Prolegomeni a uno studio del concetto d'immagine in Walter Benjamin

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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea in Filosofia TESI DI LAUREA PROLEGOMENI A UNO STUDIO DEL CONCETTO D’IMMAGINE IN WALTER BENJAMIN. Relatore Prof. Paolo Gambazzi Correlatore Prof. Giorgio Agamben Laureando Walter Bonaventura

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A research on Walter Benjamin's concepts of Appearance and Dialectic Image and how these concepts shaping the form and the style of Benjamin's writing: his -Darstellungweise-.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIACorso di laurea in Filosofia

TESI DI LAUREA

PROLEGOMENI A UNO STUDIO DEL CONCETTO D’IMMAGINE INWALTER BENJAMIN.

RelatoreProf. Paolo Gambazzi

CorrelatoreProf. Giorgio Agamben

LaureandoWalter Bonaventura

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INDICE

p. 7 Introduzione1

p. 13 1.1 Benjamin e Goethe

p. 15 1.2 Forma, apparenza e conoscenza

p. 23 1.3 Conoscenza e salvataggio dei fenomeni

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p. 31 2.1 Mito, violenza e apparenza

p. 35 2.2 Lingua nominale come lingua della verità

p. 50 3.3 Lingua giudicante come lingua dell’apparenza

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p. 59 3.1 Storia e apparenza nel Trauerspiel barocco

p. 70 3.2.1 Allegoria e lingua giudicante

p. 89 3.2.2 Allegoria e verità

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p. 93 4.1 Arte, filosofia e verità

p. 106 4.2 Bellezza della verità e forma della filosofia

p. 123 Nota di Giorgio Agamben

p. 127 I. Opere di Walter Benjamin consultate

p. 129 II. Testi consultati

p. 139 Credits & License

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AVVERTENZA:La quasi totalità delle citazioni di Walter Benjamin, qui nelle traduzioni indicatenelle note al testo e in bibliografia, sono state verificate sulle versioni in linguatedesca, contenute nell'edizione completa delle opere indicata anch’essa inbibliografia. Ove tali traduzioni siano parse imprecise, inappropriate, e, al limite,inaccettabili, si è provveduto a modificarle con nuove versioni fornite, senecessario, di apposita nota esplicativa. Allo stesso modo si è ritenuto opportuno,talvolta, riportare, tra parentesi quadre, la parola tedesca.

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INTRODUZIONE

Questo lavoro nacque dall’esigenza di comprendere il ruoloteorico-conoscitivo e il valore metodologico del concetto diimmagine dialettica, negli scritti benjaminiani successivi alla suafallita abilitazione alla libera docenza. Nel tentativo di illuminarequesto concetto – a partire da quello goethiano di Urphänomencui si lega nel lavoro sui passages parigini – emersero numeroseragioni per le quali le radici dell’immagine dialettica avrebberodovuto essere cercate negli scritti precedenti la succitataabilitazione, che alcuni raggruppano sotto l’etichetta di “pre-materialistici”. Spostando lo sguardo su tali scritti, ci si accorse dicome la concettualità ruotante attorno all’immagine dialetticarientrasse in un contesto molto più ampio di quello meramentemetodologico e gnoseologico. Ci pare di poter racchiudere questocontesto all’interno di un tentativo di Benjamin di confrontarsi conil grande tema del mito.

Il confronto con questo tema esercitò indubbiamente ungrosso fascino e una potente attrazione sull’allora giovaneBenjamin e, in quegl’anni, non solo su di lui. Egli si spinse aindagare i legami che il mito intrattiene con la lingua, col diritto,con l’arte, con la storia, con la politica, con la tecnica. Indagineche, probabilmente, gli rivelò ben presto il carattere ambiguo edemonico e la forza pericolosamente seduttiva, che pertiene atutto ciò venga anche solo sfiorato dal mito.

Proprio il contatto col mito e la conoscenza delle suestrutture e dinamiche, unito alla sempre maggiore consapevolezzadei bui destini, che i venti venefici del mito si apprestavano adapparecchiare per gli anni a venire dell’Europa, spinsero Benjamina ingaggiarsi nella costruzione di barricate su tutti i fronti da luiraggiungibili. La sua posizione di intellettuale assunse così sempremaggior consapevolezza dell’intrinseca politicità del pensiero, edell’alto tenore politico che pertiene al pensiero come azione. Lalettera sulla lingua indirizzata a Buber e il saggio su Bachofen, percitare solamente due scritti apparentemente minori, sono un chiaroesempio di questa sua posizione.

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I numerosi fronti su cui Benjamin si trovò a contrastarequesta avanzata, sono riconducibili principalmente a due. Duefronti che, in certo qual modo, seppur tra loro opposti, sirivelarono, ai suoi lungimiranti occhi, come fondamentalmenteconvergenti.

Da un lato coloro che, allestendo veri e propri laboratori eofficine di miti, si dedicavano a quella che Kerény chiama“tecnicizzazione del mito”, con l’aiuto o, al massimo, il silenziodei sedicenti custodi della tradizione e del passato, dei Valori edegli Ideali; coloro che tentavano di spacciare un nuovoapparentemente rivoluzionario, ma, in realtà, legato potentementecon il marcio e la barbarie insite nella tradizione. Coloro che,nascosti da una maschera rivoluzionaria, lavoravano alacrementeper perfezionare i meccanismi e i rapporti di dominazione esfruttamento, con l’aiuto dei frutti avvelenati della piùipocritamente neutrale delle tradizioni: quella tecnico-medico-scientifica. Coloro che speravano in un mondo, dove i dominatipartecipassero attivamente alla propria dominazione (non senzaprima superare rigorose selezioni) trovando in ciò anche la propriarealizzazione, vale a dire la propria felicità. Dall’altra parte coloroche, forti di altrettanti Valori e paladini di altrettanti Ideali,dovevano apparire agli occhi di Benjamin come degliirresponsabili – e, dunque, corresponsabili – al galoppo delprogresso, ignari della catastrofe imminente; coloro che speravanoin un’autoestinzione degli avversari e in un autoriscatto deglioppressi, secondo le leggi deterministiche della loro concezionedella storia; tattica, questa, che, nella loro strategia politica,andava sotto il nome di “attesa della situazione rivoluzionaria”.

Proprio nell’affidarsi a Valori e Ideali, Benjamin scorgeva ilconvergere dei due fronti.1 Valori e Ideali si nutrivano di un insanorapporto con la tradizione e, più in generale, con la storia. Insanorapporto che trovava radici in una concezione storicistica dellastoria, che faceva dell’obiettività (presunta) e dell’accesso diretto

1 In una lettera a Rang del 1923, Benjamin scrive: « È proprietà comune della mancanza dicoscienza e della povertà di idee, quella di soffocare la pluralità etica delle idee sottol’opaca generalità del principio ».

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al passato il suo punto di forza. Benjamin puntò allora la suapotenza di pensiero sul rapporto con la tradizione, mostrandocome il passato non sia “là già da sempre”, ma sia “già da semprepassato” e, dunque, a priori, inaccessibile a uno sguardo diretto eobiettivante. Mostrando come il passato si apra alla conoscibilitàsolamente in un rapporto di polarizzazione, dove passato epresente dello storico si implicano e si modificano a vicenda.Mostrando come il passato dello storicismo fosse privo di contatticon la materica e dialettica “sostanza” del mondo: la vita,l’esperienza; come quel passato fosse confinato in una miticarigidità e di come divenisse, quindi, paradossalmente, ingombranteproprio per la sua inessenzialità. Benjamin mostrò come questainessenzialità, questa lontananza mitica, questo carattere astoriconon fossero per nulla tratti innocui, ma pericolosi e forieri disciagure e catastrofi. Quando, infatti, il mitico incombe sugliumani abitanti del mondo, i loro destini gli vengono sottratti peressere affidati a potenze oscure, a leggi non scritte. E che altrosono Valori e Ideali, se non Leggi non scritte depositate e garantitenel e dal mitico libro della Storia? Che altro sono se nondemoniche potenze che, sottraendo e custodendo per sé lacapacità di decisione, gettano gli umani nell’abisso senza fondo,ma luminosissimo di apparenze, della colpa? Apparenze chegiocano il loro potere seduttivo in tutti i piani della realtà: nellalingua, nel diritto, nella politica, nell’arte, ma anche nei dettagli:gli specchi, l’illuminazione, la pubblicità, i passages, lo spacciodei sentimenti, la moda… Con le sue riflessioni Benjamin mostròcome una tale idea di tradizione, dunque di storia, disinneschiogni progetto politico genuinamente rivoluzionario, trasformandosiin pesante fardello da onorare con culti e sacrifici (il sacrificio èuno dei fondamenti dell’ordine mitico). Mostrò come ogni futuro,che si produca a partire da tale visione, non possa essere altro cheun nuovo posticcio, un “sempre uguale ritorno dell’identico” (altrofondamento dell’ordine mitico) abbigliato e mascherato con lamoda corrente, vale a dire mera apparenza, tempo reificato giàpronto a inghiottire le speranze in esso riposte.

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Il nichilismo messianico che egli propone come metodo dellapolitica, va visto come una lama utilizzata per separare nettamenteogni trascendenza, sia essa volta al futuro che al passato, perrestituire passato e futuro alle singole e viventi individualità, nellaconsapevolezza che la redenzione non spetta a noi mortali, cuispetta solamente un avere a che fare con il qui e ora nella suacontingente cogenza. Con un qui e ora carico di tempo, ove ilpassato, sempre prossimo al tramonto, può, in ogni momento,riprendersi le sue possibilità e preparare la stretta porticina da cuipuò entrare il Messia.

L’immagine, nel suo carattere di apparenza, non può sottrarsia questa ambiguità, oscillando tra un carattere demonico,d’illusione, e uno più genuinamente salvifico-messianico.L’immagine dialettica, che dunque racchiude essa stessa unadialettica dell’immagine, divenne una sorta di operatore cheavrebbe dovuto, ponendosi dalla parte dell’apparenza salvifica,neutralizzare il carattere demonico-mitico dell’apparenza e fornireuna diversa idea di storia.

Di tutto ciò, nel presente lavoro, si troveranno solamentedegli accenni. Questo perché si è ritenuto necessario giungere,dapprima, a una maggiore e più chiara comprensione di quellache potremmo chiamare la preistoria dell’immagine dialettica,venendo a capo di questioni riguardanti la lingua, il mito, l’arte, lafilosofia nel loro rapporto con l’apparenza e con ciò che appare: ifenomeni. Diversamente, un approccio che avesse voluto subitomisurarsi con l’immagine dialettica, senza questo lavoropreparatorio, oltre a correre il rischio di risultare superficiale,avrebbe sicuramente incontrato nodi teorici che difficilmenteavrebbero potuto essere sciolti. Detto questo, è implicito il nostroaugurio di poter portare a termine questa ricerca in un futurolavoro, più direttamente incentrato sull’immagine dialettica el’immagine in generale.

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Ciò che voglio è distorcere la cosa ben al di làdell’apparenza ma, nella distorsione, ricondurla adessere testimonianza dell’apparenza.

Francis Bacon

1.1 Benjamin e Goethe.

Leggendo il libro in cui Scholem narra della sua amicizia conWalter Benjamin, troviamo, sparsi qua e là, degli accenniall’interesse che quest’ultimo nutrì per gli studi che Goethe dedicòal mondo naturale. Tra questi figura l’estratto di una lettera diBenjamin del settembre 1918 dove, tra l’altro, dice: « […] per cuinon ho lavorato, e in particolare non ho affrontato l’etica; incompenso, ho studiato molto Goethe, leggendo fra l’altro la suaMetamorfosi delle piante […] ».

Dato l’intento biografico del libro, Scholem non si soffermaqui in dettagli sui percorsi speculativi di Benjamin, il cuichiarimento è invece lo scopo di questo nostro scritto, anche se,vista la grande capacità di assimilazione e dissimulazione diBenjamin prima lettore e poi produttore di pensiero, il compitonon sarà agevole.2 Si tratterà di leggere la produzione naturalisticagoethiana, per rintracciarvi una chiave ermeneutica che cipermetta di aprire alla comprensione alcuni scritti benjaminiani.3

Questa apertura dovrebbe poi portare a individuare alcune ideeportanti del pensiero di Benjamin e a seguirle all’interno della suaapparentemente eterogenea opera.

2 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi, Milano 1992, p. 175. «Le sue facoltà intellettuali tendevano a fare di lui sempre più un commentatore di testiimportanti, intorno ai quali riusciva a cristallizzarsi il suo pensiero. Il suo talentospeculativo non si adoperava più tanto a escogitare cose nuove, quanto a penetrare il dato,interpretandolo e trasformandolo in senso paradigmatico ».3 Per i riferimenti alle edizioni delle opere di Goethe consultate, rimandiamo alla nostrabibliografia.

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È infatti nostra convinzione, che un chiarimento del concettodi immagine in generale, dell’immagine dialettica in particolare,nell’opera di Benjamin, possa agevolmente partire dal rapportoche questi intrattenne con il pensiero e le opere di Goethe.Leggendo la Morfologia, potremo chiarire il concetto diUrphänomen e di come Benjamin intenda l’immagine dialetticacome origine, come matrice generativa della storia – che poi sitrasforma nelle Tesi (ma già nel Dramma barocco) in monade –vale a dire il potere “redentivo-messianico” proprio dell’immagine;leggendo i saggi Per una critica della violenza, Sulla lingua ingenerale e sulla lingua degli uomini, Dramma barocco tedescopotremo approfondire il lato “mitico-oscuro-demonico”dell’immagine e i suoi legami col tema dell’apparenza, dellaviolenza, del mito e del diritto. 4

Questi testi, su cui verterà il confronto, mostrano cheGoethe divenne presto un autore di riferimento, come attestaanche l’importante posizione assegnatagli nell’economiaintellettuale della sua dissertazione di laurea Il concetto di criticanel romanticismo tedesco, nonché dall’esoterico saggio sulleAffinità elettive.5

Il lavoro cercherà di procedere a stretto ridosso dei testi, neiquali tenteremo di rintracciare quei passi che, più o menosegretamente, rinviano ad analoghe posizioni goethiane. Ci pareinfatti di poter scorgere una comunanza, un tratto comune traBenjamin e Goethe, nel tentativo di trovare una ratio, unlinguaggio, che salvino i fenomeni nella loro specificità e unità,mettendo a punto degli strumenti metodologico-conoscitivi atti afar parlare i fenomeni stessi, a far sì che i particolari, che il finito,nella sua sussunzione nell’universale operata dal pensiero, non siappiattisca sull’universalità astratta dei linguaggi scientificidominanti; a far sì, cioè, che gli uomini, nel loro pretendere a una

4 Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus novus, Einaudi, Torino 1962, pp.5-30; Id., Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, in Angelus novus, op. cit., pp.53-70; Id., Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi 1980 [d’ora in poi TP].5 Id., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Einaudi, Torino1982, pp. 3-116; Id., Le affinità elettive di Goethe, in Id., Il concetto di critica nelromanticismo…, op. cit., pp. 179-254.

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conoscenza oggettiva, non scambino le mediazioni dellaconoscenza per la realtà delle cose; a non trasformare la visione inconcetti, il concetto in parole e poi operare e agire con questeparole come se fossero cose.

1.2 Forma, apparenza e conoscenza.

Quando Goethe intraprese gli studi di botanica, sotto laguida del suo interesse per il mondo delle forme e delle lorometamorfosi, si distinse immediatamente dall’approccio dellamaggior parte dei botanici di allora. Questa sua distinzione, chetroviamo anche nell’approccio agli studi sulla natura del colore, fupagata a caro prezzo. Egli, per molto tempo, fu considerato nelmigliore dei casi un dilettante della scienza, quando non fosseaddirittura trattato come un tolemaico, a causa della sua polemicacon le posizioni newtoniane.6

A questa disciplina, che gli si andava man mano delineandotra le mani, egli dette il nome di Morfologia, ponendo anche moltaattenzione nel fornirla di una vera e propria autonomaepistemologia. Il tutto in maniera non sistematica, consegnando lesue riflessioni a scritti rintracciabili un po’ ovunque nella suaimmensa opera.

In quanto studio delle forme assunte dalla natura nelle suemetamorfosi, la Morfologia si delineò come descrizione erappresentazione di processi fenomenici, differenziandosi cosìsubito da altre ricerche di storia naturale. Scopo di quest’ultima èquello di determinare e classificare i fenomeni in base a un ordinecausale; scopo di Goethe è quello di descrivere la modalità stessadel loro apparire:

Giacché qui non si chiedono le cause, bensì le condizioni nellequali i fenomeni appaiono […].7

6 Per una più ampia considerazione di questo aspetto, cfr. G. Giorello e A. Grieco, Unabella successione di molteplici forme, in AA.VV, Goethe scienziato, a cura di G. Giorello eA. Grieco, Einaudi, Torino 1998, pp. 3-25.7 J. W. Goethe, Teoria della natura, Boringhieri, Torino 1958, p. 51.

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Nelle ricerche fisiche mi si impose la convinzione che, in ogniconsiderazione degli oggetti, il dovere supremo è di ricercareaccuratamente ogni condizione nella quale un fenomeno appare […]8

Questo concetto di apparenza suona a noi, oggi, come pocofamiliare, come indebolito dalla svalutazione operatanedall’idealismo. Questi lo ha infatti ridotto a involucro diun’essenza, a velo destinato a cadere con l’avanzata del sapere edella riflessione compiuti.

Per Goethe l’apparenza si configura, invece, come il darsidel mondo in immagine, come il dischiudersi di un mondo dotatodi senso. Per lui nell’immagine convergono sensibilità e intelletto,di modo che quest’ultimo non perda il contatto con l’esperienza ela prima possa acquisire una forma distinta. I sensi non sono perlui ostacoli, ma momenti di formazione e di verificadell'esperienza, luoghi in cui il fenomeno, lungi dal presentarsicome inganno e mistificazione, si costituisce come realtà perl'uomo:

Sono pochi, invero, quelli che si entusiasmano di ciò che apparesoltanto allo spirito. I sensi, il sentimento, la passione, esercitano su dinoi un potere ben più forte; e non a caso, poiché siamo nati non giàper osservare e meditare, ma per vivere.9

La questione dell’apparenza, lo si sarà capito, rientra nellapiù ampia problematica del valore dell’esperienza e del suorapporto con la conoscenza. Ciò che emerge dagli studinaturalistici goethiani – che si pongono in polemica aperta con lateoria dei colori di Newton, e, dunque, anche con l’equivalenteconcezione filosofica kantiana dell’esperienza – è la ricerca diuna via alternativa alla riduzione della realtà naturale a elementiunivocamente determinati, cercando invece di tradurre tale realtàin concetti che ne mantengano la differenziazione qualitativa. Ciòche Goethe non accetta è la rigida divisione e riduzione, da partedel razionalismo scientifico, della realtà in soggetto e oggetto,della riduzione della singolarità e peculiarità dei fenomeni a meraparticolarità. Ciò che propone è la riformulazione dei concetti di

8 Ibid., p. 66.9 Id., Opere, (a cura di L. Mazzucchetti), 5 voll., Sansoni, Firenze, 1961, vol. 5, p. 76.

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soggetto e oggetto in vista di un’idea di esperienza, che mantenga isuoi caratteri di unicità e compiutezza.

A ciò occorre aggiungere che, di pochi mesi precedenti lalettura degli scritti botanici di Goethe, e contemporanea allaredazione della tesi di laurea sul romanticismo tedesco, è lastesura dello scritto benjaminiano Sul programma della filosofiafutura.

In questo scritto Benjamin tenta di uscire dalle aporie dellafilosofia trascendentale kantiana, dovute, secondo lui, non a limitiimmanenti, ma all’impoverimento imposto dall’illuminismo allametafisica, non più in grado di coprire l’intero arcodell’esperienza:

Il fatto che Kant poté iniziare la sua straordinaria opera propriosotto la costellazione dell’illuminismo significa che questa fuintrapresa entro un ambito di esperienza ridotto per così dire al puntozero, al minimo di significato […] questo infimo concetto d’esperienzaha influenzato limitandolo anche il pensiero kantiano. Si intende conciò ovviamente proprio quel dato di fatto spesso rilevato come lacecità religiosa e storica dell’illuminismo.10

Il termine “metafisica”, in tale scritto, appare sì nel sensokantiano di “struttura della conoscenza di natura”, ma anche comepossibilità di un concetto che evada dai limiti criticistici entro iquali solo, in Kant, può costituirsi la conoscenza come sistemadella natura. Tale metafisica speculativa, dice Benjamin, fuintravista come possibile dallo stesso Kant, che non avrebbealtrimenti chiamato una sua opera Prolegomeni a ogni futurametafisica (libro che lo stesso scritto benjaminiano richiama neltitolo). Ciò, però, appunto, solamente sulla scorta di unarestituzione del concetto di esperienza alla sua integralità.

Detto questo, possiamo immaginare l’effetto che devono averprodotto in Benjamin gli scritti scientifici goethiani.

In uno scritto recante il titolo Glückliches Ereignis [Unfortunato evento] Goethe racconta del suo riavvicinamento a

10 W. Benjamin, Sul programma della filosofia futura, in Id., Metafisica della gioventù. Scritti1910-1918, Einaudi, Torino 1982.

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Schiller, avvenuto casualmente in una società di ricercatori discienze naturali, che teneva le sue riunioni a Jena.

Riportiamo qui alcuni passi significativi per la comprensionedella posizione goethiana, anche in riferimento all’allora grandeinteresse suscitato dalla filosofia di Kant (di cui Schiller costituivaun’entusiasta ammiratore):

Aveva accettato [scil.: Schiller] con gioia la filosofia kantiana cheinnalza a tanto livello il soggetto mentre sembra limitarlo; la filosofiakantiana sviluppava ciò che di straordinario la natura aveva portatonell’essere di Schiller, ed egli, nel più alto sentimento di libertà eautonomia, era irriconoscente con la grande madre che certo non loaveva trattato da matrigna. Invece di considerarla autonoma, viventenei suoi stadi più profondi fino a quelli più elevati, procreante secondoleggi, l’assumeva nella prospettiva di certe naturalità umane edempiriche. […] così l’enorme abisso tra i nostri due modi di pensare sispalancava in modo sempre più deciso.

Dopo aver raccontato dell’incontro alla riunione deinaturalisti, Goethe continua:

Schiller osservava molto ragionevolmente e acutamente e in unaforma a me molto gradita che un modo così frammentario [scil.: comequello dei naturalisti] di considerare la natura non poteva in nessuncaso piacere a quel profano che volentieri si sarebbe dedicato al suostudio. Risposi che per lo stesso studioso esperto esso probabilmenterimaneva inquietante e che poteva ben esserci altro modo di prenderein esame la natura che non quello che la isolava e la sezionava: sipoteva invece rappresentarla operante e vivente nella sua tensioneverso quel tutto che è nelle parti. Schiller […] non poteva ammettereche ciò che io sostenevo derivasse già dall’esperienza. Giungemmo acasa sua, la conversazione mi spinse a entrare; lì esposi animatamentela metamorfosi delle piante e con alcuni tratti di penna formai davantiai suoi occhi una pianta simbolica. […] Quando terminai, scosse latesta e disse: « Questa non è esperienza, è un idea. » Io replicai un po’seccato: infatti, il punto che ci divideva era, nelle parole di Schiller,indicato nel modo più rigoroso. […] il vecchio rancore stavarimettendosi in movimento; mi controllai e risposi: « Può farmi moltopiacere avere un’idea senza che lo sappia e perfino vederla con gliocchi. » […] Schiller replicò da colto kantiano […] Sono frasi comequeste che mi rendono del tutto infelice: « Come può essere dataun’esperienza che sia conforme a un’idea? specificità di un’idea

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consiste infatti nell’impossibilità di avere un’esperienza che siaconseguente a essa. »11

Apparirà ora più chiara la similarità tra l’intento del progettogoethiano e quello benjaminiano: l’indagine e la riflessione sulleforme dell’esperienza, in vista di una “fondazione gnoseologica diun concetto superiore di esperienza”. Ciò significava per Goethe –e per Benjamin – l’individuazione di una nuova metafisica, con laquale poter calare la conoscenza autentica così profondamentenell’esperienza empirica, da potersi dare verità anche del caduco edel fragile.

Pur non volendo condurre, con questo scritto, un lavorofilologico sulle fonti benjaminiane, ci pare utile segnalare qui duescritti goethiani in cui appare il problema della Darstellung.12

In tali studi – risalenti all’incirca al 1795 e recanti i titoli diBegriffe einer Physiologie e di Betrachtung über Morphologieüberhaupt [rispettivamente: Concetti per una fisiologia eOsservazioni sulla morfologia in generale] – Goethe si pone ilproblema della differenza epistemologica che corre tra la“spiegazione” [Erklärung] e “l’esposizione” [Darstellung]:

Necessità di radunare tutti i modi di rappresentazione [Art ihrerDarstellung] non di spiegare [erklären] le cose e la loro essenza, ma direndere conto in qualche modo dei fenomeni e comunicare ad altri ciòche si è visto e conosciuto.13

E ancora

11 J. W. Goethe, La metamorfosi delle piante, op. cit., pp. 97-98.12 Problema centrale in Benjamin – e non solo in lui – che consiste nell’interrogarsi sullanon neutralità del rapporto esposizione-conoscenza; stile-verità; forma-idea. Per questeproblematiche, inserite nel contesto del rapporto arte e filosofia, cfr. M. Carboni, Non vediniente lì?, Castelvecchi, Roma 1999, pp. 61-63.13 Betrachtung über Morphologie überhaupt, trad. it. in La metamorfosi delle piante, cit., pp.100-1. Spiegare le cose e la loro essenza significa giudicarle, irrigidirle nel loro divenire,esaurirle, pretendere di compierle, sezionarle, ma, nel Frammento Teologico-politicoBenjamin scrive: « Solo il Messia stesso compie ogni accadere storico e precisamente nelsenso che egli soltanto redime, compie e produce la relazione fra questo e il messianicostesso. Per questo nulla di storico può volersi da se stesso riferire al messianico. »

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La morfologia può essere considerata o come dottrina a sé, o comescienza ausiliaria della fisiologia14 […]. Proponendosi solo di esporre,non già di spiegare, essa accoglie il meno possibile dalle altrediscipline ausiliarie della fisiologia […]. La morfologia deve contenerela teoria della forma, formazione e trasformazione dei corpi organici[…].15

Il problema della Darstellung, che costituirà il centro teoricodella Premessa gnoseologica al libro sul TRAUERSPIEL, sembra,quindi, rientrare nell’influenza che Goethe poté esercitare sulbenjaminiano tentativo di andare oltre le limitazioni che lafilosofia kantiana pone all'indagine sulla natura. Intento cheBenjamin condivise, oltre che con Goethe, anche con i romanticitedeschi oggetto della sua tesi di laurea: traduzione della realtà enon sua riduzione. In questo atteggiamento andrebbe forsericercata l'importanza che la traduzione assumerà per i romanticie, poi, per Benjamin stesso. Compito della Darstellung sarà proprioquesto: tradurre il singolare nell'unità dell'idea, anziché ridurloall'universalità astratta del concetto. Compito che – comesottolinea l’epigrafe goethiana, tratta dai Materialien zur

14 Ci sembra significativo riportare qui una definizione che Goethe da della fisiologia e chesi trova nei due scritti da cui sono tratte queste citazioni: « E poiché la fisiologia èquell’operazione dello spirito con cui, osservando e ragionando, tendiamo a ricomporre untutto dal vivo e dal morto, dal noto e dall’ignoto, dal compiuto e dall’incompiuto, un tuttoche sia visibile insieme ed invisibile, il cui aspetto esterno debba apparirci solo come untutto, il cui interno solo come una parte, e le cui manifestazioni e operazioni rimanercisempre misteriose, si vede subito perché la fisiologia sia così a lungo rimasta, e forse siacondannata in eterno a rimanere, in ritardo: l’uomo non cessa mai di sentire i propri limiti,ma di rado è disposto a riconoscerli ».15 Ibid., pp. 100-103. Non avendo potuto confrontare la traduzione con il testo tedesco, nonne siamo sicuri, ma l’ultimo sintagma “forma, formazione e trasformazione” potrebbe essereun espediente del traduttore per rendere ciò che Goethe, probabilmente, avrebbe potutoesprimere con un unico concetto: Bildung. Nella Formazione e trasformazione delle natureorganiche, scritto a Jena nel 1807 e pubblicato nel 1817 nel primo quaderno di Morfologia,Goethe discute infatti sull'esigenza di « conoscere il vivente in quanto tale » cogliendolocon una visione intuitiva e propone una distinzione molto importante tra il concetto diGestalt e quello di Bildung. « Per indicare il complesso dell'esistenza di un essere reale, iltedesco si serve della parola Gestalt, forma; termine nel quale si astrae ciò che è mobile, esi ammette stabilito, concluso e fissato nei suoi caratteri, un tutto unico. Ora, seesaminiamo le forme esistenti, ma in particolar modo le organiche, ci accorgiamo che inesse non v'è mai nulla di immobile, di fisso, di concluso, ma ogni cosa ondeggia in uncontinuo moto. Perciò il tedesco si serve opportunamente della parola Bildung, formazione,per indicare sia ciò che è già prodotto, sia ciò che sta producendosi. » (Op5, 77-78).

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Geschichte der Farbenlehre e posta in apertura del libro sulTRAUERSPIEL – avvicina molto la filosofia, il sapere, all’arte:

Poiché nel sapere come nella riflessione non si può mettereinsieme un tutto, in quanto a quello manca l'interno, a questal'esterno, noi dobbiamo di necessità pensare la scienza come un'artese da essa ci aspettiamo un genere qualsiasi di interezza. E questa nondobbiamo cercarla nell’universale, nel ridondante, bensì, come l'arte siespone sempre tutta in ogni singola opera d'arte, così la scienzadovrebbe pure ogni volta mostrarsi in ogni singolo oggetto trattato.16

Tale trasposizione delle categorie naturalistiche goethianenell’ambito estetico verrà così legittimata da Benjamin:

Gli studi di scienza naturale di Goethe occupano nell’intrecciodella sua opera letteraria il posto che riveste spesso l’estetica in artistimediocri… Goethe appartiene a quella famiglia di grandi spiriti, per iquali in fondo non si dà un’arte in senso stretto. Per lui la dottrinadell’Urphänomen in quanto scienza della natura fu al tempo stesso lavera dottrina dell’arte, come per Dante lo furono la filosofia dellascolastica e per Dürer le arti tecniche.17

Un’ulteriore conferma possiamo trovarla in uno scritto oveGoethe, un po’ sconsolatamente, traccia un resoconto delleincomprensioni che produsse il suo scritto sulla metamorfosi dellepiante:

[…] nessuno voleva ammettere che si potessero combinare scienzae poesia. Si dimenticava che la scienza è uscita dalla poesia, né siconsiderava che, mutando i tempi, le due potrebbero amichevolmenteritrovarsi, con reciproco vantaggio, su un piano superiore.18

Tornando al valore dell’apparenza, non sarà inutile leggereun frammento di Scholem – risalente al soggiorno svizzero delmaggio-giugno 1918 – con cui introdurre il posto che talequestione occupa nelle riflessioni di Benjamin:

16 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 3.17 Id., La politica e l’intuizione della natura di Goethe, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II 2,pp. 719-20. Cfr. anche, su questo tema, l’ultima parte della tesi di laurea di Benjamin Ilconcetto di critica nel romanticismo tedesco.18 J. W. Goethe, Schicksal der Druckschrift, trad. it., Vicende dell'opuscolo, in Id., Lametamorfosi delle piante, op. cit., p. 86.

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Fin dall’inizio discutemmo a lungo sul suo Programma dellafilosofia futura. Egli parlò del contenuto del concetto di esperienza, sucui l’opera si fondava, e che secondo il suo intendimento abbracciavail legame spirituale e psicologico dell’uomo con il mondo, quale sirealizza negli ambiti che non sono stati ancora penetrati dallaconoscenza. Quando osservai che, di conseguenza, si sarebberolegittimamente potute includere in tale concetto di esperienza anche lediscipline divinatorie, egli mi rispose con questa formulazione estrema:« Una filosofia che non comprenda in sé e non sia in grado diesplicare la possibilità della divinazione a partire dai fondi di caffè,non può essere una vera filosofia. » […] E’ partendo da questeprospettive (e certo non da quella di una presunta tossicomania...) chesi spiega il vivo interesse da lui dimostrato saltuariamente per leesperienze con l’hashish. Già in Svizzera, dove in seguito vidi sul suotavolo Les paradis Artificiels di Baudelaire, egli mi parlò, nel corso diuna discussione sul saggio citato, dell’ampliamento dell’esperienzaumana che a luogo durante le allucinazioni, che a suo parereincludevano sempre qualcosa di più di quanto non sia espresso in untermine come “illusione”. Di Kant egli diceva che aveva “posto ifondamenti di un’esperienza di rango inferiore”.19

Stabilire il valore dell’apparenza per Benjamin risultacomplesso e ce ne occuperemo più avanti. Vorremmo peròintrodurre qui il tema.

