxn, u ..Maseda, E, Xn, l,VII-LVIII.

McA1isrer, L..N., XVn.Mechoulan, H., XlVn.Mdamone, F. ,\<111, XXl.Melloni, A., XX\'In.

Migne,J.·P.. ux.Minois, G .. , XXVo, XXVln, XLln,

L1un.

Molina, L. de, VIII, )(\'IIJ.)(JX ..

Mozzolino da Prierio, S., x, XX",55.61.75.89.104.

Muiloz, A., LVII.

Niccolò V, VIII.Nicola de' Tedeschi ( icolaus de

Tudeschisl, x, 19, lOJ.Nys, E., XXVIn, xxx, xxxm.

Oeslreich, G., XlXn ..Orazio,l04.Ortiz-Arce de la Fueme, A,xlvn.

Pagden, A., LVllln ..

Palacios Rubios,j .. de, xv.Paolo DI, xv.Paolo V,x.

Paolo di Tarso, XVIII, 7,11,31,95.99.

Pena, E de la, x.Pereiia, L., xn, xxn. XXlln, :C(Jvn,

xxvutn, XXXI, xuxn, LVII-UX..

Petrus de Brussellis, vedi Croe-kaen. P.

Pietro Lombardo, \'11.

Pilato, 49.Pio XII, L1Dn.

Radbruch. G.• XXXIXn.

Raimondo di Peiiafon, xxv.Raz, M.. de, xv.~I, R, xx"n..Rommen, H.. XXXI e n.Rosmini, A., u.Ruggieri, G., XX\1n.

Russd, EH., XX\'n.

alazar, O. de,lOO.Sallustio, 104.Scauota, M., X1\'n, xuxn.Sch.ud. W. XXXUl.

Schmitt, C, VIUn, XXXllen.Xxxm·XXXIV, xxx\'e n, XLV·XL\'I.

Schnur, R., XXX\'lln.Scou,j ..B., XXX, XXXln, Lin. Lvnn.

Selden.J .• xxx.Sepwvttia, J. Ginés de, X\1. xvlJn.Silvesrro Prierio, vedi Mozzolino

da Prierio, S.Sisto V,x_Skinner, Q.., XVlln, XXVlIln.

Solimano il Magnifico. xx..

Sota, D.. de, VIl, XXJ.Stannard, D.E.. , XVI.

Sluben,j., VIn, LVIIl-LIX ..

Suarez, E. VIIl.

Teodosio 1,15,83.Terenzio, 104.Tertulliano,9,IOJ.Todorov. T.., xlUn.Tommaso d'Aquino, VIJ-IX, XXV,

XXVlIJ e n, XXiX e n, Il,27,31,95.

Tosi, G.. XIvn, XXvn ..

Tostado, A.. , XX\'I.

TrujiUo Pérez. I.. , XlXn, XX\'1IIn.Tru)'01 Serra. A, XI\'o, XXlXn.

Tuck, R., XXX\1n ..

Vrdanoz. T., \<11n, XIn, X\-n, XVlIn,XXVn. XX\1n, XX\'Inn, XXXI, Ulln,

L\111-L1X ..

Vanderpol, A, XXXln ..Vanel, E. de, XXXVI, XLVIIn.

Vazque.z, G., XVW.

Verhoe...co,)., XI"o ..Villey, M., VIUn, XVlJJn, XIXn,

XXIXn. XXXI, XXXJJ e n..

Walzer, M., L1l1n.

Wolff, Ch., VlII.

WriWtt, I-I.E. LVII.Wycliff.J .• XXI.

Zolo, D., L1Vn.

Zwingli, 11.., XXII ..

108

Page 86: De Vitoria - De Iure Belli

Indice del volume

Ln1rociuzionc di Carlo Galli,

ola al testo

DE IUHE llELU

v

LVII

Premessa 3

Prima questioneSe in generale sia lecito ai Crisliani fare la guerra 7

Seconda questioneChi abbia l'autorità di fare o di dichiarare la guerra 17

Terza questioneQuaJi possano essere hl ragione e la causadi una guerra :n

Quarta questione. I parteChe cosa sia lecito in llna hl'lJcrra giusta,e in quale misura 35

111

Page 87: De Vitoria - De Iure Belli

Quarta questione. nparteQuale sia la misura dcI Iccitoin una guerra giusta

Conclusionj

Nole

Indice dci nomj

65

99

103

107