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Quadro teorico

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L’intervista aperta, le immagini di una città e la voce degli invisibili che si muovono a Potenza

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1. LA TRAMA E L’ORDITO

«Senza elementi motori» scrive Ribot nel suo classico studio Psychologie de l’attention «la percezione […] è impossibile.

[…] si può affermare incondizionatamente che dove non c’è movimento non c’è percezione».

Aldous Huxley

Le idee, o la linea teorica. Ogni idea non nasce mai isolata, ma è sempre circondata da un contesto. Come un sistema di pianeti intorno ad un sole. Forse con minore rapporto gerarchico, o con una gerarchia altalenante e dina-mica. Un po’ il problema della trama e dell’ordito. Chi ha il sopravvento, cosa spinge cosa. Una tesi non vive mai di per sé, non può essere strappata dal suo contesto e dalle mille radice che ha in quello. Come una idea, una tesi ha bi-sogno di mostrare le relazioni, le regole, le dipendenze da altre tesi e idee. Una tesi porta con sé sempre una galassia, ovvero un sistema, con grande sforzo iso-labile e composto di una struttura in cui alcune regole evidenziano le relazioni tra altre tesi (stelle, nella metafora) e materiale di supporto (materia cosmica), in genere applicata o georeferenziata ad uno spazio, reale o figurato che sia.

Senza presunzioni di gerarchia e con un approccio relativistico, si afferma l’identità della conoscenza e del movimento, in una serie di opposizioni minori e tesi di minore entità, tesine, di cui quelle che ricorrono con maggiore frequenza tengono conto del rapporto tra percezione, e quindi idee, mappe mentali o immagini ambientali, e realtà, o rappresentazione della stessa, filtrate attraverso l’influenza reciproca che esercitano il tessuto (e sostrato) urbano e il sistema viario relazionale (e connettivo). Di queste due opposizioni uomo-realtà e tessuto urbano-sistema relazionale, poco possiamo dire con certezza. Cosa è la realtà? Ogni uomo cerca sempre di indagare la realtà, ma nel frattempo se ne è già fatta una qualche rappresentazione in base a come è riuscito a convertire gli stimoli che ha ricevuto in percezioni e conoscenze. Una influenza ed un condizionamento reciproco che si esprimono anche nell’altra opposizione. È

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il tessuto urbano a condizionare il sistema relazionale, o avviene piuttosto il contrario? Il condizionamento è reciproco e mai gerarchico.

È un atteggiamento di forte astrazione, complicato dal fatto che mira alla determinazione di due incontingenti (l’uomo e la realtà) attraverso due ele-menti contingenti (l’edificato e la viabilità). La tesi ha la “presunzione” (tipica del neofita) di voler indagare l’intersezione di queste due opposizioni, con i propri limiti, e con la consapevolezza di ottenere una teoria temporanea, con conclusioni provvisorie, e non un punto di arrivo ben definito. Riprendendo l’ormai consunta metafora della galassia, possiamo condividere l’aspetto di “fuga”, o deriva, essendo possibile in seguito una ulteriore espansione ed ap-profondimento.

Naturalmente alla semplicità di una idea si aggiungono delle complicazioni di sistema o di funzionamento del sistema. Il titolo, dunque, soccorre tale semplicità con complicazioni necessarie e come un manifesto programmatico esplica tutte le connessioni e deviazioni dall’idea originaria. Una idea che nel momento stesso in cui cerca di affermarsi diventa un percorso di ricerca da cui se ne dipartono altri, a grappoli, e che esercitano una certa attrazione, una inerzia al proseguimento del tracciato iniziale, attraverso una continua ridefinizione degli interessi, del campo d’azione, della posta in gioco, della ponderazione di risorse ed energie, e così via.

Per rendere più agevole la spiegazione e la sintesi della ricerca articolerò il tutto in vari sottotitoli o piccoli paragrafi a mo’ di premessa alle varie articolazioni e ai vari sviluppi tentacolari della ricerca, che alcuni hanno definito una “cava”.

L’organizzazione della ricerca. Data la mole della ricerca e i suoi molti ambiti di influenza e di interesse si è pensato di esemplificarli alla seguente maniera. La tesi sviluppa delle riflessioni intorno a quattro tematiche princi-pali e ad una occasione urbana, di sviluppo di quelli.

Senza alcun dubbio l’impegno maggiore che sottende tutto il lavoro è ca-ratterizzato dalla costruzione e discussione sul metodo. Questa tensione per-mette allora di rivedere tecniche e metodi “altrui”, provenienti da vari ambiti disciplinari. È la costruzione di un metodo e di un set di strumenti che ogni neofita elabora prima di intraprendere qualsiasi “cammino”. In tale contesto non deve stupire la ricerca di semplicità, il rimando didattico e a volte troppo esplicito, la riflessione passo passo e l’autoanalisi.

Vito Garramone

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Di seguito si darà un accenno ad ogni elemento degno di nota, oltre agli elementi di particolare interesse per la ricerca. Una breve rassegna dei temi e delle segnalazioni presenti nel saggio.

L’intervista “aperta”. Punto di partenza di ogni ricerca e di ogni for-ma di conoscenza è una questione, ovvero una domanda che pone un problema e a cui si cerca più o meno disperatamente di dare una soluzione (risposta). Problema, bisogno, alternativa, incertezza. Tutti ci poniamo domande così come le poniamo agli altri. È il meccanismo primordiale della conoscenza e dell’apprendimento formativo della specie umana, al-meno. Ma nel momento in cui chiediamo un intervento esterno, stiamo attivando un altro meccanismo, che è quello comunicativo, dello scambio sociale. L’intervista, quindi, non è solo un semplice e rozzo mezzo di ana-lisi e conoscenza. Ancor più, è uno dei mezzi largamente usati nei rapporti sociali, di cui se ne è riconosciuta la valenza. Ne facciamo un uso costante nella nostra vita quotidiana. Con un meccanismo di domanda e rispo-sta instauriamo rapporti comunicativi, conoscitivi o esplorativi, e tramite questi cerchiamo di mettere alla prova, di valutare, di ponderare, di ri-cavare giudizi e valori. Attiviamo una “intervista inconsapevole” quando chiediamo informazioni. Lo stesso facciamo quando chiediamo pareri o considerazioni o chiarimenti o approfondimenti. Ad esse ci sottoponiamo ovunque: per strada, a casa, a scuola, nelle interrogazioni e negli esami, a lavoro, per un “colloquio di lavoro”, per esigenze di cura e terapia, per orientamento e formazione, per ricevere valutazioni o farne, per attivare delle collaborazioni, per fare o ricevere sondaggi, per migliorare e dare “fuga” all’universo della nostra personalità.

La struttura di questa azione di interazione comunicativa tramite do-manda e risposta ha alle sue spalle una serie di questioni, a volte codificate e condensate in un questionario, cioè una linea di ricerca dove si “cerca” una ri-soluzione (nuova soluzione) ad un problema, attraverso un insieme di regole, criteri e sub-domande (metadomande): cosa chiedere, come chiedere, a chi, perché, come interpretare e costruire la domanda, come interpretare e deco-dificare la risposta, come scoprire gli errori di decodificazione, di interazione, di valutazione, ecc.

Il questionario troverà applicazione e sviluppo nel momento e tramite l’intervista. Lo scopo di questa ricerca essendo di tipo esplorativo, o socratica (“si sa di non sapere” e si favorisce un approccio maieutico), farà uso di una

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particolare forma di intervista, l’intervista aperta. Aperta a tutte le possibili soluzioni. Come un foro in cui l’opinione di ognuno ha un qualche valo-re. L’intervista aperta è quella forma quotidiana di interazione che attiviamo quotidianamente più spesso ed in modo spontaneo. Ma raramente abbiamo coscienza delle sue potenzialità, raramente la analizziamo con fare creativo alla ricerca di “nessi”. Facciamo un esempio molto semplice e consueto: chiedere informazioni sull’orario ad una persona in strada. Nel farla non ci poniamo il problema se questi ci risponderà secondo una serie di risposte che noi già ci aspettiamo di sentire (l’intervista “chiusa” nelle risposte, ovvero l’intervista per eccellenza, a cui di solito siamo abituati). La facciamo e basta, in attesa di una risposta-responso. Possiamo immaginare cosa ci potrà dire (“sono le undici”), alcune forme (“sono le undici” o “sono le ventitre”, oppure “le undici”, o “circa le undici”, o ancora “dovrebbero essere le undici, perché il mio orologio è avanti, io ho sempre paura di fare tardi”, e così via), il tono (scocciato, pas-sivo, e quanto se ne può dedurre insieme ad una prima occhiata del soggetto e dei suoi modi), e quant’altro ancora, ma mai se ne potrà avere una qualche certezza. Non stiamo sottoponendo un altro ad una domanda a risposta mul-tipla, nemmeno ad una di tipo binario (si-no, vero-falso, o altre opposizioni), tanto meno ad una domanda retorica (domanda fatta per conferma, visto che già si propende per una (auto)-risposta). Siamo aperti e consapevoli che ci si può attendere di tutto, anche una reazione di fastidio e di reazione al fastidio che si provoca (un falso sorriso o una cortesia che nasconde contenimento, ecc…). Questo anche perché si costringe l’altro a considerare la formulazione di una risposta chiarificatrice. Deve soccorrere alla richiesta di aiuto. Inoltre, il fatto di essere stati selezionati motiva, a sua volta, nei soggetti intervistati delle ricerche riguardo la conoscenza del e sul perché della scelta. Da qui il fastidio del disturbo, il piacere del potere e del prestigio, la presunzione e/o attivazione delle proprie capacità e conoscenze, l’indifferente risposta o l’aiuto senza partecipazione, e così via.

Tale strumento sarà la tecnica principe che informerà tutta la ricerca. L’intervista si pone, infatti, come un atteggiamento di ascolto, sia da una parte che dall’altra. E si sa che l’ascolto è la prima forma di condivisione, compas-sione (patire insieme), cooperazione, ed infine di partecipazione.

Per una professione come quella della pianificazione territoriale, che ha la pretesa di analizzare il territorio e coloro i quali in esso sono insediati, questo

Vito Garramone

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metodo tecnico non può non destare interesse e curiosità per la mole ed il tipo di informazioni che quell’inesauribile fonte (l’intervista) rivela. Non si usano quasi sempre i dati statistici, ovvero la trasformazione numerica di determinate risposte (scelte tra una ristretta rosa di soluzioni) e rilievi? Le interviste mirate propongono una occasione per utilizzare materiali di “prima mano”, in gergo materiali ad hoc, disaggregati e grezzi, sul tema a noi caro, e un momento di riflessione sulle tecniche e i metodi acquisiti. Come si suol dire: due piccioni con una fava. Cosa comporta concretamente tutto questo? Innanzitutto offro-no occasione per “passeggiare” tra la gente, di fare esperienza di osservazione. Si può condividere con Secchi la sua opinione riguardo al fatto che queste “passeggiate”, con i “rilievi”, gli “ascolti”, le “analisi tecnicamente pertinenti”, le “stratigrafie” e quant’altro a quelle si accompagna, hanno contribuito a por-tare un nuovo impegno ed una nuova linfa alla “stanca analisi” territoriale. «Le nuove “passeggiate” sempre più assomigliano alla costruzione di “quadrati latini”, di “mappe in profondità” che forniscono nuovi stimoli progettuali, segnalano nuo-vi sintomi di malessere, nuove istanze e propongono con urgenza nuovi temi di studio» (B. Secchi, La stanca analisi, 1995).

La conoscenza empirica viene in supporto e cerca la risoluzione della cri-si di una conoscenza codificata e accademicamente “liscia”. Si avvertiranno allora le inadeguatezze tanto dei dati a disposizione quanto delle tecniche e dei metodi. Considerazioni epistemologiche, metodologiche, ermeneutiche, sociologiche, e delle più svariate culture entreranno a far parte del dibattito spingendo la disciplina verso un ulteriore avanzamento interdisciplinare. La scoperta di ciò che non si sapeva sconvolge maggiormente della sua misura-zione stessa. È quanto avviene con le inchieste. Sono quasi sempre queste a fare da sfondo o a raccogliere quelle istanze di cambiamento. Si possono citare tre esempi diversi di “Grandi Passeggiatori” territoriali italiani: G. Astengo, R. Scotellaro e D. Dolci. Ognuno di loro a modo proprio ha scelto di ascoltare e passeggiare, di essere tra la gente e di fornire loro una occasione per aver voce e rappresentatività.

Sarà a questo punto che punteranno in maniera provocatoria e sconvol-gente anche i situazionisti. Ed è grazie al loro contributo che abbiamo rivisi-tato e integrato l’azione dei nostri “passeggiatori”, anche nell’uso del questio-nario in strada.

Svelare l’immagine della città. Un aneddoto e l’elencazione di alcuni precedenti possono essere utili alle nostre finalità. Un oculista di New York,

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il professor Bates1, osservando un gran numero di pazienti notò che la mag-gior parte dei problemi e dei difetti visivi dei pazienti erano dovuti a cattive abitudini. Si producevano sforzo e tensione, che a loro volta portavano a delle conseguenze fisiche e mentali davvero spropositate. Molte volte la scarsa capa-cità di vedere era dovuta a sofferenze emotive. Si voleva avvertire del fatto che i sensi, il sistema nervoso e la mente erano in costante e continuo contatto tra loro. Ed ecco lo svelamento del fatto che la noia porta con sé un’accresciuta sensibilità e una veloce ed instabile risposta agli stimoli distraenti, tanto da accompagnarsi a sforzo, per voler ricordare uno solo dei molti esempi spesso esposti dal dottore. Occorre una riabilitazione o rieducazione alla percezione, per poter vedere e sentire quello che non siamo più abituati a vedere e sentire e, nello stesso tempo, per potenziare le proprie capacità. Togliere il “velo” fa-cendo vedere anche agli altri quello che si vuole intendere o che altri vogliono comunicarci, è un’operazione maieutica utile sia a chi la somministra sia a chi ne è oggetto di somministrazione. È quello che faceva direttamente Dolci, con i suoi laboratori e colloqui. È quello che hanno cercato di fare, ma in maniera indiretta quanti si sono occupati di scienze sociali, ma con partico-lare enfasi e vigore le scienze cognitive, la gestaltpsychologie, la nuova storia, la geografia umana, la psicologia ambientale, alcune scuole di architettura e di urbanistica, ecc… Questa ricerca tenta di fondere le visioni di una certa psicologia ambientale con alcune scuole di urbanistica, che si sono occupate di immagini ambientali o mappe ambientali urbane. Ne farò un breve profilo senza alcuna pretesa di classificazione e collocazione storica definita.

Nell’esplosione di impegno e creatività degli anni settanta2 in Italia si as-siste al nascere, tra i tanti, di un nuovo ambito interdisciplinare indicato come “ambientalistica” o psicologia ambientale (altrove anche ecopsicologia), poi-ché tale matrice disciplinare è la più compatta sul tema oggetto della nostra ricerca. In realtà convergono saperi, soprattutto, tanto che alcune tecniche non sono proprie della psicologia, ma di altre discipline quali la geografia, la sociologia, l’architettura, l’urbanistica, la storia, ecc… Si vuole risalire all’im-magine dello spazio che gli individui e le comunità si sono creati col tempo

1 Per maggiori approfondimenti si veda il saggio di Aldous Huxley su L’arte di vedere.2 Negli anni settanta giungono, o forse da quelli prendevano le mosse, in Italia anche gli echi delle ricerche, degli studi e delle considerazioni fatte all’estero.

Vito Garramone

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e la frequentazione. È un aspetto culturale e cognitivo, oltre che comporta-mentale. Ed infatti le difficoltà consisteranno proprio nel riuscire a risalire a quelle idee generali che ognuno ha in mente e che provengono dalle espe-rienze quotidiane e dalle reti di interazioni di queste. I dati e le informazioni saranno caratterizzate da una polverizzazione estrema in ogni ambito della vita delle popolazioni ed inoltre andranno sfrondate da aspetti tipicamente folkloristici. Tutti gli ambiti della vita quotidiana verranno sondati con gran-de minuzia e concentrazione di forze, in modo tale da affermare l’equivalenza che l’immagine dello spazio ha con «la cultura e la cognizione del luogo» (E. Bianchi, R. Masini, F. Perussia, G. Scaramellini, Immagini ambientali, 1980). La percezione dello spazio, però, risulterà diversa, a seconda delle discipline o dei soggetti che la andranno ad osservare.

Come la Nuova Storia degli “Annales” e la sua enfasi sulla cultura ma-teriale, così la psicologia ambientale (o geografia percettiva, o geografia am-bientale o psicogeografia) cerca di costruire un apparato pluridisciplinare3 che attinga dal maggior numero di discipline e sveli la vita quotidiana degli uo-mini, non più solo per la dimensione passata, ma anche per quella presente. Ecco un altro perché della scelta e dell’utilità “pianificatoria” di tali contributi disciplinari.

Secondo Balboni ed altri (1978), riguardo alla “percezione” si sono andate consolidando due scuole, quella americana o anglosassone, più analitica, che mira ad individuare forme della percezione dello spazio, in una qualche ma-niera oggettive, in modo tale che la loro conoscenza porti a spiegare non l’am-biente ma il comportamento spaziale degli individui, diversamente da quanto sostiene la scuola francese, composta soprattutto da studiosi del paesaggio in chiave psicologica, che analizzando il paesaggio identificandolo come “spazio vissuto”, sostenendo l’improponibilità di leggi generali a favore delle visioni soggettive, di gruppo e temporanee. Brusa (1978) semplifica la differenza con la distinzione tra comportamenti spaziali dei gruppi (attrattività residenziale, bacini di utenza dei servizi, percezione dei rischi, ecc.) o valori psicologici e

3 J. Le Goff (in La nuova storia) afferma che a partire dalla fine degli anni cinquanta vi è un «profondo rinnovamento nel mondo scientifico». Lo si vede dalla nascita in contemporanea di tre fe-nomeni: l’affermazione di scienze nuove, il rinnovamento delle scienze tradizionali, la formazione e lo sviluppo di scienze composite (storia sociale, demografia storica, psicolinguistica, geografia ambientale, matematica sociale, ecc...).

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vissuto per i singoli. Antesignani della prima scuola, molto diversi tra loro, sono negli anni ‘50-‘60 K. Lynch e P. Gould.

