Mauro Ponzi Benjamin e il surrealismo: teoria delle ... DIDATTICI II... · Walter Benjamin...

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Mauro Ponzi Benjamin e il surrealismo: teoria delle avanguardie [in Tra simbolismo e avanguardie. Studi dedicati a Ferruccio Masini , a cura di C. Graziadei, A. Prete, F. Rosso Chioso, V. Vivarelli, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 295-319.] Walter Benjamin individua nel surrealismo una delle forme più avanzate dell’arte a lui contemporanea. Nel suo sforzo di fondare una teoria dell’avanguardia artistica, egli addita alcuni esempi concreti che aveva individuato, tra l’altro, nell’operazione teatrale di Brecht, nel dadaismo e, appunto, nel surrealismo. Verso ciascuno di questi esempi concreti egli si muove nella doppia direzione di un apprezzamento per il loro carattere di innovazione delle forme espressive, ma anche di una critica radicale per una certa insufficienza di questo stesso rinnovamento. La teoria delle avanguardie di Benjamin si può evincere nella misura in cui si delineano le differenze programmatiche e teoriche tra queste correnti artistiche e l’elaborazione benjaminiana. Tale definizione ex negativo non può che essere parziale e frammentaria per il carattere stesso degli interventi benjaminiani. I suoi “spunti”, che avrebbero poi dovuto confluire nella progettata opera, il Passagen-Werk, rimangono tali perché, come si sa, l’opera non fu mai compiuta. Però le linee fondamentali della teoria delle avanguardie di Benjamin sono chiaramente leggibili sia nei lavori da lui pubblicati, sia negli abbozzi e frammenti che compongono la costellazione del Passagen-Werk. Nel suo famoso saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica indica nei dadaisti gli anticipatori della tecnica cinematografica e individua nel procedimento del montaggio la caratteristica dell’arte di avanguardia, che non ha più bisogno dell’unicità auratica dell’opera d’arte. In un saggio sul surrealismo del 1929 Benjamin scrive: Ma il superamento vero, creatore dell’illuminazione religiosa non risiede certamente nella droga. Risiede in una illuminazione profana, in una ispirazione materialistica, antropologica, rispetto a cui lo hashish, l’oppio e le altre droghe possono avere una funzione propedeutica. (Ma pericolosa. E quella delle religioni è più rigorosa). Non sempre il surrealismo è stato all’altezza di questa ispirazione profana, e proprio gli scritti che la rivelano più rigorosamente, l’incomparabile Paysan de Paris di Aragon e Nadja di Breton, mostrano dei cedimenti che disturbano non poco. 1 In questo saggio si possono leggere chiaramente le linee fondamentali della sua metodologia: «E infatti organizzare il pessimismo non significa altro che allontanare dalla politica la metafora morale e scoprire nello spazio dell’azione 1 W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, trad. it. di A. Marietti, Torino 1973, p. 13.

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Mauro Ponzi

Benjamin e il surrealismo: teoria delle avanguardie

[in Tra simbolismo e avanguardie. Studi dedicati a Ferruccio Masini, a cura di C. Graziadei, A. Prete,

F. Rosso Chioso, V. Vivarelli, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 295-319.]

Walter Benjamin individua nel surrealismo una delle forme più avanzate

dell’arte a lui contemporanea. Nel suo sforzo di fondare una teoria dell’avanguardia

artistica, egli addita alcuni esempi concreti che aveva individuato, tra l’altro,

nell’operazione teatrale di Brecht, nel dadaismo e, appunto, nel surrealismo. Verso

ciascuno di questi esempi concreti egli si muove nella doppia direzione di un

apprezzamento per il loro carattere di innovazione delle forme espressive, ma anche

di una critica radicale per una certa insufficienza di questo stesso rinnovamento. La

teoria delle avanguardie di Benjamin si può evincere nella misura in cui si delineano

le differenze programmatiche e teoriche tra queste correnti artistiche e l’elaborazione

benjaminiana. Tale definizione ex negativo non può che essere parziale e

frammentaria per il carattere stesso degli interventi benjaminiani. I suoi “spunti”, che

avrebbero poi dovuto confluire nella progettata opera, il Passagen-Werk,

rimangono tali perché, come si sa, l’opera non fu mai compiuta. Però le linee

fondamentali della teoria delle avanguardie di Benjamin sono chiaramente leggibili

sia nei lavori da lui pubblicati, sia negli abbozzi e frammenti che compongono la

costellazione del Passagen-Werk. Nel suo famoso saggio L’opera d’arte

nell’epoca della sua riproducibilità tecnica indica nei dadaisti gli anticipatori della

tecnica cinematografica e individua nel procedimento del montaggio la caratteristica

dell’arte di avanguardia, che non ha più bisogno dell’unicità auratica dell’opera

d’arte. In un saggio sul surrealismo del 1929 Benjamin scrive:

Ma il superamento vero, creatore dell’illuminazione religiosa non risiede certamente nella droga. Risiede in una illuminazione profana, in una ispirazione materialistica, antropologica, rispetto a cui lo hashish, l’oppio e le altre droghe possono avere una funzione propedeutica. (Ma pericolosa. E quella delle religioni è più rigorosa). Non sempre il surrealismo è stato all’altezza di questa ispirazione profana, e proprio gli scritti che la rivelano più rigorosamente, l’incomparabile Paysan de Paris di Aragon e Nadja di Breton, mostrano dei cedimenti che disturbano non poco. 1

In questo saggio si possono leggere chiaramente le linee fondamentali della

sua metodologia: «E infatti organizzare il pessimismo non significa altro che

allontanare dalla politica la metafora morale e scoprire nello spazio dell’azione

1 W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, trad. it. di A. Marietti, Torino 1973, p. 13.

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politica lo spazio radicalmente, assolutamente immaginativo» 2. Si tratta quindi di

organizzare le immagini dell’esperienza per poter decifrare i segnali del labirinto. Lo

spazio entro cui si muove il soggetto scrivente è uno spazio di immagini (Bildraum),

un luogo di segnali geroglifici. Questa decifrazione può avvenire solo attraverso la

congiunzione di passato soggettivo e choc attuale. Privato e pubblico sono costruiti

uno dentro l’altro. La stessa esperienza vissuta prende la forma di un labirinto.

Perdersi nella grande città significa anche cercare le tracce delle immagini della

propria esperienza nelle caverne del passato, recuperate in un gioco voluto di

memoria e dimenticanza. La metropoli può essere senz’altro identificata come il

luogo privilegiato del Bildraum. Nel già citato saggio sul surrealismo Benjamin scrive:

«Nel punto centrale di questo mondo di cose sta il suo oggetto più sognato, la

stessa città di Parigi» 3. Parole-chiave, che nel contempo diventano anche

mitologemi, ricompaiono continuamente nei passaggi decisivi che sottolineano il

rapporto tra Parigi e Berlino, tra l’esperienza di città e il ricordo, tra la percezione del

moderno e il Bildraum: sono parole come labirinto, sogno, ricordo, autobiografia. Il

moderno ha anche prodotto delle possibilità di fuga: «Sul fiore azzurro non si fanno

davvero più sogni. Chi oggi si risveglia come Enrico di Ofterdingen deve aver

dormito troppo. La storia del sogno è ancora da scrivere. [...] Il sognatore partecipa

della storia. [...] Il sogno non dischiude più un’azzurra lontananza. I sogni sono una

scorciatoia per il banale» 4. I frammenti di esperienza vengono in tal modo raccolti

nella fantasmagoria delle forme, formano un quadro, molto ben collegato, di segnali

dal significato allegorico decisivo. La “via eccentrica” è in fondo una “strada a senso

unico” che si percorre con lo spirito del flâneur, e che mostra oggetti senza alcun

rapporto apparente tra di loro, i quali invece hanno dei legami sotterranei molto

significativi. Allora nella Parigi del secondo impero, interpretata come luogo

allegorico della nascita del moderno, il centro del labirinto è dato dai Passages in

quanto essi esprimono nel contempo il mercato delle merci e ribadiscono il loro

carattere di Höhle – e forse anche di Hölle. Inoltre i Passages sono l’espressione

simbolica di un Übergang, non solo di una Übergangszeit. Nei Pariser Passagen II,

che rappresenta lo stadio più elaborato dello schema su cui si sarebbe dovuto

basare il libro, Benjamin scrive:

2 Ivi, p. 24.3 Ivi, p. 16.4 W. Benjamin, Kitsch onirico, in Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, a cura di G. Agamben, Torino 1983, p. 71.

