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MORTI & FERITI - MAGGIO 2006 Morire di lavoro, in cifre Nel 2005 gli infortuni sul lavoro sarebbero diminuiti del 2,8%. Quelli mortali sarebbero diminuiti addirittura del 10%. Il condizionale è d'obbligo perchè «i dati sono ancora parziali», ammette l'Inail che li ha diffusi ieri, in occasione della Giornata mondiale per la salute e sicurezza sul lavoro. Il confronto con i dati consolidati del 2005 risulta quindi inattendibile. Quella dell'Inail «o è ingenuità o è malafede», commenta Pietro Mercadelli, presidente dell'Anmil (Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro). In entrambi i casi, ingenerare un falso ottimismo sulla scorta di cifre dichiaratamente suscettibili di aumento è «un comportamento irresponsabile». Una ragione in più, aggiunge l'Anmil, perché il prossimo governo istituisca un Osservatorio sugli infortuni che includa le parti sociali. Altrettanto spazientita la reazione di Renzo Bellini, segretario della Cisl: «Non si può, ogni anno, avviare una discussione stucchevole sul giallo delle cifre. Dietro alle fredde cifre, più o meno in diminuzione, ci sono drammi umani che pretendono uno scuotimento delle coscienze». Oltre che provvisori, osserva la segretaria della Cgil Paola Agnello Modica, i dati diffusi dall'Inail non conteggiano le malattie professionali e il lavoro sommerso. Le prime, secondo l'Ilo (l'Organizzazione internazionale del lavoro), causano ogni anno nel mondo 1 milione e 700 mila vittime, cinque volte il numero dei morti per infortunio. Quanto al sommerso, la stessa Inail stima che circa 200 mila infortuni non siano denunciati. Il 6% di quelli mortali - l'11% in edilizia - figura accaduto nel primo giorno di lavoro. Segno evidente di regolarizzazione post mortem. Pur con queste riserve, vediamo in dettaglio le cifre provvisorie coniugate dall'Inail all'indicativo. I morti sul lavoro nel 2005 sono stati 1.195, contro i 1.328 dell'anno precedente. La media italiana - 2,8 morti su 100 mila occupati - è in linea con quella europea (2,9 morti ogni 100 mila occupati). Con 253 omicidi bianchi all'anno l'edilizia resta il settore più mortifero in rapporto al numero degli addetti. «Solo» il 7% dei morti sul lavoro sono donne, ma la percentuale femminile sul totale degli infortuni sale al 25%. Gli infortuni denunciati nel 2005 sono stati 940 mila, 27 mila in meno del 2004. Hanno causato la perdita di 17 milioni di giornate lavorative, per un costo di 28 milioni

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MORTI & FERITI - MAGGIO 2006

Morire di lavoro, in cifre

Nel 2005 gli infortuni sul lavoro sarebbero diminuiti del 2,8%. Quelli mortali sarebbero diminuiti addirittura del 10%. Il condizionale è d'obbligo perchè «i dati sono ancora parziali», ammette l'Inail che li ha diffusi ieri, in occasione della Giornata mondiale per la salute e sicurezza sul lavoro. Il confronto con i dati consolidati del 2005 risulta quindi inattendibile.Quella dell'Inail «o è ingenuità o è malafede», commenta Pietro Mercadelli, presidente dell'Anmil (Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro). In entrambi i casi, ingenerare un falso ottimismo sulla scorta di cifre dichiaratamente suscettibili di aumento è «un comportamento irresponsabile». Una ragione in più, aggiunge l'Anmil, perché il prossimo governo istituisca un Osservatorio sugli infortuni che includa le parti sociali. Altrettanto spazientita la reazione di Renzo Bellini, segretario della Cisl: «Non si può, ogni anno, avviare una discussione stucchevole sul giallo delle cifre. Dietro alle fredde cifre, più o meno in diminuzione, ci sono drammi umani che pretendono uno scuotimento delle coscienze». Oltre che provvisori, osserva la segretaria della Cgil Paola Agnello Modica, i dati diffusi dall'Inail non conteggiano le malattie professionali e il lavoro sommerso. Le prime, secondo l'Ilo (l'Organizzazione internazionale del lavoro), causano ogni anno nel mondo 1 milione e 700 mila vittime, cinque volte il numero dei morti per infortunio. Quanto al sommerso, la stessa Inail stima che circa 200 mila infortuni non siano denunciati. Il 6% di quelli mortali - l'11% in edilizia - figura accaduto nel primo giorno di lavoro. Segno evidente di regolarizzazione post mortem.Pur con queste riserve, vediamo in dettaglio le cifre provvisorie coniugate dall'Inail all'indicativo. I morti sul lavoro nel 2005 sono stati 1.195, contro i 1.328 dell'anno precedente. La media italiana - 2,8 morti su 100 mila occupati - è in linea con quella europea (2,9 morti ogni 100 mila occupati). Con 253 omicidi bianchi all'anno l'edilizia resta il settore più mortifero in rapporto al numero degli addetti. «Solo» il 7% dei morti sul lavoro sono donne, ma la percentuale femminile sul totale degli infortuni sale al 25%. Gli infortuni denunciati nel 2005 sono stati 940 mila, 27 mila in meno del 2004. Hanno causato la perdita di 17 milioni di giornate lavorative, per un costo di 28 milioni di euro. Gli extracomunitari, con 132 morti e 113 mila infortuni, si confermano vittime privilegiate degli incidenti sul lavoro. In crescita gli infortuni tra i lavoratori atipici, ovvia conseguenza della loro maggiore incidenza nella platea degli occupati. L'agricoltura è il settore dove gli infortuni registrano il calo più sostenuto (-4,4%).

Il Manifesto 4 Maggio 2006

VERBANIA SONO IMPUTATI PER OMICIDIO COLPOSO 17 EX DIRIGENTI MONTEFIBRE Amianto, sfilano i testi a difesa

VERBANIA . Testi della difesa in aula, ieri al processo per l'amianto killer in cui sono imputati di concorso in omicidio colposo plurimo 17 ex dirigenti di «Montefibre spa». Sono ritenuti responsabili dal sostituto procuratore Nicola Mezzina della morte, avvenuta in tempi diversi, di 13 ex dipendenti del polo chimico di viale Azari. I decessi sono stati causati da mesotelioma maligno alla pleura, patologia direttamente conseguente alla esposizione a polveri e fibre di amianto. Dopo l'uscita dal processo dei familiari di alcune delle vittime risarciti da Montefibre nella misura di 100 mila euro per ogni persona

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deceduta, sono rimaste parti civili il sindacato Cgil - Vco e l'associazione «Medicina Democratica» assistitti dagli avvocati Francesco Maggi e Giovanni Bonalumi. Nel corso dell'udienza il pm Mezzina si è opposto all'acquisizione agli atti del processo di un documento prodotto dal pool difensivo. Il documento, 31 pagine, redatto e aggiornato tra il 1969 e 1977, riporta schemi e regole relative alla procedura tecnica di lavorazione e manutenzione nei reparti di produzione della fabbrica. Il giudice Monica Barco ha disposto comunque l'acquisizione del documento. Secondo le dichiarazioni rese in aula dai testi della difesa, tutti ex dipendenti ed ex dirigenti di «Montefibre spa», è emerso che nessuno dei lavoratori successivamente uccisi da mesotelioma avrebbe lavorato a stretto contatto con amianto. Il processo riprende domani. a. r.

La Stampa – Sezione Verbania 4/05/06

La lobby del cadmio conquista Bruxelles

Il parlamento Ue svuota del 70% la direttiva che imponeva la messa al bando delle batterie al cadmio, altamente inquinantiAlberto D'ArgenzioBruxellesBando con il trucco in Europa per le batterie al cadmio, un derivato dell'alluminio che ha il brutto vizio di essere tossico e cancerogeno e la virtù (ma non è il solo) di muovere elettrodomestici, computer, giocattoli teleguidati, spazzolini e rasoi elettrici. Parlamento europeo e 25 sono giunti ieri ad un accordo per vietare il cadmio sì, ma solo dalle normali pile, mentre lo lasciano nelle batterie che animano gli apparecchi portatili, quelli ricaricabili ed i sistemi di allarme, tre esenzioni che arrivano a coprire il 70% del mercato complessivo. In sostanza poca cosa. E dire che nella stessa direttiva approvata ieri si sottolinea come «l'agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha identificato il cadmio come una nota sostanza cancerogena per gli essere umani» e come «studi epidemiologici su lavoratori esposti al cadmio mostrano un'elevata incidenza di tumore ai polmoni». I problemi non finiscono qua, visto che la sostanza provoca «danni ai reni» e «malattie ossee e del sangue»; è «altamente tossica per inalazione»; ha «possibili effetti mutogeni sull'uomo»; può «ridurre la fertilità» e creare «danni ai bambini non ancora nati» ed è inoltre «altamente tossica per l'ambiente acquatico». Allora perché tante esenzioni invece di una completa proibizione come chiedevano associazioni ambientaliste, paesi nordici e maggioranza del Parlamento europeo? La ragione sta tutta nell'abile opera della potente lobby del cadmio ed in particolar modo della britannica Black & Decker, forte negli attrezzi ricaricabili, della francese Saft, leader nella produzione di batterie e della tedesca Bosch. Le imprese hanno prima convinto la Commissione, poi Londra, Parigi e Berlino, (ma anche Roma e Varsavia) ad opporsi al bando completo e poi hanno forzato pure il parlamento a più miti consigli. Il tutto basandosi anche su una menzogna, quella secondo cui non esisterebbe una tecnologia alternativa In realtà a poche centinaia di metri dal suo ufficio si possono acquistare degli attrezzi della giapponese Makita che si muovono senz'ombra di cadmio, ossia con pile al litio, meno dannose e pure più potenti. Esiste poi un'altra tecnologia a base di nichel ed idrati di metalli e un'altra che stava sviluppando un'impresa francese, rimasta però al palo proprio a causa del ritiro della messa al bando del cadmio. Un danno allo sviluppo industriale, oltre che all'uomo e all'ambiente.La norma prevede anche dei «timidi» - secondo Melissa Shin dell'Ufficio europeo per l'ambiente - obiettivi per il recupero delle pile usate: il 25% nel 2010 e il 45% nel 2016, mentre le associazioni ambientaliste chiedevano di raccogliere il 50% ed il 60% delle batterie già utilizzate. Di positivo c'è il riconoscimento del concetto della responsabilità del

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produttore, per cui toccherà all'industria riprendere gratuitamente le pile usate ed informare i consumatori dell'operazione recupero; e un nuovo obbligo di etichettatura per cui tutte le caratteristiche delle pile, compresa la durata, dovranno apparire sulla confezione. Così si aiuta forse il consumatore, di certo non la sua salute.

Il Manifesto 4 Maggio 2006

I ferrovieri alla politica: «basta con l'autoritarismo»

fr. pi.Roma. Ora tocca alla politica. I licenziamenti politici nelle ferrovie - quattro macchinisti che avevano collaborato con la trasmissione Report di RaiTre e Dante De Angelis, delegato rls che si era rifiutato di guidare un eurostar dotato di Vacma - devono rientrare, anche prima che la giustizia del lavoro faccia il suo corso. Questa la richiesta avanzata ieri mattina in un convegno dai ferrovieri; questa la promessa che i parlamentari di sinistra presenti - Diliberto, Cento, Boghetta - hanno fatto propria.Comincia con un dialogo quasi teatrale tra le ragioni del macchinista e quelle «dell'azienda», ma si entra così subito nel merito. I problemi sono tanti. I ferrovieri, in pochi anni, si sono ridotti da 220mila a poco più di 90mila. Ma al gruppo Fs non basta mai. E vorrebbero dimezzare i macchinisti, costringendoli a guidare i locomotori con l'«agente unico», invece che in due come adesso. Per questo hanno rispolverato il preistorico Vacma - detto anche «pedale a uomo morto», un meccanismo del primo novecento - presentato come «sistema di sicurezza». In realtà serve solo a vedere se il conducente è ancora vivo (di qui il lugubre soprannome), non se sta reagendo a un pericolo. I treni di Roccasecca e Crevalcore (2 e 17 morti) ne erano dotati; ma non è servito a niente. Nuemrose Asl e procure ne hanno decretato la rimozione, ma Fs continua a farli installare su numerosi treni, anche modernissimi, in barba anche agli accordi sottoscritti.E poi c'è il «modello sociale autoritario», come lo chiama Paolo Cento, vigente in Fs. Figlio di una cultura della «competitività» che pretende di risolvere le equazioni economiche con il semplice dispotismo sul lavoro. Ma Fs va oltre: è arrivata a denunciare i comitati di pendolari che per protesta contro ritardi e cancellazioni hanno in qualche caso occupato i binari; e, con la legislazione degli ultimi anni, ha trovato anche giudici disposti a comminare multe pesanti ai cittadini.Piergiovanni Alleva, giuslavorista della Cgil e avvocato di De Angelis, non ha dubbi sull'esito giudiziario della causa contro il licenziamento; ma avverte la necessità di avvertire sul paradossale effetto «giuridicizzante» dei conflitti di lavoro che finiscono in tribunale: i lavoratori tendono a «vigilare meno», come se la tutela legale potesse sostituire la forza della partecipazione diretta alle vertenze.E da Genova arriva la denuncia di una precettazione di massa che va avanti da dicembre. Quando la Asl dispose la rimozione dei Vacma dai locomotori e i macchinisti inziarono a rifiutarsi di usarlo. Le Fs lasciarono marcire la situazione, cancellando decine di convogli locali, fin quando non intervenne il prefetto: il quale ignora le disposizioni della Asl e - grazie a un parere dell'ormai inascoltabile «commissione di garanzia» presieduta da Antonio Martone - dispone la precettazione per tutti i macchinisti «ad libitum». E quindi non c'è proprio nulla da obiettare: tocca alla politica, a un nuovo governo che dia il senso del «voltare pagina» sulle questioni del lavoro. Tocca intervenire, e subito.

