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Per una storia della filosofia ermetica \ 6 GEBER: IL MAESTRO DEI MAESTRI di Paolo Lucarelli (saggista) Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n° 54 (dicembre 1990), pp. 14-23, riprodotto per gentile concessione dell'autore, che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo. Nel giugno 2001, alla nascita di Airesis, chiedemmo a Paolo Lucarelli, l’autorizzazione a ripubblicare e diffondere nuovamente, questa volta a mezzo del web, la serie di scritti sull’alchimia pubblicati negli anni ’80 su Abstracta. Lucarelli, dopo aver valutato il progetto, acconsentì senz’altro, ed aderì anche al comitato scientifico promotore dell’iniziativa. Gli sarebbe piaciuto inoltre, ci disse, col tempo, rivedere quegli scritti, aggiornarli in base alle sue nuove conoscenze ed alle sensibilità maturate nel corso degli anni. Quattro anni dopo, nel luglio 2005, Paolo Lucarelli ci ha lasciato. Nell’ospitare la serie completa dei suoi scritti apparsi su Abstracta, Airesis offre l’estremo omaggio alla memoria dello studioso e discepolo della Filosofia Ermetica. «Un certo numero di eruditi e di grandi librai mi hanno assicurato che quest'uomo, cioè Jâbir, non era mai esistito in realtà. Altri dicono che se è esistito non ha mai composto altro libro che quello della Misericordia; quanto alle altre opere che portano il suo nome, sarebbero opera di gente che gliele ha attribuite». Figura confusa da sempre tra storia e leggenda Jâbir, o Geber, come lo chiamavano in Europa, fu il più grande degli alchimisti islamici. Proseguendo nella sua serialità dedicata alla filosofia ermetica, Paolo Lucarelli esamina alcuni dei problemi posti dal corpus geberiano. 1

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Per una storia della filosofia ermetica \ 6

GEBER: IL MAESTRO DEI MAESTRI

di Paolo Lucarelli (saggista) Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n° 54 (dicembre 1990), pp. 14-23, riprodotto per gentile concessione dell'autore, che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo.

Nel giugno 2001, alla nascita di Airesis, chiedemmo a Paolo Lucarelli, l’autorizzazione a ripubblicare e diffondere nuovamente, questa volta a mezzo del web, la serie di scritti sull’alchimia pubblicati negli anni ’80 su Abstracta. Lucarelli, dopo aver valutato il progetto, acconsentì senz’altro, ed aderì anche al comitato scientifico promotore dell’iniziativa. Gli sarebbe piaciuto inoltre, ci disse, col tempo, rivedere quegli scritti, aggiornarli in base alle sue nuove conoscenze ed alle sensibilità maturate nel corso degli anni. Quattro anni dopo, nel luglio 2005, Paolo Lucarelli ci ha lasciato. Nell’ospitare la serie completa dei suoi scritti apparsi su Abstracta, Airesis offre l’estremo omaggio alla memoria dello studioso e discepolo della Filosofia Ermetica.

«Un certo numero di eruditi e di grandi librai mi hanno assicurato che quest'uomo, cioè Jâbir, non era mai esistito in realtà. Altri dicono che se è esistito non ha mai composto altro libro che quello della Misericordia; quanto alle altre opere che portano il suo nome, sarebbero opera di gente che gliele ha attribuite».

Figura confusa da sempre tra storia e leggenda Jâbir, o Geber, come lo chiamavano in Europa, fu il più grande degli alchimisti islamici. Proseguendo nella sua serialità dedicata alla filosofia ermetica, Paolo Lucarelli esamina alcuni dei problemi posti dal corpus geberiano.

Sopra: Geber, part. da un manoscritto del XIV secolo. Sotto: Illustrazione tratta da una delle più antiche edizioni a stampa della Summa perfectionis, testo attribuito a Geber e assai noto nell'ambito dell'alchimia latina.

Il suo nome era Abu Abdallah Jâbir ibn Havvân ibn Abdallah asSufi. Gli autori non sono d'accordo su di lui. Gli Shĵ'iti pretendono che fosse uno dei loro notabili e una delle guide della loro dottrina; dicono che fu uno dei compagni di Ja'far asSâdiq (che Dio sia soddisfatto di lui) e abitante di Kufa. Un gruppo di filosofi al contrario assicura che fu uno dei loro che compose opere sulla retorica e sulla filosofia.

Per parte loro gli adepti dell'arte di fabbricare l'oro e l'argento rivendicano per lui la supremazia in quest'arte, all'epoca in cui viveva, ma dicono che aveva sempre dovuto nascondersi. Aggiungono che andava senza posa di città in città, non soggiornando mai a lungo in uno stesso luogo, nel timore che il sovrano attentasse alla sua vita.«Secondo certi autori Jâbir faceva parte del gruppo dei Barmecidi ai quali era interamente devoto e in particolare a Ja'far ibn Yahya. Coloro che sono di questo parere aggiungono che il suo maestro Ja'far, Jâbir intendesse parlare del Barmecide di questo nome, mentre gli Shĵ'iti pensano che egli volesse indicare Ja'far as-Sâdiq.

«Una persona degna di fede e che si occupava di alchimia mi ha raccontato che Jâbir abitava nella via Bâb as-Sham, nel quartiere detto Quartiere dell'oro. Aggiunse che Jâbir risedeva per lo più a Kufa a causa delle eccellenti condizioni atmosferiche di questa città, e che vi preparava il suo elixir. Quando si demolì a Kufa il portico nel quale si trovò un mortaio d'oro del peso di circa duecento rotls questo stesso uomo mi disse che il sito in cui lo si trovò era lo stesso posto della casa di Jâbir ibn Hayyân e che non si trovò in questo portico che questo mortaio e un laboratorio per la dissoluzione e la combinazione. Questo avveniva sotto il regno di 'Izz-Eddaula, figlio di Mo'izz-Eddaula. Abu Sebekteguin, il ciambellano, mi ha detto che era lui stesso quello che aveva ritirato il mortaio per prenderne possesso. Un certo numero di eruditi e di grandi librai mi hanno assicurato che quest'uomo, cioè, Jâbir, non era mai esistito in realtà. Altri dicono che se è esistito non ha mai composto altro libro che quello della Misericordia; quanto alle altre opere che portano il suo nome, sarebbero opera di gente che gliele ha attribuite» (1).

In questa pagina di un erudito del X secolo sono già riassunti tutti i dubbi ed i problemi connessi con la figura storica del grande alchimista musulmano, il cui stesso nome, «Riparatore figlio del Vivente», con la sua perfetta concordanza ermetica, suscita qualche dubbio di autenticità (2).

Jâbir e lo shĵ’ismo

Innanzitutto va esaminato il possibile legame con lo shĵ’ismo, che già la città di Kufa, e poi la presunta amicizia con i Barmecidi, sembrano sottolineare.

Di Kufa la leggenda narra che fu fondata per l'atmosfera salubre che permise ad arabi malaticci di riprendere forza e vigore illanguiditi dal clima iracheno. Comunque fosse, il sito doveva almeno provocare una singolare inclinazione alla speculazione ed all'azione rivoluzionaria: residenza del genero del Profeta, fu il centro da cui si sviluppò la rivolta della shî'a, il movimento degli «amici di 'Ali», coloro che sostenevano la dinastia di Maometto, i Banû Hâshim, come unici veri Imâm, cioè unici califfi legali.

Quando il 25° giorno del Ramadan del 129 dell'Egira (9 giugno 747) Abû Muslim, emissario della setta Hâshimiyya, spiegò le bandiere nere della rivolta nella provincia di Khorâsân nella Persia orientale, si raccoglievano i frutti dell'opera trentennale di un'organizzazione rivoluzionaria segreta in cui ancora la leggenda vuole il padre di Jâbir tra i fondatori e i protomartiri.

Si dice infatti che verso il 71920 Abû Ikrima, sellaio, e Hayyân , speziale di Kufa, si incontrassero in Siria con l'Imân Muhammad ibn ‘Ali. Questi li inviò nel Khorâsân col mandato di invitare la popolazione a giurare fedeltà alla causa degli Abbasidi e di eccitare il malcontento contro gli 'umayyadi per la loro condotta perversa e l'insopportabile tirannia. Molti aderirono, ma i due finirono per essere catturati. Furono decapitati e i loro corpi impalati.

Secondo questa versione, orfano di padre, nato da poco, Jâbir sarebbe stato mandato in Arabia, probabilmente da qualcuno dei suoi consanguinei della tribù di Azd, per vivere presso i beduini. Qui avrebbe studiato il Corano, la matematica ed altre materie sotto la guida di uno studioso chiamato Harbi al-Himyari.

Nascerebbe dunque Jâbir con la stessa shî'a e ne sarebbe privilegiato esponente.

D'altra parte bisogna ricordare che sin dall'inizio questa setta dimostrò un atteggiamento quantomeno benevolo verso forme di pensiero occulto, per cui qualche studioso è giunto a definire lo shĵ’ismo «esoterismo dell'Islam» (3). Il doppio volto, rivoluzionario e religioso del movimento contribuì certamente a farne ricettacolo di dottrine eterodosse anche se, preso il potere, non poté, come sempre avviene in simili casi, che rinunciare almeno visibilmente a questo lato inquietante che poteva sussistere solo nell'ombra del Palazzo o comunque all'opposizione di una realtà pubblica e legale. Restano però del VI Imâm, Ja'far al Sâdiq, presunto maestro di Jâbir, affermazioni non comuni, segni di una continuità di pensiero sotterraneo: «La nostra causa è un segreto (sirr) dentro un segreto, il segreto di qualcosa che rimane velato, un segreto che solo un altro segreto può spiegare; è un segreto di un segreto che si appaga di un segreto».

Sono frasi che hanno il fascino dell'incomprensibilità. Di fronte alla scelta ufficiale della consuetudine più ortodossa e meno scandalosa. sarà il troncone ismâ'ilita a farsene erede affermando chiaramente (curiosa contraddizione) le due letture del Corano e il contrasto tra il senso interno (bâtin) e esterno (zâhir) con l'infinita trascendenza del primo rispetto al secondo. Ne conseguì una risposta intransigente anche sul piano politico, che la storia vuole falliti e ricca di quei connotati «neri»» e sgradevoli che accompagnano sempre esoterismi che si sono voluti «svelare».

Della dottrina bâtinita sappiamo alcuni metodi esegetici, tra cui l'importanza del valore numerico delle lettere nell'allegoria (ta'wil) del testo sacro: mezzo di prestidigitazione sicuro e ovunque usato per trasferire antichi messaggi in nuovi scritti. Lo troveremo anche in Jâbir. Si aggiungeva, con il consueto tono di presuntuosa propaganda, che solo gli iniziati possono accedere alla conoscenza. Gli altri devono contentarsi di miseri essoterismi: «Noi (gli Imâm) siamo i Sapienti che impartiscono l'insegnamento, i nostri shâ'iti sono i destinatari del nostro insegnamento. Il resto, ahimé, è la schiuma trascinata dal torrente».

Eppure è interessante la citazione di 'Ali che, se non fosse falsa, aprirebbe visioni di vertigine sulla stessa figura del Profeta: «L'Alchimia è sorella della Profezia». Con questa, il primo Imâm e quarto Califfo diviene polo segreto dell'islam, come più tardi, in Occidente, San Giovanni guiderà interpretazioni esoteriche cristiane. In entrambi i casi le influenze ermetiche si notano evidenti, come nella formazione del corpo stesso dell'Imâm, che risulta da una specie di alchimia microcosmica in cui la radiazione lunare scende come rugiada celeste sull'acqua e i frutti di cui si nutrono gli sposi al momento di concepirne la nascita: la sua carne sarà allora «jisni kâfûri» sottile e bianca come canfora. Allo stesso modo i Maestri descrivono il nutrimento rugiadoso del Sole e della Luna dei Filosofi per la generazione del piccolo «Regulus».

