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16 CRONACHE il Giornale Domenica 22 marzo 2009 L a bambina con il pigia- ma a righe, una delle poche ebree uscite vive da Au- schwitz, tornò a Mila- no nell’agosto del 1945, quando stava or- mai per compiere 15 anni. Pesava 32 chili. «Ero un gattino randagio, cercavo notizie di mio papà, l’unica cosa che avevo al mondo», ricorda Liliana Segre, «non mi rassegnavo all’idea che l’avessero bruciato nei forni». L’imprenditore Alberto Segre era stato separa- to da quell’unica figlia il giorno stesso del loro arrivo nel campo di sterminio. Fino a quel mo- mento le aveva fatto da padre e anche da madre. «Sapevo che Eugenio Pacelli, prima di diventare pontefice, era stato nunzio a Berlino e quindi speravo che potesse attivare qualche canale di- plomatico in Germania per cercare il babbo tra i sopravvissuti». L’intermediario con la Santa Sede fu uno zio materno, Dario Foligno, avvocato della Sacra Rota che di lì a poco sarebbe diventato vice Av- vocato generale dello Stato. Nel 1933, dopo aver letto il De civitate Dei, s’era convertito al cattolicesimo e aveva preso il cognome Agosti- no in ricordo del santo d’Ippona. Il 16 ottobre 1943, durante il rastrellamento nel ghetto di Ro- ma, era stato catturato dai nazisti insieme con la moglie e i tre figli, l’ultimo di appena due mesi. Ma, grazie alla nuova identità, era stato subito rilasciato e aveva trovato rifugio in Vaticano con l’intera famiglia. «Lo zio chiese un’udienza privata a Pio XII, che me la accordò. Fummo ammessi nella sua biblioteca, tutti vestiti di ne- ro, le donne con la veletta. All’arrivo del Papa eravamo in ginocchio, ma egli mi venne incon- tro e disse: “Alzati! Sono io che dovrei stare ingi- nocchiato davanti a te”». Liliana Segre non assolve, non condanna, non accusa, non recrimina. E non si commuove mai. Racconta e basta. Da una ventina d’anni non fa nient’altro che questo, soprattutto nelle scuole, dove ha avvicinato oltre 100.000 studen- ti. La vita l’ha messa a dura prova fin dalla nasci- ta. È cresciuta senza la mamma, Lucia Foligno, consumata da un tumore all’intestino 10 mesi dopo il parto. «Aveva appena 26 anni. Nel 1929 s’è sposata, nel 1930 mi ha messo al mondo, nel 1931 è morta». Dal giorno in cui fu segregata nel lager, e fino al 1951, la bambina con il pigiama a righe non ha versato una sola lacrima. «Sono riuscita a piangere soltanto quando a 21 anni ho dato alla luce il mio primogenito. L’ho chiamato Alberto, come il nonno». Di figli ne ha avuti tre. Il marito, l’avvocato civili- sta Alfredo Belli Paci, è scom- parso nel 2007. «Siamo stati insieme 58 anni. Era l’uomo della mia vita». Liliana Segre ha perso nel- la Shoah, oltre al padre, altri sei familiari: i nonni paterni, Olga e Giuseppe, fondatore nel 1897 della Segre & Schiep- pati, tessuti industriali, e quattro cugini, Rosa Spiegel col figlio Felice e Rino Raven- na col fratello Giulio. «Rino si suicidò gettandosi dall’ulti- mo piano del raggio mentre eravamo reclusi a San Vittore. Ricordo il suo cor- po scomposto sul pavimento del carcere: era il primo morto che vedevo in vita mia. La deporta- zione di Giulio si fermò invece a Fossoli: morì di stenti nel campo di concentramento vicino a Mo- dena». Dal 6 febbraio 1944 al 1˚ maggio 1945, quan- do fu liberata dalle truppe americane, la bambi- na con il pigiama a righe è passata attraverso quattro lager: da Auschwitz-Birkenau a Raven- sbrück, poi in uno Jugendlager, infine a Mal- chow. Lì l’ultimo giorno avrebbe potuto vendi- carsi. Ma non lo fece. «Le SS si spogliavano sotto i nostri occhi e s’infilavano gli abiti borghesi; scacciavano i loro cani lupo, che erano stati i simboli del potere, gli strumenti del terrore, weg, weg, via, via, cercavano di allontanarli, ma le bestie, disorientate, si scostavano di poco e poi tornavano scodinzolanti accanto ai padro- ni. Il