Walter Benjamin, Angelus Novus (appunti)

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Walter Benjamin, Angelus Novus (appunti). Destino e Carattere (1919) La filosofia in tutto il pensiero di Walter Benjamin va intesa come indagine critica fortemente incentrata sulla modernità e tale da rivelarne le aporie, le (apparenti) opposizioni e le vuote forme concettuali. Da questo punto di vista non si dà una frattura tra il “giovane” e il “maturo” Benjamin. Proprio da questi primi saggi possiamo intravedere quella che sarà l’asse portante del pensiero benjaminiano: la critica militante nei confronti dei miti del presente. Contro il mito (inteso in senso lato), infatti, egli rivaluterà la teologia così come il materialismo, il concetto di esperienza kantiana così come la “critica” romantica, la filosofia della storia e l’antistoricismo, il platonismo e le indagini sul linguaggio e sul nome. Destino e carattere è uno dei primi saggi (che segue il celebre Programma della filosofia futuro, che, rinnovando l’indagine kantiana e neo-kantiana, propone il superamento dei concetti metafisici di soggetto e oggetto) in cui Benjamin, più chiaramente nei propositi che nella riuscita, tenta una critica del mito. Proprio partendo dal superamento della metafisica opposizione tra soggetto e oggetto, tra mondo esterno e uomo agente, Benjamin denuncia i presupposti mitici che si celano dietro i concetti – spesso accettati anche dalle moderne filosofie positive – di destino e carattere. Condividendo la scissione tra destino e carattere, tra dinamiche caotiche del mondo esterno e dinamiche psicologico-soggettive, il mondo borghese ha definito l’indecifrabilità delle prime e la netta definizione delle seconde. Il pensiero positivo – in maniera paradossale – ritiene decifrabili i tratti del carattere così come gli antichi astrologi decifravano il destino. Il concetto di destino va bandito da quello dall’ambito religioso. Esso, piuttosto, appartiene all’ambito del mito e del diritto. La riprova di questo sta, secondo Benjamin, nel fatto che nel raggio d’azione e d’esistenza del mito si danno le categoria di colpa e punizione, ma non troviamo niente del loro opposto, la gioia e l’innocenza. Il regno del mito, infatti, estromette la beatitudine e l’innocenza. La stessa cosa avviene per il diritto. Il paradosso è così compiuto: il diritto, che ritiene di aver affrancato l’uomo dal dominio mitico, non è altro che una continuazione di quest’ultimo.

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Destino e Carattere (1919)La filosofia in tutto il pensiero di Walter Benjamin va intesa come indagine critica fortemente incentrata sulla modernità e tale da rivelarne le aporie, le (apparenti) opposizioni e le vuote forme concettuali. Da questo punto di vista non si dà una frattura tra il “giovane” e il “maturo” Benjamin. Proprio da questi primi saggi possiamo intravedere quella che sarà l’asse portante del pensiero benjaminiano: la critica militante nei confronti dei miti del presente.Contro il mito (inteso in senso lato), infatti, egli rivaluterà la teologia così come il materialismo, il concetto di esperienza kantiana così come la “critica” romantica, la filosofia della storia e l’antistoricismo, il platonismo e le indagini sul linguaggio e sul nome.Destino e carattere è uno dei primi saggi (che segue il celebre Programma della filosofia futuro, che, rinnovando l’indagine kantiana e neo-kantiana, propone il superamento dei concetti metafisici di soggetto e oggetto) in cui Benjamin, più chiaramente nei propositi che nella riuscita, tenta una critica del mito.Proprio partendo dal superamento della metafisica opposizione tra soggetto e oggetto, tra mondo esterno e uomo agente, Benjamin denuncia i presupposti mitici che si celano dietro i concetti – spesso accettati anche dalle moderne filosofie positive – di destino e carattere. Condividendo la scissione tra destino e carattere, tra dinamiche caotiche del mondo esterno e dinamiche psicologico-soggettive, il mondo borghese ha definito l’indecifrabilità delle prime e la netta definizione delle seconde. Il pensiero positivo – in maniera paradossale – ritiene decifrabili i tratti del carattere così come gli antichi astrologi decifravano il destino.Il concetto di destino va bandito da quello dall’ambito religioso. Esso, piuttosto, appartiene all’ambito del mito e del diritto. La riprova di questo sta, secondo Benjamin, nel fatto che nel raggio d’azione e d’esistenza del mito si danno le categoria di colpa e punizione, ma non troviamo niente del loro opposto, la gioia e l’innocenza.Il regno del mito, infatti, estromette la beatitudine e l’innocenza. La stessa cosa avviene per il diritto. Il paradosso è così compiuto: il diritto, che ritiene di aver affrancato l’uomo dal dominio mitico, non è altro che una continuazione di quest’ultimo.L’affrancamento dal mito si ha invece con la tragedia: nel momento in cui l’eroe tragico, nel suo istantaneo mutismo, si arrende al destino ma, allo stesso tempo, proprio a ragione della sua minorità, della sua muta resa, agita e confonde le leggi del destino, della colpa e del castigo e afferma l’inizio della propria libertà. In questo, secondo Benjamin, consiste il sublime della tragedia.Il destino, come il diritto, dunque, non condannano al castigo, ma solo alla colpa. Il residuo della sottomissione dell’uomo al mito è il suo essere giuridico. Il destino e il diritto rimangono – per le pratiche astrologiche il primo, per le illusioni borghesi il secondo – un sistema di segni: il diritto positivo considera questi segni indecifrabili, l’astrologo no.Da questi pregiudizi è investito, infine, anche il concetto di carattere che le scienze positive rileggono come un infinito intreccio di filamenti che finiscono per costituire una rete compatta. L’equivoco nasce per Benjamin nel momento