Quanto tutto ciò sia frutto di influenze iraniche è argomento di dubbio e di discussione.

È certo, comunque, che nell'ismâ'ilismo, ancor più di quel che non accada per il resto dello shĵ’ismo, i grandi nomi sono per lo più persiani. Il che riconduce alla famiglia dei Barmecidi, potentissimi «visir» dei Califfi, che ebbero nei fatti la guida dell'immenso impero abbaside. In genere sono definiti persiani, ma sembra più corretto considerarli iranici dell'Asia Centrale, discendenti degli aristocratici sacerdoti buddisti della città di Balkh. Il legame tra questi e Jâbir è ribadito in vari passi dei suoi testi, ed in un singolare episodio. Narra che una delle concubine di Yahya al-Bârmaki, di grandissima bellezza ed intelligenza, fosse ridotta in fin di vita da una malattia sconosciuta. Jâbir fu chiamato e, come egli stesso racconta: «Avevo con me un certo elixir e gliene detti una dose di due grani in due once di aceto e miele: in meno di mezz'ora ella era ritornata in salute come prima. Allora Yahya mi si gettò ai piedi e me li baciò, ma io dissi: "Non così fratello", ed egli mi domandò circa gli usi degli elixir ed io gliene detti quanto me ne restava e gli spiegai come doveva essere adoperato: dopo di che egli si applicò allo studio della scienza e perseverò tanto da acquistare molte cognizioni; ma non divenne mai così abile come suo figlio Jâ'far». I rapporti quindi erano molto stretti, se giunsero sino ad un'«iniziazione» all'Arte di Alchimia, ma questo fugherebbe l'ipotesi di un insegnamento ricevuto da Jâ'far al-Bârmaki, il visir di Harûn al-Rashid, perché allora sarebbe stato Jâbir ad ammaestrare i Barmecidi e non l'inverso.

Tuttavia ci pare illusione cercare di fissare con documenti, date e fatti qualcosa che ha più della favola che della realtà. Ricordiamo che siamo alla corte del Califfo delle Mille e una Notte, e che Jâ'far al-Bârmaki è il suo fedele compagno nelle storie che vi si narrano. Baghdâd, appena fondata sulla riva occidentale del Tigri, presso le rovine di Babilonia, risplende di tesori e misteri nella quiete promessa dal nome che al-Mansûr volle darle, Madinat as-Sâlam, Città di Pace. L'eroe dell'epoca non è il guerriero, ma Sindbad il mercante marinaio, l'avventuriero del fantastico e dell'improbabile, accettati entrambi con entusiasmo da una classe borghese colta, curiosa e vagabonda, che nel momento del pericolo pone la sua fede e speranza in Dio e nel suo volere. È un mondo colmo di maghi, geni, principesse stregate e assurde combinazioni che si rinchiudono in sé stesse, come cerchi concentrici che mostrano sempre il giusto pesare della bilancia divina. I primi Sùfì si aggirano per le strade dei bazar a testimoniare una mistica nuova e irriducibile; mentre nelle scuole della Sunna vecchi eruditi estraggono dal Libro Santo commenti appropriati per guidare le genti dell'Islam nel loro vivere quotidiano.

In questo mondo pacifico, ricco, pieno di incanti e di mistero accettiamo allora l'ennesima novella del cantastorie che ci narra di un alchimista chiamato Jâbir ibn Hayyân al-Sùfi al-Azd al-Kufi at-Tusi, che per volere di Allah, il Misericordioso, ottenne il dono della Pietra che Transmuta in oro, e scrisse migliaia di pagine per insegnare ad altri l'Arte Divina.

Davvero il «Corpus» jâbiriano è immenso, anche nella parte conservata e trasmessa nei secoli. Sono centinaia di capitoli che, pur considerando la piccola mole di alcuni, sembra difficile poter attribuire all'opera di un solo uomo. Si parla allora di «Scuola» e di autori che misero i loro scritti sotto l'autorevole nome del Maestro, a significare continuità di tradizione, valore del messaggio e umiltà di cuore. Un erudito dell'epoca commenta questo ipotetico atteggiamento con saggio scetticismo (4): «Per conto mio io dico che un uomo di merito che si mettesse al lavoro e si desse la pena di comporre un volume di due mila pagine, facendo appello a tutte le risorse del suo spirito e della sua intelligenza, senza contare la fatica materiale che gli imporrebbe il lavoro della copia, e che in seguito mettesse il suo libro sotto il nome di un altro personaggio esistito o no, sarebbe un imbecille. È una cosa che nessun uomo in possesso di qualche tintura della scienza non intraprenderà mai e non vorrà accettare; infatti che profitto e che vantaggio ne trarrebbe?». E conclude: «Jâbir dunque è esistito in realtà: la sua personalità è certa e celebre, ed è l'autore di opere molto importanti e molto numerose».

L'athanor secondo un'illustrazione tratta da una edizione della Summa perfectionis (Roma, 1542)

In effetti l'insieme delle opere di Jâbir sembra ammontasse a più di 3000 titoli: si sono conservati 215 trattati, tutti dedicati in qualche modo all’Arte Alchemica (5). Abbastanza eterogenei per composizione e tecniche proposte, hanno una evidente fisionomia che li accomuna, per cui non pare impossibile immaginarli di un unico autore dotato di insopportabile prolissità e di inafferrabile coerenza.

Jâbir praticava, egli stesso lo afferma, il principio della «dispersione della scienza», tabdìd al 'ilm, con incredibile perizia e «invidia» profonda, pretendendo evidentemente dai suoi eventuali lettori una pazienza infinita e un'attenzione spasmodica. Probabilmente nessun altro autore ermetico si è spinto tanto in là nella descrizione analitica delle operazioni, ma è certo che nessun altro ha spinto a tanta disperazione i profani che hanno osato avvicinarsi ai suoi scritti.

Talvolta pare colto da una specie di ingannevole compassione. Cosicché dopo che nei lunghi, noiosissimi, 70 Libri, ha ripetuto per decine e decine di volte le stesse descrizioni di una strana distillazione da compiersi assolutamente con steli di mirto (qualche studioso moderno l'ha preso sul serio, immaginando studi anticipati sulla capillarità), nel Trattato sul Mercurio Occidentale confessa: «Vi abbiamo detto (in un'altra opera) di distillare su degli steli di mirto... ma non si tratta qui del mirto che voi credete, perché noi abbiamo l'abitudine di togliere alle cose i loro veri nomi, per dargli quello di una cosa conosciuta che è in rapporto con la preparazione della Pietra ... »

Prosegue dando alcune indicazioni che fanno intendere che non solo non di mirto si trattava, ma nemmeno di distillare una sostanza liquida: «... mirto che Maria chiama "gli scalini dell'oro", che Democrito chiama "l'uccello verde" e che i filosofi hanno denominato con diversi appellativi e soprannomi allo scopo di dissimularne la conoscenza agli iniziati e a più forte ragione a coloro che non lo sono. ... Lo si è chiamato così a causa del suo color verde e perché è simile al mirto nel fatto che conserva a lungo il color verde, malgrado la alternanza di freddo e di calore. Questa cosa verde, chiamata mirto, esce come un germoglio da una base chiamata lo stelo del mirto. ...È questo stelo che brucia l'anima della pietra e ne consuma le impurezze combustibili, esso ne sbarazza tutti i principi che la corrompono, rende alla vita il morto e il fuoco non ha più azione su di lui... ».

Come si vede, ne scaturisce un'immagine ben diversa da una distillazione normale: in effetti l'operazione pare più simile ad una calcinazione in crogiolo di una sostanza con l'aggiunta di un'altra che ne risucchi in qualche modo la parte più pura.

Con tutto ciò l'Adepto si è ancora ben guardato dal dire troppo, e le indicazioni mancanti sono forse celate in un altro testo, o in un ennesimo enigma, o, più probabilmente, riservate a chi, giunto a questo punto sperimentale, sappia riconoscere ciò di cui si parla.

Nel Piccolo Libro della Clemenza, Jâbir ammette le difficoltà, per non dir peggio, di questo approccio testuale, descrivendo i supposti rimproveri del suo Maestro. È una descrizione molto dettagliata del suo metodo di insegnamento scritto, che vale ripetere a memento di chiunque voglia studiarne i testi: «Il mio maestro mi chiamò: o Jâbir! Maestro, gli risposi, eccomi ai vostri ordini.

Tra tutti i libri, mi disse allora, che tu hai composto e nei quali hai trattato dell'Opera... ve ne sono che hanno la forma allegorica e il cui senso apparente non offre alcuna realtà. Altri hanno la forma di trattati per la guarigione delle malattie e non potrebbero essere compresi che da un sapiente abile. Alcuni sono redatti sotto forma di trattati astronomici, che contengono delle osservazioni e delle equazioni; là l'Opera è racchiusa nella scienza astronomica, così bene che l'Opera non è comprensibile che per i soli grandi sapienti: ora, quelli non hanno bisogno di trattati. Ve n'è che sono sotto la forma di trattati di letteratura, dove le parole sono usate talvolta con il loro senso vero, talvolta con un senso figurato: ora, le tracce della scienza che dà l'intelligenza di queste parole sono scomparse e gli iniziati non esistono più. Nessuno dopo di te quindi potrà più coglierne il senso esatto. Ve n'è che sono basati su delle particolarità, che si possono in seguito sviluppare per analogia e riflessione: su questo punto non c'è differenza tra te e gli altri. Infine tu hai composto numerose opere sui minerali e sulle droghe, e questi libri hanno turbato lo spirito dei cercatori che hanno consumato i loro beni, sono diventati poveri e sono stati spinti dal bisogno a coniare monete di falso peso o a fabbricare pezzi falsi, e la colpa di tutto questo è tua, e di ciò che hai scritto nelle tue opere... ».

In questo senso i trattati dedicati alla cosiddetta Scienza delle bilance sarebbero senza dubbio i più meritevoli di rampogne; se mai il Maestro di Jâbir potesse ancora parlare. Non a caso, sono anche quelli che hanno suscitato più interesse e maggior esegesi da parte degli studiosi profani, grazie ad una loro apparente comprensibilità, seppure totalmente assurda.

Geber è raffigurato in alto, a sinistra, tra i mitici fondatori dell'alchimia, in questa xilografia tratta dal Theatrum chemicum britannicum di Elias Ashmole

Sono 144 trattati che partono da una teoria quasi scontata in ermetismo: che un corpo incorruttibile richiede un perfetto equilibrio tra le Nature che lo compongono, dove ad una lettura ingenua si intendono le classiche quattro nature aristoteliche, Caldo Freddo Umido Secco.

Da qui Jâbir trae lo spunto per sviluppare un'ipotesi quantomeno bislacca, che vuole calcolare a priori il peso relativo delle «Nature» di un ente qualchessia. Tutte le misure sono ricondotte ai numeri 1,3,5,8 con il loro magico totale di 17. Leggiamo un passo in cui sviluppa questo argomento: «Sappiate che ogni cosa in questo mondo, cioè nel mondo di esistenza e di corruzione, non può possedere più di 17 forze. Inoltre se essa possiede 1 unità di calore, essa ha necessariamente 3 unità di freddo. Reciprocamente se essa possiede 1 unità di freddo, avrà 3 unità di calore; non esiste nessuna altra proporzione per le cose agenti. Se la cosa ha 5 parti di secchezza, ne avrà 8 di umidità, e reciprocamente se ha 8 parti di secchezza ne avrà 5 di umidità. Questa è la regola assoluta per le cose passive. Tutte le combinazioni delle cose così sono stabilite. Ritenete questo, agite di conseguenza e voi allora troverete la vera via, col permesso di Dio».