comandante di Malchow gettò la divisa nel fosso e restò in mutande davanti a me. La pistola era a terra. Non se ne preoccupò. Per lui rimane- vo uno Stück, un pezzo, forse nemmeno s’accor- se della mia presenza. Fu un attimo. Pensai: ora la raccolgo e gli sparo. Ma non ne ebbi il corag- gio. L’amore che mio padre mi aveva dato m’im- pedì di diventare uguale a quell’assassino. Quando scegli la vita, è per sempre, non puoi più toglierla a nessuno. Da quel momento mi sono sentita libera». Se dovesse dare una definizione sintetica di ciò che le è accaduto, che parole userebbe? «Indifferenza, solitudine, pietà. Alla promulgazione delle leggi razziali, nel 1938, il mondo intorno a noi rimase indifferente. Eppure erava- mo persone oneste, con l’uni- ca colpa d’essere nate. Io ave- vo 8 anni. Era una sera d’esta- te. Mio padre mi prese da par- te e mi disse che non sarei più potuta tornare alla scuola ele- mentare Fratelli Ruffini, per- ché ero ebrea. Avevo finito la seconda, aspettavo di andare in terza. Le mie amichette mi segnavano a dito per strada, senza pietà. È importante, la pietà. Per chi la prova e per chi la riceve». Suo padre non pensò di espatriare? «Mio nonno era gravemente malato di Parkin- son. Come avrebbe potuto lasciarlo qui? L’8 set- tembre del ’43 i nostri amici Pontremoli aveva- no affittato un’auto ed erano fuggiti in Svizzera, spronandoci a fare altrettanto. Ma noi Segre ci sentivano profondamente italiani. Ritenevamo che non ci sarebbe accaduto nulla di male. Mio padre era un ex ufficiale, un ragazzo del ’99. Suo fratello Amedeo, decorato con la croce di guer- ra a Caporetto, fascista della prima ora, è morto a 88 anni con questo rimorso. Non avendo figli, al mio ritorno mi adottò. L’ho sentito urlare tutte le notti, sino alla fine. Sempre lo stesso incubo: sognava di tirar giù i genitori dal vagone piom- bato, ma non ci riusciva, i repubblichini glielo impedivano». Voi che faceste dopo l’8 settembre? «Papà riuscì a nascondermi prima a Ballabio e poi a Castellanza presso due famiglie cattoli- che, i Pozzi e i Civelli, che rischiarono la fucila- zione per tenermi con loro. A dicembre del ’43 decise di scappare in Svizzera. Con noi due ven- nero i cugini Ravenna. Ricordo il suo strazio nel doversi procurare, lui che era un cittadino inte- gerrimo, documenti d’identità falsi. Io non riu- scivo a imparare a memoria nome e cognome nuovi, mi rifiutavo di considerarmi nata a Paler- mo. Nella mia ingenuità vivevo quella fuga attra- verso le montagne come un qualcosa di eroico. Non mi rendevo conto che c’eravamo affidati a spalloni senza scrupoli, delinquenti che poteva- no consegnarci o ammazzarci. Papà aveva con sé 7.500 lire, alcuni brillanti cuciti nella cintura e la sua collezione di valori filatelici. Come un eremita, dopo essere rimasto vedovo, ogni sera per anni l’aveva riordinata con lente d’ingrandi- mento e pinzette». Che accadde? «Fummo acciuffati da una sentinella elvetica e portati nella gendarmeria di Arzo, in Canton Ti- cino, dove il comandante, uno svizzero tede- sco, ci prese a male parole: “Ebrei impostori, non è vero che in Italia succedono le cose che dite voi! Tornatevene sui monti”. Ci rispedì in- dietro. E fu a quel punto che vidi mio padre but- tare nel fango tutti i suoi preziosi francobolli: aveva capito che non gli sarebbero più serviti a nulla. Ormai eravamo spacciati. Infatti fummo subito arrestati dai finanzieri italiani in camicia nera. Finii tutta sola prima nel carcere femmini- le di Varese, poi in quello di Como. Immagini la gioia quando mi riunirono a mio padre a San Vittore. Cella 202, quinto raggio. L’ultima casa che abbiamo avuto». Per quanto tempo rimaneste nella prigione mi- lanese? «Quaranta giorni. Di notte mi svegliavo di so- prassalto nella brandina rasoterra e vedevo pa- pà inginocchiato accanto a me, a chiedermi per- dono per avermi generata. Finché un