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in cui si tenta di distinguere nell’intreccio le buone e le cattive qualità, quando è invece impossibilie attribuire una rilevanza morale alle qualità del carattere. Proprio la commedia mostra l’irripetibile individualità del carattere al di fuori di ogni categoria morale. Il personaggio comico è un individuo che disprezzeremmo nella nostra vita quotidiana, ma nel contesto comico, in cui il capo dell’eroe si è definitivamente sollevato e si afferma senza indugi il dominio del genio, il carattere si manifesta nella non scomponibile unità del suo risplendere.

Per la critica della violenza (1920-1921)Tra le antinomie derivanti dalla disvelata continuità di mito e diritto questo saggio indaga quella che vede contrapposti diritto e giustizia.Mentre il primo è una forma residuale del mito, la seconda è la finalità di ogni agire divino. La giustizia interrompe l’eterna ripetizione del tempo mitico per purificare il vivente e liberarlo dal dominio del mito.Al centro di questo saggio c’è il problema della violenza, Gewalt, che Benjamin intende strettamente connessa coi concetti di autorità e potere. La critica del concetto di violenza vuole contrapporre il carattere violento autoritario del diritto (es. la forza di polizia) all’autorità non violenta della giustizia divina.Benjamin intende così sottoporre a critica l’ordinamento giuridico stesso svelandone la stressa connessione con un sostrato violento di ascendenza mitica.Il diritto è concepito come un sistema di mezzi teso al conseguimento di determinati scopi. Ma sono diversi gli approcci giuridici che giudicano dei mezzi e dei fini in maniera diversa: da un lato abbiamo il diritto naturale che, prendendo come criterio la giustizia dei fini, in base ad essa giudica dei mezzi; dall’altro lato abbiamo il diritto positivo che, avendo come presupposto l’assoluta artificialità mediale dei sistemi giuridici, valuta i fini sulla base della legittimità dei mezzi.Ma Benjamin è convinto che diritto naturale e diritto positivo abbiano in comune un fondamentale presupposto dogmatico: la convinzione che legittimità dei mezzi e giustizia dei fini possano orientarsi vicendevolmente, così che nel diritto naturale la seconda giustificherebbe la prima, mentre in quello positivo sarebbe la prima a garantire la seconda.L’obiettivo della critica della violenza consiste, dunque, nel far luce sull’essenziale continuità delle due prospettive giuridiche: la violenza, che inizia come espressione naturale della forza, si evolve imponendosi come un potere che manifesta il suo dominio nella forma del diritto. La violenza divina, invece, contrapposta a quella giuridica si manifesta nella forma della giustizia.I criteri con cui si valutano negli stati moderni la legittimità dei mezzi (per quel che riguarda il diritto positivo) o quella dei fini (diritto naturale) mostrano la continuità tra diritto, mito e violenza.Nel contesto del diritto positivo ogni utilizzo della violenza a scopi naturali vienne considerata come una minaccia. La violenza nello stato di diritto può essere esercitata solo dal diritto stesso. L’unico esempio di violenza concessa dal potere ad organi estranei alla società giuridica è il diritto di sciopero. Lo stato, concedendo il diritto di sciopero, lo trasforma in perseguimento di scopi giuridici al fine di arginare e di rimuovere la sua manifestazione come perseguimento di scopi naturali. La stessa concessione del diritto di sciopero