Sicuramente c’è in Benjamin un valore positivodell’apparenza in quanto darsi dei fenomeni, nella misura in cuiquesto avviene nel mondo profano che, come dice nel frammentoteologico-politico, è radicalmente separato dal mondo messianicoove ogni cosa risplende trasfigurata alla luce della parusia. Proprioquesta separazione radicale, però, getta una luce d’ombrasull’apparenza, aprendo per essa la possibilità di vedersiconsegnata all’ambito del demonico, del mitico, del caduco,sottraendola alla sfera della creazione ove solo possono darsi ilbene e la giustizia. E però questa separazione, che trattiene gliumani al di qua del messianico, li costringe a misurarsi con questilati oscuri. Non per nulla Benjamin auspica come metodo dellapolitica mondiale il nichilismo.

19 G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un'amicizia, op. cit. pp. 99-100.

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L’apparenza pare dunque configurarsi come ambito ambiguoe paradossale che, proprio in questa paradossalità, racchiude uncompito: precisamente il compito della sua redenzione. Infatti,nonostante solamente il Messia possa redimere, compiere eprodurre la relazione tra l’accadere storico e il messianico stesso,purtuttavia l’ordine profano del Profano può favorire l’avvento delregno messianico:

Il Profano non è, dunque, una categoria del Regno, ma unacategoria - e certamente una delle più pertinenti - del suo più facileapprossimarsi.20

1.3 Conoscenza e salvataggio dei fenomeni.

In un frammento non pubblicato da Goethe e datato 15gennaio 1978, che può considerarsi un’appendice a una letterainviata a Schiller due giorni dopo, egli traccia quello che dovrebbeessere il metodo della sua morfologia e quelli che sono i pericolida cui debba guardarsi:

V’è però una grande differenza se, come fanno i teorici, per amordi un ipotesi si riempie di file di numeri un frammento d’esperienza, ose si sacrifica il frammento empirico all’idea del fenomeno puro.Infatti, poiché l’osservatore non vede mai con gli occhi l’Urphänomen,ma molto dipende dal suo stato d’animo, dalle condizioni dell’organoin quel dato momento, dalla luce, dall’aria, dalla situazioneatmosferica, dai corpi, dal modo di trattarli e da mille altrecircostanze, pretendere di attenersi all’individualità del fenomeno eosservarla, misurarla, soppesarla è come pretendere di bere un mare .21

Questa impossibile pretesa di attenersi all’individualità delfenomeno (empirico), come dice Goethe, la ritroviamo in alcuneconsiderazioni che Benjamin fa nella sez. N del libro sui passages,segnatamente nel frammento N 2,3 a proposito dello statusdell’oggetto di una storiografia materialistico-dialettica. Egli

20 W. Benjamin, Frammento teologico-politico, in Id., Il concetto di critica nel romanticismotedesco, op. cit., p. 171.21 J. W. Goethe, Erfahrung und Wissenschaft, trad. it., Esperienza e scienza, in Id., Lametamorfosi delle piante, op. cit., p. 135.

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afferma che « l’essere di allora » dell’oggetto storico non puòpretendere a una sua consistenza in sé, a una sua individualità, inquanto esso si concretizza in se stesso (nel suo essere attuale)solamente grazie all’interesse che lo storico pone in quell’oggetto.Quest’interesse non è un interesse arbitrario, ma si precostituiscenell’incontro tra l’immagine del passato e il qui e ora dello storico,della sua situazione presente, in virtù di quell’indice segreto che ilpassato reca con sé e che lo rinvia alla redenzione.22

Occorre qui una precisazione lessicale: spesso, nelletraduzioni italiane, il termine goethiano Urphänomen viene resocon “fenomeno puro”, tralasciando così di sottolineare ciò che dipiù significativo Goethe intendeva designare con questo termine.L’Urphänomen è infatti ciò che, restando invariato nellamolteplicità e nella metamorfosi infinita delle forme, si pone comeorigine delle stesse, ma non come arché, come punto d’origine dacui poi le forme si allontanano, piuttosto come un’origine cherimane attiva entro ogni forma, quasi come suo “motore interno”,come sua fonte; infatti ogni forma è come tale trasformata, ed èegualmente lontana dall’Urphänomen come lo è qualsiasi altra.Dunque per Goethe la dinamica delle trasformazioni non varintracciata nel principio di causalità, ma nel fatto che ogni eventocostituisce la condizione perché l’evento successivo appaia; ecostituendo tale condizione un restringimento dell’infinitamolteplicità delle manifestazioni della forma, occorrerà di volta involta leggere ogni forma limitata alla luce dell’Urphänomen percomprendere il senso e la logica della sua condizione rispetto aquelle prossime o remote. L’Urphänomen, quindi, come origineche si invera nella stessa successione delle forme, come naturanaturante immanente ai fenomeni, sorgente insita nel darsi stessodell’apparenza. Quindi il tipo, l’Urphänomen genera le moltepliciforme; è origine nel senso che da origine; perciò precede lamolteplicità delle forme sul piano logico, ma non su quelloontologico; egli si da come primum, non come derivato, come

22Il topos di quest’incontro tra l’interesse e il suo oggetto non è altri che ciò che Benjaminchiama immagine dialettica.

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ricavato per induzione dalle molteplici forme; si da come purapossibilità es-posta nelle forme; come infinito nel finito.

Willst Du ins Unendliche schreiten,| Geh im Endlichen nach alleSeiten.

Goethe vuol giungere a un procedimento che non siacostrittivo e che non pieghi l’apparire dei fenomeni a ipotesipreformate; vuole cogliere le leggi dei fenomeni nel fenomenostesso:

L’ideale sarebbe capire che ogni elemento reale è già teoria.Soprattutto non si cerchi nulla dietro i fenomeni: essi sono la teoria.23

Un’origine, insomma, che si invera nella stessa successionedelle forme.

Ecco perché ci pare più appropriato tradurre Urphänomencon “fenomeno originario” o, ancora meglio, con “fenomenooriginante”; quando infatti un participio – o un nome derivato daun participio (come tratto, ousia …) – si fa incontro a noi nellalingua, occorre sempre porre attenzione alla dimensione temporaleche esso ci indica (una determinazione che in qualche modoattiene al movimento) non fermandosi solamente alla prospettivaspaziale che resta, invece, in certo qual modo, attinente aun’immobilità (vedi, ad esempio, la sostanziale differenza chepassa tra substantia e ousia).

Proseguendo nella lettura del frammento precedente, eterminando con essa queste considerazioni lessicali, appariràevidente l’inadeguatezza della resa in italiano con “fenomenopuro”.

Goethe continua con la descrizione del suo metodo dilavoro, distinguendolo in tre fasi: percezione in natura delfenomeno empirico (che, come tale, è sempre frammento) chediviene, tramite esperimento – vale a dire tramite variazionecontrollata delle condizioni e circostanze in cui il fenomenoempirico si manifesta – fenomeno scientifico e, da ultimo, comerisultato di tutte le esperienze e di tutti gli esperimenti,Urphänomen. Di questo Goethe dice:

23 MuR, 565.

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Esso non può mai essere isolato, ma si mostra in una serie costantedi fenomeni: per rappresentarlo, lo spirito umano determinal’empiricamente oscillante, esclude il casuale, isola l’impuro, sviluppal’incerto e scopre l’ignoto. 24

Ecco che questo suo non presentasi mai isolato, ma semprein una serie costante di fenomeni, impedisce di chiamarlo “puro”[rein], pena la caduta in un ossimoro.25

A questo punto scopriamo di essere giunti proprio ove laconnessione tra Benjamin e Goethe è più salda. Troviamo inquesto passo goethiano un piccolo sunto di alcuni importantipensieri benjaminiani.

Nella Premessa al libro sul TRAUERSPIEL, Benjamin si pone,come già detto, il problema del metodo della Darstellungfilosofica. Di contro al sistema come forma della filosofia del XIXsecolo, egli rivendica l’inconclusività che pertiene all’autenticofilosofare. La forma della Darstellung filosofica non può esserequalcosa di estrinseco al modo più proprio del darsi stesso dellaverità. Il filosofare dovrà essere attento a situare i fenomeni in unaluce tale, che permetta loro di svelare da soli i nessi reciproci e leloro segrete costruzioni; dovrà indugiare presso di essi econtinuamente riaccostarli da capo, rinunciando alla sillogisticacontinuità del processo di pensiero, propria, appunto, dei sistemifilosofici. La verità non dovrà essere esplicitazione del mistero, marivelazione che gli rende giustizia, pena:

[…] un sincretismo che cerca di catturare la verità in una ragnatelatesa tra le conoscenze, come se la verità venisse da fuori, volando.26

Il metodo della Darstellung filosofica dovrà essere,propriamente, una Umweg, una via indiretta, un girare attorno aifenomeni che sfugga l’irrigidimento totalitario del sistema e la suainarrestabile catena dialettico-deduttiva.

A tale metodo corrisponde, come ben determinato genereletterario, il trattato.

24 [Corsivo nostro].25 Ancora più errato sarebbe intendere la sua purezza in senso kantiano, come a priori:proprio l’a priori Goethe contesta a Schiller.26 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1980, p. 4.

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La rinuncia a un decorso ininterrotto dell’intenzione è il suo primocontrassegno. Il pensiero, sobriamente, riprende da capo,circostanziatamente torna alla cosa stessa.27

Solo esso consente una comprensione non univoca delfenomeno, che salvi la plurivocità dei suoi significati.

Questa incessante respirazione è la più specifica forma d’essercidella contemplazione. Poiché in quanto essa, nell’osservazione[Betrachtung] di un unico e medesimo oggetto ne segue i diversi gradidi senso, ottiene un impulso a un sempre rinnovato avvio e insieme lagiustificazione della sua ritmica intermittente. Come nei mosaici, incui la frammentazione in capricciose particelle non lede la maestà, lameditazione [Betrachtung] filosofica non soffre una perdita di slancio.Gli uni e l’altra si compongono di elementi singoli e disparati; nullapotrebbe insegnare più potentemente il trascendente impeto delleimmagini dei santi come della verità.28

Tutto ciò non significa dispersione nella mera particolarità,ma consapevolezza del carattere trascendente, del valoredifferenziale, diacritico della verità, che appare fulminea tra gliestremi che costituiscono l’idea. Tutto ciò mira a quel platonicosalvataggio dei fenomeni nella loro unicità.

Questa scoperta fu fondamentale: Benjamin nonl’abbandonerà più. In essa possiamo trovare già il nucleo teoricogerminale della concettualità che ruoterà attorno alla categoriadell’immagine dialettica: la sua fulmineità, la sua condizione disospensione della dialettica, il suo carattere per certi versiinvolontario, il suo legame con un’esperienza ove soggetto eoggetto abbandonano la loro rigida contrapposizione, il suocarattere sintetico e apparentemente “a priori”, il suo dipenderedalla prontezza di spirito e dalla presa salda dell’osservatore…

Egli stesso fu cosciente del legame teorico che connetteva isuoi lavori alle scoperte fatte durante il lavoro sul TRAUERSPIEL edel contributo che a esse dettero gli studi goethiani; in unframmento che si trova nella sezione gnoseologica dei Passages,leggiamo:

27 Ivi.28 Ibid., pp. 4-5.

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Durante lo studio dell’esposizione simmelliana del concetto diverità in Goethe, mi apparve con molta chiarezza che il mio concettodi Ursprung nel libro sul dramma barocco è una rigorosa e cogentetrasposizione di questo fondamentale concetto goethiano dal campodella natura a quello della storia. Ursprung: è il concetto diUrphänomen ripreso dalla connessione pagana della natura e ripostonelle connessioni giudaiche della storia. Ora, nel lavoro sui passages,ho a che fare ancora con un’esplorazione dell’origine. Io inseguo,cioè, l’origine delle figure e dei mutamenti dei passages dal loro iniziofino al loro declino, e la colgo nei fatti economici. Questi fatti,considerati dal punto di vista della causalità, cioè come cause, nonsarebbero affatto un Urphänomen – lo diventano solo in quanto, nelproprio stesso svolgersi [Entwicklung] – meglio sarebbe detto nel lorodipanarsi [Auswicklung] – fanno sorgere dal loro seno la serie delleconcrete forme storiche dei passages, come la foglia dispiega da sél’intero regno dell’empirico mondo vegetale.29

E ancora:

Al pensiero appartiene tanto il movimento quanto la sospensionedei pensieri. L'immagine dialettica appare là, dove il pensiero si arrestain una costellazione satura di tensioni. Essa è la cesura nel movimentodel pensiero. Naturalmente il suo non è un luogo qualsiasi. Essa vacercata, in una parola, là, dove la tensione tra gli opposti dialettici è almassimo. […]30

Negli ambiti, con i quali abbiamo a che fare, si dà soloconoscenza fulminea. Il testo è il tuono che lungamente continua poi arintronare.31

Aspetto pedagogico di questo proposito: « Educare in noi ilmedium creatore di immagini allo sguardo stereoscopico edimensionale nella profondità delle ombre della storia. » La frase ètratta da Rudolf Borchardt, Epilegomena zu Dante, I, Berlin 1923, pp.56-57.32

Un deciso distacco dal concetto di " verità atemporale " èopportuno. La verità, però, non è – come pensa il marxismo – solo una

29 Id., Parigi capitale del XIX secolo. I passages di Parigi, Einaudi, Torino 1986, fr. 2a, 4,[aggiunta manoscritta al TP].30 Ibid., fr. N 10a, 3.31 Ibid., fr. N 1, 1.32 Ibid., fr. N 1, 8.

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funzione temporale della conoscenza, ma è legata a un nocciolotemporale contemporaneamente riposto nel conosciuto e nelconoscente. Questo è così vero, che l'Eterno in ogni caso è piuttostouna gala al vestito che un'idea.33

Quest’ultimo frammento può essere fruttuosamente accostatoa una nota espressione di Goethe, aiutandoci anche a capire checosa quest’ultimo intendesse dire a Schiller esclamando di potervedere un’idea.

Vi è un empirismo delicato che s’identifica nel modo più intimocon l’oggetto e così diventa vera e propria teoria. Ma questopotenziamento delle capacità intellettuali appartiene a un’epoca dialta cultura.34

Si capisce che la “delicata empiria” è proprio il luogo dove sida l'esperienza di una verità che salva l’unicità del fenomeno.Quando più sopra si è accennato al carattere trascendente dellaverità, infatti, occorre stare attenti a come si intende talepeculiarità. La trasposizione dell’Urphänomen nel contesto dellastoria come concetto di Ursprung, infatti, contiene anche unacritica a Goethe e al fatto che in lui l’Urphänomen tende aconfondersi con il modello, con l’archetipo [Vorbild, Urbild],oscillando così tra idealismo oggettivo (le idee sono concetti dellecose) e trascendentalismo kantiano (le idee sono le leggi dellecose). E infatti nel frammento N 2a, 4 sopra citato, l’aggettivopagana sta a indicare la miticità dell’Urphänomen goethiano, ilsuo carattere di fondamento eterno della vita che si evolve e mutanel tempo, la valenza classica e archetipica di tale nozione diorigine, privata della sua valenza storica e sottolineataampiamente dal culto della natura, dal panteismo goethiano.35

Ursprung è invece un « vortice che sta nel fiume del diveniree trascina dentro la sua ritmica il materiale della nascita »; ciòsignifica che l’Ursprung recupera la sua valenza trascendentale

33 Ibid., fr. N 3, 2.34 MuR, 565.35 Questo carattere mitico viene affermato esplicitamente da Benjamin nell’ultima parte deIl concetto di critica nel romanticismo tedesco. Lo stesso tardo Goethe porrà capo aun’integrale riformulazione delle sue dottrine sull’Urphänomen, con la scena della discesaalle madri che sta al centro delle intenzioni del secondo Faust.

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solamente riaffermando pienamente il suo originario peso storico-effettuale.

Tornando al frammento citato più sopra sull’analogia tra iltrattato e il mosaico, possiamo pensare di individuarvi un primoaccennarsi di quello che sarà poi il metodo con cui “provocare”immagini dialettiche. Mi riferisco alla teorie benjaminiane dellacitazione, del montaggio e degli “scarti”, dell’insignificante edell’Ausdruckslose.36

Giunti a questo punto, prima di cimentarci con l’esposizionedel modello filosofico che emerge dagli scritti benjaminiani sopracitati, vorremmo proseguire il nostro scritto cercando di sondare leorigini della scoperta benjaminiana della Darstellung. Qui, sempretenendo presente lo scopo di questo studio – ossia l’immagine –dovremo cercare di venire a capo di questioni quali l’apparenza,la violenza, il diritto, il giudizio.

36 Cfr. per queste la sezione K e la sezione N del libro sui passages, ma anche i saggi suBrecht, sull’opera d’arte, sulla fotografia nonché lo scritto Einbahnstraße.

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2.1 Mito, violenza e apparenza.

Il mito è un’immagine in pieno sole, sottratta allaluce-ombra della storicità.

Massimo Raffaelli

Riprovevole è ogni violenza mitica, che pone il diritto, e che sipuò chiamare dominante.37

La violenza mitica pone il diritto nel senso che pone leggi,regole, che trasformano uomini e donne immediatamente incolpevoli: li gettano nel mondo della colpa ove sottostanno a ungiudizio permanente.

Ciò perché uomini e donne, nell’ambito mitico, occupanouna posizione di perenne separazione da queste forze, ne sonoschiacciati in quanto non possono prendervi parte.38 Ed è la loroimpotenza nei confronti di queste forze e del diritto da loro postoe configurato, nei confronti del loro potere, che trasforma tali forzein potenze mitico-demoniche, vale a dire in potenze capaci diviolenza distruttiva.39

37 W. Benjamin, Per la critica della violenza, op. cit., p. 30.38 Cfr. frammento di Anassimandro: « Il principio degli esseri è l'indefinito [...] In ciò da cuigli esseri traggono la loro origine, ivi si compie altresì la loro dissoluzione, secondonecessità: infatti reciprocamente scontano la pena e pagano la colpa commessa, secondol'ordine del tempo. » In questo frammento l’individuazione degli esseri, la loro separazionedal tutto originario, costituisce un ingiustizia (adikías) che gli esseri debbono espiare.Ingiustizia che nulla ha a che fare con la volontà di un creatore, ma possiede carattereinevitabile: è destino, è ingiustizia fatale. A tale situazione di colpevolezza metafisica siriferisce Benjamin con l’espressione: « Il destino è il contesto colpevole di ciò che vive », ocon quest’altra: « Forse Hebbel era sulla giusta strada, quando vide nell’individuazione lacolpa originale […] ».39 Mi preme qui sottolineare come “l’ambito mitico” non vada inteso storicisticamente comegià e ben situato in un preciso momento storico – la Grecia arcaica – ma come concettocritico, come Urphänomen che agevola la comprensione di tutta una serie di fenomenirintracciabili – in maniera più o meno marcata – in ogni epoca. Di tale consapevolezza daprova lo stesso Benjamin – a pag. 29 del saggio qui in questione – affermando che « […]

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A ogni loro passo uomini e donne, che vivono in totaleseparazione dalle forze demoniche e in totale assoggettamento allaloro violenza costituente il diritto, uomini e donne che vedono leloro relazioni (con gli altri esseri umani, con gli dei, con le cose)regolate da statuti giuridici40 nei confronti dei quali sono impotenti,perché separati e cioè ignari di esse, tale umanità si trova nellapossibilità continua di poter infrangere queste regole senzasaperlo. Regole che tracciano confini posti dal diritto mitico(confini difesi e vigilati dalle forze mitiche), dal suo potere;41

confini che tratteggiano la separazione tra mondo degli dèi emondo degli uomini:

Creazione di diritto è creazione di potere, e intanto un atto diimmediata violenza

e potere è

il principio di ogni diritto mitico.42

Dunque potere-diritto-violenza appaiono intrinsecamenteconnessi, come risuona nel lemma tedesco Gewalt.43

Questa continua possibilità di superare i confini, diinfrangere leggi non scritte, fa sì che uomini e donne possano, inogni momento, incorrere nel castigo. Questo “in ogni momento” l’impero del mito è già scosso qua e là nel presente […] », ma anche nelle sue analisi delrapporto uomo-tecnica o in quelle sulla tragedia greca di contro al Trauerspiel.40 Cfr. W. Benjamin, Destino e carattere, in id., Il concetto di critica nel romanticismotedesco, Einaudi, Torino 1982, p. 120.41 Cfr. Id., Per la critica della violenza, op. cit., pp. 24-25.42 Ibid., p. 24.43 Occorrerebbe verificare come tale ambito mitico abbia sempre a che fare con ciò cheBenjamin, nel saggio sull’opera d’arte, definisce valore cultuale, o, meglio, di comequest’ultimo trovi fondamento nell’ambito mitico. Questo valore conferisce ai fenomeni ditale ambito il loro carattere auratico, vale a dire il loro carattere di ineliminabileseparatezza e inavvicinabilità. A ciò si lega la necessità delle comunità umane diapprontare tecnologie con cui superare tale iato: riti e sacrifici. Loro fine èl’immedesimazione (Einfühlung) nelle potenze inavvicinabili. Loro termine (limite) è laconferma dell’esistenza della separazione e dell’inadeguatezza di ogni tentativo disuperarla in tal modo. Da tale verifica – che andrebbe condotta sull’opera d’arte (ad es. sulteatro borghese vs. cinema e teatro epico, ma anche sull’intenzione benjaminiana di attuareun superamento filosofico del surrealismo, posto quest’ultimo come tentativo di creare unamitologia moderna [cfr. Le paysan de Paris di Aragon]), su diritto vs. giustizia, sul concettodi storia (storicismo vs. nichilismo messianico) – dovrebbe emergere il carattereeminentemente politico del pensiero di Benjamin su tali questioni.

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assume il senso della minaccia e, più propriamente, di un destinominaccioso. « Il potere che conserva il diritto è quello cheminaccia ».44 Ecco allora che uomini e donne nell’ambito miticosoccombono perennemente a un « destino minaccioso di castigo ».Castigo, perché l’intervento del diritto è volto a punire l’infrazionedi leggi non conosciute e non scritte; altrimenti sarebbe pena.Minaccioso, perché privo di quella determinatezza e precisione,sia nei confronti del soggetto colpito, sia verso lo scopo, tipicheinvece dell’intimidazione.

Questa violenza coronata dal destino, che è origine miticadel diritto, si manifesta apertamente nel potere supremo, quello divita e di morte, in cui il diritto si conferma e si rifonda più che inogni altro atto giuridico, aprendo altresì lo spazio della colpacome topos dell’umanità.

Il diritto non condanna al castigo, ma alla colpa. Il destino è ilcontesto colpevole di ciò che vive.45

Perciò gli umani, viventi nell’ambito mitico in questaminaccia continua al proprio essere (alla propria nuda vitaportatrice di colpa) e all’essere del mondo che li circonda,sperimentano l’esistente come apparenza; vedono come ogni cosamostri già nel suo nascere una subitanea inclinazione al nonessere; vedono questo non essere come destino, e, schiacciatidall’obiettività del mito, sperimentano l’originaria colpadell’esistente (colpa come essere in debito, come mancanza, comefragilità ontologica).46

44 Ibid., p. 14.45 Id., Destino e carattere, op. cit., p. 121.46 Questa tendenza generale al non essere, questa consistenza umbratile dell’esistente, fa sìche tratto comune dell’arte antica sia – come emerge dalle analisi di Riegl – il tentativo didelineare nettamente gli individui (umani e cose) rispetto allo spazio circostante (spazioche, non a caso, è riempito-dominato da tutta la pletora delle forze-personaggi mitico-demoniche); la loro precisa individuazione, vale a dire il loro maggiore valore ontologico,permette agli individui di essere se stessi e di non confondersi col caos, di non svanire nelnon essere, senza lasciare traccia alcuna. Uguale tendenza – con alcuni aggiustamenticoncettuali – utilizzerà Benjamin nel suo saggio su Kafka; a p. 281 (in Angelus novus)possiamo leggere: « Ciò che appare in forma libera e sciolta nel fare di questi messaggeri, è,in modo più pesante e più cupo, la legge di tutto questo mondo di creature. Nessuna ha unposto fisso, contorni netti e inconfondibili; nessuna che non sia in atto di salire o di cadere[…] Non si può nemmeno parlare di ordini o di gerarchie. Il mondo del mito, che

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Questa obiettività del mito altri non è che l’obiettività dellaseparazione, l’obiettività della colpa, che, però, alla luce dellagrazia divina, apparirà invece come ingannevole oggettività,rivelando la natura di “ciarla” dell’intero ambito demonico-mitico.

L’acosmismo – che si può indicare come trattocaratterizzante la tradizione giudaico-cristiana nella sua lotta perla liquidazione del mito –risolve il problema del destino mitico,anteponendo alla separazione produttrice di colpa (quella trauomini e dèi) una più originaria separazione tra Dio e creazione,nella quale il primo emette un giudizio di bontà sulla seconda.47

Bontà che non ha nulla di morale, ma si presenta come confermadella bontà ontologica della creazione. Nell’acosmismo lacaducità creaturale, il lutto della physis, il loro essere soggetti dicolpa, il loro appartenere all’ambito demonico del mito/diritto, sirivelano – alla luce della grazia divina - per ciò che sono:fantasmagorie, apparenze irrigidite, ingannevole oggettività cui siapre la prospettiva della salvezza:

E quando l’altissimo verrà a raccogliere la messe dal cimitero,/ Io,teschio, sarò un volto d’angelo. 48

La giustizia divina – che si radica e si trasferisce nellagiustezza e bontà della creazione, ed è giudizio divino [Gericht] eparola giudicante-raddrizzante-orientante [richtenden Wort] –sgretola e distrugge la facies hippocratica e polverosa del mondoirrigidito e conservato dal diritto, trasponendolo nel regno deicieli, vale a dire operando la sua redenzione. Ciò avvienefulmineamente, ma non sanguinosamente, in quanto purifica – inviterebbe a farlo, è infinitamente più giovane del mondo di Kafka, a cui già il mito hapromesso la redenzione ».47 Si potrebbe dire che nell’ambito mitico vige un “peccato dell’origine” (ove il genitivo èsia oggettivo che soggettivo) – che getta l’esistente nella colpa – anziché il “peccatooriginale” della tradizione biblica. In quest’ultima la separazione dall’originaria unitàdivina, la creazione, avviene per volontà buona del creatore, mentre la separazioneproduttrice di colpa, la caduta, il “peccato dell’origine del mondo decaduto” avviene per lavolontà della prima coppia. Di qui la possibilità di un riscatto, di una salvezza, di unapurificazione.48 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 229. Tale frattura tra storiamondana e storia della salvezza sta a fondamento di qualsiasi concezione allegorica, dicontro a una concezione classica del simbolo inteso come chiusa e autonoma totalità. Suciò cfr. più avanti.

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incenerendolo – il velo dell’apparenza. Il diritto, invece,incatenando la creatura, la nuda vita, a un’apparenza di vita,negando il vivente, è violenza sanguinosa e conservatrice.49

Violenza mitica e violenza divina, diritto e giustizia, vita evivente, purezza e purificazione. Queste, dunque, le coppieantitetiche emergenti dall’analisi benjaminiana del diritto e delmito. Queste le coppie che occorre ora porre ancor più incostellazione, inserendo un ulteriore elemento, che appare nelsaggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo del 1916 enella parte conclusiva del TRAUERSPIEL – (abbozzato, comerecitava l’originaria dedica alla moglie, anch’esso nel 1916) –: ilgiudizio.

2.2 Lingua nominale come lingua della verità.

Dio non è affatto il male, ma nella lotta tra ilbene e il male l’uomo intravede l’abisso.

Georges Bataille, Il Piccolo, Gremese, Roma1981.

Nel saggio sulla lingua Benjamin vede l’esistenza dellalingua come realtà che si estende a tutto, senza eccezione, vale adire una lingua che non si limita alla sola espressione spiritualedell’uomo.

[…] è essenziale a ogni cosa comunicare il proprio contenutospirituale.50

Questa comunicazione si configura come espressione e, piùpropriamente, come espressione nella lingua. Dunque: l’esserespirituale delle cose si comunica, si esprime in un esserelinguistico. Il pericolo che sorge a questo punto, avverte Benjamin,

49 Di qui l’importanza del compimento della legge da parte del messia, che“disattivandola”, apre così la via alla vita redenta. La legge, infatti, apre il mondo all’azionedel male, del peccato. Anche su ciò, cfr. più avanti.50 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Angelus novus, op. cit.,p. 53.

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è quello di considerare l’essere spirituale come coincidente conl’essere linguistico mentre, invece, l’essere spirituale che sicomunica nella lingua va tenuto distinto da essa. Pericolo checorre ogni teoria mistica della lingua in cui si sostiene l’identità diparola e cosa. Il paradosso dell’identità tra essenza spirituale elinguistica va tenuto distinto all’inizio di ogni teoria dellinguaggio, in quanto la sua soluzione trova posto solamente alcentro di tale teoria. Centro che, per Benjamin, coincide con latrattazione dell’idea di linguaggio che scaturisce dall’analisi delprimo libro della bibbia: la Genesi. Qui si scopre che l’identità traparola e cosa è riservata solamente alla parola divina, in quantocreatrice.

La distinzione che occorre tenere presente si fonda sull’ideadi lingua come medium, di contro a quelle teorie che lainterpretano come mezzo. Quest’idea vede l’identità tra esserespirituale ed essere linguistico solamente in quanto l’esserespirituale è comunicabile. Questa comunicabilità – vale a direl’espressione dell’essere spirituale nella lingua, il suo comunicarsinella lingua, in un essere linguistico – è ciò che Benjamin chiamalingua delle cose. Di qui un primo risultato: la lingua comunica sestessa. Quest’affermazione, sottolinea Benjamin, non èassolutamente una tautologia. A differenza della teoria borghesedella lingua, ove un essere spirituale manifesta con la massimachiarezza la sua comunicabilità attraverso la lingua, l’affermazionebenjaminiana sottolinea il fatto che quanto è comunicabile in unessere spirituale è immediatamente la sua lingua; è ciò in cui essosi comunica. Vi è dunque una situazione di immediatezza dellacomunicazione spirituale, data dal carattere mediale della lingua.Questa immediatezza, posta da Benjamin a problemafondamentale della teoria linguistica, è la magia della lingua.51

51 Dal punto di vista ontologico-gnoseologico: non c’è un mondo prima della lingua; non cisono delle cose al di fuori della lingua che, tramite essa, vengano significate, dette. Non visarà neppure un indicibile nel senso di qualcosa che lo strumento lingua non raggiunge onon fa “passare” nella lingua. V’è invece una pura comunicabilità delle cose che èimmediatamente lingua, già da sempre lingua. Non c’è mondo se non già come lingua e,perciò, il problema del dicibile e dell’indicibile sta per forza all’interno (?) del linguaggio.Non per nulla ora Benjamin passa a una lettura della Genesi, mettendo a punto una sorta di

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L’immediata comunicabilità dell’essere spirituale delle cose –come Benjamin mostrerà più avanti nel saggio in questione,analizzando la Bibbia – è possibile sul fondamento dalla bontàdella creazione. “Ed egli vide che ciò era buono”, è il giudizio diDio sulla sua creazione delle cose del mondo. Tale bontà fondal’esistenza di una lingua in generale, rendendo comunicabile tuttala creazione:

[…] ciò che in un essere spirituale è comunicabile è la sua lingua.Tutto riposa su questo è (che significa « è immediatamente »).52

Questo è, posto in corsivo da Benjamin, sta lì comeindicatore del valore ontologico di questa immediatacomunicabilità dell’essere spirituale: il comunicabile, lacomunicabilità della creazione, è, infatti, la lingua stessa: èimmediatezza nella comunicazione del concreto (garantito,quest’ultimo, dalla sua bontà ontologica).53

Tale acquisizione fa affiorare spontaneamente, al centro dellafilosofia del linguaggio, secondo Benjamin, il concetto dirivelazione.54 La lingua della creazione assume carattere dirivelazione proprio per la suddetta bontà creaturale. Se « ognilingua comunica se stessa », la rivelazione (come ciò che nonconosce l’indicibile, ciò che non conosce ombra) è il “se stessa”della comunicabilità della creazione; vale a dire: la sua lingua.55

Benjamin sposta ora la sua attenzione sulla lingua dell’uomo.Lingua che, unica tra le altre, può accogliere la comunicabilitàdelle cose – vale a dire la lingua in generale e cioè la loro essenzaspirituale in quanto è comunicabile – nel nome. Nel nome le cosesi comunicano all’uomo e nel nome l’uomo comunica la propria

ontologia linguistica, ove non v’è un fuori della lingua, un esterno alla lingua, maun’incommensurabile e specifica infinità della lingua stessa.52 Ibid., p. 55.53 Buono=percepibile=comunicabile=conoscibile=vero: da ciò il carattere etico dellaconoscenza della verità e della sua lingua.54 Cfr. Ibid., p. 59 [corsivo nostro].55 L’esistenza di questa “lingua in generale” (comunicabilità) permette ciò che Benjamin,altrove, chiama « lettura di ciò che non è mai stato scritto ». Qualsiasi considerazione sulgrande interesse e sulla grande sensibilità fisiognomica di Benjamin, dovrà partire da questopunto.