Nella seconda metà degli anni settanta, quando l’esperienza all’estero è già matura, prendono il via le esperienze italiane. Alcuni usano un picco-lo campione per studiare la percezione del centro urbano come nel caso di Milano (gli studi di Bianchi e Perussia, o quello di Bonnes-Dobrowolny e Secchiaroli); altri, quali Brusa, cercano di ricostruire la percezione di un ente pubblico locale (nel suo caso quello di Varese) attraverso lo studio dei suoi operatori; altri ancora si soffermano sulle differenze tra le percezioni di vari gruppi sociali, come nel caso della laguna di Venezia, nello studio condotto da Balboni, De Marchi, Lando e Zanetto (1978).

«Sembra che vi sia una sorta di incongruenza tra la città fisica e la città men-tale» (E. Bianchi, F. Perussia, Risultanze empiriche sulla costruzione della città come immagine: casi italiani, 1981, pag. 102).

Negli anni ottanta il mondo accademico italiano si apre a questi temi con le prime tesi di laurea sull’argomento. Dopo di che la carica innovativa esau-risce la sua spinta, sopravvivendo solo in alcuni nostalgici e con minore enfasi negli altri sostenitori precedenti.

Purtroppo solo in alcuni casi si è fatto ricorso e riferimento alla psicolo-gia ambientale come supporto alla programmazione territoriale e urbanistica (F. Perussia, e altri, in Immagini ambientali) anche se «l’analisi dell’immagine ambientale si presta senz’altro a fornire un contributo significativo nell’affrontare i molti problemi e le difficoltà che vengono posti dall’urbanesimo contempora-neo e dalla necessità di organizzarlo in termini quanto più possibili umani» (E. Bianchi, F. Perussia, pag. 105).

Quello che accomuna tutti gli esperimenti sopramenzionati è il fatto che sono tutti esperimenti sul campo. Inoltre, la forza degli stessi è stata notevolmente amplificata da quello spirito innovatore dei ricercatori di volersi inventare delle tecniche e dei modi di analizzare i risultati, mettendo in crisi vecchi modelli e preconcetti oltre a dare maggiore dinamismo alle discipline di riferimento e alle loro stesse personalità.

Nonostante le alterne sorti e vicende della disciplina ciò che occorre me-tabolizzare è la conclusione o la nuova ottica a cui si è pervenuti dopo tan-to dispendio di energie. «Dal complesso delle ricerche attualmente disponibili è possibile notare come la città risulta dotata di una quantità e varietà di stimoli

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superiore alla effettiva possibilità del soggetto di recepirli. Nella pratica quotidia-na, nel costruirsi la propria immagine e cultura della situazione urbana in cui vive, ciascuno di noi compie una selezione piuttosto stretta degli elementi che lo circondano giungendo di fatto ad una reinterpretazione in termini di maggiore semplicità. Ogni cittadino fa riferimento a quegli elementi con cui ha effettiva-mente avuto occasione di interagire, da cui è rimasto emotivamente colpito, a cui maggiormente è stato educato, ma non è mai in grado, ovvero non ha mai l’interesse, di raccogliere e catalogare la totalità degli elementi possibili presenti nella struttura urbana. Ciò dà luogo ad una serie di “città parallele”, determinate dal quartiere di residenza, dalla classe sociale, dalla cultura, dall’esperienza, dalla personalità e via dicendo, che si muovono l’una accanto all’altra nelle rappresen-tazioni mentali dei fruitori» (E. Bianchi, F. Perussia, pag. 102).

Dare rappresentatività alle persone. La ricerca ha inoltre molte vellei-tà, una di queste è la pretesa di voler dare voce a coloro i quali sono sempre stati “inascoltati”, sia perché messi sotto silenzio sia perché non interrogati, pur essendone i diretti interessati. Genericamente la gente, effettivamente gli “invisibili”.

Si rifletterà sui meccanismi, i momenti e sulle tecniche di partecipazione socio-politica, attraverso il parallelismo partecipazione-rivoluzione. Si scopriran-no nuove energie, saperi, utilità e maggiore possibilità di legittimità e consenso tanto degli ambiti disciplinari quanto di quelli normativi. Nuovi stimoli e nuovi progressi possono aprirsi allora inaspettatamente. Nuovi orizzonti e mondi.

Non è l’analisi che è stanca, come sostengono in molti, ma siamo noi (tecnici?) che siamo diventati sempre più sordi ad ogni stimolo e voce.

Ed è per questa motivazione che occorre rivedere e riconsiderare i termini della pianificazione, e del suo apparato analitico, in termini di “partecipazio-ne”. Si trarranno delle conclusioni “rivoluzionarie”, già dall’uso del termine stesso, e verranno analizzate in rapporto al periodo post-bellico, quello della “ricostruzione fisica e morale” della nazione. Uno stesso clima unirà allora il gruppo dei “situazionisti” a Kevin Lynch, farà convergere l’azione dall’alto di Giovanni Astengo a quella dal basso di Danilo Dolci. Certamente la ricerca vive degli ideali degli ultimi due, ma per il momento utilizza e si rivolge al-l’uso, alle tecniche e all’azione dei primi. Il messaggio è uno solo. Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Sono umano e nulla di umano devo conside-rare come estraneo da me.

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Persone che si muovono. Come fa chi è rinchiuso in un qualche “spa-zio”, per non dire in un luogo circoscritto, a sapere se non ha un tramite con l’esterno. Non si avrà imprinting, si sarà in continua gestazione o incubazione, o si resterà come prima.

Il movimento, come sostengono insistentemente gli psicologi, è una con-dizione indispensabile del sentire e del percepire. Anche il concentrarsi su una parte in particolare è possibile solo se c’è continuo movimento, altrimenti cadremmo, dice Huxley, in uno stato di sonno ipnotico.

Inoltre, non è la peggiore punizione la cella di isolamento? Oltre al corpo si abbrutisce anche la mente. Ma ritornando alla nostra linea di ricerca, qual-cuno potrebbe replicare che non sempre l’isolamento o il non movimento si dimostrino essere una chiusura e un limite alla conoscenza. Chiunque può dimostrare che anche chi ha poco viaggiato può essersi fatto un gran bagaglio conoscitivo. Ma sempre ritorneremo a dare valore al nostro punto di partenza, ovvero al fatto che sempre c’è stato un movimento, un viaggio, un contatto con l’esterno, fosse anche solo attraverso i libri in passato (si pensi al primo Leopardi, quello sedentario e rinchiuso in casa) o ancora al giorno d’oggi attraverso i media. Oggi, infatti, le possibilità di muoversi stando fermi sono notevoli (radio, televisione, internet, libri-riviste-giornali, telefonia, fotogra-fia, ecc…). Inoltre l’istruzione ha già mostrato a tutti questo rapporto movi-mento-sapere attraverso il “sapere in comunione”, con i cosiddetti “viaggi di istruzione”, nei cicli inferiori e obbligatori. È risaputo l’enorme potenziale che già questi avevano in passato, si pensi alle esplorazioni, alle conquiste … ai Grand Tours. Oggi fortunatamente, per i più “pigri” e sfortunati, sono le “cose” e le conoscenze che vengono a noi. La montagna a Maometto. Quindi è più difficile affermare e far comprendere che senza viaggio non vi è cultura. Però ci viene incontro la voglia di evasione, e l’aspetto fisiologico e comporta-mentale che questo comporta nella natura dell’uomo. Si viaggia con la fanta-sia o ci si aliena, per sfuggire all’abitudine e alla noia della routine. Si viaggia con i ricordi, nel passato, o con le aspirazioni e i sogni, nel futuro. Insomma, in tutto quello che facciamo. Non riusciamo a stare fermi. La conoscenza è essa stessa movimento, di posizioni, di idee, di arroccamenti, di esplorazioni, di riconsiderazioni, ecc…

Per tutte queste ragioni e per il fatto che gli spostamenti stessi esprimono forme nuove di comunicazione, diretta ed indiretta, sia attraverso i mezzi di

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comunicazione meno valorizzati, ovvero quelli di trasporto, sia attraverso il bagaglio cognitivo degli individui e dei gruppi.

Una indagine tra inchiesta, passeggiata e situazione. Patrick Geddes (1854-1932) ci ha lasciato un’importante heritage, eredità, l’arte di guardare le città attraverso una “survey”, indagine, particolarissima, che compone assieme il “camminare”, il “guardare” e l’“ascoltare”. Come i peripatetici della scuola di Aristotele, come il visionario “cammin” dantesco, e sulla scia di grandi camminatori come Thoreau e Reclus, o ancora attraverso le “promenades” di Rousseau, darà i natali alla figura del suo planner. Come un pellegrino o un seguace zen, armato di sola curiosità, macchina fotografica e taccuino per le annotazioni.

Questo nuovo professionista, e “nuovo uomo”, sarà in grado di inoltrarsi nei labirinti urbani e di decodificare i palinsesti in esso presenti, permettendo di riscoprire «il saper disperso, e come dormiente» (G. Ferraro, Rieducazione alla speranza. Patrick Geddes, planner in India, 1914-24, 1998), tra gli spazi e gli uomini di ora come tra quelli di allora, di cui se ne conserva un qualche segno. Nasce una capacità di lettura della città che è al tempo stesso investigazione e diagnosi terapeutica. Niente andrà trascurato: dai monumenti all’edilizia minore, dalle biografie alle genealogie, passando per le storie locali, i racconti tradizionali, i romanzi storici, o ancora le indicazioni specialistiche di varia natura, botaniche, economiche, amministrative, geografiche, psicologiche, sociologiche, ecc…

Camminare sarà riscoprire il modo di vedere e percepire la complessità. Sarà ri-scoprire la capacità di ascoltare e dare voce (oltre che rappresentatività) a coloro che vivono e conoscono la città. Ecco perché l’ausilio e il ricorso a guide ed interlocutori locali. Importante sarà allora la parola e il racconto, la capacità di produrre stimoli per l’acquisizione di informazioni, il modo di apportare testimonianza e denuncia, educazione, cooperazione e mobilitazio-ne civica diretta. La sua è una attività conoscitiva e morale al tempo stesso, perché ha a che fare con una attribuzione di valori. Ma è importante che «la qualità distintiva del planner si [… riveli] risiedere non tanto in una tecnica posseduta, ma piuttosto in una abilità metatecnica e discorsiva, nella capacità di imparare continuamente dai propri interlocutori, al di là delle differenze di rango, posizione istituzionale e grado accademico, e di coinvolgerli attivamente nel processo di decisione. Poiché non c’è cosa di cui non possa essergli richiesto di

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occuparsi, il campo d’azione del planner dilaga continuamente al di là della sua competenza e quasi dei suoi poteri» (G. Ferraro, p. 104).

Geddes stimola ognuno di noi in più modi, la capacità e l’esigenza di diventare «un osservatore di interessi variati, che abbia viaggiato un po’», ricor-dandoci che la conoscenza si sviluppa con l’approfondimento delle nostre caratteristiche e qualità di “turisti” e di “viaggiatori”. Si impara e si conosce camminando.

In questa ricerca, si è cercato di conciliare l’aspetto della conoscenza con il movimento attraverso una indagine in contesti con forte intermodalità, si pensi alle stazioni e agli ingressi del percorso meccanizzato, e attraverso mo-nografie attente ad evidenziare ed illustrare quei momenti.

La città di Potenza. La scelta di un caso studio è un modo per portare di pari passo sia la costruzione o l’avanzamento di un apparato teorico sia l’esplorazione, tramite un qualche metodo, di alcune realtà particolari. Se a questo si aggiunge il forte senso di appartenenza, a cui l’autore non è estraneo, allora la scelta ricade su una città “vicina”, di appartenenza, nota, almeno su-perficialmente, nei luoghi, nei valori, nei pregiudizi e nei modelli di cultura.

Inoltre, Potenza si presenta come una particolare città (primate rule nella rete di centri urbani provinciali e regionali) rispetto al sistema nazionale di città medio-piccole e con occasioni relazionali inconsuete (una straordinaria potenzialità intermodale).

I significati della città. Vengono identificati in più modi i significati attribuiti alla città, in particolare come incrocio tra il triangolo semiologico, ovvero nel rapporto tra significato e significante, e le idee che sottendono tale rapporto, siano esse frutto di pregiudizi, luoghi comuni, stereotipi, esperienze individuali.

È un tentativo di identificazione di particolari segni urbani, quali quelli risultanti dall’immagine della città e dalla ri-significazione di questi in ma-niera diretta attraverso le “confessioni” degli intervistati, oppure in maniera abduttiva dai vari materiali indiziari.

La ricerca porterà l’attenzione sui significati che la gente, almeno l’insie-me di soggetti da noi intervistati, visto che non si è optato per una opzione campionaria, attribuisce alla città o alle parti di essa con cui ha una qualche relazione. Significati mutevoli, sempre ancorati all’immagine mentale che i nostri protagonisti hanno della città di Potenza.

Vito Garramone

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Inoltre, l’intervista è una occasione di autoriflessione degli intervistati sul-la loro conoscenza della città e sui modi che insegnano il loro vivere quotidia-no in essa, elementi importantissimi e propedeutici per una reale ed efficace conoscenza operativa e pianificatoria.

Gli “abitatori” della città. Anche in questo caso si fa ricorso alla lettera-tura, in special modo alle teorizzazioni di G. Martinotti, riguardo alla “nuova morfologia sociale della città”. Il piglio è ironico, ma il neologismo serve ai fini della determinazione di risultati altri (da quelli soliti). È ormai inutile studiare la città prescindendo dalla popolazione presente o residente, come è ancor più inutile considerare separatamente questi da coloro i quali si muo-vono in essa, da esterni, ovvero per finalità di studio o lavoro, o successiva-mente da chi proviene da altre realtà, gli immigrati ad esempio. Come ha ben evidenziato questo sociologo, le città sono sempre più il frutto e il ritrovato di una commistione di popolazioni dalle diverse caratteristiche e dai diversi modi di approccio con le sue funzioni, i suoi servizi, i suoi monumenti … i suoi luoghi. Non le “classi”, ma le “popolazioni”, ovvero le tipologie sociali. Abbiamo in città popolazioni notturne e popolazioni diurne sempre più di-verse tra loro, tanto che possiamo distinguere oltre alla presenza dei residenti anche altri gruppi: i pendolari, i city users e i business men. Sono questi oltre ai residenti i nuovi consumatori delle città, attratti dalle varie funzioni e dai vari spazi che esse presentano.

Non più l’abitante, che si lega ad una convenzione, il diritto o la pratica della residenza, ma il generico “abitatore”, colui il quale abita la città senza forti, identici e regolari legami con essa. L’abitatore è colui il quale svolge una pratica, come l’agricoltore, il costruttore, l’esploratore, solo che la sua pratica più che un lavoro, è una “scena di vita quotidiana”: l’abitare. L’abitante e il possidente hanno diritti e doveri, hanno uno status riconosciuto ed indiscus-so, l’abitatore e l’agricoltore, non richiedono che occasionalmente un ricono-scimento, perché la loro denominazione e pensiero in tale qualificazione vuole significare soltanto una pratica di vita, una azione umana e una parzializza-zione del loro tempo. Inoltre, in base alla variazione della presenza di queste popolazioni possiamo distinguere varie “generazioni di metropoli”. Abbiamo così le “metropoli di prima generazione”, in cui è predominante l’aspetto dei flussi di “pendolarismo”. Quindi maggiore mobilità e sviluppo delle tecnolo-gie dei trasporti.

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«Le metropoli di prima generazione sono visivamente caratterizzate dalle grandi infrastrutture per il pendolarismo: ferrovie, freeways, tunnels, ponti e sot-topassaggi, in cui si sono riversati i più consistenti investimenti urbani della parte centrale di questo secolo» (G. Martinotti, Metropoli, 1993, p. 145).

È il caso della città di Potenza, anche se una attenzione merita l’emergere di city users, particolari e poco serviti. L’evoluzione della motorizzazione privata li catturerà in città non solo per lavoro, ma anche per l’uso del tempo libero.

Se verrà fatta maggiore attenzione a questi si passerà poi alle metropoli di “seconda generazione”, quelle aperte e predisposte per un consumo urbano. La città che si presta a tale consumo ha convertito la sua economia da econo-mia di produzione ad economia di servizi. Rimini, in Italia, è un caso emble-matico di tale generazione. In estate, quando il suo consumo di città balneare aumenta può arrivare persino a superare il milione di abitanti.

Quando è solo la popolazione diurna a influire sui servizi delle città, quando le terze popolazioni fanno pressione fiscale e procurano disagio alla popolazione notturna, in modo preminente e continuativo, allora può acca-dere che si è arrivati alla “terza generazione” delle metropoli. In questa fase a nostro avviso è preminente il fenomeno di “prostituzione della città stessa”. È una tendenza verso cui si muovono quasi tutte le metropoli di seconda generazione.

Nel nostro caso fare ricorso a tali categorie ampliate consente di rivedere il target urbano, per penetrare il grado di complessità maggiore della città. Anche se non sempre la precedente analisi delle popolazioni residenti è stata condotta in maniera esaustiva e questo potrebbe aumentare il grado di diffi-coltà descrittivo ed analitico.

Un nuovo modo di rapportarsi al dato. Nella attuale situazione di over-dose da dati e informazioni si vuole proporre un approccio creativo a questi. Occorre il più possibile intrecciare dati e conoscenze attuali, sfruttarli nel modo migliore fino ad un loro esaurimento. In molti casi non occorre nem-meno costruire dei dati appositi, potendo far uso di quelli di servizio o impli-citi, come ad esempio si può notare nel film americano I signori della truffa. Basta lo studio giornaliero del sacchetto della spazzatura per sapere con chi si ha a che fare.

Di segni e dati ce ne sono a non finire nell’investigazione quotidiana. Perché non portare questi nella pianificazione e contribuire, anche minima-

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mente, a conoscere un po’ di più la natura umana? Si otterrà una “rivoluzione documentaria”.

Quindi possiamo dire, ancora una volta, che non è l’analisi che è stanca, siamo noi che abbiamo perso ogni entusiasmo ed empito vitale.

La stessa evoluzione della disciplina urbanistica nazionale e la tendenza verso modi e filosofie sempre più pianificatorie forniscono stimoli a riguardo.