giorno la Gestapo non fece l’appello: 605 nomi. Il nostro trasporto. Siamo ritornati in 20. Mentre il ca- mion ci portava alla stazione centrale, all’ango- lo di via Carducci vidi la nostra casa di corso Magenta 55. Le finestre dei milanesi rimasero chiuse». Che avrebbero dovuto fare? Affrontare a mani nude i mitra dei nazisti? «Si ricorda quel giovane cinese con la camicia bianca, disarmato, che il 4 giugno 1989, sulla piazza Tien An Men, fermò da solo una colonna di carri armati? Che fine avrà fatto? Lui almeno ci ha provato. Nel ’43-’44 molti in Italia sapevano che cosa stava accadendo agli ebrei. Ma nessu- no ci provò. Pio XII accorse a San Lorenzo, do- po il bombardamento. Se fosse accorso anche alla stazione Tiburtina, avrebbe potuto mettersi davanti al convoglio di 18 carri bestiame che tradusse ad Auschwitz i 1.024 ebrei catturati nel ghetto, compresi più di 200 bambini. Crede che i tedeschi l’avrebbero investito col treno?». Credo che la contabilità finale dell’Olocausto sarebbe stata di gran lunga più spaventosa. «Nessuno può saperlo e co- munque il suo gesto sarebbe rimasto nella storia. Non ce l’ho con la Chiesa, badi bene. I miei nonni materni furono salvati da poverissime suore di Monteverde che non ave- vano cibo neppure per loro. Ma il silenzio di Pio XII fu as- sordante, c’è poco da fare. Gli unici che provarono pietà per noi furono gli assassini e i ladri detenuti a San Vittore. “Dio vi benedica”, ci gridava- no, e dalle celle ci lanciavano biscotti, arance, guanti men- tre le guardie ci portavano via». Che cosa ricorda dell’arrivo ad Auschwitz? «L’immediata separazione da mio padre. Le donne e i bambini venivano mandati da una par- te, gli uomini da un’altra. Ma io non immagina- vo che sarebbe stato per sempre. Lo consolavo da lontano con piccoli gesti della mano, cercan- do di non piangere. Pensi che mia figlia compie questa settimana 44 anni, l’età che aveva mio padre quando fu ucciso. Si può sopportare que- sto strazio da figli, ma da genitori no. A San Vitto- re era detenuta con noi la famiglia Murais, sei persone. Papà aveva notato che la signora, Ma- falda Tedeschi, era molto affettuosa con i figli. “Se ci separeranno, sta sempre vicino a lei”, mi ordinò. Così io, appena scaricata ad Auschwitz, mi misi davanti ai Murais. Nessuno di noi sape- va che quelli mandati verso destra finivano al gas e quelli a sinistra ai lavori forzati. “Allein?”, mi urlò un aguzzino, sei da sola? Io conoscevo poco il tedesco, ma ricordavo una canzone, Wien, Wien, nur du allein. Allein, risposi, e fui mandata a sinistra. La signora e i figlioletti a de- stra, a morire. E io tentavo disperatamente di raggiungerla per obbedire a mio padre: signora Murais, signora Murais... Mi dica lei se non c’è una Samarcanda nelle nostre vite, un appunta- mento col destino. Ho fatto di tutto per stare con loro e quella stessa sera loro erano cenere». Come seppe che c’erano le camere a gas e i forni crematori? «Me lo dissero le altre prigioniere. Lì per lì mi rifiutai di crederci. Li uccidono e li bruciano? Ma voi siete pazze! Ancora oggi, a distanza di 65 anni, mi pare impossibile. Ma poi nella mente rivedo le ciminiere in fondo al campo, il fumo denso... Era tutto organizzato con illogica cru- deltà. Alla prima selezione un ufficiale medico mi toccò la pancia. Due anni prima avevo subìto l’asportazione dell’appendice. Pensai che fosse giunto il mio turno, che m’avrebbe mandata al gas per quella cicatrice. Invece si mise a pontifi- care con i suoi colleghi assassini su quanto fos- sero somari i chirurghi italiani: a suo dire mi avevano suturato male la ferita. C’era un repar- to che noi chiamavamo, non so perché, Canada. Selezionava tutto ciò che veniva strappato agli ebrei: valigie, occhiali, vestiti. E le scarpe. Ci toglievano le scarpe e ci davano in cambio un paio di zoccoli spaiati, di misure diverse, solo per il