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(comprese anche la manifestazioni violente che ne possono derivare) è completamente in linea con la logica della violenza del diritto.Questo discorso, però, è valido per lo “sciopero politico”, ma non per lo “sciopero proletario” (questa distinzione è ripresa da Georges Sorel). Se lo sciopero politico ha una natura mitica dal momento che utilizza dei mezzi concessi dallo stato per il raggiungimento di determinati obiettivi politici riconosciuti giuridicamente, lo sciopero proletario non ha per telos alcuna specifica conquista: gli è estranea ogni conquista e non ha alcun valore ricattatorio. Lo sciopero proletario è una forma di violenza non violenta poiché con essa non si ha la fondazione di nuovi o vecchi rapporti giuridici, ma la progressiva destituzione del diritto stesso.Il caso limite e cardine di questa forma di violenza non violenta (la giustizia) è per Benjamin la volontà divina come essa si presenta nelle Sacre Scritture. La violenza divina è principio di una finalità alla quale, a differenza del potere, non si rapporta come mezzo ma come fenomeno. Il potere mitico non annienta l’avversario, ma gli fa violenza tracciando una confine che nessuno dei due, né vinto né vincitore, possono oltrepassare. Il diritto mira alla conservazione del dominio della colpa destinale, della condanna del colpevole non alla pena, ma alla colpa.La violenza divina non è distruttiva nei confronti della vita e del vivente, ma lo è solo nei confronti del destino mitico, nei confronti del continuum del diritto. Essa interrompe il tempo del diritto e gli contrappone quello della giustizia. Quest’ultima non è dunque il giusto fine del diritto, ma si presenta come di quella temporalità puramente apparente propria del mito e del destino, dove appunto il tempo è condannato ad un’eterna ripetizione.

Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo In questo saggio Benjamin affronta il tema del linguaggio, uno dei suoi principali punti di interesse dal 1916 al 1921. Siamo sempre una fase in cui lo studio della teologia e della filosofia neo-kantiana è molto presente in Benjamin. D’altro canto anche qui, però, non manca la critica nei confronti della concezione borghese: in particolare, ovviamente, della lingua. La concezione borghese attaccata non va considerata – non ancora, almeno – come condotta da un punto di sociale o politico, ma eminentemente da un punto di vista gnoseologico-teoretico: la povertà della concezione borghese è legata alla debolezza della sua matrice concettuale, tutta di ispirazione positivistica.In questo saggio Benjamin analizza il rapporto tra la lingua rivelata e la lingua degli uomini, definendo lo slittamento della prima nella seconda come “caduta” nella Babele dei linguaggi.La riflessione (centrale) sul nome trova la sua massima pertinenza, da un lato con, con il problema della costituzione di un oggetto di conoscenza (lato gnoseologico), dall’altro, con una teoria della rivelazione che dia ragione di quell’esperienza, ovvero dell’unità delle lingua (lato teologico).Il linguaggio, in generale, non è altro che la comunicazione di contenuti spirituali: nel linguaggio si manifesta la relazione tra espressione ed essenza spirituale, un rapporto che si estende a tutto l’esistente, caratterizzato dalla necessità di comunicare il proprio essere spirituale ed essere linguistico. Nella lingua dell’essere spirituale si esprime soltanto ciò che in esso è già comunicabile e tale comunicabile corrisponde immediatamente all’essenza linguistica che in esso si comunica. L’atto di denominazione, proprio dell’uomo,