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essenza spirituale, in quanto essa è comunicabile: vale a dire chel’uomo comunica, nella sua lingua denominante, la sua lingua, enon potrà mai, dunque, “attraversarla”, ma solamente dimorare inessa; vale a dire che nel nome più nulla si comunica e nel nome lalingua stessa e assolutamente si comunica. Non v’è quitrasmissione di significati e contenuti, ma solamente il purocomunicarsi della stessa comunicabilità; v’è autotrasparenza dellalingua a se stessa.56

In questa pura lingua, il cui estratto è il nome, l’uomoconosce le cose. Perciò Benjamin definisce il nome come « linguadella lingua », ove il genitivo designa il rapporto del medio, nonquello del mezzo. E se le cose comunicano tra di esse in virtù diuna comunità più o meno materiale, di una magia della materiaimmediata e infinita – in quanto la loro lingua è muta – nellalingua dell’uomo la comunità con le cose è immateriale espirituale e la sonorità della lingua umana è simbolo di questamagia.

Con queste acquisizioni, Benjamin passa all’esame dei primicapitoli della Genesi, spiegando come la Bibbia si riveliinsostituibile per un’analisi dell’essenza della lingua. In quanto siconsidera come rivelazione e in quanto in essa la lingua èpresupposta come una realtà ultima, si vede necessariamentecostretta a sviluppare i fatti linguistici elementari.

La varietà ritmica degli atti di creazione del primo capitolo rispettatuttavia una sorta di schema fondamentale da cui solo quello dellacreazione dell’uomo si diparte nettamente. […] Ma il ritmo secondocui si compie la creazione della natura (secondo Genesi, I) è: sia (fiat)– fece (creò) – nominò . – In singoli atti di creazione (I, 3; I, II57) apparesolo il fiat. In questo fiat e nel « nominò » all’inizio e alla fine degli attiappare ogni volta la profonda e chiara relazione dell’atto dellacreazione alla lingua. Esso ha inizio con l’onnipotenza creatrice della

56 In altre parole: il nome adamitico, la lingua paradisiaca, assume carattere ditrascendentalità: condizione di possibilità perché qualcosa in generale possa essere detto;ancora: alla domanda propriamente filosofica “che esperienza occorre pensare perchéqualcosa come un *dire* sia possibile” occorrerà rispondere: il nome.57 Segnalo qui un probabile refuso dell’ed. italiana: la versione tedesca – contenuta nel vol.II, tomo I delle Gesammelte Schriften, segnatamente a p. 148 – riporta I, 14 al posto di I, II,che, in effetti, è l’esatto riferimento al versetto biblico qui in questione.

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lingua, e alla fine si incorpora, per così dire, l’oggetto creato, lonomina. Essa è quindi ciò che crea e ciò che compie, è il verbo e ilnome. In Dio il nome è creatore perché è verbo, e il verbo di Dio èconoscente perché è nome. « Ed egli vide che ciò era buono », vale adire: lo aveva conosciuto mediante il nome. Il rapporto assoluto delnome alla conoscenza sussiste solo in Dio, solo in esso il nome,essendo intimamente identico al verbo creatore, è il puro medio dellaconoscenza. Vale a dire che Dio ha fatto le cose conoscibili nei loronomi. Ma l’uomo le nomina a misura della conoscenza.58

È qui che trova posto il paradosso dell’identità tra essenzaspirituale ed essenza linguistica che, come dice Benjamin alprincipio del saggio, se posto all’inizio come ipotesi, rischia diessere l’abisso in cui può rovinare ogni teoria del linguaggio.Garanzia di quest’identità, che significa garanzia di conoscibilità,sussiste solo in Dio. Solo in lui il nome (l’essenza linguistica) èintimamente anche parola creatrice; solo in lui la parola creaun’essenza spirituale che può venire nominata (dunque conosciutaintegralmente e immediatamente). La parola divina è giudizio[Gericht] che compie perché in esso il nome è intimamenteidentico al verbo creatore; il giudizio dell’uomo dopo la caduta,invece, è compimento apparente, è irrigidimento, è violenzadistruttiva. Solo Dio è garante di quella bontà ontologica dellacreazione in cui si fonda la comunicabilità delle cose, vale a direla possibilità, per l’uomo, di accoglierne la lingua muta e senzanome e di trasporla in suoni nel nome.

Proprio questo fa l’uomo: conosce nella stessa lingua in cuiDio crea. E ciò perché, nel creare l’uomo, Dio non ha volutosottoporlo alla lingua, ma lasciare che, in esso, uscisseliberamente:

Dio riposò quando ebbe affidato a se stessa, nell’uomo, la suaforza creatrice. Questa forza, privata della sua attualità divina, è

58 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., pp. 61-62. Qui amargine due brevi note sulla traduzione. Nella versione citata alla nota precedente non v’ètraccia del fiat ; con esso il traduttore vuole rendere il sintagma “Es werde”, introdotto daLutero nella sua traduzione della Bibbia. Egli rende, inoltre, confuso il testo tradotto,traducendo il termine tedesco Wort, vale a dire “parola”, talvolta con “verbo” e talvolta con“parola”. “Verbo” andrà comunque considerato non nel ristretto senso della categoriagrammaticale, ma, nel senso più generale del latino verbum, ovverosia “parola”.

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divenuta conoscenza. […] Ogni lingua umana è solo riflesso del verbonel nome. Il nome eguaglia così poco il verbo come la conoscenza lacreazione.59

Dunque la parola umana è il nome delle cose e questo nomedipende dal modo in cui le cose gli si comunicano, al contrariodella parola divina che, conoscendo le cose nel nome, le crea.Vale a dire: la conoscenza insita nella parola divina è creazionespontanea che accade assolutamente, senza limiti e infinitamentedalla lingua divina, mentre la conoscenza insita nella linguadell’uomo è, in parte, passività, ricettività:

Ma per ricezione e spontaneità insieme, come si ritrovano, inquesta connessione unica, solo nel campo linguistico, la lingua ha untermine proprio, che vale anche per questa ricezione dell’innominatonel nome. È la traduzione della lingua delle cose in quella dell’uomo.60

Benjamin raggiunge qui un doppio traguardo intermedio: lamessa in discussione della teoria borghese della lingua e di quella– contraria, ma omologa – mistica. Se la prima pone la linguacome insieme di puri segni convenzionali delle cose – come, conuna bella immagine di Roland Barthes, un vetro trasparente tra gliumani e le cose – la seconda equivoca identificando tout courtparola ed essenza della cosa. Come visto sopra, la cosa in sé nonpossiede parola, ma solamente un essere linguistico, unacomunicabilità che esprime, che comunica l’essere spirituale, lalingua muta e senza nome della cosa nei suoni del nome con cuil’uomo l’accoglie e la conosce; e, al contrario, la parola umananon è la cosa stessa, ma la sua essenza spirituale in quantocomunicabile, la sua lingua:

La risposta alla questione: che cosa comunica la lingua? è quindi:ogni lingua comunica se stessa. Il linguaggio di questa lampada, peresempio, non comunica la lampada (poiché l’essenza spirituale dellalampada, in quanto comunicabile, non è per nulla la lampada stessa),

59 Id., Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 62.60 Ibid., pp. 63-64.

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ma la lampada-del-linguaggio, la lampada nella comunicazione, lalampada nell’espressione.61

Questa comunicazione-condivisione [Mit-teilung] ètraduzione di una lingua imperfetta in una più perfetta; elementodi questa perfezione – vale a dire ciò che si aggiunge – è laconoscenza.62

La figura più profonda di tale conoscenza paradisiaca, in cuila lingua umana partecipa più intimamente all’infinita semplicitàdel verbo divino, è il nome proprio dell’uomo. Nel nome propriodi un essere umano, precisa Benjamin, non vi è, propriamente,alcuna conoscenza in senso metafisico-ontologico. Tant’è che lo siassegna alla nascita:

Il nome proprio è la comunità dell’uomo con la parola creatrice diDio.63

Prima di procedere oltre nella lettura del saggio – per arrivarea ciò che interessa pienamente la nostra ricerca: il giudizio – cipare opportuno spendere due parole sul concetto di conoscenza[Erkenntnis], onde evitare possibili confusioni.

È noto come questo concetto pervada, con la suacomplessità, la prima parte dell’introduzione all’opera sulTRAUERSPIEL: la Erkenntniskritische Vorrede. Lì Benjamin tracciauna contrapposizione tra Erkenntnis e Darstellung della verità, tra

61 Ibid., p. 55. La lampada stessa, nel suo tradursi nel nome, si ritrae; il mondo intero siritrae per lasciar posto alla sua espressione nel medium linguistico, grazie al nesso tral’Anschauung e la nominazione. Si ritrae perché la lingua pura paradisiaca non è creatrice,ma solamente conoscente, perfettamente conoscente (perfettamente simbolica). Dopo lacaduta la situazione si aggrava, nel senso che il nome, venendo meno la sua pura capacitàconoscitiva, non possederà più la forza per esprimere il mondo ormai ritratto. L’unica suapossibilità sarà dunque quella di mostrare tale impossibilità, tale frattura. Penal’irrigidimento mitico del giudizio.62 Occorrerebbe soffermarsi qui su tale concetto di traduzione, dato che in seguito diverràoggetto del saggio Il compito del traduttore, ma ci riserviamo di farlo in altro momento. Perora solo una fuggevole osservazione. Il fenomeno della traduzione permette di trasporre unalingua meno perfetta in una più perfetta mediante una continuità di trasformazioni e non,dice Benjamin, misurare astratte regioni di somiglianza ed eguaglianza. La facoltà chepresiede a tale tipo di trasposizione non è che la facoltà mimetica cui si riferisce il brevescritto benjaminiano. È lì che Benjamin parla della lettura di ciò che non è mai stato scritto,vale a dire della lingua muta delle cose.63 Ibid., p. 63.

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conoscenza come giudizio o conoscenza intenzionante edesposizione della verità, tra concetto e idea, conducendo unaspietata critica della prima e affermando la seconda come unico eproprio metodo del trattato filosofico.64 Senza addentrarci neidettagli di tale critica – di cui ci occuperemo più oltre, in quantola sua comprensione necessita delle acquisizioni forniteci dalsaggio sulla lingua qui in questione – ci preme ora sottolinearecome la Wahreit Darstellung si avvicini proprio al modelloconoscitivo fornitoci dalla lingua paradisiaca dell’uomo; a quellaconoscenza che, secondo Benjamin, si aggiunge nella traduzionedella lingua muta delle cose nella lingua sonora dell’uomo.Conoscenza la cui oggettività è garantita in Dio. Conoscenza che,in seguito al peccato originale, si trasformerà nella ciarla dellaconoscenza concettuale, astratta e giudicante.

Riprendendo la lettura troviamo un’affermazione chepermette di procedere oltre:

La lingua delle cose può passare nella lingua della conoscenza edel nome solo in traduzione […]65.

Nella versione originale il verbo utilizzato, e qui tradotto con“passare”, dice eingehen. Potrebbe qui venire reso con “entrare”,che in questo caso sarebbe più appropriato. L’idea di una linguacome medium – di contro a una intesa come mezzo – malsopporta l’immagine di “passaggio”; molto meglio, dunque,“entrare in”, “dimorare”, confermati e rafforzati anche dal corsivodella preposizione nella. Ma, considerando anche gli altri sensi delverbo, si può notare che ciò che li accomuna è l’idea di unmovimento che finisce, che termina. In senso botanico, o riferitoad animali, eingehen può, infatti, indicare il “deperire”, il“morire”, il “cessare di esistere”: può, cioè, venire utilizzato comesinonimo di ansterben, sterben: deperire, morire. Forzando un po’potremmo quindi tradurre con “mortificare”. Quest’ultima è parolaimportante del lessico benjaminiano, ove assume il senso di

64 Tale critica non sarebbe possibile senza le acquisizioni sulla natura della lingua chescaturiscono dalla trattazione dell’allegoria e , quindi, sul carattere allegorico della linguadecaduta.65 Ibid., p. 65.

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“portare a morte per redimere”.66 Se, come pratica ascetica deisanti, la mortificazione porta al distacco dello spirito dalle coseterrene, qui potremmo intendere il comunicarsi della lingua dellecose nella lingua dell’uomo, il suo tradursi nel nome, comemortificazione di quella « magica comunità materiale » checostituisce la comunicazione tra le cose. Traduzione che – inquanto mortificazione – redimerebbe tali essenze spirituali ancoramute e senza nome non senza, però, la loro morte.67 E infattiBenjamin dice « nur in der Übersetzung eingehen ». Quel nur,quel “solamente”, è segno di qualche cosa che va perduto,distrutto, mortificato: ciò che si consuma nella traduzione, è,precisamente, la creatività della parola divina, che diveniva nellecose « comunicazione della materia in magica affinità ».68 Perché èchiaro che la lingua dell’uomo – seppur paradisiaca e, quindi,perfettamente e immediatamente conoscente – è, appunto, soloconoscente, non creatrice come la parola divina. Si potrebbe direche la lingua dell’uomo sta alla parola di Dio, come l’evocazionesta alla creazione, o, con le parole di Benjamin:

Ma il nome non è soltanto l’ultima esclamazione [Ausruf], maanche la vera evocazione [Anruf]della lingua.69

66 Questa ipotesi di traduzione una trova conferma ermeneutica nell’essenza più propriadell’allegoria barocca che, come si vedrà considerando la sua dialettica materiale-spirituale,sta tutta in questo “mortificare”. Una conferma filologica, invece, nell’uso di questo verboin passaggi chiave del libro sul TP. Qui solo due significativi esempi. A p. 10 (GS, I, I, p.213) della Premessa viene impiegato per indicare il modo con cui i fenomeni “entrano” nelregno delle idee: Die Phänomene gehen aber nicht integral in ihrem rohen empirischenBestande, dem der Schein sich beimischt, sondern in ihren Elementen allein, gerettet, in dasReich der Ideen ein. A p. 12-13 (GS, I, I, 216) a proposito della verità come mortedell’intenzione: Die Wahreit ist ein aus Ideen gebildetes intentionsloses Sein. Das ihrgemäße Verhalten ist demnach nicht ein Meinen im Erkennen, sondern ein in sie Eingehenund Verschwinden. Die Wahreit ist der Tod der Intention.67 Da intendersi nel senso di “quel ritrarsi del mondo”, quello “scomparire” ricordato aproposito della lampada nella n. 60. Il nome sarebbe dunque la traccia della cosa nellalingua, la sua impronta. Cfr. La facoltà mimetica e la Dottrina della somiglianza.68 Ibid., p. 64. Quando Benjamin parla di magia, usa il termine Magie e non Zauber. Ciò èdovuto, probabilmente, all’appartenenza di Zauber all’area semantica del mito:incantesimo, sortilegio, fascino, inganno, illusione, trucco. Ma la filosofia deve “den Zauberlösen”: rompere l’incanto dell’apparenza mitico-demonica.69 Ibid., p. 58. Aus-ruf: chiamar-fuori, vale a dire Dio chiama-fuori all’essere le cose(creandole). An-ruf: chiamar-dentro, vale a dire l’uomo chiama-dentro la lingua le cose(nominandole).

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Tale è la magia della lingua paradisiaca. Essa non può veniredissimulata neppure dalla presenza dell’albero della conoscenzadel bene e del male. La creazione, nella sua condizioneparadisiaca, esclude il male, la mancanza, il negativo.70 Tutto èbene, buono, conoscibile, dunque nominabile. Il sapere sul male,a cui seduce il serpente, è senza nome perché nulla ne è del malenel paradiso; non vi è, per esso,

quel nesso di contemplazione [Anschauung] e nominazione in cuiè intimamente intesa la muta comunicazione delle cose (degli animali)al linguaggio verbale degli uomini che l’accoglie nel nome.71

Il sapere sul male si rivela un sapere vuoto, un sapere dellamancanza, un sapere del nulla che apre alla parola l’abisso dellamediatezza di ogni comunicazione; quell’abisso ove lacoincidenza tra essenza spirituale ed essenza linguistica viene amancare. Solo la parola divina crea dal nulla: il sapere del bene edel male si rivela perciò un’imitazione improduttiva della parolacreatrice. Con esso il nome non accoglie più in sé la lingua mutadelle cose, ma deve comunicare qualcosa fuori di sé. Solamentenello spazio aperto dalla colpa può darsi qualcosa come un“significare”; la caduta apre l’abisso della significazione.

Questa rottura del nesso di contemplazione e nominazione èveramente atto dia-bolico, in quanto d’ora in poi l’uomo vedrà sìla singolarità della cosa, ma non potrà dire la sua unicità; potrànominarla – cioè conoscerla – solamente all’interno di un giudizioche la sussuma nell’universale.72Troviamo qui, cioè, l’origine[Ursprung] mitica del dualismo tra essenza e apparenza, ovverosial’impossibilità del linguaggio umano di cogliere le cose nella loro

70 Qui si illumina una breve affermazione – contenuta in una lettera spedita a M. Buber daBerlino il 23 febbraio 1927 – in cui Benjamin accomuna l’elemento creaturale e il negativo:[…] Una cosa posso dirle con assoluta certezza: il concetto del negativo è del tutto assentedalla mia teoria dell’esposizione [Darstellung]. È proprio questo a permettere all’elementocreaturale di esprimersi […]. (trad. parzialmente modificata)(Lettera contenuta in MartinBuber, La modernità della parola. Lettere scelte 1918-1938, Giuntina, Firenze 2000, p. 188).71 Ibid., p. 65.72 Come per Goethe, anche per Benjamin fra il generale e il particolare non c’è relazione disussunzione logica, ma di esposizione ideale o simbolica; medium di tale esposizione èl’idea-nome.

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unicità e pienezza; di cogliere la verità nella sua direttadeterminazione, nella sua immediatezza.73

Questo è il vero peccato originale dello spirito linguistico:

Il nome esce da se stesso in questa conoscenza: il peccatooriginale è l’atto di nascita delle parole umane, in cui il nome non vivepiù intatto, uscite fuori dalla lingua nominale, conoscente, quasi sipotrebbe dire: dalla loro propria magia immanente, per diventareespressamente magiche, per così dire dall’esterno. La parola devecomunicare qualcosa (fuori di se stessa).74

Tale fuoriuscita, tale allontanamento dalla parola divina,condanna la conoscenza del bene e del male a essere solamenteciarla, apparenza.

José Bergamin,75– pensatore per certi versi affine a Benjamin– tentando di comprendere la fascinazione del demonico, la lucedel suo apparire [Schein], ricorda come per Isaia il demonio sia «colui che nasce tutte le mattine » e come Paolo lo dichiari « velatodi luce angelica », mentre per lo Zohar è « luce tenebrosa ».

73 Questo problema darà l’avvio, ad esempio, alla dialettica nella Fenomenologia dellospirito di Hegel: ciò che dico non è ciò che vedo; vedo il particolare ma dico l’universale, ilconcetto, l’astratto, del quale però non faccio esperienza (infatti Benjamin vede la nascitadell’astrazione come effetto del giudizio, seguito al peccato originale. Inoltre ricordiamoche Benjamin cerca, giò dal saggio sulla filosofia futura, un superiore concetto diesperienza, la goethiana “delicata empiria”, dove i fenomeni siano già teoria nella lorounicità-singolarità). Quest’universale deve venire contestualizzato dal linguaggio – cheassume carattere deittico – tramite quegli elementi che, molto tempo dopo, É. Benvenistechiamerà shifters. Nasce, quindi, il problema filosofico dell’esperienza e del valoregnoseologico della percezione (non per nulla il primo titolo assegnato da Hegel a quellache sarà la Fenomenologia dello spirito fu Fenomenologia dello spirito. Scienza dellacoscienza dell’esperienza). La nozione di esperienza acquista qui il suo spessore di per-corso, di Um-weg. Non a caso il termine con cui Hegel designa l’esperienza è Erfahrung:L’esperienza si fa ancora cammino, iter, odós (méth-odos) attraverso il quale si raggiunge laverità; infatti il termine tedesco Erfahrung è collegato al verbo erfahren, composto dafahren, viaggiare, e dal prefisso inseparabile er, in cui è presente sia l’idea del divenire chequella del patire. Dal peccato originale, dunque, nascono tempo e storia come sostanzadella vita umana.74 Ibid., p. 66.75 Nel saggio L’importanza del demonio, in José Bergamin, Decadenza dell’analfabetismo,Bompiani, Milano 2000, pp. 67-107.

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[…] « colui che nasce al mattino », che nasce tutti i mattini – ècolui che con questo nome luminoso di tentatore e nemico assume ildominio delle ombre.76

La luminosità del mondo cui Dio volta le spalle, la nostraluce mondana, è la luce del demonio; ma tale luce, in quantoassenza di Dio, è, propriamente, ombra:

Questa negazione della luce divina, quest’ombra di Dio, puòapparirci come luce (ed è come se lo fosse: perché questo apparire oquesta apparenza è il suo essere per i nostri sensi).77

Questo « come se lo fosse » è proprio il paradosso, la« complicazione cosmica » – dice Bergamin – in cui ci attira ilpunto di vista del demonio. Punto di vista che, affermandol’assenza di Dio (l’ombra) come unico sapere positivo (luce), scavail suo proprio abisso in cui continuamente rovinare; l’abisso dellademonica apparenza con la sua “luce tenebrosa”.

La domanda sul bene e sul male e la conoscenza che lecorrisponde è sapere nulla, è sapere positivo dell’assenza di Dio,ma – nel mondo redento, nel paradiso – tale assenza è,propriamente, nulla, parola vana, ciarla.

Poiché – bisogna dirlo ancora una volta – ciarla fu la domanda sulbene e sul male nel mondo dopo la creazione.78

Nell’abisso di tale parola trova la sua rovina [Verfall] il beatospirito linguistico.

La parola esteriormente comunicante, quasi una parodia dellaparola espressamente mediata nei confronti della parola espressamenteimmediata, del verbo creatore divino, e la rovina del beato spiritolinguistico, dello spirito adamitico, che si trova fra di esse.79

La parola esteriormente comunicante, la ciarla e, dunque,l’uomo ciarliero, conoscono una sola purificazione: il giudizio[Gericht].80

76 Ibid., pp. 71-72.77 Ibid., p. 73.78 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 67.79 Ibid., p. 66.80 Benjamin utilizza due termini diversi, Gericht e Urteil. Nella versione italiana il traduttorenon tiene conto di tale differenziazione, rendendo entrambe le parole con giudizio. In

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Gericht non è, qui, solo atto del giudizio, ma altresì luogodel giudizio, istanza di giudizio, ovverosia tribunale, corte. Tale èil significato principale in tedesco. Il senso in cui va inteso quiequivale, dunque, al senso che acquista “giudizio” nelle locuzioniitaliane “citare in giudizio” e “giudizio universale” [JüngstesGericht].

Giudizio che è, chiaramente, quello divino, in fronte al qualesi ritrova la coppia di peccatori, per sottostare alla sua parolagiudicante [richtenden Wort], al suo castigo: la cacciata dalparadiso. Solamente per la parola divina, giudicante – dunquegiusta in quanto conoscenza e creazione s’identificano – laconoscenza del bene e del male è immediata. Tale immediatezza ègiudizio:

Nel peccato originale, essendo stata offesa la purezza eterna delnome, si alzò la più severa purezza della parola giudicante, delgiudizio.81

Qui, però, giudizio non è Gericht, ma Urteil: l’atto delgiudizio, la sentenza, la condanna, il castigo82, ma anche giudiziocome atto conoscitivo.

Solamente questa parola giudicante ripristina l’immediatezzadel nome, abbandonato dall’uomo:

Bene e male, infatti, sono, come innominabili, senza nome, al difuori della lingua nominale, che l’uomo abbandona proprio nell’abissodi questa domanda.83

questo modo, a parer nostro, la comprensione del già difficile passo diventa molto ardua.Soprattutto non si comprende l’affermazione sull’origine mitica del diritto, che parescaturire dal nulla. Essa è invece sapientemente preparata dall’utilizzo di alcuni terminichiave (Gericht, Urteil, richtenden Wort, richterlichen Urteil…) giocati nel loro sensoteologico, giuridico, morale, linguistico, gnoseologico.81 Ibid., p. 66.82 Cfr. Paolo, Romani 5:16 « Riguardo al dono non avviene quello che è avvenuto nel casodell'uno che ha peccato; perché dopo una sola trasgressione il giudizio è diventatocondanna, mentre il dono diventa giustificazione dopo molte trasgressioni. », che nellatraduzione di Lutero suona: Und nicht ist die Gabe allein über eine Sünde, wie durch deseinen Sünders eine Sünde alles Verderben. Denn das Urteil ist gekommen aus einer Sündezur Verdammnis; die Gabe aber hilft auch aus vielen Sünden zur Gerechtigkeit. [corsivi esottolineature nostre]83 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., 67.

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Giudizio, sentenza, purificazione, sono, rispettivamente,luogo, strumento ed effetto di quella che, nel saggio sulla violenza,Benjamin chiama “pura violenza divina”, “giustizia divina”.

Oltre a costituirsi in giudizio emesso dal tribunale divino,Urteil è anche conseguenza del peccato originale: la conoscenzadell’umanità caduta non sarà più fondata nel nome – vale a dire“immediatezza nella comunicazione del concreto” – ma nelgiudizio, nella mediatezza della comunicazione, nella linguaridotta (almeno in parte, aggiunge Benjamin) a mezzo, segno,costretta a comunicare qualcosa fuori da sé. Effetto di ciò, sostieneBenjamin, è l’astrazione. L’unica immediatezza ormai possibilealla parola umana, che ha preso la forma del giudizio, è“immediatezza nella comunicazione dell’astrazione”. Ma taleimmediatezza, alla luce della parola giudicante divina (unica ingrado di conoscere immediatamente bene e male) si rivela comemediatezza, come apparenza, come abisso della ciarla.

Nel finale dell’opera sul TRAUERSPIEL Benjamin riprendetutto ciò, esponendolo in maniera più consapevole.

La Bibbia introduce il male mediante il concetto di sapere.Diventare tali da avere « conoscenza del bene e del male » suggerisceil serpente ai primi uomini. Ma di Dio, dopo la creazione, è detto: « EIddio vide tutto quello che aveva fatto; ed ecco, era molto buono ».Sicché il sapere intorno al male non ha alcun oggetto. Questo non èdel mondo. Esso nasce soltanto nell’uomo stesso, col desiderio disapere, e soprattutto col giudizio. […] Dunque il sapere intorno albene e al male è il contrario di ogni sapere concreto. […] È« chiacchiera » nel senso profondo in cui Kierkegaard intendevaquesta parola. In quanto trionfo della soggettività e in quanto irruzione[Anbruch, che contiene l’idea di rottura: brechen] della tiranniaarbitraria [Willkürherrschaft] su tutte le cose, quel sapere è l’origine diogni concezione allegorica. Nello stesso peccato originale, l’unitàdella colpa e del significare scaturisce dall’albero della conoscenzacome astrazione. Nelle astrazioni vive l’allegorico: in quantoastrazione, in quanto facoltà dello stesso spirito linguistico, esso ha lasua dimora nel peccato originale.84 Perché il bene e il male stanno,

84 Allegorico come continuo differire del significato, come già da sempre mancatacoincidenza tra significante e significato, come arbitrio della significazione dunque comeessenza del linguaggio umano (bisognoso di redenzione).

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innominabili in quanto privi di nome, al di fuori della lingua dei nomi,nella quale l'uomo paradisiaco nomina le cose, abbandonatanell’abisso di quella domanda.85 Il nome è per la lingua solo unfondamento nel quale si radicano gli elementi concreti. Invece glielementi astratti della lingua si radicano nella parola giudicante, nelgiudizio [Urteil]. E, mentre con il tribunale terrestre [Gericht] laprecaria soggettività del giudizio si àncora profondamente, con lepene, nella realtà, in quello celeste l’apparenza del male vienericonosciuta in pieno [ganz zu seinem Recht = ottenere pienagiustizia]. Qui la confessata soggettività riesce a trionfare sopra ogniingannevole oggettività del diritto e si colloca, in quanto opera « lasomma sapienza e ’l primo amore », in quanto inferno, dentrol’onnipotenza divina. Essa non è apparenza ma neppure è pienoessere: essa è il rispecchiamento reale della soggettività vuota nelbene. Nel male tout court la soggettività attinge la sua realtà e la vedecome un mero rispecchiamento di se stessa in Dio.86

Si intende qui perché Benjamin veda nel peccato originale,nella nascita della conoscenza come giudizio, l’origine mitica deldiritto. Questi, come conoscenza del bene e del male, nel «tribunale terrestre » [Gericht] è « ingannevole oggettività ».87 Cometale è sapere di un non essere, è separazione tra bene e male equindi separazione del vivente dalla sua fonte di vita. Come tale ècolpa, separazione e forse ciò risuona nel tedesco Ur-teil:separazione originaria, bando.88 Come tale il carattere prescrittivodel diritto si configura come violenza mitica e distruttrice.

Ciò rimane ora da indagare: la relazione tra l’abisso dellaciarla, della colpa, della separazione, del giudizio e la coscienza,intesa quest’ultima come nascita della soggettività89.

85 La frase recita: Den Gut und Bösen stehen unbenennbar, als Namenlose, außerhalb derNamensprache, in welcher der paradiesische Mensch Die Dinge benannt hat und die er imAbgrund jener Fragestellung verläßt.86 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., pp. 250-52. In fondo all’abissodell’allegoria, nel regno della spiritualità assoluta separata da Dio, accade il miracolo, ilrovesciamento dialettico.87 A proposito di questa ingannevole obiettività, v’è un passo di Hegel (dove??!!) chedefinisce il mondo dell’etica greca e dei suoi valori oggettivi, extraindividuali, come «un’oggettività presupposta, una mitologia ».88 In tedesco separazione è Absonderung; tale termine vale anche per astrazione. Sulsignificato teorico centrale della vicinanza di questi due concetti, cfr. più avanti, pp. 58-9.89 Che alla luce della grazia divina si rivela però vuota.

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2.3 Lingua giudicante come lingua dell’apparenza.

I morti si nutrono di giudizi, i viventi di amore.

Elias Canetti, La provincia dell'uomo, trad. it. diFurio Jesi, Bompiani, Milano 1986.

In alcuni testi di Scholem dedicati alla Kabbalah90 si possonotrovare alcune considerazioni che possono servire da punto dipartenza.

L’Albero della Vita e l’Albero della Conoscenza erano collegati inperfetta armonia fino a quando Adamo venne a separarli, dando cosìsostanza al male […] Quindi fu Adamo che attivò il male potenzialecelato nell’Albero della Conoscenza, separando i due alberi eseparando inoltre l’Albero della Conoscenza dal suo frutto, oradistaccato dalla sua fonte. […] L’essenza del peccato di Adamo fu cheintrodusse la “separazione sopra e sotto”, in ciò che doveva essereunito, una separazione della quale ogni peccato è fondamentalmenteuna ripetizione […]. In effetti, questa concezione tende anch’essa asottolineare il potere del giudizio contenuto nell’Albero dellaConoscenza dal potere dell’amore e della pietà contenuto nell’Alberodella Vita. […] il primo è una forza restrittiva, con la tendenza adiventare autonoma […].91

Conseguenza del peccato originale fu l’introduzione dellaseparazione del mondo dal proprio creatore, dal proprio principioe fondamento. l’attivazione del male contenuto in potenza nelfrutto dell’Albero della Conoscenza.92 Un male potenziale che

90 Nella lettera del giugno 1917 a Scholem, Benjamin parla di F. von Baader, di Molitor –vale a dire di scrittori di area tedesca cui si deve parte della ricezione della Kabbalah inquell’area – di Shekhinà, di “idea della creazione avvenuta due volte”…e di forte interesseper tali idee.91 Gershom Scholem, La cabala, Edizioni Mediterranee, Roma 1982, p. 129.92 Questo albero, nella tradizione cabalistica, diviene spesso emblema delle restrizioni, deidivieti, delle limitazioni – che devono tenere a freno le potenze dell’impuro introdotte colpeccato originale – contenuti nella Torah data a Mosè. Risulta chiaro, infatti, come il puro,la purezza, non possano sussistere che all’interno di un rapporto con i loro opposti:l’impuro e l’impurità. Tutt’altra cosa è invece la purificazione, legata all’interventoinceneritore – e messianico – della giustizia divina.

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possiamo intendere come forma paradisiaca della contingenza.Come sapere di nulla il male sta in potenza nel frutto dell’albero,ma, in quanto in potenza, esso può anche non-non essere,ovverosia accadere, passare all’atto, contingere. È quanto accadecol peccato originale. Solamente che questo accadere rimane pursempre l’accadere di un nulla. Siffatto accadere di un nulla è lacondizione di colpa, espressa dal racconto della Genesi con ilsopravvenuto nuovo stato dell’uomo e l’avvenuta degradazioneontologica: la sua condizione di mortale, la contingenza del suoessere, la fuoriuscita dalla pura lingua evocativa del nome.93

In questo senso va intesa la seguente affermazione diBenjamin:

L’albero della conoscenza non era nel giardino di Dio per leinformazioni che avrebbe potuto dare sul bene e sul male, ma comeemblema del giudizio sull’interrogante. Questa grandiosa ironia è ilcontrassegno dell’origine mitica del diritto.94

Giudizio torna qui a essere Gericht, nel senso dellalocuzione tedesca Gottes Gerichte: castighi di Dio. Castigo checonsiste nell’impedire all’umanità caduta l’accesso all’altro albero,quello della vita.

Genesi 3:22 Poi Dio il signore disse: « Ecco, l’uomo è diventatocome uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male.Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del fruttodell'albero della vita, ne mangi e viva per sempre ».

Genesi 3:23 Perciò Dio il signore mandò via l’uomo dal giardinod'Eden, perché lavorasse la terra da cui era stato tratto.