gusto di renderci più penoso il camminare nella neve. Io mi sono salvata perché fui manda- ta a lavorare al coperto, alla Union, che fabbrica- va proiettili per mitragliatrici. E perché durante la marcia della morte verso gli altri lager, comin- ciata dopo l’evacuazione di Auschwitz, ho ingo- iato bucce di patate e ossi di pollo raccattati nei letamai, incurante del fatto che dopo poche ore sarei stata colta da dissenteria e vomito». È più tornata ad Auschwitz? «Non ci riesco. È il cimitero della mia famiglia, però mi manca la forza per andarci. Men che meno riuscirei a intrupparmi in comitive che scambiano un pellegrinaggio per una gita e la sera corrono a ballare in discoteca. Il posto più vicino dove sono arrivata è Praga, 500 chilome- tri, ma lì ho sentito un odore che mi ha ricordato la Polonia e sono dovuta ritornare indietro. Ho lo stesso rifiuto per i treni merci, il fuoco, le cimi- niere, i pastori tedeschi. Alla prima di Schind- ler’s list sono scappata dal cinema. Il bambino con il pigiama a righe non andrò a vederlo, ho solo letto il libro, e l’ho trovato bellissimo. Non posso parlare sempre di Shoah, non posso...». Che cosa pensa dei negazionisti? «Mi paralizzano. Ma trovo sbagliato che le lo- ro tesi aberranti siano punite come reato dalle leggi di molti Stati. Sono per la libertà di espres- sione. La storia parla da sola. Gli studenti mi chiedono: “Non ha paura dei negazionisti?”. Ri- spondo: è perché mai? Semmai sono loro che devono aver paura di me». Come mai nessuno, a parte Antonia Arslan, par- la del genocidio degli armeni a opera dei turchi nel 1915? «Ho appena incontrato Pietro Kuciukian, con- sole onorario della Repubblica di Armenia. Gli ho detto: fra 30 anni la Shoah diventerà una riga sui libri di storia. Come fu per il vostro olocau- sto, quasi 2 milioni di morti, così sarà per il no- stro, 6 milioni. L’arco di tempo della dimentican- za è quello: meno di un seco- lo». Si sente in colpa per essere scampata? «No, perché non ho fatto nulla per uscirne viva a spese di qualcuno. Dio o il caso han- no deciso per me, hanno volu- to tenermi in vita, forse per- ché testimoniassi. Avvicino studenti che si professano na- ziskin e alla fine delle mie con- ferenze vengono a chiedermi perdono: “Non sapevamo che il nazismo fosse così”. Una ragazza di un istituto su- periore di Porta Vigentina, qui a Milano, mi ha aspettato fuori dalla scuola: “Mia ma- dre era sempre ubriaca, quan- d’ero bambina mi ha rovescia- to addosso una pentola d’acqua bollente, ho tut- to il corpo coperto da orribili ustioni e non so come dirlo al mio ragazzo. Che devo fare? Mi aiuti, la prego”. Le ho risposto: non aver paura, se ti ama davvero, non guarderà alla tua pelle bruciata ma al tuo cuore». E a lei pesa quel marchio sull’avambraccio sini- stro? «Ne vado fiera». (Solleva la manica e mostra il numero di matricola 75.190 tatuato in blu sul- la pelle). «La vergogna è di chi me l’ha impres- so». (445. Continua) [email protected] Aveva solo 13 anni. Appena arrivata ad Auschwitz, fu separata dal padre: non lo rivide mai più. Ha perso nella Shoah sette familiari: uno si suicidò a San Vittore per non essere deportato Volevo stare con i Murais, come mi aveva ordinato papà. Ma io ero «allein», sola, e finii a sinistra, loro a destra, e furono gasati Ho avvicinato 100 mila studenti. Molti naziskin si scusano. Ma fra 30 anni l’Olocausto sarà una riga sui libri di storia di Stefano Lorenzetto tipi italiani IL DESTINO LILIANA SEGRE LA TESTIMONIANZA L’ULTIMA FOTO Liliana Segre mostra la foto col padre Alberto nel 1939 a Macugnaga, davanti al monte Rosa. Al ritorno dal lager pesava 32 chili La bimba col pigiama a righe Salvò il suo aguzzino nel lager (e fece inginocchiare Pio XII) «Potevo sparargli, non lo feci. Da quel momento mi sono sentita libera» Papa Pacelli le disse: «Alzati, sono io che dovrei prostrarmi davanti a te»