Può risultare retorico allora affermare che la disciplina urbanistica nazio-nale nasce come sapere conflittuale dall’intersezione-interazione tra diversi approcci tecnico-culturali4 al fine di risolvere i problemi urbani. In realtà, tali considerazioni hanno ancora bisogno di una presa di coscienza per legittimar-si in ogni senso e direzione. Inoltre, se la gestazione della disciplina può essere inscritta tra la seconda metà del diciottesimo e la prima del secolo scorso, se è uno scontro tra professioni, ovvero tra l’affermazione di corporazioni e culture diverse, che porterà come esito finale, aufhebung, sintesi conflittuale, alla formazione di un nuovo e complesso sapere disciplinare, e di un nuovo professionista, che se ne farà carico, sempre conteso tra i problemi derivanti dalla crescente complessità del reale e la sua immaturità, se (la disciplina) è figlia della modernità, e se come tutte le “modernità”5 con le loro trasforma-zioni “rivoluzionarie”, ogni volta rinasce, come sulle ceneri di una vecchia fenice, anche questa disciplina deve portare alla nascita di un mondo nuovo e con esso di un uomo nuovo, che prima o poi avvincerà tutto e tutti. Allora il problema consisterà soltanto nell’accorgersene e/o far si che altri se ne accor-gano. Consisterà esclusivamente nell’averne coscienza. L’urbanista (o meglio, il pianificatore), allora, sarà una risposta ed un modo per averne coscienza, quando l’assuefazione, e l’empatia che ne consegue, non saranno riuscite a prendere il pieno controllo.

4 In ordine: medici igienisti contro ingegneri e architetti; igienisti contro economisti; cultori d’ar-te contro medici igienisti, ingegneri sanitari e altri tecnici; municipalità contro sovrintenden-za; architetti integrali contro architetti, ingegneri e altri tecnici; funzionari pubblici contro liberi professionisti; ingegneri contro architetti; ma anche scontri meno diretti e di forte risonanza tra architetti razionalisti e non, ingegneri sanitari e civili, geometri, tecnici idraulici, del trasporto ur-bano, ferroviario, delle bonifiche, tecnici agrari, demografi, sociologi, medici, economisti, giuristi, cultori d’arte e tecnici attivi nei vari enti locali (L’Italia e la formazione dell’urbanistica moderna, tesina dattiloscritta per il corso di Teorie dell’urbanistica, prof. G. Ernesti, 1999).5 Octavio Paz afferma che “tante sono le modernità quante sono le società”.

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La scientificità della ricerca. La scientificità di questa ricerca, condotta soprattutto con modalità qualitativa, passa attraverso il ricorso ad una quanto maggiore “trasparenza metodologica”. Ad essa si unirà un apparato informati-vo e di dati indiziari, che attiverà un processo di quasi-istruttoria. In tal senso, ogni citazione ed ogni intervista rilasciata assumerà il significato ben definito di testimonianza. Si adducono prove per la nostra causa al fine di metterle a verbale e farle diventare documentazioni attendibili. In particolare, l’ascolto operativo, tramite le tecniche e i modi dell’intervista, permetterà la creazione di un racconto urbanistico autoprodotto, in modo da realizzare un minimum o grado zero della partecipazione.

Si cercherà, inoltre, di rispondere ai requisiti di scientificità enunciati da U. Eco: produzione di prove; definizione di caratteristiche ipotetiche dell’og-getto; ri-conoscibilità di un oggetto dagli altri; formulazione di affermazioni nuove e inedite; costruzione di utilità; fornitura di elementi per la verifica e la falsificazione dell’ipotesi sostenuta.

Conclusioni. Si otterranno tre risultati dalla seguente ricerca. Innanzi-tutto la riconsiderazione di informazioni che possono aspirare al ruolo di conoscenze e dati utili per la pianificazione, provenienti da vari ambiti disci-plinari e varie situazioni. Ovvero il problema della costruzione di strumenti, dati e della loro utilizzabilità.

In secondo luogo l’evidenziazione delle mappe mentali urbane dell’insie-me di soggetti da noi considerati, un gruppo di studio. Ovvero il problema della visualizzazione cartografica dei risultati della ricerca.

Ed infine, la raccolta di alcune informazioni diffuse, alcune conoscenze particolari e considerazioni di tipo qualitativo e soggettivo, sulla città e sui rapporti quotidiani dei soggetti con essa. Il problema dell’analisi dei primi risultati.

Insomma, la costruzione di un set di strumenti e di un piccolo archivio (anche trasformabile in GIS), comprendenti gli esiti e le soluzioni negli ambi-ti appena considerati, da incrementare e da usare come parte analitica pregna di precondizioni alle trasformazioni della città.

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2. RIPENSARE LE PAROLE (DARE UN SENSO AI TERMINI)

Le parole sono le testimonianze spesso più eloquenti di qualunque documento.

Eric J. Hobsbawm

Questa ricerca sul movimento parte dalle considerazioni di ordine semantico e di approfondimento di questo. Si partirà da una conoscenza indotta dei termini attraverso una qualche fonte riconosciuta per poi “perdersi” nelle dilazioni, divagazioni e nelle attribuzioni di significato che la ricerca, la cultura e i pregiudizi del sottoscritto imporranno in maniera più o meno inconscia di volta in volta. Sarà questo il punto di partenza. Non una tabula rasa, ma l’esistenza o preesistenza di alcune “idee di sistema”, su cui la struttura di significazione si costruisce.

Movimento. Ogni relazione (ma anche espressione) ha bisogno di convenzioni, figurarsi se ciò non avviene col concetto di “movimento”, dove le “relazioni” sono una sua componente essenziale e costituitiva.

Per poter comprendere i giudizi dei potentini, che è possibile definirlo l’oggetto della nostra lunga digressione sull’argomento, bisogna chiarire, definire e rinfrescare le regole di queste convenzioni. Poi si passerà a vederne la loro declinazione in quel dato contesto.

Ma – attenzione – già nella semplice premessa si è passati dall’uso della parola “spostamento” (perché si suppone di chiedere a qualcuno la motivazio-ne del proprio spostamento) a quella di “movimento” e i lapsus sono sempre rivelatori di relazioni più o meno nascoste. È dal concetto di “movimento” che bisogna partire per fare qualche chiarimento. Questo termine può essere considerato una matrice, un utero generatore. Intorno ad esso gravitano una moltitudine di parole e concetti che conservano un qualche legame o si decli-nano come sue sfumature.

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Già dal XIII secolo il termine “movimento” indicava l’atto del muovere o del muoversi (“cinesi” e “spostamento”); quindi partire, arrivare, andare, avviarsi, allontanarsi, spostarsi, viaggiare, ecc… ed in quanto tale chiama in causa le due principali dimensioni di spazio e tempo; l’animazione della folla, vista come “traffico” di persone, veicoli e merci; animazione che può essere non solo fisica e materiale ma anche culturale, artistica, politica, ecc… tanto da generare ed ispirare idee innovatrici: movimento culturale o sociale o po-litico o ideologico (movimento operaio, studentesco, ecc…); al crescere del movimento culturale o ideologico si possono avere anche rivoluzioni (fran-cese, russa, culturale “cinese”, ecc…), agitazioni, sollevamenti, moti, ecc…; quando poi il movimento è pervasivo in più ambiti non solo sociali ma anche economico-produttivi, per esempio, si innescano delle rivoluzioni quali quella industriale o “verde” che portano a dei veri e propri processi, delle dinamiche, dei meccanismi; sono chiaramente vicini al concetto di movimento anche quelli di mutamento, mutazione, cambiamento, trasformazione, metamorfo-si; il movimento mette in moto, aziona, avvia, comincia qualcosa; fosse anche una sovrapposizione o una isometria di piani o figure, come nell’accezione matematica; oppure in termini più sentimentali di moto dell’animo: ricordi, ritorni, impulsi, impressioni, ecc…; una vecchia accezione del termine lo vede indicare un incontro, un affare amoroso, specialmente se avvolto da segretez-za, cosicché è un movimento quello che improvvisano Renzo e Lucia, con la complicità di Tonio e Gervaso nell’inattesa visita notturna a don Abbondio, per il matrimonio a sorpresa. O ancora, si muove chiunque fa le cose in fretta. Molte volte basta solo darsi da fare, iniziare una attività. Chi si muove avan-za, passa ad altro (si sposta, si trasferisce) da una posizione ad un’altra, dalla quiete all’azione, da una bassa velocità ad una maggiore, dal silenzio al suono o alle parole, dal bianco al colore, ecc…

In queste ultime considerazioni si fanno avanti i concetti di ritmo, velo-cità, metrica, tecniche di chiaroscuri, vuoti e pieni, ecc… Sono delle compo-nenti di indagine del movimento.

Parlare di movimento porta in campi molto estesi in cui c’è il rischio di perdersi. È, quindi, dalle poche considerazioni che abbiamo fatto, un concet-to origine da evitare perché afferma tutto e niente precisa.

Occorre, pertanto, “svelare”, raggruppare e capire quali dei concetti deriva-ti o connessi al movimento possono essere importanti per il nostro discorso.

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Senza troppo allontanarci dal concetto base si può fare una prima classi-ficazione o raggruppamento dei vari termini in due ambiti: uno connesso al termine “moto”, l’altro al termine “mobilità”.

Il primo (comparso all’incirca nel 1294) più legato allo stato (fisico, so-prattutto) si vuole caratterizzare e semplificare con i vari concetti di stato contrario alla quiete (moto rettilineo, curvilineo, composto, periodico, rota-torio, uniforme, uniformemente vario, accelerato, uniformemente accelerato, perpetuo, armonico, ecc…); con il tipo di movimento (movimento diret-to, peristaltico, ecc…); l’attività del camminare; atto, gesto, mossa; impulso, commozione; tumulto, sommossa; andamento delle parti in una composizio-ne, quindi dinamica, meccanismo, ecc…

Le nostre considerazioni non si interesseranno direttamente di questo ambito poiché molto vasto, amorfo e deviante, ma in maniera indiretta e di riflesso attraverso l’immagine della città, poiché queste verteranno soprattutto su alcuni concetti facenti parte dell’altro ambito, quello più psicologico-an-tropologico della mobilità (1332). Questo perché ci preme evidenziare non lo stato, ma la capacità di compiere spostamenti; le caratteristiche di ciò che si muove o muta con più o meno facilità e/o rapidità; il complesso degli spostamenti delle persone (come individui o collettività) in una certa area utilizzando mezzi di trasporto, per diversi motivi; si vuole esprimere la vo-lubilità e l’incostanza del movimento. Si vuole cogliere questo nel mentre si esplica e non delimitarlo in “isometrie” e “moviole”, in rigidi meccanismi o impressioni di un momento. Anche queste sono una parte di movimento, ma richiedono troppe variabili e ripetuti esperimenti per un loro uso ed una loro comprensione efficace.

Naturalmente la divisione non è così netta, ma per studiare il tutto oc-corre partire dalle sue parti non trascurando di connetterle. E la connessione sussiste, molte volte è multipla e cambia con i vari significati dei termini. Per il momento si propone una serie di relazioni, basate sul concetto di vicinanza, a mo’ d’esempio.

Col movimento andiamo ad intervenire sia meccanicamente o fisicamente, se si vuole, sia mentalmente o intellettualmente, se si è in grado, sulle due categorie fondamentali di spazio e tempo.

Ma in questa ricerca si propende soprattutto per il primo, sullo spazio, anche se si evidenzia la dipendenza da questo da parte del secondo.

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Ritenendo lo spazio l’effettiva ed esclusiva categoria che interessa l’uo-mo. Meno astratto del tempo lo riesce a sostituire se si tiene conto della sua composizione. Lo spazio si compone di materia e forze. Il tempo non è al-tro che la variazione dello spazio per via dell’interazione tra forze e materia. Interazione che non ha tregua. Il “panta rei” è naturale. Il tempo servirà solo come convenzione umana o come misura delle variazioni dello spazio, o dei comportamenti, nel nostro caso. Però diviene molto spesso elemento di in-stabilità. Un effetto pratico è la maggiore considerazione delle risorse e delle forze (equilibri) della natura. Maggiore considerazione dell’instabilità degli uomini e dei loro continui cambiamenti sia fisici che intellettuali. Ma non dimentichiamo che anche l’uomo è spazio, si colloca nello spazio, agisce nello spazio, lo trasforma e ne viene trasformato. Non sempre vi è coscienza di ciò. Ma lo spazio più che un concetto è una realtà. Concentrarsi sulla natura è un primo passo (da vedere l’importanza che va acquistando l’ecologia). A ruota libera potremmo dire che altri passi potrebbero essere quelli della ripartizione dell’aria per il controllo delle telecomunicazioni e quindi dell’informazione (cosa già fatta solo in parte per gli spazi aerei, ad esempio); quello dei graffiti, in cui si sfrutta uno spazio in altro modo, uno spazio ritenuto non sfruttato e non privato; anche internet gioca sull’idea di spazio e movimento, in alcuni casi annullandoli per migliorare le comunicazioni, in altri momenti ripren-dendolo come deposito, home, cartelle-inventario, delimitazione personale, banca dati; e ancora si sfruttano molte risorse del sottosuolo senza pensare ai danni che una eccessiva sottrazione potrebbe portare, ecc…

La città, spazio organizzato per eccellenza, ha capito la lezione dello spa-zio? O in generale, si sta esercitando un pieno possesso dello spazio? come cambierà il concetto di spazio? come la regolamentazione? come il linguaggio? la scrittura? Si apriranno nuovi orizzonti. Ma per il momento questi nuovi orizzonti ed il nuovo mondo, oltre al nuovo uomo, passano attraverso le con-tingenze, nel nostro caso attraverso la considerazione del movimento e delle molte marce che si intrecciano, urtano e cambiano le forze gravitazionali del pianeta. La percezione più o meno veloce dello spazio non fa che giocare a favore del tempo rendendolo la variabile più rilevante. Oggi è il tempo, e il calcolo che lo sottende, a dettare il modo di usufruire dello spazio, mentre la velocità o il ritmo ne dà la vertigine percettiva, la gradazione della cono-scenza e della sensibilità agli stimoli. Chi ha poco tempo ha altresì fretta e

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cercherà di negare lo spazio attraverso un passaggio veloce e asensazionale. Contrariamente farà chi avrà molto tempo e cercherà di cogliere più elementi possibili comprese le forze misteriose e le energie di tipo naturale e new ager. Per fare solo due esempi estremi. Il problema è che noi, corpo e quindi spazio, ci stiamo spostando nello spazio tramite altro spazio, che solitamente è un vettore e collega spazi diversi. Se lo spazio fosse tutto uguale ed uniforme non ci sarebbe bisogno di movimento. Ma lo spazio è diverso ed è reso diverso dalle forze che su di esso insistono. Nell’uomo ci sono delle volontà, delle forze istintive, dei comportamenti indotti; nei mezzi di trasporto ci sono forze diverse e combustioni, oltre che condizionamenti diversi e diverse ipnosi lega-te all’uso e alla delega di protesi del corpo umano e del suo sistema nervoso; nella Terra, forze diverse sconvolgono il pianeta, terremoti, eruzioni, fattori climatici, forze gravitazionali e magnetismi, diverse popolazioni animali e ve-getazioni; gli spazi sono personalizzati dagli individui e dalle comunità come “territori” aventi ognuno un proprio genius loci, un proprio statuto identita-rio, culturale, sociale, geopolitico, ecc…

È la percezione diversa dello spazio a creare nell’uomo una esigenza di spostamento, prima di tutto. Poi interviene l’occasione, la contingenza e l’as-suefazione. Non possiamo intervenire sullo spazio se non interveniamo e in-terroghiamo chi esso lo crea o lo vive.

Spostamento. Gli studi sullo spazio in movimento o sul movimento nel-lo spazio, di natura pianificatoria, iniziano a partire dal termine “spostamen-to”. Più neutro e monodirezionale di passaggio, meno scontato e bidirezionale di trasferimento, il termine (di uso un po’ tardo, solo nel 1728, ma secondo alcune testimonianze già noto alla forma infinita nel 15841) indica la rimo-zione di qualcuno o qualcosa dalla posizione in cui si trova o che di solito gli è abituale. Indica, ancora, una variazione, un dislocamento o anche un riferi-mento temporale: anticipazione, posticipazione. In musica indica il trasporto in altri toni di una melodia o armonia.

Molte volte lo spostamento sta ad indicare particolari caratteristiche del comportamento individuale. Ad una persona che si dice non si sia “spostata di un passo” si possono attribuire testardaggine e chiusura. Contrariamente, chi si sposta ha viaggiato, quindi è più aperto. Un uomo di mondo. Chi, invece, subisce tale azione, gli “spostati” possono essere identificati e socialmente con-

1 N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, 1999, Zanichelli.

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dannati come pazzi o come individui che, per motivi dovuti ad avvenimenti esterni, a fattori sociali, ereditari, psicologici, interiori e quant’altro, non sono riusciti a realizzarsi nella vita e per questo ora versano in condizioni che loro stessi non avrebbero mai voluto o semplicemente pagano il fio di essersi allon-tanati dalla “norma(lità)”.

Eppure questa (dello Spostamento) è l’unica “categoria”, l’unico concetto riconosciuto dagli istituti di statistica e da tutti coloro che si occupano di traffico. Infatti, nelle statistiche e nella disciplina si fa esplicito riferimento a flussi e spostamenti casa-lavoro, casa-studio, spostamenti intrazonali, interzo-nali, spostamenti semplici, complessi, sistematici, random, ecc… Questo può essere dovuto al fatto che tale termine si pone nell’area di confine semantico tra i due ambiti, cioè “mobilità” e “moto”. Indica, quindi, una capacità ed uno stato. Ci si può spostare con questo o quel mezzo, per quella o quell’altra strada, ecc… Si può essere identificati come pendolari, pendolari per lavoro o pendolari per studio, ecc… Però, uno spostamento oscilla tra due direzio-ni, l’“andare” e il “viaggiare”. Dove l’andare è un muoversi meno mistico ed esplorativo del viaggio, se si vuole. Molte volte è anche meno formativo e si risolve in una accettazione necessaria o molte volte quotidiana, abituale, di routine. E ancora, mentre viaggio e spostamento hanno in comune la cono-scenza (o presunta tale) del posto di partenza, subito si differenziano perché hanno tempi diversi, più lunghi nei viaggi; frequenze diverse, sicuramente ci si sposta di più e con più frequenza rispetto ai viaggi; motivazioni diverse: “mi sposto per questo … o per quel motivo”, e anche se esterne dai soggetti ben riconoscibili, mentre il viaggio molte volte non ha motivazioni così definite, alcune volte sono ignote al viaggiatore stesso, altre ancora interiori e identi-ficabili solo come pulsioni; poi, lo spostamento è, anche, più legato al “fare”, contro il viaggio che è “fare e vedere”, come ci suggerisce M. Augé, per poi poter raccontare e raccontarsi; il viaggio, ancora, ha un carattere rigenerante, sia per il fisico, gli umori, lo spirito, la formazione, ecc… cose che mancano allo spostamento, che non si vede l’ora di concludere; il viaggio, specie se per pellegrinaggio, ma non solo, è «per definizione sovraccarico di senso» (M. Augé, Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, 1992), men-tre gli spostamenti sono per definizione necessitanti di indicazioni reali e cer-te; viaggiare ha tempi più lunghi e definiti rispetto allo spostarsi e a questo si legano differenti sentimenti o approcci con i mezzi di trasporto. Ad esempio,

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se si viaggia in pullman si è sicuramente più eccitati, euforici, curiosi e felici che se con lo stesso ci si spostasse. Nello spostamento magari si ha familiarità con il tragitto, quindi l’uso dei sensi è anestetizzato dall’abitudine; magari ci si annoia e si fa dell’altro: leggere, giocare, dormire, per rendere utile un qual-cosa che non si può evitare. È anche possibile che si faccia di uno spostamento un viaggio e questo avviene ogniqualvolta, ad esempio, che un pendolare del treno, del bus o un automobilista fa di un qualcosa di necessario, quindi non evitabile, una occasione di conoscenza, esplorazione e stupore.