93 Occorrerebbe verificare se tale contingenza, se tale “nulla che accade” abbia a che farecon il poter avere e con il poter non avere una lingua; se, cioè, il peccato originale sial’origine mitica dell’infanzia dell’uomo (del resto, la coppia adamitica venne creata giàadulta e parlante). Cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, p. 135, sullatestimonianza come relazione tra una possibilità di dire e il suo aver luogo, che può darsisolamente attraverso la relazione a un’impossibilità di dire, cioè come contingenza, comepoter non essere. È chiaro, infatti, che la lingua pura paradisiaca non dice nulla, e soloqualcosa come il giudizio inaugura la scissione tra lingua e discorso in cui può insinuarsiuna possibilità di dire e, cioè, una conoscenza, una storia. Solo questa scissione crea lospazio ove può insinuarsi il significato. In questo topos sta la pratica artistica e, più ingenerale, la cultura, come tentativo di appropriazione dell’inappropriabile, come tentativodi “dare voce”, (evocare, Anruf) a ciò che non la possiede più.94 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 67.

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Genesi 3:24 Così egli scacciò l’uomo e pose a oriente del giardinod’Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spadafiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita.

La connessione che si mostra è quindi quella tra diritto,giudizio sull’interrogante, separazione e giudizio come potenzarestrittiva che tende a divenire autonoma forma di conoscenza.

Quest’ultima è concezione che si lega, nella Kabbalah, allateoria delle Sefiròth che, semplificando, costituiscono le dieci sferedella potenza divina. Di queste la quinta Sefirà, Gevurà o Din, èpotenza divina che si manifesta soprattutto come potenzagiudicante e punitiva.95 Tale Sefirà, fintanto che rimane nel mondodell’unità divina, forma un tutto armonico con le altre Sefiròth –saggezza, intelligenza, amore, misericordia – riposandobeatamente in se stessa. Le altre Sefiròth ne temperano il carattereterribile e potente. Siffatta dinamica unità – che trova nel legametra l’albero della vita e quello della conoscenza nel giardinodell’Eden il suo emblema – si rompe in conseguenza del peccatooriginale, scatenando la Sefirà del giudizio, con la sua forzarestrittiva, dall’influsso delle altre.

Questa parola giudicante scaccia i primi uomini dal paradiso; essistessi l’hanno provocata, secondo un’eterna legge per cui questaparola giudicante punisce – e attende – la [ o “alla”: cfr. nota]provocazione di sé come la sola e più profonda colpa.96

95 Riporto qui le Sefiròth, trascrivendole da G. Scholem, Le grandi correnti della misticaebraica, Einaudi, Torino 1993; 1. Kèther ‘Elyòn, la “suprema corona” della divinità; 2.Chokhmà, la “saggezza” o idea primordiale di Dio; 3. Binà, “l’intelligenza” dispiegantesi diDio; 4. Chèsed, “l’amore” o “grazia” di Dio; 5. Gevurà o Din, la “potenza” di Dio, che simanifesta soprattutto come potenza giudicante e punitiva; 6. Rachamìm, la “misericordia”di Dio, mediatrice tra gli opposti delle due Sefiròth […]; 7. Nètzach, la “stabile durata” diDio; 8. Hod, la “maestà” di Dio; 9. Yesòd, il “fondamento” di tutte le forze attive egeneranti di Dio; 10. Malkhùth, il “regno” di Dio, indicato per lo più nello Zòhar comeKenèseth Yisraèl, il mistico archetipo della comunità d’Israele, o come Shekhinà.96 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 66. Questo “eattende” (und erwartet) è ambiguo: se verbo transitivo – nel senso, cioè, di “aspettare” –sembra inserire un elemento di necessità nell’accadere della provocazione, della colpa(necessità presente anche nella dottrina delle Sefiròth, segno dell’influsso della gnosi con lesue teorie emanazioniste. L’emanazione – dunque la caduta verso gli strati inferioridell’essere – avviene necessariamente; la caduta sembra essere invece causata dalla volontàdella coppia adamitica); se invece usato come intransitivo, nel senso di “badare a qualchecosa, attendere a un compito”, allora il senso cambia, diventando: la parola giudicante che

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Se da un lato tale forza diviene quel tribunale [Gericht] al cuicospetto la coppia adamitica viene condannata e castigata,dall’altro diviene nuova capacità conoscitiva, giudizio [Urteil]umano, in virtù del pasto costituito dal frutto dell’albero dellaconoscenza del bene e del male. Essa dovrà supplire alla oramaiperduta lingua nominale.

Il secondo effetto è che dal peccato originale – come ripristinodell’immediatezza, in esso violata, del nome – sorge una nuova magia,quella del giudizio, che non riposa più beata in se stessa.97

Tale umano giudizio, sprovvisto dell’attualità creatrice dellaparola divina e del fondamento in essa di cui godeva il nome,ripristina sì l’immediatezza – questo il motivo per cui rimaneanch’esso “magia” – ma nella comunicazione dell’astrazione, nondel concreto. Una parodia del giudizio divino, dunque.98

Questa nuova magia, il giudizio, tentando di unire ciò cheoramai è separato (la physis e il significato, le cose e la loroespressione, l’Anschauung e la nominazione); si potrebbe dire:l’essere e la lingua) crea così un mondo fittizio di legami apparentiove la lingua diviene semplice segno e la conoscenza si trasformain mera accumulazione di tali segni: in sapere.99 Effetto di talemagia è l’immediata apparizione della coscienza [Bewußtsein] –dunque di un soggetto della conoscenza – come topos in cuiquesta unione, questa conoscenza, trova apparente garanzia efondamento.

La conoscenza è un avere. Il suo stesso oggetto si determina inquanto va posseduto – sia pure trascendentalmente – nella coscienza.Esso conserva il carattere di proprietà.100

attende (che sorveglia, che vigila, che bada) al proprio risveglio come la sola e più profondacolpa.97 Ibid., pp. 66-7.98 Tale autonoma forma di conoscenza, come avremo modo di vedere, in seguito, nel lavorosul TP, diverrà il sapere assoluto del melanconico, sedotto a esso da Satana. Diverràl’oggetto, la condizione e la forma stessa della melanconia.99 Di qui lo stato di iperdenominazione cui soggiacciono le cose nella lingua degli uomini;iperdenominazione che è fondamento della tristezza e di ogni ammutolire delle cose.100 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 6.

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Questo dice Benjamin nell’introduzione al TRAUERSPIEL; e,qualche riga più sotto, aggiunge che la forma con cui si da questopossesso, inerisce a un “nesso nella coscienza” e non –contrariamente a quanto accade per la verità – a un essere. Inquanto tale, in quanto l’oggetto della conoscenza non esistedapprima come un qualcosa che si espone [Sich-Darstellendes] dasé, ma come un possesso nella coscienza, per esso l’esposizione[Darstellung] è secondaria.

In altre parole, il problema è quello della rinuncia – da partedel pensiero che, come Eros, insegue la verità – alla riflessione eall’elaborazione di una propria lingua che la corrisponda e laaccolga nel suo rivelarsi. Un’esposizione [Darstellung], uno stilefilosofico, in cui la verità possa mortificarsi, spegnersi. Punto fermorimane ciò che più sopra indicammo come “carattere trascendentedella verità” cui solo una Umweg, un détournement, un excursuspossono corrispondere.101

Al racconto della Genesi il sorgere della coscienza, dellasoggettività, non sfugge: suo emblema è la sopraggiunta coscienzadella condizione di nudità da parte della coppia adamitica dopo ilpasto proibito:

Genesi 3:7 Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e s’accorseroche erano nudi; unirono delle foglie di fico e se ne fecero dellecinture.

101 Sull’Umweg cfr. più sopra, p. 14; sul détournement come pratica situazionista di“disgaggio” del pensiero il discorso sarebbe lungo e complesso; basti qui accennare a cometale prassi possa legittimamente trovare un’antecedente nella teoria benjaminiana dellacitazione, ricordando l’aforisma racchiuso in Strada a senso unico: «Le citazioni, nel miolavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappanol'assenso all'ozioso viandante. »; sull’excursus vorrei invece riportare un brano di RolandBarthes, letto alla lezione inaugurale della sua attività al Collége de France, a proposito delmetodo che avrebbe voluto adottare per le sue lezioni: « […] ciò che può essere oppressivoin un insegnamento non è alla fin fine il sapere o la cultura che esso convoglia, ma le formediscorsive attraverso cui vengono proposti. Dal momento che […] questo insegnamento haper oggetto il discorso colto nella fatalità del suo potere, il metodo non può realisticamentevertere che sui mezzi atti a vanificare, a sminuire, o per lo meno ad attenuare questopotere. E io mi persuado sempre di più, sia scrivendo, sia insegnando, che l’operazionefondamentale di questo metodo di sminuimento è, se si scrive, la frammentazione, e, se siespone, la digressione, ovvero, per dirla con una parola preziosamente ambigua: l’excursus.»

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La vergogna che assale i primi due abitanti diviene cifra dellanatura non più specchio della gloria divina, ma sostrato dellacolpa.102

La bontà ontologica della creazione, simboleggiata dallanudità, è svanita. Questa perdita diviene lo scotto pagato allacaduta. La copertura di questa nudità con le foglie dell'alberodella conoscenza, con la « magia della parola giudicante »,diviene l'infinita elaborazione del lutto, da parte della conoscenzaoramai decaduta, costretta a pagare un infinito pegno per talescomparsa.103 Perciò Benjamin potrà affermare, nel TRAUERSPIEL,che

Adamo, primogenito di una pura creazione, ha la tristezza[Traurigkeit] creaturale.104

Nello Zohar possiamo trovare una descrizione di tale saperemagico. Esso viene dalla caduta dell’uomo che diviene vittimadella morte, dal suo legame con la materia da cui proviene. Lefoglie dell’albero della conoscenza, visto come albero della morte,con cui viene coperta la nudità, divengono simbolo centrale diquesto sapere magico:

Infatti solo nella nudità di Adamo, che si determinava quando losplendore della luce divina era allontanato da lui, irrompe la magia,concepita come un sapere che può coprire questa nudità. Solo con lacorporeità terrestre, che è una conseguenza del peccato originale,sorgeva anche la magia, che veniva così ad assumere un caratteredemoniaco. La magia è legata all’esistenza del corpo.105

La natura, simboleggiata dalla nudità, dopo la caduta nonesprime più nulla, non si comunica più nel nome dell’uomo. È ciòche Benjamin, al termine del saggio sulla lingua, chiama mutismodella natura: mutismo a cui si allude parlando della profonda

102 In questo processo di soggettivazione si situa, probabilmente, la separazione tra anima ecorpo, tra soggetto e nuda vita biologica.103 Questa infinita elaborazione del lutto, del Trauer – causato dalla originaria s-coincidenza tra significante e significato, dalla originaria “perdita-sottrazione” del mondo –è ciò che spinge l’allegorico nell’abisso della sua ricerca del significato, sedotto e tentatodalle tre promesse sataniche.104 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 147.105 Gershom Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 222-23.

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tristezza [Traurigkeit] della natura. Essa è triste [traurig] perchésoggiace all’iperdenominazione della nuova magia della parolagiudicante, della chiacchiera;

In ogni afflizione, in ogni lutto [Trauer] v’è una profondainclinazione al mutismo [Sprachlosigkeit], che è molto di più cheinabilità o riluttanza alla con-divisione [Mitteilung].106

Ritroviamo qui ciò che più sopra avevamo indicato cometratto caratterizzante l’ambito demonico-mitico: la separazione.Separazione nei cui confronti la nuova parola giudicante – conl’iperdenominazione e l’accumulazione dei segni nel sapere –reitera il tentativo, perennemente destinato allo scacco, dicolmarla. Non è un caso che, tra le considerazioni sugli effettidella caduta e quelle sulla tristezza della natura, Benjamin accennialla costruzione della torre di Babele come tentativo di risolvere ladistanza terra-cielo:

Poiché gli uomini avevano offeso la purezza del nome, bastavasolamente che si compisse il distacco da quella contemplazione dellecose ove la loro lingua entra in quella dell’uomo, perché fosse toltoagli uomini il comune fondamento del già scosso spirito linguistico. Isegni devono confondersi dove le cose si complicano. […] In questodistacco dalle cose, che era l’asservimento, sorse il piano della torre diBabele e con esso la confusione delle lingue.107

Da tale scacco, da tale colpa originaria, trae la suatrascendenza la verità, la sua inappropriabilità; in tale non-coincidenza tra conoscenza e verità trova il suo topos lasoggettività, il sé come consapevolezza [Bewußtsein] del propriocarattere apparente e del proprio essere vuoto. Al contrario unasoggettività che non riconosca ciò e si intenda come identità conse stessa, come ipostasi dotata di una sostanzialità, non potrà cheirrigidirsi e sottostare, priva di vita, all’ingannevole oggettività deldiritto. Quest’ultimo non è altri, infatti, che l’imago mortis dellaverità assegnata a un punto fisso ed eterno, divenuto legge.

106 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 69.107 Ibid., p. 67. Anche qui Benjamin usa il verbo eingehen per indicare il “passaggio” dallalingua delle cose a quella degli uomini. Cfr., per questo verbo, le considerazioni fatte a p.29 e ivi n. 66.

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Si capisce allora cosa intenda Benjamin parlando – nelsaggio sulla lingua – di origine mitica del diritto e indicandolo –nel saggio sulla violenza – come potenza mitico demonica, comepotenza mortifera che, nel suo carattere prescrittivo, nel suogiudicare sul ciò che è bene e ciò che è male, irrigidisce epietrifica il vivente in apparenza di vita.108

In ciò si può pensare una consonanza con il messianismodelle lettere di Paolo, specialmente in quella ai Romani:

Romani 3:20 perché mediante le opere della legge nessuno saràgiustificato davanti a lui; infatti la legge dà soltanto la conoscenza delpeccato.

Romani 5:13 Poiché, fino alla legge, il peccato era nel mondo, mail peccato non è imputato quando non c’è legge.

Romani 5:20 La legge poi è intervenuta a moltiplicare latrasgressione; ma dove il peccato è abbondato, la grazia èsovrabbondata.

Romani 6:14 infatti il peccato non avrà più potere su di voi;perché non siete sotto la legge ma sotto la grazia.

Romani 7:7 Che cosa diremo dunque? La legge è peccato? No dicerto! Anzi, io non avrei conosciuto il peccato se non per mezzo dellalegge; poiché non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge nonavesse detto: « Non concupire ».

Romani 7:8 Ma il peccato, còlta l’occasione, per mezzo delcomandamento, produsse in me ogni concupiscenza; perché senza lalegge il peccato è morto.

Corinzi 15:56 Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza delpeccato è la legge.

Compito della venuta del Messia è proprio il compimentodella legge.109 Perciò qualcosa come un ethos potrà darsi solo se si

108 Nel saggio sulla violenza l’ambito della lingua viene indicato come sfera immune daviolenza. Lingua come possibile antidoto, dunque, all’irrigidimento mortale del diritto.109 Cfr. per questo rapporto Paolo-Benjamin, Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Uncommento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000 e gli appunti delle suelezioni.

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riuscirà a disgiungere, una buona volta, l'etica dall'etica dellalegge. Questa è l'idea centrale dello scritto benjaminiano Destinoe carattere, ma anche ciò che da risalto all’intera sua opera:riscattare la prassi del pensiero dal suo irrigidimento, non significaaltro che riscoprire il valore etico-politico – e, diremmo anche,anarchico – del pensiero. Per questo si può appropriatamenteparlare di un nichilismo messianico benjaminiano.110

In questo perenne scacco, in questo dover trovare dimoranella caducità umana, possiamo trovare il ponte che riporta alTrauerspiel come forma che, nella sua intenzione, mette in operatale mortificazione; al Trauerspiel come allegoria della condizioneumana perché:

Nello spirito dell’allegoria, esso è concepito fin dall’inizio comerovina, come frammento. Se altre risplendono stupende come il primogiorno, questa forma tiene ferma nell’ultimo giorno l’immagine delbello.111

110 L’immagine dialettica non è che un operatore, una mechané di questo nichilismo.111 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 253.

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3.1 La storia come apparenza nel Trauerspiel barocco.

Hai notato queste buche nella sabbia - diceva unsaggio a un compagno di strada. - Sono le traccepiù antiche che si conoscano delle parole. Ed è ilvento che le ha scavate.

Edmond Jabès, Il libro della condivisione,Raffaello Cortina Editore, Milano 1992.

Con la lettura benjaminiana della Genesi, abbiamo visto dicome egli individui le origini dello status linguistico dell’uomo, delsuo carattere di soggettività e della conformazione che il mondoassume per esso, nella frattura originaria tra storia e verità e nelcarattere trascendente di quest’ultima. Una cosa occorreaggiungere a quanto più sopra indicammo come separazione tra lecose e la loro espressione, frutto dell’esclusione dalla linguanominale paradisiaca: in tale frattura si situa la separazione tranatura e cultura, il carattere essenzialmente allegorico-astraentedella lingua come giudizio o, in altre parole, con tale scissione siinaugura la storia, il tempo mondano dell’umanità , come anche,però, la possibilità della sua salvezza. In questo iato riluce ciò che,più sopra, indicammo come ambiguità essenziale dell’apparenza,dell’immagine. Il suo carattere mitico-demonico, la sua luceingannevole, da un lato; la sua forza messianica, il suo poteredirompente e dissipatore, dall’altro.

Non a caso queste considerazioni ci hanno portato alcospetto del Trauerspiel: proprio la riflessione sull’apparenzaartistica conduce Benjamin a individuare il valore salvifico, ilvalore di verità inerente all’immagine e alla bellezza.

Perciò un genere teatrale come il Trauerspiel e un’epocacome il barocco attrassero l’interesse della riflessionebenjaminiana. Il primo altro non è che il tentativo d’elaborazioneformale di un dramma interamente mondano in cui

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la vita storica quale se la rappresentava la sua epoca è il suocontenuto intrinseco, il suo vero oggetto.112

Il primo altro non è che una forma teatrale lontana oramai dallatragedia intesa come conflitto dell’eroe col mito e col destino; laseconda costituisce l’orizzonte di senso entro cui tale forma d’artepoté corrispondere al Kunstwollen barocco.

Tratto caratterizzante di quest’epoca fu proprio la profondaconsapevolezza del carattere di caducità del mondo edell’esistenza. Negli ambienti riformati luterani, ove la dottrinadella giustificazione per fede – con la sua idea del mondo comestato di colpa immodificabile da qualsiasi atto umano – svalutavail valore delle opere e, quindi, indirettamente, dell’intera vitamondana, in questi ambienti, appunto, ove crebbero e vissero igrandi scrittori barocchi tedeschi, la parola Trauerspiel venivautilizzata ugualmente per il teatro e per gli accadimenti storici.L’idea della catastrofe dominava:

L’uomo religioso del barocco si aggrappa tanto al mondo perché sisente, solidale con esso, sospinto contro una cataratta. Non esisteun’escatologia barocca; e proprio per questo c’è un meccanismo cheraccoglie ed esalta tutto ciò che è nato sulla terra, prima diconsegnarlo alla fine. […] Le forme anche più esaltate delbizantinismo barocco non dissimulano neppure la tensione tra mondoe trascendenza. […] Nel dramma barocco, il monarca come i martirinon sfuggono all’immanenza.113

Il tempo che dominava era un tempo interamentesecolarizzato. Ciò significa che l’arco temporale veniva sentitocome mai compiuto, ma, non per questo, come infinito. In quantotale esso era, dunque, assolutamente lontano da ogni ideailluministico-ottocentesca di progresso, anzi: esso apparivaall’uomo barocco come inesorabilmente finito, come appiattitosull’immanenza, come infinitamente distante, in ogni suo punto,dalla salvezza.114

112 Ibid., p. 44.113 Ibid., pp. 49-50.114 Anche questa questione del tempo si illuminerà con il rovesciamento messianicodell’allegoria, scoprendo come questo suo appiattimento sull’immanenza sia apparenza,condizione soggettiva che, una volta redenta, si mostra come figura della resurrezione,

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Dove il medioevo pone in evidenza la caducità degli eventimondani e la fragilità della creatura come stazioni della via dellasalvezza, il Trauerspiel tedesco si sprofonda completamente nelladesolazione della condizione terrestre. Esso conosce una redenzioneche giace più nella profondità di questa stessa fatalità che nella messain atto di un divino progetto salvifico.115

Questa svalutazione delle opere portò al delinearsi di unmondo vuoto. Se ciò, dice Benjamin, trascinò la gente di pococonto ad aggrapparsi alla morale della fedeltà alle piccole cose,gettò le nature spiritualmente più ricche nello sconforto e neltedium vitae:

Poiché coloro che scavavano più a fondo si vedevano gettatinell’esistenza come in un campo di macerie, al centro di azioni ametà, inautentiche.116

Il sentimento, la tonalità emotiva dominante è il lutto,l’afflizione [Trauer], la cui particolare capacità consiste in uncontinuo incremento dell’approfondimento della sua intenzione:

La profondità [Tiefsinn] è soprattutto di chi è triste.117

Tale condizione patologica – vicina, nella sua mortificazione[Ertötung] degli affetti, all’apátheia stoica – trasforma ogni cosa,che sia estranea o la meno appariscente, in cifra di un’enigmatica

della verità. Su ciò cfr. ciò che dice Benjamin a proposito della concezione messianica deltempo in Schlegel ne Il concetto di critica del romanticismo tedesco, alle pp. 85-87. Ciò cheè in questione è lo stillstand, l’attimo del compimento, dell’Erfullüng. Proprio l’infinitadistanza dalla salvezza, proprio la tensione che si crea tra tempo profano e tempomessianico è quella che Benjamin indica nel frammento teologico-politico con l’idea delleforze vettoriali. In questa tensione trova spazio una redenzione che giace più nellaprofondità di questa stessa fatalità che nella messa in atto di un divino progetto salvifico.115 Ibid., p. 67.116 Ibid., p. 138.117 Ibid., p. 139. C’è, in questa concisa affermazione, una ricchezza di significati, legata allaparola Tiefsinn, fondamentale per la comprensione delle connessioni tracciate da Benjamintra il Trauerspiel, il melanconico, l’allegoria, che risultano illuminarsi a vicenda in un giocodi rimandi. (A questo carattere d’intreccio si deve la nota affermazione di G. Lukács sulloscritto benjaminiano qui in questione: esso ha per oggetto, per metodo e per contenutol’allegoria). Tiefsinn (letteralmente senso profondo, con tutta l’ampiezza semantico-metaforica che “senso” e “profondo” possiedono anche nella nostra lingua) vale sia perprofondità di pensiero, sia per meditazione, sia per significato nascosto (il tema baroccodella cifra, del segreto, dell’enigma), sia per pensosità, sia, infine, per melanconia.

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sapienza.118 In tal modo il contesto, che si apre al dotto e alrimuginatore melanconico, all’allegorico, divieneincomparabilmente fecondo per la meditazione. Tanto è vero cheper il sapiente la natura e la storia – ridotta a natura inanimata –divengono il libro cifrato in cui inabissarsi per attingere un saperesegreto. L’intero creato diviene scrittura:

Il Rinascimento esplora il mondo [Weltraum], il Barocco lebiblioteche. La sua meditazione [Sinnen] si risolve nella forma dellibro.119

In questo fenomeno, dove il vedere trapassa in leggere e illeggere in vedere, c’è un avvicinarsi dei due poli della scrittura edell’immagine, ove può cogliersi un rimando alla figurativitàcomune alla parola e al segno o, meglio, al loro caratteresignificante. Ridotto il mondo a puro segno, ad apparenzamisteriosa, a significante che, visto come emblema diqualcos’altro, si presta a essere letto, interpretato – e a sua voltariallegorizzato in un processo di accumulazione continua – ilsapiente e rimuginatore consuma e percorre sino al fondo laseparazione da ogni forma di trascendenza e di salvezza. Unfondo, però, dislocato in continuazione; un fondo che s’allontana– apparentemente, come si scoprirà poi – infinitamente.120

Attraversa, cioè, l’intero tragitto della sua melanconia, nel quale

118 Nella traduzione da noi utilizzata Filippini traduce (a p. 140) il termine benjaminianounscheinbarste con “intima” anziché con “poco appariscente”. Sfugge la motivazione ditale scelta, in quanto il lemma tedesco sta a indicare una condizione di poca o nullaapparenza e, in senso traslato, di modestia, di prosaicità, di umiltà. Se a ciò aggiungiamol’appena affermata estraneità tra rimuginatore e cose, l’unica spiegazione plausibile divienequella di un refuso tipografico, con il quale “infima” è divenuto “intima”. Oltretutto,tenendo per buona la traduzione di Filippini, non si capirebbe affatto la connessione che,meno di mezza pagina prima, Benjamin traccia tra il lutto e la pompa, l’ostentazione delleHaupt- und Staatsaktionen (una forma tarda del Trauerspiel): anche la cosa più infima fasfoggio di sé, in quanto portatrice di quella enigmatica saggezza, che l’intenzione luttuosariconosce nella sua estraneità da essa.119 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 140. Segnaliamo anche quil’utilizzo del verbo eingehen, reso stavolta con “risolvere”. Cfr. p. 29 e ivi n. 66.120 Cfr., in seguito, le tre apparenze che si sciolgono con il rovesciamento dialetticodell’allegoria; una di queste è l’apparenza (satanica) dell’infinito nel vuoto abisso del male.

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ritrova un mondo in cui cresce verso il cielo il cumulo dellemacerie davanti a lui.121

Eppure: anche lo sprofondamento [Versenkung] portava troppofacilmente nel senza fondo [ins Bodenlose]. È quel che insegna lateoria della disposizione melanconica.122

Ciò spiega perché, nella Melencolia di Albrecht Dürer, gliarnesi della vita attiva – la sega, la pialla, la riga, i chiodi… -giacciano inerti al suolo: stanno lì come oggetti del rimuginare,come soglie che, nella loro materialità esanime e in-significante,spalancano l’abisso della profondità melanconica, dellameditazione profonda, dello scarto in cui rovina la vuotasoggettività.123 Questo è lo scarto in cui cultura e storiadell’umanità decaduta si situano.

Paradigma del melanconico ed emblema dei difetti dellacreazione diviene il re, il principe, il sovrano. La storia non sfuggeal panorama di secolarizzazione e di appiattimentosull’immanenza tipico dell’età barocca. Alla reggenza divinadell’accadere storico, che dominò il pensiero politico-giuridicodell’età medioevale, si sostituisce quella del sovrano. Abbiamo giàaccennato a come la parola Trauerspiel venisse utilizzata e per ilteatro e per gli eventi storici. L’idea di un progressivoscivolamento verso la catastrofe, portò a considerare la storiacome uno sconsolato dipanarsi della cronaca del mondonell’ambito di un tempo mortale, come luogo di intrecci satanicidominanti i destini degli umani, cui solamente la figura assoluta edominante del sovrano-tiranno può e deve cercare di tenere 121 Qui andrebbe probabilmente radicata una lettura che volesse cogliere il voltodell’Angelus novus, l’angelo della storia della celebre Tesi IX.122 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., pp. 141-42. Per sprofondamento[Versenkung] s’intende, qui, lo sprofondare in sé della meditazione; quella che poiBenjamin chiamerà ponderación mysteriosa, nella quale occorre, però, tenere presente tuttolo spettro semantico-metaforico ricordato nelle note 117 e 123 su Tiefsinn e su grübeln.123 Anche qui, come sottolineato nella nota 117 sul senso di Tiefsinn, occorrerebbe leggereil testo tedesco per coglierne tutta l’ampiezza dei significati. Un solo esempio: nel terminegrübeln, rimuginare, il lettore tedesco coglie il rimando alla profondità significato da dieGrube, la fossa, come pure quello allo scavare (graben) che determina tale profondità eanche, soprattutto, quello a das Grab: la tomba, la fossa, il sepolcro. Dunque l’interoambito semantico-metaforico, qui evocato da Benjamin, corrisponde perfettamente alla suacaratterizzazione dell’intenzione luttuosa che domina l’uomo barocco.

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testa.124 Ecco, allora, che la storia viene ad assumere i tratti di unarappresentazione luttuosa [Trauerspiel] e, in quanto costituita diintrecci, di intrighi, di giochi [Spiel] diviene esclusivamente storiapolitica, dove per politica è appunto da intendersi l’intrigo, il merogioco per il potere fine a se stesso. Di qui all’eleggere la cortecome luogo per eccellenza, come palcoscenico [Schauplatz] ilpasso è brevissimo.

Il sovrano rappresenta la storia. Egli impugna l’accadere storicocome uno scettro.125

Nella corte storia, Trauerspiel e politica trovano la loro scenad’elezione.

Al re e al suo potere sovrano spetta il compito di gestire ilgioco (Spiel) – luttuoso (trauer) in quanto necessariamentedestinato al fallimento – all’interno di una storia completamentemondanizzata. Suo dovere-potere è quello di evitare lo statod’eccezione in cui la storia permanentemente si trova; strumentodi tale dovere-potere è la decisione (Entschluß – Entscheidung).Con tale atto de-cisivivo, ri-solutivo, non sorretto da alcuna ratio odiritto preesistente, la sovranità, sciogliendo lo stato d’eccezione econtemporaneamente inaugurando un nuovo ordine, giunge allasua autofondazione come violenza creatrice di diritto.126 In questosovrapporsi della figura del sovrano a quella del tiranno, a quelladi colui che decide dello stato di eccezione, il Trauerspiel

riconosce la rivelazione della storia e insieme l’istanza cheimpone un limite alle sue alterne vicende […].127

Da questa acquisizione sulla natura della sovranità,Benjamin trae due importanti e fondamentali conseguenze: la

124 Qui Benjamin parla di « Un elemento derivante dal paganesimo germanico e dall’oscuracredenza nel prevalere del destino » che si lega alla svalutazione luterana delle opere.125 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 47.126 È da questo autofondarsi nel nulla che trae origine l’assoluto arbitrio del sovranobarocco. Una delle conseguenze, sulla quale non ci soffermeremo, è l’impossibilità dellacoesistenza di più poteri sovrani e, quindi, ad esempio secondo Hobbes, il perenne stato diconflitto tra poteri sovrani. Un frammento di un Trauerspiel di Gryphius, citato da Benjamina p. 50, recita: « Chi metta qualcuno su un trono | Al fianco suo, è degno che gli si tolga |Porpora e corona. Un solo principe e un solo sole | Vi sono per il mondo e per i regni. ».127 Ibid., p. 55.

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natura cosmologica dell’argomentazione con cui il Trauerspielglorifica il sovrano e il carattere di spazializzazione dei fenomenitemporali, vale a dire la riduzione della storia a storia naturale.

La decisione, seppur sovrana, non riesce a sottrarsi a quelmeccanismo che raccoglie ed esalta tutto ciò che sta sulla terra,prima di consegnarlo alla morte; obbedisce, cioè, a quelladialettica dell’epoca che, all’ideale di piena stabilizzazione erestaurazione, contrappone l’idea della storia come rovina, comecatastrofe. Il sovrano, separando e costituendo, con la suadecisione, l’ambito del politico come spazio dell’ordine, deldiritto, trionfa del caos e delle forze mitico-sataniche. In quantotale a esso spetta la magnificenza e l’ostentazione della suapompa, che, come emblemi del suo trionfo, lo pongono inrapporto diretto con esseri divini e come divino viene glorificato.Tale gloria, dice Benjamin, rimane, però, pagana:

Nel dramma barocco, il monarca come i martiri non sfuggonoall’immanenza. – All’iperbole teologica si sostituisce un’appassionataargomentazione cosmologica. Ripetuta innumerevoli volte, lacomparazione del principe con il sole attraversa tutta la letteraturadell’epoca.128

In altre parole, lo spazio inaugurato dalla decisione sovranasi rivela in tutta la sua apparenza e caducità, e, ancora una volta,la salvezza, che pareva a portata di scettro, si mostra come nondissimile dall’anticamera della disperazione, dello sprofondamentoluttuoso, del fallimento, e, spesso, come estrema conseguenza,della follia del sovrano. In tale catastrofe la figura del sovrano-tiranno s’intreccia con quella del martire e il dramma del destinofa suoi elementi del dramma martirologico.129 Siffatta situazione,però, per essere ancor meglio compresa, richiede l’analisi delfenomeno della secolarizzazione del tempo in caratteri spaziali.

La trasposizione di dati originariamente temporali in unaimproprietà e simultaneità spaziale – che connota il linguaggioformale del Trauerspiel – scaturisce esattamente dall’assenza di

128 Ibid., p. 50.129 Archetipo del dramma martirologico è la Passione di Cristo. I suoi antecedenti storicisono i Misteri e le Sacre rappresentazioni medioevali.

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ogni prospettiva escatologica, determinata dalla situazioneteologica dell’epoca. Tale assenza, continua Benjamin,caratterizzava i drammi dell’intera Europa, ma

[…] la fuga sconsiderata dentro una natura disgraziata èspecificamente tedesca.130

Il punto è proprio questo: il dramma mondano s’arresta ailimiti della trascendenza e il sovrano, fin lì glorificato nella suaostensione di magnificenza, si scopre decaduto allo stadio dellamisera e umana creatura che è, signore, come s’è già detto, di unostato creaturale privo di grazia. Per quanto alti siano il suo rango eil suo trono rispetto al suddito e allo stato, per quanto eglisignoreggi sulle creature, sempre creatura rimane.

