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DA COSTANTINO A GREGORIO MAGNO PARTE PRIMA LA CHIESA IMPERIALE DA COSTANTINO AL CONCILIO DI CALCEDONIA (312-415) I- CARATTERI GENERALI DEL PERIODO 1 LE DUE DATE: DA PONTE MILVIO (312 sconfitta di Massenzio ad opera di Costantino) ALLA MORTE DI GREGORIO MAGNO (604) Costantino operò scelte radicali nella conduzione politica dell’impero e nell’organizzazione della società imperiale. L’accordo con la chiesa cristiana segnò il riconoscimento di una chatolica ecclesia, ai cui sacerdoti si accordò l’esenzione dai munera curiali e alla quale si attribuì la rappresentanza di un interesse spirituale superiore ai valori economico-politici rappresentati dall’ordinamento sociale. La figura di Gregorio segna invece il trapasso tra due epoche: allo stile dell’economia tardo-antica si impronta la sua politica economica e amministrativa; ai modelli tardo antichi e non più classici egli assimila i re barbari convertiti, la loro politica, i vescovi, i personaggi del suo tempo. La sua politica di accordi di mediazioni, di accorte relazioni, il prestigio sostenuto da un reale potere sul territorio restituiscono al papa e a Roma une centralità che l’Italia non ha più sul piano politico. 2 IL MUTAMENTO DI LUNGA DURATA Costantino diede all’impero una nuova capitale, i suoi successori lo divisero in due parti; nell’Occidente l’impero lasciò il posto a una pluralità di stati. In Italia l’arrivo dei Longobardi chiude il processo immigratorio; il pontificato di Gregorio getta le basi per il futuro Stato Pontificio. A ciò si accompagnarono trasformazioni di lunga durata. Crebbero di numero e di dimensioni gli edifici cristiani, la liturgia prese a esservi officiata quotidianamente, innumerevoli memoriae vennero intestati ai santi, si imposero il culto delle reliquie e il loro commercio; acquistarono dimensioni e ruolo significativi i preti e i monaci. Venne poi ripensato il rapporto tra uomo e divinità, tra terreno e aldilà, tra osservanza religiosa e servizio prestato allo stato. Il regno di Dio reclamò il suo primato. Tra Costantino e Teodosio e poi con la sintesi di Agostino nacque un nuovo pensiero politico: il potere regale apparve come il riflesso di quello divino. I barbari trovano posto nell’economia della salvezza. Quando Clodoveo ricevette il battesimo (496)

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DA COSTANTINO A GREGORIO MAGNO

PARTE PRIMA

LA CHIESA IMPERIALE DA COSTANTINO AL CONCILIO DI CALCEDONIA (312-415)

I- CARATTERI GENERALI DEL PERIODO

1 LE DUE DATE: DA PONTE MILVIO (312 sconfitta di Massenzio ad opera di Costantino) ALLA MORTE DI GREGORIO MAGNO (604)

Costantino operò scelte radicali nella conduzione politica dell’impero e nell’organizzazione della società imperiale. L’accordo con la chiesa cristiana segnò il riconoscimento di una chatolica ecclesia, ai cui sacerdoti si accordò l’esenzione dai munera curiali e alla quale si attribuì la rappresentanza di un interesse spirituale superiore ai valori economico-politici rappresentati dall’ordinamento sociale. La figura di Gregorio segna invece il trapasso tra due epoche: allo stile dell’economia tardo-antica si impronta la sua politica economica e amministrativa; ai modelli tardo antichi e non più classici egli assimila i re barbari convertiti, la loro politica, i vescovi, i personaggi del suo tempo. La sua politica di accordi di mediazioni, di accorte relazioni, il prestigio sostenuto da un reale potere sul territorio restituiscono al papa e a Roma une centralità che l’Italia non ha più sul piano politico.

2 IL MUTAMENTO DI LUNGA DURATA

Costantino diede all’impero una nuova capitale, i suoi successori lo divisero in due parti; nell’Occidente l’impero lasciò il posto a una pluralità di stati. In Italia l’arrivo dei Longobardi chiude il processo immigratorio; il pontificato di Gregorio getta le basi per il futuro Stato Pontificio. A ciò si accompagnarono trasformazioni di lunga durata. Crebbero di numero e di dimensioni gli edifici cristiani, la liturgia prese a esservi officiata quotidianamente, innumerevoli memoriae vennero intestati ai santi, si imposero il culto delle reliquie e il loro commercio; acquistarono dimensioni e ruolo significativi i preti e i monaci. Venne poi ripensato il rapporto tra uomo e divinità, tra terreno e aldilà, tra osservanza religiosa e servizio prestato allo stato. Il regno di Dio reclamò il suo primato. Tra Costantino e Teodosio e poi con la sintesi di Agostino nacque un nuovo pensiero politico: il potere regale apparve come il riflesso di quello divino. I barbari trovano posto nell’economia della salvezza. Quando Clodoveo ricevette il battesimo (496) si profilò quella che poi sarebbe stata la traslatio imperii. Mutarono la fruizione, l’organizzazione e i significati della cultura, in quanto cambiarono i valori culturali e il concetto stesso di cultura. Nella ratio studiorum che Cassiodoro tracciò nelle Institutiones la cultura cristiana non è solo il fondamento del sapere, ma è il sapere stesso. Il possesso del libro (portatore della cultura) si fece raro, le biblioteche diventarono per lo più monastiche ed ecclesiastiche; l’acculturazione delle masse fu per lo più religiosa e per via orale, così come l’informazione sulle leggi. In questi secoli si arricchisce e precisa la concezione cristiana dell’aldilà: la morte viene rappresentata come una rinascita. L’immortalità dell’anima è una conquista graduale. Il paradiso viene descritto come il regno dei cieli, un luogo empireo, risplendente di fulgida luce e della visione beatifica di Dio. Più definite sono le rappresentazioni dell’Eden e dell’inferno. Persiste a lungo l’idea che il Giardino si trovi sulla terra, recondito e immobile nello stato originario. Cresce l’importanza dell’inferno, assente nell’Antico Testamento, presente nel Nuovo e in scrittori come Giovanni Crisostomo, Girolamo, Agostino, Cesario d’Arles. La tradizione cristiana costruirà un enorme edificio infernale, sul quale le gerarchie ecclesiastiche fonderanno molto della loro azione morale, pastorale e dogmatica. Anche le credenza demonologiche trovano spazi sempre maggiori. Nel Nuovo Testamento la presenza del demonio acquista un ruolo insostituibile: perversa volontà di nuocere, potere di generare malattia, distruzione fisica, capacità di spingere al male e al peccato,…. Il diavolo diventa l’avversario dell’uomo, la

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causa e l’origine di ogni male, le credenze si fanno liturgia. Dagli ambienti monastici, orientali e occidentali, proviene una folta letteratura agiografica (da Vita di sant’Agostino e Vita di san Martino) nella quale l’esistenza del monaco è presentata come duello ininterrotto con Satana, e i demoni sono ormai un esercito disciplinato ed enorme al servizio di un solo capo.

3 I CARATTERI DELLA PRIMA FASE: DA COSTANTINO AL CONCILIO DI CALCEDONIA (451)

Dal III secolo il fatto centrale fu il nuovo rapporto tra cristianesimo e stato. Nel secolo e mezzo che va fino al 451 si accelerò ed estese il processo di diffusione del cristianesimo; si crearono strutture ed elaborarono ordinamenti che avrebbero avuto durata secolare; si arricchì e precisò il pensiero cristiano, grazie all’operato di intellettuali geniali come Eusebio di Cesarea, Agostino di Ippona,…. I cristiani non costituirono mai gruppi sociali staccati da quella che era la struttura della società dell’epoca, ma vi si erano inseriti all’interno. Con la svolta costantiniana l’osmosi con la società si accelera e si infittisce. Per parte sua il potere imperiale, disposto a essere il braccio armato della chiesa, spesso le impose la propria volontà e i propri interessi. Perciò questo periodo è chiamato l’età della chiesa imperiale/l’epoca dei concili (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia). Ebbero luogo anche innumerevoli sinodi nazionali e locali.

II- L’ETA’ DI COSTANTINO

1 LA FINE DELLE PERSECUZIONI; LA CONVERSIONE DI COSTANTINO

Eusebio e Lattanzio raccontano che la persecuzione scatenata da Diocleziano ebbe fine all’improvviso e miracolosamente. Colpito da una malattia turpe e straziante, Galerio si piegava a confessare (castigo divino) il vero Dio e con un editto ordinava di sospendere la persecuzione e accordava ai cristiani il diritto di professare il loro culto, di costruire chiese e riunirsi in esse. Nell’Occidente di Costanzo Cloro la persecuzione non era mai stata acuta; sulla scia del padre anche Costantino aveva usato tolleranza; lo stesso Massenzio aveva seguito una politica accomodante. Poco dopo la promulgazione dell’editto, Galerio moriva. Della sua parte d’impero prese possesso Massimino Daia, che così riuniva tutto l’Oriente; in Occidente si fronteggiavano i figli dei primi tetrarchi, Massenzio e Costantino. Questi, coalizzatosi con Massimino e Licinio, mosse contro Massenzio e lo affrontò a Roma (Ponte Milvio, 28 ottobre 312 [Costantino si converte affigge un segno celeste sulle insegne dell’esercito]). L’anno successivo si incontrò a Milano con Licinio. L’editto di Milano del 313 segna formalmente l’inizio della nuova storia cristiana. L’editto restituiva alle comunità cristiane i locali dove erano soliti riunirsi, riconoscendo così la proprietà ecclesiastica e la capacità giuridica delle chiese. Lo spirito dello scritto rimase comunque quello dell’editto galeriano di tolleranza, non quello della politica religiosa che Costantino aveva avviato dopo Ponte Milvio e che avrebbe guidato la sua futura legislazione, volta a privilegiare i cristiani e a imporre un’ortodossia ufficiale. Frattanto Licinio era venuto a contrasto con Massimino, lo aveva sconfitto ad Adrianopoli e costretto al suicidio (aprile 313). Lattanzio, nel descrivere gli avvenimenti, dà assai poca importanza alla conversione di Costantino e alla sua descrizione (sogno), soffermandosi più sulla fine dolorosa e miserabile dei persecutori. Eusebio, invece, esalta Costantino uomo pio e assonnatissimo, caro a Dio e da Dio incitato contro gli empi tiranni, e lo fa vittorioso su Massenzio dopo essere invocato il Dio celeste e il suo Verbo, il Salvatore di tutti, Gesù Cristo, ma non fa cenno ad alcuna visone prima della battaglia (Storia ecclesiastica). Ne parla invece a lungo nella Vita di Costantino (337): gli appare in pieno giorno una visione straordinaria, un trofeo di luce della croce con la scritta: “con questo, vinci”. Nella notte gli compare in sogno Cristo con un segno che aveva visto nel cielo e lo esorta a costruirsi un’insegna consimile e a servirsene contro i nemici. Da allora il labaro con il segno di Cristo diventa il vessillo dell’imperatore e dei suoi esercite e lo conduce alla vittoria. Nelle fonti pagane appare dominante l’istanza di collocare Costantino nella continuità familiare e nella legittimità costituzionale del regime tetrarchico. Egli è celebrato (nei panegirici) come il terzo imperatore di una casata imperiale che risale a Claudio il Gotico e presentato come un monarca di stile tradizionale, restitutor dell’impero e delle sue glorie (no allusioni al conflitto tra paganesimo e cristianesimo). In età moderna egli è stato criticato e visto come un opportunista calcolatore, o difeso e visto come un vero cristiano. Alcuni hanno sminuito il ruolo iniziale e propulsore di

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Costantino e hanno attribuito a Licinio la promozione di una politica decisamente filo cristiana: questo in base alle diverse interpretazioni delle testimonianze di Lattanzio ed Eusebio. L’anticostantinismo è emerso anche in formule come quelle dell’ambiguitas costantiniana o della conversione imperfetta, che addebitano a Costantino di avere reso la sua politica religiosa volutamente altalenante e ambigua o di no averla indirizzata più risolutamente alla cristianizzazione dell’impero. In realtà l’ambiguità è di chi applica idee preconcette di conversine e cerca nell’antico imperatore i segni di un convertirsi in blocco, senza dubbi. Nel complesso oggi prevalgono posizioni conciliative: in base a queste non si parla più di conversione, bensì di evoluzione religiosa dall’ideologia tetrarchica e dal culto ad essa connesso di Giove ed Ercole al culto monoteistico di Apollo-Sole. Dopo Ponte Milvio quel dio andò assumendo i contorni del dio cristiano, ma quella di Costantino non fu mai una conversione teologica, ma quella di un soldato e uomo di governo, da inscrivere entro le misure di un uomo interamente calato nel suo tempo, che voleva l’unità dello stato e perciò perseguiva anche l’unità religiosa e appoggiava le confessioni religiose che avessero respiro universalistico, cattolico.