E ancora: «Questa è una conseguenza delle 17 forze. In effetti una parte di calore può sviluppare e mettere in movimento 8 parti di umidità e 8 di secchezza, quali che esse siano. La messa in movimento della secchezza col calore è più facile della messa in movimento dell'umidità; perché l'umidità è più pesante e appartiene al genere del freddo, sebbene vi sia al momento mescolanza e unione tra lei e il calore. Abbiamo detto che le 17 forze rappresentano qui solo una parte di uno degli agenti e 5 pani dell'altro paziente, ora 5 e 4 fanno 9 e 8 fanno 17. Questa è la base del mondo, sappiatelo».

La Bilancia perfetta sarà quella delle Lettere. Giocando sul fatto che in arabo i numeri sono rappresentati anche dall'alfabeto. Jâbir trae da computi sui nomi delle cose, secondo complesse matrici, valori conclusivi sulle relazioni tra nature che darebbero opportuni suggerimenti di riequilibrio.

Tutto ciò, come abbiamo già detto, appare del tutto assurdo e darebbe, se preso alla lettera, una ben misera immagine di uno dei più grandi Filosofi Ermetici. In realtà in questi testi Jâbir sfrutta tutte le possibili astuzie dell'inganno testuale, e nell'originale arabo non mancano a completare i trabocchetti giochi di parole cui la lingua semita si presta particolarmente. Non è tuttavia impossibile che la trattazione originaria fosse in greco, come vorrebbe lo stesso autore: «La scienza delle bilance non ha cessato di esistere dall'epoca di Sergio che al momento della sua morte l'ha trasmessa ad un sapiente di questo mondo, facendogli prendere l'impegno di non parlarne e non discorrerne che con un filosofo come lui e non con altre persone. Questo è continuato sino alla mia epoca, quando ho dovuto raccogliere la tradizione che non poteva essere confidata che a me solo, perché ero l'ultimo dei rappresentanti di questa scienza. Mi è stato richiesto di impegnarmi a mantenere il segreto per me e a non diffonderlo; ma ho rifiutato di accettare la tradizione a queste condizioni. (Ho deciso perciò di divulgare) parte di questa scienza, e ne nasconderò una parte, dando certe cose e tenendomene altre».

In realtà, come avrà capito chiunque abbia un po' di «tintura di dottrina» (per usare l'espressione consacrata dall'uso) si tratta qui del misteriosissimo problema dei Pesi della Grande Opera, che sono di due tipi, cosiddetti dell'Arte e di Natura. Del secondo nessuno, nemmeno i più grandi Adepti, conosce le proporzioni, che d'altronde non servono per operare. Dei primi, invece, tutti gli autori riconoscono la grande importanza in quelle prime operazioni che permettono alle Nature, filosofiche e non aristoteliche, di attirarsi, congiungersi e interagire per generare gli occulti fenomeni di cui si parla nei testi. In Alchimia nulla è più difficile a conoscersi dell'inizio, massimo arcano dell'Opera, di cui si è taciuto o si è parlato solo per enigmi. Jâbir in fondo si mostra più «caritatevole» di altri nel suo tentativo dichiarato di aprire quantomeno la strada ad una possibile conoscenza. Non lo si può certo accusare per la follia di chi lo vuole intendere letteralmente e s'intesta a ragione su una teoria manifestamente insensata e impraticabile (6).

In realtà nulla nell'opera di Jâbir fa dubitare della concretezza delle sue opinioni o della serietà sperimentale delle sue proposte operative. Come tutti i veri Filosofi della Natura, anche l'Adepto musulmano insiste sulla necessità di un atteggiamento che oggi potremmo definire «scientifico», nel senso più moderno del termine. Per rendersene conto basta leggere questi passi, che, tra l'altro. sono paradossalmente proprio in introduzione all'argomento della «Bilancia».

Carovana araba, da un manoscritto del XIII secolo.

« … È un principio rigoroso ed assoluto che una proposizione che non è sostenuta da prove è una semplice affermazione che può essere vera o falsa. È solo quando se ne sarà data la prova che diremo, "il tuo dire è vero"... Sinché non vi avranno fornito queste prove, dovete giudicare ciò che avete inteso come una cosa che vi colpisce, ma che non vi convince; qualsiasi proposizione potendo essere falsa o vera; e per lo più falsa quando le prove sono lontane.»

Queste affermazioni sono ribadite nel Libro della Misericordia (Kitâb ar-Rabman, chiamato anche K. Al-Uss, Libro della Fondazione) il più antico dei suoi scritti, che si dice sia stato trovato sotto il guanciale quando morì a Tûs nell'815. Qui la descrizione del corretto modo per affrontare lo studio e la pratica della Grande Opera dà suggerimenti preziosi e semplici, che non lasciano molto spazio a fantasie occultistiche.

«O uomo intelligente! se il vostro spirito vi fa desiderare di conoscere quest'Opera, sappiate innanzitutto se è vera, o se non esiste; se voi potete acquisirla o no. Bisogna giungere a che abbiate su quello una certezza e che in nessun modo conserviate alcun dubbio a questo riguardo.

«Se voi avete acquisito questa certezza, sia con i vostri sensi, se siete intelligente, sia per induzione, che è l'equivalente dei sensi, bisognerà allora che sappiate con cosa può essere fatta l'Opera, se è con le pietre, le piante o gli animali, e sceglierete il modo più vicino e più verosimile per giungere allo scopo.

«In seguito bisognerà che sappiate se è una cosa unica, semplice, non complessa il che non esiste in questo mondo o se si tratta di due cose concordanti e combinate, di due cose divergenti e combinate, o infine di più cose concordanti e combinate.

«Bisogna anche sapere se questa combinazione è opera della Natura, o se è stata immaginata dai Filosofi.

«Poi sarà necessario sapere come si opera, se si deve operare la cottura di questa materia isolatamente e allora effettuare la sola sublimazione, oppure compiere una semplice decomposizione, oppure ancora eseguire nel contempo la sublimazione e la decomposizione. Infine dovrete sapere se il nero di questa tintura deve operare una trasformazione completa o incompleta.

«Quando saprete tutto questo in modo certo, e non avrete più il minimo dubbio a questo riguardo, non vi preoccupate della fatica del vostro corpo, della spesa del vostro denaro, né dell'abbandono dei vostri affari; perché allora sarete glorificato agli occhi delle persone intelligenti e degli uomini sagaci.

«A questo punto completate le cose di cui non vi potete dispensare e poi occupatevi delle cose dell'Opera; non spendete per questa più del superfluo della vostra fortuna. Chiedete a Dio che vi assista all'interno ed all'esterno per tutto ciò che desidererete, lavorando con tutta la vostra forza. Abbiate cura di leggere i libri di questa Scienza e fatevi aiutare dalle persone intelligenti che si occupano di questi lavori, perché i libri sono inchiavardati e le chiavi dei loro catenacci sono nei petti degli uomini».

Tra i segreti «inchiavardati» nei petti dei Maestri, uno dei più gelosamente custoditi è certamente il nome della cosiddetta «Materia Prima», fondamento operativo e base concreta della Grande Opera. Qui Jâbir sembra abbia creato un'ambiguità che lascia oggi perplessi gli studiosi. Infatti nei 70 Libri, Kitâb al-Sab'in, tra le decadi che compongono il testo, le prime descrivono l'Opera servendosi di sostanze animali, vegetali e minerali, seppure con un degrado dell'Elixir ottenuto. Jâbir sarebbe allora il primo, se non l'unico alchimista, a proporre un processo che si scosti dal regno metallico.

I1 realtà si è notato che quando dovrebbe trattare della cosiddetta «Opera Animale», hayawâni, il testo parla di tutt'altro e che i riferimenti a sostanze specifiche sono quasi nulli. La stessa impostazione del Libro appare paradossalmente, sin dalla dichiarata intenzione di voler insegnare procedimenti di durata progressivamente ridotta e di grado di difficoltà crescente, per cui un commentatore attento ha immaginato una specie di sistema pedagogico per accompagnare con una sperimentazione diversa il crescere spirituale e intellettuale dell'apprendista, in una specie di iniziazione graduale (7).

Sul problema della Materia, comunque, è ancora il Libro della Misericordia, a nostro parere il più chiaro e il meno «invidioso» dei suoi testi, a sciogliere i dubbi. Vi si afferma: «Certi autori sono del parere che l'operazione animale sia praticata con materie non viventi che provengono dagli animali; per esempio col sangue, con l'urina, la saliva, il cervello, il fiele. Ma tutto ciò è lontano dal dare un risultato, perché vi è troppo scarto tra l'animale e il minerale. Non si può trasformare la natura di una cosa che trasformandola in una natura a lei vicina e che contiene una certa quantità della sua azione e della sua potenza... O mio Dio, non vi sei che tu che puoi trasformare l'animale in un minerale inerte, senza operare mescolanze e senza utilizzare tintura. Ma non è questo lo scopo che si propongono questi autori e ciò che li ha portati ad emettere questa opinione, è la loro ignoranza sulla creazione dei tre regni: i minerali, le piante e gli animali, e anche l'ignoranza nella quale erano relativamente ai gradi di trasformazione delle sostanze le une nelle altre: perché i metalli sono già creati nei loro minerali. Se avessero conosciuto la verità a questo riguardo, sarebbero arrivati al risultato cercato senza il minimo sforzo».

In precedenza aveva detto: «La distinzione tra le cose animali e terrose è la seguente, le cose animali sono il mercurio, l'oro, l'argento, il piombo, il rame e il ferro. Le cose terrose si dividono in due categorie, viventi e morte; tra le viventi si ha lo zolfo, l'arsenico, il sale ammoniaco e tutto ciò che fonde e brucia e di cui il fuoco fa uscire lo spirito. La seconda categoria, quella delle cose morte, comprende tutto ciò che non fonde, né brucia, né dà vapori...».

Evitando l'inganno di un'interpretazione letterale troppo «chimico-fisica», si vede ribadito qui un tema comune a tutta la letteratura ermetica, quello della distinzione tra sostanze vive e morte. Jâbir le definisce ajsâd e ajsâm. Le seconde non sono utili per l'Opera che è detta «Animale», perché nasce da corpi «animati». Gli autori successivi li diranno anche «filosofici», per distinguerli più nettamente.

La confusione certo è voluta, Ma in conclusione si risolve in perfetta coerenza con la tradizione.

Studioso di grande cultura e di insaziabile curiosità, l'Adepto ha arricchito i suoi trattati con infinite applicazioni particolari di processi di vera e propria «chimica» in senso moderno, che dimostra di conoscere e padroneggiare sia nell'analisi di sostanze, che nei procedimenti per via umida e secca. L'elenco dei suoi scritti comprende opere su una amplissima serie di argomenti che vanno dal computo astronomico, alla geometria, alla logica, alla medicina, sino all'ingegneria militare. Una specie di genio multiforme quindi, il cui nome divenne simbolo di Filosofo ermetico per eccellenza. Latinizzato in «Geber», preposto ad altri testi, fu oggetto di benedizioni e invettive da parte di generazioni di studiosi, alcuni dei quali avrebbero ben volentieri sottoscritto queste sue parole di apparente contrizione:

«Ho visto, in effetti, moltiplicando il numero dei miei libri, allungandoli e riempiendoli di fatti, che nessuno potrebbe arrivare a scoprirne la verità, a meno di consacrarvi tutta la sua vita, di avere un'intelligenza superiore, di dedicarvi tutto il suo studio, di vegliare notte e giorno e di rinunciare a frequentare i suoi amici, privandosi così della felicità completa».

Eppure, nei secoli, pare non sia mai mancato che qualcuno accettasse queste spiacevoli condizioni.