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Il padre del surrealismo fu Dada, sua madre un passage. Quando la conobbe, Dada era già vecchio. Verso la fine del 1919, per antipatia verso Montparnasse e Montmartre, Aragon e Breton trasferirono i loro incontri con gli amici in un caffè del Passage de l’Opéra, la cui fine sarebbe poi stata decretata dall’irruzione del boulevard Haussmann. Su questo passage Louis Aragon ha scritto 135 pagine. Nella somma delle cifre di tale numero si nasconde il numero nove, quante furono le muse che assisterono al parto del surrealismo. I nomi eloquenti erano: Ballhorn, Lenin, Luna, Freud, Mors, Marlitt e Citroen. Ogni volta che nel corso di queste pagine s’imbatterà in esse, il lettore attento cederà loro il passo, con la massima discrezione possibile. Aragon nel «Paysan de Paris» dedica a questo passage il più commovente elogio funebre che mai uomo abbia dedicato alla madre di suo figlio. Chi vuole potrà leggerlo in quel libro; qui ci si può attendere solo una fisiologia e, per parlare chiaro e tondo, un’autopsia di questa misteriosa porzione perduta della capitale d’Europa. 5

È come se Benjamin volesse fornire una struttura concettuale e «zeitkritisch»

a ciò che Aragon aveva in gran parte scritto in forma di romanzo. Basta infatti

rileggere Le paysan de Paris e le correspondances tra l’operazione di Aragon e

quella di Benjamin balzano agli occhi. La parte del romanzo di Aragon intitolata Le

passage de l’Opéra è, ovviamente, quella che contiene le indicazioni più evidenti e

che hanno influenzato Benjamin nella formulazione della nozione di «fantasmagoria

dei passages». È vero – come nota Lindner 6– che proprio su questo terreno si

possono anche registrare alcune differenze (prima tra tutte la concezione del “mito”),

è però altrettanto vero che le analogie – e in particolare le implicazioni produttive in

senso artistico – sono molto profonde, se non altro nella “risposta” che ambedue

hanno cercato di dare all’«esperienza della modernità»: una risposta letterariamente

produttiva che partisse dall’immagine fantasmagorica della realtà per tentare di

superarla, per “oltrepassarla” in una visione “surreale” e per ciò stesso fittizia. Il

“passaggio” che lega i due autori è dunque riconducibile al binomio utopia:

avanguardia. E questi elementi “aragoniani” che possiamo rintracciare nell’opera di

Benjamin si trovano soprattutto nella Preface à une mythologie moderne, proprio là

dove Aragon illustra la sua chiave “mitologica” di interpretazione dell’epoca, che in

ultima analisi diverge da quella di Benjamin. Aragon nelle prime pagine del libro

mette in discussione il carattere di certezza della realtà, basato sull’evidenza

cartesiana: «Or il est un royaume noir, et que les yeux de l’homme évitent, parce

5 W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I «Passages» di Parigi, a cura di R. Tiedemann (ed. it. a cura di G. Agamben), Torino 1986, p. 1095.6 «Mit dem Stichwort Mythos, genauer: der Befreiung vom mythischen Bann, scheint der gesuchte Fluchtpunkt bezeichnet, um die kritische Intention des “Passagen-Werks” zu rekonstruieren. Jene Epoche, die sich selbst als Inbegriff der Moderne, des technisch-naturwissenschaftlichen Fortschritts und der historistischen Universalgeschichte verstand, soll letztendlich als Katastrophenstätte gescheiterter Emanzipation dargestellt werden. Aber der gegenwärtig wieder sehr populäre Begriff des Mythos taugt nur zur Verwirrung, sofern er als historischer Universalschlüssel zur Entzifferung der Moderne (oder Post-Moderne) eingesetzt wird». B. Lindner, Das “Passagen-Werk”, die “Berliner Kindheit” und die Archäologie des «Jüngstvergangenen», in Passagen Walter Beniamins. Urgeschichte des XIX Jahrhunderts, a cura di N. Bolz e B. Witte, München 1984, p. 39.

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que ce paysage ne les flatte point. Cette ombre, de laquelle il prétend se passer

pour décrire la lumiére, c’est l’erreur avec ses caractéres inconnus, l’erreur qui,

seule, pourrait témoigner à celui qui l’aurait envisagée pour elle-méme, de la fugitive

realité» 7.

Questo “lato oscuro” della realtà potrebbe essere interpretato in termini

psicoanalitici, come in parte farà lo stesso Aragon alla fine del romanzo, ma

potrebbe essere anche interpretato come “causa nascosta”. Non c’è dubbio che

Benjamin si accosti alla fantasmagoria degli oggetti, presente nei passages, per

coglierne proprio il “lato oscuro”, per portare alla luce il “significato nascosto” e

arcano che la presenza di questi oggetti “rivela” solo all’occhio del collezionista, a

colui che non si fa ingannare dalle fallaci apparenze. Questo presupposto di Aragon

che il principio dell’evidenza sia fallace è un po’ l’inizio della scoperta della “civiltà

delle immagini”, esplicata dapprima nelle “immagini di città”, che troverà poi una

sistematizzazione (come tentativo di rappresentazione epocale) nel concetto

benjaminiano di «phantasmagorie chosiste».

Nel capitolo intitolato Le passage de l’Opéra troviamo tutta una serie di motivi

che saranno ripresi puntualmente (e sviluppati) da Benjamin, a iniziare dal “luogo”

stesso come topos altamente significativo. Scrive infatti Aragon che nei passages

«régne bizarrement la lumiére moderne», precorrendo così in maniera sintetica tanto

il concetto di fantasmagoria quanto il valore epocale – come luogo in cui appaiono

allegoricamente le tendenze del tempo – delle costruzioni parigine in ferro e vetro.

L’itinerario aragoniano all’interno dei passages è quasi una guida dei motivi

benjaminiani: la moda, la prostituzione, l’attenzione alle etichette e alle iscrizioni, gli

oggetti accatastati nei magazzini, il vociare della folla, il gusto della passeggiata.

Aragon cerca di interpretare i segnali dei passages a partire dalle loro forme

esteriori, che sono la moda, gli oggetti, i cartelli, i segreti nascosti nei magazzini e

negli appartamenti. Tutto questo corrisponde singolarmente a quella volontà di

«perdersi nella metropoli come ci si perde in una foresta», di cui parla Benjamin in

Infanzia berlinese. Anzi, si potrebbe dire che Le paysan de Paris altro non è che un

Baedeker per orientarsi all’interno dei passages, non tanto come luogo

architettonico, quanto piuttosto come topos della modernità. La narrazione

aragoniana sconfina in una mitologia del moderno che porta direttamente all’onirico.

Anche se lo scopo ultimo dei due autori non è più così simmetrico come lo sono le

7 L. Aragon, Le paysan de Paris, Paris 1926, p. 11.

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premesse – Aragon vuole raggiungere degli effetti letterari mediante lo

scardinamento dei confini tra sogno e realtà, mentre Benjamin vuole cercare le

cause remote della fantasmagoria, ne vuole scrivere la “preistoria” – tuttavia

troviamo un analogo impatto con questo topos passaggi, che viene accostato

all’archetipo del labirinto, nonché, ovviamente, al suo rapporto diretto (e allegorico)

con la metropoli 8.

La fine della prima parte del romanzo contiene, quindi, tutta una serie di

concetti e di parole-chiave – il moderno, il labirinto, la caduta, la soglia, ecc. – che

Benjamin avrebbe poi rifuso e utilizzato nel suo progetto. Va rilevato, tuttavia, che

Aragon in questa visione allucinata si identifica con lo spirito della modernità fino a

divenire parte di quella fantasmagoria che ne è l’espressione più completa e

significativa. Sebbene Aragon colga chiaramente gli aspetti distruttivi di questo suo

topos, si lascia trasportare da uno stato di euforia che è nel contempo autodistruttivo

e produttivo dal punto di vista letterario e che, in ultima analisi può essere ricondotto

all’elemento dionisiaco di nietzscheana memoria. Nel far questo, Aragon accetta

sino in fondo le implicazioni oniriche della visione dei passages, sino a farne un

parametro interpretativo attraverso la creazione di una nuova mitologia.

Ora è vero che Benjamin nel suo progetto si sforza di differenziarsi da Aragon

e dai surrealisti proprio in quanto non accetta la dimensione onirica come risultato

dell’epifania fantasmagorica né tanto meno vuole utilizzare il mito come sistema

interpretativo dell’epoca moderna. Tuttavia Benjamin cerca di “scovare” i significati

nascosti nelle apparenze, utilizzando appieno i “luoghi” aragoniani. Si può dire,

applicando a questo aspetto del problema la famosa tesi di Scholem, che Benjamin

compie epistemologicamente la stessa operazione che avevano tentato di compiere

i cabbalisti a proposito della mistica ebraica: quella cioè di voler definire (e qui la

problematica della “parola” ha un ruolo decisivo) l’esperienza mistica con il

linguaggio del mito 9. Usare il linguaggio pagano per descrivere la visione di Dio.