Il Manifesto 5 Maggio 2006

Lavoro Due incidenti mortali a Sassari e LameziaUn operaio di 49 anni, Gennaro Toia, è morto ieri pomeriggio a Lamezia Terme

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(Catanzaro), all'interno di una industria per la lavorazione della calce. Secono i primi rilievi l'uomo è stato travolto e schiacciato dal braccio di un mezzo per il trasporto della calce. Incidente anche in un cantiere a Viddalba, nel Sassarese. Un operaio di ben 69 anni è morto in seguito di una caduta dalla cabina di un camion. La vittima, Peppino Ruzzu, stava caricando dei blocchetti quando ha perso l'equilibrio ed è caduto da un'altezza di circa 2 metri.

Il Manifesto 6 Maggio 2006

INCIDENTE MORTALE SUL LAVORO ACCADUTO TRE ANNI FA SUL MONTE CALVARIO Operaio ucciso da una gru

IMPERIA . Un infortunio sul lavoro frutto di una serie di circostanze maledette per cui, adesso, si sta cercando di appurareo se esistano responsabilità. Tre persone risultano accusate di omicidio colposo per l’incidente capitato a un operaio edile, Fortunato Rossi, ferito a morte mentre lavorara alla costruzione di una casa in un cantiere sul monte Calvario, nei pressi dell’ex colonia biellese, il pomeriggio del 17 gennaio 2003. La vittima aveva 53 anni ed era originario di Genova. Stava su un solettone, e il braccio meccanico che si mosse con l’effetto di un enorme pendolo, lo colpì fatalmente alla testa. Morte istantanea. Il prossimo 19 settembre i tre indagati dovranno comparire davanti al gup d’Imperia Fabio Favalli. Si tratta del datore di lavoro, geometra Antonello Acquarone che era anche proprietario della gru (tecnicamente una betonpompa», ndr), poi il responsabile della sicurezza nel cantiere, l’ingegner Pietro Somà, infine Domenico Costantino, l’artigiano che doveva vigilare affinchè fossero seguite tutte le misure antinfortunistiche. Sono tutti e tre d’Imperia. Costantino e Somà sono assistiti dall’avvocato Alessandro Mager, mentre Acquarone lo difende l’avvocato Alessandro Moroni. Tutti e due i difensori hanno chiesto per i loro clienti il giudizio col rito abbreviato. Decisivi, per scagionare o meno gli indagati, i risultati delle perizie, eseguite dagli ingegneri Sicca e Ciccarelli per conto dell’accusa (pm è la dottoressa Manuela Trifuoggi) e dello stesso tribunale. I quesiti posti dal giudice Favalli: se nel cantiere fossero state prese tutte le precauzioni possibili, se il mezzo meccanico, che si poteva azionare da distanza con un telecomando, presentasse difetti o avesse subìto un improvviso cedimento strutturale. I familiari della vittima si sono costituiti parte civile: ci sono la vedova Gabriella Losno e il figlio. mau. vez.

La Stampa- Sezione Imperia 6 Maggio 2006

DOCUMENTO DEL 1973 NELLA COMMISSIONE AMBIENTE DI MONTEFIBRE ANCHE DUE LAVORATORI MORTI PER MESOTELIOMA MALIGNO Amianto, da 30 anni chiedono sicurezza

VERBANIA . Il 12 novembre 1973 la Commssione Ambiente dell'Esecutivo di Fabbrica di «Montefibre spa» si incontra con i dirigenti Barabino, Naj, Parnisari, Gremmo e Bolognesi. Della delegazione sindacale fanno parte i lavoratori Brandani, Goffredi, Pagani, Vercelli, Chiari, Paganini, Pasini e Melchioretto. Tema dell'incontro: le condizioni di salubrità e sicurezza nei reparti di filatura nylon e preparazione di coibentazioni in amianto e lana di roccia. L'Esecutivo di Fabbrica chiede alla Direzione del polo chimico di eseguire esami sulla pericolosità delle polveri rilasciate dai materiali coibentanti al fine di ottenere indicazioni utili per migliorare le condizioni ambientali di alcuni luoghi di lavoro che,

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osserva la Commissione Ambiente, «presentano pericoli per la salute dei lavoratori». A 33 anni di distanza da quella riunione al tribunale di Verbania è in corso il processo a 17 ex dirigenti di «Montefibre spa» accusati di concorso in omicidio colposo plurimo per la morte di 13 lavoratori uccisi da mesotelioma maligno alla pleura, patologia conseguente alla esposizione a polveri e fibre di amianto. Tra le vittime figurano anche Mechioretto e Pasini. Passato, presente e futuro del problema «amianto» sono stati al centro, ieri, della conferenza stampa indetta da Cgil - Vco. «Il pericolo era in agguato da anni - commenta Franco Chiodi della segreteria Cgil Vco - ma la consapevolezza della salute dei lavoratori è entrata con grande ritardo nella cultura dell'opinione pubblica». «Adesso sappiamo con certezza che l'amianto provoca il mesotelioma mortale - aggiungono Cesare Salari e Gerardo Ramunno, delegati al problema in seno a Cgil - ma non sappiamo però quanti ex lavoratori di Montefibre ancora oggi accusino sintomi della malattia che impiega talvolta decenni a manifestarsi in tutta la sua gravità. Il sindacato è disponibile a seguire tutte le persone che abbiano problemi in tal senso». «Il procedimento penale in corso a Verbania - spiega Giovanna Albertini di Medicina Democratica, associazione che con Cgil è parte civile nel processo - è un punto fermo nella difesa della salute dei lavoratori al di là di quella che sarà la sentenza». Si torna a parlare di amianto killer nel dibattito pubblico, questa sera alle 21 a Villa Olimpia, organizzato da «Medicina Democratica», Cgil - Camera del Lavoro e Circolo Verbano di Legambiente. Relatori sono Luigi Mara, consulente di parte al processo per «Medicina Democratica», Fulvio Aurora dell'associazione «Esposti Amianto» e Antonio Pizzinato, già sindacaliSta e senatore, dell'associazione «Alsole».

La Stampa – Sezione Verbania 9/05/06

INDENNIZZI DALLA SVIZZERA Chiesti elenchi di chi è morto per l’amianto

Il sindacalista Nicola Pondrano CASALE MONFERRATO Finalmente la Suva, l'Inail svizzera, fa qualche tentativo di andare incontro agli operai italiani che lavorarono in Svizzera a contatto con l'amianto per riconoscere risarcimenti a chi ha contratto malattie o è deceduto. E per fare questo chiede la collaborazione dei patronati italiani dei vari sindacati. Una riunione si è tenuta a Lugano nei giorni scorsi, presente il segretario della Camera del Lavoro, Nicola Pondrano, rappresentante nazionale dell'Inca, il patronato della Cgil. Diverse decine i casalesi interessati, più diverse centinaia quelli di S. Maria di Leuca e del Friuli, con cui la Suva cercherà di riannodare contatti. La novità è anzi costituita dal fatto che i lavoratori o i loro familiari potranno rivolgersi ai patronati nelle singole città italiane per far presenti le loro situazioni. Con il lavoro di documentazione messo in piedi dalla Camera del Lavoro di Casale e dagli altri sindacati sarà abbastanza semplice avere le notizie, ma in altri comuni non è stato svolto un lavoro altrettanto certosino. «Sarebbe stato più semplice che la Suva - dice Pondrano - mettesse a disposizione la documentazione delle varie aziende. Comunque questa iniziativa dimostra che c'è sempre più coscienza del problema amianto». Da notare che fino a qualche mese fa la Suva si rifiutava di consegnare al Procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello, la documentazione riguardante lavoratori italiani, che erano stati esposti all'amianto e che poi, tornati in patria, sono deceduti.f. n.

La Stampa – Sezione Verbania 9/05/06

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IL CASO IN CORSO BRAMANTE C’era amianto Il Tar dà ragione a 40 lavoratori

C’era amianto alle Molinette e le fibre di asbesto hanno provocato malattie in alcuni dipendenti. Il 18 aprile il Tar ha infatti depositato la sentenza relativa alla concessione dei benefici pensionistici in relazione all’avvenuta esposizione al rischio di inalazione di fibre di amianto per quaranta lavoratori dell’ospedale Molinette. Il riscorso era stato presentato da un gruppo di dipendenti addetti alle attività di manutenzione e conduzione degli impianti di distribuzione del calore, dell’acqua calda, dell’aria compressa e dell’ossigeno, inquadrati nel settore tecnico ed adibiti per più di dieci anni all’attività di manutenzione dele Molinette. I dipendenti avevano precisato che le condutture termo-idrauliche che corrono per decine di chilometri nei sotterranei erano tutte rivestite di amianto e che erano venuti a contatto diretto con tale materiale con l’esposizione al rischio di inalare fibre di amianto aerodisoperse. Il ricorso era fondato e alcuni casi di malattie da amianto (positività all’asbestosi) sono già stati diagnosticati tra i dipendenti dell’ospedale. L’antefatto sta in una legge secondo la quale chi ha lavorato a contatto con l’amianto per più di 10 anni ha diritto a benefici pensionati, consente cioè di andare in pensione prima. «Il fatto grave - spiega Francesco Ferrucci, uno dei dipendenti delle Molinette che hanno vinto il ricorso - non è tanto che vi siano casi di asbestosi, purtroppo accade in molte aziende. Il fatto grave è che tutto questo è avvenuto in un ospedale dove ci si aspetta di essere curati, non certo di contrarre malattie invalidanti». a.con.

La Stampa – Sezione Aosta 10/05/06

EX MONTEFIBRE GIORNI DI PROCESSO E DIBATTITI. PIZZINATO: «ADESSO SAPPIAMO, DIFENDIAMO LA SALUTE» «Amianto, la paura arrivò dopo» Parla la difesa ma il pm ricorda le visite mediche del ‘73

VERBANIA . La parola ai consulenti della difesa, ieri in tribunale, nel processo ai 17 ex dirigenti di «Montefibre spa» chiamati a rispondere di concorso in omicidio colposo plurimo. L’accusa sostenuta dal pm Nicola Mezzina riguarda la morte di 13 ex dipendenti del polo chimico di viale Azari tutti uccisi, negli ultimi anni, da mesotelioma maligno alla pleura. E’ una patologia conseguente alla esposizione a polveri e fibre di amianto. Secondo i consulenti della difesa il problema amianto «non era prioritario all'interno della fabbrica di Pallanza». Più pressanti sarebbero stati i problemi legati a inquinamento acustico ed emissioni nocive in atmosfera. Parti civili al processo sono rimasti l'associazione «Medicina Democratica» e il sindacato Cgil del Vco dopo che i familiari di alcune delle vittime hanno accettato i risarcimenti (100 mila euro per ogni decesso) proposti dai legali di «Montefibre». Giovanni Bonalumi, avvocato di «Medicina Democratica» ha chiesto ad uno dei consulenti difensivi che problemi avrebbe causato nel ciclo produttivo della fabbrica chimica, anche sotto il profilo dei costi di esercizio, la sostituzione dell'amianto con lana di roccia o di vetro. Secondo il consulente - che si è detto non in grado di quantificare il costo dell'operazione - si sarebbe reso indispensabile fermare gli impianti interessati per i quali sarebbe poi stato utile programmare una manutenzione straordinaria. Il pm Mezzina ha sottolineato che il problema dell'amianto era noto da tempo a dirigenti e operai. A tal punto che nel 1973 i responsabili sanitari interni a «Montefibre» inviarono 7 addetti alla coibentazione alla Clinica del Lavoro di Torino. Il processo riprenderà il 25 maggio prossimo con le relazioni di altri consulenti della difesa.