Il volatile (l'aquila) e il fisso (il serpente) sono tra i simboli raffigurati in questo foglio da un codice alchimistico arabo del XVIII secolo

Note:

(1) Fihrist. Op. cit. X sezione.

(2) La radice JBR è oggetto di numerosi giochi di parole; tra l'altro può generare uno dei nomi di Dio, Jâbbar, l'Onnipotente.

(3) H Corbin, Storia della Filosofia Islamica. Milano 1973.

(4) Fihrist. op cit.

(5) Per quel che segue vedi in particolare, The beginning of Arab Alchemy, by Mohammed Yahia Haschmi, in «.Ambix», IX. 3. The Antiquity of Alchemy, by H.E. Stapleton, in «Ambix» V. 1-2. E. John Holmyard, Storia dell'Alchimia, Firenze 1959. Jâbir ibn Hayyân, Dix traités d'alchimie... traduit de l'arabe et commenté par Pierre Lory. Paris 1983,

Berthelot, opp. citt., Seyyed Hossein Nasr, An introduction to Islamic Cosmological Doctrines. London 1978. Lo studio più completo comunque. con una catalogazione di tutti i trattati conservati, si trova in: Jâb ibn Hayyân. Contribution à l'histoire des idées scientifiques dans l'Islam. Par P.Kraus. Paris 1986.

(6) Vedi ad esempio le analisi, peraltro completamente opposte, di Kraus e Corbin, o gli studi dello Stapleton sul quadrato magico di Saturno.

(7) P. Lory, op. cit.

Il segreto del fiore d’oro

O

del grande Uno

Pierpaolo Pracca Antropologo, Psicologo e Psicoterapeuta

Maestro taoista che tiene in mano l'elixir di lunga vita. Statuina di epoca Ming.

Senza principio, né fine,

Senza passato, senza futuro,

Un alone di luce circonda il mondo dello spirito.

Ci si dimentica a vicenda, calmi e puri pieni della potenza e del vuoto.

Lu Tzu – Il segreto del Fiore D’Oro

(*)

Il trattato del Fiore d’Oro o del Grande Uno è quasi l’unico testo completo che si conosca, riguardante le pratiche iniziatiche cinesi ed in particolare il taoismo operativo. Gli insegnamenti del libro, attribuiti al maestro Lu-Tzu, che visse fra la fine dell’VIII e il principio del IX secolo d.C. hanno per oggetto procedimenti di alchimia interiore, spirituale, la quale con particolari tecniche di meditazione e di direzione delle “correnti sottili” dell’organismo mira alla trasmutazione ed alla integrazione dell’essere umano, alla dischiusura della coscienza sulla trascendenza e sull’originario, dischiusura simboleggiata appunto dal fiore d’oro. Questi insegnamenti si rifanno non solo al taoismo ma anche alla forma Zen del buddismo. Il Segreto del Fiore d’oro è un documento assai interessante, unico nel suo genere in cui si trovano le premesse di gran parte delle Psicologie orientali e delle pratiche yogiche (Tai chi e Qi-Qong) oggi tanto in voga in occidente.

E’ un testo che si propone di insegnare al praticante la via della immortalità dell’anima e del corpo.

La singolarità del pensiero taoista è che l’anima non esiste di per sé ma è il risultato di una costruzione che in vita viene agita dal meditante sfruttando come base imprescindibile il corpo materiale. Per giungere a tale risultato, secondo la tradizione taoista è necessario un lungo lavoro alchemico durante il quale l’anima ed il corpo immortale si costruiscono misteriosamente all’interno del corpo materiale, attraverso una complessa pratica meditativa, che prevede tecniche di respirazione, visualizzazione unite ad una severa disciplina alimentare.

Quindi si può dire che il fine ultimo di questo singolare trattato è l’insegnamento del raggiungimento del cosiddetto corpo di luce, uno stato di illuminazione in cui l’uomo da umano trasfigura in un essere divino.

Il Segreto del fiore d’oro, a lungo considerato un classico della letteratura esoterica, è sicuramente un testo che si presta a molteplici letture e a diversi registri interpretativi, che vanno da quello fisiologico, a quello psicologico e filosofico-religioso.

Il trattato del fiore d’oro non si presenta come l’esposizione sistematica fatta da un maestra spirituale ma come l’annotazione di elementi del suo insegnamento ad opera di discepoli, i quali possono anche non avere udito le parole di chi lo esponeva. Lo sviluppo del testo non è lineare, ma per così dire a spirale. La logica che compare nel trattato è di tipo assai diverso rispetto alla nostra. Il pensiero espresso è ricco di metafore, di analogie tipico del pensiero orientale. Accostandoci a questo testo dobbiamo preliminarmente considerare che ci stiamo movendo in una mentalità molto distante dalla nostra, ci troviamo quindi di fronte ad un pensiero premoderno e prescientifico.

Il trattato del Fiore d’oro si propone come un vero e proprio manuale di istruzioni dato all’iniziato per tornare al grande uno da cui è derivato, cioè per porre fine all’incessante processo dell’individuazione dell’anima nella materia. Per rendere ciò possibile è necessario che l’individuo prendendo coscienza di essere lontano dalla luce (vero yang) operi per ritornare all’unità originaria. La cosa interessante è che all’unità sarà possibile tornare operando sul proprio corpo, riunendo ciò che è diviso attraverso una via di meditazione. La assoluta originalità di questo pensiero riguarda riguarda la concezione dell’anima che non risulta qualcosa di dato a priori per l’essere umano, ma deve essere costruita durante la nostra esistenza terrena giorno per giorno attraverso un opera alchemica che ci vede impegnati in un processo di integrazione e trasformazione dei nostri livelli esistenziali, fisici e mentali. Il luogo in cui si svolge la grande opera è il nostro corpo, che assume il valore di atanor. In termini teologici possiamo dire che è l’individuo che si costruisce l’anima o meglio opera per ritornare a quel grande uno dal quale è stato originato per poi individuarsi nella materia. Questa incarnazione nella materia porta ad una divisione dell’anima in due principi coesistenti nel corpo che l’uomo attraverso una dura disciplina dovrà ricongiungere. Si tratta del sing (mente, respiro, emozioni) legato ad una dimensione verticale e del ming (materia, pulsioni sessuali, umori corporei) dimensione orizzontale dell’uomo. Il punto di incontro tra le due dimensioni è quel centro essenziale dell’essere verso il quale converge tutto lo sforzo realizzativi. Il segreto del fiore d’oro sostiene che sing e ming sono il segreto più sottile del tao. Per nutrire e fondere insieme sing e ming il mezzo migliore è ricondurli all’unità.

Per rendere possibile ciò afferma il Fiore d’Oro è necessario immergere lo spirito nel basso ventre. In questa frase è sintetizzato un concetto alchemico fondamentale per il taoismo, ovvero le nozze del fuoco (mente, respiro- shen e Qi) e acqua (liquido seminale, pulsione sessuale, Jing). Se anziché far fluire all’esterno il principio liquido (seme-jing) lo si trattiene con la forza della mente, così che essa sgorghi verso l’alto nutrirà il corpo ed il cuore. La differenza tra l’uomo comune e il saggio sta unicamente nel prendere la vita a ritroso; nel linguaggio taoista questa regressione è espressa con il termine huan yuan (far ritornare all’origine) o andare controcorrente. Il saggio o attraverso tecniche di controllo del respiro e dell’energia sessuale anziché aprirsi al mondo attraverso un atto procreativo utilizza la forza vitale del seme unito al respiro per dare vita ad una supercoscienza. L’unione del ki con il jing rappresenta la penetrazione della terra (yin) ad opera del cielo (Yang), ma anche la risoluzione della dualità cielo-terra. Si ritorna perciò allo stato anteriore alla separazione di sing e di ming di spirito e materia ossia alla potenzialità primordiale, ritorno alla in distinzione del Tai Chi, ossia del grande uno. Questo è il significato essenziale del metodo a ritroso nonché il fondamento dell’alchimia interiore e dell’embriologia iniziatica. Con questo procedimento il fuoco-spirito purifica la materia acqua-seme. Il fuoco e l’acqua si mescolano e si fondono. Questa unione tra questi due principi permette la costituzione di un embrione, che in seguito dovrà essere sviluppato mediante il calore e il nutrimento. Ad avvenuta maturazione del frutto sacro o del fiore d’oro nasce il fanciullo e torna al vuoto ossia al principio. Il processo è indicato in termini analoghi da altri testi taoisti come il tao-si king ( Il libro della respirazione embrionale). L’essenza (seme) e il soffio (Mente) dando luogo all’embrione (anche nella mitologia ebraico-cristiana il dio insufflando lo spirito nella materia la rende viva).

Questo è il procedimento del cinabro inferiore o tan tien che come afferma Maspero (1973) porta a non morire

Chi muore senza conoscere questo punto germinale non troverà l’unità di coscienza e vita neppure dopo mille nascite, né in diecimila eoni

Col ritorno all’origine ritroviamo un simbolismo noto e universale. Si tratta di una idea essenziale del taoismo. La restaurazione dell’essere è tale da procurare una nuova gioventù o in ogni caso la longevità. Lo stadio embrionale primordiale o edenico a cui si torna è quello partendo dal quale potranno essere realizzati gli stati superiori dell’essere. Esso conduce non alla longevità ma alla immortalità.

Solitamente il misticismo è volto al ricongiungimento con l’uno attraverso una strada che vede nella negazione del corpo uno dei punti fondamentali (il corpo come prigione dell’anima). Per il taoismo invece è inconcepibile tornare al grande uno senza l’utilizzo del corpo che riveste una importanza primaria per creazione di un’anima e di un corpo imperituri.

Il metodo del fiore d’oro prevede una discesa al centro della terra, che poi permetterà l’ascesa vesro il paradiso celeste. ( Riferimento a Carlo Puini scritto del 1920 in cui si mette a confronto i mondi ultraterreni taoisti con quelli evocati da Dante nella Divina Commedia). Se il soffio bianco (liquido seminale) verrà fecondato dal soffio rosso (respiro) l’embrione nascerà da sé. Ma qual è la natura di questo embrione? Per la tradizione alchemica taoista come per quella buddista oltre al corpo materiale vi è un corpo chiamato immagine del Budda. Si tratta della estrazione di un sé o corpo fatto di spirito dal corpo fisico. Per il taoismo l’unione di ki (respiro, energia vitale) e jing produce il jing-ki o corpo sottile. Troviamo un concetto abbastanza simile in un pensatore rinascimentale come Paracelso il quale afferma: “ chi vuole entrare nel regno di Dio deve anzitutto entrare col suo corpo nella madre e morirvi” . Da qui il simbolismo di una seconda nascita ma ad un livello superiore. Il ritorno alla madre significa il raggiungimento del cinabro divino, della pietra filosofale, dell’elisir di lunga vita…..Queste cose si possono ottenere solo attraverso un ritorno all’indifferenziato, ritorno che si realizza con la fusione nel crogiuolo alchemico dei due principi jing e qi . Se nella tradizione alchemica occidentale il riferimento è alla antica tradizione metallurgica e alla capacità di trasformare il metallo vile in oro, nella tradizione alchemica taoista la trasformazione riguarda processi fisiologici del corpo umano. Il metodo esposto nel nostro trattato ricorre a tre principi:

l’acqua seminale

il fuoco dello spirito

la terra dei pensieri

L’acqua si manifesta nel jing principio umido che risiede nei reni (yin), il fuoco dello spirito si manifesta nel qi (principio igneo-yang). Il prodotto della loro interazione è il sale (tan) o solfuro di mercurio cinabro. Questa terra tan è definita sia come il luogo del loro incontro sia come il loro prodotto. Il solfuro di mercurio o cinabro è visto come oro puro. Quando è raggiunto il cinabro, l’oro alchemico il corpo è come legna secca, il cuore come cenere spenta, che uscendo dall’essere e rientrando nel non essere torna alla vuota infinità…senza principio e senza fine…senza passato e senza futuro..la coscienza si dissolve in contemplazione. L’unità di coscienza e vita è il tao, il cui simbolo è la luce bianca o il fiore d’oro (analoga a quella del Bardo Todol o libro tibetano dei morti). Questa luce dimora nel pollice quadrato presente tra gli occhi e si arriva a contattarla nel momento in cui riusciamo ad invertire la direzione dell’energia. Stiamo parlando di un processo di autoconoscenza mediante una incubazione di se stessi. Una analoga rappresentazione archetipica dell’essere umano perfetto è quella dell’uomo platonico completamente sferico, che unifica in sé anche i due sessi. Durante questa esperienza le sensazioni corporee scompaiono e ciò indica che la nostra attenzione viene ritirata ed impiegata a rafforzare la chiarezza della coscienza. Il fenomeno è di regola spontaneo, sopraggiunge e scompare autonomamente. La realtà appare con un significato diverso, l’uomo ha l’impressione di saper conferire senso alla realtà nelle sue molteplici contraddizioni….questa esperienza ricorda quella del sé per la psicologia Junghiana e le esperienze di vetta della psicologia transpersonale.