8 «L’esprit se prend au piége de ces lacis qui l'entraînent sans retour vers le dénouement de sa destinée, le labyrinthe sans Minotaure, oú réapparaît, transfigurée comme la Vierge, l’Erreur aux doigts de radium, ma maîtresse chantante, mon ombre pathétique. [...] Je ne suis qu’un moment d’une chute éternelle. Le pied perdu ne se retrouve jamais. Le monde moderne est celui qui épouse men maniéres d’étre. Une grande crine naît, un trouble immense qui va se précisant. Le beau, le bien, le juste, le vrai, le réel... bien d'autres mots abstraits dans ce même instant font faillite. Leurs contraires une fois préférés se confondent bientôt avec eux-mêmes. [...] Et fuit. Je ne pourrai rien négliger, car je suis le passage de l'ombre à la lumière, je suis du même coup l'occident et l'aurore. Je suis une limite, un trait. Que tout se mêle au vent, voici tous les mots dans ma bouche. Et ce qui m'entoure est une ride, l'onde apparente d'un frisson». Ivi, pp. 135-6.9 «Un tratto caratteristico dei tentativi sistematici delle speculazioni cabalistiche (come di certi sistemi gnostici) è che essi si propongono di costruire e descrivere, con gli strumenti di un pensiero che rifiuta il mito, un mondo che appartiene al mito». G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino 1980, p. 126.

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Sono evidenti le implicazioni inquietanti e i rischi di una “profanazione” dal punto di

vista della religione ortodossa (cioè rabbinica). Analogamente – nel suo piccolo –

Benjamin vuole cogliere lo spirito dell’epoca moderna, utilizzando la lingua e le

esperienze surrealiste senza però accettarne sino infondo le implicazioni, senza

arrestarsi all’interno dell’elemento onirico, senza riconoscersi nella modernità, bensì

tentando di superarla in una fuga utopica mediante una critica radicale. Insomma

Benjamin ha sussunto nel suo armamentario metodologico quella tensione insita

nella mistica ebraica – e in particolare nella Kabbalah – vale a dire il «conflitto fra il

pensiero concettuale-discorsivo e quello figurale-simbolico» sino a portarlo alle

estreme conseguenze 10. Benjamin descrive l’esperienza della modernità con il

linguaggio dei moderni, con il linguaggio di coloro che sono più sensibili ai “segni”

significativi (cioè degli autori dell’avanguardia e in particolare dei surrealisti), senza

però condividerne l’euforia, senza identificarsi nel “moderno”. Superare il moderno

attraverso il suo linguaggio. Benjamin accentua così appositamente le tendenze

centrifughe proprie della modernità e quindi il suo carattere distruttivo. La sua non

può che essere un’operazione di “passaggio”, un Gang da una visione

fantasmagorica a una trattazione, tutto sommato, esaustiva, definitiva

dell’esperienza del “moderno”. E per questo si rivolge alla sua preistoria, a

quell’epoca in cui si sono formati gli strumenti e in cui si sono determinate le “forme”

stesse della modernità, tanto nei suoi aspetti concettuali, quanto in quelli strutturali.

Dilacerare la contraddizione, farla esplodere nella sua radicalità, significa per

Benjamin «affrontare le cose alla radice, coglierle nella loro origine».

Sarebbe per questo vano voler privilegiare uno dei poli delle contraddizioni al

centro delle quali si è posto Benjamin. La sua non voleva essere un’operazione di

sintesi, ma una rischiosa operazione concettuale giocata tutta sulla tensione tra

elementi in estrema contraddizione tra loro. C’è, in effetti, una forte analogia

epistemologica con l’operazione tentata dai cabbalisti, ma bisogna contestualmente

notare che «l’illuminazione» benjaminiana è davvero “profana”: la sua non è

un’esperienza mistica, volta al contatto, sia pure istantaneo, con Dio, la sua è

10 Scholem individua molto bene questa “tensione”: «In primo luogo a questo proposito occorre ricordare il conflitto fra il pensiero concettuale-discorsivo e quello figurale-simbolico all'interno della Kabbalah, conflitto che conferisce alla sua letteratura e storia un carattere peculiare. Poiché la situazione è questa. Le produzioni decisive della Kabbalah, fin dalle sue prime espressioni letterarie, sono immagini, immagini di un contenuto mitico spesso drastico e interessante. [...] Se nel suo impulso primo e determinante la Kabbalah fu una reazione mitica all'interno di regioni che il pensiero monoteistico aveva strappato al mito con infinita fatica, ciò significa, in altre parole: i cabalisti agiscono e vivono ribellandosi a un mondo che peraltro a livello di coscienza non si stancano di affermare. E questo porta certamente a profonde ambiguità». Ivi, pp. 122 e 125.

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un’esperienza tutta materiale, un contatto con la fantasmagoria degli oggetti, è

un’esperienza con gli oggetti del moderno. E il suo tentativo è volto a cogliere il

senso epocale di questa fantasmagoria. Benjamin non può e non vuole uscire dalla

contraddizione di fondo che consiste nel voler dare un’interpretazione totale ed

esaustiva del moderno nel momento in cui si riconosce che la sua caratteristica

consiste nel presentare solo frammenti di realtà, anzi, nel frammentare la realtà sino

a distruggerla. Di qui la necessità di una forma «concettuale-discorsiva» che faccia

uso di un apparato essenzialmente allegorico, il quale, a sua volta, non può che

esprimersi attraverso «illuminazioni». E Benjamin non esce da questo circolo

vizioso. Il moderno può essere compreso solo se si mette in luce il suo carattere

distruttivo. Questo può essere evidenziato mediante la produzione concettuale di

un’opera che usi le “apparenze” della modernità, che usi il suo linguaggio, ma in

modo tale da mettere in crisi le sue capacità comunicative, o meglio, in modo tale da

evidenziare la crisi delle sue capacità espressive. Tale crisi si può evidenziare solo

aumentando la tensione delle contraddizioni, portandola al loro estremo, cioè

sfruttando al massimo, estremizzando, le capacità espressive del linguaggio stesso,

intendendo per linguaggio il sistema comunicativo, la capacità espressiva implicita

negli oggetti. Tutto questo processo accelera la caratteristica distruttiva del

moderno, sino a un blocco totale, sino a un’esplosione apocalittica che “anticipa”,

solo di poco, la catastrofe a cui conduce la modernità.

Da questo punto di vista è senz’altro vero che Benjamin si differenzia da

Aragon e dai surrealisti, ma è altrettanto vero che ne usa sino in fondo il linguaggio,

anzi, lo forza, portandolo all’estremo. Va ricordato, soltanto di sfuggita, che dal punto

di vista formale e tecnico-compositivo tanto il Passagen-Werk che Le paysan de

Paris sono fondati sul principio del montaggio di materiali eterogenei. Anzi,

paradossalmente, dell’opera di Benjamin ci sono rimasti quasi esclusivamente questi

materiali eterogenei che avrebbero dovuto essere “montati” tra di loro. La tecnica del

montaggio è la tecnica per eccellenza delle avanguardie artistiche: anche in questo

Benjamin non fa altro che utilizzare il sistema di segni della massima espressione

artistica dell’epoca moderna.

Aragon, ad esempio, si sforza di “vedere” nel quotidiano dei passaggi quei

segnali che lo possano ricondurre a un criterio interpretativo epocale. Scrive infatti:

«Je ne reconnaissais pas les dieux dans la rue, chargé de ma vérité précaire sans

savoir que toute vérité ne m’atteint que là oú j’ai porté l’erreur. Je n’avais pas

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compris que le mythe est avant tout une réalité, et une nécessité de l’esprit, qu’il est

le chemin de la conscience, son tapis roulant. [...] L’homme malade de la logique: je

me défiais des hallucinations déifiées» 11. Aragon è contro la razionalità che presiede

il mondo moderno – e in questo è lui stesso un esponente della contraddizione

interna al “moderno”. Da un lato è espressione dell’euforia costruttivista, in questo

caso con forti componenti “futuriste”, ma dall’altro va alla ricerca del mito,

dell’archetipo, che è sotteso all’esperienza della modernità, con i suoi risvolti

psicologici e psicoanalitici. L’operazione di Aragon rivela un’analogia a livello

letterario con quello che Benjamin, ovviamente con altri fini, voleva compiere a livello

critico. Che Le paysan de Paris, come afferma lo stesso autore, sia in qualche

modo una “soglia” lo dimostra l’atteggiamento di Aragon nei confronti delle

macchine, un atteggiamento carico di ambivalenze, che supera le euforie futuriste e

getta un’ombra sull’esaltazione del progresso – proprio sottolineando quel “lato

oscuro”, a cui aveva accennato all’inizio del libro 12. Qui il paradosso di Aragon va

ben oltre l’affermazione surrealista che le macchine sono in grado di pensare e di

imporre agli uomini il loro pensiero in una sorta di automatismo tragico che fa

sfuggire di mano il controllo dello sviluppo della società moderna. Nell’epoca

dell’informatica l’affermazione di Aragon ha perso ogni aspetto paradossale e

provocatorio. Ma la sua osservazione sulla velocità come momento di soglia, come

limite tangibile tra il “vecchio” e il “nuovo”, trova riscontro nelle affermazioni di Stefan

Zweig. L’accelerazione imposta dal “moderno” è stata tale da modificare

strutturalmente i rapporti rispetto al «mondo di ieri» 13. Insomma l’accelerazione dei

ritmi del quotidiano è una caratteristica del moderno, inestricabilmente legata alle

macchine.