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è pertanto un atto di lettura e di ascolto dell’essenza spirituali delle cose e della loro comunicabilità. In questo modo Benjamin intende rompere con la concezione borghese della relazione tra la parola come semplice mezzo, la cosa come oggetto e l’uomo come destinatario.La lingua dell’uomo è imperniata sul nome. La lingua dell’uomo è l’unica lingua denominante: nel nome l’uomo comunica il proprio essere spirituale, quello di creatura incaricata del compito di nominare. L’uomo nel denominare comunica intensivamente tutta la propria essenza spirituale, tutto il suo essere.L’uomo è dunque detentore di tale totalità intensiva perché è portatore di un’identità sostanziale tra essenza spirituale ed essenza linguistica: nominando altro comunica anche integralmente se stesso.Il nominare umano è medio della conoscenza, il nominare divino è creazione. L’uomo, invece, non è creato mediante denominazione: Dio non gli da alcun nome. L’uomo è plasmato, non nominato. L’uomo manifesta la sua identità di linguistico e spirituale non nell’essere nominato, ma nel nominare. Il nome, oltre ad essere il medio del darsi nella lingua dell’essenza spirituale delle cose, è anche il centro in cui si evidenzia l’incolmabile vuoto che c’è tra la lingua umana (che conosce) e la lingua divina (che crea). La caduta dal paradiso terrestre, la caduta, porta al passaggio dalla lingua alla “ciarla”, la forma linguistica di conoscenza del bene e del male. La ciarla trova il proprio corrispettivo nel giudizio, che non è una forma vera e propria di conoscenza, ma è un utilizzo del linguaggio allo scopo di applicare i concetti di bene e male. La natura, che nella denominazione paradisiaca assumeva i contorni della beatitudine, adesso diventa muta, triste e luttuosa. Il moltiplicarsi dei nomi comporta la rottura dell’essenza linguistica del denominato, la perdita di ogni continuità teologica tra esso e il segno.All’interno di questa lingua decaduta (la lingua non più dei nomi, ma dei segni) resta un residuo dell’integrità perduta, che si realizza nel lato simbolico: la lingua è anche simbolo del non-comunicabile. Il segno manifesta così la propria nostalgia di quella integrità originaria.Il simbolo rappresenta così una forma di recupero dell’integrità del nome. Nel simbolo viene indicato il non-comunicabile della natura, l’unità complessiva dell’oggetto. Il simbolo però non promuove attivamente l’unità originaria della lingua, quanto piuttosto ripete l’esistenza del non-comunicabile nell’atto di indicare puramente se stesso.

Il compito del traduttoreLa precedente concezione della lingua è alla base anche di questo saggio. Infatti, Benjamin considera la traduzione come la forma dell’originale, il movimento linguistico di recupero di un’unità che l’originale contiene ed esige.Nella traduzione può emergere un aspetto dell’essenza dell’originale.Il presupposto che Benjamin mette bene in chiaro è che l’opera originale non è diretta ad alcun lettore, neanche ad uno ideale. Di conseguenza il compito del traduttore non è quello di servire il lettore: egli deve trasmettere l’intenzione dell’opera originale, la sola cosa di fronte alla quale egli ha un dovere. La traduzione segna il passaggio interlinguistico da ciò che in una lingua è traducibile. Uno dei compiti che ha la traduzione è quello di garantire la sopravvivenza dell’originale, promuovendone l’acquisizione e l’innesco di una vita che assume un significato non naturale, ma storico. Questo non significa però che