Qual è l’atteggiamento per realizzare il fiore d’oro?

Che cosa hanno fatto i maestri per provocare questo processo alchemico? Il maestro Lu Tzu insegna a non fare (concetto di Wu – Wei) poiché la luce circola secondo le sue leggi. E’ la legge del non fare alla base della pratica taoista, è l’abbandonarsi alla pratica ed alla vita come troviamo anche in maestro Echart il quale affermava che bisogna essere psichicamente in grado di lasciare accadere. Ed è proprio questa speciale attitudine dello spirito che insegna il taoismo, l’abbandonarsi con fiducia alla vita diventando vuoti e senza scopo, come cenere spenta. Ciò tuttavia richiede tempo e forse proprio a questa consapevolezza legata al tempo necessario si è sviluppato tutto un filone di studi volto a prolungare la vita, non per un narcisistico sogno di immortalità, ma al contrario in conseguenza dell’umile riflessione che per costruire e coltivare un’anima a volte non sono sufficienti molte vite.

Ma questa è un’altra storia….

(*) Questo scritto è dedicato alla memoria del Dott. Stefano Galizia studioso e maestro del pensiero taoista.Prima pubblicazione in "Anthropos & Iatria: rivista italiana di studi e ricerche sulle medicine antropologiche e di storia delle medicine", anno VII n°I, (Gennaio - Marzo 2003)

AVATÂRA – LA DISCESA DEL SIGNORE

Paolo Magnone – Lingua e Letteratura Sanscrita (Univ. Cattolica di Milano)

Visnu con i suoi quattro emblemi: disco, mazza, loto e conchiglia

Comincia una serie di interventi del prof. Paolo Magnone, già pubblicati, alla fine degli anni '80, sulla rivista Abstracta. La breve serie analizzerà, uno alla volta, le figure di alcuni degli avatâra più interessanti tra quelli proposti dalla mitologia indiana. Riproponiamo integralmente gli articoli così come furono allora pubblicati.

Tra tutte le figure che popolano il lussureggiante immaginario religioso dell’Induismo, l’avatâra è certo una di quelle che hanno trovato piú vasta eco in Occidente. Un motivo ne è senza dubbio che l’avatâra ha una maniera seducente di coniugare una confortevole familiarità con un esotismo stimolante. L’avatâra è il Signore “disceso” nel mondo per redimerlo dal male: un’immagine familiare ai Cristiani (o piuttosto, semplicemente, a noi Europei, i quali, si ricorderà, secondo Croce “non potevamo non dirci Cristiani” (1) ), che proprio perciò rischia di catturare la nostra comprensione entro l’angusto recinto della nostra esperienza. Pure, dobbiamo guardarci da questa maniera poco proficua di affrontare il diverso, che lo riduce ad una mera varietà del simile, con un’ appendice di esotismo inessenziale. La giusta via parte invece inevitabilmente dal simile, ma altrettanto inevitabilmente se ne diparte per metter capo altrove — al diverso, appunto.

Che cosa è dunque l’avatâra ? Apprendiamolo dalle labbra dell’avatâra per eccellenza, Krsna, che proclama ad Arjuna sul campo di battaglia, sul campo del dharma (2) ove si giuocano i destini dei regni della terra:

Ogniqualvolta il dharma langue e vige l’adharma, o Bhârata, Io effondo me stesso; per proteggere i buoni e sterminare i malvagi, per ristabilire il dharma di età in età Io vengo all’essere (3) .

Nella densità primigenia di queste strofe famose, variamente riprodotte o riecheggiate in una miriade di testi, riposa insieme il nucleo fondamentale della dottrina dell’avatâra e la matrice di ogni sviluppo posteriore. In esse troviamo enunciati in una concisione quasi aforistica tutti gli elementi fondamentali dell’avatâra: la finalizzazione etica, la virtuale infinità delle manifestazioni, il quadro ciclico ed escatologico, la bipolarità ed alternanza della compagine etica cosmica; oltre, naturalmente, all’ineffabilità della fenomenizzazione divina.

Per cogliere piú pienamente la peculiarità di tali tratti distintivi dell’avatâra, giova porre il passo della Gîtâ a contrasto con un passo dell’Epistola ai Galati di struttura sorprendentemente simile, e perciò tanto piú capace di illuminare le differenze. Dice Paolo:

Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio inviò suo Figlio, fatto da donna, fatto sotto la legge, per redimere coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione di figli (4) .

La differenza piú ovvia non è perciò meno capitale. “Dio mandò suo Figlio”: la puntualità dell’evento unico, significata dall’aoristo, con il suo unico protagonista: il Figlio, l’Incarnato. “Ogni volta Io effondo me stesso”: la circolarità dell’iterazione indefinita, significata dal presente, con la serie virtualmente infinita delle autoemanazioni polimorfe dell’unico Signore. Ciò che nella Gîtâ è appena accennato (yadâ yadâ, “ogniqualvolta”...) i Purâna (5) riprenderanno traducendolo nel loro formulario prodigiosamente iperbolico con la dottrina delle miriadi di manifestazioni: “Migliaia di manifestazioni sono già piú volte trascorse, e piú ancora ne verranno, quante non è possibile contare” (6) .

Ma l’unicità del Cristo e la pluralità degli avatâra non sono che l’appariscente corollario di una divergenza piú profonda e riposta, che siede nei penetrali della metafisica del Tempo. Lo sfondo della proiezione indefinita degli avatâra non è il tempo che ci è familiare: il tempo dell’ora presente in precipite aggetto sul domani spalancato, la storia che senza posa seppellisce il passato nel futuro incombente. In questo tempo scocca bensí l’evento privilegiato dell’Incarnato, inviato nella pienezza del tempo — — a riscattare il passato e a inaugurare irrevocabilmente il futuro della salvezza, quale discrimine della storia. Ma l’avatâra ha un tempo piú pacato e forse piú abissale, la ronda immutabile dell’ombra intorno allo gnomone, l’eternità che si travasa nei giorni in una mimesi vertiginosa e inesausta. L’ombra si allunga ripercorrendo il cammino del giorno declinante, e si dissolve nella sera per rinascere a identico destino: cosí si susseguono gli eoni, segnati dall’ombra montante dell’adharma lungo il cammino ricorrente delle età (7) ; l’avatâra discende in questo stesso cammino, yuge yuge, nelle crisi che scandiscono la spirale involutiva delle età, per riportare instancabilmente alla cosmicità originaria l’universo che incessantemente frana nel caos. Il tempo indiano non è il teatro neutrale degli eventi, che gli eventi qualificano, ma è intrinsecamente qualitativo, piega gli eventi secondo la propria qualità che di continuo degenera, dall’attimo creativo del distacco dall’eternità.

Su questo sfondo, l’opera dell’avatâra è essa stessa segnata dalla malignità del tempo, e il suo trionfo non è che passeggero. Il dharma vacilla. Il dharma è il fondamento stabilito, la legge micro– e macro–cosmica; ma nell’immagine puranica il dharma è una vacca che si regge a stento perdendo via via il sostegno di una zampa per influsso del tempo declinante: l’avatâra interviene ogniqualvolta si minaccia la caduta. Ascoltiamo l’ammaestramento del dio Brahmâ:

Nell’età krta il dharma ha quattro zampe, e Visnu è di carnagione bianca; non vi sono carestie né malattie, né morte prematura, la terra produce messi senza aratura e le vacche danno copioso latte; non vi è passione né ira, paura, avidità, egoismo o invidia.

Visnu con mazza, disco e conchiglia (Scultura in arenaria del XII sec.)

Nella successiva età tretâ il dharma rimane con sole tre zampe, e Visnu si fa vermiglio; gli uomini sono longevi, compiono sacrifici per ottenere ciò che desiderano e non agiscono sotto l’impulso delle passioni, ma esercitano la penitenza, la castità, le abluzioni e le offerte, le preghiere e le oblazioni. Viene quindi l’età dvâpara, allorché il dharma ha non ha piú che due zampe e Visnu assume un color fulvo; le preghiere, i sacrifici e le penitenze sono motivati dalla brama dei frutti; il mondo è diviso tra bene e male, i re si disputano il dominio della terra e conquistano il cielo purificandosi con i riti sacrificali. Quarta viene la funesta età kali; il dharma pencola terrorizzato su un’unica zampa, e Visnu ha una tinta fosca; la malvagità ha il sopravvento, con l’illusione e l’egoismo, la passione, l’ira e la paura; i re agognano alle ricchezze e sono accecati dalla cupidigia, gli uomini hanno vita breve, la terra è avara di messi e le vacche di latte, le caste rigenerate non hanno virtú, gli uomini sono fraudolenti e dediti ai piaceri del palato e del sesso, bugiardi e scellerati; a sedici anni incanutiscono, mentre le donne s’ingravidano a dodici anni; a poco a poco le caste si contaminano, gli stadi della vita si confondono e tutto si uniforma; i riti e gli ordinamenti perenni delle stirpi periscono, e i luoghi sacri, profanati dai barbari, perdono la loro potenza (8) .

In questo decorso fatale, fino all’apocatastasi che all’imo di kali inaugura una nuova età dell’oro, egualmente predestinata, l’avatâra non interferisce, ma piuttosto lo asseconda, preservando la lisi dalla crisi sempre latente nel precario equilibrio del dharma. L’Incarnato è venuto una volta per tutte a trionfare della morte (9) offrendo agli uomini l’adozione di figli; l’opera dell’avatâra, dal canto suo, è meno epocale e conclusiva. Il suo scopo precipuo è di “ristabilire il dharma”; ma, piú precisamente, il termine sanscrito samsthâpana significa nella sua accezione primaria ‘rimettere in piedi (un cavallo caduto)’: l’avatâra rimette in piedi la vacca zoppa dell’ordine socio-cosmico, senza poterla guarire.