Del resto, come afferma Jacques Leenhardt 14, Benjamin accomuna Aragon

nella sua critica generale al surrealismo, appiattendo talvolta le posizioni di Aragon

su quelle di Breton. Aragon, in sostanza, percepisce l’elemento distruttivo della

modernità, ne coglie la promessa apocalittica, sia pure in un contesto visionario: «Un

goût du désastre était en l’air. Il baignait, il teignait la vie: tout le moderne de ce

11 L. Aragon, op. cit., p. 140.12 Cfr. L. Aragon, op. cit., p. 146.13 «Non fu un secolo di passione quello in cui io nacqui e fui educato. Era un mondo ordinato, con chiare stratificazioni e comodi passaggi, era un mondo senza fretta. Il ritmo della nuova velocità non si era ancora propagato dalle macchine, dall'automobile, dal telefono, dalla radio e dall'aereoplano sino all'uomo: il tempo e l'età avevano altre misure». S. Zweig, Il mondo di ieri, Torino 1979, p. 27.14 Cfr. J. Leenhardt, Le passage comme forme d’expérience: Benjamin face à Aragon, in Walter Benjamin et Paris, a cura di H. Wismann, Paris 1986, pp. 163 sgg.

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temps-là, cette fonction de la durée en prenait un accent qui paraîtra bientôt

singulier, et en quelque maniére inesplicable» 15. Aragon si arresta sulla soglia di

questa inesplicabilità, di questo “lato oscuro”, limitandosi a coglierne le valenze

letterarie di stupore, di choc, di mistero; mentre invece Benjamin si ripropone di

portare alla luce ciò che apparentemente sembra inesplicabile. L’ultima parte del

libro, Le songe du villain, affronta, sia pure in termini paradossali, il problema della

metafisica. L’ipotesi avanzata – cioè che il progetto benjaminiano avesse come

griglia di partenza, come uno dei “modelli”, proprio il romanzo di Aragon – trova

conferma nel fatto che, esaminando i vari exposés, si può rilevare che Benjamin

segue almeno le tappe fondamentali del cammino “topografico” del Paysan. I

passages come fantasmagoria degli oggetti più disparati, moda, prostituzione, e

gioco d’azzardo come allegoria dell’epoca moderna, come fenomeni da cui è

possibile trarre il senso dell’epoca intera, confronto con la nozione stessa della

modernità con il suo carattere distruttivo e catastrofico, e infine fuga “metafisica”, in

senso lato, che in Aragon è un rifiuto della tradizione filosofica e che invece in

Benjamin è l’utopica costruzione di «passages parmi les astres».

Benjamin ha cercato ossessivamente di definire la linea di demarcazione tra

la sua operazione e quella dei surrealisti. Nei materiali del Passagen-Werk si trova

più volte la stessa annotazione (con piccole differenze di toni), su cui si è soffermata

ovviamente l’attenta Sekundärliteratur. Nella importante sezione dei materiali,

raccolta sotto la rubrica «Erkenntnistheoretisches, Theorie des Fortschritts», si trova

esplicitamente annotato: «Delimitazione della tendenza di questo lavoro rispetto ad

Aragon: mentre Aragon persevera nella sfera del sogno, qui deve essere trovata la

costellazione del risveglio. Mentre in Aragon permane un elemento impressionista –

la “mitologia” – e questo impressionismo va reso responsabile dei molti informi

filosofemi del libro – qui si tratta, invece, di una risoluzione della “mitologia” nello

spazio della storia. Naturalmente questo può accadere solo risvegliando un sapere

non ancora cosciente del passato» 16. Come al solito, l’annotazione benjaminiana è

ambigua, nel senso che apre la critica e l’alternativa alle posizioni di Aragon in

direzioni opposte e contraddittorie. Ma questo non deve stupire più di tanto.

Benjamin vuole superare il surrealismo, estremizzando le tensioni ad esso interne.

La “insufficienza” della posizione di Aragon (e del surrealismo in generale) viene

15 L. Aragon, op. cit., p. 162.16 W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, cit., p. 593.

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identificata nell’elemento mitologico, definito «impressionistico» – e questo per un

autore d’avanguardia è quasi un insulto – e nell’elemento onirico. La chiave

mitologica è, secondo Benjamin, una chiave interpretativa insufficiente in quanto

legata all’elemento onirico e in quanto non in grado di sciogliere quell’”inesplicabilità”

dei fenomeni visibili nella società attuale. Quindi da un lato c’è un richiamo a una

sorta di coscienza storica del passato – quella volontà di portare alla luce le cause

remote, che lo inducono a interessarsi alla «preistoria» dell’esistente (della Parigi del

secondo impero, appunto) –, dall’altro la critica all’elemento onirico viene motivata

dalla sottolineatura delle debolezze espressive (l’impressionismo), quindi da una

critica di quell’apparato allegorico-formale su cui si fonda l’operazione artistica.

L’errore di Aragon – quell’«erreur» tanto evocata nel Paysan – consiste nel

fermarsi all’interno della selva dei simboli onirici, di lasciarsi prendere dall’euforia

delle visioni, di accettarle come inesplicabili, senza andarne a cercare l’origine:

Forze della quiete (della tradizione), i cui effetti si fanno sentire oltre il XIX secolo. Forze storiche della tradizione, bloccate. Cosa sarebbe il XIX secolo per noi se la tradizione ci unisse ad esso? Come ci apparirebbe quel secolo sotto forma di religione o di mitologia? Con esso non abbiamo un rapporto tattile; siamo, cioè, educati ad una romantica visione distaccata dell’ambito storico. Fare i conti con un’eredità che ci tocca immediatamente è importante; ma è ancora troppo presto, ad esempio, per collezionare. Si richiede una coscienza concreta, materialistica del più vicino. La «mitologia», come dice Aragon, respinge le cose lontano. Solo l’esposizione di ciò che ci e affine e ci condiziona è importante. Il XIX secolo, per dirla con i surrealisti, è il rumore dei nostri sogni, che noi interpretiamo nel risveglio17.

Ma la contrapposizione che Benjamin evoca molto chiaramente tra sogno e

risveglio apre la via a una serie di valenze molto indicative che si muovono a loro

volta in direzioni diverse. Da un lato, infatti, è chiara un’allusione a Proust e al topos

con cui inizia la Recherche, ovverosia il risveglio da un sonno e il chiedersi il

perché delle cause del sogno, con una conseguente apertura a tutta la complessa

problematica della memoria atta a introdurre a sua volta il tema dell’infanzia, del

passato da salvare, del rapporto Parigi-Berlino, ecc. Dall’altro, però, il tema del

risveglio si pone in rapporto a una costellazione linguistica (ancora quindi un

apparato allegorico-formale) tratta dalla tradizione della mistica ebraica. Il risveglio è

anche l’atto di chi porta la luce nel “lato oscuro”, di chi vuole comprendere ciò che

sembra inesplicabile, di chi vuole andare oltre le apparenze, alla radice delle cose, di

chi vuole superare il moderno con il linguaggio del moderno. Quindi da un lato un

richiamo alla coscienza del passato, dall’altro un programma di distruzione del

continuum storico. Benjamin in sostanza vuole negare quel rapporto vagamente 17 Ivi, p. 1026.

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junghiano tra luogo onirico e archetipo, ovvero vuole negare la mitizzazione delle

forme oniriche come chiave interpretativa epocale. La sua proposta specifica

sembra essere, almeno da questo frammento, quella di legare il sogno, il

Traumbild, da un lato al ricordo (con tutte le implicazioni del luogo-infanzia che

reintroducono, in seconda istanza, le componenti psicoanalitiche) e dall’altro al

sociale, ovvero al Traumkitsch, al fatto cioè che anche l’immaginario collettivo si

sia popolato di oggetti, di forme, di Bilder, che provengono dal mercato, dalla

fantasmagoria delle merci. È significativo, tuttavia, che la nota immediatamente

seguente a quella citata, in cui prende le distanze da Aragon, sia un richiamo alla

tecnica del montaggio, e quindi all’operazione di avanguardia: «Questo lavoro deve

sviluppare al massimo grado l’arte di citare senza virgolette. La sua teoria è

intimamente connessa a quella del montaggio» 18.