A questo punto la valenza neutra di spostamento indagata dai trasportisti viene meno. Lo stesso non si può dire del viaggio poiché se un percorso è sen-tito come spostamento la definizione di viaggio è ritardata nel tempo, inizia dopo ma mai si confonde con il “freddo” spostamento, per definizione.

Inoltre, è più facile per uno spostamento che per un viaggio acquistare gli aspetti della routine. Gli spostamenti si misurano con anticipo e/o ritardo, i viaggi tendono ad annullare il tempo o i condizionamenti del suo pressante scorrere. Ed è anche per questo che quando è possibile gli spostamenti si con-nettono sempre ai soliti itinerari, di cui si conoscono tempi, inconvenienti, luoghi, ecc… Non vi è bisogno di fare molte scelte affinché l’abitudine e l’au-tomatismo possano prendere piede.

Alcune volte spostarsi e viaggiare si intersecano. Ciò avviene nei non-luo-ghi soprattutto, dove il non-luogo indica «vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti “mezzi di trasporto” […], gli aeroporti, le stazioni ferro-viarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così pecu-liare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di sé 2» (Augé, p. 74). Vi è in comune la solitudine degli individui anche in mezzo a grandi masse. “Una contrattualità solitaria”, volendo proseguire con Augé, che «non crea né identità singola, né relazione» e l’approccio con la storia è di tipo mediato (immagini, parole e quant’altro) e non sistematizzato in modo da provocare una overdose di fatti, dove gran parte ha il presente.

2 Da questa definizione si vede come Augé e McLuhan concordino nel riconoscere ai mass media e ai mezzi di trasporto stessa valenza di “mezzi di comunicazione”, cosa che tanta disciplina inge-gneristica e trasportistica stenta ancora a considerare.

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Colui che si sposta può essere tanto anonimo quanto il viaggiatore. Si provi a guardare una stazione e si cerchi di vedere quanto sono simili da que-sto punto di vista il turista ed il pendolare, ad esempio. Uno avrà forse più va-lige dell’altro ma entrambi non si identificano nei luoghi o creano pochissime relazioni, relazioni veloci come le conoscenze storico-folkloristiche e locali, più curiosità che conoscenze, più utili per far sfoggio di sapere che per com-prendere qualcosa.

Naturalmente il perché e le modalità dei loro spostamenti sono diverse, in molti casi opposte tanto da procurarsi fastidio reciproco. Si immagini come l’affollamento di un mezzo pubblico o di una via, agli uni priva dei confort e agli altri procura ritardi e quant’altro. Già questo basta, a nostro avviso per tentare una prima identificazione tipologica, per evidenziare il movimento di quattro categorie “sociali” diverse che in città si “spostano”: i viaggiatori o turisti; gli spostati intesi come pendolari, come residenti che si muovono più o meno come da bisogno; coloro che sono vittime di eventi esterni, che subiscono il proprio e l’altrui movimento; e, perché no, i vagabondi, chi si sposta senza motivo e senza piacere del viaggio. Si aggiungano e si incrocino a queste anche le categorie o popolazioni di Martinotti, e il profilo sociale degli utenti della città e delle sue strutture si fa sempre più chiaro, tassonomico e dettagliato.

Trasportare con Trasporto. Nulla può descrivere meglio il Trasportare ed il Trasporto (entrambi termini del XIV secolo, secondo Dogliotti e Rosiello3) che l’opposizione o il contrasto di due diverse figure mitologiche: Caronte e Orfeo. Il primo, vecchio e brutto timoniere degli Inferi, che si fa pagare, frusta e costringe a disagi e lavoro i suoi “utenti” mentre l’altro, giovane e bello, che trasporta col canto e il suono della lira anche le pietre e le cose inanimate, e nulla chiede in cambio, anzi consente addirittura di allietare e superare insidie ed ostacoli (si pensi alle vicende degli Argonauti4).

3 Zingarelli.4 Poema di Apollonio Rodio, anteriore all’Odissea che narra le gesta di un manipolo di eroi greci (nonché amici: Anfiarao, Castore e Polluce, Orfeo, Teseo, Tideo, Zete) guidati da Giasone che sulla nave Argo (da qui il nome) mossero alla conquista del vello d’oro. Orfeo ebbe una funzione molto importante. Superando nel canto la dolcezza delle sirene permise ai suoi compagni di poter passar oltre, senza essere da queste incantati.

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Questi due concetti del movimento vanno penetrati dal punto di vista delle modalità. Si riferiscono ad una azione, operazione di trasferimento. Si porta qualcosa da un posto all’altro, da una condizione all’altra. “Trasportare” svolge i suoi significati passando dal semplice portare oltre, trasferire, tra-scrivere, ri-produrre, copiare, o eseguire in altro tono e modo, tradurre in altra lingua, posto ed emozione, trascinare o spingere a forza, come Sisifo5 fa col suo masso – ma si spera con meno vanità – non dimenticando che il trasportare può riferirsi anche alla cessione o trasmissione di diritti o di beni, operazione molto più razionale rispetto al trasporto mistico, fantasioso ed immaginativo.

Sono proprio questi ragionamenti che in termini di politiche o di pole-miche ci interessano. I trasporti servono sia per viaggi sia per lunghi o corti pendolarismi sia per spostamenti o movimenti casuali, non frequenti né abi-tuali, causali, forzati e quant’altro. Devono garantire il trasporto d’Orfeo non di Caronte, come nella maggior parte dei casi avviene. Oggi le forme del tra-sporto collettivo sono sotto accusa e vessate per via della mancanza di comfort, che vanno dalla pulizia del vettore all’affollamento sovraumano al disagio di ogni genere nonostante la corresponsione di una tariffa e il possesso di un titolo di viaggio.

Ma Trasporto, nella doppia valenza di verbo e sostantivo, richiama sia l’atto sia la capacità sia il modo, la modalità, le condizione in cui si svolge, da non confondersi con il “modo” o la “modalità di trasporto”, che si vedrà in seguito. Oltre alle azioni sopraccitate, compreso il contratto per cui il vettore si obbliga, dietro corrispettivo, a trasferire persone e cose da un luogo all’al-tro, indica l’insieme dei mezzi di trasporto, ovvero l’insieme modale o i vari insiemi modali. Si parla, infatti, di trasporto pubblico, privato, collettivo, in-dividuale, pesante, leggero, su ferro, su gomma, ecc… Ma sempre ciò avviene senza “trasporto”, senza il sacrificio o la volontà di adoperarsi per il bene degli altri, per un non ancora specificato bene comune.

5 Figlio di Apollo, nonché “il mortale più furbo e senza scrupoli” (G. D’Anna, Dizionario dei miti greci), padre di Ulisse, aveva ingannato molte uomini e divinità, tra cui Ade e Zeus stesso. Fu condannato a vivere in eterno negli Inferi spingendo un macigno fin sulla vetta di una rupe, vetta che non doveva raggiungere mai, poiché ad un dato punto il macigno rotolava verso il basso, prolungando all’infinito la sua fatica fisica.

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Inoltre, il carattere della comunanza si esprime solo come una indicazione e riferimento ad un insieme sia che venga usato al singolare, che ne specifica una delle tante caratteristiche, sia che venga usato al plurale, più generale. A questo punto si è avuta una compenetrazione semantica dell’atto, della capacità e del modo, in favore del potenziamento dell’ultimo significato.

Ed è proprio questa idea di insieme, generalità, che lo vede usato per ra-gionamenti, constatazioni, politiche e normative. Si spiega anche per questo l’esistenza di un Ministero dei Trasporti invece di un Ministero dei mezzi di trasporto e del traffico, ecc… In realtà la dizione del ministero così come noi la conosciamo è monca e manca di un aspetto pregiudiziale molto forte. Innanzitutto il trasporto nel nostro immaginario ci permette di capire ogni “portar oltre”, anche sentimentale (!?), ma che avvenga in uno spazio di ter-ra. Quando si vuole espandere questo concetto siamo costretti, per esempio, a parlare di navigazione. È il caso della dizione completa di tale ministero: Ministero dei Trasporti e della Navigazione. Le parole sono importanti. Ma ancora, il termine usato non ha una presa molto forte e la sua dispersione semantica (anche chi usa le reti telematiche dice di navigare) è bene racchiu-derla in apposite barriere. Già la struttura del ministero ci viene in aiuto di-stinguendo due tipi di navigazione e quindi la necessità di una spiegazione: navigazione interna e navigazione marittima. Ma l’instabilità semantica anco-ra sussiste visto che gli elementi o spazi in cui far muovere i mezzi di trasporto sono tre: terra, acqua ed aria. Restano fuori dalla definizione i mezzi aerei. Infatti nonostante l’obsolescenza del nome il Ministero si struttura e suddivi-de in tre dipartimenti differenti e di diverso peso: Dipartimento dei trasporti terrestri, Dipartimento della navigazione marittima ed interna, Dipartimento dell’aviazione civile6. Siamo dinnanzi ad un pregiudizio molto forte connesso all’evoluzione delle tecnologie e della storia dei vari mezzi o gruppi di mezzi

6 La struttura del Ministero dei Trasporti e della Navigazione spiega ulteriormente lo squilibrio o il vario peso che hanno i vari tipi di trasporto. Lo si vedrà e meglio comprenderà osservando le varie diramazioni:1) Ministro2) Dipartimento dei Trasporti Terrestri a) Ufficio di Coordinamento Dipartimento Trasporti Terrestri; b) Autotrasporto di Persone e Cose; c) Motorizzazione e Sicurezza del Trasporto Terrestre; d) Sistemi di Trasporto ad Impianti Fissi; e) Uffici provinciali della Motorizzazione Civile; f ) Centro Superiore Ricerche

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di trasporto. Senza dubbio i più sviluppati e quelli a cui si dedicano più ri-sorse ed attenzioni sono i trasporti via terra. Anche se proseguendo si noterà che ancora all’interno di questi gli automezzi individuali hanno maggior peso e presa sociale. Ancora una curiosità indicativa del pregiudizio, o del luogo comune diffuso. Nello spazio telematico predisposto per i quesiti i gruppi di domande impostate riguardano per lo più i mezzi individuali terrestri: auto, benzina verde, motocicli, consulente per la sicurezza, patente, ecc…

Quindi dobbiamo annotare almeno due considerazioni. Che il termine “trasporti” è di uso comune, ma generico. Indicano sistemi di trasporto, delle pluralità di elementi, nel nostro caso “modali”, che si possono racchiudere in un insieme. Ad esempio i trasporti terrestri indicano tutti quei modi di trasporto che si muovono sempre a stretto contatto con la terra, a differenza degli altri per i quali questo contatto e solo momentaneo e ridotto rispetto al tempo totale di spostamento. O ancora il trasporto pubblico interessa tutti quei modi di spostamento delle persone in maniera collettiva ed il più delle volte gestiti o semplicemente controllati da qualche propaggine del sistema amministrativo pubblico. Che poi il modo implichi fortemente il mezzo, questo è un altro discorso, ma sicuramente implica una forte compenetrazione semantica o una grande area di significato in comune per entrambi.

E che poi ha sempre bisogno di specificazione, ancor più se si tratta di sistemi di trasporto non terrestri. Qui il termine extra-terrestre ci permette di recuperare un significato “altro” che sconfina nella fantascienza, senza allon-tanarci troppo da quello che volevamo indicare. La scarsa diffusione di mezzi alternativi a quelli di terra non ha fatto altro che accrescere nell’immaginario

e Prove Autoveicoli e Dispositivi; g) Centro Prove Autoveicoli; h) Uffici Speciali Impianti Fissi;3) Dipartimento della Navigazione Marittima ed Interna a) Ufficio di Coordinamento Dipartimento Navigazione Marittima ed Interna; b) Navigazione Marittima; c) Infrastrutture per la Navigazione ed il Demanio Marittimo; d) Trasporto Marittimo e per Via di Acque Interne;4) Dipartimento dell’Aviazione Civile a) Ufficio di Coordinamento Dipartimento Aviazione Civile; b) Indirizzo, Vigilanza e controllo in Materia Aeronautica; c) Relazioni Internazionali, Programmazione, Rapporti Convenzionali.In realtà ci sarebbero anche altri 6 Servizi con funzioni strumentali (Affari Generali e del Perso-nale; Affari Economici, Bilancio, Politiche internazionali e Comunitarie; Pianificazione e Pro-grammazione; Sistemi Informatici e Statistici; Vigilanza sulle Ferrovie; Controllo Interno) ed 1 Comando (Comando generale delle Capitanerie di Porto).

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collettivo la fantasia circa i mezzi di trasporto di individui marziani o di altra epoca successiva alla nostra. Sempre il riferimento agli spostamenti con siste-mi via Aria e via Acqua si sono fatti copiosi.

Modalità, Modo e Mezzo. Quale concetto esprime meglio le caratteristi-che del movimento come mobilità se non quello di modalità? Si parla di in-termodalità, si fanno progetti, si fanno piani, si costruiscono strategie ma mai qualcuno che si fosse cimentato o attardato a studiare il concetto! Come in precedenza, lo attraverseremo velocemente e senza pretese di esaustività, solo per fissarne alcuni punti in attesa di migliore trattazione. Questo concetto (un suo primo uso ci viene segnalato nel 15697) si presenta abbastanza definito e coerente in modo che l’uso che se ne faccia in vari settori o situazioni non lo ampli o lo snaturi mai. È tutto racchiuso nell’accezione di modo di essere, forma e formalità. Le modalità giuridiche o amministrative cos’altro sono se non formalità, modo di essere di un negozio o di un atto attraverso regole at-tinenti ad un caso concreto? Spiegano tutto, come son fatti, cosa permettono di ottenere, le quantità, i tempi, i limiti e le controindicazioni o penali, ecc… E lo stesso si può dire delle modalità d’uso di un medicinale, ad esempio.

Ma quanto sappiamo delle modalità del movimento? Sappiamo pochis-simo. Abbiamo alcuni modelli decisionali, altri di scelta modale, matrici ori-gine-destinazione, sappiamo (ma non sempre) i costi di trasporto o le penali, nel caso si è ad esempio sprovvisti di biglietto (contratto o titolo), sappiamo ed avvertiamo i disagi o i comfort (ma non ci serve a nulla saperli, perché molte volte non si ha possibilità di scegliere altro), gli itinerari più trafficati, qualche dato confuso e generale sugli incidenti, indicazioni su quali sono le macchine dell’anno, e quant’altro. Sappiamo ben poco dei costi sociali, delle esternalità sia in termini di tempo che in termini di inquinamento e consumo di spazio. Quanti e quali sono gli studi sui singoli modi o mezzi di trasporto? Quali gli effetti, anche psicologici, di questi? Quali i meccanismi mentali che fanno scegliere questo a quell’itinerario? (Non si venga a dire il percorso più breve poiché questo non corrisponde sempre a verità). Quali i meccanismi mentali che fanno scegliere questo a quel mezzo di trasporto? Cosa pensa un automobilista in viaggio o un pensionato in tram o un ragazzo in metropoli-tana? Quale è il loro approccio mediato che esercitano sulla città e quale idea

7 Secondo Zingarelli.

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permettono di costruire ai vari individui nella loro mente? Può questa idea condizionare i loro spostamenti? E in che modo? Nella scelta degli itinerari e dei modi magari? Ed è uguale a Potenza, a Marrakech, a Parigi, a Calcutta, a New York, a Tokyo, a Città del Messico? Nella musica sono note le regole e le relazioni delle scale modali; nelle modalità giuridiche e amministrative si co-noscono, qualche piccola innovazione, aggiornamento, ma siamo là; lo stesso avviene nell’ambito del linguaggio con le varie branche, dalla grammatica alla grammatologia, dalla lessicologia alla fonologia, dalla glottologia alla lingui-stica, dalla semiologia alla scienza dell’informazione, ecc… Ma per studiare il movimento a cosa si può ricorrere se non alle definizioni fisiche (la cine-matica è usata nell’ingegneria del traffico: i flussi); ai vari studi frammentati fatti dalle varie università riguardo ai modelli comportamentali, decisionali, di scelta modale; alle definizioni e declinazioni, più o meno inconsapevoli, nei vari campi artistici e di cultura; alle normative e alle varie esperienze di piano; ai vari concorsi e progetti; a qualche studio pioniere (nel mio caso ho attinto dalle, a mio avviso brillanti, considerazioni di Lynch, McLuhan, Augé, e declinazioni e divulgazioni di Mela-Belloni-Davico, ecc…); alle statistiche e ai sondaggi di opinione. Forse, o sicuramente, c’è dell’altro, ma già questo basta ad evidenziare la frammentarietà di un sapere che non è ancora maturo e non ha prodotto alcuna disciplina. E questo è un aspetto negativo, almeno dal punto di vista pratico, vista l’urgenza di un adempimento normativo. Proprio ora che si è fatto obbligo di redazioni di piani, definiti di settore, ci si accorge come questa pianificazione sia pervasiva e comprensiva di molti aspetti del cambiamento e della natura dell’attuale società e del suo modo di essere. Ed il problema è che i mezzi a disposizione non sono proporzionali o adeguati ai fini che si dovrebbe raggiungere. Ecco perché è ancora terreno di demagogia o di strumentalizzazione o di.