Segno significativo di tale ambigua situazione èl’apparentamento con l’animale: « animale celeste », « animaledivino », « animale indiscreto e permaloso », diviene l’uomo; maanche la vera e propria rappresentazione di monarchi in formeferine: « Nabucodonosor in catene, con piume d’aquila e munitod’artigli, in mezzo a molti animali feroci […] ». Questa dialettica,tra creatura sublime e animale, si costituisce come fecondomeccanismo drammaturgico, in quanto permette, e giustifica,l’insorgere repentino della follia e della forza brutale nel sovrano,al momento della sua imminente caduta. Forza brutale e follia,necessarie per trascinare con sé, nella rovina, l’intero mondo a luisottoposto.

Il mondo di tali drammi, pertanto, appare come un mondointeramente secolarizzato, conchiuso, solidale – nel bene e nelmale – con la figura del sovrano, che – agli occhi degli studiosi deldiritto non meno che a quelli dei drammaturghi – appare comequella di un novello Adamo: signore dell’intera creazione, sì, ma,inevitabilmente, colpevole anche della sua caduta. Il nome delsovrano, a cui si lega l’onore della sua regalità, mostra, nelcontesto della vita creaturale, tutto il suo carattere di apparenza, ilsuo divenire

130 Ibid., p. 67.

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[…] solamente scudo destinato a coprire la vulnerabile physisdell’uomo.131

Come nel paradiso terrestre, dopo la caduta, anche qui ilnome decaduto mostra il suo nulla. A questo sconsolato dipanarsidella cronaca del mondo, il monarca barocco oppone la forzadella decisione sovrana, con la quale tenta una restaurazione dellasospensione paradisiaca del tempo. Nello spazio politico che sicrea, i drammaturghi barocchi installano la figura imponente delsovrano con la sua onoratissima e saldissima virtù che, però, nullapuò contro il naturale divenire della storia:

secondo il senso della drammaturgia martirologica, ragione dellacatastrofe non è la trasgressione etica, bensí la situazione stessadell’uomo creatura.132

In ciò sta l’origine dell’uso di una metaforica tale, che,stabilendo l’analogia tra la storicità e il divenire naturale, smussaogni possibile riflessione etica. Il conferire evidenza ai principimorali con esempi tratti dalla natura, in realtà, sortisce l’effettoopposto: li distrugge. I complotti etico-storici vengono resi condimostrazioni di storia naturale; i caratteri e le disposizionivengono restituiti tramite le inclinazioni naturali delle piante; leposizioni sociali divengono le posizioni di stelle, pianeti ed esseridivini nel cosmo e così via, in un’apoteosi e in un accumulometaforico, che porta a riconnetterci a quanto sopra dicevamoriguardo l’argomentazione cosmologica. Come lì ciò che innalzavail sovrano si rivelava, poi, la scaturigine della sua rovina, anchequi la riduzione della storicità a storia naturale, segna per un versola possibilità-necessità della decisione sovrana, per l’altro verso ilcarattere di apparenza e fragilità dello spazio così ritagliato dalcaos delle forze primordiali, e il suo inevitabile destino didisfacimento. E non ha caso si parla qui di “spazio ritagliato”: essonon è altri, infatti, che la corte, la corte come scena, come teatro[Schauplatz] nel quale si sposta la storia tramite la stradatracciatale dalla natura:

131 Ibid., p. 75. In tedesco, come in italiano, scudo possiede anche il significato di stemma,emblema.132 Ibid., p. 77. La causa è cioè ontologica, non etico-morale. Di qui l’ineluttabilità.

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Così, per il barocco, la natura è soltanto una via che porta fuoridal tempo […].133

È qui, nello spazio della corte, che Trauerspiel e drammapastorale confondono i loro confini, in virtù della coincidenzadella loro concezione della natura. In essa, nella corte, lasuccessione delle azioni drammatiche avviene come nei giornidella creazione, quando non c’era storia; in essa il drammaturgobarocco pone in atto il tentativo di circoscrivere e analizzare ilmovimento temporale in immagine spaziale; in essa il drammabarocco vede l’eterno e naturale fondale della storia.

Tutto ciò portò anche a una trasformazione delle tecnichedrammaturgiche. La condensazione del tempo nello spaziorichiese, via via, più che una vera drammaturgia (vale a dire unaregia della diacronia dell'azione e dello svolgimento drammatico)una coreografia (ossia una regia della sincronia delle azioni). Alpunto che, dice Benjamin, nella dissoluzione del dramma baroccoil suo posto venne occupato dal balletto.

Seguendo l’analisi benjaminiana della secolarizzazione deltempo nello spazio ci ritroviamo, dunque, al medesimo esito cheprodusse l’analisi dell’argomentazione cosmologica: la storiarimane campo dell’apparenza, del mito, del potere di forzedemonico-caotiche, cui nemmeno la decisione sovrana riesce acontrapporre un seppur minimo ordine salvifico. In questa visionesi può individuare l’inaugurazione di una sensibilità moderna, chesepara nettamente l’Europa barocca – con le sue forme d’arte, lesue forme politiche, le sue antropologie – da quella medioevale, eche potremmo anche chiamare nichilismo e/o secolarizzazione:

[…] là dove il mistero cristiano come la cronaca esibiscono latotalità del decorso storico, il flusso della storia del mondo in quantostoria della salvezza, le Haupt- und Staatsaktion hanno a che faresoltanto con una parte degli accadimenti prammatici. La cristianità,cioè l’Europa, è suddivisa in una serie di cristianesimi europei, le cui

133 Arthur Hübscher, Barock als Gestaltung antithetischen Lebensgefühls. Grundlegung einerPhaseologie der Geistesgeschichte, cit. in W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op.cit., p. 81.

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azioni storiche non hanno più la pretesa di snodarsi nell’alveo delprocesso della salvezza.134

Il carattere di destino assunto dall’alternanza di ascesa ecaduta dei regni – ove nessuna morale riesce a generare azionivalide – produce un’idea della storia ridotta a politica di corte egovernata da leggi dotate della stessa ineluttabilità di quelle chegovernano il mondo naturale. La politica di corte, vistaesclusivamente come intreccio, come intrigo e trama satanica,diviene spazio per la comparsa in scena di un tipo teatrale, la cuiimportanza drammaturgica si riscontra non solo nel Trauerspiel,ma nell’intero nuovo “dramma” europeo: l’intrigante, col suovanitoso zelo e il suo indaffarato aggirarsi nei meandri della corte,dedito all’ordito di complotti e piani diabolici e subdolemacchinazioni, la cui origine, dice Benjamin, va ricercata nellafigura rinascimentale del cortigiano. L’obbligatorietà di tale figuraper l’economia del “dramma” va ricondotta, anch’essa, allatendenza del Trauerspiel alla trasposizione dello sviluppotemporale e discreto in un continuum spaziale. Egli diviene, in uncerto senso, il coreografo della simultaneità di azioni cheriempiono, confusamente, la scena del Trauerspiel.

L’unica contropartita alle indegne azioni dell’intrigante, chesembra sguazzare in tale confusione – allegoria della confusionemorale che domina come un destino l’intera storia – venivaassegnata alla contemplazione appassionata:

Il vanitoso indaffaramento dell’intrigante era considerato l’indegnacontropartita della contemplazione appassionata, alla qualeunicamente veniva attribuita la facoltà di sciogliere e sollevare l’elettodall’irretimento nelle sataniche trame della storia, in cui il baroccovedeva soltanto politica.135

134 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 64.135 Ibid., p. 141. Vorremmo far rilevare, qui, la maestria linguistica di Benjamin che, con ilgioco dei significati di due semplici parole, arricchisce allegoricamente il senso di questepoche righe (maestria troppo spesso ignorata dai traduttori italiani). La prima è un verbo:entbinden; la seconda un sostantivo: Verstrickung. Il verbo sta per dispensare, esonerare,sollevare, sciogliere (binden significa legare, vincolare) e ben rende l’azione di liberazionedalle maglie sataniche della storia; il sostantivo, infatti, viene dal verbo verstricken, chesignifica letteralmente “usare” per il lavoro a maglia, come stricken indica proprio il “farealla maglia”. In senso traslato, viene utilizzato per rendere l’idea del coinvolgimento,

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Ma, come visto più sopra, anche lo sprofondarsi in sé dellameditazione melanconica – che conduce all’infinito progressonella profondità dei significati, che sfuggono incessantemente –separa il melanconico dalla totalità vivente del significato, dalmondo, imprigionandolo nel labirinto delle vuote apparenze di uncosmo reificato, ridotto a dimora di Satana e delle potenzedemoniche di morte.

Alle corti dei signori è comunemente freddo e sempre è inverno,perché il sole della giustizia è da loro lontano… ragion per cuitremano le persone di corte a furia di freddo, timore, tristezza.136

3.2

Esiste un punto d'arrivo, ma nessuna via; ciò chechiamiamo via non è che la nostra esitazione.

Franz Kafka, Confessioni e diari, Milano, 1991,p. 716

3.2.1 Allegoria e lingua giudicante.Lingua denominante come lingua paradisiaco-adamitica e

lingua giudicante come lingua dell’umanità decaduta, lingua dellutto, sono le due tipologie linguistiche delineatesi nel confronto

dell’irretimento e, nella forma riflessiva, significa anche sbagliarsi, invischiarsi. Ma, ancorapiù interessante, sempre in relazione alla figura dell’intrigante, diviene il rifarsi al sostantivoche verstricken richiama: Strick. Quest’ultimo, che nell’uso più comune sta per corda, fune,possiede anche il significato di briccone, birbante. Se si può ipotizzare che tale significatoprovenga dall’uso della forca per tali personaggi – o di altri supplizi perpetrati con corde efuni – come non pensare, qui, alla misera fine che spetta all’intrigante in molti “drammi”; ocome non rammentare lo Iago rinchiuso in una minuscola gabbia appesa, con una fune,all’esterno del castello, nella scena finale dell’Otello nella versione cinematografica diOrson Welles?136 Aegidius Albertinus, Lucifers Königreich und Seelengejäidt: oder Narrenhatz, Augsburg1617, cit. in W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 144. Ma si ricordi, per ilmotivo del mondo gelido, il celebre, cinico e beffardo inizio del Riccardo III diShakespeare: « Ora l’inverno del nostro scontento è fatto estate sfolgorante da questo sole diYork: e le nuvole che incombevano sulla nostra casa, sono sepolte nel profondo senodell’oceano. »

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con il saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini.Ora, qui, si cercherà di scoprire come questo saggio, entrando incostellazione con le parti del libro sul barocco dedicate alTrauerspiel e alla melanconia, conduca al cuoreteoretico-concettuale di quest’opera benjaminiana, ossia allatrattazione dell’allegoria e di come quest’ultima getti significative edecisive chiarificazioni sulla Premessa.

Abbiamo considerato come il Trauerspiel sia la messa inscena dello stato di colpa dell’umanità, della sua condizionecreaturale, della sua caducità e dell’impossibilità di un’uscita datale situazione; di come ciò accada nell’ambito di unasecolarizzazione del tempo nello spazio – che porta a un’ideadella storia come storia naturale – e di un’assoluta trascendenza elontananza della verità salvifica – che porta alla melanconia comeStimmung dell’epoca. Questi due ambiti, che tendono a esaurirel’intera epoca barocca, preparano e delineano un mondodisponibile alla considerazione allegorica. Tale considerazionepuò, a sua volta, essere letta come allegoria della perdita deisignificati e dell’ipertrofia dei significanti, seguite al peccatooriginale. I paragoni del sovrano con Adamo e il tentativo disospensione del tempo – attuati nei Trauerspiel – ne costituiscono isegni più evidenti.

Ciò che qui è in questione è l’esposizione che Benjaminattua, in vista di una rivalutazione, dell’allegoria di contro alsimbolo (per lo meno dell’uso che il classicismo fa del concetto disimbolo).137

Per addentrarci in tale trattazione, prendiamo le mosse dallaconnessione che lo Zohar, più sopra citato, istituiva tra sapere,nudità, natura decaduta, magia.138 Il problema di fondo è, diceScholem, quello della domanda sulla natura della Torah prima edopo il peccato originale e, di conseguenza, sulla natura dei

137 Tutto ciò nell’intento di trovare una Darstellungsweise, una forma adeguata alla filosofiae al suo compito di indagare la verità.138 Cfr. p. 34 Qui prendiamo sul serio quanto ricordato da Scholem a proposito di unaconfidenza che Benjamin fece a Rychner e ad Adorno: che il libro sul barocco avrebbepotuto essere meglio compreso da lettori che avessero qualche dimestichezza con laKabbalah.

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cambiamenti subiti dalla lingua della rivelazione e sui suoirapporti con la storia dell’uomo. L’autore dello Zohar e i suoicontemporanei cercarono di risolvere il problema distinguendodue aspetti della Torah: la Torah de-beri’ah, ossia la Torah nellostato della creazione, la Torah de-’atsiluth, ovvero la Torah nellostato dell’emanazione. Semplificando, la seconda s’identifica conDio, essendo la sua diretta emanazione; la prima, essendo creata,s’identifica con la Torah così come si manifesta realmente dopo lasua rivelazione agli uomini, vale a dire così come vieneconfigurata e trasmessa dalla tradizione. Se la seconda, in quantodiretta emanazione divina, s’identifica con la decima Sefirà, laShekhinà – nella quale culmina il processo di emanazione con cuiDio emerge dalla sua vita nascosta ed è vista, perciò, come misticoarchetipo d’Israele, come “regno di Dio” – la prima, la Torah de-beri’ah, viene considerata come il necessario abito che ricopre lanudità – oramai rivelata e, dunque, vergognosa – della Shekhinàdecaduta a causa del peccato originale; abito che, solo, lepermette di apparire nel mondo terreno. Se la seconda è puramanifestazione della verità divina, simboleggiata dall’alberoparadisiaco della vita e, quindi, inaccessibile all’umanitàdecaduta, la prima viene a coincidere con l’albero dellaconoscenza del bene e del male, ossia con la necessità perl’umanità decaduta di trovare un accesso alla pura verità divina.Tale necessità viene a configurarsi come magia della parolagiudicante, come accumulazione del sapere, infinito compito chespetta alla conoscenza ormai decaduta, nel tentativo di supplirealla perdita della bontà ontologica della creatura. E infatti l’alberodella conoscenza del bene e del male, nella tradizione cabalistica,diviene emblema delle restrizioni, dei divieti, delle limitazionicontenuti nelle tavole della legge date a Mosè – ossia nella Torahde-beri’ah – che devono tenere a freno le potenze dell’impuro edel negativo introdotte col peccato originale; potenze che, invece,nella Torah de-’atsiluth, in quanto mistica manifestazionedell’unità divina, sono nulla.

Si assiste, qui, a una particolare dialettica tra le due Torah,ove quella creata, quella dell’umanità decaduta, mantiene il suo

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valore di rivelazione – e dunque di guida concreta per l’esistenza –solamente non pretendendo per sé il valore mistico della Torah de-’atsiluth, e, pertanto, esclusivamente esponendosi nel mediumdella tradizione e della sua rielaborazione storica. In tal modol’infinita interpretazione e il continuo commento della Torahtendono a divenire – da compiti che tentano di corrispondere aiquarantanove livelli di significato della stessa rivelazione – uncorpo unico con essa. Lo studio della Torah rivelata si delineacome sforzo per rammemorare, nell’adesso della lettura, ciò che,nella storia, non è mai stato: la Torah de-’atsiluth, il cui mistico edivino significato è da sempre e per sempre inaccessibileall’umanità profana, resa conoscibile nella sua mistica e divinaverità solamente con la venuta del Messia. Detto altrimenti, inquesto ambito dell’ebraismo la copertura della vergognosa nudità,con gli abiti foggiati dalle foglie di fico della conoscenza, nellaconsapevolezza del suo carattere apparente e provvisorio,trasforma l’infinita distanza e l’impossibile identificazione delledue Torah, in punto di forza da cui conferire significato eticoall’esistenza terrena e con cui contrastare le potenze del male edel nulla che dominano il mondo decaduto. L’importanza etico-politica che acquista qui la prassi della conoscenza, del sapere, vasicuramente posta in relazione con le forti e profonde istanzemessianiche presenti nell’ebraismo. Qui il particolare e il singoloacquistano pienezza, una speranza di pienezza, che li promuovedi rango.139 Ma ciò è possibile proprio perché il rapporto colcompimento è tanto più proficuo, quanto più è tesa la relazione traprofano e messianico, tra singolare e universale. Paradossalmente,l’assoluta separazione del messianico dalla profanità del mondoconferisce, a ogni istante di quest’ultimo e a ogni azione in essoconsumata, uno spessore e una concretezza storicainimmaginabili140 in un contesto ove domini un’etica consolatoria

139 Cfr. la “redenzione in profondità” a p. 38 e n. 114 a p. 44.140 È, questo spessore, il risultato di quel meccanismo che accoglie ed esalta tutto ciò che èterreno prima di consegnarlo alla fine. Il residuo mitico che però permane nell’allegoria, eche va dissolto, consiste nel carattere di destino che assume questo meccanismo. Esso devedivenire mechané, nel senso di qualcosa, come dice Hölderlin, di “insegnabile”, di

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inserita in una « già garantita economia della salvezza » – comepuò essere la cristianità medioevale ove il singolare tende aperdersi nell’universale – o, di converso, in una situazione, comequella dell’età barocca, dove, la scomparsa completadell’orizzonte di salvezza, appiattisce il singolare su se stesso.141

Ma, come si vedrà, l’esito del libro sul Trauerspiel sarà proprio lascoperta della valenza messianico-redentiva dell’allegoria, a patto,però, che non si lasci sedurre dal totalitarismo mitico demonicodel simbolo.

Il mondo dell’allegoria è il mondo dove la nudità dellanatura, non più specchio della gloria divina, si costituisce comesostrato della colpa. In quanto in esso la vita fluisce via, siffattomondo si presenta all’interno di una dialettica tra assolutamaterialità inanimata – che conferisce carattere di cifra e dienigma anche alle cose più infime – e assoluta spiritualità senzaDio – manifestantesi nell’infinito rimando dei significati.

Tanto è il significato e tanto è l’abbandono alla morte, perché è lamorte che più profondamente incide la frastagliata linea didemarcazione tra la physis e il significato. Ma se la natura è da semprein balia della morte, essa è anche da sempre allegorica. Così ilsignificato e la morte sono maturi a compenetrarsi intimamente nellosviluppo storico come, in forma di germi [Keime], nello stato dipeccato e privo di grazia della creatura.142

In questo stato peccaminoso e disgraziato, in cui sicompenetrano morte e significato, e in cui si fonda il punto di vistabarocco, Benjamin individua una prospettiva moderna del mito. Inquest’ottica l’allegoria si mostra come forma barocca della storia

ripetibile. Esso va sottratto all’ambito mitico per essere consegnato alla ragione, ma unaragione conscia della sua caducità e conscia di dover adottare una Darstellung adeguata.141 È ciò che esprime magnificamente Benjamin nel Frammento teologico-politico, manifestodel suo nichilismo messianico e, quindi, testo fondamentale per comprendere la valenzaanarchica del pensiero benjaminiano.142 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., pp. 170-71. Keime può assumere ilsignificato di germi patogeni, ma anche quello di germoglio, di embrione e, dunque, insenso figurato, quello di germe o seme, nel senso di qualcosa che può dar origine a qualchecosa d’altro. Anche qui la bravura di Benjamin riesce, con una sola parola, con un solonome, a rendere un intero ragionamento; in questo caso la dialettica non risolta, ladialettica in sospensione tra caduta e salvezza, insita nel compenetrarsi della morte e delsignificato, vale a dire nella storia tout court.

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della natura significante, come l’epos ne costituiva la formaclassica. In questo mondo mitico la morte s’è insediata; talemondo diviene, così, inevitabilmente, dominio di Satana e,ponendo le creature sotto il segno di Saturno, le getta nel lutto enell’afflizione [Trauer].

La questione, come s’è considerato più sopra a proposito delTrauerspiel, è strettamente legata alla categoria del tempo. Ildivenire del tempo, la costitutiva storicità del mondo decaduto conla sua separazione dalla verità, producono un infinito differimentotra le cose e la loro espressione e invalidano, dunque, la possibilitàdell’unità tra oggetto sensibile e oggetto sovrasensibile, checostituisce il paradosso del simbolo teologico; minano, vale a dire,la possibilità di una lingua puramente simbolica: la paradisiacalingua nominale di Adamo.143 Quest’unità infranta depone ai piedidell’osservatore melanconico la storia come morto repertoriod’immagini, di segni, di frammenti e di rovine:

Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della caducitàfuggevolmente si rivela il volto trasfigurato della natura nella luce dellaredenzione, nell’allegoria si propone agli occhi dell’osservatore lafacies hippocratica della storia come un pietrificato paesaggioprimevo.144

Ogni cosa del mondo profano, impedita oramaiall'espressione del suo semplice essere spirituale nel nome, sipresenta all'intenzione conoscitiva come qualcosa di diverso daquello che è, come natura morta che, – al pari della Shekhinàdecaduta – necessita, per mostrarsi, d’essere continuamenterivestita degli abiti della conoscenza. Questo è l'abisso del male,

143 Una Darstellung consapevole non può ignorare questo infinito differimento, tentando diricostituire il nesso tra nominazione e Anschauung, tentando un accesso diretto alle cosecon un approccio mistico-intuitivo; non può nemmeno permettersi di averne nostalgiatentando un ritorno a casa in una nuova lingua simbolica, seguendo un percorso di purezza.Ciò la porterebbe a una nuova sintesi, che, ignorando la propria impossibilità, sarebbemitica. Essa deve, invece, trovare una strada, una forma, una lingua che mostri, presenti,esponga questa impossibilità, questo limite immanente. Deve, cioè, percorrere la strada diuna purificazione. Tale strada, nella Premessa al TP, sembra costituirsi per Benjamin comerammemorazione nel senso ricordato più sopra a proposito dello studio della Torah, comeanamnesi in senso platonico, come ex-vocare ciò che non è mai stato.144 Ivi.

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la caducità della creatura, fondamento dell'allegorico in quantoastrazione, in quanto lingua giudicante. Di qui il proliferare el’accumularsi ipertrofico degli stucchi, degli abbellimenti, deidecori; delle allegorie, dei tropi, del gonfiarsi della scrittura dalsuo stesso interno, quasi come l’effetto della putrefazione d’uncadavere; della pompa, dell’ostentazione e della magnificenza dicorti e sovrani nei Trauerspiel e nelle Haupt- und Staatsaktion;delle Wunderkammer e delle ricerche erudite; dell’emblematica edell’araldica. Tutto ciò nel tentativo di occultare l’inevitabileconfigurarsi in un volto, di tutto ciò che la storia ha, fin dall’inizio,di inopportuno, di doloroso, di sbagliato; un volto ove « ogni falsaapparenza della totalità si spegne » e che, dunque, in quantotrionfo dell’inespressivo [Ausdruckslose] e minimo dellaseduzione, si mostra per ciò che è: il teschio di un morto.

Proprio qui l’allegoria barocca si contrappone maggiormenteal simbolo del classicismo. Dove quest’ultimo vede la bellezzadella forma umana come pienezza dell’essere, come totalitàmomentanea, come armonia classica, il barocco coglie,nell’assoluta mancanza di libertà espressiva del teschio,l’enigmatica, ma significativa, espressione dell’aspetto naturalesupremamente degradato, dell’umano come dominio della colpa,della caducità, della morte. Perciò l’allegoria si contrapponeall’immobilità del simbolo, presentandosi come un progressolungo una serie infinita di momenti, come storia dei dolori delmondo, significante esclusivamente nelle stazioni della sua caduta.

Meglio si intende, allora, l’infinito progresso nella profonditàdei significati, che caratterizza il melanconico. In questo inoltrarsinello sprofondamento melanconico, l’allegorico, cadendo in unavera e propria vertigine dei significanti, diviene preda dellaseduzione del sapere assoluto. Tale seduzione, tale infinitoprocedere nel vuoto abisso del male, trasforma il mondo in unlabirinto, dominato dall’ambiguità dei significanti allegorici edall’eccesso dei significati possibili. Perciò Benjamin puòaffermare che questo sapere allegorico dischiude la falsa promessadi esperire concretamente:

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[…] un regno della spiritualità assoluta, e cioè senza Dio […].145

dove, però,

Lo stato d’animo che in esso predomina è il lutto, insieme padre[Mutter] e contenuto intrinseco delle allegorie.146

Le tre originarie promesse sataniche, che scaturiscono daquesto regno, allettando l’allegorista, sono:

[…] l’apparenza della libertà – nello scandagliare il proibito;l’apparenza dell’autonomia – nella secessione dalla comunità deidevoti; l’apparenza dell’infinito – nel vuoto abisso del male. Poiché èdi tutte le virtù avere davanti a sé una fine – il loro stesso esempio, inDio; così come ogni abiezione dischiude un infinito progresso dentrola profondità.147

In questo sprofondamento l’allegoria mostra la sua otticaspeculare, il suo ribaltarsi continuo di estremi contrari, il suomovimento eccentrico, la sua dialettica tra materiale e spirituale;in altre parole sfoggia ciò che getta l’allegorista nella disperazionemelanconica.

Questa condizione, secondo Benjamin, va ricercata nelladecisiva corrispondenza tra Saturno e il complessosintomatologico entro il quale la teoria umorale e l’astrologiapongono il carattere melanconico. L’immagine mitologica diSaturno presenta una polarità immanente alla sua stessa struttura.Egli domina l’età dell’oro, ma ne viene poi anche scalzato; generai figli, ma poi li divora, provocando, così, la sua eterna sterilità; invirtù della sua qualità di pianeta freddo, grave e asciutto, generaesseri assolutamente materiali e viene, perciò, posto a presiedere illavoro nei campi; in virtù della sua posizione, in quanto più alto ditutti gli altri pianeti, genera esseri assolutamente spirituali,contemplativi, incuranti della vita terrena e diviene protettore dellericerche più sublimi.

[…] tutta la saggezza del melanconico è asservita [hörig] allaprofondità; essa è estratta da uno sprofondamento nella vita delle cose

145 Ibid., p. 246.146 Ivi.147 Ibid., p. 247. Tali promesse, nei Trauerspiel, si mostrano perennemente all'opera ora neltiranno e ora nell'intrigante.

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creaturali e nulla le giunge del suono della rivelazione. Tutto ciò che èsaturnino rimanda alle profondità della terra […].148

In questa profondità lontana da Dio, in questa secessionedalla totalità vivente del mondo ove ogni cosa, personaggio,situazione può significarne qualsiasi altra, l’allegoristamelanconico soccombe alle seduzioni sataniche sopra riportate.

Sotto lo sguardo della melanconia l’oggetto diventa allegorico,essa permette che in lui la vita defluisca via; lasciandolo lì comemorto, ma garantito per l’eternità, per l’allegorico esso giace, lì,incondizionatamente. Il che significa che, da ora, esso ècompletamente incapace di irradiare un significato, un senso; ilsignificato che gli compete è quello che l’allegorico gli presta.149

Questa circostanza, queste seduzioni sataniche, sostieneBenjamin, ammantano la conoscenza – in quanto tentativo dipenetrazione nei segreti del mondo – di un aura diabolica,trasformandola da tentativo di salvezza in pronunciad’un’imparziale verdetto di annientamento sul mondo profano. Diqui le caratteristiche antinomie del mondo allegorizzato, ove, allostesso tempo, il dettaglio e l’accessorio [Requisit] così svalutati,proprio per la loro capacità di alludere ad altro, di trascendersi,acquistano una potenza tale da apparire incommensurabili con lecose del mondo profano; una potenza che li innalza e santifica sudi un piano diverso. 150

148 Ibid., p. 153-54. L’aggettivo hörig è da riferire a der Hörige, che assume il significato di“servo”, “schiavo”, sottolineando come la promessa satanica di libertà sia in realtàapparente e di come, per l’allegorico, si prospetti un destino di sudditanza alle forzecaotiche che sprigionano dai recessi più profondi della creazione decaduta; sudditanza cheingenera e riproduce, in un circolo di abiezione, la sua melanconia.149 Ibid., p. 191.150 Requisit, nel linguaggio teatrale, significa accessorio di scena. Nel saggio sull’opera diCalderón El mayor monstruo, los celos (in W. Benjamin, Opere complete, II. Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001.) Benjamin conduce un affascinante lettura di uno di questiaccessori, nella fattispecie un pugnale, e di come attorno a esso non solo si snodino puntiimportanti, dal punto di vista drammaturgico, della vicenda, ma di come proprio questiaccessori siano « […] il segno distintivo dell’autentico dramma del destino romanticorispetto alla tragedia antica, che nel profondo si nega all’ordine del fato. ». Il drammamoderno, il Trauerspiel, è dramma del destino nel senso di una rappresentazione, di unadrammaturgia, di una messa in scena del « placido e fatale decorso della natura. » comedestino tragico. La tragedia antica, invece, « nel profondo si nega al fato »: in essa v’è resadei conti (seppur silenziosa) tra l’eroe (vincitore nel suo sacrificio, in quanto in esso giunge

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Per cui il mondo profano nella contemplazione allegorica vienetanto elevato di rango quanto svalutato.151

Questa possibilità illimitata propria dei significanti didivenire continuamente risignificati, o, meglio, la disponibilità disignificanti e significati a divenire mero sostrato per il continuoprocesso di risignificazione, sino a giacere lì come morte cosepietrificate, strappate alla storia e consegnate alla natura, vieneafferrata dall’allegorico

non scansando minimamente l’arbitrio in quanto drasticadichiarazione del potere [Macht] del sapere [Wissen].152

Tale infinito movimento di sollevamento e caduta, talecontinua mortificazione di ogni intenzione redentiva, costituisce lospazio e la dinamica del rimuginare del sapiente, nel quale l’unicoe poderoso suo divertissement si ribalta incessantemente nelloscavo dell’abisso della sua melanconia.

Più in generale, questo abisso e questa rovina costituiscono,rispettivamente, il topos della cultura, della conoscenza, dellastoria, e la sua forma più propria: il frammento, la rovina. Ed è inquesto spazio che si presenta eminentemente il carattere arbitrariodella decisione sovrana, del potere assoluto e della saggezza delsovrano barocco, con cui egli sottrae al caos lo spazio politico,ponendo così il diritto. Ciò è indicato dall'etimo stesso del termine“decisione”: Entscheidung. Nel linguaggio giuridico essa sta persentenza, decisione, giudizio. Dunque la decisone sovrana, che,ponendo il diritto, pecca di hybris nei confronti del giudizio[Gericht] divino – unico che può ricomporre l'infranto e la

alla dignità di un carattere, di un ethos) e l’antico diritto incarnato nelle potenze del mito.Paradossalmente la tragedia antica è dramma del destino in un senso opposto al Trauerspiel:in essa il dramma si consuma a scapito delle potenze del destino, la tragedia è il lorodramma. In essa la supremazia del destino viene posta in discussione attraverso lo «sviluppo morale di elementi mitici ». Tragedia, dunque, come messa in scena del mito, macome rappresentazione che apre alla possibilità di una nuova e superiore storia, di unanuova e superiore lingua, di un nuovo e superiore diritto. Trauerspiel, invece, come messain scena della storia come mito, dell’accadere storico che tende a chiudersi in rigiditàmitica: in destino tragico. In esso non c’è alcuna moralità, ma, solamente, decorso,meccanica temporalità naturale, tempo ridotto a spazio, destino confermato nella storia.151 Ibid., p. 180.152 Ibid., p. 192.

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separazione che domina il mondo profano153 – si ritrova ad esseregiudizio [Urteil] mitico, che irrigidisce e svuota, pietrifica ilvivente; a essere giudizio [Entscheidung] che scioglie [scheidet],divide [teilt], separa [absondert] il vivente dalla sua fonte di vita.Nell’ambito della decisione è, quindi, già allegoricamentesignificata la possibilità del suo rovesciamento: la disfatta, la follia,la morte del re e dell'intero mondo ch’egli trascina con sé. Ladecisione sovrana mostra, qui, tutto il suo carattere di apparenzae, dunque, la sua impotenza nel sottrarre il vivente « all’ambitocolpevole di ciò che vive », al destino; mostra, ancora una volta,nel suo presentarsi come atto dia-bolico, l’affinità tra il sovrano eAdamo, tra la rottura del nesso di Anschauung e nominazioneprovocata dal sapere sul bene e sul male, dal giudizio, e iltentativo – impossibile – di separare definitivamente lo spaziopolitico dal caos delle forze mitiche. Mostra come

la creazione giuridica [Rechtsetzung] […] non depone affatto laviolenza [Gewalt], ma ne fa solo ora in senso stretto, e cioèimmediatamente, violenza creatrice di diritto [rechtsetzenden], inquanto insedia come diritto [Recht], col nome di potere [Macht], nongià uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamentee necessariamente legato a essa.154

Tanto è vero che, dal fondo di quest’abisso, il ghignosardonico del diavolo – contrassegno del carattere d’ingannodemonico che assume l’innalzamento di rango provocatodall’allegoria nel suo oggetto – colpisce l’allegorico.