In un’altra nota sul motivo del sogno Benjamin ribadisce la sua differenza

rispetto ad Aragon: «Teoria del sogno naturale di Freud. Sogno come fenomeno

storico. In contrapposizione ad Aragon: compenetrare tutto ciò con la dialettica del

risveglio, non lasciarsi cullare stanchi nel “sogno” o nella “mitologia”. Quali sono i

rumori del mattino che si risveglia che noi includiamo nei nostri sogni? La

“bruttezza”, il “fuori moda” sono solo voci mattutine deformate, che ci parlano della

nostra infanzia» 19. La “correzione” di Benjamin si muove quindi in diverse direzioni:

da un lato il rapporto tra sogno e esperienza infantile, ricavato da Freud, ma

integrato da un forte elemento “proustiano”, cha a sua volta si dipana in una doppia

valenza: quella della «mémoire involontaire» – che avrà un ruolo fondamentale

nello choc della Stadterfahrung – e quello di una riduzione letteraria di questo

motivo, che comporta delle differenze di montaggio rispetto alle soluzioni surrealiste;

dall’altro una critica esplicita alla mitologia del moderno.

Un quadro sinottico – per quel che è possibile realizzare – delle annotazioni di

Benjamin sul problema del sogno ci fornisce delle indicazioni concrete sulla messa a

punto di tutti gli elementi che avrebbero dovuto guidare la stesura del libro, ivi

compreso il “superamento” delle posizioni surrealiste, impantanate nella

allucinazione onirica. Nel capitolo fondamentale dei materiali che va sotto il nome di

Erkenntnistheoretisches, Benjamin riprende le sue considerazioni sul gruppo di

problemi sogno-risveglio-memoria, specificando la sua concezione del passato,

18 Ivi, p. 593.19 W. Benjamin, Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1977, vol. V, p. 1214.

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dell’«accaduto»: «Nell’immagine dialettica, ciò che è stato in una determinata epoca

è sempre, al tempo stesso, “il sempre già stato”. Esso, però, si manifesta di volta in

volta come tale solo agli occhi di un’epoca assolutamente determinata: quella in cui

l’umanità, stropicciandosi gli occhi, riconosce come tale proprio quest’immagine di

sogno. È in quest’attimo che lo storico assume il compito dell’interpretazione del

sogno» 20. Allora diviene chiaro il senso della critica benjaminiana nei confronti del

surrealismo: voler interpretare il significato dei sogni all’interno di un contesto onirico

non è sufficiente per cogliere il senso di un’epoca storica. Per far questo occorre

portare alla luce le origini del passato e le implicazioni “sociali” del sogno. Solo nel

momento in cui «l’interprete dei sogni» si chiede come si siano determinate quelle

forme oniriche egli diventa uno «storico». Das Gewesene non viene qui inteso da

Benjamin come il tradizionale processo storico da interpretare in termini, diremmo

oggi, «storicistici», bensì quel complesso processo che ha fatto affiorare «nell’epoca

che è davanti ai nostri occhi» quelle “forme”, quegli oggetti che popolano tanto la

realtà quotidiana che l’immaginario. Insomma il sogno è da un lato legato alla storia

del soggetto, al suo passato individuale – di qui l’importanza dell’infanzia, come

epoca soggettiva in cui hanno origine le forme dell’esperienza, anche di quella futura

–, dall’altro è legato alle origini dell’epoca storica attuale, alla “preistoria del

moderno”.

Le forme che popolano il mondo onirico sono dunque in parte legate al

Gewesene del singolo, in parte al processo sociale. Il medium tra questi due poli è

dato dall’immaginario collettivo, anche questo determinato dalle forme sociali. Le

figure del sogno, insomma, non sono astratte ne eterne – di qui il rifiuto del mito

come chiave interpretativa – ma sono in qualche modo storicamente determinate.

Allora «das Gewesene» non può essere solo utilizzato come fantasmagoria in cui

perdersi, ma va in qualche modo interpretato, “letto”: «Il fatto che si parli di un libro

della natura mostra che si può leggere il reale come un testo. È quanto deve essere

qui sostenuto per la realtà del XIX secolo. Noi sfogliamo il libro dell’accaduto» 21.

In questa lettura del passato per capire la realtà presente Benjamin privilegia

– allegoricamente – il momento del “risveglio” che non quello del “sonno”. E allora

l’esemplarità dell’esperienza proustiana ritorna al centro del suo discorso. Queste

annotazioni sono contenute e classificate da Benjamin stesso, mediante quel suo

20 W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, cit., p. 601.21 Ivi, p. 602.

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complicato sistema di lettere e numeri che caratterizza la raccolta dei materiali

preparatori, in un unico capitolo; e si susseguono l’una dietro l’altra, quasi a voler

rimarcare la continuità di un discorso per lo svolgimento di un tema centrale. Scrive

infatti Benjamin nella stessa pagina: «Ogni esposizione storica deve cominciare così

come Proust comincia la storia della sua vita: con il risveglio; essa, anzi, non può

propriamente trattare di altro. Questa esposizione tratta, dunque, del risveglio dal

XIX secolo» 22.

Da un lato è sempre più chiara da parte di Benjamin l’intenzione di assumere

il ruolo dello “storico”, di voler scrivere una storia dell’epoca moderna, dall’altro si

precisa ulteriormente la sua premessa metodologica. Come annota lo stesso autore

nel più volte citato saggio sul surrealismo: «Il trucco che governa questo mondo di

cose (è più opportuno parlare di trucco che di metodo) consiste nella sostituzione

dello sguardo storico su ciò che è stato con quello politico» 23. Scrivere una storia

significa svegliarsi, uscire dalle apparenze, liberarsi del passato. Quindi interpretare

le tendenze fondamentali dell’epoca «che è sotto i nostri occhi» significa ricostruirne

la preistoria, non già per rimanerne prigionieri, ma per liberarsene. Di qui la funzione

allegorica della situazione-risveglio, preferita largamente a quella (passiva) del

sogno. In questo caso specifico, per il complesso gioco combinatorio che si verifica

sempre nei testi benjaminiani, non può sfuggire l’eco di una massima goethiana:

«Scrivere la storia è un modo come un altro per liberarsi del passato» 24. Questo

«liberarsi del passato» assume in Benjamin non già il significato di rimuovere ciò che

è accaduto, ma anzi, con un rovesciamento in positivo, significa «salvare» il

passato. Questa Rettung dell’accaduto si ottiene solo rendendo produttivi i suoi

significati nascosti. Conoscere i processi che hanno determinato il passato,

riconoscere i luoghi e le immagini che hanno caratterizzato l’infanzia, uscire dalla

“foresta dei simboli”, «svegliarsi» verso un processo conoscitivo. Non c’è dubbio che

l’operazione benjaminiana voleva avere un valore gnoseologico. Ora, se

indubbiamente il secolo XIX è il secolo in cui è nato e si è determinato il “moderno”,

questo processo gnoseologico, complesso e differenziato, che Benjamin vuole

mettere in moto, ha come scopo ultimo la comprensione dei meccanismi dell’epoca

moderna e per ciò stesso getta i presupposti per un suo superamento. Si potrebbe

rovesciare questa osservazione: il superamento del moderno ha come presupposto 22 Ivi, p. 602.23 W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 16.24 J.W. Goethe, Massime e riflessioni, trad. it. di M. Bignami, Roma 1983, p. 33.

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la conoscenza del suo passato, delle sue origini, della sua “preistoria”. Dal punto di

vista epistemologico questo processo che Benjamin vuole mettere in moto non si

distacca molto da quello freudiano: per poter vivere il presente il soggetto deve

portare alla luce le cause, le ragioni profonde che ne hanno determinato le forme,

anche oniriche – i Traumbilder. Quindi il passato, l’accaduto, non va certo rimosso

né dimenticato, bensì chiarito, riportato alla luce, dissepolto; e solo in questo modo

può essere reso produttivo alla comprensione del presente. Non è un caso che tutta

questa serie di osservazioni sul sogno e sul “risveglio” siano collocate da Benjamin

nella sezione dei materiali di carattere gnoseologico e metodologico. Sono infatti una

serie di osservazioni preliminari che danno il senso a tutto quanto il suo progetto.