Se la guarigione non è possibile, è perché sotto l’influsso nefasto del tempo al dharma è indissolubilmente connaturato il seme dell’adharma. L’avatâra protegge i buoni e stermina i malvagi, come recita il passo della Gîtâ; pure, lo sterminio non è mai definitivo, né è veramente necessario o possibile che lo sia, perché nell’universo culturale indiano luce e ombra sono entrambi relativi e complementari, come due facce di un’unica medaglia: la realtà suprema, che, essa, è al di là di luce e ombra (10) . Questa visione dialettica della struttura etica trova rappresentazione emblematica in uno dei temi piú cospicui dell’intera letteratura puranica: il daivâsura, la battaglia incessante tra dèi e titani per il predominio, scandita dagli innumerevoli mitologemi che vi si inseriscono a guisa di episodi, perpetuamente riaccesa e fatalmente irrisolta; in essa l’immaginazione simbolica ha esemplificato il pendolo cosmico tra dharma e adharma all’interno della piú vasta ciclicità degli eoni. Gli avatâra servono allo scopo della restaurazione del dharma — in effetti, a garantire la continuità dell’oscillazione del pendolo, giacché ogni intervento divino, mentre ristabilisce il potere degli dèi, pone le premesse di un prossimo prevalere dei titani. Il Signore discende in forma di cinghiale per uccidere il titano Hiranyâksa che ha usurpato il trono celeste — ma l’uccisione accende propositi di vendetta nel fratello Hiranyakaçipu, che s’impadronirà a sua volta del trimundio finché la nuova discesa dell’uomo–leone non avrà ragione anche di lui. La faida continua nella maniera usuale tramite il nipote Bali, ma continua anche in una forma piú inconsueta, peculiare all’India: è Hiranyakaçipu stesso che fa le proprie vendette, inesorabilmente ricondotto sulla terra dal proprio karman a vestire i panni di Râvana dalle dieci teste, la cui sconfitta ad opera dell’avatâra Râma Dâçarathi è celebrata nel Râmâyana (11) . Immune dalla cesura naturale della morte, il filo è ripreso e intessuto nel grande arazzo del Mahâbhârata (12) : Râvana si reincarna nel re Çiçupala, nemico inveterato di Krsna, e trova la morte per mano di questi, mentre Bâna, figlio di Bali, viene mutilato delle mille braccia dal suo disco.

Icona moderna di Visnu circondato dai 10 avatâra principali (ai lati), gli emblemi del disco, tilaka (marchio frontale) e conchiglia (sopra), Visnu con il serpente Çesa e la consorte Laksmî (sotto).

La storia non ha alcun epilogo possibile, perché è in sé stessa soltanto un episodio di un processo senza fine. Nella giostra vorticosa ciò che sembra smarrirsi senza rimedio è il senso. Una risposta alla questione teleologica che ci urge potrebbe essere che il fine è immanente all’azione, che il daivâsura o la contesa cosmica (13) gioisce di sé stessa: è la risposta implicita nella dottrina della creazione come lîlâ, giuoco di Dio. La sua giustificazione è nel pensiero che il cozzo degli opposti nel traboccare dell’illusione di nomi-e-forme (14) non è che il rovescio dell’ineffabilità essenziale: ciò che “non è cosí, non è cosí” (15) è immanifestabile, oppure può esser manifestato in molti modi, anzi in tutti (16) .

Ma è una risposta parziale; il senso totale della fantasmagoria del daivâsura si ritrova solo nella prospettiva della salvezza. Se questa non ci appare appannaggio immediato dell’avatâra come lo è dell’Incarnato, è perché lo precede e lo ingloba come cifra ubiquitaria dell’Induismo. Molti sono i cammini che conducono all’altra sponda, ma tutti cominciano su questa sponda, e non è possibile passare, se non da qui. Per coloro che ancora ambiscono ai frutti: ricchezza, bellezza, paradiso, solo questo è il terreno dove seminarli con le opere (17) . Per coloro che ormai aspirano alla liberazione, solo questo è il teatro dove la Natura danza dinanzi al Sé finché questi non realizzi la sua condizione di spettatore impassibile (18) . In questo campo di battaglia, in questo campo del avatâra si compie tutta la parabola della creatura, e per questo campo l’avatâra discende, non a salvare ma a fondare la possibilità perpetua della salvezza: l’avatâra non viene per l’Uomo, ma viene per la Terra.

La vocazione si manifesta nel nome. Gesú è il divino Salvatore (19) . Per l’avatâra l’etimologia è piú elusiva, ed esige la sinergia vivificante del mito. La radice sanscrita tr esprime la nozione di ‘traversare’, cui il preverbio ava aggiunge la specificazione di ‘giú’: in prima approssimazione, l’avatâra è dunque ‘colui che discende’, ma ciò non esaurisce la ricchezza allusiva della parola, maturata in un’evoluzione plurisecolare. L’origine della metafora della discesa è negli antecedenti mitici della grande guerra dei Bhârata: si narra nel primo libro del Mahâbhârata (20) che principi di stirpe titanica si erano incarnati in mezzo agli uomini e tribolavano le creature; la terra stessa, oppressa sotto il loro peso sovrumano, invoca aiuto: tutti gli dèi discendono sulla terra con una porzione di sé stessi sotto spoglie diverse per ‘scaricare’ (avatarana) il ‘peso’ (bhâra) che grava la terra.

Dal mito epico procede il cliché puranico. Tipicamente, la terra personificata nella dea Prthivî, in procinto di sprofondare sotto il peso insostenibile dei viventi proliferati a dismisura, si presenta supplice in cielo per impetrare l’aiuto divino: bhârâvatarana è l’azione salutare del Signore supremo, che a un tempo ‘discende’ (avatarati) e ‘fa discendere’ (avatârayati) (21) , ovvero scarica la zavorra che incorpora lo squilibrio del dharma (22) . L’avatâra è dunque ‘colui che discende’, ma soprattutto ‘colui che rimuove’; il Signore discende ogni qualvolta si renda necessario per rimuovere il fardello della Terra: in questo singolare e prezioso nodo linguistico, incentrato sull’avatâra come autore dell’avatarana e dell’avatârana, l’Induismo ha colto l’opportunità di coimplicare il passaggio, la fenomenizzazione dell’Assoluto, e il suo scopo, la preservazione della Terra come campo del dharma (23) attraverso l’eliminazione dello squilibrio dell’adharma simboleggiato nel ‘peso’.

Visnu circondato dai 10 avatâra principali (Miniatura del XIII sec. - Jaipur).

Per alleviare la Terra o per umiliare la tracotanza dei titani il Signore si foggia di volta in volta il corpo piú adatto allo scopo: la piú “esotica” fra le peculiarità dell’avatâra è il suo proteiforme trasformismo. L’Incarnato è “fatto da donna”, e “Figlio dell’Uomo” è il suo appellativo per antonomasia, poco meno frequente nelle Scritture dell’altro, complementare, di “Figlio di Dio”; e vero Uomo e vero Dio doveva essere per assumere il ruolo di mediatore, sacerdote e vittima sacrificale nell’istituire la nuova ed eterna alleanza tra Dio e Uomo. Viceversa, leggiamo nel Bhâgavata Purâna:

Tra gli dèi e i veggenti, o Signore, tra gli uomini e gli animali terrestri e acquatici tu benché ingenerato prendi nascita, o onnipotente arbitro del destino, per reprimere l’arroganza dei malvagi e mostrare il tuo favore ai buoni (24).

L’avatâra non è mediatore ma giustiziere, non sacerdote ma guerriero, ed eredita come tale i camuffamenti e le astuzie guerresche che in altra temperie religiosa erano appartenuti all’Indra vedico, l’antico campione degli dèi (25) . Tuttavia, uno scarto ben piú essenziale viene alla luce qui tra l’Incarnato e l’avatâra, che tocca le strutture piú profonde dell’esperienza religiosa. Il Cristianesimo ha ereditato dall’Ebraismo la valorizzazione della storia come teofania, e l’ha valorizzata a sua volta con l’epifania dell’incarnazione, nella “pienezza del tempo”; ma inaugurare la storia come regno dell’imprevedibile e dell’irreversibile è nel contempo inaugurare la libertà e la personalità, e fare dunque della salvezza la vicenda di un rapporto personale tra soggetti capaci di libertà: Dio e Uomo (26) . Questo umanesimo è sostanzialmente estraneo all’Induismo, fedele al respiro cosmico degli yuga. Non c’è “nulla di nuovo sotto il sole” dell’India, e l’uomo vi conta meno per i pregi singolari dell’individuo che per gli statuti uniformi della casta (27) . Invece di umanizzare la natura sostituendo alle stagioni la storia, l’Induismo naturalizza l’uomo; il risultato è un ecumenismo della salvezza, che non conosce piú privilegi e raggiunge talvolta il paradosso:

Perfino i vermi e gli insetti alati che muoiono in riva al Gange e gli alberi caduti dalle sue sponde raggiungono la meta suprema (28) .

D’altronde, nessun iato insormontabile separa l’uomo dai suoi confratelli subumani, l’uno e gli altri metaplasmi emergenti dal magma vitale che la legge di trasmigrazione mantiene in continua circolazione. Perciò come stupirsi che l’avatâra non faccia distinzioni nello scegliere il proprio grembo lungo la scala degli esseri come il proprio abito da un armadio (29) ? Con ciò egli non fa che adeguarsi al carosello dell’esistenza che egli stesso viene a perpetuare; ma con una differenza:

Già molte nascite Io ho attraversato in passato, e anche tu, o Arjuna: Io le conosco tutte, ma tu non le conosci, o sterminatore dei nemici (30) .

Per l’uomo che impara a conoscerle, che nella fluidità universale impara a discriminare il permanente dal transeunte, la danzatrice smette di danzare, per lui l’avatâra ha esaurito il suo compito: eppure discende ancora, di età in età, a preservare il sogno dell’esistenza perché altri possano ridestarsi.

Visnu con mazza, disco e conchiglia (Scultura in arenaria dell'XI sec. - Gujarat)

Note

(1) Cfr. B. Croce, “Perché non possiamo non dirci ‘cristiani’” (1942), in Discorsi di varia filosofia, Bari, Laterza, 19592, vol. I, p. 12 sgg.

(2) Dharma, dalla radice dhr “esser saldo”, connota uno di quei concetti integrali che non trovano piú posto (né quindi espressione) nella nostra cultura dissociata e frammentata. Dharma è il fondamento del cosmo, che assume via via l’aspetto dell’ordine naturale e sociale, del dovere a un tempo giuridico, religioso e morale. Suo contrario è l’adharma.

(3) Bhagavad Gîtâ 4, 7-8: yadâ yadâ hi dharmasya glânir bhavati Bhârata abhyutthânam adharmasya tadâtmânam srjâmy aham / paritrânâya sâdhûnâm vinâçâya ca duskrtâm dharma-samsthâpanârthâya sambhavâmi yuge yuge (la trad. di tutti i testi citati è dell’A.). Sulla Bhagavad Gîtâ v. l’art. di C. Fiore “Il guerriero alla scuola degli dèi”, Abstracta 18 (Settembre 87), p. 22-27.

(4) Epistola ai Galati 4, 4-5.

(5) Il grandioso corpus dei Purâna (“Antiquitates”), che comprende tradizionalmente 18 Purâna maggiori e altrettanti minori (ma in realtà il loro numero è assai superiore), costituisce una sorta di enciclopedia che raccoglie un ricchissimo patrimonio di miti e leggende, dottrine giuridiche e politiche, genealogie, esposizioni di cosmografia, cosmogonia e cronologia, canoni di estetica, dissertazioni filosofiche e compendi di varie discipline scientifiche. Il motivo unificante di tale disparata messe di temi è l’interesse religioso, che costituisce il filo conduttore dei dialoghi cui è affidata l’esposizione e pervade tutta la materia, oltre a dar origine a una tematica propriamente religiosa comprendente trattazioni di precettistica rituale, inni laudativi e celebrazioni di luoghi santi. I Purâna — la cui data di composizione si stende su un arco di parecchi secoli, rimontando certamente agli inizi della nostra era, ma forse assai prima — sono infatti anzitutto libri sacri, la cui autorità si vuole pari a quella del Veda: “quand’anche un brahmano conosca i quattro Veda con le scienze ausiliarie e le Upanisad, in verità non è saggio se non conosce il Purâna” (Çiva Purâna 7, 1, 1, 39).