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L'amianto killer e il pocesso in corso al tribunale di Verbania sono stati al centro dell'incontro organizzato da «Medicina Democratica» e Cgil - Vco con il coordinamento di Amelia Alberti, presidente di Circolo Verbano Legambiente. Relatori sono stati Luigi Mara, consulente al processo, Fulvio Aurora, dell'associazione Esposti Amianto, e Antonio Pizzinato, già senatore, oggi impegnato nell'associazione Alsole. «Dobbiamo fare in fretta - ha detto Pizzinato - affinchè la cultura della salute dei lavoratori entri a far parte del sentire comune. Abito a Sesto San Giovanni da molto tempo e negli ultimi anni, 70 lavoratori delle aziende della zona sono morti per mesotelioma». Pizzinato ha poi illustrato la proposto di legge eleborata sulla prevenzione del rischio amianto, tutela dei lavoratori e dei loro familiari e sulla cosituzione di un Fondo Nazionale Vittime Amianto che dovrebbe essere direttamente gestito dall'Inail. La convivenza tra città e industria nel corso degli anni è profondamente cambiata

La Stampa – Sezione Verbania 11/05/06

PROCESSO ALLA SAFID DI GRUGLIASCO: L’UOMO È MORTO DI TUMORE «Mio marito ucciso dall’amianto L’azienda non l’ha mai tutelato»

Per dieci anni, ogni giorno, Giovanni Casanova rientrava nella sua abitazione di Venaria coperto di polvere bianca. Ma non faceva il panettiere e quel pulviscolo non era farina. Era amianto. Dal ‘68 al ‘78 l’operaio ha lavorato alla Safid di via Fabbrichetta, a Grugliasco, con l’incarico di caricare e scaricare sacchi di polvere d’asbesto, in gran parte provenienti dagli scarti di lavorazione di un’altra «fabbrica della morte», la Sia. Giovanni Casanova è deceduto nel 2001, a 68 anni, stroncato da una forma fulminante di tumore al polmone. Per la sua morte dovrà rispondere di omicidio colposo l’ultimo degli amministratori ancora in vita della Safid, Marco Eva, assistito dall’avvocato Giovanni Lageard. Secondo la pubblica accusa, sostenuta dal pm Nicoletta Quaglino, il titolare della ditta grugliaschese (chiusa da anni) sarebbe responsabile della morte dell’operaio per tutta una serie di carenze in materia di sicurezza, riscontrate dalle testimonianze raccolte nel corso delle indagini. Ad illustrare al giudice Walter Maccario uno spaccato delle terribili condizioni di lavoro nel decennio degli anni ‘70 è stata la vedova di Casanova, ascoltata ieri in aula. Rosa Telle, che insieme ai figli si è costituita parte civile con l’avvocato Wilmer Perga, ha ricordato gli anni trascorsi dal marito nell’azienda di Grugliasco, dapprima come lavoratore esterno di una società di facchinaggio, poi come dipendente della stessa Safid. «Arrivava a casa coperto di una polvere grigiastra - ha raccontato la vedova - dopo aver passato in fabbrica anche 12 ore al giorno, faceva molti straordinari perché con cinque figli i soldi ci facevano comodo». Gli abiti di lavoro venivano messi in lavatrice dalla moglie insieme con gli indumenti del resto della famiglia, «per questo ora tremo quando sento che uno dei miei figli ha problemi di tipo respiratorio». Alla Safid l’operaio ha sempre lavorato senza usare strumenti di protezione personale: nel corso dell’udienza di ieri l’avvocato di parte civile ha prodotto una fotografia che ritrae Giovanni Casanova mentre trasporta sacchi d’amianto con un muletto, senza indossare neppure una mascherina. «Mio marito se lo mangiava persino, l’amianto - ha riferito la signora Telle - perché di solito a mezzogiorno si sedeva a far pranzo sui sacchi che doveva trasportare». La battaglia processuale sull’ipotesi di omicidio colposo si giocherà però sull’accertamento del nesso tra l’esposizione all’amianto e l’insorgere della malattia, un adenocarcinoma polmonare che ha lasciato al povero Casanova solo quattro mesi di vita. Secondo la consulenza della dottoressa Franca Sulotto, incaricata dal pm Quaglino, è sicuramente da addebitarsi all’amianto l’asbestosi di cui soffriva l’operaio, ma per quanto riguarda il tumore polmonare potrebbe esserci anche un’altra causa perché la vittima era un forte fumatore. «Se necessario chiederemo al giudice una nuova perizia - sottolinea l’avvocato Perga - perché Casanova non fumava più

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di 7-8 sigarette al giorno. Difficile pensare che si sia ammalato per il fumo e non per l’esposizione ben più massiccia alle polveri d’amianto». Nicoletta Quaglino

La Stampa –Torino Cronaca 11/05/06

Lavoro mortale - Condannata per omicidio La Silca di S. Cataldo (Cl)

«Omicidio colposo plurimo e lesioni colpose». Con questi capi di imputazione il Tribunale di Caltanissetta ha condannato, dopo un processo iniziato nel 1997 e durato nove anni, alcuni ex dirigenti della Silca di San Cataldo (Caltanissetta), società che per anni ha prodotto manufatti in cemento-amianto, ritenendoli responsabili, a vario titolo, della morte per asbestosi di otto lavoratori della stessa società. L'indagine era partita dopo i tanti, troppi casi di tumori diagnosticati in quella zona, considerata ad alto rischio ambientale, tanto da far istituire dalla procura del capoluogo un gruppo ambiente. Poi il processo e qualche giorno fa il verdetto di colpevolezza, che contempla un risarcimento per i parenti delle vittime costituitisi parte civile nel dibattimento. Per Legambiente quella emessa dal Tribunale di Caltanissetta è da considerarsi una «sentenza storica per il diritto penale».

Il Manifesto 18/05/06

VENEZIA - Fincantieri condannata

VENEZIA - Per la terza volta la Fincantieri è stata condannata a risarcire i familiari di un operaio morto a causa di un mesotelioma pleurico. Dopo Umberto Favero (vicedirettore di stabilimento, aprile 2005, 321mila euro), Mario Bragato (saldatore, luglio 2005, 373mila euro), il giudice del lavoro Margherita Bortolaso ha stabilito la responsabilità della società anche per il decesso di Ivone Semenzato nonché la correlazione tra il tumore e la lavorazione a contatto con le fibre di amianto . Non si tratta però di una giurisprudenza a senso unico in campo nazionale perché in altre sedi il nesso causale tra l'inalazione di fibre d'amianto e mesotelioma non è stato ancora riconosciuto.

«Ne consegue - ha commentato l'avvocato Enrico Cornelio, che assiste la famiglia di Semenzato - che ogni causa di questo genere diventa una battaglia tra periti».

Ivone Semenzato, che era aveva lavorato nello stabilimento di Porto Marghera dal 1971 al 1989 come operaio elettricista, morì nel maggio del 2002 dopo una lunga sofferenza e la salma fu sottoposta ad autopsia su disposizione dell'allora pubblico ministero Felice Casson, titolare dell'inchiesta penale sulle morti da amianto .

Il medico legale Bruno Murer, nella sua consulenza, aveva evidenziato come la scienza medica attuale ritenga l'insorgenza del cancro ai polmoni dipendente dalle dosi inalate e non, come sostenevano i consulenti del l'azienda, indipendenti dalla quantità. Pur non essendo ancora nota la motivazione, pare assodato che il giudice abbia accolto l'impostazione dei ricorrenti. Quanto alla prova dell'inalazione delle micidiali fibre d'amianto , nel ricorso si sono lette cose raccapriccianti come il fatto che vi erano materassini d'amianto utilizzati dagli operatori per lavorare più vicini ai tubi di grandi dimensioni. "I materassini - si legge nel ricorso della famiglia - venivano usati dal personale di turno anche come giacigli per il riposo".

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La condanna a 300mila euro costituisce il risarcimento del danno biologico relativo all'agonia degli ultimi 22 mesi di vita di Semenzato. A parte, il giudice civile dovrà liquidare il danno alla vedova e al figlio per un importo che, per l'avvocato, non dovrebbe essere inferiore a 200mila euro. Michele Fullin

Il Gazzettino – 19/05/06

«Petrolchimico, ora deve muoversi la politica» Il sen. Felice Casson, che da pm istruì il processo: «Riconosciuto che salute e ambiente sono beni collettivi prioritari»

«Nel '94 quando conobbi Gabriele Bortolozzo mi resi subito conto che dovevo avviare un'inchiesta. Ero e sono convinto che la tutela della salute e dell'ambiente sono beni irrinunciabili. E questo è il principio costituzionale su cui si basa anche la sentenza della Corte d'Appello di Venezia riconfermata dalla Cassazione. Da qui non si torna indietro». Felice Casson, il pubblico ministero che ha istruito fin dalle indagini preliminari, il maxi processo per le morti da cvm, ora eletto senatore della Repubblica, rompe il silenzio e per la prima volta pubblicamente ripercorre dieci anni della sua carriera che hanno segnato profondamente la storia della nostra città.«Grazie a questo processo sono cresciuto professionalmente ed umanamente - confessa - Ma non ho combattuto da solo: sono cresciuto con gli operai e con gli ambientalisti, e poi ancora con gli avvocati di parte civile ed i miei consulenti tecnici. Sapevo fin dall'inizio che era una battaglia durissima, ma bisognava andare avanti perché già troppe volte gli organi preposti al controllo e la stessa magistratura non avevano dato ascolto alle grida d'allarme di Bortolozzo e dei suoi compagni, troppi esposti sono caduti nel vuoto. Avessi incontrato prima Gabriele, forse le prescrizioni di oggi sarebbero delle condanne».Piano piano riemerge lo spirito del Pm che è stato Casson, ostico ed intransigente, testardo e coraggioso oltre misura. Nella sua carriera si è scontrato ripetutamente con i "poteri forti", ha tirato in ballo servizi segreti e presidenti della repubblica, senza mai fermarsi. «Io credo che così debba fare un Pm per tutelare le fasce più deboli della popolazione», spiega. Dopo la sentenza di primo grado che assolse tutti gli imputati, perché ritenuti non responsabili della morte e della malattia degli operai, Casson fu pesantemente attaccato per aver istruito un processo "insostenibile" che - come amava ripetere il professor Federico Stella, difensore di Enichem - non si sarebbe mai dovuto fare. Si diceva di Casson che era bravo nelle inchieste, ma non altrettanto in diritto. Poi la Corte d'Appello di Venezia ed infine anche la Cassazione hanno riconosciuto la validità del suo impianto accusatorio. «Gli imputati condannati dovranno pagare tutte le spese per le consulenze, le traduzioni e le rogatorie del Pm, a cui si aggiungono le spese processuali per le parti civili - commenta - Si tratta di spese dell'ordine di miliardi e miliardi di lire». Una sorta di legge del contrappasso per chi, come alcuni difensori Montedison, ha comunque ribadito più volte in aula bunker che l'impianto accusatorio non avrebbe retto.