2 L’UNIFICAZIONE DEL POTERE E LE MISURE A FAVORE DEI CRISTIANI

Costantino divise l’impero con Licinio fino al 324. Già nel 316, però, uno scontro militare aveva avuto luogo in Pannonia e in Tracia e si era concluso con una spartizione delle diocesi illiriciane favorevole a Costantino; negli anni successivi il conflitto assunse anche aspetti religiosi, poiché Licinio praticò una politica anticristiana, di limitazioni e ostruzionismi, pur senza una dichiarata persecuzione. Si ebbero provvedimenti volti a colpire l’organizzazione ecclesiastica, si tollerò che venissero chiuse chiese, imprigionati e deportati vescovi, limitato o interdetto il culto cristiano. Nell’estate del 423 si arrivò allo scontro decisivo. Ad Adrianopoli prima e a Crisopoli poi, Licinio fu sconfitto e più tardi fu fatto uccidere. In queste ultime vicende Costantino si era presentato sempre più come difensore dei cristiani. Entrato trionfalmente a Roma, egli evitò di salire al Campidoglio e rendere omaggio a Giove Capitolino, com’era nella tradizione. Ma lasciò che nell’arco eretto in suo onore nel 315 venisse rappresentato trionfante nell’urbe con gli attributi del dio solare e che la vittoria fosse ascritta all’ispirazione di una generica divinità. Fece prontamente demolire le caserme degli equites sul Celsio e al loro posto fece costruire la chiesa del Laterano, ma non depose mai il titolo di pontefice massimo e lasciò che i sacerdoti pagani celebrassero le loro cerimonie sacrificali. Nelle monete restarono ancora le immagini delle antiche divinità (fino al 322 circa: Providentia deorum e Sol invictus). Nondimeno le misure in favore della chiesa e del culto cristiano furono continue e decisive, prime fra tutte quelle che accordavano ai clerici l’esenzione dai munera curiali e, nel 321, il diritto delle chiese di ricevere legali e da qui la possibilità di incrementare le loro ricchezze, spesso già imponenti. Tra il 319 e il 321 fu emanato un pacchetto di leggi che vietava l’aruspicina; altre iniziative riguardarono la giurisdizione episcopale e il riconoscimento di valore legale dell’arbitrato del vescovo inter volentes, il diritto di asilo concesso alle chiese cristiane e l’istituzione della manumissio in ecclesia, l’esercizio della giustizia penale. Notevole fu l’impulso dell’imperatore alla costruzione delle chiese cristiane, che inserì nell’edilizia pubblica e che volle spesso sontuose e monumentali (es. San Pietro e San Giovanni in Laterano a Roma, basilica a Gerusalemme,…). L’opera edilizia fu incrementata dal trasferimento della capitale a Costantinopoli (330), splendida di opere d’arte e di edifici pubblici e manifestamente cristiana. Anche nell’architettura chiesastica egli volle incrociare antico e nuovo, cristiano e pagano, imponendo un modello sostanzialmente obsoleto, quello delle grandi basiliche profane erette a Roma dai suoi predecessori. Morì nel 337 e fu seppellito nella nuova basilica di Santa Sofia a Costantinopoli. Fu sepolto in un sarcofago di porfido, al centro dei dodici cenotafi degli Apostoli. Fu l’ultimo atto di una politica e di una ideologia, che avevano fatto dell’imperatore il sovrano dell’oikoumene, il reggitore unico del mondo, in nome e per volere di un nuovo Dio unico. Ai sacerdoti di questo Dio egli aveva riconosciuto potere e autonomia. Ciò non significò rifiutare la collaborazione dai pagani e la loro presenza a corte e nelle cariche più alte. Continuò a mostrarsi favorevole al paganesimo monoteizzante della religione solare.

3 LE CONTROVERSIE RELIGIOSE; IL DONATISMO

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Costantino intervenne in maniera decisiva nelle questioni religiose che all’indomani della sua ascesa al trono presero ad agitare la vita delle chiese. Il fine era quello di comporre o reprimere dissidi e lacerazioni per preservare la pace e l’unità dell’impero. Come dopo la persecuzione di Decio e quella di Valeriano, il problema dei lapsi contrapponeva gli intransigenti a chi intendeva seguire la via dell’indulgenza. I donatisti in Africa e i meleziani in Egitto spingevano sino a proporsi come delle vere e proprie chiese separate; posizioni di critca e rifiuto contraddistinguevano poi i monaci. Nato a Cartagine, all’indomani della persecuzione, il donatismo (da Donato) si diffuse rapidamente in Africa, presentandosi sempre più decisamente come una chiesa scismatica. Si riproponeva così il conflitto della passionale intransigenza della chiesa africana alle posizioni più moderate e conciliative della chiesa romana. Il dilemma maggiore è se il donatismo sia stato un movimento essenzialmente religioso e solo in modo accessorio si siano sviluppate nel suo interno forme di resistenza a Roma, o se esso sia stato essenzialmente un movimento sociale e politico e l’opposizione all’unità religiosa sia stata un’etichetta, una copertura ideologica per mettere in questione il principio stesso dell’unità dell’impero. La controversia trasse origine dalla situazione creatasi circa il seggio vescovile di Cartagine: a quel seggio era stato eletto nel 307 Ceciliano, che venne poi accusato di essere un traditor, cioè di essersi macchiato di apostasia per aver consegnato alle autorità durante la persecuzione libri od oggetti sacri. Un sinodo lo sostituì con Maiorino, ma egli rifiutò tale decisione: i vescovi africani si appellarono all’imperatore e sottoposero la vertenza al suo arbitrato. Convocato dal papa a Roma nell’ottobre del 313, un sinodo di vescovi italiani si pronunciò contro gli africani, confermò Ceciliano e condannò Donato, succeduto a Maiorino. Un anno dopo un concilio riunito ad Arles dall’imperatore si pronunciò nuovamente a favore di Ceciliano. Queste decisioni non furono accettate. Donato ebbe il favore della maggior parte dei cristiani del Nordafrica, che lo circondarono di un prestigio crescente e videro in lui il campione della resistenza all’indebita ingerenza del potere politico negli affari ecclesiastici. L’imperatore decise misure coercitive e persecutorie, che tuttavia abrogò nel 321. La persecuzione riprese nel 347 per volontà di Costante, che cercò dapprima di piegare il vecchio Donato con ricchi donativi, poi chiuse le chiese donatiste, proibì il culto ed esiliò il clero. Lo scisma sembrò composto e le due chiese riunite. Di fatto la resistenza degli scismatici non cessò. Il movimento donatista si sarebbe concluso solo con l’occupazione vandala dell’Africa (429). Ripetuti tentativi di avviare un colloquio tra le due chiese furono compiuti da Agostino, dopo l’elezione a vescovo di Ippona nel 395. I donatisti parteciparono solo alla grande conferenza di Cartagine del 411, dove per la prima volta si confrontarono direttamente con i cattolici, uscendo però sconfitti, schiacciati dalla personalità prestigiosa di Agostino. Messi ancora fuori leggi da un rescritto di Onorio nel 412, gli ultimi gruppi donatisti sopravvissero fino all’arrivo dei Vandali.

4 LA CRISI ARIANA: DAL CONCILIO DI NICEA AL REGNO DI COSTANZO

Il grande problema del IV secolo fu la controversia ariana, che coinvolse tutto il mondo romano. Essa generò la prima grande frattura fra le chiese d’Oriente e d’Occidente. La controversia ebbe inizio in Egitto, attorno al 320. Anche qui il clero si era diviso tra coloro che volevano una politica mite nei confronti dei lapsi e quelli che insistevano per punirli con severità o escluderli irrevocabilmente dalla comunione ecclesiastica. Nel 304 il vescovo di Alessandria Pietro e quello di Licopoli Melezio si trovarono nello stesso carcere e si misero a discutere di tale argomento a tal punto che la discussione divenne assai apra (cit. Epifanio). Negli anni seguenti il partito meleziano dei rigoristi andò crescendo e vi aderì anche un dotto libico di nome Ario. Ma quando il vescovo Pietro fu condotto al martirio nel 311, crebbero i consensi per la causa moderata e anche Ario vi aderì. Ario prese ad elaborare nuove tesi sul rapporto tra Padre e Figlio, finendo col negare a Cristo divinità piena e autentica, riducendolo a livello di creatura. Fondamento di quelle tesi era la fede nell’unicità e trascendenza di Dio, che di conseguenza, essendo principio ingenerato di tutta la realtà, non può convivere con altri la propria essenza. Il Figlio non può perciò essere della stessa sostanza del Padre, ma solo la sua creatura, generata dal nulla; è finita e distinta dal Padre e con esso non comunica, in quanto infinito e ineffabile. Egli credeva nella santa trinità, ma ne concepiva le tre persone distinte tra di loro e di natura diversa. Venne condannato e scomunicato da un concilio, che lo obbligò a lasciare la città. Trovò sempre più consensi, tra cui anche lo scrittore Eusebio di Cesarea. La controversia si allargò. A questo punto intervenne Costantino. In una lettera l’imperatore rimprovera ad Ario e ad Alessandro, e li invita a ritrovare la concordia e a ricomporre l’unità della