Il movimento non è la semplice azione di spostarsi nello spazio consu-mando o impiegando tempo dall’inizio alla fine di questa azione. Esprime una caratteristica fondamentale della società, l’accelerazione di ogni momento della propria vita, l’ampliamento delle capacità e possibilità conoscitive e for-mative, l’accelerazione dei comportamenti, sensazioni, usi, mode e modi di essere, la crescente formazione, costruzione e rafforzamento delle reti sociali e relazionali, a varia scala. Possiamo essere in ogni continente sia fisicamente che mentalmente, possiamo sperimentare varie velocità, variare i nostri umori

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con una frequenza mai successa in passato. Viviamo cambiamenti epocali ogni giorno e ci rendiamo sempre più instabili in ogni nostro equilibrio, compreso quello mentale e psicologico.

Tutto è in movimento e tutto è movimento, il tempo è una categoria ormai caduta in disuso, che serve solo a spaventare e a creare irreali ed im-possibili nostalgie nel confronto forzato del prima col dopo. Questo perché le trasformazioni ci inebriano di continuo facendo variare di volta in volta lo spazio fisico, quello mentale, ideologico, geopolitico, artistico, ecc… sotto i nostri sensi e sottoponendo a stress molto forti e frequenti il nostro sistema nervoso.

Allora occorre portare l’attenzione su semplici aspetti di queste modalità, visti i miei e altrui limiti di comprensione e connessione. Queste parti, nel nostro caso, interessano i comportamenti, le scelte di itinerario e le scelte modali di una comunità o meglio di alcuni frammenti di questa comunità e gruppi, di cui riconosco una familiarità nelle regole e nei condizionamenti ambientali.

In questo già si sta avvertendo il passaggio da “modalità” a “mezzo” (pa-rola molto più antica risalente addirittura al 11588) attraverso il concetto di “modo” (del 12949). Non potendo carpire la modalità, la totalità dei modi, mi occuperò di questi ultimi. Il mio è un espediente, ma anche una occasione. Sono ancora nel campo semantico del termine. È un espediente, un onere per poter portare alla luce delle regole, un procedimento per comprendere le caratteristiche particolari dell’essere, dell’operare, del sentire. È una maniera per poter studiare e meglio conoscere i comportamenti, gli atteggiamenti, le abitudini e le usanze di alcuni gruppi, in alcune situazioni. Il mio fine è an-ch’esso particolare, voglio sapere cosa pensano e come per questo vivono nel posto in cui si trovano, determinati individui e gruppi, usando come assioma o postulato fondamentale il fatto che il movimento ne sia un indicatore. Mi rincresce notare come anche uno dei più noti e venduti vocabolari della lingua italiana, almeno dell’edizione del 1999, non riporti tra i suoi significati del termine “modo” quello particolare, e molto usato in ambito trasportistico,

8 Zingarelli.9 Ib.

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di modo (mezzo) di trasporto. Modo ed intermodalità sono termini oramai consolidati e acquisiti nella pianificazione ma sembrano (o è una dimentican-za degli autori, cosa che preferisco dubitare) non aver eco al di fuori da essa. È un pretesto per poter rinnovare una polemica contro il linguaggio tecnico, forte degli interventi e delle iniziative che proprio in questo periodo stanno prendendo finanche i politici col programma CHIARO, volto alla chiarezza-semplificazione (anche se non si sa mai cosa predomini dei due aspetti nel trasformismo demagogico dei politici) del linguaggio burocratico.

Ma ritorniamo al concetto di modo come “mezzo” o medium la cui com-parsa è forse il concetto più vecchio tra tutti quelli in queste pagine considerati (1158). Il “mezzo” indica la materializzazione del mo(n)do. Indica e pone già in questo un filtro a tutte le rappresentazioni. In quanto tale “mezzo” indica di volta in volta strumento, misura, capacità. E tutto questo è nell’accezione di veicolo di trasporto, qualsiasi esso sia. Infatti ogni mezzo di trasporto oltre a comprendere tutti i veicoli, che permettono il trasferimento di persone e/o cose da un luogo all’altro, si dimostra essere al tempo stesso anche un mezzo di comunicazione, una risorsa o l’insieme delle risorse tecniche per la diffu-sione nello spazio di persone, cose ed informazioni. Permette il contatto e le relazioni, gli scambi e la costruzione perfino dell’informazione. I mezzi di trasporto vanno visti e studiati come veri e propri mass-media. Consentono l’evasione e la fuga, la possibilità di un processo formativo e culturale, lo svago e il divertimento, la possibilità di controllo sociale, commerciale e culturale (si pensi anche solo alla pubblicità e ai suoi influssi, come viene ironicamente espresso ne “il bosco sull’autostrada” di I. Calvino), di controllo spaziale e geopolitico (le strade, le strade ferrate, le rotte aeree, ecc… sono itinerari pre-stabiliti, non vi è modo di deviare “anarchicamente”, molte volte le strade o le altre infrastrutture erano usate come margini e confini, magari in Palestina dagli Israeliani, per bypassare i centri dei palestinesi, o ancora negli USA, per segregare i neri o dar luogo a slum di vario genere10; ecc…).

I mezzi di trasporto, inoltre, sono di per sé degli status symbol, degli in-dicatori del “rango sociale”. Il treno ha la prima e la seconda classe, o ancora treni pendolari quali l’espresso, i locali regionali e gli interregionali contro i

10 Di questi esempi abbonda l’interessante saggio di P. Somma, Spazio e razzismo.

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medi intercity, eurocity e contro quelli di indiscussa comodità e comfort quali i pendolini e gli eurostar, dai disegni esclusivi di designer famosi, da Pininfarina a Giugiaro. Così nelle navi e per gli aerei. Il tram o la metropolitana sono mezzi dalle utenze esclusivamente e socialmente medio-basse. Non sono presi da chi ha un alto tenore di vita e se lo fa indica soltanto un comportamento inconsueto, che in politica nelle passate legislazione, non solo in Italia, si è verificato essere un espediente di grande presa sociale e di avvicinamento alla massa, un’operazione di marketing politico alquanto riuscita. Volendo fare una battuta di pessimo gusto diremo che più si prende un tram e più il proprio tenore di vita si abbassa. Questi mezzi vengono presi da chi non può far altro, da chi è dipendente e non sempre esprimono idealità sociali quali l’unione e l’uguaglianza, la cooperazione e l’attenzione per l’ambiente. Le maggiori sfumature indiscutibilmente vengono offerte delle automobili e dalle moto, con le loro vaste gamme di scelte pronte a riassumere caratteristiche socia-li, culturali, emozionali indotte o meno dalle tradizioni e dalla pubblicità. Alcuni modelli recavano nel nome una delimitazione territoriale di mercato che si voleva conquistare. Non è un caso che l’Alfa Sud sia stata più venduta e diffusa proprio lì piuttosto che al centro o al nord, indifferentemente dal successo o meno del modello. O ancora, la Ferrari è sempre stata la macchina sportiva d’élite assieme a Porsche, Lamborghini e tante altre, anche se ognuna aveva un suo carattere particolare ed esplicativo del suo stesso acquirente, come si può anche dire dell’abbigliamento, del genere di amici e musica che si ascolta: «dimmi che macchina hai e ti dirò chi sei». Addirittura e sconfinando nell’aneddoto cercherò di approfondire quanto detto. Un mio professore di educazione musicale delle medie riusciva ad individuare quale modello o mar-ca poteva piacere attraverso un eccentrico test sulle caratteristiche romantiche dei malcapitati. Questo fino all’avvento del monovolume, che ha reso più ardua e fallimentare l’impresa.

Certamente chi voleva vivere per la macchina poteva anche permettersi una Lancia Delta Integrale o una Maserati, contrariamente a chi dimostrava la sua opulenza o soddisfazione professionale attraverso i vari modelli dell’Audi o della Mercedes, rigorosamente classe ammiraglia iperaccessoriata, con radi-ca di noce, pelle e tessuti pregiati. I precari, i giovani patentati, i dislocati in basso nella scala sociale preferivano (o erano costretti dal mercato!) macchine più economiche, “utilitarie” (per meglio evidenziare la predominanza dell’uso

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sul carattere, ora delegato solo e minimamente alle fortune delle case e alle variazioni di modello), dal basso consumo, piccola capienza, basso costo ed evidenza, scarne e con pochi accessori di massa, ma con la possibilità di una personalizzazione molto maggiore e vicina quasi all’arredamento della propria casa. Parlo almeno del Sud, situazione che conosco perché ci sono nato e vi ho vissuto. Qui vi si potevano trovare attaccate ai vetri, agli angoli vuoti del cruscotto, o penzoloni sullo specchietto retrovisore interno all’abitacolo, delle immagini di santi protettori, parenti, pupazzi o ancora qua e là per la macchi-na oggetti di ogni sorta dai coltellini svizzeri e multiuso alle torce, dai giornali ai libri, dalle intere collezioni musicali ai vestiti, fino a giungere ai cuscini con sopra dei propri centrini e merletti fatti a mano. E questo almeno fino alla fine degli anni ’80, soprattutto. Di questo parleremo in seguito, assieme ad alcune considerazioni sui medium, e la letteratura post-McLuhan.

Traffico. Si può aprire l’analisi semantica del traffico a partire da una citazione. In Italia ci sono tre grosse calamità che affliggono la Sicilia, per non dire la nazione: la prima grossa calamità è l’Etna, la seconda grossa calami-tà è la siccità, ed infine il … traffico. Così faceva dire, in maniera sviante e iperbolica, Roberto Benigni al personaggio dell’avvocato di Johnny Stecchino, nell’omonimo film, quando questi era in pieno traffico a Palermo.

“(L’avvocato) - Purtroppo siamo famosi nel mondo anche per qualcosa di negativo … e per esempio quelle che voi chiamate … “piaghe”, eh!

Una terribile, e lei sa a cosa mi riferisco, è … l’Etna. Il vulcano che quando si mette a fare i capricci distrugge paesi e villaggi. Ma ie una bellezza naturale e … e ma c’è un’altra cosa, e questa è veramente una piaga, grave che nessuno riesce a risolvere, e lei mi ha già capito, eh! Ie la siccità … eh! Da questa parte la terra d’estate … brucia … ie “sicc”, una brutta cosa”.

(Benigni) – Ah si l’avevo sentita, infatti è una bruttissima cosa. (L’avvocato) – Ma ie la natura e non ci possiamo fare niente … Eh! Ma

dove possiamo fare, e non facciamo perché in buona sostanza purtroppo non è la natura, ma l’uomo, … è nella terza e più grave di queste piaghe, che veramente diffama la Sicilia, in particolare Palermo, agli occhi del mondo, eh! è inutile che io glielo dico, lei ha già capito, … mi vergogno a dirlo … è il traffico. Troppe macchine. È un traffico tentacolare, vorticoso, che ci impedisce di vivere e ci fa nemici, famiglia contro famiglia. Troppe macchine.

(Benigni) – Scusi se l’ho messa in questo traffico”.

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Con alta componente negativa il concetto di “traffico” (risalente al 134811) si svolge in un’unica area semantica, di molteplice impiego. Si riconduce a qualsiasi movimento di mezzi di trasporto lungo linee, rotte e reti ben definite per consentire movimenti di persone, merci ed informazioni. In questo modo il traffico navale si avvicina a quello telefonico. Poi basta non confondere questo concetto con quello di trasporto e trasporti. Il traffico non spiega le operazioni di trasporto o le modalità con cui questo avviene, ma se a questi accenna lo fa esclusivamente per ravvisare i flussi, gli scambi, le loro entità che si vengono a produrre. Non è un caso che in passato stesse ad indicare il commerciare, il fare mercato. I traffici della Champagne, dei Paesi Bassi, delle Indie. Il traffico faceva riferimento al trafficare, contrattare, scambiare, vende-re, acquisire … anche spostare, trasferire, fare, attivarsi. Ma anche da questi ultimi diverge poiché il traffico è flusso, intensità di atti non tanto intenzio-nalità. Però va anche a questa ricondotta per non sterilizzarsi in un semplice “conteggio” di volumi. A prima vista è l’ingegneria del traffico che meglio ha fatto suoi questi concetti. Infatti, questa disciplina studia le relazioni tra uten-ti sulla strada, i veicoli con i loro carichi e le strade, come luogo di movimento e sosta dei veicoli. Ma si vanifica nel momento in cui cerca di aumentare il volume e la densità del traffico alla sola componente stradale. L’ottimizzazione non passa per i numeri e le portate, o meglio il “nuovo” concetto di ottimo, che abbiamo in testa. Già l’aver evidenziato il problema della sicurezza è indi-cativo del fallimento del concetto di ottimo “classico”.

Purtroppo il traffico è regolato con un insieme di strutture atte a comporre l’ossimoro sicurezza-aumento di capacità. Questo bisogna riconoscerlo, è troppo restrittivo e per molti versi improduttivo. Il traffico ed il suo studio, in quanto sede di iniziative d’azione, fossero anche solo normative, ha bisogno della considerazione degli altri aspetti in un quadro più ampio di mobilità generale.

Quali sono le relazioni tra utenti, sulla strada, che vengono evidenziate dall’ingegneria del traffico? O meglio, vi è uno studio, anche tipologico, degli utenti e delle loro interazioni? Tolto il numero di viaggiatori, passeggeri, uten-ti, i coefficienti di riempimento o qualche altro numero (indice), le capacità stradali, le statistiche sui tipi di veicoli transitanti in un certo periodo, il nu-

11 Zingarelli.

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mero di stalli e le relative inclinazioni o discipline, la segnaletica orizzontale e verticale, i vari dispositivi di regolazione-controllo, dai semafori ai rallentato-ri, dalle rotonde agli autovelox, ecc … nulla è detto di quanto richiesto.

Ma come fa, poi, l’ingegneria del traffico ad occuparsi della intermodalità? Qui non è il problema solo di evidenziare le relazioni tra utenti sulla strada, bensì le relazioni tra utenti, merci ed informazioni al passaggio da un modo all’altro di trasporto, con tutte le influenze e le declinazioni del caso. Tutte le questioni si impennano in modo esponenziale. Come minimo, occorre co-noscere le “reti”, gli “utenti”, ciò che è trasmesso, portato (siano essi uomini, cose e informazioni), i modi in cui avviene tale trasporto ed infine il rapporto utente-modo. Non si può banalmente riportare gli studi sul flusso dei gas e dei liquidi quando si ha a che fare col fattore uomo. Non a caso il concetto di traffico è stato accostato a quello di rivoluzione e corrente culturale. A nostro avviso, è proprio questo che producono i flussi, o almeno contribuiscono a fare. In quei numeri e in quelle densità ci sono degli aspetti potenziali. Il nu-mero, o meglio il flusso di intellettuali e scienziati ebrei emigrati negli Stati Uniti nel secondo conflitto bellico ha prodotto delle conseguenze importanti per gli USA e il mondo, così come altre conseguenze sono state generate da altri emigrati in genere, per voler ancora restare in tema, ma con un esempio ben noto.

Non è un voler fare una discriminazione, ma è diverso se a spostarsi sono trecento intellettuali fortemente motivati e vittime di soprusi piuttosto che trecento muratori o lavoranti in genere. Questi ultimi possono sì sconvolgere le tecniche edilizie, il modo di progettare e costruire, magari se sono del tipo di Sam Rodilla12, ma quegli altri possono fortemente influenzare l’opinione pubblica e produrre risultati di cui non possiamo nemmeno definire i confini e gli ambiti. Questo senza nulla togliere ai muratori, categoria a caso per un esempio iperbolico, e senza nessuna pretesa o apologia verso gli “impiegati di concetto”. Tutto questo ci serviva per poter affermare a quali risultati può condurre il concetto di “traffico”, da noi posto e considerato, appunto, per la sua vicinanza semantica alle trasformazioni e alle rivoluzioni.

Il traffico indica questi flussi, questi scambi, queste densità, ecc… e non ha alcuna accezione positiva o negativa. Parlare di traffici, in generale, non deve

12 Autore delle Watts Towers, a Los Angeles, edificate dal muratore romano dal 1921 al 1954.

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implicare sempre e solo traffici illeciti, come ai più viene spontaneo credere. Il termine traffico è legato a “trafficare” nel senso di impegnarsi in qual-

cosa. Ad esempio, si può incappare giustamente in questo uso in ogni azione quotidiana, in cui l’impegno per un atto si lega ad un tentativo, una prova. Non fa una prova chi cerca di venderci qualcosa? Non fa una prova, un ten-tativo, chi si immette su una strada con la propria auto? In tutti i casi non è detto che ci riesca sempre, al meglio o nel minor tempo possibile o.

«Cosa stai trafficando?»«Non vedi? Tento di aggiustare la sveglia, non vuol saperne di funzionare …»

(G. Simenon, L’uomo che guardava passare i treni, 2002, pag. 83).Trasformazione. Il movimento molte volte diviene così radicale da po-

ter essere indicato come trasformazione. Con il termine di trasformazione (del 130613) si indica qualsiasi cambiamento, mutamento di forma, aspetto, modo di pensare, ecc… Spostandosi velocemente in auto o in aereo si vedrà il paesaggio trasformarsi poiché questo è cambiato, si è passati ad altro. Si è avuto il passaggio da uno spazio all’altro, da una configurazione all’altra. Una trasformazione è un cambiamento, una mutazione, una metamorfosi. E Jekill è diverso da Hyde, pur essendo sempre lo stesso uomo, allo stesso modo di una trasformazione chimica, che porta una sostanza a divenire un’altra o una trasformazione termodinamica con i suoi passaggi da uno stato all’altro, o ancora una trasformazione matematica che rende uno spazio qualcosa di di-verso pur nella conservazione della forma. Non cambia la forma e la sostanza di Dafne che prega gli dei per sfuggire alle insidie di un Apollo innamorato? «Ha appena finito questa preghiera, che un pesante torpore le pervade le membra, il tenero petto si fascia di una fibra sottile, i capelli si allungano in fronde, le brac-cia in rami; il piede, poco prima così veloce, resta inchiodato da pigre radici, il volto svanisce in una cima. Conserva solo la lucentezza» (Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, 1979, vv. 548-552).

Abbiamo una trasformazione e la conservazione di un qualcosa da un pri-ma ad un dopo. Ma non è l’invariante che interessa in questo concetto quanto la diversità che si riesce a mettere in campo dalla stessa materia base.