Ma ora qual è la scommessa? «La Cassazione ha confermato più volte l'orientamento della magistratura veneziana: la salute e l'ambiente sono beni collettivi prioritari - conclude Casson - Siamo una avanguardia internazionale, ma la sfida ora va vinta anche su altri fronti. La politica deve operare, perché situazioni così drammatiche non si verifichino più. Ci sono ancora molte resistenze: è una battaglia culturale. Porto Marghera è ancora lì. Dobbiamo ripartire dal valore prioritario della salute e dell'ambiente e studiare soluzioni possibili sancite da un nuovo accordo tra le parti -enti locali, stato, sindacati, aziende - che abbia basi giuridiche, in modo tale che una volta sottoscritto, nessuno possa fare marcia indietro. Occorre essere lungimiranti e considerare che i danni all'ambiente si pagano cari,

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perché nel tempo la natura ci restituisce il male che le abbiamo fatto. Anche questa scommessa sarà vinta, se i cittadini potranno dire la loro sul futuro che vogliono per sé e per i propri figli. Da parte mia, non mollo. In Senato sono il primo firmatario di un disegno di legge a tutela dei lavoratori e dell'ambiente dal rischio amianto ».Casson è un maratoneta, abituato a lottare e a vincere sulle lunghe distanze. Nicoletta Benatelli

Il Gazzettino- Cronaca di Venezia/Mestre – 21/05/06

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L’eredità petrolchimicaSentenze A Marghera la Cassazione ha messo la parola fine al processo per i veleni, confermando che quelle morti furono degli omicidi. A Priolo,risarcimenti «preventivi» vorrebbero chiudere una storia analoga prima ancora che cominci un processo

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Manuela Cartosio. Felice Casson non è tipo da indulgere agli ozi romani. Insediatosi a Palazzo Madama il 28 aprile, il neosenatore Felice Casson (eletto come indipendente nelle liste Ds) ha subito depositato un disegno di legge. Sull’amianto, una delle tante sostante mortifere di cui si è occupato da magistrato. Casson è stato il pubblico ministero nel maxi processo contro il petrolchimico di Porto Marghera dove a far strage di operai è stato il cvm, il cloruro di vinile monomero. Venerdì la Cassazione ha chiuso definitivamente il processo, confermando la sentenza d’appello pronunciata nel dicembre 2004 nell’aula bunker di Mestre: cinque ex dirigenti Montendison condannati a un anno e mezzo di carcere per la morte dell’operaio Tullio Faggin, deceduto nel 1999 per angiosarcoma al fegato, «tipico» tumore causato dal cvm. L’ultimo ad andarsene di una vasta schiera (la lista presentata da Casson conteggiava 157 decessi), l’unico omicidio colposo non «caduto in prescrizione».Nonostante le tante e vaste prescrizioni, la sentenza d’appello aveva corretto il «tutti assolti» del primo grado che - era il 2 novembre 2001 - aveva sbigottito e fatto piangere i parenti delle vittime. Tutti morti perché fumavano o bevevano qualche ombreta? «Di qualcosa bisogna pur morire», commentò il difensore di uno dei 28 imputati, il gotha della chimica italiana al gran completo. Frase che non si dimentica. La sentenza d’appello, trovando un punto di equilibrio tra garantismo e giustizia sostanziale, ha risarcito il bisogno di giustizia di un’intera comunità e riconosciuto la fondatezza dell’impianto accusatorio sostenuto da Casson.Il timbro definitivo della Cassazione, dichiara l’ex magistrato, è estremamente importante. La Suprema corte «mette al primo posto la salute, applicando la Carta costituzionale». Banale? Mica tanto, replica il neosenatore. «Significa che quando si verificano gravi casi di danno alla salute dei lavoratori è giusto e corretto procedere anche con un processo penale». Certo, i processi si fanno sempre in ritardo, i tumori hanno latenze di decenni, scattano le prescrizioni. Di questo Casson si rammarica ma, aggiunge, il tempo che passa non può essere un alibi. «I processi sono lunghi e complicati, però bisogna farli». In sede penale, ribadisce. La sottolineatura rinvia a uno scontro tra «scuole di pensiero» giuridico emerso in dibattimento nell’aula bunker di Mestre. Una, rappresentata dal professor Federico Stella, patrono dell’Enichem: «Non si potrà mai accertare al di là di ogni ragionevole dubbio il nesso di causalità tra la morte di un operaio del petrolchimico e il cvm. Questo processo andava fatto in sede civile, dove basta il probabile». L’altra, interpretata dai difensori di parte civile e, ovviamente, dal pm Casson. Che liquida il contenzioso in modo spiccio: «Se si dà retta al professor Stella, si esce dalla Costituzione italiana. La salute divente merce. Un’azienda procura danni alle persone o all’ambiente? Paga e tutto finisce lì. Andrà bene per le imprese, non per la giustizia».Per dirla tutta, la sentenza della Cassazione chiude a favore di Casson anche un altro contenzioso, quello con i giudici di primo grado. Garantisti sinceri e non pelosi, corre l’obbligo di ricordare, uno pure lettore del manifesto. Avevano fatto derivare la loro assoluzione plenaria da una data feticcio, l’anno 1973. Prima d’allora, avevano argomentato, non c’erano le leggi e non si sapeva quanto fosse nocivo il cvm. Dopo, i padroni del Petrolchimico hanno grosso modo rispettato le normative. Confermano le condanne, afferma Casson, la Cassazione dice che le leggi sulla salubrità dell’aria, dell’acqua e dei luoghi di lavoro c’erano fin dagli anni ’50. «E valevano per le imprese, per le amministrazioni pubbliche e per i magistrati». Anche questi ultimi hanno girato la testa dall’altra parte. L’esposto di Gabriele Bortolozzo, l’operaio del Petrolchimico che per primo documentò l’epidemia di tumori tra i colleghi, da cui ha preso avvio l’inchiesta di Casson è del 1994. «Ma non era il primo», precisa l’ex pm. Se qualche magistrato non avesse messo nel cassetto le denunce di Bortolozzo, le prescrizioni non sarebbero scattate».La sentenza della Cassazione arriva alla vigilia di un anomalo referendum postale, promosso dall’Assemblea permanente contro il rischio chimico. Un rischio insito nel ciclo

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del clorosoda e del deposito di fosgene, dice Roberto Trevisan, portavoce dell’assemble. Più elevato, parodossalmente, in un petrolchimo che produce meno di un tempo. In una situazione incerta, le imprese non investono un euro in sicurezza e in manutenzione. A difendere ostinatamente il petrolchimico restano solo i sindacati dei chimici e i lavoratori. Ormai ridotti a 3 mila.

Il Manifesto 21/05/06

Quegli operai non erano fantasmi

Gianfranco Bettin. Dunque non erano fantasmi. Non lo erano gli operai di Porto Marghera morti per l’esposizione a cloruro di vinile monomero (cvm). E non lo erano i responsabili di questa grande tragedia sociale e ambientale, cioè i vertici delle industrie chimiche insediate sul bordo della laguna di Venezia. Il verdetto finale della Corte di Cassazione rende giustizia ai morti e agli ammalati, e alle loro famiglie. E rende giustizia a Gabriele Bortolozzo, l’operaio autodidatta del Petrolchimico che aveva raccolto per anni materiali e testimonianze sulla sorte dolorosa toccata a quasi tutti i suoi compagni di lavoro. Gabriele, scomparso nel 1995, aveva infine trovato in Felice Casson un pubblico ministero capace di ascoltarlo e di fare del suo materiale la base per una indagine vastissima sfociata nella sconfitta al processo di primo grado e poi nel vittorioso ricorso in appello, ora confermato in via definitiva. «I miei compagni morti non sono / mai esistiti / sono svaniti nel nulla», aveva scritto desolatamente dopo la prima sentenza il poeta operaio Ferruccio Brugnaro. Ma aveva fieramente aggiunto: «Nessun padrone / nessun tribunale / potrà mai recingerci / di un così grande / infame silenzio». E così è stato. La lezione di Bortolozzo, e la sfida di Casson (cioè della magistratura che agisce davvero «in nome del popolo italiano»), hanno nutrito una più forte e ampia coscienza, che il processo e la discussione che lo ha accompagnato hanno contribuito a formare storicamente e culturalmente. Una coscienza che ha trovato nuovo alimento nello stillicidio di incidenti continuato a Marghera e soprattutto nel gravissimo incidente del 28 novembre 2002 alla Dow Chemical, che ha fatto correre il rischio di una catastrofe interessando impianti e depositi di fosgene. Marghera, infatti, è uno dei pochissimi posti al mondo in cui enormi quantità di questa sostanza micidiale sono ancora lavorate e stoccate a ridosso di un grande centro abitato, oltre che di antiche meraviglie come la laguna e il centro storico di Venezia. Da questa nuova spinta è nata nel 2002 l’Assemblea permanente dei cittadini contro il rischio chimico che, oltre a mille altre iniziative, ha di recente promosso un referendum comunale per chiedere la chiusura del ciclo del cloro (che occupa circa 500 addetti su 2500 dell’intero polo chimico). Il successo della raccolta di firme ha preoccupato il partito trasversale che difende lo status quo, cioè una chimica perdente che anno dopo anno chiude reparti e riduce gli addetti, mentre diventa sempre più insicura per gli incidenti e deleteria per le emissioni in acqua, aria e suolo.Così, a partire da un parere espresso dal ministero degli interni, secondo il quale questo referendum, ancorché consultivo, non potrebbe tenersi perché la materia non sarebbe «di esclusiva competenza comunale», l’amministrazione ha sostituito il referendum con una consultazione tramite questionario che coinvolgerà nel prossimo mese di giugno l’intero corpo elettorale del Comune di Venezia, utilizzando il sistema del voto degli italiani all’estero (inviando cioè le schede a casa di tutti, con una busta pre-affrancata per la risposta da rispedire al Comune). Per la prima volta la città, sia pure in questa forma sperimentale, potrà così esprimersi su un problema che ne condiziona la vita da oltre mezzo secolo. La magistratura, sia pure con ritardo (che ha provocato fin troppe prescrizioni), ha detto

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una parola definitiva sulle responsabilità del passato. Ora la città intera – con le istituzioni e con la politica – dovrà assumersi la responsabilità di decidere sul proprio futuro.

Il Manifesto 21/05/06

BRUZOLO LAVORAVA NEL MAGAZZINO DELLA EX PERMAFUSE Operaio morì d’amianto Condannato il direttore

«Mio padre arrivava a casa con la tuta piena di polvere d'amianto. A mezzogiorno pranzava senza toglierla mentre la sera la metteva sul balcone. Io e mia sorella Loredana prendevamo questa polvere facendola scendere dalle tasche, la mettevamo dentro delle scatolette e poi ci giocavamo. Pensavamo fosse come il borotalco» aveva raccontato in aula del Tribunale di Susa Marisella Combetto ricordando il padre morto quattro anni prima per asbestosi polmonare, malattia professionale causata dall'esposizione di fibre o dall'inalazione di polveri d'amianto. Ieri pomeriggio il giudice Maria Cristina Pagano ha condannato per omicidio colposo ad un anno e due mesi di reclusione l'amministratore delegato Romano Ronchigalli della ex Permafuse ora Maff di Bruzolo di Susa, una ditta che produce componenti per auto ed in particolare negli anni '70-'80 produceva pastiglie per freni con polveri di amianto. Il giudice ha invece deciso di «non doversi procedere» per l'ex direttore Riccardo Chiosso deceduto i mesi scorsi. Il pubblico ministero Francesca Traverso nella scorsa udienza aveva richiesto una condanna ad un anno e sei mesi per Romano Ronchigalli ritenendo «provate le responsabilità dell'azienda per il tumore polmonare contratto dall'operaio». Riccardo Combetto, morto all'età di 79 anni nel giugno del 2000, aveva lavorato per 29 anni, dal 1965 al 1994, in questa ditta di Bruzolo (il primo anno in frazione Fornelli a Bussoleno) a continuo contatto con polveri di amianto. Lavorava in magazzino ed avrebbe scaricato sacchi di carta pieni di amianto che spesso erano anche rotti. «Non venivano usate mascherine di protezione?» aveva chiesto il pm Traverso ai suoi compagni di lavoro intervenuti come testi in aula che hanno detto: «Solo dopo il 1975 c'erano mascherine in magazzino ma nessuno ci aveva mai detto di usarle perchè l'amianto era pericoloso». L'avvocato difensore Asvaldo Ominalli aveva invece richiesto l'assoluzione con formula piena per Riccardo Chiosso perchè «non aveva mai avuto funzioni di controllo su queste lavorazioni e non ricopriva una funzione giuridica di garanzia rispetto al rischio amianto». Roberto Trinchero, avvocato difensore di Romano Ronchigalli ne aveva chiesto l'assoluzione per non aver commesso il fatto e aveva più volte sottolineato che Riccardo Combetto era un fumatore precisando «che di aver causato per colpa e negligenza la morte di un'uomo non esiste una prova processuale certa. La sua esposizione al rischio per noi era bassa, molto bassa, modesta. La vittima fumava sigarette senza filtro e questa potrebbe essere l'unica causa del tumore. Bisogna separare la competenza scentifica di probabilità con quella giuridica perchè manca la prova di ragionevole certezza che l'amianto sia stata causa o concausa della malattia».