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l’originale abbia un debito nei confronti della traduzione, quanto piuttosto il contrario.Ma il compito fondamentale della traduzione è quel rinvio di essa ala rapporto tra le lingue, che Benjamin definisce come realizzazione allusiva. Nella traduzione le lingue possono ricomporre nel divenire del piano storico quell’infranto tessuto unitario e originario della lingua paradisiaca. La condizione di attuabilità di questa cosa sta proprio nel passaggio da una lingua all’altra, che è in grado di svelare la convergenza segreta di tutte le lingue.Tutte le lingue differiscono per quel che riguarda il modo di intendere un inteso che è comune. L’inteso è dunque ciò che unisce le lingue.Il compito del traduttore consiste nell’attivare quella forma di anticipazione e di sapere, che si apre problematicamente all’avvento del Messia, a quella interruzione del divenire delle forme e delle lingue in cui si dà redenzione dell’infranto. Lo spazio della traduzione è il confine tra le lingue, un confine nel cui valore verticale si riflette l’anticipo della sua stessa estinzione, giacchè la forza messianica emanata da tali profondità annuncia l’istante in cui tali differenze e confini tra le lingue non avranno più pertinenza – o ne avranno un’altra. La traduzione è il passaggio dell’inteso da un modo di intendere a un altro. Salta fuori questo paradosso: proprio l’inteso che è il traducibile al netto della traduzione si rivela intraducibile.La lingua pura, l’unica che dice l’inteso, resta intatta e intangibile, inalterata.Il vero traduttore è colui che mirando non alla restituzione oggettiva del senso, ma all’affinità tra i modi di intenderlo, trascende all’origine l’antinomia tra fedeltà e libertà. La traduzione, semmai, deve essere fedele all’inteso. Questa fedeltà si tramuta, allo stesso tempo, in libertà dal senso, al proseguimento del tragitto tendenziale oltre il passaggio puntiforme della comunicazione. Solo nella manifestazione delle differenze reciproche le lingue (proprio nei loro sensi oggettivi) trovano nella traduzione il riflesso della loro convergenze.

Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikola Leskov.Questo saggio muove da premesse analoghe a quelle dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Vi è una relazione non estrinseca tra il declino dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e la moderna condizione del narrare. La prosa moderna si è infatti caratterizzata per la crisi della narrazione, per un immiserirsi delle pratiche narrative quotidiane tradizionalmente deputate alla trasmissione e alla condivisione di esperienze. Questo avviene perché l’integrità stessa della narrazione è andata in frantumi: se l’uomo moderno non sa più narrare è perché si è fatto povero d’esperienze, incapace di orientarsi nel paesaggio del proprio tempo e dunque di restituire quanto esperito nella forma del racconto. Il tramonto della narrazione va di pari passo con quello dell’esperienza e coincide con il venir meno del lato epico della verità e si presenta come il portato di forze produttive storiche e secolari.La condizione storica della nascita del romanzo è l’invenzione della stampa: il romanzo necessita della carta stampata come unico veicolo di trasmissione. Il romanziere si è tirato in disparte da quella tradizione orale che costituiva la cornice operativa del narratore. Il romanziere ha rinunciato al suo ruolo di sapiente e di giusto, così come a quello di tramite della verità che un intero collettivo umano può condividere. Nella società capitalistica, in cui crollano le quotazioni dell’esperienza, e con esse la validità della narrazione, il ruolo della

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comunicazione è affidato alla stampa quotidiana, all’informazione. Il contenuto di quest’ultima deve essere consumato e controllato immediatamente, a differenza di quanto avviene nei ritmi lenti della mediazione narrativa. Dunque i moduli della narrazioni sono attaccate da due parti: il romanzo e l’informazione. La frattura epoca che permette questa scissione è quella introdotta dalla società capitalistica. Non c’è più spazio per degli Erodoto. La stessa mutazione dei contesti nei quali si produce l’esperienza narrativa (la bottega dell’artigiano in cui si vede nel prodotto del proprio lavoro la traccia della propria mano si è tramutata nell’alienante fabbrica capitalistica) è stata determinante. Nel romanzo la stessa pratica mnestica del ricordo assume forme diverse, quelle del ricordo volontario e consapevole, puntuale. Mentre il narratore dedica la sua pratica mnestica a molti fatti, luoghi e personaggi, il romanziere, invece, rammemora un solo eroe, una sola traversia, una sola lotta. Se il centro del racconto è la morale storica, quello del romanzo è il senso della vita, quale espressione propria dello smarrimento provato dal lettore nelle nuove condizioni sociali e produttive. Laddove chi ascolta una storia è sempre in compagnia, il lettore del romanzo è solo, proprio come l’eroe del romanzo. A conservare la forza e il ruolo della narrazione sono oggi le fiabe, che, praticando quella liberazione dalla potenza mitica su cui Benjamin riflette in tutta la sua opera, innescano nel bambino il sentore di una complicità della natura.Leskov, in sintonia con questo spirito della favola, interpretava la resurrezione proprio come liberazione da un incantesimo, prefigurandola come l’apocatastasi di Origene, come l’ingresso di tutte le anime in Paradiso. Nel racconto e nella favola l’uomo ritrova la propria fedeltà all’epoca della poesia ingenua, ad un rapporto felice con la natura, e perfino con la morte, che nella memoria narrativa viene posta in connessione con la resurrezione.Benjamin non vuole essere nostalgico. Egli si limita a mostrare il narratore come figura in decadenza. Il saggio si chiude con una riflessione sul proverbio, quale simbolo rovinoso dello svilimento della figura del narratore e insieme del mutato permanere delle sue forme.