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16 CRONACHE il Giornale Domenica 22 marzo 2009

L a bambinaconilpigia-ma a righe,una dellep o c h e

ebreeuscitevivedaAu-schwitz, tornò a Mila-no nell’agosto del1945,quandostavaor-mai per compiere 15anni. Pesava 32 chili.

«Eroungattino randagio, cercavonotiziedimiopapà, l’unica cosa che avevo almondo», ricordaLiliana Segre, «non mi rassegnavo all’idea chel’avessero bruciato nei forni».

L’imprenditoreAlbertoSegreerastatosepara-to da quell’unica figlia il giorno stesso del loroarrivo nel campo di sterminio. Fino a quel mo-mento leavevafattodapadreeanchedamadre.«SapevocheEugenioPacelli,primadidiventarepontefice, era stato nunzio a Berlino e quindisperavo che potesse attivare qualche canale di-plomatico inGermaniapercercare il babbo tra isopravvissuti».

L’intermediario con la Santa Sede fu uno ziomaterno, Dario Foligno, avvocato della SacraRota che di lì a poco sarebbe diventato vice Av-vocato generale dello Stato. Nel 1933, dopoaver letto il De civitate Dei, s’era convertito alcattolicesimo e aveva preso il cognome Agosti-no in ricordo del santo d’Ippona. Il 16 ottobre1943,durante il rastrellamentonelghettodiRo-ma, era stato catturatodai nazisti insiemecon lamoglie e i tre figli, l’ultimo di appena due mesi.Ma, grazie alla nuova identità, era stato subitorilasciato e aveva trovato rifugio in Vaticanocon l’intera famiglia. «Lo zio chiese un’udienzaprivata a Pio XII, che me la accordò. Fummoammessi nella sua biblioteca, tutti vestiti di ne-ro, le donne con la veletta. All’arrivo del Papaeravamo in ginocchio, ma egli mi venne incon-troedisse: “Alzati! Sono iochedovrei stare ingi-nocchiato davanti a te”».

Liliana Segre non assolve, non condanna,non accusa, non recrimina. E non si commuovemai. Racconta e basta. Da una ventina d’anninon fa nient’altro che questo, soprattutto nellescuole,dovehaavvicinatooltre100.000studen-ti.

La vita l’ha messa a dura prova fin dalla nasci-ta. È cresciuta senza la mamma, Lucia Foligno,consumata da un tumore all’intestino 10 mesidopo il parto. «Aveva appena 26 anni. Nel 1929s’è sposata, nel 1930mihamesso al mondo, nel1931èmorta».Dalgiorno in cui fu segregatanellager, e finoal 1951, labambina con il pigiamaarighe non ha versato una sola lacrima. «Sonoriuscita a piangere soltantoquandoa21 annihodato allaluce il mio primogenito. L’hochiamato Alberto, come ilnonno». Di figli ne ha avutitre.Ilmarito, l’avvocatocivili-staAlfredoBelliPaci, è scom-parso nel 2007. «Siamo statiinsieme 58 anni. Era l’uomodella mia vita».

Liliana Segre ha perso nel-la Shoah, oltre al padre, altrisei familiari: i nonni paterni,Olga e Giuseppe, fondatorenel1897dellaSegre&Schiep-pati, tessuti industriali, equattro cugini, Rosa Spiegelcol figlioFeliceeRinoRaven-na col fratello Giulio. «Rino sisuicidò gettandosi dall’ulti-mo piano del raggio mentreeravamoreclusiaSanVittore.Ricordo ilsuocor-po scomposto sul pavimento del carcere: era ilprimomortochevedevo invitamia.Ladeporta-zionediGiulio si fermò inveceaFossoli:morìdistentinelcampodiconcentramentovicinoaMo-dena».

Dal 6 febbraio 1944 al 1˚ maggio 1945, quan-do fu liberatadalle truppeamericane, la bambi-na con il pigiama a righe è passata attraversoquattro lager: da Auschwitz-Birkenau a Raven-sbrück, poi in uno Jugendlager, infine a Mal-chow. Lì l’ultimo giorno avrebbe potuto vendi-carsi.Manon lo fece. «Le SS si spogliavano sottoi nostri occhi e s’infilavano gli abiti borghesi;scacciavano i loro cani lupo, che erano stati i

simboli del potere, gli strumenti del terrore,weg, weg, via, via, cercavanodi allontanarli, male bestie, disorientate, si scostavano di poco epoi tornavano scodinzolanti accanto ai padro-ni. Il comandantediMalchowgettò ladivisanelfossoerestò inmutandedavantiame.Lapistolaeraa terra.Nonsenepreoccupò.Per lui rimane-vounoStück,unpezzo, forsenemmenos’accor-se della mia presenza. Fu un attimo. Pensai: orala raccolgo e gli sparo. Ma non ne ebbi il corag-gio.L’amorechemiopadremiavevadatom’im-pedì di diventare uguale a quell’assassino.Quando scegli la vita, è per sempre, non puoipiù toglierla a nessuno. Da quel momento misono sentita libera».