La Stampa – Torino cronaca 23/05/06

Alto Adige, operaio travolto da una frana

Tragico incidente sul lavoro in Alto Adige. Il 38enne Georg Messner è morto travolto dalla caduta di pietre. L'uomo stava eseguendo lavori boschivi nei pressi del lago di Anterselva, a 1.700 metri di quota ed aveva appena tagliato un albero e ne stava recidendo con la motosega i rami, quando dall'alto della montagna si e' staccata una frana di pietre e terriccio, il cui rombo Messner non ha udito, per il rumore della motosega

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Il Manifesto 23/05/06

Storie Le contraddizioni di una giovane classe operaiaLavoro o salute? L'altoforno divide PiombinoL'acciaieria Lucchini passa nelle mani dei russi ma lo «spolverino», quella polverina tossica che si deposita ovunque, ha sempre lo stesso colore. C'è un muro coperto dai graffiti che separa la città dalla fabbrica. Da un lato il lavoro e l'economia, dall'altro la qualità della vita

Claudio Passatore. Corre lungo un chilometro il muro che divide la città dalla fabbrica. 1077 metri di cemento che separano la vita del quartiere del Cotone, a Piombino, dagli impianti di uno dei più grandi centri siderurgici italiani. Una linea di demarcazione costruita cento anni fa, simbolo della separazione della città dalla fabbrica che nel 2000 gli abitanti della zona hanno deciso di abbellire e colorare, con girasoli, clown e messaggi rivoluzionari. Sandro Papini, 52 anni, si affaccia dal balcone della sua casa con vista sulla fabbrica. «Abbiamo cercato di migliorare il nostro quartiere», spiega Papini che è stato uno dei promotori dell'iniziativa. 80 artisti provenienti da tutta Italia si sono dati appuntamento nella città Piombino, in provincia di Livorno, trentatremila abitanti, città di mare e portuale, città industriale dalla metà dell'Ottocento, per cercare di alleggerire il peso di un vicino rumoroso e inquinante. Una realtà dove negli ultimi anni le tre grandi industrie che hanno fatto la sua storia sono state ingoiate da tre multinazionali. Si chiamano Severstal (Russia), Arcelor (Francia), e Tenaris (Argentina), che rispettivamente hanno acquistato Lucchini, Magona, Dalmine. PerchéSe nell'industria italiana si delocalizzano interi settori di produzione nell'est europeo o in Cina, nella siderurgia c'è la tendenza contraria. Costruire un impianto dal nulla in Polonia o Romania costa troppo. Fare l'acciaio buono come quello di Piombino è ancora più difficile. E allora le multinazionali comprano un po' in tutto il mondo. Un destino che è toccato in sorte anche alle industrie di Piombino, importante sbocco sul Mediterraneo, circa mille ettari occupati dalla fabbriche dove negli anni Ottanta lavoravano 12000 mila persone. Lo «spolverino».A Piombino lo chiamano «spolverino». Ci sono abituati ed è ormai un pezzo della loro vita. E' il pulviscolo che si deposita sulle auto, sui balconi, sui panni stesi. Che l'inquinamento della fabbrica sia il problema della città non è difficile da capire. Le ciminiere che svettano alte accanto alla torre che come un'enorme fiaccola brucia il gas, appartenevano alla Lucchini. I critici la ritengono un carrozzone vecchio e puzzolente. Chi la difende, dice che con l'acciaio prodotto lì dentro sono stati forgiati i binari per le ferrovie di mezza Europa. Acquistata dal colosso siderurgico russo Severstal, in 15 mesi, dal giugno 2004 all'agosto 2005, ci sono stati 3 morti, ai quali va aggiunto un infortunio «in itinere» come lo definisce l'Inail, di un operaio che ha perso la vita nel gennaio 2004 mentre rientrava a casa dopo una giornata di lavoro. A essere messi sotto accusa sono i lavori affidati in appalto alle ditte esterne che si occupano della manutenzione. Se i dipendenti della ex-Lucchini sono 2064, gli operai delle ditte esterne sono circa 1500. Un incrocio tra appalti e subappalti che spesso nasconde il lavoro precario e lo sfruttamento in materia di orario e busta paga. Non migliore la situazione da un punto di vista ambientale. Una parte della cokeria, cioè l'impianto dove viene trattato il carbon-coke, inquina oltre ogni livello di guardia. Una città divisaSecondo i molti orgogliosi sostenitori dell'acciaio e della storia siderurgica piombinese, la fabbrica è il settore trainante non solo della città ma di tutta l'area. Per altri, invece, dovrebbe chiudere per sempre e lasciare spazio ad altre attività. Non la pensa così il segretario di Rifondazione comunista della Val di Cornia, Alessandro Favilli. «A Piombino,

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secondo i dati Irpet (Istituto per la programmazione economica della Toscana, ndr), il 53 per cento del prodotto interno lordo viene fuori dalla fabbrica e il 47 per cento della forza lavoro è impiegata in fabbrica». Nonostante ciò, secondo Favilli, oggi degli stabilimenti si tende a vedere solo l'inquinamento. «Piombino non può diventare da un giorno all'altro come la dirimpettaia Isola d'Elba, luogo turistico con ombrelloni sulla spiaggia e alberghi. Per risolvere i problemi di inquinamento e di infortuni sul lavoro bisogna capire che si deve investire in una reidustrializzazione».Di tutt'altra opinione gli abitanti dei quartieri Cotone e Poggetto, 800 persone che vivono a qualche metro dalla fabbrica e che più risentono dell'inquinamento. A dividere le loro vite dalla ex-Lucchini, solo un muro al di sopra del quale passa il fumo della cocheria. Una vita appesa al vento di scirocco che da sud-est spinge diritto nei polmoni lo «spolverino». Katia, 31 anni, figlia di operai, casalinga e madre di un bel bambino di 5 anni vive da sempre al Cotone. Suo padre oggi combatte contro un tumore. «Quando la sera d'estate lavo mio figlio dopo che ha giocato tutta la giornata fuori, l'acqua del suo bagnetto diventa nera». Fabbrica-comuneL'inquinamento della cokeria ha costretto nel novembre 2004 il sindaco di Piombino Gianni Anselmi (Ds) a emettere un'ordinanza per la messa in riscaldo, come si dice gergo, della cokeria. Una specie di stand-by contro cui la proprietà si è opposta facendo ricorso al Tar e al Consiglio di Stato che hanno respinto la richiesta di sospensiva dell'ordinanza. Una vicenda che si è conclusa con la decisione della proprietà di fermare definitivamente l'impianto entro il 31 maggio 2006. «Non siamo anti-industrialisti, ma non è con l'abbassamento della qualità della vita e della legalità che si difende l'industria - spiega Anselmi». Nessuna intenzione di abbandonare la fabbrica, insomma, che rappresenta ancora il 30 per cento della prodotto interno lordo della città. Le prospettive sono buone e il settore siderurgico è in crescita in tutto il mondo. Il gruppo Lucchini ha chiuso il bilancio 2005 con un utile di 73 milioni di euro contro i 36 dell'anno precedente. E per il 2006 le previsioni sono di un ulteriore crescita. «La siderurgia è un settore che tira a livello mondiale - spiega il segretario della Fiom Giorgio Cremaschi. Per questo le multinazionali investono e comprano impianti siderurgici anche in Italia, dove la sola regola è quella del mercato e quando le aziende non guadagnano abbastanza (o intendono trasferire la produzione per ragioni geopolitiche, ndr) se ne vanno, come è successo a Terni dove la proprietà Thyssen-Krupp ha chiuso la produzione del lamierino magnetico».Per i dirigenti della ex-Lucchini il futuro sembra non essere questo. Entro il 2013 è prevista la prima grande tappa di rifacimento dell'altoforno, il cuore dell'acciaieria. Un intervento importante anche sotto l'aspetto economico che l'azienda ha già garantito. «Provvederemo quando sarà il momento», ha spiegato Giovanni Gillerio, amministratore delegato della Lucchini-Severstal. La nuova classe operaiaIn una fabbrica che cambia cambiano anche gli operai. Giovani che fanno un lavoro «tosto», qualche volta pericoloso, e pagato con mille euro al mese. Uno stipendio che non permette una vita tranquilla ma solo la roulette russa di arrivare alla fine del mese cercando di non sforare nel conto in banca. Sono queste le nuove tute blu della ex-Lucchini dove l'80 per cento dei lavoratori è al di sotto dei 40 anni. «La paga è di mille, mille e cento euro. Il minimo per sopravvivere, e spesso non ci arrivi neanche al venti del mese - racconta Stefano Bianchi, operaio della ex-Lucchini». In un linguaggio di altri tempi si direbbe che la classe operaia è non è più in paradiso. Per un aumento di 100 euro e il rinnovo del contratto (firmato a gennaio dopo lo sciopero nazionale) ci sono voluti 12 mesi di contrattazione tra sindacati e Federmeccanica. Secondo Pino Bertelli, fotografo ed ex operaio licenziato in tronco dall'Ilva, la firma non ha però abbattuto i due mali delle lotte operaie: la debolezza del sindacato e la precarietà. Per portare avanti le sue idee e le sue

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lotte, Bertelli è stato espulso dal sindacato e licenziato dall'Ilva. La sua colpa è stata di aver denunciato sul Tirreno e sul manifesto un grave inquinamento causato dalla fabbrica. «La mia era una battaglia ambientale - dice Bertelli. Una migliore qualità della vita in fabbrica doveva servire a migliorare la vita anche in città». Oggi Bertelli si è dedicato a tempo pieno alla fotografia, lo strumento con cui ha raccontato la «diversità» e le storie dei più deboli, dall'Iraq a Chernobyl. «Ho fatto ciò che in fabbrica non si poteva più fare - dice Bertelli. Quando nel 1961 sono entrato all'ex Ilva c'erano ancora i partigiani che hanno combattuto per la libertà e per i più deboli dentro e fuori gli stabilimenti. La città e la fabbrica erano un tutt'uno, non era possibile pensare alla fabbrica e alle sue lotte senza l'appoggio della città».Tra l'ambiente i il lavoroUna spaccatura tra i due mondi di una stesso territorio in parte ripercorribile nella vita di Ilio Musi. 41 anni di Castagneto Carducci, paese a una ventina di chilometri da Piombino, Musi è entrato in fabbrica da appena un anno. Nello stabilimento Lucchini lavora all'altoforno. Sulla pelle ha alcune piccole cicatrici, segno degli schizzi dell'acciaio fuso con cui ha che fare tutti i giorni. Per arrivare in fabbrica la sveglia suona alle 4,30. Un'ora dopo c'è l'autobus degli operai. Sta fuori fino alle 18, quando può tornare nella sua casa immersa nel verde della Val di Cornia dove vive con la sua moglie Aurora e le due figlie Alice ed Elita. Dopo la giornata passata nello stabilimento di Piombino, dimenticato l'altoforno, le preoccupazioni e i pensieri dei coniugi sono rivolti unicamente a loro. Elita ha 13 anni e dalla nascita ha un grave handicap causato da una paralisi celebrale. A lei e ai temi dei diversamente abili Ilio e Aurora hanno dedicato la loro vita e il loro impegno. Sulla loro storia, hanno realizzato un cortometraggio che racconta delle difficoltà, dei pregiudizi verso l'handicap, delle gioie e dei progressi di Elita. «L'abbiamo voluto fare per sensibilizzare la gente e dare un messaggio sulle capacità di nostra figlia e di tutti i bambini come lei». Una battaglia che combattono con vitalità e senza scoraggiarsi. Una battaglia appassionata che portano avanti per i loro diritti e per un mondo migliore fuori dello stabilimento, oltre il muro sempre più alto che divide una città dalla sua fabbrica.

Il Manifesto 24/05/06

Dante aveva ragione, le Ferrovie invece noIl macchinista si era rifiutato di guidare con il rischioso «uomo morto». Archiviata la denuncia Fs

Francesco Piccioni. Inviato a Pistoia. Un giorno di festa proprio ben scelto. La «festa del macchinista», scadenza annuale animata da tempo immemorabile da Ezio Gallori, è stata benedetta in tempo reale dalla sentenza con cui il tribunale di Bologna ha archiviato l'inchiesta formale contro Dante De Angelis. Ossia contro il «delegato alla sicurezza» che un paio di mesi fa si rifiutò di guidare un eurostar equipaggiato con l'«uomo morto», un pedale inventato agli inizi del '900 per verificare se il macchinista era sveglio oppure no e che oggi - sessanta anni dopo - le Fs stanno istallando ancora su tutti i locomotori passandolo per un «sistema di sicurezza». Più ancora dell'archiviazione sono importanti le motivazioni della sentenza. Il giudice infatti considera «legittimo l'atteggiamento di autotutela» adottato da Dante; giudica «non imputabile al macchinista» il ritardo con cui il treno è partito (e che era costato a Dante la denuncia per «interruzione di pubblico servizio»); ritiene l'azienda responsabile del ritardo nelle comunicazioni scritte (i «modelli m40») con cui disponeva il cambio di conducente.Una vittoria giudiziaria piena, che anticipa logicamente la sentenza che costringerà le Fs a riassumere Dante con le stesse funzioni, ma che tuttavia non ripaga - sindacalmente e politicamente - i ferrovieri riuniti a Pistoia. «Le ferrovie avevano scelto di colpire Dante

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proprio perché è un delegato che fa il suo lavoro con senso di responsabilità. Hanno voluto mettere in piedi un caso esemplare per piegare tutti noi. Ora devono fare marcia indietro in modo altrettanto esemplare». Lo sciopero di 24 ore del 20, 21 giugno resta pertanto in piedi. Dichiarato dal «Coordinamento nazionale dei delegati Rls e Rsu», iscritti a tutti i sindacati ma in aperta polemica con i vertici, considerati troppo acquiescenti verso l'azienda; tanto nella discussione contrattuale, quanto nella vicenda dei licenziamenti dei quattro ferrovieri che avevano collaborato con una puntata della trasmissione Report - e, ovviamente, per l'atteggiamento tenuto dopo il licenziamento di De Angelis.Tra i protagonisti della festa la neosenatrice Franca Rame e il giurista Luigi Ferrajoli. Nominati «ferrovieri ad honorem» per lo storico impegno in difesa dei lavoratori e dei loro diritti. Vengono premiati i giornalisti «più attenti» e i ferrovieri «che non pedalano» (quelli che, come Dante, si rifiutano di usare l'«uomo morto»), i pensionati che hanno lasciato un segno con la loro presenza nella categoria. E' forte e chiaro il senso di appartenenza che questa categoria coltiva da oltre un secolo, trasmettendo da una generazione all'altra un complesso di conoscenze tecniche, sindacali e politiche che ancora oggi chiamano semplicemente «coscienza di classe». Magari ammiccando tra loro, come chi è custode di un segreto che gli estranei fanno fatica a capire. E colpiscono i giovani, quelli che hanno ancora un contratto ultra-precario e magari un orecchino, eppure scherzano con i «maturi» e i pensionati come farebbero tra coetanei.Ma di che parlano? di capi e di politica, di vicende personali e di lavoro, e di come cambia. Dell'orario, per esempio, che Fs sta da anni forzando «flessibilmente», secondo il modello inglese. Con turni settimanali che sforano verso l'alto l'orario (42 ore invece delle 36 contrattuali) e settimane considerate di «recupero fisiologico» in cui, invece, incentivano lo straordinario (gli stipendi, da anni, vedono arretrare il loro potere di acquisto). Una sorta di «lavoro sommerso» creato all'interno stesso di una azienda che è ancora di proprietà pubblica. Ci sarà, presto, occasione di riparlarne.