Così la contrapposizione – apparentemente inesplicabile – Freud-Aragon può

acquistare un suo significato solo se la si legge nel contesto epistemologico. Ed è

proprio in questo contesto che risulta importante sottolineare sia le radicali differenze

di prospettiva tra l’operazione dell’avanguardia surrealista e quella di Benjamin, sia

le simmetrie, che pure ci sono, nell’uso del patrimonio allegorico-espressivo e nella

tecnica del montaggio.

Il campo di applicazione di questi presupposti metodologici viene subito

ricondotto da Benjamin al topos per eccellenza, che va “letto” come un testo, e che

è la sintesi allegorica dell’epoca che vuole analizzare. Scrive infatti nell’annotazione

seguente alla citazione da Max Raphael: «La particolarità delle forme di produzione

della tecnica (contrariamente alle forme dell’arte) è che il loro progresso e la loro

riuscita sono proporzionali alla trasparenza del contenuto sociale (di qui

l’architettura di vetro)» 25. E qui è il nocciolo della questione. La trasparenza delle

forme tecniche è legata al loro contenuto sociale, ovvero bisogna risalire all’origine

storica e alla funzione sociale delle forme del reale (della fantasmagoria degli

oggetti) per portare alla luce il loro significato. Non così per le forme artistiche. Esse

non sono legate alle forme sociali da un nesso di causa-effetto, ma procedono per

sentieri più complicati e contorti. Benjamin si prefigge di ricostruire questi passaggi

complessi e contorti delle “forme” (sia tecniche che artistiche) a partire dalla loro

origine. Assume su di sé il compito dello storico. Ovviamente la sua concezione di

questo ruolo non può essere appiattita né sul concetto di «materialismo dialettico»

né su quello della «visione mistica» né tanto meno su quello della ricerca sociologica

di stampo francofortese. Si tratta di un procedimento affatto originale, le cui basi

25 W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, cit., p. 602.

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metodologiche e gnoseologiche sono esposte nei frammenti (in parte citazioni, in

parte considerazioni) raccolti in questo capitolo dei materiali preparatori.

In questo procedimento, come del resto nella utilizzazione contemporanea di

diversi sistemi conoscitivi e interpretativi, Benjamin non può certo essere accusato di

eclettismo in quanto l’uso dei diversi sistemi euristici non è indifferente né

intercambiabile. In altre parole, Benjamin utilizza dei diversi sistemi soltanto quegli

elementi che possono essere “rifunzionalizzati” al suo progetto, e nel far questo

“scompone” il sistema gnoseologico da cui vuole estrapolare un elemento e lo

“distrugge”, ne porta alla luce la sua “insufficienza”. È quella che Hannah Arendt ha

definito la tecnica del «pescatore di perle», che non va applicata solo alla mania del

collezionista che raccoglie oggetti densi di un valore allegorico e privi

apparentemente di qualsiasi valore d’uso. Trasportata sul terreno metodologico e

gnoseologico questa tecnica ha il doppio scopo di criticare radicalmente i sistemi

euristici preesistenti – e di renderli inefficaci tramite questa “scomposizione” – e

d’altro canto di raccogliere all’interno di essi le “perle” concettuali e categoriali che

vengono “rimontate” in un contesto diverso. Balza agli occhi la simmetria di questa

operazione storico-critica (dove l’aggettivo «storico» va preso con tutte le cautele e

le virgolette dell’accezione benjaminiana) e l’operazione artistica delle avanguardie. I

sistemi interpretativi, le categorie di pensiero, le “filosofie” sono trattate da Benjamin

come materiali da scomporre, sezionare, frazionare e ricomporre in un ambito del

tutto diverso. Per questo servendosi delle “vecchie” categorie concettuali non si

riuscirà mai a “comprendere” l’operazione benjaminiana, a riportarla, cioè,

nell’ambito di uno di quei sistemi che egli aveva “smontato” e reso, in sostanza, non

più funzionanti. È altrettanto evidente la componente di rischio che questa

operazione comporta: voler far funzionare gli “oggetti” concettuali, rimontandoli in

una composizione del tutto diversa, porta con sé il rischio di essere accusato di

“illogicità” e di “incoerenza”. In altri termini il rischio di essere tacciato di

contraddizione. Ma questo, come si è detto, non è il risultato dell’operazione

benjaminiana, bensì il suo presupposto. Bisogna porsi al centro delle contraddizioni

per essere in grado di costruire un sistema interpretativo del moderno che non abbia

la pretesa di “risolvere” le contraddizioni stesse, ma che anzi voglia aumentarne la

tensione sino ai limiti estremi.

Nel far questo Benjamin ha bisogno di mantenere una certa distanza emotiva

e concettuale nei confronti dei sistemi interpretativi che di volta in volta “smonta”, ha

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bisogno cioè di trattarli con il distacco con cui si trattano dei materiali. E questo

distacco viene definito da Benjamin «astuzia». Scrive infatti: «Noi costruiamo il

risveglio teoricamente, cioè riproduciamo nel campo del linguaggio quel trucco che

psicologicamente è l’elemento decisivo nel risveglio, il risveglio opera con l’astuzia.

Con l’astuzia, non senza, ci liberiamo dell’ambito onirico» 26. Allora i surrealisti

possono essere accusati di ingenuità, in quanto non si sono posti il problema di

comprendere le cause dei Traumbilder. Ma ancora più interessante è sottolineare il

carattere distanziato con cui tutta l’operazione viene condotta a termine. L’astuzia è

necessaria per uscire dall’ambito onirico e per fornire a quest’ambito un sistema

interpretativo. Però va notato che mentre da un lato Benjamin utilizza questa

argomentazione per criticare la mitologia come sistema euristico per comprendere

«l’epoca che abbiamo davanti agli occhi», dall’altro introduce il concetto di “astuzia”

per uscire dalla dimensione mitico-onirica, che è un concetto appartenente proprio al

mito del labirinto. L’immagine del labirinto ritorna, in collegamento con la metropoli e

con la Stadterfahrung, sia in Aragon che in Benjamin. Il labirinto come luogo mitico

presenta anch’esso delle ambiguità: può essere un luogo da cui non si può uscire e

da cui non si esce, ma può essere anche un “luogo” da cui – come Teseo – in

qualche modo si riesce a venir fuori. L’operazione che Benjamin vuole compiere nei

confronti del sistema onirico-mitologico utilizzato dai surrealisti presenta delle

interessanti chiavi interpretative che si possono spiegare anche attraverso la

metafora del labirinto. Lo stesso Benjamin sottolinea l’aspetto di “soglia” dei

passages parigini, collegando esplicitamente il loro carattere di trapasso a

un’origine rituale:

Rites de passage – così sono dette nel folclore le cerimonie connesse a morte, nascita, nozze, pubertà, ecc. Nella vita moderna questi passaggi sono divenuti sempre più irriconoscibili e impercettibili. Siamo diventati molto poveri di esperienze della soglia. L’addormentarsi forse è l’unica che ci è rimasta. (E con essa, però, anche il risveglio). E del resto anche il su e giù della conversazione e dell’oscillazione sessuale dell’amore fluttua su soglie come le mutevoli figure del sogno. «Qu’il plaît à l’homme, – dice Aragon – de se tenir sur le pas des portes de l’immagination!» [Paysan de Paris, Paris 1926, p. 74]. Le soglie, da cui agli amanti e agli amici piace attingere le forze, non sono solo quelle che appartengono a queste porte fantastiche, ma le soglie in quanto tali. Tuttavia le prostitute amano le soglie di queste porte di sogno. La soglia deve essere distinta molto nettamente dal confine. La soglia [Schwelle] è una zona. Nella parola «schwellen» [gonfiarsi] sono compresi mutamento, passaggio, maree, significati che l’etimologia non deve lasciarsi sfuggire: D’altronde è necessario attenersi fermamente al contesto tettonico e cerimoniale che ha portato la parola al suo significato. Architettura onirica 27.

26 W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit., vol. V, p. 1213.27 W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, cit., pp. 640 sg.

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Il labirinto è un Gang che sottolinea il trapasso da una situazione (la vita) a

un’altra (la morte, l’Ade). Secondo la concezione greca questo trapasso non

avveniva automaticamente, ma aveva bisogno di un rito. Entrare nel labirinto

significava andare incontro alla morte. Tutto il senso di questo movimento nel

labirinto consiste nell’arrivare al centro. E al centro del labirinto c’è il Minotauro,

allegoria della morte. Il centro del labirinto è il luogo sacro, il luogo della conoscenza

in cui si rivela il mistero, è il luogo della conoscenza della morte. Come sottolinea

Kerényi 28. per entrare nel labirinto è necessaria quella qualità che i greci definivano

metis, ovvero la capacità di aderire alla realtà in maniera camaleontica, duttile e nel

contempo distaccata. È la qualità per eccellenza di Ulisse, l’astuto. Risolvere

l’enigma del labirinto significa introdurvi la vita e con ciò provocarne la morte.