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chiesa. Poco tempo dopo, visto che la situazione non si era risolta, convocò un sinodo a Nicea, per discutere la divampante controversia e regolare le altre questioni ecclesiastiche, invitando a parteciparvi tutti i vescovi della cristianità, fornendo loro l’elvectio, l’uso delle carrozze delle poste imperiali. Il concilio ecumenico si tenne tra maggio e luglio del 325: i seguaci di Ario vi costituirono una minoranza intimidatoria. Costantino vi assunse la presidenza e aprì i lavori con un discorso in latino. Il suo comportamento obbediva a uno scopo politico, quello di realizzare una base di accordo la più ampia possibile, in modo da porre fine alla contesa e ristabilire la pace religiosa; perciò egli accolse il principio di una fede che obbligasse tutti i cristiani. Questa venne adottata dal concilio il 19 giugno e divenne il fondamento dogmatico dell’ortodossia cristiana. La confessione nicena provvedeva in primo luogo a definire il Verbo, Gesù Cristo, figlio di Dio e Dio come il Padre, da Lui generato ma non fatto, consustanziale con Lui (homoousios), e nominava lo Spirito Santo; in secondo luogo rifiutava le dottrine di Ario, la cui condanna fu riconfermata, e furono scomunicati i vescovi che non accettavano il credo niceno. Presto però lo stesso Costantino si avvicinò alle idee ariane e sconfessando i difensori della confessione nicena, che egli lasciò deporre uno dopo l’altro, mentre gli ariani e lo stesso Ario venivano richiamati dall’esilio e riabilitati. Dopo la morte di Costantino la situazione si complicò e aggravò. Accadde regolarmente che le decisioni prese dall’episcopato di una delle due parti (Or e Occ) restassero inoperanti nell’altra. L’Occidente rimase pressoché compattamente niceno sotto Costante; l’Oriente, sotto il filo ariano Costanzo, rifiutò la formula dell’homoousios. Si susseguirono con frequenza sinodi grandi e piccoli, tra i quali importante fu quelo di Sirmio, nel quale tre vescovi illirici, Valente, Ursacio e Germinio imposero orientamenti graditi a Costanzo. Vi furono proscritti il termine ousia e i suoi composti, homoousios e homoiousios, non legittimati dell’uso scritturistico e perciò causa di errori; fu rimarcata l’inferiorità del Figlio rispetto al Padre accentuando in senso di subordinazione ogni elemento di distinzione. È questa la prima volta che si trova attestato il vocabolo homoiousios (di natura simile), che venne assunto come termine distintivo di un gruppo di vescovi dell’Asia Minore e diede il nome alla corrente degli omousiani. La formula smirnese suscitò reazioni ostili in Occidente, ma gli oppositori furono piegati. Due anni dopo, nel maggio 359, un nuovo concilio di Sirmio si risolveva con una formula di compromesso, che sbiadiva sia la formula smirnese del 357 sia quella antiariana definita in un concilio anticipano del 358. Fu riconfermato il divieto del termine ousia, ma non quello dei suoi composti, il Figlio fu riaffermato simile al Padre, con il termine però di un nuovo termine, homoios, che escludeva ogni riferimento alla sostanza, ousia. Da questo termine trasse il nome il partito degli omei od omeisti, capeggiato da Acacio (successore di Eusebio di Cesarea). Alla fine Costanzo si schierò per la soluzione acaciana e ne impose la solenne proclamazione al concilio di Costantinopoli del 360. Le sedi ecclesiastiche più importanti ebbero vescovi filo ariani. La confessione nicena restava largamente perdente. La crisi continuò ancora con Giuliano, Valentiniano e Valente. L’Occidente si mantenne in gran parte fedele al credo niceno, grazie all’opera di personaggi quali Ambrogio vescovo di Milano o papa Liberio.

5 I SUCCESSORI DI COSTANTINO

Nel 326 Costantino aveva fatto uccidere il figlio maggiore Crispo e la moglie Fausa. Negli anni successivi vene favorendo i due fratellastri, Giulio Costanzo e Dalmazio, che però vennero uccisi nel 337, poco dopo la sua morte, dalla truppe che si sollevarono e che proclamarono Augusti e legittimi successori solo i tre figli del defunto imperatore. Eredi della politica filo cristiana del padre, essi si trovarono impelagati nell’aggrovigliata controversia dell’arianesimo e nello scontro sempre più netto tra ortodossia romano-nicena e arianesimo orientale, nel quale si esprimeva il più profondo contrasto culturale tra Oriente e Occidente. Costanzo si preoccupò più dei contrasti teologici tra le chiese cristiane e dei pericoli che essi costituivano per l’unità dell’impero che della persistenza del paganesimo. Nonostante ciò, l’opposizione dei figli di Costantino al paganesimo è attestata dagli storici del tempo e non è errato ritenere che proprio nei loro anni si sia avviato il passaggio dalla libertà religiosa all’intolleranza e alla religione di stato. Si fece poi maggiore la pressione del potere politico sulla chiesa. Costanzo, da un lato, accordò al clero nuovi privilegi, consentì ai vescovi di usufruire della posta imperiale per recarsi ai concili e con una legge del 355 li sottrasse alla giurisdizione secolare, mentre dall’altro, impose con durezza le sue tesi filo ariane e non esitò a perseguitare con inflessibilità gli oppositori. Le leggi emanate dai costantinidi contro i vecchi culti e a vantaggio della chiesa cristiana non

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sono numerose, ma a questo riguardo vale una considerazione generale, cioè che il codice di Teodosio e quello di Giustiniano, che ce le hanno conservate, hanno operato una selezione e ci hanno trasmesso solo una parte della legislazione precedente. Complessivamente possiamo contare cinque costituzioni di Costante e Costanzo che condannano la pratica della vecchia religione. Non avevano contenuti specificamente antipagani, ma risentivano della moralità cristiana le leggi che condannavano la pena capitale e il matrimonio tra consanguinei. Crebbero le leggi sulle immunità e i privilegi fiscali, patrimoniali e giuridici concessi al clero. Malgrado il loro rigore e la loro ripetizione le loro leggi non fecero sparire le pratiche pagane e molte altre ne sarebbero state di volta in volta emanate dagli imperatori successivi. Il processo di cristianizzazione della società imperiale e degli apparati dello stato fu lento. Tentò di arrestarlo l’ultimo dei costanti nidi, Giuliano, al quale il tentativo di restaurare l’antica tradizione religiosa fruttò nei secoli il titolo infamante di Apostata. A trent’anni dal riconoscimento della libertà religiosa poi, si apriva la stagione dell’intolleranza, ma con il rovesciamento delle antiche posizioni.

III DA GIULIANO A TEODOSIO (361-395)

1 LA RESTAURAZIONE GIULIANEA

Giuliano, fratellastro di Costantino, venne fatto Cesare da Costanzo nel 355 e mandato a governare le Gallie; egli condusse una serie di campagne abili e fortunate contro l’invasione franco-alamannica, e in pochi anni liberò i territori invasi, ristabilì i confini e seppe anche conquistarsi il favore della popolazione. Nel 361 divenne imperatore unico di Roma, ed entrò trionfalmente a Costantinopoli, dopo che la morte aveva accolto all’improvviso Costanzo, che in precedenza aveva richiamato delle truppe dalle Gallie per fronteggiare i Persiani, truppe che avevano eletto Augusto Giuliano. Tra i suoi disegni era la lotto al cristianesimo e la restaurazione del culto pagano. Egli voleva inoltre dare al paganesimo nuova linfa, sia immettendo in esso un nuovo bagaglio di idee e dottrine, quelle neoplatoniche, sia curando nuove strutture organizzative. In questo campo egli guardò proprio alla chiesa cristiana, alla quale invidiava l’efficace struttura gerarchica e le diffuse istituzioni caritative. Perciò curò che in ogni provincia il clero pagano avesse al vertice un sacerdote al quale venissero comunicate le direttive imperiali e rimesse le cospicue assegnazioni per la manutenzione dei loro templi, la costruzione degli ospizi, l’assistenza ai poveri. E progettò la formazione di un corpo sacerdotale scelto e colto. Egli promulgò innanzitutto una legge che accordava tolleranza a tutti i culti e decretava la restituzione dei beni espropriati ai templi pagani; cercò di ridare allo stato il carattere pagano di un tempo. Sulle monete ritornarono le immagini degli dei pagani, il clero pagano riebbe i privilegi che era venuto perdendo, fu incoraggiata la pratica dei sacrifici, dei misteri degli oracoli. Non prese però alcun provvedimento punitivo. Nell’ottobre del 362, quando fu distrutto da un incendio il tempio di Apollo nel bosco di Dafne presso Antiochia, fece chiudere la cattedrale della città e ne confiscò i beni; quando a Cesarea furono devastati i templi degli dei, ridusse i cittadini al rango di contadini, li sottomise alla capitatio, arruolò a forza il clero nell’esercito e inflisse alla città un’ammenda di 300 libbre d’oro. La legge più nota fu quella de doctoribus et magistri, del giugno 362. È stata ritenuta il più odioso tra i suoi provvedimenti. Essa stabiliva che i maestri venissero scelti con cura dalle curie municipali tra i migliori per costumi e dottrina, che la scelta fosse approvata dal consenso dei competenti e che il decreto curiale venisse ratificato dallo stesso imperatore. Era quindi necessario un doppio requisito, professionale e morale, e che comunque era sempre stato nella tradizione imperiale. Non necessariamente una costituzione anticristiana, in quanto Giuliano si prefisse di riorganizzare la burocrazia, anche introducendo meccanismi selettivi e principi meritocratici, di riordinare la materia fiscale e di intervenire anche nella selva delle immunità. Le testimonianze dei contemporanei, però, assicurano che l’avversione di Giuliano ebbe conseguenze pratiche e che ai cristiani fu vietato per legge di insegnare nella scuola letteratura ed eloquenza. Verosimilmente è da ritenere che i maestri cristiani siano stati allontanati con i meccanismi di emarginazione che il potere ben conosce.

2 STATO E CHIESA DALLA MORTE DI GIULIANO ALLA BATTAGLIA DI ADRIANOPOLI

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Dopo alcuni dissensi, alla morte di Giuliano venne acclamato nuovo imperatore nel 363 il cristiano Gioviano. Questa non fu che una breve parentesi di pochi mesi. Morì nel 364 dopo aver stipulato una pace gravosissima con i Persiani e ricondotto l’esercito entro il territorio romano. Gli successe Valentiniano, che associò al trono il fratello Valente e nell’estate definì la spartizione dell’impero, attribuendosi l’Occidente e lasciando al fratello la parte Orientale. Anch’essi erano cristiani. Misure abrogative di leggi giulianee erano state attuate da Gioviano per ritornare alla situazione precedente; su questa strada continuarono i nuovi imperatori, specialmente Valentiniano, che dichiarò ufficialmente la sua neutralità religiosa. Egli tutelò la confessione nicena, ma senza reale opposizione alle minoranze ariane. Quando poi Milano si dette un vescovo niceno, il grande Ambrogio, l’imperatore lo riconobbe puntualmente. Importante la legge che proibiva a qualunque funzionario di porre uomini di fede cristiana a guardia di templi pagani: evidentemente per non creare conflitti di coscienza ai militari cristiani. Emanata nel 364, la costituzione mostra come sin dall’inizio Valentiniano perseguisse una sua linea di politica religiosa e riveste una grande importanza poiché con essa lo stato assumeva per la prima volta su di sé la responsabilità della salvaguardia di valori cristiani, discriminando, all’interno stesso dei suoi uffici, i sudditi in base al credo religioso. Meno laica e neutrale fu in Oriente la politica religiosa di Valente, che dapprima si astenne dal manifestare le sue intenzioni avverse ai niceni, contenuto dall’autorità del fratello finché questi fu in vita. Valente sostenne apertamente la confessione antinicena e ariana e bandì nuovamente i vescovi che erano stati esiliati da Costanzo e che Giuliano aveva richiamato. Contro il paganesimo e i circoli culturali pagani Valente si mosse in seguito a due vicende con carattere non religioso. Nell’estate 365 un generale di Giuliano, Procopio, si proclamò Augusto e tentò la scalata al trono. L’anno successivo, Valente ebbe ragione della rivolta e reagì con crudeltà, mandando a morte o in esilio i fautori del suo predecessore e gli intellettuali che gli erano stati legati. Alcuni anni dopo (371-372) ebbe inizio una nuova azione repressiva contro noti filosofi neoplatonici e rappresentanti della cultura pagana. Ossessionato dalla paura della magia e delle cospirazioni, Valente nutriva sospetti contro tutti coloro che erano allora famosi per la filosofia o erano stati educati alle lettere. Innumerevoli processi di inaudita crudeltà furono celebrati in tutto l’impero sotto le accuse di magia e di lesa maestà. Neanche in questo caso però si trattò di una persecuzione antipagana. Valentiniano morì nel 375. Gli succedettero i due figli, Graziano e Valentiniano II. Tre anni dopo in una grande battaglia presso Adrianopoli contro i Goti e altre popolazioni barbariche ad essi federate, Valente fu vinto e ucciso. Al suo posto Graziano elevò al trono di Oriente un generale spagnolo, Teodosio. I due imperatori condussero con buon esito alcune campagne contro i barbari e stipularono una serie di foedera, con i quali i confini furono salvaguardati. Nel contempo, essi si occuparono con una nuova attenzione dei problemi religiosi e ne portarono a soluzione i due più importanti: completare la cristianizzazione nelle strutture dello stato e nelle leggi, sottraendo al paganesimo i residui mezzi di sussistenza; ricondurre all’unità l’episcopato cristiano, che permaneva diviso tra le due confessioni, nicena e ariana. Graziano aveva mitigato i severi principi del governo del padre: aveva concesso un’amnistia generale, aveva revocato molti esilii e restituito i beni confiscati, aveva proibito la tortura per i curati insolventi, aveva posto fine alla politica di sorveglianza e di ostilità nei confronti del senato. Dopo il 378 si rafforza il suo interesse per le questioni religiose. Nel 382 fece rimuovere dal senato l’ara della Vittoria. Con una serie di provvedimenti (Codice Teodosiano) revoca le immunità ai collegi sacerdotali pagani e alle Vestali, proscrive gli eretici. Altre iniziative riguardano gli ariani.