Franz KafkaAl centro della prosa di Kafka Benjamin trova un gesto di liberazione, un tentativo di opporre al destino e al diritto l’innocenza e la felicità dell’eroe; e l’eroe in Kafka è l’ultimo degli uomini minuti, l’aiutante, il pazzo, l’inetto, la creatura quasi senza forma, nella cui mai eclatante gestualità si cela uno scuotimento dell’intero ordine mitico del destino.La banalità dell’eroe e della sua vicenda sono la chiave della prosa kafkiana: lo stare rintanati nelle stanze del potere è la caratteristica degli anti-eroi di Kafka.L’eroe kafkiano è l’uomo minuto sulla cui schiena grava il peso dell’autorità paterna, è l’essere minuto che resiste alla forza dominante del destino con il suo solo esserci, con l’esiguità dei suoi gesti di creatura inappariscente e quasi residuale. La preistoria mitica, il diritto segreto dei codici condanna il protagonista della prosa kafkiana sin dall’inizio e gli nega ogni possibilità di conquistare l’innocenza e la felicità.Ad uscire da questo contesto sono solamente gli inetti, i messaggeri che comunicano fra un gruppo e l’altro, gli aiutanti: solo a loro è data la speranza di sottrarsi alla violenza. Essi sono fuori dal mondo familiare, vengono presentati

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già all’esterno del mondo paterno, conducendo un’esistenza marginale ma gravida di potenza liberatoria: su di essi, come su Sancho Pancha, non grava alcun peso.I segni di questa liberazione sono i gesti. Benjamin considera tutta lopera di Kafka rileggibile attraverso il suo codice gestuale. Nel mondo kafkiano i gesti non valgono per la loro natura intenzionale-simbolica (per il loro caricarsi volutamente di un significato), ma per il loro carattere spontaneo ed enigmatico che suscita stupore.Le storie di Kafka condividono con il gesto una natura puramente illustrativa, il loro mondo è un teatro universale in cui tutti vengono assunti per recitare null’altro che se stessi. Come un teatro universale è rappresentata la stessa organizzazione umana, in cui ogni gesto è un dramma.L’intero sistema organizzativo della vita umana è pervaso da quell’aria di villaggio, un vento dell’oblio preistorico che affiora nel presente mettendo le sghembe creatura kafkiane a contatto con la loro colpevolezza. I deformi dei racconti di Kafka non sono altro che creature che simboleggiano l’abbandono all’aria del villaggio, all’oblio e alla pesantezza, ad un tempo e ad uno spazio irredenti.A questo sonno Kafka risponde con l’attenzione e la preghiera vigile dell’anima che rappresenta la sua forma, anche gestuale, di ascesi.L’attenzione e la veglia sono il segno della giustizia che si realizza nello studio, nella schiena ricurva dello studente che è – come l’angelus novus – sì piegata all’aria di villaggio, ma la cui inerzia è ascensionale.Tra le figure kafkiane, infatti, gli studenti sono i portavoce (come i bambini, gli aiutanti, i pazzi) di una razza insonne, votata alla veglia. È calzante in questo caso la similitudine con i bambini che non vogliono andare a letto perché hanno paura che in loro assenza accada qualcosa di imperdibile.