L’essenza del labirinto non è data dalla costruzione, non è, insomma, un luogo

fisico, architettonico, bensì un luogo dell’esistenza, un luogo psicologico – Kerényi

sottolinea che nell’età più antica era segnato per terra con delle pietre disposte in

forma concentrica. Il labirinto è il movimento che tende verso il centro, il suo essere

sta nel suo compiersi in quanto movimento. Al centro, nel luogo di conoscenza del

mistero sta il Minotauro, il mostro, che è árreton, cioè ineffabile, indescrivibile,

inesplicabile, però non invincibile. Infatti questo movimento rituale verso il centro ha

un senso solo se riesce in qualche modo a esorcizzare la morte. Dal labirinto,

nonostante le apparenze, c’è sempre una via d’uscita. La danza rituale, che

accompagna sempre il mito del labirinto, comporta una svolta, un attraversamento.

Proprio perché il mitologema del labirinto esprime questo “trapasso”. La metis è

l’astuzia – potremmo dire con Benjamin la List – la capacità di imprimere una svolta

al movimento: tornare dalla morte alla vita. Del resto il mito di Teseo celebra la

sconfitta del Minotauro. Attraversare il centro significa sciogliere l’enigma, ma

significa anche produrre una morte. E la morte è necessaria perché nasca la vita.

Come nota Kerényi, il mito del labirinto è legato al mito di Persefone, che

simboleggia il rapimento, il ritorno, la morte e la fecondità evocata da questo

sacrificio rituale. L’enigma si scioglie nel momento in cui si raggiunge il centro e ci si

accorge che non c’è nessun labirinto, che il segreto sta nel trapasso, nell’accettare

la necessità della morte, nella congiunzione tra morte e vita. Allora se entrare nel

labirinto significa introdurvi la vita e con questo provocarne la morte, ciò significa

28 Cfr. K. Kerényi, Nel labirinto, a cura di C. Bologne, Milano 1983.

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anche nel contempo oltrepassare la soglia, provocare la morte del labirinto, svelare il

suo mistero.

In relazione a questo topos, l’operazione di Benjamin potrebbe anche essere

interpretata in senso mitologico: egli entra nel labirinto della metropoli con l’astuzia di

volerne identificare la preistoria e per ciò stesso ne decreta la fine, il “superamento”.

L’enigma del moderno – quella sua inesplicabilità di cui parla Aragon – si scioglie

con la rivelazione che non c’è nessun mistero, che il moderno è fatto di vuote

promesse di un progresso inesistente, il quale in realtà non produce benessere, ma

solo distruzione. Però questa interpretazione mitologica è solo parzialmente

applicabile all’operazione benjaminiana. Ancora una volta dobbiamo rilevare che il

critico berlinese ha estrapolato dal sistema interpretativo soltanto gli elementi che

potevano servire alla sua particolare costruzione concettuale. Dalla mitologia ha

preso soltanto il topos-labirinto, il cui mistero si risolve con la distruzione del labirinto

stesso, e la metis, la List, l’astuzia necessaria per poter entrare nel labirinto.

Benjamin, come il famoso angelo della storia, lascia dietro di sé solo rovine

concettuali quando estrapola qualche concetto da un sistema. Così con quel

concetto di astuzia, ricavato direttamente dal mito del labirinto, Benjamin scioglie il

mistero del labirinto stesso, ne provoca la morte, ma nel contempo rende

inutilizzabile l’intero apparato onirico-mitologico. È un “trucco” per uscire dall’ambito

onirico.

L’astuzia di Benjamin consiste nel rovesciare il concetto di “sogno” in quello di

“risveglio”, con tutta la riflessione critica sul Gewesene, che in questo caso è anche il

sognato. Insomma Benjamin “corregge” Aragon e i surrealisti, prigionieri del labirinto

onirico, con Proust e – in senso epistemologico – con Freud. Il “risveglio” è anche il

momento che permette di collegare l’elemento sociale all’elemento individuale, le

ragioni storiche della produzione delle merci alle ragioni personali dell’esperienza-

infanzia. Scrive infatti Benjamin a questo proposito: «Insomma: ricordo e risveglio

sono strettamente connessi. Il risveglio è cioè la svolta copernicana e dialettica della

reminiscenza» 29. Questo “risveglio” corrisponde all’attraversamento del centro da

parte di Teseo. Nel labirinto della modernità non c’è nessun Minotauro – come scrive

Aragon. E l’operazione di Benjamin si differenzia sostanzialmente da quella

mitologica perché non cerca più un centro, con o senza mostro, ma anzi parte dal

presupposto della perdita di qualsiasi centro. La sua è una posizione eccentrica.

29 W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, cit., p. 508.

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Una delle caratteristiche dell’epoca moderna, anche della preistoria del moderno,

consiste nella perdita del centro, nella perdita di qualsiasi centralità politica, morale,

economica, psicologica. Questa eccentricità del moderno radicalizza l’isolamento

dell’individuo e delle sue soggettive contraddizioni. Quanto più egli cerca nella sua

singola storia le ragioni del suo essere, tanto più esse si rivelano fondate sul sociale,

sui processi che egli, come individuo, non è in grado di gestire e talvolta nemmeno

di comprendere nelle sue reali dinamiche. Qui sta la radicale distruzione del

mitologema-labirinto, nonostante le apparenti analogie. Benjamin astutamente non

cerca il centro, nemmeno per provocare la morte del Minotauro, il centro non esiste,

non c’è più da quando è sorta l’epoca moderna; cerca solo di uscire dalla trappola

che lo vuole rinchiuso (secondo i surrealisti) in una visione onirica. La «rivoluzione

copernicana» consiste nel liberarsi della contemplazione estetica delle visioni

oniriche per cominciare a chiedersi le ragioni della loro origine. E in questo processo

il sociale rientra nell’onirico. Scrive infatti Benjamin nell’annotazione

immediatamente seguente a quella prima citata: «Il XIX secolo, un’epoca (un’epoca

onirica) in cui la coscienza individuale si consolida sempre più nella riflessione,

laddove la coscienza collettiva cade in un sonno sempre più profondo» 30.

Allora il punto di divergenza diviene realmente la corretta interpretazione delle

origini delle immagini che popolano i sogni individuali. Esse sono, secondo

Benjamin, condizionate dalle immagini che ciascun individuo ricava dalla pubblicità,

dalla semplice presenza degli oggetti nella fantasmagoria del mercato. Questo dato

di fatto cambia radicalmente la situazione, non già in senso archetipico-mitologico,

ma in senso più banalmente “oggettuale”. L’immaginario collettivo è storicamente e

socialmente determinato. Scrive Benjamin nei suoi appunti: «Noi concepiamo il

sogno come un fenomeno 1) storico 2) collettivo. Cerchiamo di chiarire i sogni del

singolo attraverso la dottrina storica dei sogni» 31. La storicizzazione del sogno,

ovvero la ricerca degli elementi collettivi, che sono anche le cause storiche delle

forme oniriche, si ottiene attraverso il “risveglio”, la riflessione sul passato, la

«raccolta» di materiali del quotidiano. Il concetto di «sogno collettivo» è insomma la

base della critica al surrealismo e la “chiave” che rende impraticabile la via

mitologica. In un’annotazione tratta dai materiali preparatori Benjamin è molto

esplicito a questo proposito:

30 Ivi, p. 508.31 W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit., vol. V, p. 1214

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Non solo le forme fenomeniche del sogno collettivo del XIX secolo non possono essere in alcun modo tralasciate, non solo esse lo caratterizzano in modo più decisivo di quanto sia mai accaduto ad ogni epoca della storia del passato: esse sono anche, se ben interpretate, di enorme importanza pratica, ci fanno conoscere il mare nel quale navighiamo e la riva da cui salpammo. In una parola, è qui che deve inserirsi la «critica» del XIX secolo. Non la critica nel suo meccanicismo e macchinismo, ma quella del suo storicismo narcotizzante, della sua smania di mascheramenti, in cui pure si nasconde un segnale di vera esistenza storica, che i surrealisti sono stati i primi a cogliere. Decifrare questo segnale è quanto si propone la presente ricerca. E la base rivoluzionaria e materialistica del surrealismo è una garanzia sufficiente del fatto che, nel segnale di vera esistenza storica che è qui in questione, il XIX secolo faccia pervenire la propria base economica alla sua più alta espressione. 32

Uscire dalla narcosi dello storicismo del XIX secolo significa in sostanza

ricercare le cause materiali della produzione di forme oniriche dei Bilder, che non

possono essere ricondotti ad archetipi né a mitologemi, bensì a «meccanismi

mediante i quali si è determinata la modernità. E a questo proposito Benjamin

specifica l’esistenza di una simmetria tra la mitologia “classica” e la mitizzazione

delle macchine. Il mitologico del moderno sono le macchine. Vien da pensare a

questo proposito all’utilizzazione del “luogo” aragoniano de Le paysan de Paris.