3 CONTROVERSIE DOTTRINALI VECCHIE E NUOVE: IL CONCILIO DI COSTANTINOPOLI E LA FINE DELLA CRISI ARIANA: IL PRISCILLANISMO

Ambrogio ispirerà Graziano e ancora più Valentiniano II, che rimarrà unico sovrano fino al 383, quando rimarrà vittima della rivolta del generale spagnolo Massimo. Alla sua abile azione la chiesa d’occidente deve il definitivo successo contro gli ariani e una nuova definizione dei rapporti con lo stato. Dopo il 378, quando scrive il De fide per Graziano, imposta con un’autorità nuova i rapporti con il potere imperiale, con Graziano, con Valentiniano, con il nuovo imperatore di Oriente, Teodosio, e porta avanti con decisione avanti con decisione crescente la lotta contro gli ariani. Nel 381 domina il concilio di Aquileia e vi ottiene la condanna di due vescovi ariani, Palladio e Secondiano; nel 385-386 supera l’ultimo grande sussulto ariano a Milano, dove Giustina aveva chiesto che venisse data una basilica agli ariani. Intanto in Oriente la crisi ariana giungeva al suo

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epilogo per l’iniziativa di Teodosio, fautore convinto del Niceno. Dopo Costanzo il regno di Giuliano segnò una stasi nelle fortune ariane. Morto Giuliano, nell’Occidente la confessione nicena continuò a consolidarsi profittando del sostanziale disinteresse di Valentiniano. In Oriente Valente si orientò a favore degli omei. Ma negli ultimi anni molti sforzi erano stati fatti per chiarire i grandi temi trinitari e smussare le contrapposizioni più radicali. Contributo risolutivo avevano dato i tre insigni vescovi cappadoci, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa. Essi avevano esteso il consustanziale a tutta la Trinità e definito uguali nella divinità tutte e tre le persone, compreso lo Spirito Santo. Nel sinodo di Ancira del 358 si era affermata la divinità dello Spirito, ma solo genericamente, senza precisarne i rapporti con le altre due Persone della Trinità. Nel febbraio del 380, con un editto de fide catholica promulgato a Tessalonica, Teodosio impose a tutti i popoli la formula di fede nicena e dichiarò di condannare i folli e insensati che accettavano l’infamia dell’eresia ariana. Nel 381 convocò a Costantinopoli un sinodo di vescovi d’Asia, Siria e Palestina. Scarsa fu la partecipazione di vescovi; vi rimase sempre assente e non rappresentato l’Occidente, compresa Roma. Neanche di questo concilio ci sono pervenuti gli Atti, sicché il suo svolgimento è ricostruibile solo in parte. Col dibattito dottrinale si intrecciarono questioni disciplinari, sicuramente quelle relative alle due grandi sedi episcopali di Costantinopoli e di Antiochia. Probabilmente in queste fasi iniziali si discussero le tesi sullo Spirito Santo e i prenumatomachi, sconfessati, abbandonarono i lavori. I padri conciliari elaborarono alcuni deliberati conclusivi, li sottoscrissero e li trasmisero all’imperatore con un messaggio di ringraziamento. Teodosio li rese prontamente esecutivi con un editto pubblicato il 30 luglio. Un documento dogmatico elaborato dai padri conciliari è andato perduto e molto si è discusso sull’origine e la trasmissione di una formula di fede,definita simbolo niceno-costantinopoliano, ma che viene riportata al sinodo di Costantinopoli per la prima volta in una sessione del concilio di Calcedonia, nel 451. Questo silenzio ha posto grandi problemi, ma oggi si conviene che la formula sia stata presentata a Costantinopoli come una versione del credo niceno. Vengono riproposte, nelle prime due parti, le definizioni relative al Padre, Dio onnipotente e creatore di tutte le cose, e al Figlio, generato ma non creato, consustanziale del Padre e incarnatosi per opera dello Spirito Santo; una terza parte definisce la divinità dello Spirito, che è Signore, procede dal Padre e col Padre e il Figlio è adorato e glorificato. In quattro canoni il concilio intervenne su questioni religiose e disciplinari. Il primo elenca tutte le dottrine condannate perché connesse con l’eresia ariana; il secondo e il quarto fanno divieto ai vescovi di una diocesi civile di intervenire nelle questioni riguardanti l’altra diocesi. Il terzo canone attribuisce un primato d’onore, subito dopo il vescovo di Roma, al vescovo di Costantinopoli, perché questa è la nuova Roma. Fino a Lutero e alla riforma, nessun altro scontro dogmatico e confessionale avrebbe lacerato la cristianità con tanta violenza. Nell’Occidente continuava in Africa la vicenda donatista; nell’estrema Europa occidentale negli ultimi decenni del secolo si affermò il priscillanismo. Introno al 370-375 un aristocratico spagnolo, Priscillano, cominciò a predicare nella Spagna meridionale una dottrina ascetica di grande rigore (cit. Sulpicio Severo). La sua predicazione ottenne successo sia tra i nobili che tra il popolo e le donne. Quando egli attrasse anche dei vescovi, il suo successo preoccupò le gerarchie ecclesiastiche e nel 380 un sinodo riunito a Saragozza sconfessò il movimento e lo condannò assieme ai due vescovi che lo avevano seguito, Istanzio e Salviano. I suoi avversari si rivolsero a Graziano e ottennero che in un decreto contro i manichei venissero coinvolti anche i priscillianisti. Priscilliano si fece eleggere vescovo di Avila dai vescovi seguaci e continuò la battaglia. Venne in Italia a chiedere appoggio a papa Damaso e ad Ambrogio, senza riuscirci, ma ottenne l’annullamento del decreto imperiale e l’arresto di Itacio, suo più accanito oppositore. Nel 384 quest’ultimo convinse l’usurpatore Massimo a convocare un nuovo sinodo a Bordeaux. Priscilliano venne nuovamente condannato come manicheo e accettò di presentarsi al processo a Treviri. Egli fu trovato colpevole di maleficium. Massimo lo condannò a morte assieme ai suoi seguaci più in vista. Il movimento sopravvisse però al suo fondatore in quanto verrà condannato nel concilio di Toledo del 400 e nel 563 dal concilio di Braga. Sulpicio Severo definisce il priscillianismo un’eresia gnostica, anche su una ricostruzione compiuta e sicura non è ancora stata possibile. In definitiva, l’opposizione al priscillianismo fu uno degli episodi della lotta ingaggiata in Occidente dalle gerarchie ecclesiastiche contro la versione spirituale del monachesimo e il fascino dei modelli orientali.

4 TEODOSIO (379-395): LA REAZIONE PAGANA E IL DEFINITIVO ASSETTO CRISTIANO DELL’IMPERO

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Stabilita la pace con i barbari al confine danubiano, Teodosio si dedicò a un’opera intensa di riorganizzazione dell’impero, con un ruolo primario per la politica religiosa. Obbiettivi: ricostruire l’unità dell’episcopato cristiano; condurre a conclusione la cristianizzazione dell’impero. Con l’editto di Tessalonica del 380 venne imposta come unica legittima la formula nicena. Seguirono altre misure: si tratta di un notevole pacchetto di editti, tramandatici nella sezione de haereticis e in quella de apostatis del Codice Teodosiano. Eretico è chi devia dalla dottrina ortodossa anche in punto di morte. La fede ortodossa e ufficialmente riconosciuta è quella stabilita dal concilio di Nicea; le dottrine condannate come eretiche sono indicate più volte, in elenchi che si fanno sempre più lunghi e accurati. Arianesimo e manicheismo sono le due sempre citate. Il manicheismo era la nuova religione fondata dal persiano Mani, che impensieriva per la sua ambizione ad essere religione universale e fare proseliti nel mondo. Gli editti teodosiani prevedono un vasto ventaglio di pene, che arrivano sino alla pena di morte. Lo scopo era quello di disorganizzare l’eresia e impedire che si propagasse, ma come sappiamo esse non sortirono sempre l’effetto sperato dal legislatore, ma incontrarono resistenze e talvolta restarono inapplicate. Anche la lotta al paganesimo iniziò subito. All’editto di Tessalonica seguirono misure sempre più severe: proscrizione a chi offre sacrifici proibiti; vietati tutti i sacrifici nei templi;…. Nel 391 due editti proibiscono ogni genere di sacrifici, vietano di frequentare i templi; nel 392 una costituzione proibisce ogni forma di culto non cristiano (neanche riti privati). Tale lotta necessitò anche il ricorso alle armi, nell’Occidente resistente. Qui Teodosio vi fu richiamato da due usurpatori nel 388-391. Nel 383 Massimo era stato acclamato Augusto dalle guarnigioni in rivolta nella Britannia, e riconosciuto sovrano della diocesi gallica da Teodosio e Valentiniano II. Nel 387 Massimo penetrò in territorio italiano e venne poi catturato e sconfitto da Teodosio ad Aquileia. Alcuni anni più tardi, nel 392, vi sarà un secondo usurpatore, Eugenio, sostenuto dalle truppe del generale Arbogaste. Teodosio attese e mosse contro l’usurpatore, che era intanto entrato in Roma, nell’estate del 394. La vittoria arrise a Teodosio nel Carso, presso il fiume Frigido (cit. Rufino). Tale usurpazione è stata considerata l’ultimo atto di un paganesimo morente. La morte di Graziano e la politica di maggiore tolleranza di Valentiniano per suggestione della madre, l’ariana Giustina, avevano ridato fiato alle opposizioni pagane. Nello stesso periodo a Milano gli ariani si rifecero minacciosi (385 guerra delle basiliche). A Roma, a Milano, nelle grandi città della cultura i pagani erano i retori i filosofi, i letterati più rinomati, che perpetuavano nelle scuole l culto della tradizione, letteraria e insieme religiosa. L’impatto delle misure di Graziano e Teodosio su un’aristocrazia nostalgica di antiche glorie e dignità spinse i senatori a fare quadrato in difesa del passato e la rivendicazione dei privilegi perduti si ammantò di motivazioni culturali (lettura, trascrizione e interpretazione dei testi antichi). Teodosio chiudeva un’epoca, o così la sentì la cultura cristiana, che ne fece l’instauratore di un’età nuova, il modello dell’imperatore ideale, che governa come parte della chiesa e che con essa è esecutore dei disegni provvidenziali. Muta la descrizione che si fa dell’imperatore: sono la pietas, l’humilitas e la fides le virtù del principe, detentore di un potere che è servitium, sostegno della chiesa e dei suoi pastori. Fu soprattutto Ambrogio ad avviare il processo di idealizzazione che avrebbe consegnato ai secoli futuri la nuova immagine dell’imperatore cristiano. Questa teologia del potere, però, poteva generare scontri con l’imperatore. Ambrogio si impose a Graziano e a Valentiniano II nella questione dell’ara della Vittoria; a Valentiniano si oppose nella vicenda delle basiliche ariane di Milano. Con Teodosio gli scontri furono anche più aspri. In Ambrogio, al tempo stesso, Teodosio trovò un grande interprete e sostenitore della sua azione religiosa. Certo il vescovo di Milano rivendicò sempre l’autonomia della chiesa di fronte allo stato e in più di un’occasione pretese e ottenne che l’imperatore riconoscesse le ragioni della religione e della chiesa superiori a quelle dello stato. A Callinico, nell’autunno del 388 i cristiani avevano distrutto una sinagoga e l’imperatore impose che gli edifici distrutti fossero ricostruiti a spese del vescovo. A quel punto Ambrogio intervenne e durante una funzione in chiesa richiese fermamente che l’ordine fosse ritirato e dichiarò che la funzione religiosa non sarebbe proseguita se l’imperatore non avesse assicurato di recedere dalla sua decisione. Teodosio subì l’umiliazione e ritirò l’ordine. Ancora più clamoroso lo scontro per i fatti di Tessalonica, dove nel 390 la plebe, inferocita per l’arresto di un auriga amatissimo, era insorta contro il comandante militare barbaro Buterico, e lo avevano ucciso. Teodosio aveva ordinato una repressione spietata e fatto massacrare nel circo migliaia di persone inermi. Ambrogio insorse e scomunicò l’imperatore. Anche questa volta Teodosio cedette e fece pubblico atto di riparazione. Nell’elogio funebre di Teodosio, Ambrogio ricorderà l’episodio del sovrano piegato alla disciplina della

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Chiesa, e indicherà così nella sottomissione dell’imperatore al suo vescovo il fondamento della nuova teologia del principe cristiano.