Le affinità elettive (1922/1924)Siamo nell’anni in cui Benjamin si concentra profondamente sulla critica letteraria e, dopo aver esaminato il concetto di critica nel primo romanticismo tedesco, tratta qui della complessa dialettica esistente tra apparenza e verità prendendo spunto da Le affinità elettive di Goethe. In questo contesto Benjamin si trova a fare i conti con l’idea classicista dell’opera d’arte come un totalità in sé teleologicamente conchiusa. Allo stesso tempo, però, Benjamin si distacca da qualsiasi riduzione del senso dell’opera d’arte nello spazio dell’Erlebnis. Qui Benjamin lavora, dunque, sul rapporto dialettica tra critica e verità.Il compito della critica non può semplicemente coincidere con il commento dell’opera, anche se è innegabile che debba iniziare con esso. Il commento costituisce un momento fondamentale (l’ascolto del testo, l’attenzione filologica per la vitalità della parola), ma in esso non si può esaurire la critica. Il compito vero della critica consiste nel distinguere un “contenuto reale” di un’opera d’arte dal suo “contenuto di verità”. Da qui, una tensione che si consuma nell’opera tra lo svolgimento e l’unità ideale non ulteriormente interrogabile dell’opera.La chiave attraverso cui Walter Benjamin interpreta le Affinita elettive è l’opposizione tra la violenza del diritto e la libertà della decisione etica: tema dell’opera, infatti, è il rapporto tra matrimonio e amore. Il diritto, la norma giuridica, è ciò che è chiamato a far ordine nel mondo delle passioni,

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nell’utopia di ricondurre a natura il loro storico interagire, la legge della loro affinità.L’armonia ctonia degli impulsi, qualora prenda il sopravvento e dissolva la norma, viene alla luce come puro essere secondo il destino. Ma questa dissoluzione non restaura alcun ordine mitico, ma anzi sfocia nel caos. L’intento di Goethe, infatti, non era quello di fondare il matrimonio, ma di mostrare le forze che emergono dalla sua dissoluzione. D’altro lato, però, è proprio con la dissoluzione di ogni potenza etica che il matrimonio si riduce ad essere il nudo schema di un mero rapporto giuridico. Con questi argomenti Benjamin intende opporsi all’interpretazione di Gundolf. L’intenzione gundolfiana è di spiegare il divenire dell’opera in base alla vita del poeta, che viene in questo modo tipicizzata in vita eroica. Il poeta diventa così un eroe creatore che assolve a dei mandati divini sotto l’architrave dell’immedesimazione sentimentale. Viceversa, Benjamin pensa che l’opera è il prodotto, formazione, e l’artista è solo colui che origina il processo di tale formazione. Per questo nell’opera non ci si può immedesimare: nel suo carattere di formazione si può insediare soltanto un sapere critico, capace di penetrarne le interne determinazioni, gli strati che la compongono. Solo così si può penetrare il contenuto reale dell’opera ed estrarne il contento di verità.Per questo la critica benjaminiana entra direttamente nel vivo del romanzo di Goethe: il rapporto tra le istanze della vita e quelle del diritto. Il tema della decisione morale e del suo rapporto con il diritto non può valere come contenuto reale, ma solo come contenuto di verità dell’opera. Questa multi-stratificazione del romanzo è proprio ciò che caratterizza più in generale l’opera d’arte ed è determinante per la distinzione tra arte e filosofia. Se la filosofia, infatti, mira a una totalità sistematica non ulteriormente interrogabile, l’arte, invece, espone problematicamente l’unità sistematica: rappresenta il problema della sua irrappresentabilità. Ciò che si configura nell’opera d’arte è perciò la sua problematica molteplicità, i molti modi di significare e sviluppare la sua intuizione originaria. Nell’opera d’arte questa molteplicità trova, però, una forma e così appare. L’idea puramente intellegibile dell’unità viene rappresentata, offerta all’intuizione, resa visibile e percepibile: si fa idea estetica. Il modo essenziale di questo apparire è, dunque, quello della bellezza e del suo rapporto originale con la verità. La bellezza nell’opera d’arte diviene esibizione estetica di quanto nei fenomeni si sottrae ad ogni percezione, il fondo inesprimibile della loro verità. La verità del bello si dà solo in una relazione simbolica e non oltre di essa. Come pura rivelazione, il vero implica un dileguare della relazione stessa che coincide con il tramonto della bellezza. Fino al punto che la stessa verità diviene pensabile, platonicamente, solo al di là di ogni essenza. Un rapporto indeciso tra bellezza e verità, prima ancora che quest’ultima si riveli alla luce della decisione etica libera dal destino, è colto da Benjamin nel personaggio di Ottilia.L’arte per Benjamin non è poietica: il fare artistico non produce altro che apparenza, forma capace di incantare istantaneamente in un mondo il caos della cita reale. La vita che anima questo mondo è, però, solo quella delle idee che si fanno estetiche. Quella artistica è una vivificazione in apparenza. La verità dell’opera d’arte è intrinsecamente dialettica: non appartiene all’opera come armonica totalità, ma alla sua negazione. Ciò che interrompe l’armonia dell’opera è l’inespresso. Per riconoscere questo valore dell’arte bisogna essersi liberati dal suo mito. Nell’ambito estetico dell’apparenza l’ultima parola