Se dovesse dare una definizione sintetica di ciòche le è accaduto, che paroleuserebbe?«Indifferenza, solitudine,

pietà. Alla promulgazionedelle leggi razziali, nel 1938,ilmondo intornoanoi rimaseindifferente. Eppure erava-mopersoneoneste, conl’uni-cacolpad’esserenate. Ioave-vo8anni. Era una sera d’esta-te.Miopadremipresedapar-teemidisse chenonsarei piùpotuta tornareallascuolaele-mentare Fratelli Ruffini, per-ché ero ebrea. Avevo finito laseconda, aspettavo di andarein terza. Le mie amichette misegnavano a dito per strada,senza pietà. È importante, lapietà. Per chi la prova e perchi la riceve».

Suo padre non pensò di espatriare?«MiononnoeragravementemalatodiParkin-

son.Comeavrebbepotuto lasciarlo qui? L’8 set-tembre del ’43 i nostri amici Pontremoli aveva-noaffittato un’auto ederano fuggiti in Svizzera,spronandoci a fare altrettanto. Ma noi Segre cisentivano profondamente italiani. Ritenevamoche non ci sarebbe accaduto nulla di male. Miopadreeraunexufficiale,unragazzodel ’99.Suofratello Amedeo, decorato con la croce di guer-ra a Caporetto, fascista della prima ora, è mortoa 88 anni con questo rimorso. Non avendo figli,almioritornomiadottò.L’hosentitourlare tuttele notti, sino alla fine. Sempre lo stesso incubo:sognava di tirar giù i genitori dal vagone piom-

bato, ma non ci riusciva, i repubblichini glieloimpedivano».

Voi che faceste dopo l’8 settembre?«Papà riuscì anascondermiprimaaBallabioe

poi a Castellanza presso due famiglie cattoli-che, i Pozzi e i Civelli, che rischiarono la fucila-zione per tenermi con loro. A dicembre del ’43decisedi scappare inSvizzera.Connoidueven-nero i cuginiRavenna.Ricordo il suo strazioneldoversi procurare, lui che era un cittadino inte-gerrimo, documenti d’identità falsi. Io non riu-scivo a imparare a memoria nome e cognomenuovi,mi rifiutavodi considerarminata aPaler-mo.Nellamiaingenuitàvivevoquella fugaattra-verso le montagne come un qualcosa di eroico.Non mi rendevo conto che c’eravamo affidati aspallonisenzascrupoli,delinquenti chepoteva-no consegnarci o ammazzarci. Papà aveva consé 7.500 lire, alcuni brillanti cuciti nella cinturae la sua collezione di valori filatelici. Come uneremita, dopo essere rimasto vedovo, ogni seraperanni l’aveva riordinatacon lented’ingrandi-mento e pinzette».

Che accadde?«Fummoacciuffatidaunasentinellaelveticae

portati nella gendarmeria di Arzo, inCanton Ti-cino, dove il comandante, uno svizzero tede-sco, ci prese a male parole: “Ebrei impostori,non è vero che in Italia succedono le cose chedite voi! Tornatevene sui monti”. Ci rispedì in-dietro. E fu aquel punto che vidimiopadrebut-tare nel fango tutti i suoi preziosi francobolli:aveva capito che non gli sarebbero più serviti anulla. Ormai eravamo spacciati. Infatti fummosubito arrestati dai finanzieri italiani in camicianera. Finii tutta sola primanel carcere femmini-le di Varese, poi in quello di Como. Immagini lagioia quando mi riunirono a mio padre a SanVittore. Cella 202, quinto raggio. L’ultima casache abbiamo avuto».

Per quanto tempo rimaneste nella prigione mi-lanese?«Quaranta giorni. Di notte mi svegliavo di so-

prassalto nella brandina rasoterra e vedevo pa-pà inginocchiatoaccantoame,achiedermiper-dono per avermi generata. Finché un giorno laGestapo non fece l’appello: 605 nomi. Il nostrotrasporto. Siamo ritornati in 20. Mentre il ca-mion ci portava alla stazione centrale, all’ango-lo di via Carducci vidi la nostra casa di corsoMagenta 55. Le finestre dei milanesi rimaserochiuse».