153 Unico che può garantire la non paradossalità del simbolo teologico (unità di oggettosensibile e oggetto sovrasensibile).154 W. Benjamin, Per la critica della violenza, op. cit., p. 24. Nel saggio sulle affinitàelettive, Benjamin affida alla decisione un valore forse meno nichilista, meno melanconicodi quanto accada nel libro sul barocco. In quel saggio la decisione appare, pur sempre nelsuo carattere di apparenza-impotenza, come una delle poche risorse che competano agliuomini per sottrarsi all’ambito mitico-demonico: i personaggi della novella, al contrario diquelli del romanzo, si salvano proprio grazie alla decisione, che interrompe la cadutarovinosa entro i confini dell’ambito colpevole di ciò che vive, entro il destino, nel qualesono invece confinati Ottilia e gli altri. Pare che, in quel saggio, il nichilismo benjaminianotout court – che sembra dominare il libro sul barocco, per lo meno sino alle ultime cinque osei pagine – assuma tratti messianici più marcati e che il cielo barocco gravido dinuvolaglia che si muove scura verso la terra, si trasformi nell’eternità di un tramonto.

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Fondamentale per la comprensione delle antinomiedell’allegoria diviene, giunti a questo punto, la decisività che, pertale habitus di pensiero, acquista la consapevolezza che non solola caducità, la separazione, ma anche la colpa, assieme con esse,si insedi nel mondo. Di qui il nesso tra caducità-apparenza ecolpevolezza-demonicità. La colpa non sta solamente in colui che,osservando allegoricamente, tradisce il mondo per il desiderio disapere, ma altresì nell’oggetto della contemplazione. Quest’ultimo,proprio perché oppresso dalla colpa, non può trovare uncompimento di senso in se stesso; la pienezza del simboloteologico gli è negata. Ecco, allora, il mutismo della natura di cuiparla Benjamin anche nel saggio sulla lingua, ed ecco la cadutanel lutto dell’intera natura.

Giungiamo qui a un punto fondamentale per lacomprensione delle connessioni tra il libro sul TRAUERSPIEL e ilsaggio sulla lingua. Qui Benjamin afferma la sostanziale identitàtra lingua decaduta e lingua allegorica, tra lingua del giudizio,fondamento dell’astrazione, e allegoria. Identità che si fonda sullacaducità, sulla demonicità, sul luttuoso mutismo della natura.

La scoperta che la trattazione del Trauerspiel e dell’allegoriaportasse, infine, a un’interrogazione dello statuto della lingua ingenerale, fu talmente evidente per lo stesso Benjamin, da indurloa utilizzare qui le stesse parole utilizzate nel saggio sulla lingua,con poche, significative sostituzioni.155 Nel saggio sulla lingua, il

155 Vale la pena riportare qui i due testi per un loro confronto. Dal TP (GS I, I, p. 398): «Weilsie stumm ist, trauert die gefallene Natur. Doch noch tiefer führt in das Wesen der Natur dieUmkehrung dieses Satzes ein: ihre Traurigkeit macht sie verstummen. Es ist in aller Trauerder Hang zur Sprachlosigkeit und das ist unendlich viel mehr als Unfähigkeit oder Unlustzur Mitteilung. Das Traurige fühlt sich so durch und durch erkannt vom Unerkennbaren.Benannt zu sein - selbst wenn der Nennende ein Göttergleicher und Seliger ist - bleibtvielleicht immer eine Ahnung von Trauer. Wie viel mehr aber, nicht benannt, sondern nurgelesen, unsicher durch den Allegoriker gelesen und hochbedeutend nur durch ihngeworden zu sein. » Dal saggio sulla lingua (GS II, I, p. 155): «Weil sie stumm ist, trauert dieNatur. Doch noch tiefer führt in das Wesen der Natur die Umkehrung dieses Satzes ein: dieTraurigkeit der Natur macht sie verstummen. Es ist in aller Trauer der tiefste Hang zurSprachlosigkeit, und das ist unendlich viel mehr als Unfähigkeit oder Unlust zur Mitteilung.Das Traurige fühlt sich so durch und durch erkannt vom Unerkennbaren. Benannt zu sein -selbst wenn der Nennende ein Göttergleicher und Seliger ist - bleibt vielleicht immer eineAhnung von Trauer. Wieviel mehr aber benannt zu sein, nicht aus der einen seligen

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presagio del lutto delle mute cose della natura veniva, già nellostato paradisiaco, dall’essere conosciute dall’inconoscibile;dunque ancor maggiormente, in seguito, dal non essere piùnominate dalla beata lingua paradisiaca nominale, ma dalle centolingue degli uomini ove il nome era già appassito. Nel libro sulbarocco, dove emerge come lingua e natura decadute informino disé l’intero orizzonte mondano, il lutto non proviene nemmeno dalfatto che le cose siano conosciute dall’inconoscibile, madall’essere solamente lette, con incertezza, dall’allegorico, e, solotramite lui, solo tramite il suo arbitrio, divenire così altamentesignificative.156

Dunque l’origine dell’allegoria, prosegue Benjamin, varicercata nell’intima fusione che il medioevo decretò tra physis ecolpa e, quindi, tra ciò che è materiale e ciò che è demoniaco.Meglio: tra ciò che è materiale e la concentrazione delle svariateistanze pagane demoniache in una figura teologica rigorosamentedefinita: Satana. La creatura muta, salvata in quanto espressanell’allegoria, in quanto spiritualizzata, come s’è già detto, vieneal contempo lasciata lì come oggetto privo di vita, nella sua puramaterialità, asservendo così il sapere allegorico alla profondità el’allegorico allo sprofondamento melanconico, ove cade predadelle tentazioni sataniche.

Nel lutto, Satana, più che spaventare, è tentatore. In quantoiniziatore egli fuorvia verso un sapere che diviene qui causa di unacondotta colpevole, imperdonabile. Se l’insegnamento socratico puòerrare nell’asserzione secondo cui il sapere del bene induce a fare ilbene, ciò è ancora più vero per quanto riguarda il sapere del male. Enon è una luce interiore, un lumen naturale, che nella notte della

Paradiesessprache der Namen, sondern aus den hunderten Menschensprachen, in denen derNamen schon welkte, und die dennoch nach Gottes Spruch die Dinge erkennen. »156 Dal punto di vista storico qui va collocata la nascita dell’allegoresi barocca, comemomento di scontro e di risignificazione tra le istanze pagano-classiche, rinate nelrinascimento, e la concezione cristiana della natura decaduta; come la loro sopravvivenzanell’Europa cristiana in forma di demoni e la necessità di salvarli, svalutandoli,nell’interpretazione allegorica; come tentativo di riappropriarsi di una tradizione oramailontana dalla sensibilità corrente.

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tristezza [Traurigkeit] si schiude come questo sapere; bensì comebagliore sotterraneo che traluce dal grembo della terra.157

Il correlato formale-stilistico della polarità tra materialità espiritualità, tra svalutazione e innalzamento di rango, viene coltoda Benjamin come possibilità, per l’allegoria, di essere siaconvenzione sia espressione, sia scrittura sia immagine. Lamaterialità assoluta, il mutismo delle cose, il loro carattere di purisignificanti, di cifre potenzialmente e arbitrariamenterisignificabili, spingono sul loro carattere di convenzione,conferendo a qualsiasi cosa un carattere emblematico di scritturasegreta, di runa, di ideogramma. Tale aspetto trova conferma nellatecnica, fredda e disinvolta, con cui l’allegorico dispone dei suoisegni, per conferire loro qualsiasi significato la sua erudizione gliproponga (questo il divertissement cui si accennava poco sopra). Èproprio tale eccesso, però, a far acquisire alla muta cosa un fortecarattere espressivo con cui la materia si spiritualizza. Il mutosilenzio delle cose viene superato in direzione di una spiritualitàassoluta, di un puro significato. Ma in questa pura esteriorità delsignificato, nel suo barocco e ipertrofico accumulo, nellalontananza dalla materialità, l’allegorico sperimenta la suamassima distanza dal suono della rivelazione.158 Qui, in questorioscurarsi del significato, nel suo riacquistare carattereemblematico ed enigmatico, la pura superficialità (nel senso dellasuperficie) degli stucchi e delle decorazioni barocche, l’eruttivaespressione dell’allegoresi, rivela il riaffiorare del rimando a ciòche v’è di più profondo, all’abisso del significato, alla morte:ridiventa, insomma, materia risignificabile.159

In questa dialettica antinomica, priva di sintesi e armonia,ciò che è scritto tende all’immagine e viceversa; in questamancanza di sintesi, in questo tradimento del mondo per amoredel sapere, l’allegorico, posto sotto le insegne di Saturno, incontrala risata satanica dell’inferno.

157 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 245.158 Qui mancano assolutamente quegli elementi concreti che trovano la loro radice nelnome.159 Questo “profondo”, si rivela, infine, come una sorta di “profondità” della superficie.

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In lui, certo, l’ammutolire della materia è superato. Precisamentenella risata, e attraverso uno spettacolo [Vorstellung] estremamenteeccentrico, la materia acquista un’esuberanza di spirito. Diventatalmente spirituale che eccede ampiamente il linguaggio. Vuoleinnalzarsi talmente tanto, da sfociare nella stridula risata.160

Con questa dialettica l’ideogramma [Schriftbild] baroccoapproda al frammento, alla rovina, nella rigorosa contrapposizioneal simbolo plastico, all’immagine della totalità organica,dimostrandosi come « magistrale controparte della classicità ».

Non era conforme all’essenza del classicismo accordare alla bellae sensibile physis l’illibertà, l’incompiutezza, la fragilità. Ma proprioqueste l’allegoria del barocco porta nascoste sotto il suo sfarzochiassoso, con un’accentuazione prima improponibile. Un profondo escrupoloso presentimento della problematica dell’arte […] insorgecome contraccolpo alla sua autocelebrazione [Selbstherrlichkeit]rinascimentale.161

Con il culto barocco della rovina, dei ruderi,

[…] l’allegoria si confessa al di là della bellezza. Le allegorie sono,nel regno del pensiero, ciò che le rovine sono nel regno delle cose.[…] Ciò che sta lì staccato, sfinito, abbattuto in macerie, il frammentoaltamente significativo, il rottame: questa è la nobile materia dellacreazione barocca. […] Ciò che l’antichità ha lasciato in eredità sono,per i poeti barocchi, gli elementi con cui, pezzo per pezzo, si fonde lanuova totalità. Anzi: si costruisce. Perché la visione compiuta diquesto nuovo era: rovina.162

160 Ibid., p. 243-44. L’ultima frase, nella traduzione italiana da cui citiamo, èinspiegabilmente assente.161 Ibid., p. 182. La problematica dell’arte pone problemi gnoseologici e di metodofondamentali per la filosofia e per la sua Darstellung.162 Ibid., p. 184-85. Le rovine che l’angelus osserva salire al cielo. Si “costruisce”, non si“ricostruisce” perché non v’è nulla, del passato, che rimanga intero e riutilizzabile cosìcom’era: tutto è già rovina e sarà rovina. Ciò che importa è, dunque, non il risultato, ma lacostruzione, le sue modalità, il suo essere mezzo senza fine… La questione dell’eredità delpassato è fondamentale anche per Benjamin; problema principale è l’indagine del rapportotra pensiero e tradizione; tradizione non più intesa come continuità, ma attraversata da unarottura. Essa, per il presente, rischia di divenire fardello pesante da portare sulla schiena.L’allegoria nasce spesso in epoche in cui c’è rottura col passato: essa è un modo perriattualizzarlo, ripolarizzarlo; perciò il concetto di immagine dialettica si forma, perBenjamin, nel confronto con l’allegoria e ne assume alcune caratteristiche: la non totalità,la non sintesi, la cesura, il privo d’espressione, il suo nichilismo, il suo carattere costruttivo-combinatorio…

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Da qui la pratica artistica non come fantasia, come facoltàcreativa in senso moderno, ma come Ars inveniendi, come artecombinatoria, come ostentazione della fattura, in cui e per cuil’erudizione si rivela fondamentale.163 Di qui la natura che appare,ai poeti barocchi, meno nei boccioli e nei fiori che nellamarcescenza e nel deperimento delle sue creature; una naturasentita come

[…] un’eterna caducità entro la quale soltanto lo sguardo saturninodi quella generazione riconosceva la storia. […] col decadimento, soloe unicamente con esso l’evento storico si contrae e trova posto sullascena. La quintessenza di quelle cose in disfacimento è l’oppostoestremo di quel concetto di natura trasfigurata che era stato concepitodal primo rinascimento.164

Al comandamento che ordinava di fracassare tale decadutanatura, per poi leggervi nei suoi cocci il vero significato, fissato,come scritto – con il quale l’allegoria tenta di salvare il caduconell’eterno – non poteva sfuggire la figura umana. Solamente sulcadavere, sulle disiecta membra del corpo umano,l’allegorizzazione della physis può imporsi con la massimaenergia, in quanto lì l’uomo

[…] pianta in asso la sua physis convenzionale e provvista di unacoscienza per poi distribuirla tra le multiformi regioni del significato.165

Ecco, allora, tutto il repertorio d’orrore e di martirio di cui sicompiacciono i Trauerspiel, con il cui contributo la scena divieneancora più fosca e confusa. Infatti dove, come qui, dominal’onnipotenza del significare allegorico, le cose vengono raccoltesecondo i loro significati. Ma recando, queste, su di sé,l’inevitabile sigillo del troppo-terreno, mancando una realepartecipazione del significato all’esserci delle cose nella loromaterialità, e rimanendo l’espressione del significato, proprio inquanto allegorica, irrimediabilmente diversa dalla sua

163 Si combina e si costruisce con ciò che c’è, con ciò che è andato ed/o è stato distrutto,mostrando come questo “ciò che c’è” sia “tutto ciò che c’è”. Ciò è possibile grazieall’erudizione, che Benjamin chiama filologia.164 Ibid., p. 186.165 Ibid., p. 231.

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realizzazione storica,166 la raccolta si trasforma in dispersione,l’ordine apparente del sapere in disordine diabolico, la profondamelanconia in allegria infernale, la stanza dell’allegoristanell’antro del mago o nel laboratorio dell’alchimista e, vincitoreunico, rimane il sembiante rigido della natura significante e unavolta per tutte la storia rimane rinchiusa nell’accessorio [Requisit]:

Conformemente alla dialettica di questa forma d’espressione, ilfanatismo della raccolta ha il suo contrappeso nella fiacchezza delladisposizione: particolarmente paradossale la rigogliosa distribuzione distrumenti di penitenza o di violenza.167

Tutto ciò, se da una parte consegna il mondo alla volatilitàdel significato, dall’altra lo riduce alla componente materiale piùeffimera e adeguata a questa volatilità: la polvere.

In polvere, alla fine, viene ridotta persino la stessa lingua.Conformemente all’intenzione allegorica del barocco, anch’essa ècostretta ad assistere alle continue ribellioni dei suoi elementi, inun gioco che assomiglia al sezionamento di un cadavere, o allepratiche di mortificazione del corpo, nel quale solamente iframmenti riescono ad accedere a un’espressività diversa e a unsignificato maggiore. Nulla contraddistingue la lirica barocca piùrigorosamente, sostiene Benjamin, della sua mancanzad’apparenza. Apparenza che, con il suo trasfigurare e illuminare ilcontenuto dell’opera d’arte, portava un tempo a ricercare in essal’essenza della forma artistica. Tale mancanza, tale insufficienteavvolgimento del contenuto, mette a nudo la lingua e in essa

[…] la sillaba e il suono, emancipati da qualsiasi connessionetradizionale di senso, si pavoneggiano come cose atte a essere sfruttateallegoricamente.168

Presentandosi come rovina, anche la lingua vien presa nelladialettica dell’allegoria e, messa da parte la sua funzionemeramente comunicativa, si presenta come forma naturale daallegorizzare, da innalzare alle altezze degli dei, dalle quali poi,però, meglio e con più fracasso precipitare. Non a caso l’aspetto 166 Altrimenti sarebbe parousia, simbolo teologico, coincidenza di Profano e Messianico.167 Ibid., p. 196.168 Ibid., p. 219.

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fonetico rimane per il barocco un che di puramente sensibile,mentre solamente nella scrittura dimora il significato. Esso cercasoggiorno nella parola pronunciata solamente come un’ineluttabilemalattia che, riecheggiando, irrompe in un ristagno del sentimentopronto a sgorgare, risvegliando il lutto.

Il significato ricompare qui e diviene, come ricorre altrove,fondamento della tristezza [Traurigkeit]. La sua estrema asprezzadovrebbe contenere l’antiteticità di suono e significato qualora siriuscisse a restituire entrambi in uno, senza che essi venissero acoincidere nel senso dell’organica costruzione linguistica. […] Ilribaltamento della pura sonorità del linguaggio creaturale nell’ironiagravida di significato, che riecheggia dalla bocca dell’intrigante, èestremamente caratterizzante del rapporto tra questo compito e lalingua.169

A questo punto la distanza tra lingua paradisiaca e linguadecaduta, tra nome e allegoria è estrema, e la separazione, che ilgiudizio in seguito al peccato originale ha provocato tra verità esapere, tra salvezza e umanità, è abissale.

D’altra parte però, alla meditazione, quando non mira tanto epazientemente alla verità quanto incondizionatamente eobbligatoriamente, con tutto l’acume del suo sguardo, al sapereassoluto, le cose si sottraggono nel loro semplice essere per poipresentarsi a essa come una rete di enigmatici rinvii allegorici e, diconseguenza, come polvere. L’intenzione dell’allegoria è cosìcontrastante rispetto a quella della verità, che in essa, più che inqualunque altro luogo, risulta chiaramente la coincidenza di unacuriosità pura e puntata sul mero sapere e della presuntuosaseparatezza [Absonderung] dell’uomo.170

Se, ricordando quanto detto da Benjamin nel saggio sullalingua, dal peccato originale sorge la nuova magia della linguagiudicante come ripristino dell’immediatezza e supplenza allaoramai perduta lingua nominale, ciò che l’allegoria obbliga asperimentare è proprio il carattere d’apparenza che costituisce ilgiudizio e lo stato di separazione in cui viene gettata l’umanità.171

169 Ibid., p. 222.170 Ibid., p. 245-46.171 “Separazione”, in tedesco, è Absonderung e, in quanto tale, può essere usato comesinonimo di “astrazione”.

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Il sapere frutto della lingua decaduta, che vorrebbe supplirel’immediatezza nella comunicazione del concreto propria delnome, si mostra come supplizio e sacrificio di tale immediatezza,nell’astrazione, nel mero sapere.172 Un mero sapere che, infatti,costituisce la vergogna della coppia adamitica dopo il pastoproibito; un mero sapere che si lega, in quanto magico – comevisto più sopra anche nello Zohar – alla materialità, alla carne, allacorporeità. Un sapere la cui parvenza di spiritualità assoluta èpromessa satanica di libertà, di autonomia, d’infinito, ma che, inquanto satanica, e in quanto, dunque, emancipata dal sacro, sirivela, appunto, come separazione, come privatezza di vita, comeastrazione, come dimorante esclusivamente nella materialitàesanime: nella facies hippocratica del mondo.

Il resto è silenzio. Poiché tutto ciò che non è stato vissutosprofonda irrimediabilmente in questo spazio in cui soltantoingannevolmente aleggia la parola della saggezza.173

La coscienza [Bewußtsein], sorta anch’essa col giudizio, sirivela come il luogo vuoto di questo sapere, come l’impossibilesintesi dei poli che costituiscono l’ambito satanico della spiritualitàassoluta e della guasta materialità; come

[…] loro sintesi ingannevole, che scimmiotta quella autentica,quella della vita.174

172 Ogni giudizio comporta e richiede un sacrificio: il sacrificio della nominabilità della cosa stessain nome dell’esattezza del suo riferirvisi. Il giudizio sopprime quel Mit del Mit-teilung che è allabase della comunità, lasciando sussistere solamente il Teilen. Di qui la spinta di Benjamin verso lepossibilità dell’epica moderna, del narrare, del mostrare, del nominare che si incarnano nel teatroepico brechtiano, nelle pratiche del surrealismo, in romanzi quali Alexanderplatz, nel cinema,nella fotografia. Sempre con la consapevolezza, però, che la lingua è da sempre decaduta e quindida sempre “giudicante” e dunque produttrice di “separazione astrazione”. Perciò la forma di quelMit andrà pensata in negativo come mancanza, come im-possibile, come contingente, comefrattura e come ciò che non può/non deve nascondere il proprio non poter essere narrato,mostrato, nominato. In altre parole come una forma che esibisca la sua finitezza, la suacontingenza, la sua ontologica mancanza come potenza-di-non. La forma come Ausdrücklose.

173 Ibid., p. 160.174 Ibid., p. 247. In altro luogo, segnatamente a p. 193, Benjamin, a proposito di questadialettica tra spirituale e materiale, tra innalzamento e svalutazione dell’oggetto allegorico,già era ricorso alle scimmie: « È vero che la clamorosa ostentazione con la quale l’oggettobanale sembra emergere dalla profondità dell’allegoria ben presto fa posto al suo sconsolatovolto quotidiano, è vero che all’assorta partecipazione del malato a quanto è isolato e

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La coscienza, dunque, come estraneità alla vita, come poteredisgregante. Nel potere del giudizio, nel sapere, l’umano, col suotentativo di ricomporre l’unità infranta della verità, soccombe aquesto suo stesso potere che, separandosi da lui, si costituiscecome diritto, come potenza demonica, come destino; vale a dire siassoggetta alla violenza del diritto che irrigidisce il vivente invuota soggettività sprofondata in un mondo inerte. Il bando, lacacciata dal paradiso, l’avvio della storia come decadenza, e lacondanna a vivere in un tempo radicalmente finito, ma noncompiuto, stanno tutti in questo giudizio, in questa separazioneoriginaria [Ur-teil]. Il sovrano del Trauerspiel, i cui lineamentimagistralmente ha mostrato Benjamin, diviene l’emblema diquesto mondo privo di un orizzonte di salvezza, in quanto:

Il Trauerspiel tedesco non è mai riuscito ad animarsi, a destare illimpido sguardo dell’autoriflessione nel suo interno. Esso è rimastosorprendentemente oscuro a se stesso ed ha saputo dipingere ilmelanconico soltanto coi colori crudi e usurati dei libri medioevalisulle complessioni.175

Colui che, invece, riuscì in questo sguardo vivificante, infronte al quale la grezza scena della melanconia tratteggiata dalTrauerspiel incomincia la sua vita più intima, è il genio dürerianodella melanconia alata.

3.2.2 Allegoria e verità.

Sapere, non azione è la forma d’esserci più propria del male.176

Infatti, come detto più sopra, nell’incisione düreriana glioggetti della vita attiva giacciono inerti a terra, oggetto del

infimo segue un deluso lasciar cadere l’emblema svuotato, la ritmica del quale unosservatore attrezzato speculativamente sa ritrovare, ripetutamente e significativamente, nelcomportamento delle scimmie. Ma sempre e di nuovo si affollano i particolari amorfi, chesoli si propongono come allegorici .».175 Ibid., p. 161. Questo “limpido sguardo” riesce, invece, secondo Benjamin, a Calderón ea Shakespeare.176 Ibid., p. 246. Filippini travisa completamente il senso di questa affermazionetraducendo: « Essere, non sapere: questa è la forma più peculiare di esistenza del male .» Iltesto tedesco recita, invece: Wissen, nicht Handeln ist die eigenste Daseinform des Bösen.

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rimuginare del melanconico, in quanto la lingua decaduta, ilgiudizio, il sapere, non rivelano più nulla o, meglio, rivelano ilnulla di tutte le cose, il loro carattere allegorico e la loroappartenenza all’ambito satanico-demonico, che apre allosprofondamento nell’oscurità della terra del melanconico. Però ciòche rimaneva inspiegato, allora, era il perché questi oggetti inertial suolo non calamitino, come dovrebbero, lo sguardo dell'uomomeditabondo di Dürer, che sembra colto, invece, nell'attimo in cuilo distoglie dalle profondità sataniche, per portarlo sul pipistrelloreggente il cartiglio con la scritta « Melencolia I ». Il pipistrello involo, nei Hieroglyphica di Orapollo, sta a significare proprio iltentativo dell’uomo di superare audacemente la miseria della suacondizione, osando l’impossibile.177 La figura alata diviene qui, perBenjamin, emblema del suo profondo nichilismo messianico; inessa vi coglie l'attimo messianico, la speranza nella non speranza.Perché certo, l’allegoria – in quanto sapere profondo, rovina,abisso, inferno – è sì sapere demonico, sapere della separazione edella caducità e del “vanitas vanitatum omnia vanitas” di biblicaascendenza; ma proprio il suo insediarsi sul terreno della storia,del profano, della limitatezza, dell’apparenza anziché su quellodel mito, la sua inquietudine, il suo infinito differire il significato,il suo carattere accumulativo-distruttivo, gli impediscono diconchiudersi in totalità – come invece accade nel simbolo – e dipretendersi verità.178 Queste sue peculiarità la sospingono, invece,verso il suo autosmascheramento, verso un’autoallegoresi chesuscita la confessione del suo carattere di fantasmagoria irrigidita,di ingannevole oggettività, impedendogli di raggiungerequell’autotrasparenza, quell’autofondazione tipica del mito. Laseparazione e la lontananza dell’allegoria dal suono dellarivelazione, di fronte al mondo vero, rivelano il loro carattere 177 Cfr. per questa interpretazione, Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nellacultura occidentale, Einaudi, Torino 19772. A p. 173 del TP, Benjamin si riferisce agliHieroglyphica come a una fonte cui attinsero gli umanisti cercandovi metodi diinterpretazione dei geroglifici. In questo sforzo interpretativo situa uno dei motivi dellosviluppo storico della forma allegorica.178 Ciò che occuperà Benjamin, dopo il TP, è la messa a punto di strumenti ove questoresiduo mitico dell’allegoria scompaia. Andrà, cioè, non verso la purezza auspicata daKraus, ma verso una purificazione-distruzione.

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esclusivamente soggettivo. La perdita del mondo, che si cela inessa, diviene il presupposto per un rovesciamento in cui, solo, unbarlume della verità può divenire, nell’attimo, visibile.

Arrivando al fondo dell’abisso, l’allegoria attua quindi il suocapovolgimento dialettico: non trovando più nulla da allegorizzaree non potendo quindi far altro – in virtù della sua legge – checontinuare a scavare sul fondo, allegorizza se stessa comeallegoria della redenzione.

La sconfortante confusione del Golgota [Schädelstätte] che siritrova quale schema delle figurazioni allegoriche in migliaia di stampee di descrizioni dell’epoca non è soltanto il simbolo della desolazionedi ogni esistenza umana. La caducità è in esse non soltanto significata,allegoricamente esposta, quanto, a sua volta significante, offerta comeallegoria. Come allegoria della resurrezione.179

In un sol colpo il sapiente, l'allegorico, si ridesta vigile nelmondo di Dio e la speranza rinasce dalla presunta infinità dellasua assenza. Con quell'unica piroetta, che anche chi precipita puòattuare, si disperde ciò che per l'allegoria era più intrinsecamentepeculiare, vale a dire le tre promesse sataniche: il sapere segreto –vale a dire l’apparenza della libertà nello scandagliare il proibito;il tirannico arbitrio nell’ambito delle cose morte – cioè l’apparenzadell’autonomia con la conseguente secessione dalla comunità deidevoti; la presunta infinità della disperazione – ossia l’apparenzadell’infinita discesa nel vuoto abisso del male. In altre parolel’affondamento allegorico, portato al suo limite, rimuove l’ultimafantasmagoria dell’obiettività.180

L'allegorico scopre che l'inganno diabolico – responsabiledel suo sprofondarsi melanconico – non è che mitica apparenza asua volta e, infatti, il diavolo, così come inatteso appare dalleprofondità della terra, altrettanto improvvisamente scompare inuna nube di zolfo - e che il sapere che l'aveva condotto laggiù,alla luce del mondo redento e della grazia divina così

179 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 249180 Giunti a questo disvelamento, nel dramma barocco il sovrano, che incarna questafantasmagoria irrigidita in cui il diritto trova autofondamento, si fa martire e muore,trascinando con sé tutto il suo mondo e mostrando così, dunque, l’apparenza del suo essereab-solutus.

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paradossalmente ritrovata, si rivela per il suo carattere di vuotachiacchiera così come vuota si scopre la soggettività: la sua realtà èmero rispecchiamento di se stessa in Dio.181

Nell’allegoria il giudizio, la lingua giudicante dell’umanitàdecaduta, divengono emblema di questo sapere vuoto e dellaconoscenza astratta che da esso scaturisce, ma anche emblema di unsuo possibile rovesciamento. Contro la conoscenza intellettuale, vuota eastratta, Benjamin rivolge tutta la sua potenza di pensiero, delineando lasua metodologia critica e la sua teoria della conoscenza nella Premessaal TRAUERSPIEL. Contro una pretesa razionalità sistematica, che nellasua hybris filosofica pretende di possedere la verità. Solamente con unaDarstellung filosofica che tenga conto del ribaltamento dialettico-messianico proprio dell’allegoria sarà possibile un sapere che tengaconto delle modalità stesse con cui si da la verità. Ove è chiaro che sitratta, come già detto più sopra, di un messianico nichilista: comenell'allegoria lo scavarsi l'abisso della ponderación mysteriosa è solomomento preparatorio alla salvezza – che arriva poi dal cielo, non dallaterra – preparazione al miracolo, così la ricerca filosofica può solopreparare l'avvento del messianico.

Di ciò che è più grande - dell'adempimento dell'utopia - non si puòparlare, ma solo testimoniare.182

Tale anche il senso delle ultime righe del TRAUERSPIEL: soloun'assunzione integrale della finitezza può aprire alla verità, così comesolo un'immagine del bello che deponga il suo carattere espressivo e siprofessi quindi finita, interrotta, cesura, rovina, frammento e polvere puòcreare uno spazio ove può vibrare, per un attimo, la vita-verità.

Nello spirito dell'allegoria, esso è concepito fin dall'inizio come rovina,come frammento. Se altre risplendono stupende come il primo giorno, questaforma tiene ferma nell'ultimo giorno l'immagine del bello.183

181 Di qui la cosiddetta “verbosità” del barocco e la sua tendenza all’accumulo eall’affastellamento di rovine e frammenti, nei quali solo può rilucere la salvezza.182 Id., Paul Scheerbart: Lesabéndio, in Id., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco,op. cit., p. 130.183 Ibid., p. 253.

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“Beauty is truth, truth beauty,” - that is all Yeknow on earth, and all ye need to know.

John Keats, Poems, London 1817.

4.1 Arte, filosofia e verità.Dopo questa analisi sulla lingua e sull’allegoria, possiamo

dunque tornare al problema con cui terminammo il primocapitolo, la Darstellung, ovverosia la questione della forma e delmetodo della filosofia.

Già con quanto detto finora si può sostenere che l’idea difilosofia che Benjamin persegue è quella di un pensiero moltovicino all’arte. Questo non nel senso di un presupposto, di unpregiudizio, di un approccio ingenuo con il quale scansare ledifficoltà che un uso critico della ragione pone innanzi, ma, alcontrario, come risultato di un lavoro sul campo, che vede lamessa in opera della razionalità nell’ambito della riflessionesull’arte e che scopre come questa messa in opera ponga alpensiero problemi e questioni che sono comuni, propriamente,alla filosofia come all’arte, in quanto entrambe hanno a che farecon la messa a punto di forme.

Da questo punto di vista la riflessione sull’arte pone allafilosofia il compito di interrogarsi sui problemi della forma e delcontenuto, dello stile e della rappresentazione, della verità e dellabellezza, dell’apparenza e dell’espressione. Di contro a unatendenza – individuabile lungo tutta la storia della filosofia – chevede la scrittura come semplice mezzo di comunicazione delpensiero, ove il piano espressivo viene implicitamente posto comeneutro rispetto al contenuto concettuale veicolato; contro unatendenza che vede l’interrogazione radicale del proprio essereiscritta nel significante, del proprio essere forma comeappannaggio esclusivo dell’esperienza estetico-letteraria e comenon pertinente a un discorso sulla verità e sul sapere; controquesta tendenza si pone la ricerca benjaminiana, nella

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consapevolezza che il nesso tra Darstellungsweise, tra mediumespressivo e contenuto di pensiero è assolutamente fondamentalee, si potrebbe dire, pregiudicante. In certo qual modo questaquestione attraversa tutti i gli scritti di Benjamin, sia a livello deisoggetti trattati, sia a livello dei metodi e delle innumerevoli formeespositive da lui sperimentate.

Non potendo condurre un’esauriente analisi di tutti gli scrittidi Benjamin, ci soffermeremo ancora sul libro sul TRAUERSPIEL, inspecial modo sulla Premessa, in quanto rappresenta un nodocentrale per due motivi: da una parte in quel lavoro Benjaminutilizza la quasi totalità delle riflessioni elaborate negli altri scrittiprecedenti e contemporanei, giungendo a una loro più ampiatematizzazione e a una loro migliore coordinazione.184 Dall’altra ènostra convinzione che una lettura e un’analisi della produzionebenjaminiana posteriore, possa assumere tutta la sua pregnanzasolamente partendo da una comprensione e un’acquisizione deiproblemi – alcuni risolti, altri lasciati aperti – posti in quest’opera.