Il Manifesto 24/05/06

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NOVARA L’ORDIGNO TROVATO DURANTE I LAVORI DI RISTRUTTURAZIONE DI UN EDIFICIO . Bomba in un cantiere, grave artigiano L’operaio ha 55 anni e abita ad Albano: è ricoverato in rianimazione

NOVARA . Un boato improvviso e poi una colonna di fumo. E per terra un uomo sanguinante che implorava: «Aiutatemi, ho sete. Aiuto». Ieri alle 15,30 una vecchia bomba a mano è scoppiata ferendo gravemente un operaio che stava lavorando alla ristrutturazione di una casa in via Marconi 66. Giuliano Rizzo, 55 anni, artigiano di Albano Vercellese, è gravissimo in Rianimazione al «Maggiore». Un collega di lavoro, Giovanni Bellini, è rimasto ferito in modo più lieve. «L’ho visto scendere le scale con in mano un oggetto di ferro arrugginito - dice Giuseppe, operaio che stava lavorando al primo piano dell’abitazione -. Poi di colpo si è sentito un botto, non mi sono neanche reso conto subito di quello che stava succedendo». Nel cortile c’era Rizzo in un lago di sangue: «Una mano era a brandelli, aveva ferite ovunque. Gridava, chiedeva aiuto, voleva acqua - racconta Paolo, vicino di casa accorso subito con il suocero da via Gerosa, poco lontano-. Abbiamo sentito una botta pazzesca, e poi un nuovolone scuro usciva dalla casa». L’artigiano edile ha la mano destra devastata, nell’altra ha perso un dito, poi ha riportato fratture alle gambe e lesioni all’addome per le numerose schegge della bomba a mano. I soccorritori gli hanno trovato la spoletta in tasca. Probabilmente non si è nemmeno reso conto di quello che fosse il pezzo di ferro che aveva in mano. Ieri in serata è stato sottoposto a interventi chirurgici. Nessuno ha assistito al momento preciso dello scoppio. Bellini, che si trovava poco lontano, è stato investito dalle schegge e ha riportato ferite più leggere, bruciature, alle gambe. Sul posto sono intervenuti carabinieri, ambulanze del 118, i tecnici dello Spresal, il servizio Asl sugli infortuni sul lavoro, che hanno ricostruito l’accaduto con i vigili del fuoco. Non è chiaro nemmeno dove precisamente Rizzo abbia trovato l’ordigno. La casa, costruita nel 1927, era abitata sino a due anni fa. Adesso è ridotta a poco più di uno scheletro: il tetto era in pessime condizioni ed è stato tolto, rimangono monconi di pareti e la soletta del primo piano. I lavori, commissionati dai proprietari Geddo e Greppi, sono cominciati a settembre: «Ci stiamo arrovellando per capire da dove arrivasse la bomba: è una casa sventrata, dove poteva essere?» dice con le lacrime agli occhi il padre di uno dei proprietari. Soltanto lunedì sera era venuto a fare un giro in cantiere e aveva parlato con Rizzo: «Mi aveva chiesto se poteva piantare i pomodori nel terreno vicino alla casa, voleva fare un orto da coltivare come svago nei ritagli di tempo».

La Stampa – Sezione Novara 24/05/06

É proseguito ieri in aula bunker il processo per i decessi all’ex cantiere Breda poi Fincantieri che ha visto l’intervento di Stefano Silvestri del Registro, dei mesoteliomi«Con il rispetto della legge, meno morti d'amianto» L’esperto ha sostenuto che la mascherina in carta usata dagli operai non poteva essere una protezione contro il metallo

Quante morti da amianto si sarebbero potute evitare rispettando le indicazioni contenute nel dpr 303 del 1956? Impossibile quantificare, ma certamente il rischio sarebbe stato notevolmente diminuito. Il dpr 303 prevede, fin dal '56, che non si svolgano contemporaneamente, nello stesso ambiente, lavorazioni che possono portare a contatto con polveri pericolose. Inoltre, lo stesso dpr prevede l'utilizzo di protezioni individuali per gli operai e la presenza di cappe di aspirazione nei luoghi di lavoro.

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Ieri, in una nuova udienza del processo per le morti da amianto dei lavoratori dei cantieri navali ex Breda poi Fincantieri, che si sta svolgendo in aula bunker a Mestre, è stato sentito Stefano Silvestri, coordinatore del Registro dei Mesoteliomi della Regione Toscana, e consulente del pubblico ministero Gianni Pipeschi, che ha commentato: "La legislazione in materia di contatto con sostanze pericolose è in vigore da cinquant'anni, ma in realtà si è cominciato a predisporre strumenti di tutela concreta dei lavoratori solo da dieci, quindici anni". A domanda precisa del Pm Pipeschi, Silvestri ha ammesso che probabilmente semplici accorgimenti come tenere separati, in luoghi di lavoro diversi, addetti alla coibentazione e meccanici, avrebbero potuto far diminuire la diffusione delle fibre di amianto, riducendo di fatto l'esposizione di decine e decine di lavoratori. Dalle testimonianze degli operai finora sfilati davanti al giudice monocratico Barbara Lancieri, invece, risulta che ai cantieri Breda, poi Fincantieri, centinaia di operai addetti a mansioni diverse lavorarono a strettissimo contatto per anni e anni, nello stesso, grande ventre delle navi in costruzione. Non solo, ma gli stessi documenti aziendali, secondo Silvestri, testimoniano che fino alla metà degli anni Ottanta l'amianto fu utilizzato in modo sistematico con elevata esposizione degli operai, che utilizzarono fino al '73 anche la sostanza a spruzzo.

Silvestri ha sostenuto anche che la mascherina di carta in dotazione agli operai non poteva essere ritenuta una protezione idonea ed ha anche precisato che una adeguata pulizia dei locali di lavoro, organizzata fuori dagli orari di attività del cantiere, avrebbe potuto essere un ulteriore contributo per una minor esposizione. Risulta invece dalle testimonianze degli operai chiamati a deporre dal Pm, che raramente si svolgevano pulizie approfondite e che si lavorava immersi in nuvole di polvere contenenti elevate quantità di fibre d'amianto.

Silvestri ha precisato che anche studi recenti confermano che il mesotelioma - il tipico cancro della pleure causato dalle fibre di amianto - è correlato a elevate esposizioni professionali. Il consulente del Pm ha ribadito che purtroppo esistono anche parecchi casi di moglie di operai ammalatesi soltanto perché lavavano le tute dei mariti intrise di fibre. Anche in questo caso sarebbe bastato che le tute fossero lavate con adeguate misure di sicurezza dalla stessa azienda, e l'esposizione di decine e decine di donne sarebbe stata evitata: alcune di loro probabilmente avrebbero così evitato di ammalarsi e morire.Nicoletta Benatelli

Il Gazzettino – 25/05/05

QUARTO D’ALTINO . Grave operaio caduto da una impalcatura L’uomo lavorava in un cantiere

Grave infortunio sul lavoro ieri mattina in via San Michele a Quarto d'Altino. Un operaio che stava lavorando in un cantiere aperto proprio lungo la strada è improvvisamente caduto da un'altezza di sette, otto metri. L'uomo, Dordo Petrusic, 55 anni, di nazionalità serbo-montenegrina, residente a San Polo di Piave, nel Trevigiano, secondo una prima ricostruzione stava realizzando la pavimentazione dello stabile quando è improvvisamente precipitato sul selciato. Si è trattato di una vera e propria manciata di secondi che si sono trasformati in tragedia. L'uomo è stato subito soccorso, ma viste le sue gravi condizioni, i colleghi del cantiere hanno immediatamente chiamato il 118 di Mestre.

Poco dopo un'ambulanza ha trasferito il ferito all'ospedale Umberto I dove l'operaio serbo-montenegrino è stato dichiarato in prognosi riservata per politrauma agli arti inferiori e alla

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schiena. Ora rischia la paralisi. L'uomo è stato ricoverato nel reparto di Chirurgia. Sul posto, dopo l'infortunio sul lavoro, è intervenuta una équipe del Servizio Infortunistica del Lavoro (Spisal) dell'Ulss 12 di Venezia-Mestre. L'episodio di ieri a Quarto d'Altino segue di pochi giorni un altro caso analogo, conclusosi con la morte di un operaio serbo, avvenuto a Mestre in una ditta di riciclaggio ambientale la scorsa settimana. In questa occasione, un operaio che stava svolgendo una manutenzione ad un impianto di riciclaggio era improvvisamente precipitato al suolo. Dopo il ricovero all'ospedale di Mestre, l'uomo è deceduto l'altro giorno nel reparto di rianimazione del nosocomio mestrino.

Il Gazzettino – 25/05/06

CASO REPORT VITO BELFIORE, CAPOTRENO, REINTEGRATO Ferroviere assolto «Torno a lavorare» Il capotreno di Ventimiglia, Vito Belfiore, commenta soddisfatto la sentenza GENOVA

Dopo due anni e cinque mesi si è conclusa ieri, con una sentenza favorevole, la vicenda giudiziaria di Vito Belfiore, il capotreno di Ventimiglia licenziato in tronco da Trenitalia dopo trasmissione della puntata del 7 ottobre 2007 di «Report» in cui si denunciava la mancanza di sicurezza nel trasporto ferroviario. Erano stati licenziati altri tre ferrovieri, Riccardo Poggi, macchinista di Savona, Angelo Bravadori, capotreno di Acqui Terme, e Alessandro Carozzo, macchinista di Alessandria, tutti accusati «di aver violato le norme di sicurezza durante le riprese», in realtà «rei» di aver collaborato alla realizzazione del servizio. Una sentenza di primo grado per Belfiore, il 13 maggio dell’anno scorso, definita dalla Filt Cgil «sconcertante», aveva avallato il licenziamento, ma ieri i giudici della Corte d’Appello hanno stabilito che era invece illegittimo e dispongono la reintegrazione del capotreno al posto di lavoro con pagamento di tutti gli stipendi arretrati e rimborso di tutte le spese legali sostenute nei due gradi di giudizio. Brindando con i rappresentanti sindacali che lo hanno sostenuto in questa vicenda, Belfiore ha detto: «Finalmente è stata fatta giustizia e ora riprenderà il mio lavoro con coscienza, come ho sempre fatto». Proprio con una presunta non osservanza delle regole, con conseguente situazione di rischio, era stato infatti motivato il licenziamento: Belfiore, secondo Trenitalia, avrebbe agevolato l’accesso alla troupe di Report in zone del treno dove è vietata la presenza di estranei per motivi di sicurezza. «La serietà di questo lavoratore era stata riconosciuta con due encomi - ha sottolineato il segretario regionale della Filt Cgil Liguria Guido Fassio, in una lettera spedita lunedì al neoministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi - La sua colpa è stata quella di aver risposto ad alcune domande sulla sicurezza della linea ferroviaria del Ponente ligure, poste da una giornalista che non si era qualificata. Riteniamo vergognoso che Belfiore, stante la situazione FS che è sotto gli occhi di tutti, debba pagare le conseguenze di una politica dissennata del governo precedente». Il licenziamento dei due ferrovieri liguri aveva spinto il presidente della giunta regionale di centrodestra, Sandro Biasotti, a intervenire direttamente affidando ai due consulenze a termine. Vito Belfiore sino all’aprile scorso lavorava infatti presso l’Autorità Portuale di Savona. «Il contratto è scaduto - ha segnalato Fassio sempre lunedì scorso con un’altra lettera all’attuale presidente Claudio Burlando - Le chiediamo, se ha l’opportunità, vista la particolarità della situazione, di trovare una occupazione duratura per questo sfortunato ferroviere».