Che avrebbero dovuto fare? Affrontare a maninude i mitra dei nazisti?«Si ricorda quel giovane cinese con la camicia

bianca, disarmato, che il 4 giugno 1989, sullapiazzaTien AnMen, fermò da solo una colonnadicarri armati?Che fineavrà fatto?Lui almenociha provato. Nel ’43-’44 molti in Italia sapevanoche cosa stava accadendo agli ebrei. Ma nessu-no ci provò. Pio XII accorse a San Lorenzo, do-po il bombardamento. Se fosse accorso anchealla stazioneTiburtina,avrebbepotutomettersidavanti al convoglio di 18 carri bestiame chetradusseadAuschwitz i 1.024ebrei catturati nelghetto, compresi piùdi 200bambini. Crede chei tedeschi l’avrebbero investito col treno?».

Credo che la contabilità finale dell’Olocaustosarebbe stata di gran lungapiù spaventosa.«Nessunopuòsaperloeco-

munque il suo gesto sarebberimasto nella storia. Non cel’ho con laChiesa, badibene.I miei nonni materni furonosalvati da poverissime suoredi Monteverde che non ave-vano cibo neppure per loro.Ma il silenzio di Pio XII fu as-sordante, c’è poco da fare.Gliunici cheprovaronopietàpernoi furonogliassassinie iladri detenuti a San Vittore.“Diovi benedica”, ci gridava-no, edalle celle ci lanciavanobiscotti, arance, guanti men-tre le guardie ci portavanovia».

Che cosa ricorda dell’arrivoad Auschwitz?«L’immediata separazione da mio padre. Le

donneeibambinivenivanomandatidaunapar-te, gli uomini da un’altra. Ma io non immagina-vo che sarebbe stato per sempre. Lo consolavoda lontanoconpiccoli gesti dellamano, cercan-dodi non piangere. Pensi che mia figlia compiequesta settimana 44 anni, l’età che aveva miopadrequando fuucciso. Si può sopportareque-stostraziodafigli,madagenitorino.ASanVitto-re era detenuta con noi la famiglia Murais, seipersone. Papà aveva notato che la signora, Ma-falda Tedeschi, era molto affettuosa con i figli.“Se ci separeranno, sta sempre vicino a lei”, miordinò.Così io, appena scaricata ad Auschwitz,

mi misi davanti ai Murais. Nessuno di noi sape-va che quelli mandati verso destra finivano algas e quelli a sinistra ai lavori forzati. “Allein?”,mi urlò un aguzzino, sei da sola? Io conoscevopoco il tedesco, ma ricordavo una canzone,Wien, Wien, nur du allein. Allein, risposi, e fuimandata a sinistra. La signora e i figlioletti a de-stra, a morire. E io tentavo disperatamente diraggiungerlaperobbedire amiopadre: signoraMurais, signora Murais... Mi dica lei se non c’èuna Samarcanda nelle nostre vite, un appunta-mentocoldestino.Hofattodi tuttoperstareconloro e quella stessa sera loro erano cenere».

Come seppe che c’erano le camere a gas e i fornicrematori?«Me lo dissero le altre prigioniere. Lì per lì mi

rifiutaidi crederci. Liuccidonoe libruciano?Mavoi siete pazze! Ancora oggi, a distanza di 65anni, mi pare impossibile. Ma poi nella menterivedo le ciminiere in fondo al campo, il fumodenso... Era tutto organizzato con illogica cru-deltà. Alla prima selezione un ufficiale medicomi toccò lapancia.Dueanniprimaavevosubìtol’asportazionedell’appendice.Pensai che fossegiunto il mio turno, che m’avrebbe mandata algasperquella cicatrice. Invece simiseapontifi-care con i suoi colleghi assassini su quanto fos-sero somari i chirurghi italiani: a suo dire miavevano suturato male la ferita. C’era un repar-tochenoi chiamavamo,nonsoperché,Canada.Selezionava tutto ciò che veniva strappato agliebrei: valigie, occhiali, vestiti. E le scarpe. Citoglievano le scarpe e ci davano in cambio unpaio di zoccoli spaiati, di misure diverse, soloper il gustodi rendercipiùpenoso il camminarenellaneve. Iomisonosalvataperché fuimanda-taa lavorarealcoperto,allaUnion,chefabbrica-va proiettili per mitragliatrici. E perché durantelamarciadellamorteversoglialtri lager, comin-ciatadopol’evacuazionediAuschwitz,ho ingo-iato bucce di patate e ossi di pollo raccattati neiletamai, incurante del fatto che dopo poche oresarei stata colta da dissenteria e vomito».