Dunque, dicevamo, arte e filosofia. Questa, con la prima,condivide un fare che è composizione, costruzione; un operareche consiste nel dare forma a qualche cosa. In questo loroprocedere, fondamentale diviene, perciò, il rapporto tra forma econoscenza; rapporto che non può fare a meno di porre inquestione la codificazione storica della forma e la consistenzastorica della conoscenza, il suo rapporto con la tradizione e con ildivenire. È questo rapporto problematico che avvicina Benjaminagli scritti scientifici di Goethe, come pure ai romantici e alle lorospeculazioni sulla critica. In questo senso, in un contesto di crisidella razionalità filosofica – che possiamo, seppur riduttivamente,individuare nella crisi dell’idealismo tedesco e nella sopraggiunta

184 Questo risultato viene proprio dalla messa in opera, dalla messa al lavoro della massadelle sue riflessioni attorno a un centro ben preciso: il Trauerspiel. In un frammento delPassagenwerk [N 1,3] questa messa in opera assume in pieno la sua valenza metodologica:« Dire qualcosa sull'aspetto metodologico della stesura stessa: quando si attende ad unlavoro, tutto ciò a cui si sta pensando deve ad ogni costo esservi incorporato. Sia che in ciòsi manifesti l'intensità del lavoro, sia che i pensieri portino in sé sin dal principio un telosad esso rivolto. Questo vale anche per il caso presente, in cui si devono caratterizzare ecustodire gli intervalli della riflessione, le distanze tra le parti più essenziali di questolavoro, rivolte con estrema intensità verso l'esterno ».

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coscienza dell’impossibilità del sistema, dell’impossibilità di unaconoscenza che si fa assoluta, sistematica, e dell’incapacità diquest’ultima di rendere conto dei fenomeni nella loro singolarità –Benjamin fa proprio l’augurio goethiano di una ricomposizionedella frattura che separa scienza e arte. Il suo tentativo fu quello ditrovare un pensiero che si sottraesse al riduttivismo e all’astrazionedel sapere concettuale tipico della prima, e che, al contempo, nonrinunciasse alla razionalità e al valore di verità del pensiero,scadendo in misticismo volgare o in forme pericolose diirrazionalismo o in un nichilismo relativista. La capacità veritativadell’arte, il suo potere universalizzante – che non pregiudica laconsistenza delle sue singole opere e delle sue singole forme,riducendole a mere particolarità disciolte nell’universalità astrattadel concetto – furono gli obiettivi e i compiti che polarizzarono lariflessione di Benjamin.

Il dominio dell’arte, abbandonata l’idea di una filosofia comesistema – idea che, nel saggio Sul programma della filosofia futura,era vista da Benjamin come ancora possibile – il dominio dell’arte,dicevamo, sembra presentarsi a Benjamin come quel superioreambito d’esperienza di cui l’appena citato saggio avvertival’esigenza.

Il sistema, chiamato da Benjamin anche “ideale delproblema”, si rivela nella Premessa come chimera pericolosa.L’unica forma con cui la logica sistematica si riferisce alla verità,dice Benjamin nella Premessa, è costituita da una sillogisticacontinuità nel processo del pensiero, da « un nesso scientificoprivo di lacune ». Qui il potere astraente del giudizio, della linguagiudicante, del concetto classificatorio, mostrano appieno la lorocolpevolezza, consistente nel rendersi immemori del loro oggetto,di non porsi all’ascolto e all’osservazione di esso, di queglielementi concreti che hanno, invece, la loro radice nel nome. Ilfatto che la conoscenza riduca il suo oggetto a mera funzione dischemi e momenti organizzativi precostituiti, a mero possessonella coscienza, produce quella frattura tra esperienza econoscenza, responsabile di quell’impoverimento del concetto di

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esperienza di cui parla Benjamin nel saggio Sul programma dellafilosofia futura a proposito di Kant.

Sulla base di ciò, la Darstellung assume in pieno la suaimportanza. Se la filosofia vuole porsi come Darstellung dellaverità, essa dovrà corrispondere alla forma con cui si da la verità,rispettandone ciò che più sopra abbiamo indicato come la sua“trascendenza” o, che è lo stesso, la sua perdita già da sempreavvenuta. Se questa forma non è un “possedere nella coscienza”,ma “diretta determinazione”, la Darstellung dovrà porsi comeUmweg, come Darstellung del darsi stesso della cosa, della suaverità, nella consapevolezza che quest’ultima non è maianticipabile nel sistema come forma trascendentale; la verità nonentra mai a far parte di un rapporto intenzionante. Ecco che,allora, sulla scia di Goethe, nessun sistema di leggi va cercatodietro il darsi dei fenomeni, nessuna verità si darà mai all’internodi un sistema di conoscenze, ma, al contrario, ogni fenomeno è giàdi per sé teoria e la Darstellung deve, quindi, porsi comeesposizione di questa, come esposizione di idee in cui salvare ifenomeni senza volatilizzarli. Un’epistemologia riduttiva cheponga come proprio fine la definizione a priori di struttureuniversalmente valide e necessarie dell’esperienza, finisce perridurre la verità alla logicità del sistema di queste strutture,sacrificando a essa l’unicità e la singolarità del fenomeno nelmomento in cui questo viene assunto, come oggetto,nell’universalità del concetto. In altre parole il sistema sarebbepossibile solamente presupponendo una lingua non decaduta, unalingua divina conoscente e creatrice al contempo, al cui giudizionon consegua un’astrazione, un infinito differire del significato,un’irriducibile trascendenza della verità. Ecco perché, allora,

L’oggetto della conoscenza, in quanto oggetto determinatonell’intenzione concettuale, non è la verità.185

Pensarlo come tale comporta, dunque, un irrigidimentomitico del fenomeno, dell’apparenza. Comporta una sorta diripetizione del peccato originale, una hybris in cui si vuole porre

185 Ibid., p. 12.

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come essere ciò che è solo apparenza, fenomeno. Ecco perché,allora, Benjamin sostiene che al filosofare autentico pertienel’inconclusività e che nulla, in esso, possa pretendere a validitàdefinitiva. Il rapporto con la verità risulta essere indiretto emediato e la Darstellungsweise dovrà essere, quindi,fondamentalmente allegorica e “limitarsi” non a spiegare, ma amostrare, nella sua forma, questa irriducibilità della verità allaconoscenza. Ciò comporta, inoltre, il costituirsi di ogni Darstellungfilosofica come interpretazione. Infatti, come dice Benjamin nelframmento Teologico-politico,

Solo il Messia stesso compie ogni accadere storico e precisamentenel senso che egli soltanto redime, compie e produce la relazione fraquesto e il messianico stesso. Per questo nulla di storico può volersi dase stesso riferire al messianico.186

La conoscenza concettuale e giudicante, dunque, la ricercadel “che cosa”, dell’essenza, risultano in tutto il loro caratteremitico.

La verità è un essere privo d’intenzione formato da idee. Lareazione [Verhalten] a lei conforme è, dunque, non un intendere, unvoler-dire [Meinen] nella conoscenza, ma in essa ritirare [Eingehen] escomparire. La verità è la morte dell’intenzione.187

Unicamente una Darstellung filosofica consapevole delcarattere allegorico della lingua, della sua condizione di colpa, delfatto che nella lingua decaduta più nulla si comunica, si vuole-dire, si in-tende – se non la lingua stessa – potrà corrispondere allaforma del darsi stesso della verità. Perciò compito della filosofia edella critica non è l'articolazione di un sistema concettuale in cuiintrappolare la verità come se venisse da fuori, ma la Darstellungdelle idee le quali « si offrono all'osservazione ». Il fatto che la 186 Id., Frammento teologico-politico, op. cit., p. 171.187 Id., Il dramma barocco tedesco, op. cit., pp. 12-13. V’è un passo di Benjamin che, ne Ilconcetto di critica nel romanticismo tedesco (p. 103), dando una definizione di critica,recita: « Critica è la preparazione [Darstellung] del nucleo prosaico di ogni opera. Ilconcetto di Darstellung è inteso qui nel senso chimico di preparazione, cioè comeproduzione di una sostanza attraverso un determinato procedimento, al quale altre sostanzevengono sottoposte ». Perciò si è scelto di rendere Verhalten, solitamente tradotto con“comportamento”, con il significato strettamente chimico di “reazione”. Invecesull’importanza di Eingehen nel lessico benjaminiano, cfr. p. 29 e ivi n. 66.

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verità rinunci a un “voler dire” nella conoscenza, a un “in-tendere”, per risolversi, invece, in essa, nella sua formad'esposizione, mostra la teorizzazione della ricerca filosoficabenjaminiana come vera e propria pratica artistica: messa in formadella verità. La forma espositiva, la Darstellungsweise diviene quelvelo che, se si vuol rendere giustizia alla trascendenza della verità,è impossibile togliere, pena la distruzione di essa o, meglio, la suareificazione in esattezza, giustezza.

Precisamente questo può essere il significato della favoladell’immagine velata, a Sais, la quale, mostrata, provoca la distruzionedi colui che riteneva di poter interrogare la verità. A determinarequesto esito non è un’enigmatica crudeltà della situazione, bensì lanatura stessa della verità, al cospetto della quale anche il più purofuoco della ricerca si spegne, come sott’acqua.188

Qui giungiamo, a nostro avviso, al centro teorico delleargomentazioni benjaminiane; a quella sua personaleinterpretazione del platonismo che, identificando nome e idea,giunge a una sorta di punto d’indifferenza tra realismo enominalismo, a una diagonalizzazione del problema sul valoreontologico delle idee platoniche.

Dopo il frammento sopra citato, Benjamin continua così:

In quanto di ordine ideale, l’essere della verità è diverso dalgenere d’essere dei fenomeni [Erscheinungen]. Per cui, la strutturadella verità esige un essere che per la sua non intenzionalità, somigli aquello puro e semplice delle cose, ma che questo superi perconsistenza [Bestandhaftigkeit]. Non in quanto un in-tendere [Meinen]che troverebbe nell’empiria la sua determinazione, bensì in quantopotenza [Gewalt] che sola imprime l’essenza di questa stessa empiria,consiste la verità. L’essere sottratto a ogni fenomenicità, l’unico esserea cui spetti questa potenza, è quello del nome. Esso determina la datità[Gegebenheit] delle idee. Ma esse si danno non tanto in una linguaoriginaria, quanto a un interrogare, a un percepire, a un udireoriginario [Urvernehmen], nel quale le parole possiedono una nobiltàdenominativa, non perduta a vantaggio del significato conoscitivo.189

188 Ibid., p. 13.189 Ivi.

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Nel nome, dunque, si da quella specifica “salvazione deifenomeni” che costituisce l’obiettivo della Darstellung filosofica.Nel nome, come darsi dell’idea, Benjamin rintraccia quella“delicata empiria”, quell’Urphänomen che, per Goethe, costituiscela teoria che gli stessi fenomeni già sono e che conferisce loromaggior tangibilità e perspicuità. Non, dunque, l’idea comeconcetto in cui i fenomeni si risolvono integralmente, e nemmenocome loro legge regolativa, come circoscrizione di un ambitokantiano di validità assoluta. I fenomeni e la teoria noncostituiscono due poli opposti, ché, se così fosse, i concettisarebbero meri segni, meri mezzi e la filosofia si ridurrebbe astrumento in cui nulla ne è delle cose, dei fenomeni. Riconoscerel’essere delle cose, solamente nella misura in cui esso vieneassunto nel concetto – come proprietà di una coscienza, di unsoggetto – significa porre la realtà obiettiva alla mercé dellatirannia di questo soggetto. Significa cadere nell’ingannodemonico o, meglio, satanico – di cui s’è parlato a propositodell’allegorico e del Trauerspiel – dove la soggettività, al cospettodel giudizio celeste, scopre il suo essere nulla, il suo essere vuota.Tale gnoseologia, fondata sul dualismo metafisico soggetto-oggetto, rappresenta ciò contro cui Benjamin punta la suariflessione e ciò di cui la filosofia deve sbarazzarsi, allo stessomodo con cui l’allegoria, infine, giunge al proprioautosmascheramento, scoprendo il suo carattere di “ciarla”. Infatti,nonostante la lingua dell’uomo sia decaduta e impossibilitata alrecupero di una pura lingua denominante, di una lingua originariacome quella adamitica, pure il pensiero deve porre attenzione alletracce delle cose che nelle parole si conservano, a quegli elementiconcreti di cui il nome costituisce il fondamento in cui radicarsi.Perciò la filosofia tenta di corrispondere, nonostante tutto, alcompito di nominare le cose assegnato da Dio all’uomo. « Ma ilnome non è soltanto l’ultima esclamazione [Ausruf], ma anche lavera evocazione [Anruf] della lingua », diceva Benjamin nel saggiosulla lingua. La filosofia come nominazione diviene, allora, un ex-vocare, un chiamare fuori ciò che, dopo la caduta, si sottrae allalingua, cercando di dare voce alla lingua muta delle cose. Perché

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L’idea è un che di linguistico e, precisamente, ciò che nell’essenzadella parola è ogni volta quel momento per cui la parola è simbolo.190

Ciò che la conoscenza astratta, concettuale e giudicante ignora, èproprio questo carattere simbolico della parola, vale a dire il suopiù o meno nascosto rimando alle cose. In quanto tale, in quantosapere separato, dicevamo più sopra, essa produce un infinitodifferimento tra le cose e la loro espressione e invalida, dunque, lapossibilità dell'unità tra oggetto sensibile e oggetto sovrasensibile,che costituisce il paradosso del simbolo teologico; mina, vale adire, la possibilità di una lingua puramente simbolica: laparadisiaca lingua nominale di Adamo. Quest'unità infrantadepone ai piedi dell'osservatore melanconico la storia come mortorepertorio d'immagini, di segni, di frammenti e di rovine. Benjaminci mostra, qui, il pericolo che corre il pensatore sedotto dal sapere,il pericolo dello sprofondamento melanconico.

Il ricercatore predispone il mondo alla sua scomposizionenell’ambito dell’idea, e lo fa suddividendolo dall’interno in concetti.Ciò che lo lega al filosofo è l’interesse allo spegnimento [Verlöschen]della mera empiria, mentre il filosofo è legato all’artista dal compitodella Darstellung. Una concezione corrente ha subordinato troppo davicino il filosofo al ricercatore, spesso al ricercatore nelle sue formeminori.191

La scomposizione del mondo in concetti corrisponde allapreoccupazione del pensiero sistematico per la certezza assoluta;certezza raggiungibile solamente nel momento in cui il particolareviene assunto come possesso certo di una coscienza, di unsoggetto, nell’universalità di un concetto che, al contempo,volatilizza la concretezza del particolare, che rimane lì, inerte,come gli arnesi della vita attiva nell’incisione düreriana dellaMelencolia. La filosofia, invece, seppur partecipe a questascomposizione dei fenomeni nei concetti – che la accomuna allascienza –deve porre attenzione anche al loro recupero e alla loroconfigurazione, alla loro Darstellung nell’idea, avvicinandosi cosìall’operare artistico.

190 Ivi.191 Ibid., p. 9.

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La distinzione in concetti si solleva al di sopra di ogni sospetto didistruttiva cavillosità soltanto qualora miri a quel salvataggio deifenomeni nelle idee che è il platonico tà phainómena sóthein.Attraverso il loro ruolo mediatore i concetti concedono ai fenomeni difar parte dell’essere delle idee. E appunto questo ruolo mediatore lirende idonei all’altro e ugualmente originario compito della filosofia:alla Darstellung delle idee.192

Qui appare abbastanza chiaramente come le idee, la cuidatità e determinata dal nome, costituiscano la letturabenjaminiana dell’Urphänomen goethiano. Il nome è quella“superiore empiria” che non è né universalità astratta, néfenomeno, al pari di questi, rintracciabile nella mera empiria edisponibile all’intenzione conoscitiva.

Come tale, l’idea appartiene in un ambito per principio diverso daquello in cui rientra ciò che essa coglie. Sicché, quale criterio del suoesistere [Bestand] non si può adottare quello pertinente la questione seessa comprenda sotto di sé ciò che ha colto, come il concetto digenere comprende sotto di sé le specie. Poiché il compito dell’ideanon è questo. Un paragone potrà esporre il significato. Le idee sirapportano alle cose come le costellazioni alle stelle.193

Esse non sono, dunque, né i concetti né le leggi delle cose,ma un campo di forze entro il quale singolarità e universalità,diventando indiscernibili, permettono al fenomeno singolo didivenire totalità, perdendo ogni suo carattere episodico;permettono, vale a dire, il suo salvataggio. Perciò:

Nella percezione, nell’interrogazione, nell’udibilità [Vernehmen]empirica, nella quale le parole si sono scomposte, alle paroleappartiene, ora, accanto a un loro più o meno nascosto lato simbolico,un palese significato profano. È compito del filosofo restituirenuovamente, attraverso l’esposizione [Darstellung], il primato delcarattere simbolico della parola, nel quale l’idea giungeall’autotrasparenza e che costituisce l’esatto contrario di unacomunicazione rivolta all’esterno.194

192 Ibid., p. 10.193 Ibid., p. 11.194 Ibid., pp. 13-14.

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Dunque l’idea è il momento simbolico della parola. Ma,occorre ricordarlo, solamente nel simbolo teologico si appiana ilparadosso dell’unità tra oggetto sensibile e oggetto sovrasensibile;solamente nella manifestazione più pura del simbolo teologico,nella parola divina, nella rivelazione – e, dunque, nella linguapura adamitica come riflesso del verbo creatore divino – c’ècompiutezza, saturazione, pleroma in cui trovano coincidenzal’idea, il nome, la cosa. Perciò una Darstellung consapevole, sedeve trattenersi dall’identificare l’oggetto della conoscenza con laverità, non può nemmeno tentare di ricostituire quel nesso tranominazione e Anschauung, che permetteva alla lingua adamiticaun accesso diretto alle cose, un loro totale tradursi nel nomepuramente conoscente; pena il cadere nei paradossi di ogniapproccio mistico-intuitivo, che, come visto nel saggio sullalingua, non costituisce altro se non l’omologo opposto della teoriaborghese della lingua come strumento.

Questo intende Benjamin, affermando la Darstellung delcarattere simbolico della parola come il contrario di unacomunicazione verso l’esterno. Infatti continua:

Questo è possibile primariamente attraverso un rammemorare che,unicamente, indietreggi verso una percezione, un’interrogazione,un’udibilità originaria [Urvernehmen] – giacché la filosofia non puòarrogarsi un parlare nel senso della rivelazione. Forse l’anamnesiplatonica non è lontana da questa rammemorazione. Solamente chenon si tratta di far presenti [Vergegenwärtigung] delle immaginiall’intuizione; […]195

La Darstellung filosofica non può permettersi di averenostalgia dell’unità, già da sempre perduta, del simbolo teologico,percorrendo la via di un ritorno a casa in una nuova linguasimbolica, producendo immagini da offrire all’intuizione,seguendo un percorso di purezza.196 Tale simbolicità costituirebbe 195 Ibid., p. 14.196 Questo percorso ci pare sia invece quello seguito dal Kraus che emerge dal saggiobenjaminiano su di lui. Per sfuggire al demone, all’abisso mitico della separazione, chetrasforma la lingua in spoglia mortale dell’opinione, in ciarla, e che tramuta chiunque vi sidedichi in fuggitivo, Kraus tenta una rifondazione della lingua su valori autentici, educandoall’autentico pensiero. Questa è la missione della Fackel. Nella lingua tedesca egli venera «l’immagine della giustizia divina come lingua »; in essa « egli denuncia l’alto tradimento

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una sintesi che, ignorando la propria impossibilità insita nellalingua profana, sarebbe mitico irrigidimento dei fenomeni. Allora,la filosofia deve trovare una via, una lingua, che mostri, presenti,esponga questa impossibilità, questo suo limite immanente nellaforma stessa della Darstellung. Non purezza, quindi, mapurificazione. Non ricerca o evocazione della cosa in sé, ma dellacosa nel linguaggio.197

Ciò che Benjamin affermava nel saggio sulla lingua conl’esempio della lampada, diviene qui pienamente intelligibile: se la

perpetrato dal diritto contro la giustizia. Più esattamente, dal concetto contro la parola, acui deve la sua esistenza »; pertanto il soggetto di questa lingua diviene giudice, il luogo dacui parla diviene tribunale e le parole sentenze cui segue l’esecuzione. La ricerca di unalingua, dunque, capace di dire il “che cosa”, la sostanza delle cose, “ciò che è giusto”,grazie a un soggetto che, ponendosi come sostanza, come positività, riafferma il caratterelegale, universale, assoluto della verità della lingua; di una lingua che, dunque, tornaall’origine, attraverso un percorso di purezza volto a custodire tale purezza dell’origine. Inciò stanno sia il carattere distruttivo di tale “giustizia della lingua” di Kraus, distruttività chepone « freno alle ambiguità costruttive del diritto »; sia, però, il carattere idealistico, di falsaconciliazione di questa soluzione che non prende atto dell’impossibilità di un ritornoall’origine, dell’impossibilità di una lingua perfettamente conoscente, non decaduta; « […]che non ci sia un’emancipazione idealistica dal mito, ma solo un’emancipazionematerialistica, e che non ci sia purezza nell’origine della creatura, ma la purificazione,questa verità ha lasciato le sue tracce nell’umanesimo radicale di Kraus soltanto tardissimo.Solo il disperato scoprì nella citazione la forza non di custodire, ma di purificare, distrappare dal contesto, di distruggere; la sola in cui è ancora riposta la speranza chequalche cosa di questa epoca sopravviva –proprio perché ne è stata divelta. […] Né lapurezza né il sacrificio hanno asservito il demone; ma dove origine e distruzione siincontrano, è la fine del suo dominio ». Anche nel saggio su Kraus si può notarel’importanza che Benjamin conferiva alla sfera della lingua, come a quel possibilecorrettivo della violenza sanguinosa insita nel mito-diritto, nel giudizio.197 In una nota di T. W. Adorno a proposito della raccolta benjaminiana di lettere di uominitedeschi (Walter Benjamin, Uomini tedeschi. Una serie di lettere, con un saggio di T. W.Adorno, trad. it. di Clara Bovero e Emilio Castellani, Adelphi, Milano 19922), troviamoun’interessante affermazione a proposito dell’avversione di Benjamin per il simbolismo dicerta filosofia: « Poiché in una società la cui legge condanna all’astrattezza tutti i rapportiumani non esiste più concrezione di sorta, la filosofia vorrebbe appunto, disperatamente,evocarla, senza ingannare sull’assurdità dell’esistenza, ma anche senza dissolversi in essa.Questo motivo si ritrova in certi movimenti degli anni Venti, come nel cosiddetto Circolo diPatmos, quello di Hofmannsthal – il quale fu in rapporto con esso per il tramite di FlorensChristian Rang, amico di Benjamin – o anche fra i teologi dialettici e nella fenomenologia,che pure se ne discosta tanto. Tutti i loro sforzi presumono espressamente il principio che ilsingolo non sia soltanto un esemplare della sua specie, né soltanto un singolo esistente. Ilsuo significato, quello per cui il singolo è più che se stesso, viene ricercato nelledeterminazioni del suo hic et nunc, non nell’ordine classificatorio. Benjamin ha seguitoquest’impulso più radicalmente di altri. Non sperava nulla dalle evocazioni; sperava lasalvezza solo da una profanità immune da cortine di vapori. » [corsivo nostro]

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lingua comunica se stessa, se, in seguito alla caduta del puropotere denominativo del nome v’è un ritrarsi delle cose, un lorovolatilizzarsi nell’infinito rimando dei significati,

Il linguaggio di questa lampada, per esempio, non comunica lalampada (poiché l'essenza spirituale della lampada, in quantocomunicabile, non è per nulla la lampada stessa), ma la lampada-del-linguaggio, la lampada nella comunicazione, la lampadanell'espressione.198

Questa “lampada nell’espressione” costituisce il momentosimbolico, l’idea che la filosofia deve ripristinare, arrestando lasillogistica continuità ed evitando l’abisso della significazione:

[…] piuttosto, nella contemplazione filosofica si libera, dal nucleopiù intimo della realtà, l’idea in quanto parola che rivendicanuovamente i suoi diritti denominativi. Ma il primo ad assumere taleatteggiamento non è Platone, bensí Adamo, padre degli uomini inquanto padre della filosofia. L’adamitica assegnazione dei nomi ètalmente lontana dal gioco e dall’arbitrio che, anzi, precisamente inessa si conferma la condizione paradisiaca in quanto tale, non ancoracostretta a lottare col significato comunicativo delle parole.199

Siamo qui in presenza di una sorta di immanenza della veritànel linguaggio creaturale, decaduto.

In una lettera a Hugo von Hofmannsthal del 13 gennaio1924, Benjamin scrive:

La convinzione che ogni verità ha la sua casa, il suo palazzo avitonella lingua, che esso è costruito sui più antichi logoi, e che di frontealla verità così fondata le percezioni delle scienze particolari restanosubalterne, finché continuano ad arrangiarsi per così direvagabondando a caso nella sfera della lingua, prigioniere di quellaconcezione della lingua come complesso di segni che imprime sullaloro terminologia il carattere del più irresponsabile arbitrio. Invece lafilosofia sperimenta la più benefica efficacia di un ordine grazie alquale le sue percezioni tendono di volta in volta verso paroleperfettamente determinate di cui la superficie incrostata nel concetto siscioglie al contatto magnetico e rivela le forme della vita linguistica iviracchiusa.. Ma per lo scrittore questo rapporto significa la felicità di

198 Id., Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 55. [corsivo nostro]199 Id., Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 14.

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possedere, nel linguaggio che si dispiega in tal modo davanti ai suoiocchi, la pietra di paragone della forza del suo pensiero.200

Filosofia, dunque, non come parola che cerca di alludere, disimboleggiare, di intuire la verità, ma come verità della parola,verità della lingua. Il mondo decaduto, privato della garanzia dibontà ontologica che lo contrassegnava nello stato paradisiaco,non può più essere posseduto in un puro rapporto conoscitivo, masolamente essere “detto” entro i limiti della lingua; esso sta come“vita linguistica” delle parole; perciò esse sono puro medium incui esporre un mondo, in cui – come ci insegna Goethe –mostrarlo.201

Si comprende meglio, ora, anche ciò che più sopra venivaindicato come la “trascendenza” della verità. Al messianicopertiene il possesso dell’essere della verità. Nel profano tale verità“non-è” posseduta, ma, solamente, detta, nominata. Nel mondodecaduto c’è un vero e proprio capovolgimento della condizioneparadisiaca. Se lì il “non-essere” pertiene al male, all’apparenza,nel mondo profano il male, l’apparenza, il loro “non-essere” ètutto ciò che c’è. Ciò che costituisce il pericolo mitico-demonicodel sapere, è l’irrigidimento di questo “ tutto ciò che c’è” in “ Tuttociò che c’è”, in sintesi assoluta, in Verità; il rischio che, comedicemmo più sopra con Bergamin, ciò che ci appare come unaluce – che al cospetto del giudizio celeste è ombra, è assenza diDio – sia la Luce. Occorre dunque che la filosofia trovi unaDarstellung in grado di mostrare questo “tutto ciò che c’è” entro ilimiti del linguaggio decaduto. Per far ciò occorrerà una forma chemostri al contempo il tutto e la sua “relatività”, che mostri, cioè, ilsuo limite, la sua interruzione.

200 Id., Lettere 1913-1040, Einaudi, Torino 1978, p. 74.201 Questo “dire” si configura essenzialmente come rammemorazione, come redenzionedall’oblio, dove non si tratta però di ricordare ciò che è stato, ma “ciò che non è mai stato”, ciòche da sempre è perduto. Perciò nel denso e bellissimo frammento dei Passages N 8, 1 – dovetroviamo una riflessione su di una lettera di Horkheimer del 16 marzo 1937 a proposito delproblema dell’icompiutezza della storia – Benjamin parla della rammemorazione comeesperienza “teologica” e della storia come forma del ricordo.

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4.2 Bellezza della verità e forma della filosofia.

In nessun luogo appare un posto, nei compiti dei filosofi, per ilriguardo alla Darstellung. Il concetto di stile filosofico è esente daparadossalità.202

Stile filosofico, dunque. Cura della Darstellungsweise, dellasua apparenza. Questo carattere di apparenza della Darstellungpossiede un duplice significato. Da un lato rivela che essa – al paridi ciò che indaga e di cui tratta – appare, ha una forma, si offre auna percezione; dall’altro il suo carattere di apparenza deverammentare che anch’essa, proprio in quanto apparenza,appartiene all’ambito della finitezza, della caducità. Perciò è lastessa Darstellung che deve divenire messa in forma, messa inopera della verità, rispettando il suo sottrarsi a ogni rapportointenzionante. Paradossale e quasi ridicolo sarebbe un sapere chevolesse porre la verità come alcunché di caduco, di finito.L’ascolto originario, la rammemorazione del carattere simbolicodelle parole, deve dunque trasformare e dare forma alle tracce,che, nelle parole, recano le cose in esse dileguate; in tale formadeve riversarsi l’esigenza di rammemorazione e riconoscimento,che il fenomeno pone alla contemplazione filosofica che faesperienza [Erfahrung] di esso.

Occorre però intendersi su questo concetto di forma. Essanon ha nulla da spartire con l’inconsistenza di certo estetismoviziato dalla ricerca dell’empatia [Einfühlung] col suo oggetto,posseduto e goduto e trasformato in “esperienza vissuta” [Erlebnis];empatia che dovrebbe garantire la bontà dell’evocazione intuitivadi tale oggetto nella sua forma d’esposizione, sempre alla ricercadel Grande Tutto, della sintesi ultima; tale impostazione non puòche arrestarsi alla superficie dei fenomeni osservati, alla mercé delsuo ingenuo naturalismo.203 Dalla parte opposta, essa non ha nullada condividere nemmeno con una forma arida e vuota, astratta einefficace, tipica di certi eccessi di formalismo condannati a

202 Id., Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 9.203 Nella recensione a un libro di Franz Heyden sulla lirica tedesca (in Walter Benjamin,Critiche e recensioni, trad. it. di Anna Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1979, pp. 101-3.) sipuò leggere un caustico e ironico giudizio di Benjamin su tale genere di ricerche.

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perdersi lungo le tortuose vie di un’analisi infinita, cui mai è datodi giungere al cospetto del suo oggetto. La forma qui in questioneè tale, che nasce da una ricerca che si muove tra i fenomeni cometra tortuose e strette viuzze, alla ricerca dei dettagli(apparentemente) più insignificanti che le schiudono sempre nuovevedute, trascritte come punti che tracciano via via la sua rotta,tenendo in serbo per la fine tutta la forza del panorama che gli sioffre. L’unicità e l’eccezionalità di ogni fenomeno si dannosolamente a un amore per le cose che si trattiene dal possederle,dallo svelarne il mistero, dal togliere il velo dell’apparenza. A unaricerca siffatta l’insignificante dettaglio si mostra come soglia dacui fa irruzione il senso e, dunque, tale ricerca deve nutrirsi difilologia ed erudizione. Se nel particolare c’è rispecchiato tuttocome in una monade, ecco allora che i dettagli diventano profilidel mondo, di cui diviene possibile una lettura fisiognomica. Inquesta prospettiva, filologia ed erudizione sfuggono alla sterilità ealla pedanteria.204

Questa cura dell’apparenza, della forma della Darstellung, lecui linee debbono disegnare la curva del battito cardiaco dei piùprofondi contenuti del suo oggetto, non può non portare Benjaminsulla soglia di un’interrogazione della bellezza nel suo nesso conla verità e, dunque, con la conoscenza.

La comprensione nella concezione platonica del rapporto traverità e bellezza è non soltanto l’intento supremo di ogni ricerca difilosofia dell’arte, ma anche un lavoro indispensabile in vista delladeterminazione del concetto stesso di verità.205

Il modo d’essere delle idee, continua Benjamin, mai vienecosì chiaramente in luce come nell’ambito di pensiero della teoriadelle idee; idee il cui regno è la verità. Il Simposio, ponendo laverità come contenuto essenziale della bellezza, definisce bella laverità.

204 Qui non approfondiremo questo aspetto. Non si può non rammentare, però, il grandeinteresse per la fisiognomica sia da parte di Goethe che da parte di Benjamin.205 Ibid., p. 7.

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Eros – così va compresa la cosa – non diviene infedele alla suaoriginaria premura quando rivolge il suo desiderare verso la verità;poiché anche la verità è bella.206

Dunque la contemplazione filosofica, come amore per lecose, non tradisce la sua natura di ricerca della verità volgendo lasua contemplazione verso l’apparire dei fenomeni, verso la loroforma, verso la bellezza. In essa si da la verità, in essa lacontemplazione filosofica coglie l’idea e la nomina. Questa non vapensata, però, come il contenuto di una bellezza che può esserescoperta, tolta, svelata, per permettere il pieno possesso dellaverità, come oggetto di conoscenza, da parte dell’intelletto; vapensata come rivelazione che alla verità rende giustizia. Abbiamogià detto di come Benjamin veda l’impossibilità, per l’idea, per laverità, di darsi nella mera empiria come oggetto da possedere(conoscere) da parte si un soggetto. La bellezza, nel suo apparire,fugge sempre da un rapporto intenzionante,

dando a riconoscere la sua incolpevolezza solamente là dove simette in salvo presso l’altare della verità. Eros segue questa fuga, noncome inseguitore-persecutore, bensì come innamorato, come amante;in tal modo che la bellezza, per amore del suo apparire, rifuggesempre da entrambe: l’intelletto persecutore per timore e per ansial’amante. E solo questo può testimoniare che la verità non èsvelamento [Enthüllung] che annienta il segreto, bensì rivelazione[Offenbarung] che gli rende giustizia.207

Dunque il darsi della contemplazione filosofica, il suoapparire in una determinata Darstellungsweise, se vuole rispettarela trascendenza della verità e rendere giustizia al suo segreto,dovrà darsi come forma che non seduce, ma che, testimoniando,nel suo apparire, della verità, renda conto di sé come apparenza e,quindi, assicuri della sua caducità. Nella Darstellung filosofica quidelineata si riaffaccia l’idea di traduzione che incontrammo nelsaggio sulla lingua. La Darstellung non dovrà misurare astratteregioni di somiglianza ed eguaglianza, tentando di riprodurre il“che cosa” del fenomeno nel concetto, ma dovrà tradurre, tramite

206 Ivi.207 Ibid., pp. 7-8.

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una continuità di trasformazioni, la lingua muta delle cose, la lorolingua meno perfetta, il loro apparire, nella lingua più perfettadella filosofia: nell’idea. Solamente a questo modo l’idea saràcontemporaneamente esposta nei fenomeni e questi sarannosalvati nell’idea. Essa dovrà, in breve, « leggere ciò che non è maistato scritto ».