La Stampa – Sezione Savona 25/05/06

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Anmil: attenti al lavoro che uccideCorti al cinema sulla piaga infortuni. Un milione gli invalidi in Italia, 4 morti al giorno. Emergenza Lazio

Roma. Un milione gli invalidi permanenti in Italia, a cui ogni anno si aggiungono 1 milione di nuovi infortunati sul luogo di lavoro, mentre 4 persone al giorno muoiono lavorando. I dati vengono dall'Anmil, associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro, che con il presidente Pietro Mercandelli ieri ha presentato un concorso nazionale di cortometraggi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro: «Corto sicuro». Mercandelli ha sottolineato la volontà dell'Anmil di «far conoscere la gravità del fenomeno infortunistico sul lavoro soprattutto per quanto riguarda i giovani, gli extracomunitari e i lavoratori parasubordinati», puntando l'attenzione sul lavoro minorile: da una elaborazione sui dati Inail, infatti, emerge che nell'ultimo anno sono state costitituite ben 171 rendite a minori per invalidità permanente da lavoro, mentre i giovani disabili fino a 19 anni titolari di rendita Inail (calcolati a fine 2005) sono 201.Dati che disegnano un'Italia sempre più insicura, dove a passarsela peggio sono - come è prevedibile - i lavoratori più esposti: dunque in primo luogo gli immigrati, i precari, i minori costretti a lavorare invece di essere indirizzati allo studio.Il concorso cinematografico è stato organizzato con il patrocinio del Comune di Roma: la convinzione dell'Anmil è che la prevenzione e i temi della sicurezza debbano diventare temi di formazione dei cittadini, ancor prima che comincino a lavorare, in modo da essere coscienti dei rischi che spesso si corrono quando non si è adeguatamente preparati ed attrezzati. Nella giuria di «Corto sicuro», tra gli altri, nomi noti del cinema italiano: Ettore Scola, Nicoletta Braschi, Alex Infascelli, gli sceneggiatori Furio Scarpelli e Giorgio Arlorio. Il concorso si concluderà nel marzo 2007 e i migliori corti saranno premiati durante una cerimonia, che si terrà a Roma in giugno: ai 20 finalisti sarà dedicata una rassegna. Ma ieri è stata anche l'occasione - purtroppo triste - per fare un bilancio dei morti nei cantieri edili laziali: il compito è toccato a Sandro Cossetto, direttore dell'osservatorio comunale dell'occupazione, presente alla manifestazione dell'Anmil insieme all'assessore Raffaella Milano. Tra gennaio e marzo del 2006, sono stati 5 i lavoratori morti nel comune di Roma, 3 nella provincia e 5 nel resto del Lazio. Cossetto ha inoltre sottolineato che già da fine marzo a oggi si è verificato un altro incidente mortale in un cantiere nel comune di Roma e altri 3 nel Lazio. Dunque il bilancio si aggiorna di continuo, in peggio. Guardando ai dati del 2005, emerge che nel Lazio sono stati 20 i morti per incidenti nei cantieri, mentre nella provincia di Roma le morti sono state 16, e 10 sono state quelle avvenute nella capitale; lo stesso anno il totale delle morti nei cantieri italiani è stato di 191 persone e già tra gennaio e marzo 2006 il dato nazionale è di 41 vittime. E se questi sono i numeri, dietro ci sono purtroppo le storie concrete: ieri un operaio di 29 anni, Yari Gallotta, originario di Palmanova (Udine), è stato vittima di un incidente sul lavoro che gli ha provocato gravi ed estese ustioni sul corpo. L'operaio, che lavora a San Giorgio di Nogaro per una ditta che produce additivi chimici, la Europolimeri srl, durante le operazioni di carico delle materie prime, condotte con un apposito reattore, è stato investito da un'improvvisa fiammata al volto, torace e braccia. Il giovane è stato soccorso da personale del 118 e trasferito nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale di Udine, dove è stato ricoverato con prognosi riservata.A Novara, purtroppo, è morto uno dei 4 operai feriti nell'esplosione dell'ordigno bellico risalente alla seconda guerra mondiale, avvenuta nel quartiere di Santa Rita. Due di loro erano stati subito dimessi, mentre gli altri due erano stati ricoverati in prognosi riservata presso l'ospedale Maggiore del capoluogo. L'altro ferito è fuori pericolo

Il Manifesto 25/05/06

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PROCESSO MONTEFIBRE IN AULA I PERITI DELLA DIFESA «Mesotelioma, difficile diagnosticare l’origine»

VERBANIA . Parola ai consulenti della difesa, ieri in aula, al processo per l'amianto killer nel quale sono imputati di concorso in omicidio colposo plurimo 17 ex dirigenti di «Montefibre spa». Sono responsabili, secondo il pm Nicola Mezzina, della morte di 13 ex dipendenti del polo chimico di viale Azari tutti uccisi, in tempi diversi, da mesotelioma maligno alla pleura conseguente alla esposizione a polveri e fibre di amianto. Secondo i periti difensivi risulterebbe difficile, anche 30 anni dopo il termine dell'esposizione all'amianto, diagnosticare l'origine del mesotelioma, anche se visibile radiologicamente, se non sono stati rilevati precedenti sintomi. Stralciate dal processo le posizioni dei familiari di alcune delle vittime, risarciti da Montefibre nella misura di 100 mila euro per ogni decesso, sono parti civili il sindacato Cgil - Vco e l'associazione «Medicina Democratica». Secondo le dichiarazioni già rese in aula dai testi della difesa, tutti ex dipendenti ed ex dirigenti di «Montefibre spa», nessuno dei lavoratori successivamente uccisi da mesotelioma avrebbe lavorato a stretto contatto con amianto. Esposizione prolungata nel tempo, quantità delle dosi di fibre assorbite dai lavoratori e correlazione con la patologia manifesta, sono stati al centro delle tesi dei consulenti di difesa, Vito Foà, Carlo La Vecchia e Marcello Lotti. «La diagnosi di asbestosi - ha aggiunto il professor Lotti - è possibile solo con una corretta anamnesi remota e con la verifica della presenza nel sangue della concentrazione a rischio di corpuscoli di asbesto». Il processo riprenderà il 25 giugno e poseguirà il 4, 6 e 10 luglio. a. r.

La Stampa – Sezione Verbania 26/05/06

ALBISOLA S. RACCOLTE 40 MILA FIRME DI SOLIDARIETA’ Ferrovieri licenziati incontrano Bertinotti

ALBISOLA S. Coinvolge anche l'albisolese Riccardo Poggi la sentenza in Corte d'Appello favorevole a Vito Belfiore, il capotreno di Ventimiglia che dopo due anni e cinque mesi è stato assolto e tornerà a lavorare in Trenitalia. Oltre alla reintegrazione di Belfiore, i giudici nei giorni scorsi hanno disposto il pagamento di tutti gli arretrati ed il rimborso delle spese legali sostenute nei due gradi di giudizio a carico di Trenitalia. Quattro dipendenti, tra cui Poggi, furono licenziati in tronco alla trasmissione dell'ottobre 2004 di 'Report' (Rai Tre) in cui si denunciava la mancanza di sicurezza del trasporto ferroviario, accusati di aver favorito le riprese. "Entro fine mese, forse già il 29, saremo a Roma per consegnare al presidente della Camera Bertinotti i faldoni con le 40 mila firme a sostegno della nostra causa raccolte dai colleghi in tutto il nord Italia con i quali abbiamo lavorato assieme in tanti anni. La sentenza della Corte sarà utile per tutti i citati in giudizio. Sappiamo di essere sostenuti anche dall'attuale governo", ha detto il macchinista assistito dall'avvocato Annalisa Penco di Genova. Poggi, residente a Stella San Giovanni e domiciliato ad Albisola Superiore, 56 anni, è uno dei quattro ferrovieri che furono licenziati da Trenitalia dopo la puntata condotta da Milena Gabanelli. Secondo l'azienda, il comportamento dei macchinisti e capitreno, avvenuto all'insaputa della Direzione, mise a repentaglio la sicurezza dei passeggeri e del materiale rotabile quando ospitarono una troupe a bordo dei convogli di cui erano responsabili facendo cadere il rapporto di fiducia. A Riccardo Poggi, macchinista assunto dalle Ferrovie dello Stato nel giugno 1972, con 34 anni e 8 mesi di lavoro alle spalle, all'epoca dei fatti mancavano quattro mesi alla pensione. Per dieci mesi, dall'aprile 2004 al gennaio 2005, Poggi fu assunto come co.co.co. in Regione, tramite l'interessamento diretto dell'ex presidente Sandro Biasotti. Nel febbraio scorso,

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infine, la chiamata a termine alla "Port Service", azienda partecipata dell'Autorità portuale di Savona-Vado, come incaricato della manutenzione elettrica. m. pi.

La Stampa – Sezione Savona 27/05/06

OPERAIO CASALESE LAVORAVA IN REPARTI IN CUI SI UTILIZZAVA L’AMIANTO Dopo 30 anni alla Tubi Gomma

CASALE MONFERRATO Più della metà dei suoi 50 anni li ha lavorati alla Tubi Gomma, prima quando lo stabilimento era a Casale in via Francesco Negri, poi quando si è trasferito a Mirabello. Nella fabbrica ci era entrato nel ‘73. Era, allora, un ragazzo di 17 anni. Ora, che gli è stato diagnosticato il mesotelioma, il fedele operaio casalese fa causa all’azienda perché a lungo lavorò in reparti dove si producevano speciali manicotti che richiedevano l’impiego di amianto e non fu informato del rischio che correva nonostante fosse già nota la pericolosità di questa sostanza, come si legge nel capo di imputazione contro l’imprenditrice Marisa Betti, 76 anni, amministratore della Tubi Gomma. Il processo, già fissato davanti al giudice Enrica Bertolotto, è stato rinviato al 22 novembre, stessa data di un altro fascicolo analogo a carico della manager monferrina: praticamente identiche le argomentazioni del capo di imputazione, in materia di sicurezza negli ambienti di lavoro, con particolare riferimento all’utilizzo di amianto; ma, in quel caso, i reati contestati sono due: oltre alle lesioni colpose per l’insorgenza di malattia professionale (lamentata dall’ozzanese Giuseppe Montagnino), c’è anche l’omicidio colposo, per la morte di Gianfranco Ceccato (18 febbraio 2004) e di Giorgio Malavasi (10 dicembre 2003). Invece, all’operaio casalese cinquantenne, parte lesa nel fascicolo che il giudice Bertolotto ha rinviato a novembre per riunirlo all’altro procedimento, la malattia professionale è stata diagnosticata due anni fa. Ma è lo stesso indirizzo della sua abitazione uno degli elementi su cui pare di intuire si poggerà la linea di difesa: il lavoratore abita in via Cerrano, al Rotondino-Ronzone, il quartiere dell’Eternit. Anche se i legali di Marisa Betti - Giampiero Mauri e Luca Gastini - non hanno ancora anticipato le loro argomentazioni, è facile intuire che tenderanno a sottolineare l’impossibilità a stabilire con certezza il momento e il luogo in cui la fibra è stata respirata, rimanendo silente per un periodo anche molto lungo, fino a diventare malattia conclamata. Gli stessi nomi della lista di testimoni fanno pensare a questa tesi di difesa: il sindaco Paolo Mascarino, il presidente del quartiere Ronzone Giorgio Dusio, il coordinatore della Lega lotta tumori Massimo Jaretti, la presidente dei Famigliari vittime amianto Romana Blasotti cui sarà chiesta conferma sul fatto che il mesotelioma colpisce non solo chi ha lavorato a contatto con l’amianto, ma indifferentemente chi vive nella «città dell’amianto», tanto più se in «quel» quartiere. Qualche tempo fa, la moglie di uno degli operai stroncati dal mesotelioma disse con infinita tristezza: «Non ce l’abbiamo con la signora Betti, e mio marito quella fabbrica l’amò come una seconda casa. Ma è giustizia e verità che chiediamo».La Stampa – Sezione Alessandria 29/05/06

Infortunio in teatro, impresario patteggia

Imputato di lesioni colpose, patteggia 15 giorni di reclusione, convertiti in 570 euro di multa. Pierluigi Cecchin, 51 anni, Vicenza, via della Rotonda, è stato giudicato in qualità di legale rappresentante della cooperativa "La Piccionaia I Carrara" per aver violato le norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro: il 16 giugno del '99 durante

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l'allestimento di uno spettacolo teatrale a Creazzo, il dipendente Antonio Piccione si ferì a una mano utilizzando una sega circolare, 80 giorni di prognosi e invalidità permanente.