IV DALLA MORTE DI TEODOSIO AL CONCILIO DI CALCEDONIA (395-451)

1 LA CHIESA IN OCCIDENTE; LA CONTROVERSIA ORIGENISTA

Nel gennaio del 393 Teodosio aveva fatto Augusto e destinato al trono d’Occidente il figlio minore Onorio, mentre dieci anni prima aveva associato sul trono di Oriente il maggiore, Arcadio. Dalla fine del 406, quando venne infranto il confine sul Reno, numerose regioni si aprirono con sempre minore resistenza all’invasione dei popoli germanici, Visigoti, Ostrogoti, Burgundi, Vandali, Alani; Svevi. Nel 410 Roma fu saccheggiata per tre giorni dai Visigoti di Alarico. Agostino fu spinto a concepire il grande disegno della Città di Dio e ripensare la storia universale dei popoli per mostrare vane le accuse dei pagani e illustrare il vero rapporto tra la città dell’uomo e quella eterna di Dio. Dove resisterà il potere imperiale, esso continuerà a consolidare le strutture ecclesiastiche, ad accrescere i privilegi del clero, a combattere gli eretici e apostati. Nei primi anni del regno di Onorio, il generale vandalo Stilicone, suo tutore, perseguì una politica di tolleranza religiosa; dopo il 406 egli consentì una maggiore intransigenza verso i pagani e gli eretici. Furono bruciati allora i libri sibillini, nei quali si credeva fossero racchiusi i destini di Roma e dai quali la propaganda pagana traeva oscuri e sinistri presagi. Le prime norme di Onorio confermarono che sarebbero stati mantenuti tutti i privilegi concessi alle chiese dai precedenti imperatori. Leggi successive accrebbero il potere dei vescovi. Un editto del 411 stabilì che i chierici potevano essere accusati solo dai vescovi, non dai magistrati civili. Furono accresciute le esenzioni dai munera sia per le chiese che per i chierici; l’eresia venne definita un crimen publicum. Sulla stessa linea prosegu’ Valentiniano III, la cui politica religiosa fu segnata dall’influenza di Leone Magno. In questo periodo nell’Occidente presero piede due gravi conflitti dottrinali: quello su Origene e il pelagianesimo. L’opera di Origene continuava a suscitare i soliti consensi ammirati e le fiere condanne. È dubbio se sia esistito un origenismo latino prima di Ambrogio. Girolamo rifiuta con energia l’accusa di essere stato il primo a occuparsi del grande alessandrino e asserisce che prima di lui numerosi vescovi avevano tradotto Origene e ne avevano utilizzato l’esegesi biblica. Negli ultimi anni del VI secolo e nei primi decenni del successivo, l’antiorigenismo si fa sempre più forte e finisce col suscitare un duro e lungo contrasto tra due vere e proprie fazioni, nettamente schierate sia in Oriente che in Occidente. A Origene si rimproveravano talune asserzioni sull’inferiorità del Figlio rispetto al Padre, sulla preesistenza delle anime rispetto ai corpi, sulla apocatastasi finale. Girolamo si schierò all’improvviso dalla parte degli antiorigenisti, forse per paura che l’attaccamento a Origene potesse nuocere alla sua fama di custode dell’ortodossia. Prestò si arrivò a una rottura irrimediabile tra Girolamo e il suo vecchio amico Rufino, nonché con il vescovo di Gerusalemme. La polemica attecchì anche in Occidente quando Rufino e Giovanni decisero di portarla a conoscenza del vescovo di Roma, e mandarono a Siricio unos scritto apologetico in forma di lettera nel quale si descriveva anche la parte avuta nella controversia da Girolamo. Il documento fece impressione; si disse che Girolamosi era reso indesiderabile a Gerusalemme come aveva fatto a Roma, ai tempi di Damaso. Poco dopo si trasferì in Italia lo stesso Rufino, il quale si accinse alla traduzione dell’opera maggiore di Origene, il Trattato sui princìpi. Girolamo reagì mandando da Betlemme un violento pamphlet contro Giovanni di Gerusalemme, varie lettere di polemica dottrinale e una traduzione letterale del Trattato sui princìpi, da contrapporre a quella di Rufino. L’aristocrazia romana si divise. A favore di Rufino andò schierandosi il nuovo papa Anastasio, al quale inviò due brevi apologie: nella prima giustificava le sue traduzioni di Origene e confermava la propria ortodossia sulle questioni più controverse; nella seconda rispondeva alle accuse mossegli da Girolamo. Quest’ultimo rispose nel 401, con una replica in due libri, cui aggiunse poi un terzo libro. Negli anni seguenti egli continuò nell’intransigente condanna di ogni tesi ori genista e attaccò Rufino con violenza ingenerosa, anche dopo la morte di quest’ultimo. La controversia continuò e l’opera di Origene giacque sempre più sotto la condanna degli avversari.

2 IL PELAGIANESIMO

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Ne furono protagonisti Pelagio, un monaco di origine britannica e di buona cultura, e Agostino, vescovo di Ippona. Nel 410 lasciò Roma minacciata da Alarico e si rifugiò in Africa, dove le sue tesi trovarono l’opposizione crescente di Agostino e suscitarono la prima condanna ufficiale in un sinodo del 411. Spostatosi in Palestina, fu attaccato da Girolamo, ma trovò appoggio in Giovanni di Gerusalemme, e venne riabilitato dal sinodo di Diospoli del 415. Ma la sua dottrina venne nuovamente condannata in due sinodi africani e poi, nel 417, da papa Innocenzo, che definì inaccettabili le tesi di Pelagio e Celestio (un irlandese suo discepolo) e decretò che essi sarebbero stati scomunicati se avessero persistito nei loro errori. L’anno successivo però questo orientamento fu ribaltato da papa Zosimo, il quale giustificò le tesi dei due e sconfessò le decisioni africane. A questo punto intervenne l’imperatore Onorio. Un editto del 418 bandì da Roma Pelagio e Celestio e ne condannò la dottrina come superstitio; nel contempo un sinodo a Cartagine riconfermò le precedenti condanne degli africani. Zosimo cambiò schieramento. I pelagiani esiliati si rifugiarono in Oriente. Nel 430 un decreto di Teodosio II li cacciò da Costantinopoli. Il dibattito continuò anche dopo la morte di Pelagio, la cui dottrina venne condannata in diversi sinodi. Tale dottrina invitava l’uomo a impegnarsi nella ricerca continua della perfezione, nella lotta incessante contro il peccato, credendo nella libertà che il Creatore gli ha concesso e fidando ottimisticamente nella propria capacità di conseguire gli ideali morali del Vangelo e di raggiungere uno stato di impeccantia. Ammettere che il peccato di Adamo abbia nuociuto a lui solo, non a tutto il genere umano, conduceva a rifiutare il battesimo degli infanti e a ritenere che la morte di una bambino non battezzato non comporti la perdita della vita eterna. Ciò sminuisce quindi l’alta importanza data dal cristianesimo all’opera redentrice del Salvatore. Contro queste dottrine insorse Agostino. Profondamente convinto dell’indegnità dell’uomo in seguito al peccato originale e della sua incapacità di operare il bene e di salvarsi senza l’aiuto divino, Agostino concesse all’uomo come unica libertà quella di sottomettersi a Dio, irrigidì il concetto della grazia e della predestinazione e sostiene che solo pochi uomini si salveranno. In un primo scritto sul peccato e il battesimo dei bambini, del 412, egli indicò quanto la dottrina morale dei pelagiani minacciasse verità fondamentali della fede in Cristo e delineò la sua dottrine sulla redenzione, il peccato originale e la grazia; in scritti successivi affrontò punti specifici o controbatté scritti pelagiani. I sei libri del Contra Iulianum sono tra le elaborazioni più alte di tutta la controversia pelagiana. Altri scritti gli dedicò agli ambienti monastici, nei quali le idee di Pelagio trovavano ampio riconoscimento. Negli ultimi anni della sua vita il vescovo di Ippona indirizzò ai monaci di Adrumet e della Provenza alcuni fondamentali trattati.

3 LA CHIESA D’ORIENTE

Alla morte di Teodosio I, nel 395, l’Oriente si avvia a una storia religiosa sempre più complessa: scontri ecclesiastici e politici, divisioni, lacerazioni. Due concili, quello di Efeso del 431 e quello di Calcedonia del 451, gettano le basi della nuova mappa confessionale. Le regioni del Mediterraneo orientale restano quelle più fittamente cristianizzate e più ricche di chiese prestigiose. La lingua della cultura dominante è il greco, ma vi sono anche l’ebraico, l’aramaico, il siriaco, il copto. Le chiese maggiori sono Alessandria, Antiochia e Costantinopoli (in particolare dopo Atanasio, divenuto prototipo del vescovo niceno). Nel decreto di Tessalonica del 380, Teodosio I aveva indicato nel vescovo di Roma, Damaso, e in Pietro di Alessandria i detentori della retta dottrina apostolica. Per questo i vescovi di Alessandria pretenderanno sempre di esercitare una funzione d’ispezione sull’ortodossia dell’Oriente, simile a quella di Roma sull’Occidente. Antiochia dal 359 era stata per anni residenza fissa dell’imperatore. Le due città avevano tradizioni e scuole aristoteliche, la prima, e neoplatiniche, la seconda. Costantinopoli era diventata capitale dal 380 grazie a Teodosio, che vi aveva fatto celebrare il secondo concilio ecumenico, dal quale uscirà quel canone 3 che attribuiva alla chiesa di Costantinopoli dignità superiore per il fatto di essere la nova Roma. Lo storico Socrate attribuisce a Teodosio II l’emanazione delle leggi speciali per le quali la nomina dei vescovi orientali era sottoposta all’approvazione del vescovo di Costantinopoli. Anche città come Efeso, Gerusalemme o Edessa vantavano tradizioni prestigiose e assunsero ruoli assai importanti. Le tre chiese maggiori furono coinvolte ripetutamente nelle controversie del V secolo. Sotto Teodosio vescovo della capitale per sedici anni, dopo un breve e contrastato vescovato di Gregorio di Naziano, fu Nettario, alla cui morte si aprì una serrata competizione per la successione, specialmente per le manovre del vescovo di Alessandria, Teofilo, che cercava di imporre un suo candidato per