L’esempio dei cocci di un vaso, che troviamo nel saggio sullatraduzione, diviene qui perfettamente intelligibile:

Come i cocci di un vaso, per lasciarsi riunire e ricomporre, devonosusseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invecedi farsi simile al significato dell'originale, la traduzione deve, anzi,amorosamente, e fin nei singoli dettagli, rimodellare [anbilden] nellapropria lingua il suo modo di intendere, per rendere riconoscibili cosìentrambe - come i cocci in quanto frammenti di un vaso - frammenti diuna lingua più grande.208

Ribadiamo: se le idee non si danno mai nella mera empiria enon possono perciò essere catturate nel rapporto di un soggettoche intenzioni un oggetto, ma possono solamente essere inseguite“là” dove esse stanno – come eros insegue la bellezza – parimentiil salvataggio delle idee nella Darstellung non potrà darsi nellamera empiria della sua forma, ma da essa venire annunciata:

La pratica di simili abbozzi descrittivi del mondo delle idee, inmodo tale che l’empirico da sé in essi prenda dimora [eingehen] e vi sisciolga, costituisce talmente il compito del filosofo, che questis’innalza a un punto intermedio tra il ricercatore e l’artista.209

Si comprende ora perché Benjamin parli delle idee comedell’oggettiva interpretazione dei fenomeni. La filosofia non ha daessere Weltanschauung, riflesso oggettivo del mondo nellacoscienza di un soggetto che lo possiede come pensato. In tal casoessa diverrebbe mitica e totalizzante in quanto autocostituentesi da

208 Id., Il compito del traduttore, in Id., Angelus novus, op. cit., p. 49. Due pagine prima,nello stesso saggio, leggiamo: « Se diversamente c’è una lingua della verità, nella quale gliultimi segreti attorno a cui tutti i pensieri si affaticano sono custoditi privi di tensione epersino tacitamente, questa lingua della verità è la vera lingua. E proprio questa lingua, nelcui presentimento e descrizione sta l’unica pienezza che il filosofo può aspettarsi, èintensivamente nascosta nelle traduzioni ».209 Id., Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 9.

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sé come sistema, come totalità chiusa e assoluta. Se la verità nonè, invece, questo possesso, allora l’idea sarà sì punto di vista –dunque “interpretazione” – ma oggettiva. Proprio come nellamonade senza finestre ove il tutto è rispecchiato da “quel” puntodi vista.

[…] poiché anche la verità è bella. Lo è non tanto in sé quanto perl’eros. E infatti lo stesso regna nell’amore umano: l’uomo è bello perl’amante, mentre in sé non lo è; e precisamente perché il suo corpo sipresenta in un ordine superiore a quello del bello. Così anche la verità:essa è bella non tanto in sé quanto per colui che la cerca. Se ciòcomporta un soffio di relativismo, la bellezza che deve inerire allaverità non per questo diventa, neppure lontanamente, un epitetometaforico.210

Non vi è dualismo soggetto oggetto, in quanto l’idea sorgedall’incontro tra il conoscente e il conosciuto. Si tratta dunque distimolare il fenomeno a una sorta di autoconoscenza ma non,come nei romantici, potenziandone la coscienza,“romantizzandolo”, dissolvendolo nell’idea, ma mortificandolo,insediando in esso il sapere, in modo da sciogliere i suoi contenuticosali (le tracce delle cose di cui la rammemorazione si pone inascolto nelle parole) nei concetti recuperati poi nell’idea, nelnome.211

210 Ibid., p. 9. In una piccola prosa in Strada a senso unico troviamo ripetuta la stessaanalogia tra amore umano e conoscenza: « Chi ama non trova attaccamento solo per i“difetti” dell’amata, per i capricci e le debolezze di una donna: rughe del viso e macchiedella pelle, abiti lisi e andatura, lo avvincono ben più durevolmente e implacabilmente diogni bellezza. Lo si è constatato da un pezzo. E perché? Se è vera una teoria secondo cui lasensazione non si annida nella mente, e noi percepiamo una finestra, una nuvola, un alberonon nel cervello ma piuttosto nel luogo dove li vediamo, allora anche nella contemplazionedell’amata siamo fuori di noi. Qui, però, tormentosamente intenti e rapiti. Abbacinata, lasensazione frulla come uno stormo di uccelli nell’alone splendente della donna. E come gliuccelli cercano riparo nei recessi frondosi dell’albero, così le sensazioni si rifugiano nellegrinze ombrose, nei gesti sgraziati e nelle piccole pecche del corpo amato, dove siacquattano al sicuro. E nessuno che passi di là indovina che proprio in quei tratti difettosi,criticabili, si annida il fulmineo impulso amoroso dello spasimante ».211 Ci pare che un’idea simile si possa ritrovare in una recensione di Benjamin a un saggiosui rapporti tra produzione poetica e linguaggio degli schizofrenici (in Walter Benjamin,Critiche e recensioni, op. cit., pp. 103-4) ove possiamo leggere: « […] poiché se loschizofrenico fallisce, nel suo bisogno espressionistico di “cogliere l’essenza, di riprodurreimmediatamente il suo sentimento”, non è “perché la sua oggettivazione richiederebbe unfondo spirituale e una capacità linguistica e logica che sono a disposizione soltanto del

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Giunti a questo punto, occorre tentare una risposta adomande che – nella forma di un’interrogazione dell’ambiguostatus dell’apparenza, dell’immagine, del loro porsidialetticamente tra ambito mitico-demonico e ambito dellasalvezza e della redenzione – ci accompagnano dall’inizio delnostro scritto. Se la sfera della colpa risulta fin qui sufficientementedelineata, cercheremo ora di venire in chiaro sul caratteresalvifico-redentivo dell’apparenza.

Che significa una bellezza che seduce? perché una bellezzache, nel suo apparire, seduce, si attira la persecuzionedell’intelletto? e perché solamente rifugiandosi presso l’altare dellaverità essa può mostrare il suo carattere di non colpevolezza? Ilsaggio sulle affinità elettive di Goethe ci fornirà il punto da cuipartire.212

Anche le acque, come l’elemento tellurico, sono sotto il segno diquesta forza. Ma il lago smentisce la sua natura funesta sotto la mortasuperficie del suo specchio. Del « destino demonico che regna attornoal lago artificiale » parla significativamente una vecchia critica.L’acqua, come elemento caotico della vita, non minaccia qui in ondeselvagge che recano all’uomo la morte, ma nella quiete enigmatica chelo fa andare a fondo. E a fondo vanno gli amanti nella misura in cui

poeta e filosofo geniale”, ma perché questa oggettivazione è già stata compiutacollettivamente dal linguaggio stesso […] »; compiuta, potremmo aggiungere – citando ilBenjamin del saggio sulla sociologia del linguaggio – dal carattere di espressione che èimmanente al linguaggio, dalle sue forze fisiognomiche. [corsivi nostri]212 Il saggio Goethes Wahlverwandtschaften apparve per la prima volta nella primavera del1924 sui Neue Deutsche Beiträge diretti da H. von Hofmannsthal. Numerosi accenni a essosi ritrovano nell’epistolario benjaminiano. Tramite essi, i curatori delle GS ne datano lacomposizione tra la fine del 1921 e l’estate del 1922. Ciò significa che la sua stesura, inparte contemporanea a quella del TP – consegnato nel marzo del 1925 ma, come recitava ladedica alla prima edizione Rowohlt del 1928, abbozzato nel 1916 – fu il luogo oveBenjamin sviluppò quelle riflessioni sulla bellezza e sulla conoscenza, che, poi, sidepositarono nella Premessa al TP. Egli stesso, in una lettera del 1921, dice di esso; « […]per me è altrettanto importante come critica esemplare quanto come lavoro preparatorio dianalisi puramente filosofiche. » In questa costellazione entrano anche il saggio sullaviolenza, composto tra 1920 e 1921; quello su destino e carattere, composto sul finire del1919; quello sul compito del traduttore del 1921; probabilmente il frammento teologico-politico, che alcuni datano al 1920-21; il saggio su Calderón e Hebbel del 1923 (apparsoora per la prima volta in italiano nel II volume della nuova edizione delle opere diBenjamin in corso presso l’editore Einaudi, in cui inspiegabilmente non appare alcunanotizia bibliografica) e, naturalmente, la tesi di laurea sul concetto di critica nelromanticismo tedesco del 1919.

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regna il destino. […] Li vediamo attirati alla lettera dalla sua anticapotenza.213

Nell’immagine del lago artificiale, che domina il paesaggiodel romanzo goethiano, viene chiaramente in luce il caratteremitico-demonico e seducente di una bellezza quieta e armoniosa.La piatta e apparentemente rassicurante bellezza di queste acqueimmobili dissimula la presenza, nei suoi fondali, di forzesovrumane che minacciano l’esistenza attirandola a sé. In essa lepotenze mitiche del diritto, con il loro portato di violenzadisgregante e di potere contrario alla vita, si occultano nella formaconchiusa di questa bellezza, che non si mostra come centro diforze vitali.

I personaggi del romanzo, specchiandosi nelle morte acquedel lago, si rivelano inconsapevolmente e completamente in baliadi queste forze istintuali e disgreganti, di natura erotico-demonica;i loro gesti e le loro azioni – in una parola: il loro destino – sidipanano in conformità con la legge di questo fondo mitico dellanatura. Tale legge ha nome Wahlverwandtschaften, affinitàelettive, ed esercita su di loro la sua carica seduttiva. A tale legge,che costituisce il motore interno del romanzo, obbedisce quellasorta di chiasmo interrotto e imperfetto tra le due coppieprotagoniste.

Ma essi stanno al riparo, al vertice della cultura, dalle forze cheessa pretende di avere dominato, anche se, ogni volta, deve rivelarsiimpotente a sottometterle.214

Benjamin non lo dice esplicitamente, ma in quel “verticedella cultura” noi individuiamo quella parodia del giudizio divinoche è il giudizio umano, la lingua decaduta dell’uomo, la ciarlaimpotente nell’arginare le forze mitiche fuoriuscite da quellaquinta Sefirà, Gevurà o Din – potenza divina che si manifestasoprattutto come potenza giudicante e punitiva – in seguito al

213 Id., Le affinità elettive di Goethe, op. cit., p. 187.214 Ibid., p. 188.

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peccato originale.215 Ciò trova conferma in quel che Benjaminscrive subito dopo:

È rimasto loro il senso del decoro, ma hanno perso quello di ciòche è etico [Sittliche]. Non è qui inteso un giudizio sul loro agire,bensì uno sulla loro lingua. Poiché senzienti ma sordi, veggenti mamuti, vanno per la loro via. Sordi verso Dio e muti verso il mondo.216

Mai come qui la lingua si mostra in tutta la sua impotenza:essa è muta, incapace di nominare un mondo, in quanto sordaverso Dio e, quindi, incapace di porsi in quella condizione diudibilità originaria [Urvernehmen], in grado di cogliere la deboleeco della creazione nel mutismo della natura decaduta. La sferaacustica – che pertiene alla Rivelazione, alla verità, a quel “che dilinguistico” che costituisce l’idea – è a loro interdetta al punto tale,che il loro mondo, immerso in una “luce opaca d’eclissi solare”,corre incontro a una dissoluzione ove “tutto ciò che è umanodiviene apparenza, e solo il mitico rimane come essenza”.

Proprio il mitico come essenza caratterizza esattamente ilcarattere demonico della bellezza seducente; una bellezza cheprovoca e che spinge al possesso come suo compimento; uncompimento che è esaurimento e oblio, un compimento che èsoltanto conciliazione apparente e falso movimento in un tempomitico. Se tutto ciò che è bello ha a che fare con l’apparenza e setutto ciò che appare ha a che fare con la bellezza, bellezzademonica sarà quella che reclama per sé un carattere di essenza,ritirandosi, dunque, completamente nel suo apparire come suaessenza. L’apparire della bellezza che, cosiffatta, si esaurisce in sestessa e si autoglorifica come totalità eterna e assoluta, sarà inrealtà totalità falsa e bugiarda perché immemore della suaintegrale caducità; sarà, in altre parole, bellezza nefasta, che sicostituisce come centro da cui irradiano potenze di morte, potenzecontrarie alla vita, potenze che destinano i personaggi delromanzo a una vita che ha un che di spettrale.

215 Oltre che, probabilmente, una velata allusione alle oscure forze che, al vertice della civilissimaEuropa, iniziavano ad agitarne le acque.216 Ivi.

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Tale è la bellezza di Ottilia in cui si perde Edoardo.L’elemento luminoso della sua bellezza rivela il suo caratteremitico; esso è la luce ingannevole che si specchia nelle calmeacque del lago. L’ambigua incolpevolezza, che caratterizza labellezza di Ottilia, nasconde in realtà la soglia per entrare nelmondo delle potenze mitiche che governano il romanzo, nelmondo della colpa.

L’impressione favorevole che essa suscita « deriva solo dal suoapparire […] » […] Essa è chiusa in sé – che più tutto il suo fare e ilsuo dire non riesce a toglierla a questa chiusura. Vegetale silenzio […]grava sulla sua vita e l’oscura anche nei momenti supremi, chegeneralmente illuminano quella di tutti.217

Questo mutismo è il segno che nulla vi è di morale nellosvolgersi della sua vicenda, come nulla vi è di morale nella suabellezza e nemmeno nella sua decisione di morire, che

[…] non solo rimane nascosta fino all’ultimo agli amici, masembra formarsi, in tutta la sua segretezza, in modo incomprensibileanche per lei.218

Tutto accade sotto l’egida della legge senza nome deldestino, cui solamente la decisione, con il suo assumere formalinguistica, potrebbe sottrarre; infatti

[…] nella decisione il mondo morale è illuminato dallo spiritolinguistico.219

Ma questi personaggi, come già visto, sono muti; nessuncarattere, nel senso pieno della parola, appare in essi e nessunaforza, che sia veramente vitale e non mitica, appartiene loro.Perciò

Con questo silenzio s’è insediata, ardente [verzehrend], nel cuoredell’indole più nobile, l’apparenza.220

Nell’ambito dell’apparenza, nel destino, nella colpa, lasalvezza è continuamente minacciata dalle forze mitiche del

217 Ibid., p. 231-29218 Ibid., p. 228.219 Ivi. Sul valore della decisione cfr. p. 61, n. 154.220 Ibid., p. 230.

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diritto. Nel corrispondere di Edoardo all’attrazione fatale dellabellezza di Ottilia, questa bellezza dominata dall’apparenza trovala sua conferma come “il primo e l’essenziale”. Nessuno mondo enessuna storia, nessun ricordo sussiste nella bellezza di Ottilia. Inquesto suo irrigidirsi, in questa riduzione della storia a natura, inquesto “eterno ritorno dell’identico” sta il segno del dominio deldestino. Perché

[…] la bellezza sopravvive a se stessa come rammemorazione,così, anche nel fiorire, senza di essa è inessenziale.221

Solamente una bellezza in cui v’è rammemorazione puòessere salvifica, perché solo deponendosi nella verità, comefondamento del suo apparire, essa raggiunge il suo compimento:l’amore.

Decisiva, per chi veramente ama, non è la bellezza dell’amato.Anche se fu quella ad attirarli dapprima l’un verso l’altro, essitorneranno continuamente a dimenticarla in nome di altre e maggiorimeraviglie, anche se per ritrovarla continuamente, e fino alla fine,interiorizzata nel ricordo. Diversamente la passione. Anche la piùlabile eclissi della bellezza la fa disperare. Poiché solo per l’amore labella è il bene più caro: per la passione lo è sempre la più bella.222

La più bella, la bellezza che fa della bellezza la sua essenza,la bellezza mitica è quella totalità che l’intelletto persegue, nellasperanza di un appagamento in essa, di una conciliazione, che, inrealtà, si scopre mera apparenza e maschera, in quanto tale, di uncontinuo tradimento.223

D’altro canto ciò significa che la bellezza, rendendo contodi se stessa deponendo la sua apparenza nella verità, deponeanche il suo carattere per così dire luminoso, testimoniando dellasua caducità. La sua apparenza subisce una sorta di scossa, diincrinatura, di interruzione in virtù della quale, solamente, essa

221 Ibid., p. 231.222 Ibid., p. 238.223 Si illumina, qui, quella “sillogistica continuità priva di lacune”, che è il solo modo concui la logica sistematica riesce a pensare la verità, di cui Benjamin parla nella Premessa alTP ; quella dialettica priva di sospensione, che trasforma ogni piena singolarità instrumento, in tappa evanescente di un cammino inarrestabile verso la totalità, nella quale lasua volontà di potenza crede di possedere la verità.

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riceve il suo valore di verità. Questa sospensione è il privod’espressione [Ausdruckslose]. Il privo d’espressione, dunque,come motore dell’amore considerato non come apparente e miticaconciliazione (il matrimonio), ma come carattere distruttivo che,annientando il carattere di mera apparenza della bellezza, laritrova salvata nella luce della verità, ove giunge al suocompimento al di fuori della totalità falsa, ormai ridotta in pezzi.Tale annientamento non ha nulla ha che fare con il sacrificio chesempre domina l’ambito mitico del destino. In quest'ultimo ogniprovocazione lanciata dalla bellezza apparente, con la sua forzaseduttiva, verso l'ambito del diritto visto come il luogo della(apparente) conciliazione delle forze mitiche (nel romanzogoethiano: il matrimonio) è destinata allo scacco, al sacrificio disé, punita col castigo, mostrando in questo modo la sua infinitadistanza dalla salvezza. Come Odisseo, nell’Ade, deve nutrire disangue fresco le indistinte apparizioni delle anime di coloro cuivuole sentire la voce, così l’esangue apparenza della merabellezza, installatasi a “primo ed essenziale”, deve nutrire lepassioni che provoca con le vite di coloro su cui esercita il suomitico e violento potere, destinandole a dissolversi nel nulla.

Nel romanzo di Goethe, dunque, Benjamin vede una sorta dirappresentazione allegorica dell’incapacità e dell’impossibilità, perla bellezza apparente, mitica e seducente, per la bellezza cometotalità assoluta, di spezzare il cerchio colpevole del destino e ditestimoniare della verità, assumendo su di sé, sulla propriaprecarietà, il peso della salvezza. Dalla dissoluzione delmatrimonio – come istituzione giuridica, come luogo in cui ildiritto attua la sua (apparente) conciliazione e il suo ordine(apparente), arginando entro i suoi confini, ma in realtà irrigidendoe dunque annientando, le forze vitali di natura demonico-erotica ecome luogo da cui sorge il castigo nei confronti di ogniprovocazione – da tale dissoluzione, indotta dall’apparizione diOttilia, cioè della mera bellezza col suo portato di seduzione,fuoriescono quelle forze mitiche che, punendo i personaggi pertale dissoluzione, riconfermano il matrimonio come sorte, comedestino.

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Nel muto imbarazzo che trattiene questi esseri nell’ambito dellacostumatezza umana, anzi borghese, e spera di salvare in essi la vitadella passione, è l’oscuro fallo che esige un’oscura pena. Essi cercano,in fondo, di sfuggire al verdetto del diritto, che ha ancora autorità su diloro. Se, in apparenza, la loro nobiltà li esenta dalla sua legge, inrealtà possono essere salvati solo dal sacrificio. Perciò essi nonottengono la pace che dovrebbe essere garantita loro da quell’armonia;[…] Mentre l’amore guida i riconciliati, rimane agli altri, comeapparenza di conciliazione, solo la bellezza.224

Ben altra e salvifica bellezza, di contro a questa nefasta, èpossibile per Benjamin. Essa, s’è già accennato, trova il suo luogonell’Ausdruckslose. A essa deve mirare la Darstellung, se vuolecorrispondere al suo compito di testimonianza della verità.

L’Ausdruckslose costituisce l’obiezione che incanta il falsomovimento della conciliazione apparente, che impone un frenoall’apparenza e che mortifica la sua armonia nell’espressione. 225 Inquesto immortalarsi il bello deve rispondere di se stesso e, inquesta assunzione di responsabilità, esso si mostra come interrotto;proprio in grazia di questa interruzione esso acquista l’eternità delsuo contenuto, la verità, che balena così nell’attimo in esso, senzaa esso mescolarsi.

L'Ausdruckslose è la violenza critica [kritische Gewalt] che,nell’arte, se certamente non è in grado di separare l’apparenzadall’essenza, vieta però loro di mescolarsi. Esso acquista questapotenza [Gewalt] in quanto parola morale. Nell’Ausdruckslose apparela sublime potenza del vero, che decreta, secondo le leggi del mondomorale, la lingua di quello effettivo, reale [wirklichen]. Vale a dire cheesso frantuma tutto ciò che nella bella apparenza sopravvive come

224 Ibid., p. 237-28. Di sfuggita: questa situazione impedisce di interpretare il romanzocome tragico e come tragica la fine dei personaggi. Nella tragedia si assiste alla rottura delcerchio mitico del destino, nella forma di una decisione dell’eroe di interrogare il destino,di chiedere conto di esso. Questa decisione provoca il sorgere di un ethos, seppure nellaforma paradossale del silenzio dell’eroe. Questa rottura è talmente forte, che ad essaBenjamin e il suo amico Rang attribuiscono addirittura la forma aperta, di emiciclo, delteatro sede di rappresentazione delle tragedie, di contro alla forma chiusa e circolare delcirco.225 Il testo tedesco riporta Einspruch, vale a dire obiezione, reclamo, di cui occorre quitenere presente anche il significato tecnico-giuridico di “ricorso”, vista la connessione cheBenjamin traccia tra il mito e il diritto.

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eredità del caos: la falsa, errata [irrende] totalità – la totalitàassoluta.226

Questa violenza critica si mostra così come l’assolutamentealtro da quell’incantesimo [Beschwörung] che, nella mera bellezzaapparente, intende essere il pendant negativo della creazione.Come quest’ultima, l’incanto della bellezza apparente sostiene disuscitare il mondo dal nulla; ma, come visto nel saggio sullalingua, solamente al verbo creatore divino è data tale potenza,mentre la lingua degli uomini provoca la cacciata dall’Eden,proprio nel momento in cui pretende di appropriarsi, comegiudizio, di tale potenza. Perciò la totalità del mondo, chel’incanto della bella apparenza afferma di suscitare dal nulla, sirivela, infine, come il nulla di quel mondo, come la sua falsità e lasua apparente riconciliazione, come quel fine per il cuiperseguimento ogni mezzo diviene lecito. Né incanto né creazioneappartengono all’arte e alla lingua. L’Ausdruckslose – categoriadella lingua e dell’arte, non dell’opera o dei generi, scriveBenjamin – è la forza [Gewalt] che permette di testimoniare dellaverità rispettando la sua trascendenza. Nell’Ausdruckslose ciò cheè esposto è la verità stessa, resa conoscibile, però, non in se stessa(il che è impossibile) ma nel medio stesso del suo apparire, cioènell’apparenza, nella sua caducità rivelata, senza che le due simescolino ed evitando, dunque, che l’apparenza si tramuti intotalità e si affermi come verità. In esso l’apparenza, dunque labellezza, ponendosi all’ascolto della verità, testimonia del suoessere “solo” apparenza e, in quanto tale, riceve il suo valore.Perciò qui nessun sangue e nessun sacrificio è necessario pernutrire l’esangue spettralità del mondo suscitato dalla bellaapparenza.

L’Ausdruckslose si pone a tal punto, quindi, come violenzanon mitica, bensì salvifico-messianica, da costituire la sfera dellalingua (e dell’arte) come quell’ambito in cui solo è possibilepensare un mezzo (nel senso di medium) puro, vale a dire unmezzo che non sia preordinato a un fine. Quel mezzo puro che,

226 Ibid., p. 234. Cfr Novalis «…nell’opera d’arte il caos deve rilucere attraverso il velodell’ordine.».

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nel saggio sulla violenza, Benjamin indica come l’unico correttivoalla violenza mitica del diritto.

Ciò significa che c’è una sfera di intesa [Übereinkunft] umana a talpunto priva di violenza [gewaltlose], da essere completamenteinaccessibile alla violenza: la vera e propria sfera dell’intendersi[Verständigung], la lingua.227

Ma come si definisce L’Ausdruckslose?

L’Ausdruckslose non si può definire più rigorosamente chemediante un passo delle annotazioni di Hölderlin all’Edipo, che nonpare sia stato compreso ancora nella sua fondamentale importanza –oltre la teoria della tragedia – per quella dell’arte in generale. Il passosuona: « Il trasporto tragico è propriamente vuoto e il più sfrenato.Perciò nella successione ritmica delle rappresentazioni [Vorstellungen],in cui si espone il trasporto, diventa necessaria quella che si dice nelmetro cesura, la pura parola, l’interruzione antiritmica, per venireincontro, al suo culmine, alla incalzante cambiamento dellerappresentazioni [Vorstellungen], onde appaia così, non più questoavvicendarsi, delle rappresentazioni [Vorstellungen], ma larappresentazione [Vorstellung] stessa ».228

Cesura, dunque, interruzione, ciò che in seguito Benjaminchiamerà “dialettica in stato di quiete” è l’Ausdruckslose. In questacesura, ove l’apparenza abbandona il bello, quest’ultimo cessa diessere essenzialmente bello per divenire infinitamenteinapparente, per divenire segreto [Geheimnis]. Nel segreto labellezza “interrotta” testimonia della verità; nel segreto, vale a direnella bellezza infinitamente inapparente, la verità si espone comeconoscibile nel mezzo (medium) del suo apparire: nella puraparola, nella lingua creaturale. La conoscenza di esso, del segreto,come tale, è il compito della filosofia come della critica.

Se per Hölderlin la cesura costituiva quel mezzo puro,sganciato da ogni finalità esterna, con cui la poesia avrebbedovuto divenire mechané, cioè qualcosa di calcolabile,insegnabile e ripetibile in maniera affidabile, in Benjaminl’Ausdruckslose diviene tale mechané, tale macchinazionesalvifica che unisce la filosofia e la critica all’arte, nel loro comune 227 Id., Per la critica della violenza, op. cit., p. 18.228 Id., Le affinità elettive di Goethe, op. cit., p.234

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carattere salvifico. Nell’Ausdruckslose si da quella totale mortedell’intenzione che, nella Premessa al TRAUERSPIEL, Benjaminpone come carattere del darsi della verità. In altre parolenell’Ausdruckslose, come categoria della lingua e dell’arte,avviene quel salvataggio della singolarità dei fenomeni nell’ideache è, al contempo, Darstellung delle idee.

Nell’Ausdruckslose, come mechané salvifica che opera nellaDarstellung filosofica, assistiamo a una dialettica in stato di quiete,ovverosia non falsamente conciliata, tra l’infinitamenteinapparente – cioè la bellezza che ha deposto la sua apparenzatestimoniando della verità – come il più proprio della Darstellung,come ciò che essa vuole salvare, e il suo configurarsi, allo stessotempo, come il suo più improprio, come ciò che sempre sfuggealla sua intenzione, come ciò che mai si darà in essa come merooggetto di conoscenza o come intuizione di immagini, comerappresentazione. Questa dialettica proprio-improprio èesattamente ciò che impone alla Darstellung il suo carattere diUmweg, di costante ripresa da capo e di circostanziato ritorno allacosa stessa. In quanto Umweg, si preserva dal rischio di chiudersiin totalità mitica – rendendosi immemore della sua integralecaducità di lingua degli uomini – per caratterizzarsi, invece, comeallegoria, come affermazione della finitezza in cui, solamente,trovare una salvezza.

Questa interruzione, questa via indiretta, che mostra senzatimore la separazione totale e assoluta tra messianico e profano,tra verità e apparenza, costituisce il radicale tentativobenjaminiano di uscire dall’ambito mitico del destino, del contestocolpevole di ciò che vive, con una sorta di rovesciamento delnegativo in positivo, simile, ci pare, a quella potenza del falso dicui ci parla Deleuze.

Bonificare territori su cui è cresciuta finora solo la follia.Penetrarvi con l'ascia affilata della ragione, e senza guardare né adestra né a sinistra, per non cadere preda dell'orrore che adesca dalfondo della foresta. Ogni terreno ha dovuto, una volta, essere

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dissodato dalla ragione, ripulito dalla sterpaglia della follia e del mito.[…]229

Perciò il suo nichilismo è messianico, trova speranza nelladisperazione, ricchezza nella povertà e costruzione nelladistruzione; consiste nel tentativo di dare superiore concretezza aisingoli avvenimenti, ai singoli fenomeni, ai singoli individui, allesingole opere, scardinandoli dalla condizione metafisica che livede, altrimenti, come meri momenti in vista del tutto, come mereastrazioni di fronte al tutto; un tentativo di leggere in positivo ilframmento di Anassimandro, cioè la finitezza del mondo, al di làdi tentativi nostalgici di ricostruzione dell’unità perduta. È untentativo paradossale di colorare l’esperienza teologica con lesfumature di un pensiero laico e disincantato, che assumeradicalmente la propria finitezza. Finitudine in cui, solo, possonoaprirsi infinite possibilità non irrigidite sotto il dominiodell’identico. Finitezza cui possiamo lasciare l’onere e l’onore diun commento all’enigmatica, ma allo stesso tempo chiarissima,chiusa del saggio sulle affinità elettive:

Solo per amore di chi è privo di speranza, ci è data la speranza.230

229 Id., Parigi capitale del XIX secolo. I passages di Parigi, op. cit., fr. 1, 4.230 Id., Le affinità elettive di Goethe, op. cit., p. 254.

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NOTA SULLA TESI DI LAUREA DI WALTER BONAVENTURA

I “prolegomeni” di cui è questione nella tesi di WalterBonaventura vanno intesi nel senso forte che il termine hanell’uso kantiano: non si tratta tanto di un’esposizionepropedeutica o comunque generica del concetto di apparenza inBenjamin, quanto piuttosto di un tentativo di identificare il luogologico e i fondamenti speculativi che definiscono e rendonopossibile una teoria dell’apparenza nel pensiero di Benjamin.

Le tre parti che compongono la tesi rispondonoesemplarmente a questa esigenza. Nella prima, l'analisi delconcetto di Urphänomen in Goethe definisce subito la posta ingioco nell'apparenza benjaminiana: come, in Goethe, non si devecercare nulla dietro i fenomeni, perché essi stessi sono la teoria,così, in Benjamin, la teoria dell'apparenza non rimanda aun’origine atemporale o a un’essenza nascosta, ma è, nelle paroledi Benjamin, “una trasposizione del concetto goethiano dalcampo della natura a quello della storia”.

Nella seconda parte, i prolegomeni sono indagati attraversouna acuta lettura del saggio benjaminiano Sulla lingua in generalee sulla lingua degli uomini, che definisce i rapporti fra il concettodi apparenza e quelli di mito, diritto e giudizio.

Nella terza, infine, che è la più ricca e articolata, unapuntuale lettura del Trauerspielbuch, la concezione baroccadellìallegoria e l’idea benjaminiana di una Darstellung filosoficas’intrecciano per definire il compito che Benjamin assegna allafilosofia: non la conoscenza, ma la salvazione delle apparenze.Ed e qui che si situa il nucleo più interessante della tesi, checostituisce senz’altro un contributo originale alla ormaisterminata bibliografia benjaminiana: secondo Bonaventura,Benjamin concepisce l’esposizione filosofica come un compitonon cognitivo, ma, per cosi dire, “artistico”, in cui vienerappresentato lo stesso scarto che separa verità e conoscenza. E,forse, le pagine più belle della tesi sono quelle conclusive,dedicate all’analisi del concetto di Ausdruckslose, del privo diespressione, che è, per Benjamin, la categoria suprema del

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linguaggio e dell’arte, e nella quale, come Bonaventura riesce amostrare con chiarezza e perizia esegetica, apparenza e bellezzasi separano e l’esposizione filosofica rivela il suo necessariocarattere di Umweg, deviazione. In questo senso, uno dei meritinon trascurabili della tesi di Bonaventura è che, attraverso la suaricostruzione della teoria benjaminiana della Darstellung, essafinisce col dare in qualche modo una vera e propria definizionedello stile di Benjamin.

Giorgio Agamben

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BIBLIOGRAFIA

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INFO:Walter Boanventura – [email protected]

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