Tutto cambia. Il Panta Rei è un aspetto ineluttabile dell’esistenza. Sembra una proprietà fondamentale del tempo mentre noi la vogliamo attribuita allo

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spazio, di cui il tempo è un semplice contatore, un metro di misura che ne dà indicazione e direzione. Tutto cambia. Sono processi di trasformazione an-che l’invecchiamento, il cambiare delle stagione, l’alternarsi del giorno e della notte, il passare delle stazioni, l’affermarsi di nuovi paradigmi e rivoluzioni, la quiete e il movimento, ecc… La trasformazione esplica gli effetti di processi, dinamiche, meccanismi, rivoluzioni e quant’altro. Le trasformazioni, però, non indicano e non consegnano il prodotto come finito, come esito. Sono i movimenti delle cose, degli spazi, degli uomini, quando su di essi agiscono delle forze più o meno interne o esterne. Si dovrebbe risalire ad una idea dello spazio con in sé delle forze, delle potenzialità che contribuiscono all’alterare, alternare e cambiare lo spazio. Però, in seguito a trasformazioni con frequenza molto alta interviene l’assuefazione e niente ci sconvolge, neanche l’alternarsi del giorno e della notte, neanche ai poli dove questi due momenti arrivano a durata di parecchi (sei) mesi. Non ci sconvolge il passaggio di stagione anche quando non è come di solito. Si va sempre in cerca di un precedente da colle-gare. Un po’ diverso è per le catastrofi. Nella vita quotidiana le trasformazioni sono molteplici e a molte di esse non ci facciamo neanche caso.

Il processo di produzione, altro esempio, è in ogni momento costellato di trasformazioni, e ogni merce o bene riceve una trasformazione tramite delle forze siano queste di origine umana, naturale, meccanica, ecc… E alle trasfor-mazioni dei modi di produzione corrispondono trasformazioni nei rapporti di potere e trasformazioni negli aspetti di vita quotidiana.

Uno studio delle trasformazioni è molto importante poiché permette di vedere o capire in corso un prima e un dopo; vedere l’azione diretta o indi-retta delle forze che intervengono nel campo; capire gli aggiustamenti o stati intermedi; le regole di conversione, se sono presenti o le irregolarità e la loro impossibilità; ecc…

Ogni azione richiede delle trasformazioni, la vita stessa è una trasforma-zione. E questo dimostra che sia le azioni decisive sia gli automatismi, più o meno naturali, possono attivare processi trasformativi. In realtà, all’attivazio-ne di ogni processo si ha una trasformazione, si pensi al semplice passaggio di un imputato da colpevole ad innocente, per attingere ad altra area tematica un esempio. Figurarsi questo per i mezzi di trasporto, che come mezzi di comunicazione hanno anche la capacità di far percepire o di manipolare il mutamento in corso, si pensi alle viste e ai ritmi che producono agli individui

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e alle comunità, allo spazio e ai luoghi, al tempo e alle attività, alla evidenza e alle sensazioni, alle situazioni e alle immaginazioni collettive, ecc…

È difficile da studiare poiché può essere confusa con l’esito, il risultato. Invece è qualcosa di più, qualcosa di attivamente stupendo. È ciò che avviene nel corso dello svolgimento o anche è ciò che ci permette di capire cosa e come è avvenuto, come la bella e fragile Dafne sia ora divenuta la forte e sem-preterna pianta d’alloro, che della prima “conserva solo la lucentezza”.

È difficile da comprendere poiché è una situazione dinamica e per questo come ogni altro aspetto “dinamico”, in continuo mutamento di forme e senso, che va tenuto in considerazione contemporaneamente all’oggetto della nostra attenzione. Come un giudizio sospeso che si affianca e rientra in tanti altri.

Velocità e kinema. Come due facce della stessa medaglia, di diverso si-gnificato, ma inscindibili tra loro, la “Velocità” e il “Kinema” si completano l’un l’altra. Due figlie del movimento (moto e mobilità), la prima protago-nista di tutto il secolo scorso, l’altra in disparte, per lo più “spalla”, in coppia con altri termini, pur essendo capace di esprimersi da sola. La Velocità (nota già dal 130814) esprime la ribellione alle due categorie di tempo e spazio. Consente di percorrere sempre più spazio riducendo sempre più il tempo, mettendo in azione una serie numerosa di movimenti, operazioni e quant’al-tro. È la trasgressione e il vitalismo estremo di chi accelera i ritmi vivendo più momenti ed allungando il tempo vitale con una moltiplicazione di esperienze. È un’accelerazione dei sensi e delle sensazioni, che procura una overdose con-fusionale, una condizione orgiastica della parte razionale. Ma nulla è quiete e permanenza, tutto scorre e giunge presto al termine, per poi dar luogo ad altro che si consumerà molto presto e così via fin a quando il sistema messo a dura prova e ad alti giri resiste. La velocità, non il tempo, scandisce la vita dell’uomo, della natura e delle cose. Sembra assurdo, ma non lo è. Più che tempi diversi il novecento affermava marce diverse e con queste diversi modi di vivere e sentire. Due esempi estremi di inizio secolo sono i crepuscolari e i futuristi, senza ombra di dubbio sintonizzati su marce diverse e per molti aspetti contrarie. Ma anche oggi le velocità diverse si sfiorano, viaggiano con-temporaneamente e senza influenza reciproca. Illuminante da questo punto di vista la produzione cinematografica. In uno stesso periodo in America sono

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usciti due film con due marce diverse: Matrix e Una Storia Vera. Nel primo la “prodiga” accelerazione “fotonica” delle reti intermediali e mediatiche che coinvolge dinamici giovani esperti di informatica e proiettati nell’alto di una struttura di sistema, nell’altro la visione dolce e sconsolata dei paesaggi ame-ricani osservati con lento scorrere degli ultimi giorni della vita di un cocciuto vecchietto dal basso di un tagliaerba. Già questo ci basta per affermare, o meglio, ribadire, la coesistenza, un mondo, a tante velocità.

Ma ritorniamo ai futuristi, per ricordare e ricavare ancora qualcosa sulla Velocità e sul cambiamento della percezione della stessa. I futuristi hanno risvegliato in noi e nel nostro secolo «l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità» (Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del Futurismo, 1983). Ci hanno resi consci del potere degli “aggeggi”, ci hanno collegato a dei cor-doni energetici creandoci, cosa che loro ancora non avevano, abitudini, accet-tazione ad arresa a queste protesi. Ci hanno venduto un’energia che a lungo andare per noi è divenuta ipnosi. La bellezza della Velocità è divenuta leva inconscia della nostra esistenza e continua ispirazione ed istigazione all’andare oltre i limiti, alla ricerca dell’ebbrezza di questo osare e sperare. La carica vitale e di lotta si è smussata in ignota ricerca ed incontentabilità infinita, tanto da annullare i supporti spazio-temporali e liberare gli uomini dalle barriere e dai limiti delle loro dimensioni. «Il tempo e lo spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente» (Filippo Tommaso Marinetti). L’uomo è diventato sempre più uomo senza dimensio-ni, che si strugge nella solitudine ed ingiustificatezza della sua esistenza a cui solo alterna la distrazione della Velocità, dell’accelerazione di ogni cosa che or-bita al suo intorno, al fine (inconsapevole?) di non pensare, una forma di “di-vertissement” pascaliano. Il potenziamento delle potenzialità e delle possibilità per distrarsi da una discussione del senso delle stesse e del senso di se stessi.

Ma ritorniamo dall’uomo alla Velocità, lo strumento ed il modo di essere di quello. Certo la Velocità è fatta di marce e di accelerazioni, ma l’accelerazio-ne, la spinta in avanti propulsiva è un demone che attrae sempre di più e sem-pre più persone. Tutti desiderano accelerare se stessi anche solo per sorpassare gli altri (anche nel silenzio e nella calma della propria solitudine), creare un po’ di distacco, anche se inspiegabile e/o inspiegato. È emblematico il gesto di derisione che Gassmann fa a dei lenti e statici lavoratori “stradali” dalla sua ve-loce spider nel film Il sorpasso di Dino Risi. Fosse anche solo per fare la scalata

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sociale il sorpasso, e l’accelerazione veloce quindi, sono mezzo di distacco, di allontanamento, e anche la derisione in tal ottica ha la stessa funzione.

Bastano le accelerazioni in musica per renderci gradevole e allegro, ma nello stesso tempo equilibrato e tempestoso, anche un pezzo di musica clas-sica, che ai più può essere fonte di infinita noia. Non parliamo del genere heavy metal dove rumore e velocità, salto e distruzione, eccitano gli animi fino all’inverosimile stupefacenza. Ma proseguiremo in questo esempio per introdurre l’altra sorella della velocità, il Kinema o la -cinesi. Un bravo chi-tarrista heavy metal oltre ad essere veloce è anche straordinariamente (difficile a credersi) tecnico. E proprio questo aspetto tecnico nasce maieuticamente dalla -cinesi, da quel concetto indefinito di movimento che si va formando ed esplicitando di volta in volta, scompare per poi riapparire sotto altra sembian-za, in una simbiosi camaleontica: cinesia o cinesiologia (insieme e studio dei normali movimenti muscolari o delle caratteristiche delle patologie); cinesica (studio e discorso intorno alle comunicazioni mimiche di un fatto linguisti-co); cinesiterapia (metodo di cura consistente nel movimento attivo e passivo dell’organismo); cinestesia (sensazione o percezione del movimento del corpo o delle sue parti); cinetica (energia di un corpo in moto, proprietà dei gas in movimento, arte d’avanguardia degli anni ’60 e ’70); cariocinesi (insiemi di trasformazioni nucleari per il movimento di un numero costante di cellule figlie); psicocinesi (lo spostamento e la materializzazione di corpi fisici non provocati da cause note o attribuibili all’influenza mentale del soggetto); tele-cinesi (lo spostamento dei corpi fisici non provocata da energia nota); cinema e derivati (tutto ciò che ha a che fare con l’arte delle proiezioni delle immagini in movimento con e senza sonoro); ecc…

Molte volte è la visione di questo movimento, di questo Kinema a far-ci vedere il movimento delle nostre azioni quotidiane come esterno a noi stessi, come se osservando noi stessi stessimo osservando degli altri. Questo uscire fuori da sé, questo osservare col dovuto distacco la propria vita come se fosse una rappresentazione, una finzione, un film, produce un certo al-lontanamento dal reale per divenire invece dipendenti dalle immagini e dai racconti, ovvero le vite altre. Perdiamo il rapporto dalla nostra continuità esistenziale ed evolutiva, per viverla a frammenti e con diverse lenti di os-servazione, variandone i ritmi e le priorità, le speranze e i risultati. A volerla dire con McLuhan, «il film, con la semplice accelerazione della componente

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meccanica, ci ha indotti a passare dal mondo della sequenza e delle connessioni a quello della configurazione e della struttura creativa» (M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 1964, p. 15).

La -cinesi è lì a descrivere una dinamica e un ritmo. La potremmo de-finire la parte d’azione, tecnica della velocità vista come sensazione, accele-razione, orgia dei sensi. Questa (la -cinesi) istintività voluta, razionale e abi-tudinale, l’altra (la velocità) istintività emozionale, inconscia e provocatoria. La -cinesi è normale e fisiologica nella vita, la velocità è il modo di dosare la -cinesi fino all’affaticamento e allo stress, in modo da provocare qualcosa nel bene e nel male. La velocità eccita, carica, aumenta, sollecita, affatica, stressa e distrugge.

La quiete rilassa, rinvigorisce, rinfranca, annoia e consuma senza distru-zione. La velocità è la manifestazione e la risposta inconsapevole della parteci-pazione ad una accelerazione della mobilità e del moto, ossia ad un aumento brusco e vertiginoso di processi e dinamiche, meccanismi, impulsi, impres-sioni, ricordi, spostamenti, “trasporti”, rivoluzioni e cambiamenti, aumenti di ritmi e di dinamiche, e altro ancora. Così definita non può non essere una esplicazione del carattere umano, incoerente ed inconsistente, incostante e incontentabile.

Esprime l’incontinenza di un equilibrio instabile, insostenibilmente leg-gero che la vita procura soprattutto ai prototipi umani, dei perfetti esemplari primitivi.

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3. MOVIMENTI DI MASSA: MOVIMENTI SOCIALI, POLITICI E MORALI

Il futuro non è del tutto nostro, né del tutto non nostro;così non aspettiamo che assolutamente si avveriné disperiamo che assolutamente non si avveri.

Epicuro

Avevamo già visto il Movimento come “traffico” di persone e di idee, anche per sollevare, agitare, rovesciare sistemi di vita, produzione e lavoro, po-litica ed economia, ambiente e tecnologia, cultura e quotidianità. Movimento finalizzato ad un qualche cambiamento della situazione attuale, in maniera più o meno massiccia, pervasiva, visibile, sconvolgente, poetica, organizzata, provocatoria, legale. Mobilità di flussi e transazioni che hanno una loro rile-vanza forte contrariamente all’attenzione che viene tributata. La gente, ge-nerico attributo di individui, gruppi e comunità, si muove spostando masse fisiche e problematiche, che genereranno degli effetti sugli assetti della società, effetti tanto politici quanto morali, tanto economici quanto culturali e am-bientali. E dove c’è movimento e traffico c’è sicuramente partecipazione, o un qualche tipo e frammento di partecipazione1. Lo testimonia il fatto che mobilità e mobilitazione occupino una stessa provincia di significato.

Provocatoriamente, ma non tanto, si potrebbe dire che anche l’immer-sione nella congestione urbana, ad esempio, è una forma di partecipazione

1 La «partecipazione è una parola passe-partout. Il fatto che sia passe-partout lo riscontriamo in continuazione perché sia il giornalista, sia il sociologo usano in continuazione questo termine. Non se ne può fare a meno di introdurla. [… è] un termine molto usato ma poco concettualizzato. Quindi vuol dire che è polisemico» (Paolo Ceri, intervento al seminario Comunità in Transizione. Identità e nuove forme di partecipazione, 16 febbraio 2006, Università degli Studi di Lecce). È questa la trascrizione della registrazione audio dell’intervento del professor Ceri, senza l’ulteriore intervento dello stesso.

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poiché si condivide una situazione, la si contribuisce a creare più o meno volontariamente, non la si ostacola né la si supera, ovvero si esercita un potere negativo, represso o dormiente. Inoltre, tale movimento mette in campo una mole incredibile e a lungo trascurata di informazioni e conoscenze, dirette e indirette, formali e informali, tecniche burocratiche e diffuse, sostanziali e di processo, legate alle situazioni, ai protagonismi, ai contesti, ecc… ai valori, che motivano consciamente ed inconsciamente il superamento delle resisten-ze, dei torpori, degli attriti all’azione.

Certo si può essere analitici e studiare, come Ceri, la partecipazione come fatto (le varie forme della partecipazione a partire dall’estensione, dalla durata, dall’intensità, ecc.), come problema (la tematizzazione e problematizzazione della partecipazione a seconda dei contesti e dei soggetti, ecc.), come valore (tenendo conto degli ideali, dei valori morali, delle connessioni con la vita col-lettiva, con la democrazia, la cittadinanza, ecc.), come risorsa (coinvolgimento ed unione, strumentale e strategica, ecc.) ed infine come modello (politico-ideologico, istituzionale, ecc.). Per il momento ci si soffermerà sull’aspetto dinamico e motivazionale di questa. In altri termini, «il problema di come un attore 2 si costituisce, e poi l’attore costituito si mantiene. Bene: come l’attore si costituisce, quando davvero si costituisce, la prima volta, è fondamentalmente un processo di mobilitazione collettiva. Come si mantiene c’è di mezzo senz’altro la partecipazione. Quindi, quando le masse rivoluzionarie o meno, irrompono sulla scena pubblica, nella storia il fenomeno è fondamentalmente di mobilitazione. La partecipazione richiede una certa costanza, in particolare nel senso più stretto e più forte quando è la partecipazione decisionale o perlomeno in qualche modo quando influenza le decisioni. Quindi i movimenti sociali sono in grande misura – soprattutto sono stati – processi di mobilitazione.

Mobilitazione: cosa vuol dire? Vuol dire che si esce da delle sfere di vita per entrare in altre più ampie, anzi addirittura si costruisce la sfera pubblica, però la mobilitazione si distingue dall’alto e dal basso […] nella misura in cui gli individui (perché socializzati od altro) ci credono e si sentono coinvolti eccetera, si può anche parlare di partecipazione» (Ceri, 2006).

2 Consapevoli che l’uso del termine “attore” mal si concilia con le linee poco distaccate e poco teatrali di questa ricerca.

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Che la mobilitazione sia un fatto immateriale e materiale ce lo dimostra-no i “precipitati spaziali”, ovvero i cortei, le proteste, gli scioperi, le marce, i boicottaggi, le manifestazioni, i sabotaggi, gli scontri, che vedono le strade, le piazze e i cosiddetti non-luoghi come terreno di evidenziazione del fenomeno, che vedono questi luoghi come gli spazi riconquistati, anche per porzioni di tempo ridotte, come spazi liberati dal velo di sudditanza e di perfezione degli ingranaggi dell’ordine sociale.

Il fatto, poi, che le mobilitazioni non hanno una fenomenologia omo-genea dipende dai gradi di partecipazione che vengono di volta in volta esplicati. Riprendendo ancora le considerazioni di Ceri, come sollecitazioni, possiamo dire che la partecipazione come “fatto” presenta «tre gradi diversi di intensità […]: − La partecipazione come adempimento di ruolo, che è quasi un grado zero, in un

certo senso. − La partecipazione come rapporto decisionale.− La partecipazione come azione, o come azione partecipativa.

Adempimento di ruolo è “avere parte”. La partecipazione come rapporto decisionale è “far parte”. Partecipazione come azione è “prendere parte”» (Ceri, 2006).