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controllare e limitare le aspirazioni della capitale. Prevalse il candidato del potente ministro Eutropio, il prete antiocheno Giovanni, detto il Crisostomo per lo splendore della sua eloquenza, letterato di grande ingegno e sacerdote di rigorosi principi e severi costumi. Teofilo perseguiva una spregiudicata politica di potenza; per essa non esitò a macchiarsi di violenze, intimidazioni, persecuzioni. Appoggiandosi all’ultima legislazione imperiale, fu attivissimo nella lotta contro i pagani; mobilitando il fanatismo dei monaci sollecitò la distruzione dei santuari; si applicò con tenacia alla dissoluzione della florida comunità ebrea. Un campione, dunque, di quella intolleranza cristiana che scatenò la sua offensiva più intensa in questi anni in veri territori dell’impero. Cinico fu il suo comportamento nella vicenda di Giovanni Crisostomo. Quando Giovanni si alienò, per la sua intransigenza morale e le critiche rivolte alla corruzione dei costumi ecclesiastici, il favore della corte e la solidarietà degli altri vescovi e del clero, Teofilo riuscì a farlo condannare da un sinodo illegale. Richiamato a furor di popolo, Giovanni fu poi nuovamente rimosso dalla carica ed esiliato nel Ponto, dove morì poco dopo. La vittoria di Teofilo e della chiesa alessandrina era totale. Nel 428 però le reliquie di Giovanni saranno portate a Costantinopoli e accolte con devozione dallo stesso imperatore. Come mostra questa vicenda, la pace religiosa riposava sui buoni rapporti dei tre seggi maggiori. Se i rapporti si incrinavano, si ricorreva a un concilio e, in casi speciali, all’imperatore. Tale infatti era il rapporto di forze tra il potere ecclesiastico e quello civile che da Costantino in poi l’imperatore assommava in sé, rivendicando allo stato anche la protezione della fede e perciò arrogandosi i compiti di garantire e proteggere l’autorità episcopale, di curare l’applicazione dei deliberati conciliari, di custodire e tutelare i beni ecclesiastici, di regolare le funzioni liturgiche, di controllare i costumi del clero e dei monaci. L’imperatore poteva legiferare in materia religiosa, poteva costituire episcopati nuovi e trasferire i vescovi, poteva punire il clero colpevole con pene varie, specialmente con l’esilio: una prassi conosciuta come cesaropapismo. Resta indubbio che tutti esercitarono il loro controllo sulla chiesa con crescente pesantezza. Il successore di Teodosio, Arcadio, si riservò un potere discrezionale su tutti gli affari ecclesiastici e si attribuì il diritto di intervenire in suprema istanza anche sulle decisioni conciliari. Dopo gli anni di Arcadio, quando salì al trono il giovane Teodosio II, negli ambienti della corte rinacque una forte religiosità. Sacra secondo le concezioni orientali, la persona dell’imperatore ora si ammanta di un’aria crescente di sacralità.

4 I DUE CONCILI DI EFESO (431 E 449)

Il conflitto tra Alessandria e Costantinopoli, e anche Antiochia, che vi fu coinvolta a fianco dell’episcopato costantinopolitano, si riaccese quando divenne vescovo della capitale Nestorio. Fin dalle origini la chiesa si era interrogata sulla persona e la natura di Cristo, e risposte erano state date a riguardo. In ambienti di osservanza giudaica Cristo era stato visto sostanzialmente come uomo, anche se venerato come il messia atteso e come profeta dotato di carismi eccezionali; quando venne sentito come essere trascendente la natura umana, fu raffigurato come angelo, e dunque con una funzione mediatrice tra l’uomo e Dio, o come dotato di una natura assolutamente divina. Ma ciò comportava il grande interrogativo: come conciliare la divinità di Cristo con l’unità di Dio? Anche l’Occidente nel dibattito trinitario aveva avuto un suo ruolo non secondario, in particolare tra II e III secolo e grazie all’opera di Tertulliano. Alla fine del IV e all’inizio del V secolo, il dibattito si incentrava sul rapporto in Cristo delle due nature, la divina e l’umana. Da un lato si temeva che la tesi delle due nature separasse in Cristo il divino dall’umano, portasse a una vera e propria dualità e compromettesse l’azione del Salvatore, che se fosse pienamente uomo in cui abita la divinità non potrebbe redimerci dai peccati e vivificarci. Da un lato attribuire a Cristo una sola natura, la divina, e ridurre la sua umanità, suonava come un negare la fede nel Dio che si è fatto uomo. Questo dibattito divenne controversia a partire dal 428, quando con l’elezione di Nestorio a vescovo di Costantinopoli, sulle motivazioni teologiche si innescarono vecchi e nuovi attriti per questioni di giurisdizione e di politica ecclesiastica. Eletto vescovo cominciò a predicar e contro il termine “madre di Dio”, attribuito a Maria, nel quale ravvisava il rischio di attribuire alla natura divina nascita e morte, capacità di soffrire e mutarsi, e dunque il rischio di dissimulare deviazioni di stampo ariano o apollinarista. Il termine era però antico e accolto senza sospetti nel vocabolario teologico del tempo. Sul seggio alessandrino sedeva ora Cirillo, nipote di Teofilo e convinto persecutore della sua azione. A Nestorio, Cirillo obbiettò cje se Cristo è Dio, la Vergine che l’ha partorito non può non essere la madre di Dio, e oppose una

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cristologia teocentrica, fondata sul principio che la seconda persona della Trinità è il soggetto dell’Incarnazione. Convocato un sinodo a Roma nel 430, il papa condannò le tesi nestoriane e minacciò di deporre Nestorio. Poiché Nestorio non ritrattava le proprie tesi, si fece strada l’idea di un concilio, che si tenne ad Efeso nel 431, il giorno di Pentecoste. Le tesi dei due posso essere designate come monofisita (una sola natura in Cristo), quella di Cirillo, e difisita, quella di Nestorio. Studi recenti hanno rilevato la sostanziale vicinanza delle due dottrine e il ruolo che in questa vicenda ebbero la reciproca incomprensione, le sordità terminologiche e le implicazioni di politica ecclesiastica. Al concilio di Efeso vennero invitati i vescovi dell’Oriente e alcuni dell’Occidente. Vi si sarebbero dovute confrontare e discutere le tesi in contrapposizione, di Nestorio e Cirillo, in realtà non ci fu nessuna discussione e non furono rispettate le più elementari garanzie di equità e collegialità. Cirillo presiedette e pilotò il concilio con grande abilità e non senza intimidazioni e corruzioni. Cirillo lesse le proprie tesi e chiamò i vescovi a dichiararle consone al Credo di Nicea; lesse le lettere sinodali concordate con Celestino per mostrare che Roma e Alessandria erano solidali nell’azione contro Nestorio; di quest’ultimo fu letta la più polemica tra le risposte a Cirillo e alcuni estratti. Nestorio fu condannato e deposto, nonché apostrofato “nuovo Giuda”. Un gruppo di vescovi orientali però, guidati da Giovanni di Antiochia, riunirono un contro-sinodo e deposero Cirillo e i suoi alleati. Lo stesso fecero con questi Cirillo e i suoi alleati. La situazione era estremamente confusa. Senza prendere una chiara posizione, nell’ottobre Teodosio chiuse il concilio, approvò la deposizione di Nestorio, Cirillo e Memnone, e congedò i vescovi intervenuti. In realtà fu solo Nestorio a pagare. Per chiudere la vertenza fu necessario un nuovo intervento imperiale. Teodosio riuscì a spingere i due maggiori esponenti, Cirillo di Alessandria e Giovanni di Antiochia, a un accordo, redatto nel 433 (Formula di unione). Giovanni accettò la deposizione di Nestorio e riconobbe l’attribuzione alla Vergine del titolo di “madre di Dio”. Cirillo fece da parte sua qualche concessione, rinunciando agli anatemi lanciati contro Nestorio. I nestoriani furono nuovamente condannati in un editto imperiale del 436, ma la loro autorità e il loro seguito non decrebbero. Tale accordo si incrinò però alla morte dei due protagonisti. La controversia cristologica ridiventò acuta quando Eutiche, un abate, proclamandosi fautore della cristologia alessandrina, ne accentuò la tendenza monfisita, trovando grande seguito nei monaci della capitale e appoggio decisivo nel ministro Crisafio, suo parente. Arrivò a negare la consustanzialità di Cristo con la natura umana. Il vescovo di Costantinopoli, Flaviano, fu costretto a convocare un sinodo locale nel 448 e chiamarvi in giudizio Eutiche, dopo che si era levata contro di lui la voce di Eusebio, vescovo di Dorileo. Il vecchio abate non accettò le risoluzioni della Formula di unione sulle due nature di Cristo; fu perciò deposto dalla carica e colpito da anatema. Eutiche seppe però mobilitare molti vescovi in suo favore e guadagnarsi l’appoggio dell’imperatore, che fu convinto a convocare un nuovo concilio, nel 449. Il nuovo vescovo di Alessandria, Dioscoro, si schierò contro Costantinopoli e Antiochia. Ad esso fu attribuita la presidenza. Papa Leone fu invitato, ma non si mosse da Roma e inviò a rappresentarlo tre delegati, ai quali affidò documenti dottrinali che esponevano la sua posizione. Il documento più importante era la lettera a Flaviano, nella quale espose la sua dottrina cristologica, di piena adesione alla Formula di unione. Dioscoro pilotò subito il Concilio e impedì per due volte che fossero lette le lettere di Leone. Diede spazio solo a Eutiche e condusse rapidamente alla votazione, che fu favorevole a quest’ultimo. Dioscoro propose poi di deporre e condannare Flaviano ed Eusebio: Flaviano fu duramente percosso, Eusebio riuscì a fuggire e trovò asilo a Roma. Questo Concilio è passato alla storia con il nome di “Brigantaggio di Efeso”.

5 Il Concilio di Calcedonia (451)

Nel 450 morì all’improvviso Teodosio; assunse il potere Pulcheria, che associò al trono Marciano. Furono riannodati i rapporti con il Papa, Eutiche fu esiliato, ma non fu travolto da ciò il vescovo di Costantinopoli Anatolio, che pure era un uomo di Dioscoro. Il nuovo imperatore riprese il dialogo con Leone, chiedendogli di adottare una dottrina Cristologica, sulla base della seconda lettera di Cirillo a Nestorio e di riconoscere la primazia in Oriente del seggio Costantinopoliano. Ma Leone temporeggiò. Nel 451 Marciano e Pulcheria decisero di convocare un nuovo Concilio ecumenico a Nicea, al quale Leone non poté sottrarsi. Il Concilio si tenne invece a Calcedonia, e vi parteciparono numerosi vescovi da tutto l’Oriente, mentre l’Occidente fù rappresentato da una piccola delegazione capeggiata dal Vescovo di Libeo, Pascasino, che fù chiamato a

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presiedere il Concilio su richiesta di Leone. Su proposta di Pascasino furono subito messi sotto accusa Dioscoro e altri protagonisti di Efeso. Il vescovo di Alessandria andò perdendo i suoi sostenitori e fù infine condannato e deposto dalla carica. Fù riaperto il dibattito sulle questioni dottrinali e sull’elaborazione di una nuova formula Cristologica. Fu approvata una formula compromissoria, che riconosceva in Cristo due nature, l’umana e la divina, unite in un solo prosopom e in una sola ipostasi, distintamente e indivisibilmente. Fù riconfermato alla Vergine l’attributo di Madre di Dio, furono riabilitati molti dei condannati a Efeso. Per quanto riguarda gli assetti giurisdizionali ne uscì ridotta la giurisdizione di Antiochia. L’ecumene cristiano risultò diviso in 5 grandi patriarcati: Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Roma. Roma e Costantinopoli furono poste sullo stesso piano per quanto riguarda il rispettivo ruolo nelle aree di influenza. Con il Concilio di Calcedonia veniva confermato quale grande ruolo la Chiesa avesse acquisito nella società e nella vita dei popoli; i Vescovi avevano accresciuto enormemente i loro poteri e la loro autorità, la Chiese la loro ricchezza; la carriera ecclesiastica era stata riconosciuta come un servizio civile. La dottrina che vi fu proclamata non fu realmente accettata da tutte le chiese. Il contrasto non fu solo dottrinale e religioso ma spesso anche politico e talora etnico, perché il dissenso teologico si intrecciò con le aspirazioni separatiste di alcune regioni e con la formazione di chiese nazionali. Si ebbero sommosse popolari ed episodi di violenza. Questo contrasto sfocerà, alla fine del VI secolo nella frattura definitiva tra Costantinopoli e quelle che sono state chiamate “Le chiese di oriente”. In Egitto si formò una Chiesa Copta, presto seguita dalla chiesa di Etiopia e da quella della Siria. Anche la distanza tra Roma e Costantinopoli venne crescendo. E’ convinzione tradizionale che la separazione delle due chiese abbia accompagnato e seguito quella delle due parti dell’Impero.