(6) Visnudharmottara Purâna 1, 190, 16-17. Cfr. Bhâgavata Purâna 1, 3, 26: “innumerevoli sono gli avatâra di Hari, lago dell’essere, come i rivoli di una polla inesauribile sono migliaia”.

(7) Lo yuga (‘età’) è una suddivisione del computo ciclico del tempo cosmico secondo la tradizione epico-puranica. La durata dell’universo, coestensiva alla durata della vita del dio creatore Brahmâ (= 100 anni di Brahmâ), è scandita da periodi di latenza (notti di Brahmâ) e periodi di manifestazione (giorni di Brahmâ). All’alba di ciascun giorno di Brahmâ ha luogo la creazione (sarga ‘effusione’) che inaugura un nuovo kalpa (‘eone’, l’intervallo di un giorno di Brahmâ, pari a 4.320.000.000 anni umani). Ogni kalpa comprende 1.000 mahâyuga (‘grande età’), ognuno dei quali è composto di 4 yuga, che prendono nome dai tiri del gioco dei dadi: krta (il tiro ‘perfetto’) ha i quattro quarti della durata: 1.728.000 anni; tretâ (il tiro di ‘tre’) ne conserva solo i tre quarti, pari a 1.296.000 anni; dvâpara (il tiro di ‘due’) si riduce a 864.000 anni; infine kali (il tiro peggiore) — l’età attuale — non dura piú che 432.000 anni. Il flusso delle quattro età è caratterizzato da una progressiva decadenza del dharma e dalla conseguente degenerazione dell’umanità, la cui palingenesi è il compito del venturo messia, Kalki, il cui avvento coinciderà con l’instaurazione di un nuovo mahâyuga. Al crepuscolo di ogni kalpa ha luogo la dissoluzione degli esseri (pralaya) e il loro riassorbimento nello stato immanifesto per tutta la durata della notte di Brahmâ. (Questi brevi cenni hanno l’unico scopo di permettere la comprensione del testo; per un quadro completo della concezione puranica del tempo v. Ânanda Svarûpa Gupta, “The Puranic Theory of the Yugas and Kalpas: a Study”, Purâna (Vârânasî) 11, 2 (1969), p. 304-323).

(8) Skanda Purâna, 7, 3, 10, 10-30.

(9) Isaia 25, 8; 1 Epistola ai Corinzi 15, 20-22.

(10) Cfr. Chândogya Upanisad 8, 4, 1: “Invero, l’âtman è un argine che separa questi mondi perché non confluiscano assieme. Non oltrepassano quest’argine giorno né notte, vecchiaia, morte o dolore, né buone né cattive azioni”.

(11) Il Râmâyana è l’altro grande poema epico indiano (accanto al Mahâbhârata), che narra in 24.000 strofe la leggenda di Râma, culminante nella lotta con il demone Râvana che ne aveva rapita la moglie Sîtâ. La redazione definitiva risale probabilmente alla fine del II sec. d. C., benché la materia narrativa sia di epoca assai piú antica.

(12) Il Mahâbhârata è il maggior poema epico indiano, un’opera di vastità colossale (piú di 90.000 strofe nella recensione settentrionale) il cui nucleo fondamentale è costituito dalla narrazione della grande guerra dei Bhârata, ovvero dei cinque Pândava alleati di Krsna contro i propri cugini Kaurava che ne avevano usurpato il regno. L’elaborazione del poema, assai eterogeneo (“ciò che c’è qui c’è anche altrove, ma ciò che che qui non c’è non c’è da nessuna parte” (1, 56, 33)) si estende su un arco di parecchi secoli, collocandosi la redazione definitiva entro il IV sec. d. C.

(13) Cfr. Eraclito, B80: “tutto avviene secondo contesa”.

(14) Cfr. Brhadâranyaka Upanisad 1, 4, 7: “In quel tempo questo mondo non era dispiegato; fu dispiegato con nomi–e–forme: ciò che ha il tal nome, ha la tal forma... Ma Egli vi è penetrato fino alla punta delle unghie, come un rasoio riposto nel fodero... perciò non lo vedono: perché è diviso”.

(15) Cfr. Brhadâranyaka Upanisad 2, 3, 6: “Il suo annuncio è: ‘non è cosí’, ‘non è cosí’; perché non ve n’è un altro all’infuori di questo, che ‘non è cosí’; ma il suo nome è: ‘la Realtà della realtà’”.

(16) Cfr. Çvetâçvatara Upanisad 4, 3-4: “Tu sei femmina, tu sei maschio, tu sei fanciullo e sei anche fanciulla; tu sei il vecchio che barcolla col bastone, tu sei il nato che guarda dappertutto; tu sei il nero corvo, tu sei il verde pappagallo dai rossi occhi, tu sei il grembo della folgore, le stagioni e gli oceani; senza principio, tu pervadi ogni cosa, tu dal quale tutti gli esseri sono nati”.

(17) Cfr. Skanda Purâna 7, 3, 35, 19-20.

(18) Cfr. Îçvarakrsna, Sâmkhyakârikâ 59; 66.

(19) Il nome è connesso alla radice ebraica yš‘ = ‘salvare, liberare’.

(20) Mahâbhârata (Poona) 1, 64 sgg.»

(21) Le due forme avatarati e avatârayati appartengono rispettivamente alla coniugazione ordinaria e causativa della medesima radice (ava)tr. Analogamente piú sotto avatarana e avatârana sono nomi verbali derivati rispettivamente dal tema ordinario e dal tema causativo, significando dunque la ‘discesa’ e il ‘far discendere’ = la ‘rimozione’.

(22) Cfr. P. Hacker, “Zur Entwicklung der Avatâra–lehre”, Wiener Zeitschrift für die Kunde Südasiens, 4 (1960).

(23) La trasparenza del simbolismo si transustanzia inverandosi in una piú arcaica cognazione linguistica: la terra è dharanî, colei che sostiene, come la legge è dharma, il fondamento saldo dell’ordine socio-cosmico. È questo comune riferimento alla stabilità fondamentale che ha forse promosso e corroborato la metafora, la quale attinge cosí all’universalità dell’allegoria: specchio dell’invisibile (vacillare del fondamento morale) nel visibile (vacillare delle fondamenta fisiche).

(24) Bhâgavata Purâna 10, 14, 20.

(25) Cfr. Rg Veda 4, 47, 18: “Grazie alla sua magia Indra va attorno in molte forme, e per lui sono aggiogati cavalli bai a centinaia”.

(26) Cfr. M. Éliade, Le mythe de l’éternel retour. Archétypes et répétition, trad. it. di G. Cantoni, Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizione, Milano, Borla, 1968, p. 136 sg.

(27) L’A. è dolorosamente consapevole della schematicità di questi (e altri) asserti, che richiederebbero ben altra articolazione che lo spazio non concede. Per ritrovare parte delle nuances perdute non si può far meglio che rimandare il lettore al bel libro di M. Biardeau, L’Hindouisme. Anthropologie d’une civilisation, tr. it. di F. Poli, L’Induismo. Antropologia di una civiltà, Milano, Mondadori, 1985.

(28) Skanda Purâna 4, 27, 134. A proposito del superamento del privilegio della natura umana nei confronti della salvezza cfr. S. Piano, “Note in margine al Visnu Mâhâtmya”, Indologica Taurinensia, 3-4 (1975-76), p. 381 sgg.

(29) Cfr. Bhagavad Gîtâ 2, 22: “Come un uomo smettendo i vestiti logori ne prende di nuovi, cosí l’anima smettendo i corpi logori ne assume altri nuovi”.

(30) Bhagavad Gîtâ 4, 5.

le isole dei beati in cina

di Antonella Cotta Ramusino (Centro Ligure di Studi Orientali)

Fig. 1 - Una versione del noto simbolo dello Yin-Yang

Tra religiosità colta e popolare, il mito taoista delle isole paradisiache nascoste ad oriente, le "Isole dei Beati" o "Isole Felici", è senz'altro tra i più presenti nella tradizione cinese. Insieme al paradiso occidentale, nascosto tra le cime del monte Kunlun, le Isole dei Beati, rievocate da passi letterari e leggende tradizionali, costituirono, per più di u sovrano,un obiettivo concreto ripetutamente perseguito con esplorazioni e spedizioni.

In Cina nel corso dei secoli si sono formati principalmente due tipi di cultura: una, conosciuta come ufficiale o di corte, promossa dalla classe dei letterati confuciani che ha quasi sempre affiancato il potere centrale coadiuvandolo nel governo; l'altra, chiamata popolare, a cui si rifanno i taoisti e che si affermò soprattutto, come dice il nome, tra il popolo.

Mentre infatti i confuciani tentano di formare la morale del buon suddito e del buon sovrano, i seguaci di Lao-zi - il primo grande maestro del Dao - danno al popolo ciò di cui ha bisogno: spiegazioni sulla vita, sulla morte, sull'aldilà; in pratica conservano quella serie di riti e di credenze che erano alla base dell'antica religione contadina.

In effetti nel confucianesimo confluivano sia una filosofia di attivismo sia un codice morale che era opportuno seguire in vista di una carriera politica; invece nel taoismo confluivano una filosofia di totale astensione dai pubblici affari e una religione a sfondo magico.

Nell'ambito dello stesso taoismo vi era poi grande differenza tra la scuola religiosa e la scuola filosofica tanto da essere completamente indipendenti l'una dall'altra.

I cinesi potevano quindi essere, senza che ciò creasse conflitto, buoni confuciani e buoni taoisti: ossia obbedivano alle leggi confuciane per quel che riguardava la vita politica e pubblica, osservavano invece le pratiche taoiste per ottenere l'immortalità e credevano in tutta quella miriade di déi e di esseri fantastici che, a detta dell'antica religione ereditata dai taoisti, popolavano l'universo.

Si spiega così come molti sovrani dell'Impero di Mezzo pur appoggiando la corrente confuciana al governo, praticassero poi culti del tutto estranei al confucianesimo ma ben conosciuti dai sacerdoti taoisti.

Ricordiamo d'altra parte che questi preti taoisti erano persone dai molti poteri e in grado di dominare il proprio destino. Primi fra tutti per la loro potenza furono proprio quegli stessi uomini che riconosciamo anche come padri del pensiero filosofico.

Fig. 2 - Dipinto dell'epoca Ch'ing (1644-1911) raffigurante personaggi e divinità dell'Olimpo taoista

Di Lao-zi la tradizione fa un uomo di natura divina. Egli è il Vecchio Bambino che nasce dopo una gestazione di ottantun anni. Confucio, il grande saggio, così lo descrisse:

... Questa volta ho visto il drago. Quando il drago si raggomitola su se stesso, forma un corpo opaco; quando si distende, forma disegni brillanti. Cavalca le nubi e i vapori nutrendosi dello Yin e dello Yang (i due principi vitali) ... (Zhuang-zi, cap. XIV, pag. 132)

E come un essere soprannaturale Lao-zi scomparve; a cavallo di un bue si diresse verso Occidente, fermandosi solo al valico dell'ovest, dove dettò a Yin Xi, il guardiano di questo passo, il suo famoso libro, il Dao De Jing.

Di Lie-zi, il secondo grande Santo Taoista, poco si sa. Sembra che fosse vissuto tra il V e IV sec. a. C. e Zhuang-zi, che forse fu un suo discepolo, così lo mostra:

... Lie-zi si spostava cavalcando il vento. Viaggiava in modo piacevolissimo, e in capo a quindici giorni faceva ritorno. ... (Zhuang-zi, cap. I, pag. 15). Infine ecco Zhuang-zi, l'ultimo grande Taoista dell'antichità, vissuto nel IV-III sec. a. C., uomo dagli svariati poteri con temperamento di sognatore.

Legati alle figure di questi Santi Taoisti sono i miti dei paradisi in cui pervennero: quello Occidentale e quello Orientale.