È più tornata ad Auschwitz?«Nonci riesco.È il cimiterodellamia famiglia,

però mi manca la forza per andarci. Men chemeno riuscirei a intrupparmi in comitive chescambiano un pellegrinaggio per una gita e lasera corrono a ballare in discoteca. Il posto piùvicino dove sono arrivata è Praga, 500 chilome-tri,ma lì ho sentitounodorechemiha ricordatola Polonia e sono dovuta ritornare indietro. Holostessorifiutoper i trenimerci, il fuoco, lecimi-niere, i pastori tedeschi. Alla prima di Schind-ler’s list sono scappata dal cinema. Il bambinocon il pigiama a righe non andrò a vederlo, hosolo letto il libro, e l’ho trovato bellissimo. Nonposso parlare sempre di Shoah, non posso...».

Che cosa pensa dei negazionisti?«Mi paralizzano. Ma trovo sbagliato che le lo-

ro tesi aberranti siano punite come reato dalleleggi di molti Stati. Sonoper la libertà di espres-sione. La storia parla da sola. Gli studenti michiedono: “Non hapaura dei negazionisti?”. Ri-spondo: è perché mai? Semmai sono loro chedevono aver paura di me».

Come mai nessuno, a parte Antonia Arslan, par-la del genocidio degli armeni a opera dei turchinel 1915?«HoappenaincontratoPietroKuciukian,con-

sole onorario della Repubblica di Armenia. Glihodetto: fra30anni laShoahdiventeràuna rigasui libri di storia. Come fu per il vostro olocau-sto, quasi 2 milioni di morti, così sarà per il no-stro,6milioni.L’arcodi tempodelladimentican-

za è quello: meno di un seco-lo».

Si sente in colpa per esserescampata?«No, perché non ho fatto

nulla per uscirne viva a spesediqualcuno.Diooilcasohan-nodecisoperme,hannovolu-to tenermi in vita, forse per-ché testimoniassi. Avvicinostudentichesiprofessanona-ziskinealla finedellemiecon-ferenze vengonoa chiedermiperdono: “Non sapevamoche il nazismo fosse così”.Una ragazza di un istituto su-periore di Porta Vigentina,qui a Milano, mi ha aspettatofuori dalla scuola: “Mia ma-dreerasempreubriaca,quan-d’erobambinamiharovescia-

toaddossounapentolad’acquabollente,hotut-to il corpo coperto da orribili ustioni e non socome dirlo al mio ragazzo. Che devo fare? Miaiuti, la prego”. Le ho risposto: non aver paura,se ti ama davvero, non guarderà alla tua pellebruciata ma al tuo cuore».

E a lei pesa quel marchio sull’avambraccio sini-stro?«Nevado fiera». (Solleva lamanicaemostra il

numero di matricola 75.190 tatuato in blu sul-la pelle). «La vergogna è di chi me l’ha impres-so».

(445. Continua)

[email protected]

“ “

Aveva solo 13 anni. Appenaarrivata ad Auschwitz,

fu separata dal padre: nonlo rivide mai più. Ha personella Shoah sette familiari:uno si suicidò a San Vittore

per non essere deportato

Volevo stare con i Murais,

come mi aveva ordinato

papà. Ma io ero «allein»,

sola, e finii a sinistra, loro

a destra, e furono gasati

Ho avvicinato 100 mila

studenti. Molti naziskin

si scusano. Ma fra 30

anni l’Olocausto sarà

una riga sui libri di storia

di Stefano Lorenzetto

tipi italiani

IL DESTINO

LILIANA SEGRE

LA TESTIMONIANZA

L’ULTIMA FOTO Liliana Segre mostra la foto col padre Alberto nel 1939 a Macugnaga, davanti al monte Rosa. Al ritorno dal lager pesava 32 chili

La bimba col pigiama a righeSalvò il suo aguzzino nel lager(e fece inginocchiare Pio XII)«Potevo sparargli, non lo feci. Da quel momento mi sono sentita libera»Papa Pacelli le disse: «Alzati, sono io che dovrei prostrarmi davanti a te»