V

LA NUOVA SOCIETA’ CRISTIANA

1 La diffusione del Cristianesimo

Nato in una provincia Orientale e predicato primamente da missionari di lingua greca, il Cristianesimo si era maggiormente diffuso nella parte Orientale dell’Impero. In Europa il Cristianesimo si era più diffusamente impiantato nella Gallia mediterranea e lungo il Rodano nel sud della Penisola Iberia, in Italia; ora avanza dalle regioni costiere verso l’interno e verso il nord. Si apre al cristianesimo il mondo germanico. Un ruolo importante nell’evangelizzazione dei Goti ebbe Ulfila, che li convertì al cristianesimo e compì un’impresa di straordinaria importanza culturale traducendo in gotico la sacra scrittura (IV secolo). In Oriente la rete delle comunità cristiane si fa più fitta e varca anche i confini della romanità, giungendo in Armenia, nella Persia, nelle regioni arabe del mar Rosso, in Etiopia. Non si trattò di una diffusione dappertutto omogenea e compatta, ma piuttosto di un reticolo a maglie ora fittissime ora larghe, o di un intreccio di rivoli, che avanzano ramificandosi con ampiezza e velocità differenti. Il Cristianesimo restò a lungo una religione urbana, e anche dove si impose la nuova religione nelle campagne, spesso sopravvissero accanto ad essa i riti apotropaici e le credenze magiche proprie dei contadini. In Italia comunità cristiane sono documentabili, oltre che a Roma nelle città centro meridionali e padane, sino a Milano ad ovest e ad Aquileia ad est, e nella Sicilia orientale. Riluttante era l’aristocrazia senatoria, che si sentiva depositaria e guardiana degli antichi culti e faceva della loro conservazione insieme politica e religiosa. Il periodo decisivo della conversione dell’aristocrazia italica furono gli anni dopo la battaglia del Frigido, tra il 394 e il Sacco di Roma nel 410. Il paganesimo di estinse dall’impero più lentamente di quanto si è spesso ritenuto, con ritmi e modalità diversi tra un’epoca e un’altra, tra una regione e un’altra, tra città e campagna. La diffusione del cristianesimo e il suo definitivo radicarsi in molte regioni del mediterraneo sono tra le cause della trasformazione profonda e irreversibile del mondo antico.

2 LE FORME DEL CULTO: GLI EDIFICI, LA LITURGIA SACRAMENTALE, LE FESTIVITA’

Dopo il 313 sorsero sempre più edifici destinati al nuovo culto e costruiti appositamente per organizzare la liturgia cristiana. Lo stesso Costantino diede un grande impulso alla costruzione di chiese cristiane. Nasce un’edilizia cristiana e dalla Domus Ecclesiae, un locale adattato alle funzioni culturali, si passa alla basilica, un

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edificio specificamente destinato al culto. Nel suo modello più sontuoso essa era composta da una maestosa aula rettangolare divisa in tre navate parallele da due ordini di colonne, presieduta da un portico che ne costituiva l’ingresso e conclusa dal presbiterio, riservato al clero ufficiante e all’altare (inglobava elementi architettonici di precedenti edifici profani – caratteristiche specifiche quali il battistero il cimitero). Vennero poste sotto il patrocinio di un Santo e intestate a lui. Accanto ad esse sorsero edifici di minore grandezza e solennità. Al culto cristiano vennero riconvertiti santuari pagani. Non pochi degli antichi templi furono distrutti dalla violenza cristiana, specialmente in Oriente. Ad eccezione dell’Africa e di Cartagine, nell’Occidente i santuari furono più rispettati e furono più rispettate le leggi che li titolavano. Parallelamente a ciò si organizza il culto cristiano. Nella chiesa si svolge la vita sociale e sacramentale della comunità cristiana. Giorno fisso della comunione in chiesa è la domenica, che sotto Teodosio venne proclamata solennemente giorno festivo, precluso ad ogni attività. Occasioni sempre più frequenti e solenni offre il progressivo strutturarsi del calendario liturgico, che nel corso del IV secolo acquista molti dei lineamenti destinati a restare. La maggiore festività era la Pasqua, anche se essa costituì fin dal II secolo oggetto di controversie tra le chiese, circa la data, gli elementi del ciclo liturgico, l’interpretazione teologica. Nel 325 il Concilio di Nicea cercò di unificare le varie tradizioni impose a tutte le chiese di festeggiare la Pasqua secondo l’uso romano e alessandrino, nella prima domenica dopo la prima luna piena seguente all’equinozio di primavera. Ma l’unità non fu raggiunta. Solo intorno alla metà del VI secolo alla Pasqua si aggiunse il Natale. La scelta della data derivò dal disegno di contrapporre la venuta del Signore al Natale del Dio Sole, la festa pagana e mitraica del Sol Invictus, celebrata appunto il 25 dicembre. Vi fù una presa di posizione contro le manifestazioni devozionali più cattivanti della pietà solare, e nel contempo se ne appropriò idee e forme. Attorno a queste due feste principali si disposero le altre e si strutturò il calendario liturgico, che cominciò a riversarsi nel calendario civile. In questo si inserirà via via la commemorazione dei Santi. La liturgia si avvia a diventare quotidiana. Nell’Oriente l’affermarsi delle chiese patriarcali diede luogo a consuetudini liturgiche diverse. In Occidente invece le differenze maggiori furono tra rito romano-africano e rito gallicano. Minori furono tra IV e V secolo le modificazioni della liturgia sacramentale. Il rito battesimale prevedeva una serie di prove del catecumeno, seguite da un’accurata preparazione catechetica. Nel IV secolo si impone l’uso di una catechesi come imposizione sintetica e ordinata delle verità di fede, impartita durante la quaresima per rendere il catecumeno pronto a ricevere il Battesimo e gli altri sacramenti durante la Veglia Pasquale. Tuttavia la pratica del catecumenato imboccò una via abnorme quella di protrarsi per anni e di rimandare il battesimo a lungo, talvolta fino in punto di morte. La Chiesa cercò di porre rimedio a tale pratica, spingendo i catecumeni ad affrettare il Battesimo. Cercò soprattutto di diffondere ed imporre il battesimo dei bambini, che diventa frequente lungo il IV secolo e tende a generalizzarsi nel corso del V. La Chiesa fece del Battesimo il momento della purificazione della colpa trasmessa da Adamo. L’amministrazione del sacramento fu estesa ai preti e non fu più riservata al Vescovo. La penitenza continuò ad essere un atto pubblico e irripetibile, amministrato solennemente dal Vescovo,al qual apparteneva la triplice funzione di escludere il colpevole, di assegnargli la penitenza e infine riammetterlo nella comunione della Chiesa. Nei secoli IV e V prende forma la Messa. La cerimonia resta divisa in due parti: la prima aperta a tutti e fondata sulla liturgia della parola (passi biblici, salmi, omelie); la seconda, riservata ai fedeli battezzati, era incentrata nel sacrificio del pane e del vino, ma tra Chiesa e Chiesa restarono riturali diversi, in particolare tra Oriente e Occidente.

3 IL CULTO DEI MARTIRI, DEI SANTI, DELLE RELIQUIE; IL PELLEGRINAGGIO

La forma di devozione più spettacolare e coinvolgente le masse popolari fù il culto dei martiri e dei Santi. Indubbiamente non pochi particolari culturali furono tributari dell’uso pagano, come la commemorazione dell’anniversario dies natalis, (giorno della morte) o il refrigerium, cioè il banchetto consumato presso il sepolcro o il culto delle reliquie. La venerazione dei martiri acquistò diffusione importante accrescenti dopo Costantino; un’evoluzione decisiva si ebbe negli ultimi decenni del IV secolo, allorché i Vescovi e il Clero si affiancarono alle iniziative private dei fedeli e intervennero sistematica fu anche l’operamente a organizzare la liturgia e a controllare la devozione popolare. Centro del culto dei martiri furono le loro sepolture su cui vennero eretti monumenti di tipo diverso, dapprima confinati fuori dalla cinta urbana, e dal V secolo traslati

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all’interno delle Chiese urbane. Il martire era intercessore presso Dio e patrono della comunità. Questo duplice attributo e un culto rapidamente crescente vennero attribuiti anche ai Santi. Martiri e Santi entrarono nel IV-V secolo nella liturgia e nel calendario. Il loro culto generò prontamente quello delle reliquie. Col tempo questa forma di venerazione diventò preminente sopra ogni altra e da essa derivarono due pratiche di amplissimo sviluppo e ininterrotta fortuna: l’inumazione ad Sanctos; la ricerca appassionata delle reliquie (i resti dei martiri presero ad essere esumati dalle memorie primitive e trasportati in nuovi centri di culto, talvolta divennero oggetto di vero e proprio commercio. Per soddisfare le richieste frequenti le reliquie vennero frazionate?. Un editto di Teodosio del 386 sanciva l’inamovibilità dei corpi dei martiri e il divieto di farne commercio, ma rimase inefficace. Nel 401 un Concilio cartaginese condannò il proliferare dei ritrovamenti prodigiosi e le memoriae che in seguito ad essi andavano sorgendo dappertutto. La ricerca delle reliquie ebbe inizio nell’età di Costantino, poi dopo la metà del secolo, dapprima in Oriente poi anche nell’Occidente. Clamoroso e celebrato ritrovamente fu quello dalla croce sul Golgota, ad opera di Elena la madre di Costantino. Nel 415 una rivelazione prodigiosa permise di ritrovare in un villaggio palestinese di Caihar-Gamala la tomba del più grande tra gli antichi eroi cristiani Stefano, la cui lapidazione è raccontata negli atti degli Apostoli (6-7). In pochi anni le sue reliquie si ritrovano dappertutto, in Africa e in Europa. Attorno al 390 a Roma attese ad un’opera sistematica di ricerca delle tombe dei martiri Papa Damaso. Importante fu anche l’opera di Ambrogio, la cui influenza è rintracciabile nei primi episodi che il culto delle reliquie registra in Gallia. Il possesso di reliquie miracoloso rassicurava le coscienze dei pentiti, che la rinunzia al paganesimo spogliava delle tradizionali divinità protettrici; conferiva prestigio alle diocesi nei rapporti con il potere civile; concorreva all’affermazione della chiesa cattolica nei confronti dell’arianesimo; attribuiva alle chiese un blasone di antichità e grandezza. Altra grande forma di devozione fù il pellegrinaggio. Esso si avviò a diventare uno degli aspetti più costanti e caratteristici della società cristiana a partire da Costantino, allorché la inventio-Crucis ad opera di Elena e l’edificazione delle grandi basiliche diedero inizio alla cristianizzazione di Gerusalemme e al processo di materializzazione delle reliquie relative alla vita di Gesù. Il viaggio in terra Santa si carica di valenze plurime (atto commemorativo, strumento per acquistare meriti, risanamento e salute del corpo, … Il viaggio in terra Santa fu sempre vagheggiato e praticato come la forma più alta e completa del pellegrinaggio cristiano. Parallelamente, anche Roma diventa nel IV secolo una città Santa. Roma è Urbs Sacra, perché è la città degli apostoli, teatro del loro martirio e custode delle loro sfoglie, sede del successore di Pietro, come va proclamando la dottrina del primato sostenuta sempre più decisamente da Damaso in poi. In confronto a Gerusalemme aveva il privilegio di un triplice titolo: religioso in quanto città santa, politico in quanto antica capitale imperiale e geografico in quanto centro dello spazio cristiano nel Mediterraneo. Accanto a quello orientale e a quello Romano, va crescendo un pellegrinaggio locale che avanza via via il processo di localizzazione dei culti.