Di antica data è senza dubbio la credenza nel Paradiso Occidentale governato da una portentosa divinità: Xi Wang Mu, la Regina Madre d'Occidente, la stessa verso cui si diresse per l'ultimo viaggio il Santo Taoista Lao-zi. Così viene descritto il luogo con la sua regina nel Libro dei Monti e dei Mari:

... Trecentocinquanta li (unità di misura cinese corrispondente a 500 metri - N.d.A.) a occidente di Liusha [vuol dire "sabbie che camminano", e con questo nome si indica il deserto del Gobi] c'è il monte Yu, ove dimora Xiwangmu. Xiwangmu ha un aspetto umano, coda di leopardo, zanne di tigre e fischia forte; ha i capelli scarmigliati e porta ornamenti sulla testa. Presiede alle calamità del cielo e alle cinque influenze nocive. ... (Ed. Bozza, Miti della Cina arcaica, pag. 74)

E ancora nello stesso Libro si legge: ... A sud del Mare Occidentale, ai bordi delle sabbie Liusha, dietro il fiume Chi e davanti al fiume Hei, c'è una grande montagna che si chiama Kunlun (l'Olimpo dei cinesi). Vi si trova uno spirito-dio che ha volto umano e corpo di tigre, ha il manto striato e ha una coda. ... (Ed. Bozza, op. cit., pag. 75).

Chiaramente per i cinesi questo Paradiso occidentale era un luogo reale e per questo furono fatte molte spedizioni per raggiungerlo; l'unica che ebbe esito positivo fu quella condotta dall'imperatore Mu dei Zhou (XI sec.) che riuscì ad arrivare sul monte Kunlun e a far visita a Xi Wang Mu.

Ma il mito più affascinante che interessò i cinesi di ogni tempo è quello delle Isole degli Immortali o Isole Felici, luogo ameno che si credeva esistesse realmente nel Mare Orientale e di cui il taoismo si occupò tanto da creare quasi una scienza lasciandoci descrizioni accurate dei luoghi e degli abitanti. Ecco come si presenta secondo Lie-zi:

... Il monte Lie-gu-ye si trova in un'isola del mare. Sul monte vivono degli uomini sovrannaturali, che aspirano il vento, bevono la rugiada e non mangiano i cinque cereali (l'astensione dai cinque cereali era una delle pratiche per raggiungere l'immortalità). Il loro cuore è come sorgente profonda, la loro forma come quella d'una vergine. Non avendo essi né amori né affetti particolari, gli immortali e i santi gli fanno da ministri; non suscitando essi né timore né scontento, i sinceri e gli schietti gli fanno da messi, non dispensando essi e non essendo benevoli, le creature da sé si soddisfano; non raccogliendo essi e non accumulando, non mancano di nulla. Lo yin e lo yang sono sempre armoniosi, il sole e la luna sono sempre splendenti, le quattro stagioni sono sempre regolari, il vento e la pioggia sono sempre temperati, i parti e gli allevi avvengono sempre nella giusta stagione, le messi annuali sono sempre abbondanti. Il suolo non ha il danno delle pestilenze, gli uomini non hanno l'orrore della morte precoce, le creature non hanno la sofferenza delle malattie, gli spiriti dei defunti non hanno voci di presagio. ... (Lie-zi, Libro II, cap. 16, pag. 19)

Fig. 3 - Acquerello su carta di autore ignoto (particolare). Fine dinastia Ming (XVI-XVII sec.)

Ma non bastava soltanto descrivere questa sorta di Eden; era necessario anche dargli delle origini e spiegarne la storia. E ancora sempre nel Lie-zi, il libro che dal saggio prese il nome:

... Ad oriente del golfo del Chili - rispose Chi - non so a quanti milioni di li, c'è un baratro che è veramente una valle senza fondo. Questa voragine è detta "bacino di confluenza", in cui si riversano i fiumi delle otto estremità e dei nove punti celesti (i nove punti celesti sono gli otto punti cardinali - otto estremità - e il centro), nonché la corrente della Via Lattea, senza accrescimenti o diminuzioni.

In mezzo c'erano cinque montagne dette Taiyu la prima, Yuan-Jiao la seconda, Fang-hu la terza, Ying Zhou la quarta, Beng-lai la quinta. Tra alto e basso, la circonferenza di queste montagne era di trentamila li, i pianori alla loro sommità erano di novemila li, distavano l'una dall'altra settantamila li ma erano considerate vicine. Su di esse le torri e i belvedere erano tutti d'oro e di giada, gli uccelli e gli animali erano d'un candore immacolato, gli alberi di perle e di gemme crescevano fitti, i fiori e i frutti erano nutrienti e saporosi e chi li mangiava non invecchiava e non moriva. Gli abitanti erano della razza dei santi immortali, che giorno e notte volavano innumerevoli qua e là. Però la base delle cinque montagne non posava su nulla ed esse andavano su e giù, avanti e indietro, seguendo il flusso e riflusso della marea, senza fermarsi un momento. I santi immortali mal lo sopportavano e se ne lamentarono con l'Imperatore del Cielo, il quale, temendo che esse scorressero verso l'estremo occidente e non dessero più asilo a tutti quei santi immortali, comandò a Yu-jiang (genio del polo e del mar settentrionali, dal volto di uomo e dal corpo di uccello) di mandare quindici enormi tartarughe a sostenere le montagne sul capo alzato, alternandosi in tre turni di sessantamila anni ciascuno. Per la prima volta le montagne stettero ferme senza muoversi. Ma uno dei giganti del regno di Long-bo si mise in cammino e con pochi passi arrivò alle cinque montagne. Con un solo amo prese sei tartarughe, se le caricò in mucchio sulle spalle e se ne tornò di corsa al suo paese, dove mise sul fuoco il loro guscio per trarne vaticini. Così le due montagne Taiyu e Yuan-Jiao andarono alla deriva verso il polo settentrionale e affondarono nel gran mare. I santi immortali che furono trascinati via si contarono a milioni. Incollerito, l'Imperatore del Cielo a poco a poco ridusse il regno di Long-bo facendolo più ristretto e rimpicciolì i suoi abitanti rendendoli più bassi: all'epoca di Fu Xi e di Sheng Nong erano alti alcune decine di braccia. ... (Lie-zi, Libro V, cap. 60, pagg. 70-71)

Il credere all'esistenza di queste Isole indusse molti imperatori a comandare spedizioni di ricerca e scoperta del mitico luogo: le cronache cinesi fanno risalire al V sec. a. C. le prime partenze alla volta delle fantastiche isole. Purtroppo tali ricerche non diedero i risultati desiderati, ma la cosa non scoraggiò mai gli intrepidi ricercatori che per molti secoli continuarono a partire per un'impresa disperata: il non pervenire alla meta era imputato all'inaccessibilità di tali isole per persone qualsiasi, le isole scomparivano infatti all'orizzonte non appena un mortale tentava di avvicinarsi.

Tra gli imperatori che inviarono grandi spedizioni dobbiamo fare il nome di almeno due di essi: Qin Shi Huang-di, il primo imperatore della storia cinese, colui che per primo unificò la Cina e diede le basi all'Impero; e Wu-di, il più famoso degli imperatori Han per il suo governo illuminato che sancì definitivamente il potere dei confuciani.

Qin Shi Huang-di, perseguitato dalla paura della morte, non badò a spese per armare la flotta che avrebbe dovuto trovare le Isole degli Immortali ove crescevano erbe famose per la fabbricazione di pozioni che davano l'immortalità del corpo.

Fig. 4 - Ancora un dipinto dell'epoca Ch'ing (1644-1911) raffigurante personaggi e divinità dell'Olimpo taoista

Sfortunatamente nessuno tornò da quel lungo viaggio, e lui morì poco dopo l'unificazione dell'impero forse proprio a causa dei grandi sforzi fatti per ottenerla.

Wu-di, che abbiamo visto appoggiare la classe confuciana per quel che riguardava il governo dell'impero, fu invece un fedele taoista per ciò che atteneva alle credenze religiose. Non aveva quindi dubbi sull'esistenza reale delle famose Isole, per la ricerca delle quali inviò varie spedizioni e partì egli stesso alla volta delle coste orientali della Cina. Ma i risultati non furono positivi neanche per lui; la sua corte poteva però vantare la presenza di famosi maghi tra i quali il più potente fu senz'altro Li Shao-Jun. Costui dichiarava di poter controllare la materia, di comandare gli esseri spirituali e di poter far fronte alla vecchiaia. Egli poteva attirare gli spiriti e alcuni sostenevano che anche lui fosse uno spirito.

Il mito delle Isole Felici non fu ad ogni modo legato alla sola prima antichità: lo troviamo sempre vivo anche nei periodi più vicino a noi: ecco cosa accadde tra l'810 e l'813 alla corte dell'imperatore Tang Xianzong:

... Yuan Jiai (un taoista venuto a corte) voleva ritornare nel Mare Orientale e per questo continuava a chiedere con insistenza il permesso all'imperatore. Quest'ultimo però non voleva concederglielo. Ora, c'era nel palazzo una scultura in legno rappresentante le Tre Montagne nel Mare (cioè le Isole dei Beati, Beng-lai, Fang-zhang e Ying-zhou). Essa era dipinta e aveva incastonate perle e giade.

In occasione dell'Anno Nuovo, l'imperatore andò a contemplarla in compagnia di Yuan Jiai. Egli disse mostrando col dito l'isola di Beng-lai: "A meno d'essere un immortale superiore non si può pervenire a questo luogo."

Yuan Jiai disse ridendo: "Queste tre isole non distano che un po' più di un piede. Non vi è persona che possa pretendere che esse siano irraggiungibili. Io non ho molto potere, ma cercherò di fare un giro per Vostra Maestà per ivi esaminare la bellezza e la bruttezza degli esseri e delle apparizioni".

Subito egli saltò nell'aria e divenne sempre più piccolo. Poi, velocemente, egli entrò attraverso le porte d'oro e d'argento. La cerchia di amici ebbe ben a chiamarlo, egli non ritornò più. L'imperatore si dispiacque molto ed ebbe perciò delle eruzioni cutanee. In seguito a questi avvenimenti si chiamò questa montagna "Isola dove scomparse il Vero". Tutte le mattine, all'alba, si brucia ormai dell'incenso 'Cervello di Fenice' davanti a quest'Isola per venerarla. Una decina di giorni più tardi, un rapporto venne da Cing-zhou che diceva che Yuan Jiai aveva attraversato il mare a cavallo di una giumenta gialla. ... (Rolf Stein, Jardin en miniature d'Extreme-Orient, pagg. 40-41).

Le famose Isole erano dunque un Universo facilmente raggiungibile se si avevano poteri sovrannaturali e si apparteneva a quella ristretta cerchia di iniziati taoisti.

Nella favola di Pu Song-ling (uno dei più grandi raccoglitori di leggende e miti del XVII sec.), L'Isola degli Immortali, all'ambizioso signor Wang capita di incontrare un Immortale taoista che dapprima lo porta con sé nelle alte regioni celesti, ma poi, accortosi che il suo discepolo non è ancora pronto per la vita delle alte sfere, lo fa precipitare nell'Isola degli Immortali, che è molto lontana dal mondo terreno ed è abitata da maghi terrestri. Dopo un periodo di soggiorno in quest'isola e dopo aver preso moglie, Wang chiede di tornare a casa e con la magia della sposa ecco che un rotolo di seta bianca si trasforma in un ponte infinito permettendo ai due coniugi di giungere sulla terra. Ma dopo aver trascorso qualche anno, in cui Wang matura e si accorge delle futilità delle cose umane, entrambi fanno ritorno nella meravigliosa "Isola degli Immortali".

La leggenda cinese descrive quest'isola