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che si libra non è quella di una ferma risoluzione etica, ma quella domanda tremante della speranza: solo la speranza, non l’eros, può spezzare la potenza mitica dell’ananke, criticando l’idea di destino. Speranza, che è, ovviamente, speranza nella redenzione.Di questa critica speranza è simbolo la morte di Ottilia, la quale suscita una commozione che fa catastroficamente precipitare la percezione del bello in meditazione della verità che il suo stesso svanire custodisce. Una speranza che è conciliazione delle forze che resistono al mito e che mirano alla sua dissoluzione. L’apparenza del bene come conciliazione sperata si mostra solo mediante la potenza critica dell’inespresso che indica l’intimo confine dell’opera d’arte, quel confine che congiunge contenuto reale e contenuto di verità.

Sulla facoltà mimetica.La più alta capacità di produrre somiglianze è propria dell’uomo. Il dono di scorgere somiglianze e di imitarle è da far risalire alla facoltà mimetica. Questa facoltà è storica e in quanto tale ha una storia ontogenetica e una filogenetica.La storia ontogenetica la possiamo vedere nei bambini e nei loro giochi, di cui Benjamin sottolinea la forte valenza educativa. Questo valore educativo trova il proprio fondamento nella storia filogenetica. Oggi assistiamo ad un forte indebolimento apparente della facoltà mimetica: che nell’uomo moderno ci sia una decadenza di questa facoltà? O, piuttosto, una trasformazione?La facoltà mimetica è alla spalle di tutte le capacità espressive dell’uomo: la sua gestualità, la sua voce, la sua lingua. Il divenir qualcosa permette di conoscere quel qualcosa. Pertanto il farsi mondo diviene un’esteriorizzazione conoscitiva che esprime attivamente il rapporto del soggetto col mondo e non si limita unicamente a riprodurlo passivamente. La facoltà mimetica è quell’originario rapporto col mondo che si fa espressione. La facoltà mimetica è dunque presente nella lingua, ma gli studi sinora si sono limitati unicamente alle onomatopee.Ma ogni parola e tutta la lingua è onomatopeica. Tutte le lingue, infatti, indagano hanno un rapporto imitativo con quello che Benjamin chiama l’inteso comune a tutte.La stessa cosa che è avvenuta per la lingua, è accaduta anche per la scrittura: la grafologia ha mostrato come nella scrittura si nasconda l’inconscio di chi scrive; la stessa cosa è probabile che sia avvenuta all’origine della scrittura in cui l’animo di chi provava a scrivere era teso a raccogliere le somiglianze con le cose nel segno, nel simbolo. Così, anche la scrittura, insieme alla lingua, è divenuta un archivio di somiglianze non-sensibili, di corrispondenze immateriali. Tutto ciò che è mimetico nel linguaggio può rivelarsi solo in una sorta di sostegno. Questo sostegno è l’elemento semiotico. Il nesso significativo delle parole e delle proposizioni è il portatore in cui solo in una baleno si accende la somiglianza. Essa guizza via. Da quando l’uomo leggeva ciò che non era mai stato scritto (la lettura delle viscere e dei moti delle stelle) passando per le rune e i geroglifici siamo arrivati alla scrittura e alla lingua nelle quali è presente quella facoltà mimetica che era stata il fondamento delle antiche prassi occulte.Così la lingua sarebbe lo stadio supremo del comportamento mimetico e il più perfetto archivio di somiglianze immateriali: un mezzo in cui emigrarono senza residui le più antiche forze di produzione e ricezione mimetica, fino a liquidare quelle della magia.

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