Il Gazzettino – Cronaca di Vicenza 30/05/06

Con il senatore Felice Casson la battaglia contro l'amianto approda in Parlamento

La battaglia contro l'amianto approda in Parlamento. Il senatore Felice Casson infatti ha già presentato un articolato disegno di legge sostenuto da illustri firmatari. Nella giornata dell'ambiente che si è tenuta a san Servolo, sabato scorso, Casson ha partecipato all'incontro promosso dall'associazione esposti amianto (Aea), rilanciando la necessità di una maggiore tutela di lavoratori e cittadini. «Moltissimi sono gli edifici che presentano strutture in amianto - ha spiegato il senatore. - Occorre procedere con mappature e bonifiche del territorio nazionale, perché qualsiasi cittadino può correre dei rischi, se si pensa che l'amianto è stato utilizzato in scuole, uffici pubblici, vagoni ferroviari. Per quanto riguarda i lavoratori invece una delle questioni più importanti è quella della sorveglianza sanitaria degli ex esposti, visto che i medici segnalano l'efficacia dell'intervento terapeutico in caso di diagnosi precoce». Il senatore Casson ha illustrato anche i contenuti di una recente circolare dell'Inail, firmata dal direttore Maurizio Castro. Nella circolare Inail vengono specificati "i criteri da seguire per l'accertamento della malattia professionale denunciata". «Si tratta di criteri innovativi - ha commentato Casson - che promuovono una maggiore tutela dei lavoratori». La circolare afferma che nel caso in cui siano accertati agenti specifici (per es. attività lavorativa a contatto con amianto ) in grado di promuovere la malattia, essa dovrà essere considerata di origine professionale, anche in presenza di altri fattori concomitanti extralavorativi (per es.il fumo). Inoltre il documento indica che, se fattori legati all'esposizione lavorativa ed extralavorativa, da soli non sono determinanti per la malattia, essa può comunque essere ritenuta di origine professionale nel caso in cui questi fattori, però, associati tra loro risultano, risultino determinanti.

All'incontro dell'Aea, coordinato dai presidenti dell'associazione, Franco Bellotto e Carmelo Mandosio, hanno partecipato anche gli avvocati Damiano Costernino e Annamaria Marin, ed il responsabile del Registro regionale dei mesoteliomi, Enzo Merler. Un allarme particolare è stato lanciato per l'esposizione ad amianto delle donne - si segnalano infatti casi di morte da amianto anche per le mogli degli operai che lavavano le tute dei mariti - per le quali risulta ancora difficile la titolarità al risarcimento del danno ed un'opportuna sorveglianza sanitaria. Nicoletta Benatelli

Il Gazzettino – 30/05/06

POLESINE CAMERINI L’accusa è di omicidio colposo plurimo. Sessanta residenti in causa, altri vogliono aggiungersi. TUMORI, AVVISI DI GARANZIA PER ENEL.Indagati Tato, Scaroni e gli ex direttori della centrale. La procura ha già scelto un super perito

Porto Tolle . (L.Z.) Quattro indagati. I soliti. Gli stessi che, il 31 marzo, il giudice di Adria Lorenzo Miazzi aveva condannato a pene oscillanti tra i sette mesi (con la sospensione) e l'ammenda pecuniaria, dopo averli riconosciuti colpevoli delle precipitazioni oleose provocate dalle emissioni della centrale Enel di Polesine Camerini e dei danni riportati dalle colture e dai beni di quanti risiedevano nelle vicinanze.

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Ora, però, è più pesante l'accusa formulata dal sostituto procuratore della Repubblica Manuela Fasolato a carico di Francesco Luigi Tatò e Paolo Scaroni, ex amministratori delegati di Enel, e Carlo Zanatta e Renzo Busatto, ex direttori della centrale di Polesine Camerini. Il fascicolo aperto a loro carico parla, infatti, di omicidio colposo plurimo e di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.

Gli avvisi di garanzia sono stati spediti dalla procura ai quattro indagati nei giorni scorsi, per dare loro la possibilità di prendere parte, con propri esperti, alla consulenza che sarà disposta a giugno e che, nelle intenzioni della magistratura, dovrebbe servire a fare un altro passo verso la dimostrazione di un nesso di causa tra le emissioni della centrale e le patologie - soprattutto tumori, alcuni dei quali con esito mortale - denunciate da circa sessanta persone residenti nel Delta del Po e quindi soggette, secondo l'accusa, alle ricadute di micro e nano particelle di sostanze patogene e cancerogene che sono il risultato dei processi di combustione in atto nella centrale.

Due i consulenti scelti dalla procura. Di uno, ancora, non è stato reso noto il nome. Si sa già, però, che il secondo sarà Lorenzo Tomatis, oncologo che, dopo lunghi studi negli Stati Uniti, ha diretto dal 1982 al 1993 lo Iarc, l'Agenzia internazionale per le ricerche sul cancro. Un ente al quale spetta il compito di classificare il potenziale cancerogeno delle sostanze impiegate in vari processi produttivi.

Sarà chiamato a valutare sia il possibile collegamento tra le patologie delle quali soffrono le persone interessate dalla perizia e le nanoparticelle trovate nei loro organi, sia il potenziale cancerogeno intrinseco alla particelle stesse. Potrebbe essere, insomma, uno studio capace di costruire un precedente a livello giudiziario.

Intanto, altre persone, che individuano nella centrale le cause delle proprie malattie, chiedono di essere ammesse alla perizia.

Il Gazzettino – Cronaca di Rovigo 31/05/06

Svolta nell’inchiesta tesa a dimostrare la responsabilità dell’azienda nei casi di tumore riscontrati su 60 persone . VERTICI ENEL INDAGATI PER OMICIDIO

Rovigo .Quattro avvisi di garanzia, per omicidio colposo plurimo ed omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, ed una superperizia: la Procura della Repubblica di Rovigo gioca la carta decisiva dell'inchiesta nata per dimostrare la connessione tra le patologie tumorali, in alcuni casi mortali, riscontrate tra numerosi abitanti del Delta del Po e le emissioni della centrale elettrica di Polesine Camerini, un impianto da 2640 megawatt di potenza, in grado di coprire, da solo, il 40\% del fabbisogno energetico del Veneto.

Gli avvisi sono stato inviati nei giorni scorsi a Francesco Luigi Tatò e Paolo Scaroni, ex amministratori delegati di Enel spa, e di Carlo Zanatta e Renzo Busatto, succedutisi alla direzione della centrale. Tutti e quattro gli indagati sono stati riconosciuti responsabili, il 31 marzo scorso, dal giudice del tribunale di Adria Lorenzo Miazzi, degli episodi di inquinamento e delle ricadute oleose provocate dalle emissioni solforose dell'impianto di Polesine Camerini. Con l'eccezione di Tatò, che ha incassato una condanna a sette mesi, se la sono tutti cavata con pene pecuniarie.

L'invio degli avvisi di garanzia ha, in questa fase, un significato preciso: quello di consentire ai quattro di partecipare, con i propri esperti di fiducia, agli accertamenti che la

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Procura disporrà a giugno su 60 persone alle quali sono state riscontrate patologie tumorali, in alcuni casi mortali, che andrebbero attribuite, secondo l'accusa, all'attività della centrale.

L'accertamento sarà, per la magistratura, la svolta decisiva di un'indagine che è già passata attraverso una importante consulenza: quella svolta da Maria Antonietta Gatti, laureata in fisica e bioingegneria, responsabile del laboratorio di biomateriali dell'Università di Modena. Utilizzando un microscopio elettronico a scansione ambientale, tra gennaio e febbraio la Gatti, esaminò campioni organici di 35 persone residenti nel Delta del Po sofferenti di tumore. In 25 di questi 35 casi la consulente trovò nei campioni esaminati micro e nanoparticelle giudicate compatibili con le emissioni della centrale.

Ora, il passo successivo, per il sostituto procuratore Manuela Fasolato, è dimostrare, in primo luogo, che quelle sostanze hanno un potenziale cancerogeno in grado di provocare determinati disturbi. In seconda battuta, sarà necessario scendere più nel particolare, provando che, per ognuna delle 60 persone che costituiscono il campione della nuova perizia, sulla base della sua storia personale, è possibile ipotizzare un nesso causale diretto tra le patologie accusate e le sostanze trovate dalla Gatti.

Uno studio molto complicato, che potrebbe costituire un precedente di fondamentale importanza. Due i consulenti della procura: di uno, ancora, non si conosce il nome. L'altro sarà Lorenzo Tomatis, oncologo, direttore dal 1982 al 1993 dello Iarc, Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, che ha sede a Lione. Un ente cui spetta il compito di determinare il potenziale cancerogeno delle sostanze che entrano in determinati processi produttivi.

Un accertamento fondamentale, avvertito come la chiave di volta dell'inchiesta anche dai cinque avvocati, Matteo Ceruti, Fulvia Fois, Lavinia Cantà, Valerio Malaspina, Giampietro Berti e Cristina Guasti che, coi loro esposti, depositati in Procura per conto dei malati, hanno dato il via all'indagine. Intanto, altre venti malati sperano di potersi aggiungere ai 60 oggetto della consulenza. Lorenzo Zoli

Il Gazzettino – Cronaca del Nord Est 31/05/06

UNA DELEGAZIONE A GIORNI INCONTRERÀ IL MAGISTRATO TORINESE NOTO PER LE SUE MOLTEPLICI INCHIESTE «Legge sull’amianto anche per noi» Gli ex dell’Acna ora si rivolgono al procuratore Guariniello

CENGIO . Il caso del mancato riconoscimento del rischio-amianto potrebbe finire nelle mani della magistratura torinese. Una delegazione piemontese di ex lavoratori dell'Acna di Cengio, a nome e per conto di 200 ex dipendenti della fabbrica chimica, infatti, nei prossimi giorni chiederanno un incontro con il procuratore-capo della Repubblica di Torino, Guariniello. Un colloquio, spiega il millesimese Luigi Pregliasco, ex delegato aziendale dell'Acna ''esposto a rischio amianto per 34 anni'' che ha come obiettivo quello di 'illustrare la situazione e valutare se vi siano eventuali responsabilità''. Una decisione, quella di rivolgersi al procuratore Guariniello che negli Ottanta aveva avuto un incontro con un gruppo di operai proprio a Cengio, nell'ex cinema parrocchiale di Genepro, motivata dal fatto che ''dei 200 ex lavoratori esposti all'amianto, di cui 100 risiedono in Piemonte,

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nessuno ha mai ottenuto il riconoscimento, nonostante i ripetuti richiami all'Inail, alla Contarp e al commissario straordinario per la bonifica dell'Acna''. Dice ancora Pregliasco: ''Agli ex dipendenti della fabbrica che con il precedente coefficiente 1,25 del rischio-chimico non avevano raggiunto i 40 anni di contributi, a giugno verrà inviato, con il nuovo conteggio 1,5, l'aumento della pensione e degli arretrati del 2004, ma per le vedove prima di quell'anno e per i lavoratori delle imprese ancora nulla''. E aggiunge: ''Ma ciò che è assurdo e, a nostro parere, gravissimo è il fatto che il rischio-amianto sia stato riconosciuto solamente agli addetti alle officine, e non anche a coloro che hanno lavorato nei reparti, in particolare, in quelli dove venivano trattati i derivati della naftalina''. Reparti, spiega Pregliasco, ''con alto punto di fusione del prodotto e dove il mesotelioma pleurico, una forma tumorale fulminante, ha colpito e continua a colpire, prova ne è che si tratta di una malattia che riguarda circa il 10 per cento degli ex addetti, e in percentuale minore quelli delle officine''. Considerazioni supportate da dati che hanno portato alla decisione di interessare del caso, di cui peraltro si parla ormai da diverso tempo fra quanti all'Acna hanno lavorato per lunghissimi anni, la magistratura torinese nella sua più alta carica nella speranza di ''vedere riconosciuto quello che riteniamo essere un nostro sacrosanto diritto'' e con l'obiettivo appunto di ''accertare se in tutta questa vicenda vi siano eventuali responsabilità''. Di qui la decisione di interessare del caso la magistratura torinese. I dipendenti dell’ex Acna chiedono aiuto al giudice Guarniello

La Stampa – Sezione Savona 31/05/06