Nel primo caso, si parla di ruolo e di “formulazioni normative delle aspet-tative altrui” circa il ruolo. Si partecipa alla relazione di ruolo. Modalità e discrezionalità nell’adempimento senza intaccare o mettere in discussione i limiti preposti. Ci si muove in corsie preferenziali ed esclusive. Nel secondo caso, parliamo di appartenenza al sistema di ruoli non al singolo ruolo. Ci sono relazioni e pesi diversi nelle relazioni tra ruoli e nella relazione generale, che possono pesare, ad esempio e soprattutto, nel momento decisionale. Il gioco delle presenze o dell’azione ferma, senza movimento, l’attivazione. Il regno dell’influenza. Secondo Ceri, «Le masse si mobilitano, ma se non hanno un’influenza (se non meccanica in un certo senso) sulle decisioni non è una vera partecipazione sociale in questo senso». Anche qui i limiti sono preordinati, ovvero ci si può muovere entro un dato range di comportamenti, anche se c’è sufficiente spazio di manovra per opportune mosse, coalizioni, bluff. Ci si può muovere in corsie preferenziali, esclusive e non. Ci sono più scelte e più combinazioni, tra cui il fattore sorpresa legato alla possibile minaccia di poter non rispettare le regole ed occupare la sede vietata. Nel terzo caso, infine,

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abbiamo l’attivismo, la lotta per fare conquiste, ottenere quello che prima non si aveva. Una mobilitazione che ottiene cambiamento. Una mobilitazio-ne con influenza, ovvero con l’influenza del proprio ruolo, anche se piccolo e irrilevante. Quasi avessimo montato ed inglobato i tre gradi precedenti, a mio avviso. È azione per il cambiamento. Si invadono tutti gli spazi e non si rico-nosce regola alcuna, nemmeno il controsenso. Si viaggia in direzione “ostinata e contraria”. L’individuo, i gruppi e le comunità sono più pubblici e meno “privati” (o de-privati). Ricapitolando: esecuzione, influenza, coinvolgimento all’azione, una azione destabilizzante per il sistema. Dove c’è partecipazione c’è invasione della sfera pubblica, del possesso del potere, cambiamento di rapporti verticali in rapporti orizzontali, ci sono decisioni consensuali e non imperative o coercitive.

Il movimento sposta le masse dai luoghi consueti, prestabiliti, dalle astra-zioni medie e mediate, per renderli traffico fluente con modi, mezzi e moda-lità nuove di mobilità lungo i “luoghi comuni” della società e della politica, innanzitutto. E questi spostamenti nel sociale e nella politica sono accompa-gnati e generano nuove condotte morali. Un solo esempio: la partecipazione porta con sé aggregazione e uguagliamento. Crosta (2002) afferma che la par-tecipazione non è più una tecnica per acquisire consenso, ma una forma della cittadinanza. Friedmann (1999) vede la partecipazione come una questione di espansione della cittadinanza, di “democratizzazione della democrazia”, di liberazione di energie positive, di appartenenze attive e trasformatrici. Per fare solo due esempi.

La partecipazione è un movimento composto di esperienze invertenti, in cui si esce diversi da come si era entrati. È un’area e una arena di sperimenta-zione nell’interazione tra parti diverse in un dato contesto. Consente di rive-dere, rileggere e vivere in modo diverso i contesti e le stesse pratiche interat-tive della quotidianità. Anzi questo è più evidente nei contesti con maggiore complessità, si pensi alle città e alle megalopoli, in cui il condensato è di tipo esponenziale ed esplosivo.

Di questo “traffico” ne avvertiamo spesso i segni. Tutti i giorni abbiamo a che fare o percepiamo «una sorta di rumore di fondo della partecipazione, costi-tuito dalle mille forme di resistenza, di resistenza attiva, di “dissenso creativo”, di conflitto sociale antagonista-protagonista» (G. Paba, Movimenti urbani. Pratiche di costruzione sociale della città, 2003, pp. 52-3).

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Tutti i giorni la gente si nasconde, dissimula, sabota, disobbedisce, si ar-rangia, finge ignoranza, aderisce a regole altre e alternative, ecc... sia in ma-niera palese che in modo invisibile ed impercettibile. Forse, ne avvertiamo solo le forme estreme, quelle più disperate o le pirotecniche detonazioni di esplosioni, la cui miccia non abbiamo voluto sentire.

Trascuriamo frequentemente questi caratteri nascosti e latenti. L’insurgence è un carattere diffuso che cerca, in maniera anche informe ed inconsapevole, un «riassorbimento del governo da parte dei cittadini» (Paba). L’insurgence spinge a o è esplicitata in pratiche sociali quotidiane delle “po-polazioni diminuite o difettive”, che esercitano influenza sulle trasformazioni urbane, se non le realizzano direttamente. Loro caratteristica è la visibilità, la visibilità del loro intervento, anche in contesti in cui era prima invisibile. Un esempio ormai lontano e da riconsiderare è stato il caso di Scanzano Jonico (2003). Lì l’insurgence è stata tanto forte quanto invisibile è stata la sua evi-denza sia prima che dopo l’evento. E non solo perché ci si trovava di fronte ad una sindrome nimby.

Ma questo altro non è che un monito, un primo assaggio di quella che potrebbe essere la “ragionevole speranza” o “ragionevole utopia” dell’espressio-ne del potenziale nascosto, i “margini di energia” degli individui, dei gruppi e delle comunità.

Pur se questi discorsi prestano il fianco ad accuse di manipolazioni del-le masse, strumentalizzazioni, destabilizzazioni degli ordini esistenti, occorre considerare almeno in maniera neutrale due questioni: le “potenzialità na-scoste” e la consapevolezza che prima o poi ne acquisiranno i loro detentori. Un solo esempio per concludere. Nel 1999, dice ancora Ceri, il Movimento dei Movimenti di Seattle ha portato una grande novità: la trasversalità. Era un movimento che univa anime diverse, tante categorie sociali e nazionali e, per giunta, con diverse finalità. Non era più un movimento a tema, come in passato il movimento della classe operaia. E qui, si può vedere la sua forza e la sua pervasività. Interessava tutti e tutto, non vi era differenza che non fosse chiamata in causa, non vi era ambito che fosse trascurato, proprio oggi in cui sempre più c’è settorialità, frammentazione e specializzazione, separazione tra economia e cultura.

Prendiamo ad esempio solo l’ambito della cultura, nel caso dei conflitti culturali le poste in gioco sono, ad esempio, la “definizione culturale dei bi-

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sogni e legittimazione dei bisogni” ed anche “i valori dell’autodeterminazione degli individui e dei popoli”. «Il movimento è un tipo d’azione, [… è] una sorta di re-incantamento della politica» (Ceri), che i movimenti fanno per ri-costrui-re un ponte tra economia e cultura, un controllo della società sull’economia.

Oggi un problema tematico quale quello dell’ambiente, delle varie forme di convivenza e dei costumi sessuali, delle pensioni, del lavoro e della preca-rietà, dell’alta velocità e della localizzazione di impianti indesiderati, può por-tare a discutere e mettere in forse altri ambiti dell’ordinamento sociale, tanto individuale, quanto comunitario e ancor di più statale.

Se pure accettiamo la distinzione di Ceri tra movimento storico e movi-mento sociale, non possiamo non convenire con questi circa l’evidenza che oggi i movimenti, compresi quelli anti o di nuova-globalizzazione sono mo-vimenti misti3 che, a nostro avviso, influenzano ed influenzeranno la sfera morale.

3 «Il movimento storico è un movimento, un’azione collettiva per il cambiamento di un regime economico, politico, sociale, eccetera, mentre un movimento sociale riflette i conflitti caratteristici di un tipo di società, di un modello societario» (Ceri).

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4. FORSE LA PARTECIPAZIONE, IN ITALIA, NASCE DOPO

LA RICOSTRUZIONE

[Gli urbanisti devono cessare] di considerarsi unicamentedei depositari di scienza e di arte per scendere nella lotta,per mostrare tangibilmente con argomenti e con fatti che

cosa essi vogliono.

Giovanni Astengo, 1950

Nel parlare dei vari “modelli contestuali”, ovvero dei diversi tipi di pianifi-cazione e delle loro ideologie, E. R. Alexander afferma che “la pianificazione radicale o antipianificazione” si sviluppa verso la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta. Il semplice riferimento ai nostri casi studio evidenzia la presenza di tali spinte già un decennio prima, rivelando un errore di periodizzazione, almeno se rapportata al caso europeo. La situazione del ventennio successivo al dopoguerra in Italia è la più vivida di esempi da questo punto di vista. La guerra sembrava aver risvegliato il vitalismo degli uomini, ognuno si attivava a risolvere l’emergenza delle contingenze di ogni sorta. Dopo la fremente attività dei Comitati di Liberazione Nazionali (CLN), radicati in tutto il territorio come “centri di impulso” (M. Fabbri), e dei vari sindacati1 nelle campagne e nelle fabbriche, esperienze confluite, rivisitate, e risvegliate nel Governo Parri2 (1945) e successivamente nelle aspettative e

1 La persistenza della spinta sindacale la si può osservare, ad esempio, nel decennio successivo e anche nell’esperienza di D. Dolci, per fare un esempio. Infatti questi lavorerà in loro stretta collaborazione e scriverà alcune monografie esemplari di questi (sindacalisti).2 La personalità di Ferruccio Parri non viene offuscata dalla caduta del Governo provvisorio. Lo vediamo attivo sul territorio italiano e in varie esperienze, una per tutte quella siciliana di D. Dolci, per fare solo un esempio. Carlo Levi ne immortala il ricordo e la carica simbolico-carismatica nel suo romanzo L’orologio (1950).

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negli ideali della Costituzione della nuova Repubblica (1947), si evidenzia un grande divario di risultati ed indirizzi. Da qui la mobilitazione individuale o di gruppo per un’attenta analisi della situazione e per colmare le mancanze attraverso l’impegno diretto in atti dimostrativi-esemplari (da exemplum, qualcosa da copiare e nel contempo qualcosa che possa insegnare). Inoltre, è opinione di chi scrive che attraverso queste varie esperienze si tiene viva una spinta verso la democratizzazione, ovvero è attraverso queste azioni che vedono l’applicazione gli ideali e i principi della Costituzione. È questo il canale preferenziale più che l’apparato ufficiale. Si pensi allo “sciopero alla rovescia” di D. Dolci per all’affermazione dell’art. 4 della Costituzione, oppure ai Criteri per i piani regionali in cui G. Astengo ricorre ad una interpretazione dell’art. 5, per porre l’attenzione sulle autonomie locali, per fare solo due esempi.

Poi vi è anche il contributo materiale alla ricostruzione. Ad esempio gli studi per il piano regionale piemontese di G. Astengo e altri nascono «in un clima generale segnato dall’incontro […] con la sfera politico-amministrativa e dall’esigenza di sentirsi investiti di un ruolo rilevante nella riorganizzazione della società» (C. Mazzoleni, Fondazione di un metodo positivo della pianificazione. Dal Piano regionale piemontese ai ‘Criteri’, 1991)3.

Per altri l’incontro sarà scontro e ci sarà poca voglia di conciliazione, si pensi ai situazionisti con la loro impronta destabilizzante. Ma anche il loro estremismo vuol essere di edificazione di un mondo nuovo. Loro sono e sanno di essere delle avanguardie.

Come si è già avuto modo di sostenere, è la situazione straordinaria della guerra che risveglia un clima straordinario quale quello “rivoluzionario”, vol-to alla creazione di un mondo migliore, di un mondo nuovo. Erano gli anni della ricostruzione materiale e morale del Paese.

Certo persistono sempre spinte conservatrici o di sistema, che in realtà sono la regola sia in una situazione normale che in una di eccezione, come nel nostro caso.

Il clima generale è di moderazione dei conflitti in Parlamento come nel-le varie parti del territorio, attraverso la Riforma Agraria, l’istituzione della

3 Passo tratto da Fondazione di un metodo positivo della pianificazione. Dal Piano regionale piemontese ai ‘Criteri’ di Chiara Mazzoleni contenuto in La ragione del piano. Giovanni Astengo e l’urbanistica italiana a cura di Francesco Indovina, Studi urbani e regionali, Franco Angeli, Milano 1991.

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Cassa del Mezzogiorno, la ricostruzione materiale, la spesa pubblica (opere dell’ANAS, FFSS, IACP, lo sviluppo di stabilimenti siderurgici prima, poi del settore chimico), attraverso l’incoraggiamento del risparmio privato e dei crediti a lunga scadenza che permisero la diffusione del sistema rateale.

Su questa linea, anche se in maniera più meritoria, si muoveranno le iniziative della SviMez (ente per lo Sviluppo del Mezzogiorno) di Pasquale Saraceno e quella della Cassa del Mezzogiorno di Manlio Rossi, entrambi aperti al dialogo con le varie esperienze comunitarie, ma attenti ad uno svi-luppo locale di orientamento e di matrice economista e dall’alto. Entrambi “formati” presso la SviMez, poggeranno le loro considerazioni su una indivi-duazione statistico-quantitativa di zone omogenee, che interesserà tutto il ter-ritorio italiano. È un primo modo per segnalare il divario tra il Nord e il Sud della nazione. Verrà ribadito dagli studi economici di Vera Lutz, che si dovrà difendere dalle accuse di voler causare problemi di accentramento industriale e congestione delle città, attraverso un confronto col caso inglese (Mazzoleni, 1997). Si dimentica la questione meridionale e la presenza di una situazione nazionale fortemente diversificata e complessa, non solo al sud.

La nuova Repubblica, ovvero il nuovo sistema, deve cercare legittimità e consenso. Quindi, deve agire per vedersi riconosciuti i suoi poteri e risponde-re alle esigenze che ne hanno decretato la nascita. E questo lo si deve fare con molta urgenza, sacrificando anche i risultati.

In realtà, i piani che si fanno sono piani esclusivamente operativi, molto semplici, che negano la pianificazione. In Italia il piano si legava a posizioni di sinistra, è il caso del Piano di lavoro della CGIL (1949). I piani di rico-struzione sono piani minimi. In breve tempo si passa da 45 a 455 piani, cosa impossibile altrimenti. C’è molta urgenza e poco piano.

Come due spinte che si incontrano e si scontrano in più punti, così sa-ranno le iniziative dall’alto e dal basso. Non sempre l’incontro sarà indolore. Siamo nella rivoluzione civile e generale del paese. Tutta l’Italia, non solo la Sicilia come afferma C. Mazzoleni, è «un laboratorio di esperimenti sociali e di ricerche sullo sviluppo comunitario» (C. Mazzoleni, Un laboratorio di svilup-po comunitario: il centro per la piena occupazione di Danilo Dolci a Partitico, 1997). Molte volte i vari centri, e coloro i quali sono impegnati in queste esperienze, sono in rapporto tra loro, altre volte l’influenza è automatica e sen-za relazioni visibili materialmente. Altre volte ancora ci si ostacola a vicenda perché vengono a variare i punti di vista e le poste in gioco. È quanto accade,

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ad esempio, dal dialogo tra la SviMez di Alessandro Molinari4 e il Centro stu-di di D. Dolci. Per il nostro discorso circa la pianificazione dal basso, si terrà conto solo degli esempi di tale indirizzo.

Tutti i movimenti dal basso pongono l’attenzione sull’uomo e sulla sua dimensione comunitaria. Dalla fine degli anni quaranta e fino al 1952, sarà attivo Don Zeno Saltini a Fossoli (MO), con la sua “Città dei Ragazzi di Nomadelfia”, una comunità sorta in un ex-campo di concentramento, dove troveranno accoglienza bambini orfani o abbandonati, guidati ad una vita comunitaria, fatta di lavoro e proprietà collettiva. Realtà che verrà riprodotta nella Maremma, con la collaborazione di Dolci, per una borgata sul Ceffarello, in provincia di Grosseto; in contemporanea e con un seguito maggiore, ol-tre che con maggiore influenza sulle istituzioni, si collocherà l’esperienza del Movimento Comunità, di Adriano Olivetti, da tutti riconosciuto come la sede del dibattito disciplinare (e pluridisciplinare) urbanistico italiano; inol-tre, dal 1957, è attiva la Comunità del Servizio Cristiano, promossa da Tullio Vinay, a Riesi in Sicilia; legata a questa vi è anche l’attività dei Centri di Orientamento Sociale, di Aldo Capitini, ispirata alla tradizione pacifista di una certa cultura catto-comunista; ancora in Sicilia, il Laboratorio catanese di Paolo Sylos Labini, presso la Facoltà di Economia della Provincia stessa; o ancora l’altra esperienza siciliana di Danilo Dolci, che nel 1958 assieme ad altri collaboratori5 darà luogo al Centro studi ed iniziative per la piena occu-pazione, a Partitico, Palermo.

L’elenco non è finito, molte sono le organizzazioni che prestano il loro aiuto sul territorio.

Vi è il CEPAS, ovvero il Centro per l’Educazione Professionale e l’As-sistenza Sociale, coordinato dal filosofo Guido Calogero, che assieme alla rivista “Centro Sociale” di Angela Zucconi ha operato una importante espe-rienza partecipativa in Abruzzo. Ed ancora l’UNLA, l’Unione Nazionale

4 A. Molinari cercherà di conciliare le spinte dal basso con quelle dall’alto proponendo l’istituzione di Comitati di piano, sull’esempio dei piani socio-economici olandesi. Si dovrà scontrare con le varie realtà locali clientelari di influenza politica, religiosa, mafiosa, o ancora con una ottusa volontà dall’alto di coordinamento, portatrice di uno squilibrio di capacità, mezzi e risorse tanto da dover portare al “tradimento” delle promesse fatte al Centro, pur condividendone le tesi.5 Tra i collaboratori di Dolci si deve segnalare anche Carlo Doglio, forte individualità di matrice anarchica kropotkiana.

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Lotta all’Analfabetismo; l’OECE, ovvero l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica, che ha operato soprattutto in Sardegna; i Centri di cultura Popolare; il CEMEA, Centro di Esercitazione ai Metodi dell’Edu-cazione Attiva; l’IRFED, l’Istituto francese per la preparazione di specialisti per le aree arretrate; l’Umanitaria di Milano; ecc… Altre esperienze di azio-ni locali da ricordare, e frutto di un patrimonio culturale comune a quelle precedenti, sono: l’esperienza del Gruppo del Mulino (in quattro comuni del Polesine), l’esperienza di Franca Bonfanti (zona di Policoro, nella pro-vincia di Matera) e l’esperienza di Alberto Mortara (nel Canavese, promossa da Olivetti).

Inoltre, l’esperimento di Matera si conclude nel 1955. Era durato quattro anni. Partito da un’idea di un professore americano di sociologia (Università dell’Arkansas) borsista in Italia col programma Fulbright, F. Friedmann6, e dalle suggestioni-rivelazioni di Cristo si è fermato ad Eboli (1945) di Carlo Levi, promosso dall’UNRRA-Casas prima Giunta (ovvero l’unione di due enti internazionali e influenzati dalle nazioni vincitrici del conflitto mondia-le: l’United Nations Relief Rehabilitation Administration, l’Amministrazione delle Nazioni Unite per la Riabilitazione e il Soccorso dei Paesi Liberati, e la Casas, il comitato di Assistenza Senzatetto), il cui referente era un ingegnere torinese, Adriano Olivetti dell’INU (Istituto Nazionale di urbanistica, sorto intorno agli anni trenta) e con la partecipazione dell’Ente Riforma Puglia e Lucania, lo studio focalizzerà l’attenzione su aspetti comunitari prima mai tentati a livello istituzionale e destinati ad essere un episodio isolato in quel periodo.