4 L’ORGANIZZAZIONE ECCLESIASTICA; I VESCOVI; IL CLERO; I PAPI E LO SVILUPPO DEL PRIMATO DI ROMA

L’organizzazione diocesana e provinciale voluta da Diocleziano fornì una struttura di rinnovata efficienza e un modello organizzativo e gerarchico di dimensioni imperiali. Nel corso del IV secolo la gran parte dei capoluoghi diventano sedi vescovili. Di numerose città conosciamo la successione dei vescovi. La chiesa antica non ebbe una norma generale e costante riguardo al reclutamento episcopale. Si fondava per lo più sull’elezione popolare, ma a volte operò una prassi diversa: nella tradizione più antica gli apostoli designano il nuovo vescovo imponendogli le mani sul capo o è un profeta a indicarlo o un segno miracoloso. A metà del III secolo nella chiesa di Cipriano l’elezione era affidata all’approvazione della comunità e al giudizio dei vescovi. Poi si andò formando una legislazione canonica che tendeva ad assegnare ai sinodi episcopali la scelta, escludendo la comunità e limitando l’autonomia dei singoli vescovi, ma ancora una legge imperiale del 361 prevede che il vescovo possa essere richiesto dal popolo e quasi un secolo più tardi Leone Magno ribadisce il principio. Nell’elezione dei vescovi romani influirono l’accordo dei diaconi e della cancelleria pontificia, il consenso imperiale e quello delle fazioni popolari. I vescovi teoricamente hanno tutti pari dignità, ma in realtà tra di essi si approfondiscono differenze di rango e di reali poteri, in particolare nelle varie regioni (es. metropolita).

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Spesso il vescovo è predisposto all’amministrazione di un patrimonio ingente. Le chiese cittadine, a partire dal III secolo, si erano attribuite il diritto di acquistare beni immobili, e ora accrescono i loro patrimoni grazie alle oblazioni e ai lasciti. Una legge del 434 attribuisce automaticamente alla chiesa il patrimonio dei chierici che muoiano intestati. Il patrimonio ecclesiastico serve a sostenere le vergini, le vedove, il clero e quegli interventi di tipo sociale e caritativo ai quali la chiesa attende con impegno crescente. Nel complesso l’istituzionalizzazione della carità cristiana sembra più attiva ed efficace nell’Oriente. Specialmente dalla fine del IV secolo l’episcopato dovette affrontare situazioni molto diverse nelle due partes. In Occidente fu indotto a organizzarsi in risposta alla caduta di Roma e alle invasioni barbariche. In Oriente operò nel quadro di una forte struttura politica e dovette far i conti con i continui interventi dell’autorità imperiale. I vescovi orientali furono in maggior parte reclutati dai ranghi dei curiales e dalla nobiltà campagnola, mentre in Occidente fu frequente il passaggio dalla struttura statale a quella ecclesiastica. Il prete cristiano diventa un cittadino importante e con un’immagine pubblica sempre più netta via via che aumentano le occasioni nelle quali egli è attore. In un primo luogo il clero si forma alla scuola della pratica quotidiana, ma dopo Costantino cure particolari e istituzioni specifiche vengono dedicate al suo addestramento. Diventa canonica la distinzione fra un ordo superior (presbiteri e diaconi) e un ordo inferior (suddiaconi, accoliti, esorcisti,…). Anche la legislazione imperiale accoglie la distinzione di due ordines; essa esonera dai doveri curiali i vescovi, i preti e i diaconi, mentre non concede l’immunità alle categorie inferiori. I chierici vengono chiamati, oltre ai compiti pastorali e liturgici, anche ad altre funzioni (es. amministrare le finanze vescovili e delle chiese urbane, dirigere le istituzioni assistenziali,…). Si richiedeva il celibato e la non provenienza degli strati bassi della popolazione. Le leggi statali che proibivano l’ingresso nel clero, oltre che agli schiavi, anche a vari tipi di mestieri, muovevano da considerazioni di ordine economico e sociale e primamente dalla preoccupazione di non assottigliare i ranghi delle professioni necessarie. Il clero viene dalla città e resta in città. Anche per Roma la successione dei vescovi è malsicura per il periodo più antico. Una posizione di preminenza di Roma si era andata profilando già in età precostantiniana. Nel III secolo era stato elaborato il concetto della cathedra Petri. Nel IV e V secolo questa andò trasformandosi in una ricca e precisa dottrina del primato di Roma su tutte le chiese e diede luogo sia alla concreta rivendicazione della superiore autorità del papa e del suo diritto di intervento ei confronti degli altri vescovi, sia a una teologia del primato. Sotto Giulio I il privilegio gerarchico di Roma si sviluppò. Damaso riuscì a svolgere un’efficace azione politica di rafforzamento e accentramento del potere pontificio, a ristabilire sostanzialmente l’unità dell’episcopato occidentale lacerata dalle lotte ariane, a garantirsi l’appoggio del potere imperiale. Egli diede inizio a una vera e propria politica pontificia. Si vennero costituendo regole pratiche di diplomazia ecclesiastica e procedure di intervento che resteranno tra gli strumenti di governo più tipici della chiesa. Innocenzo I portò risolutamente avanti la politica del primato e contribuii a gettare le fondamenta della monarchia pontificia. Inoltre enunciò per primo il primato della Sede apostolica anche in fatto di dottrina. L’autorità della cattedra romana fu notevolmente compromessa sotto il greco Zosimo, che suscitò il malcontento dei vescovi africani per la condiscendenza mostrata verso i pelagiani e creò contrasti in Gallia per il riconoscimento accordato alle pretese metropolitane di Patroclo di si Arles. I papi successivi dovettero affrontare gravi problemi. Toccherà al grande Leone I rialzare le sorti del pontificato romano. Egli esporrà nelle linee definitive la dottrina del primato di Roma e saprà imporla ai vescovi dell’Occidente. Gli toccherà anche registrare il definitivo distacco dall’Oriente.

5 IL MONACHESIMO

Dal IV secolo si radica accanto al clero il monachesimo. I primi episodi appaiono in Egitto tra la fine del II secolo e i primi anni del IV, allorché la fuga dalla città al deserto, cui molti erano costretti, si colora di motivazioni spirituali e diventa una scelta di vita. Il motivo contestativo fu molto forte alle origini. Ai primi e numerosi termini di riconoscimento, prevalse infine quello di monaco, termine già adoperato da Eusebio. Girolamo e Agostino ne diedero due interpretazioni etimologiche diverse: monaco è colui che vive da solo, o colui che forma una inscindibile unità con i confratelli del cenobio. Cresce con enorme rapidità e si struttura in due tipi principali: eremitismo (vivono in solitudine, sul modello di sant’Antonio) e cenobitismo (dall’iniziativa di Pacomio che intorno al 329 diede vita a una grande comunità presso Tabenissi alloggiata in uno stabilimento

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di più case e circondato da un muro, governata da una “Regola” che gestiva le attività giornaliere. Erano necessari la rinunzia ad ogni bene personale, la povertà del singolo e l’obbedienza al superiore). Nel corso del IV secolo le comunità monastiche si diffusero anche fuori da Tabenissi (es. Convento Bianco nell’Alto Egitto). Insediamenti monastici si ebbero in altre regioni dell’Oriente: nella Palestina, nell’Asia Minore, nella Siria. Nacquero anche forme diverse di insediamento monastico, come nella Palestina la “laura”, costituita da un gruppo di anacoreti che vivevano senza regola, o come il monastero basiliano, più piccolo e raccolto e fondato sull’esercizio della mutua assistenza e carità tra i fratelli e meno isolato rispetto alla società circostante. Basilio di Cesarea (attorno al 370) scrisse una prima raccolta di norme, “Piccolo Asceticon”, e poi una seconda, “Grande Asceticon”. In Occidente le prime notizie furono portate forse da Atanasio, durante il suo esilio italiano del 340. I più antichi episodi di monachesimo sono legati a Martino di Tours, che fondò a Milano un monastero attorno al 360, e poi si ritrasse a vita ascetica nell’isoletta di Gallinaria, infine nella Gallia aquitanica diede vita a un asceterio a Ligure e a una comunità a Marmoutier. All’incirca coeva è la fondazione presso Vercelli di una comunità di chierici da parte di Eusebio: essi si ispiravano a modelli orientali e vivevano pregando e lavorando, lontani dalle cure del mondo. Anche Girolamo passò per iniziative monastiche. Di un monastero milanese patrocinato da Ambrogio, fa menzione Agostino in un celebre passo delle Confessioni. Un forte movimento ascetico s verificò a Roma, dove l’ideale monastico fu predicato, dopo Atanasio, da Girolamo. Le iniziative dell’aristocrazia romana non hanno carattere propriamente monastico, ma sono piuttosto da inquadrare in quel fervore di intraprese ascetiche che talvolta sono state definite un noto premo nastico, ispirate alle istanze più sentite dell’ascesi cristiana ma non ancora segnate dal pieno distacco della società. Nel 387, lasciando l’Italia per l’Africa, Agostino sa di monasteri romani nei quali si vive alla maniera orientale, sotto la guida di un superiore e applicandosi a lavori manuali. Di monasteri romani sappiamo più tardi, sotto Sisto III e Leone I. Di iniziative cenobitiche si fece promotore sant’Agostino al suo ritorno dall’Italia in Africa. A lui si devono le più antiche regole latine: l’Ordo monasterii e il Praeceptum. Dimora ambita dagli asceti furono le isolette disseminate lungo i litorali del Mediterraneo occidentale. L’episodio maggiore di questo monachesimo insulare fu la fondazione, intorno al 410, dall’asceterio di Lerins, sulla costa provenzale, destinato a esercitare influenza profonda e duratura sul monachesimo provenzale e anche europeo. Il monachesimo occidentale deriva a quello orientale. L’influenza dell’Oriente è meno ravvisabile nella prassi e sul piano concretamente normativo che nell’ambito dei modelli. Proveniva invece dall’Occidente o vi si ispirava la prima letteratura monastica, che educò agli ideali dei solitari d’Egitto, Palestina e Siria le vocazioni ascetiche occidentali. La Vita di Antonio di Atanasio venne profondamente tradotta in latino sue volta, prima da un anonimo, poco più tardi, attorno al 375, da Evagrio di Antiochia e in breve tornò una diffusione eccezionale. Le Vite scritte da Girolamo celebrano monaci orientali. Il paesaggio, i modi dell’anacoresi indicati dagli asceti, l’abbigliamento e l’alimentazione dei monaci: tutto rimanda in questi scritti ai modelli culturali dell’Oriente. Le comunità occidentali si strutturarono lentamente. Le regole orientali operarono non già presiedendo direttamente al formarsi di una comunità o direttamente assunte a governarla, ma influenzarono le regole che andarono nascendo in Occidente e fornendo loro piuttosto suggestioni e modelli che un codice sistematico e accettato in blocco. Solo lentamente le regole cominciarono ad essere considerate codici perentori e vincolanti. Vivere secondo la regola significava semplicemente vivere secondo la spiritualità monastica e nel cenobio erano note più regole, che venivano lette e commentate.