Ancora una volta l’utilizzazione del patrimonio espressivo-allegorico non coincide

con l’utilizzazione del patrimonio concettuale-teorico, ma anzi il primo diventa per

Benjamin il presupposto per “scomporre” e scardinare il secondo.

Il mitologico viene spostato nell’infanzia e riferito alla tecnica 33 Da un lato

Benjamin introduce una precisa distinzione tra la simbologia del mito e l’allegoria

delle forme in cui si manifesta il moderno. Dall’altro limita l’approccio mitico alle

forme simbolizzate della tecnica al periodo dell’infanzia, collegandole per forza di

cose con il ricordo e con il mondo onirico. Insomma la simbolizzazione delle forme

del reale ha origine nell’infanzia dell’individuo, un’epoca in cui la realtà stessa ci

viene incontro sotto forma mitologizzata delle esperienze oniriche. Il bambino

percepisce la realtà attraverso il suo mondo fantastico che è, sì, determinante e

funge da sistema euristico per le nuove esperienze, che altro non possono essere

se non esperienza del nuovo. Ma questo mondo di simboli da guardare stupiti a ogni

nuovo choc di conoscenza va prima o poi interpretato come un testo. Ovverosia, una

32 W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, cit., p. 511.33 Scrive infatti nella famosa sezione «gnoseologica» dei materiali preparatori: «Solo l'osservatore superficiale può negare che tra il mondo della tecnica e l’arcaico universo simbolico della mitologia giochino delle corrispondenze. Certo il nuovo generato dalla tecnica appare da principio solo come tale. Ma già nel primo ricordo infantile muta i suoi tratti. Ogni infanzia compie qualcosa di grande, di insostituibile per l’umanità. Ogni infanzia, nel suo interesse per i suoi fenomeni tecnici, nella sua curiosità per ogni sorta di invenzioni e macchinari, lega le conquiste della tecnica agli antichi universi simbolici. Non c’è niente nel campo della natura che per definizione si sottragga a questo legame. Solo esso non si forma nell’aura della novità, ma in quella dell’abitudine. Nel ricordo, nell’infanzia e nel sogno. Risveglio». (Ivi, p. 597).

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volta addentrati nel labirinto dei segnali e dei simboli, bisogna pur chiedersi l’origine

di questi stessi segnali. È qui che l’interprete dei sogni diventa lo storico. È qui che si

colloca l’operazione benjaminiana. Nel momento in cui si “porta alla luce”, si scopre

l’origine storica e sociale, l’origine “materiale” delle forme che ci appaiono come

simboli, si esce dal mondo dei sogni, si “smitizzano” i simboli stessi, avviene il

“risveglio”. Allora le forme del moderno non rimangono che oggetti privi del loro

valore d’uso e carichi di significati allegorici, allora il luogo privilegiato dell’analisi

storica (in senso benjaminiano) non può più essere il luogo onirico, bensì l’allegoria

del secolo della modernità, ovverosia i passages. Comunque questo passo dei

Pariser Passagen II è una sintesi dei vari motivi trattati (sogno-infanzia-mito) che si

pone come momento intermedio: da un lato il risultato della “distillazione” di una

serie di annotazioni e citazioni, dall’altro il punto di partenza per riflessioni e

approfondimenti nelle varie direzioni, a 360 gradi, per così dire. Scrive Benjamin:

La noia è un caldo panno grigio, rivestito all’interno di una fodera di seta dai più smaglianti colori. In questo panno ci avvolgiamo quando dormiamo. Allora siamo di casa negli arabeschi della fodera. Ma sotto quel panno il dormiente sembra grigio e annoiato. E quando poi al risveglio vuol narrare quel che ha sognato, non comunica in genere che questa noia. E chi mai potrebbe infatti con un gesto rivoltare la fodera del tempo? Eppure, raccontare dei sogni non significa altro che questo. E in nessun altro modo se non in questo si può parlare dei passages, architetture in cui, come in un sogno, riviviamo la vita dei nostri genitori, dei nostri nonni, come il feto nel ventre materno rivive la vita animale. Del resto, anche l’esistenza di questi spazi scorre priva di accenti come l’accadere dei sogni. Flâner è la ritmica di questo torpore. 34

Il tono letterario con cui Benjamin aveva in mente di scrivere il libro sui

passages ha come modello l’esperienza di scrittura del suo Einbahnstrasse. Il suo

argomentare non procede per ragionamenti deduttivi, non si rifà minimamente alla

saggistica “francofortina” in quanto non ci sono i presupposti teorici e metodologici.

Procede piuttosto per accostamento, per affastellamento concettuale. Così come gli

oggetti si presentano nei passages l’uno accanto all’altro, in forma confusa, senza

perdere per questo il loro valore allegorico, così Benjamin mette l’uno accanto

all’altro i motivi che in questo caso debbono condurre il lettore in una promenade dal

mondo onirico al “risveglio” dei passages stessi, passando attraverso il «passato più

recente», attraverso l’infanzia. Questa apparente casualità della disposizione dei

concetti, delle figure e dei motivi è naturalmente un trucco. È la famosa “astuzia”

necessaria per scrivere la sua opera. «Raccontare i sogni» significa spiegare il

senso epocale, confrontarsi con l’infanzia, ritrovarsi nei passages che sono la

preistoria della soggettività moderna, l’architettura dei nostri genitori. Il cammino, che 34 Ivi, pp. 1092 sg.

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era iniziato con la critica alla poetica del surrealismo (e ad Aragon in particolare),

porta direttamente all’interno dei passages. Si era partiti dal Passage de l’Opéra,

capitolo centrale de Le paysan de Paris, per sfociare nei passages come allegoria

epocale del passato individuale (infanzia) e del passato collettivo (preistoria del

moderno). Bisogna uscire dalla trappola del sogno e dalla mitologia della tecnica,

ma dai passages, come “luogo” della modernità non si esce. Essi sono un labirinto

attraverso cui si può passeggiare, da cui si possono compiere infinite deviazioni, ma

dal labirinto dei passages, come topos non si esce giacché per superare questa

“forma architettonica” bisogna “andare oltre” il moderno. Questa passeggiata tra i

motivi della modernità che Benjamin ci propone è il presupposto per portare alla luce

le cause nascoste del passato e quindi per superare il presente. Nel momento in cui

si raggiunge il centro del labirinto se ne svela il mistero e il labirinto non esiste più, si

dissolve. Il fatto è che i passages non hanno un centro.

Muoversi attraverso la foresta di simboli della metropoli significa, in sostanza,

fare una passeggiata all’inferno («une saison en enfer»). Qui il sogno assume una

funzione fondamentale sia come ricordo sia come affiorare dell’inconscio. Privato e

pubblico si confondono di nuovo nella misura in cui qui Benjamin utilizza i motivi del

labirinto e dell’inferno come chiavi interpretative della città in quanto luogo onirico.

Le merci nel mercato della fantasmagoria sono anche la concretazione del sogno. E

lo spazio di immagini (Bildraum) dei passages è un albero totemico, in cui gli oggetti

mostrano il loro significato allegorico: «La suprema, ultima smorfia di questo albero

totemico è il Kitsch» 35. L’ossessione con cui Benjamin si confronta, nei suoi materiali

preparatori al Passagen-Werk, con le posizioni dei surrealisti, dimostra l’importanza

che attribuiva al superamento dell’onirico e del mitologico. Ma dimostra anche che la

sua risposta voleva collocarsi sul limite di una soglia: quella, cioè, della scrittura di

un libro che conservasse tutte le caratteristiche di un’analisi critica nei confronti della

società e della produzione artistica, ma che possedesse anche delle qualità

letterarie. In questo senso la sua operazione vedeva nei surrealisti in parte dei

compagni di viaggio, in parte dei concorrenti, per via delle divergenze di prospettive

fin qui esaminate. Benjamin voleva insomma raccontare le origini delle “forme” del

moderno. Il tentativo ambizioso di questo progetto utopico si è dissolto in quelle

poche «papeles» 36, andate perdute a Port Bou nell’estate del ‘40.

35 W. Benjamin, Kitsch onirico, in Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, cit., p. 73.36 Nel rapporto della Direción de Securidad Comisaría de Investigacíon y Vigilancia de la Frontiera Oriental de Figueras del 30 ottobre 1940 si legge che il bagaglio di Benjamin conteneva: «en una cartela de piel de las

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usadas por los hombres de negocios; un reloj usado de cabballero; una pipa; seis fotografias; una radiografía; unos lentes; varias cartas; periódicos y alcunos pocos papeles más que se ignora su contenido».