Ed anche a detta di Riccardo Musatti, che vi lavorò, «Lo studio sulla co-munità di Matera […] rappresenta il primo organico esempio italiano di “studio integrale di comunità”» (R. Musatti, Matera: motivi e vicende di uno studio, 1996). Dal lavoro d’èquipe della Commissione, composta da due gruppi, uno

6 Negli anni successivi lo studio ed il soggiorno in Italia di F. Friedmann, questi sarà finanziato dalla Rockefeller Foundation, la stessa che stava finanziando il soggiorno e gli studi di Kevin Lynch in Italia (1952-4). Quindi è probabile che i due avessero legami e contatti già all’epoca. In seguito i loro rapporti si sono rafforzati per via della collaborazione al progetto Joint Center for Urban Studies, assieme ad Alonso, Rodwin, Banfield e Kepes, finanziati dalla Rockefeller Foundation e con le partecipazioni delle Università di Harvard e del M.I.T (Massachusettes Institute of Technology).

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di studio7 ed uno di coordinamento tecnico8, si otterranno la redazione del Piano Regolatore Generale Comunale della città9 e la realizzazione di un “bor-go rurale”10, La Martella, destinato ad ospitare gli sfollati del risanamento dei Sassi, secondo le disposizioni della legge n° 619/1952 (legge Colombo).

Altro importante esperimento è quello di Ivrea, che vede nuovamente la partecipazione dell’ingegner Adriano Olivetti, anche se in veste di promo-tore ed ispiratore, oltre a fondatore di un gruppo di lavoro, quale quello di Comunità, tra i più organizzati, attivi e solidi del periodo.

In modo meno radicale, con minori risorse, ma con eguale impegno di trasformazione e riorganizzazione della realtà locale è l’esperienza di Assisi (1955-58) di Giovanni Astengo, mutuata dalle due esperienze precedenti del Piano regionale piemontese e dal lavoro presso il Ministero dei LL PP, a Roma (1952), sempre per i piani regionali. È ancora un piano “illuminista” (ma illu-minato e con delle aspirazioni di apertura sociale nascoste) costruito intorno alla figura dell’urbanista positivista, tanto in voga nel dopoguerra.

Degni di nota ed indicatori di una risonanza internazionale dei proble-mi locali delle realtà arretrate sono il convegno “Abolire la Miseria” (1954), organizzato dal Centro Culturale di Comunità di Roma, e il “Congresso Internazionale di Studio sul problema delle aree Arretrate”11 (1954), orga-nizzato dal CNPDS, ovvero dal Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, a Milano. Meno importante e noto, ma con un’eco internazionale fu

7 Il gruppo di studio comprendeva: F. Friedmann (sociologo), Riccardo Musatti (addetto alle pubbliche relazioni), Giuseppe Isnardi (geografo), Francesco Nitti (professore materano di italiano e storia presso l’Istituto Magistrale “T. Stigliani” della città), Tullio Tentori (antropologo), Federico Gorio e Ludovico Quaroni (architetti-urbanisti), Rocco Lazzarone (demografo ed igienista), Lidia De Rita (psicologa), Giuseppe Orlando e Gilberto Marselli (economisti), Eleonora Bracco (paleoetnologa), Rigo Innocenti (assistente sociale).8 Il gruppo di coordinamento tecnico era composto dall’ingegner G. Battista Martoglio, capogruppo, e di una èquipe di giovani locali, rilevatori e archivisti: Rino Carriero, Tommaso Colucci, Antonio Cristallo, Albino Sacco, Filippo Sardone.9 A firma di Luigi Piccinato.10 Già nel 1949 il professor N. Mazzocchi Alemanni, per conto della missione americana ECA in Italia, aveva parlato del risanamento dei Sassi e della costruzione di borgate residenziali rurali e periferiche. La proposta verrà passata poi all’UNRRA-Casas, che godeva dei fondi ERP.11 Al Congresso erano presenti D. Dolci, Samuel N. Eisenstadt, Pierre Gorge, Nicholas Kaldor, René Koning, Bertold F. Hoserlitz, Le Corbusier, Siro Lombardi, Aldo Sauvy.

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anche il “Congresso per la piena occupazione”12, organizzato da Dolci e colla-boratori, a Palermo (1-2-3 Novembre 1957), con la partecipazione di tecnici, economisti, sociologi e urbanisti, italiani e non.

Per tutti sono chiari alcuni punti, ovvero che i diritti di cittadinanza si affermano sulla base di costumi democratici e nella soluzione di problemi quotidiani delle varie realtà comunitarie locali (Mazzoleni, 1997).

In questo clima vale quanto affermato da Alexander circa le considera-zioni che nei più dei casi i “pianificatori” sono al di fuori delle istituzioni, almeno ufficiali, e/o cercano di aiutare le varie comunità a liberarsi di queste stesse istituzioni.

Era, allora, una situazione di generale e tacito utopismo, a detta di Abbate, un «gran pentolone in cui si ritrovava una grande e fervente sintesi dialettica, in cui tutto confluiva ininterrottamente. Si stava lavorando per la costruzione di una grande utopia, intendendo per utopia la costruzione di opportune precondizioni e premesse per un cambiamento, un rinnovamento. Peccato che successivamente si è passati ad una situazione di subutopia, ovvero ad uno stato degenerativo di quella»13.

Si cercherà di concretizzare quanto affermato attraverso quattro diversi casi, ovvero quattro diversi protagonisti, che hanno viste le loro mosse inqua-drate proprio in quel periodo.

In tutti i casi di seguito considerati, sempre il cambiamento passa attra-verso processi di definizione del gruppo, dei suoi principi, dei suoi linguaggi e attiva una qualche forma di “conflitto”. Sempre l’armamentario di ideali e valori giustifica le lotte e i mezzi usati. Sempre l’ideale primo è quello di dar luogo ad istanze di democratizzazione ed uguaglianza della popolazione. Sempre il punto di vista presentato vuol essere quello della “gente”. Sempre si presterà attenzione al vissuto quotidiano delle popolazioni locali. Sempre, almeno, il primo modo della conoscenza e della partecipazione passerà attra-verso una “passeggiata” tra la gente.

Nei quattro casi che seguono, e con un crescendo di incisività e partecipa-zione, si cercherà di porre l’attenzione su tutti questi aspetti e si vedrà tra loro un certo “palpitare di nessi”.

12 A questo Congresso è dedicato Una politica per la piena occupazione (1958) di D. Dolci.13 Trascrizione da parte del sottoscritto di una conversazione telefonica col Professore Giuseppe Abbate (1929), quindi interpretazione e memoria, spero non fallace e non fraintesa.

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I Situazionisti. Le prime notizie che si hanno di questo gruppo d’avan-guardia risalgono al 28 luglio 1957, data in cui si ha un congresso, ovvero la prima Internazionale Situazionista. Esperienze lettriste, esperienze psicogeo-grafiche ed esperienze del Nuovo Bauhaus Immaginista si fondono insieme per dare la “vittoria” a coloro che sapranno “provocare disordine senza amarlo”.

Loro punto di partenza sono le “situazioni”, ovvero le «unità di com-portamento nel tempo» (AA.VV., Internazionale Situazionista. 1958-69, I, 1994, p. 11).

Queste consentiranno di studiare aspetti della vita quotidiana e di defi-nirla anche in rapporto alla vita nelle città, all’uso delle tecnologie e a processi in corso, primo tra tutti la “spettacolarizzazione della vita”. Considerando la vita di ognuno si scopre che non si è più capaci di vivere. Gli uomini sono diventati delle merci e con essi tutta la loro vita e gli aspetti di questa, a co-minciare dal tempo: «se l’uomo è una merce, se viene trattato come una cosa, se i rapporti generali degli uomini tra di loro sono rapporti tra cosa e cosa, è perché è possibile comperare il suo tempo» (AA.VV., p. 21). L’uomo non è libero di disporre del suo tempo, è alienato e legato indissolubilmente ai fini e ai ritmi della produzione. Le tecnologie esercitano una ipnosi, una cattura mass-me-diale, che ci allontana dal nostro stesso vivere.

«Ognuno è ipnotizzato14 dalla produzione e dalle comodità – fognatura a sfogo diretto, ascensore, stanze da bagno, lavatrici.

Questo stato di fatto che ha avuto origine nella protesta contro la miseria va oltre il suo fine lontano – la liberazione dell’uomo dalle preoccupazioni materiali – per diventare un’immagine ossessionante dell’immediato. Tra l’amore e lo svuo-tarifiuti automatico la gioventù di tutti i paesi ha fatto la sua scelta e preferisce lo svuotarifiuti» (AA.VV., p. 17-8).

Tra l’uomo e la sua vita, quindi, si è inserito lo “spettacolo” a distrarci dal-la realtà. E dove c’è spettacolo, dice Dèbord, non c’è partecipazione. Inoltre, di per sé già la nostra vita (privata) è arte. A cosa può più servirci lo spettacolo? Esso (lo spettacolo) serve solo i fini della produzione e ci aliena da noi stessi. E questo avviene soprattutto nelle città. Sarà, dunque, la città il luogo dove esercitare una azione destabilizzante attraverso la costruzione di “situazioni”, l’analisi dei propri ambienti attraverso le “derive”, attraverso il divertimento,

14 Si vedano le affinità con quanto teorizzato da M. McLuhan (Gli strumenti del comunicare, 1964).

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il gioco15, la provocazione, la rivoluzione della realtà. L’«architettura e l’urba-nistica […] non possono realizzarsi senza la rivoluzione della vita quotidiana» (Kotanyi e Vaneigem).

La carica ideologica è, in questo gruppo, molto forte, ma è la molla che spinge ed alimenta un attivismo instancabile in ogni settore, anche se non sempre condiviso dai più. In urbanistica, ad esempio, arrivano, oltre la critica, a teorizzare un “urbanismo unitario” dove è bandita ogni forma di chiusura settoriale e specialistica16. Tutti gli aspetti della vita devono essere considerati ed insieme. Per questo occorre che gli urbanisti del XX secolo costruiscano delle “avventure”. Si vuole superare il funzionalismo: “si tratta di realizzare al di là dell’utilità immediata, un ambiente funzionale appassionante”. In questo consisterà l’impegno dei nuovi urbanisti, “rivoluzionari”, nella creazione di un “ambiente urbano come terreno di un gioco di partecipazione”.

Lynch. Qualche anno prima l’esordio impetuoso del gruppo dei situazio-nisti uno studioso silenzioso e giovane sceglie l’Italia quale luogo per condurre i suoi studi, all’inizio incerti, sull’immagine della città. Siamo nel 1952 e di mappe mentali non se ne parlava nemmeno in America figurarsi in Italia o a Fiesole. Però, in Toscana Lynch, Kevin Lynch è il nostro protagonista, in Toscana trova un ambiente molto “particolare”, dove è stato forte l’attivismo partigiano, dove sono frequenti le sensibilità comunitarie, dove sono nati i germi di una autoorganizzazione, dove sono forti gli ideali di una certa si-nistra e di un certo radicalismo politico-sociale ed anche religioso. Inoltre, è lo scenario dei romanzi di Vasco Pratolini, soprattutto Il Quartiere (1947), metabolizzato e più volte citato da Lynch stesso.

È un laboratorio ideale per condurre le proprie ricerche, finanziate dalla Ford Foundation. Anche Lynch è per certi aspetti un “radicale” e un “rivolu-zionario”. Tenta una operazione molto interessante quale quella di osservare la realtà direttamente e senza l’uso dei linguaggi tecnici, filtro discriminante e limitante. Lo sostituisce, invece, con le “distorsioni” prodotte dal “flusso delle

15 Il gioco consente comunicazione e realizzazione di sé, in collaborazione (quindi partecipazione) con gli altri e senza competizione. È un gioco. Inoltre ha un valore conoscitivo, insegna a vedere le regole e le trasformazioni in maniera dinamica.16 Finora «La circolazione è [stata soltanto] l’organizzazione dell’isolamento di tutti. [… è stata] il contrario dell’incontro, l’assorbimento delle energie disponibili per gli incontri, o per qualsivoglia tipo di partecipazione» (AA.VV., Internazionale Situazionista. 1958-69, Kotanyi e Vaneigem, p. 17).

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sensazioni”. Per far questo ricorre ad uno strumento semplice e diretto qua-le quello dell’intervista, con la variante dell’apertura delle risposte per poter scendere in profondità ed analizzare meglio i comportamenti. Inoltre, lavo-rerà anche per una rivoluzione del linguaggio di rappresentazione e codifica dei risultati. La sua è innanzitutto l’esigenza di una costruzione metodologica, con stimoli ed apporti provenienti dal basso.

Più tardi dirà che «lunghe osservazioni sul campo e conversare con la gente sono una buona maniera per imparare. Si acquista l’abitudine di vagare per la città solo per il piacere di scoprire posti, udire voci, vedere gente in azione. Finiamo per impegnare noi stessi e sentire le nostre emozioni. Apprendiamo a compenetrarci nei sentimenti degli altri, a vedere un luogo come deve apparire a loro. Nel dia-logo, cominciamo a scoprire le immagini collettive del possibile» (Kevin Lynch, 1980, in Andriello, 1997), confermando come la partecipazione, nei modi del dialogo e della passeggiata, si dimostri essere un elemento che apporta vantaggi a tutte le parti che ne sono coinvolte.

Anche Lynch come i situazionisti avverte che la vita quotidiana degli in-dividui e delle comunità si fonde con i luoghi e che a questa occorre prestare attenzione.

Inoltre indica anche il modo. È qui il suo grande portato rivoluzionario, l’aver disposto che «molti passi teorici e metodologici poggiano sul presuppo-sto del dialogo, dalla tecnica di raccolta di informazioni, alla costruzione di mete, alla validazione di proposte; la stessa struttura concettuale della teoria normativa è costruita in una forma che consenta la discussione» (V. Andriello, La forma dell’esperienza. Percorsi nella teoria urbanistica a partire da Kevin Lynch, 1996, p. 19).

Sarà attraverso il dialogo che la gente si conoscerà, conoscerà il mondo e la realtà che la circonda, imparerà a collaborare e a dar luogo ad una “partecipazione costruttiva”. L’eredità lynchiana verrà sempre ricordata e fatta coincidere col suo «deciso contributo “alla diffusione di indagini sull’ambiente orientate sulla gente” […] e dunque [volte] ad aprire la progettazione dell’ambiente a pratiche di partecipazione sviluppando modi concreti» (Andriello, p. 8).

Astengo. A “quell’eccezionale stagione progettuale” non è assente nem-meno il mondo accademico italiano. Lo abbiamo visto in generale con Sylos Labini, lo vedremo nel dettaglio con Giovanni Astengo. Assistente e profes-sore universitario fin dal 1943 dal 1945 il suo impegno è messo a disposizio-

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ne delle istituzioni prima con la proposta assieme al suo gruppo, gli ABRR (Astengo, Bianco, Rizzotti e Renacco), per il Piano Regionale piemontese al Ministro dei Lavori Pubblici, poi come sottocommissario per la ricostruzione di Torino.

Come per Dolci, ogni sua attività è corredata di una riflessione sintetica, dal suo canto sulle riviste nazionali di architettura ed urbanistica, in modo da innescare un suo momento di riflessione e valutazione, oltre che di pub-blicazione dei suoi studi e risultati. Non dimentichiamo che è molto forte la carica pedagogica, edificante e di esempio. Più tardi dirà che «il valore di un esempio, di un esperimento, sta anzitutto in sé stesso, e quindi anche nella sua potenziale ripetibilità; e che le civiltà si sviluppano precisamente per effetto della facoltà di mimesi, per cui la maggioranza non creatrice può venir trasfigurata da una minoranza creatrice. E che quindi un quartiere o una borgata bene imposta-ti, una indagine ben condotta, un concorso ben riuscito, un piano regionale ben avviato, uno studio teorico scientificamente corretto sono non soltanto validi in sé come testimonianza di slancio creativo e di rigore scientifico, ma possono essere, o divenire, presto o tardi determinanti di un nuovo ambiente culturale, di un nuovo indirizzo di vita [ecco la rivoluzione!]» (G. Astengo, Per una pianificazione attiva, 1953, p. 3).

Dalle suddette presentazioni ai convegni, dal riconoscimento e dalla pos-sibilità di redigere la voce di “Piano di coordinamento territoriale” nell’Enci-clopedia italiana, dai Cenni sul piano regionale piemontese del gruppo ABRR, pubblicati nel 1947 su Metron n° 14, prenderanno le mosse i Criteri di indi-rizzo per lo studio dei piani territoriali di coordinamento in Italia, promossi dal Ministero dei Lavori Pubblici, già nel 1952.

Riforma delle istituzioni e costruzione di un armamentario professionale e disciplinare sono i suoi due maggiori impegni. Dirà del suo metodo:

«Si tratta di procedere per tappe, partendo da organismi meno adeguati, ma congruenti alle situazioni presenti, per giungere in seguito agli organismi più adeguati, creando ed attuando quelle strutture, che leggi e Costituzione prevedono, e che tuttavia senza la pressione e l’impegno di convergenti attività sono destinate a restare lettera morta: anche qui si tratta di dare via via corpo e sostanza allo spirito di leggi esistenti» (Astengo, p. 4).

Ma Astengo non proporrà solo tecniche e modelli, proporrà contempo-raneamente l’esigenza di creare una classe media di esperti, “disinteressati”, un

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vero e proprio “corpo di pubblica utilità”17. Si scopre, così, in lui la nostalgia per la realtà municipale espressa dal concetto di buon governo, dove “lavorando semini ciascuno”.

La sua è una rivoluzione all’interno del sistema e non contro, una riforma radicale. La sua disciplina e il suo metodo saranno per le amministrazioni che vorranno e dovranno svolgere e fare “amministrativamente”. «In questo im-pegno sta forse la chiave della possibile vittoria della pianificazione urbanistica» (Astengo, p. 5).

Poiché sono «i politici, dai parlamentari ai consiglieri comunali, sono gli amministrativi, dagli alti funzionari ai tecnici comunali. Sono essi che “fanno fare”, sono essi che hanno veramente la chiave della situazione. Un provveditore alle OO.PP., un sindaco, un assessore, un ingegnere capo può suscitare o soffocare l’iniziativa di un piano, può bloccarne la compilazione o avviarlo alla più felice conclusione» (G. Astengo, Urbanistica assente, 1950, p. 4).

Anche se più tardi (1970) ritornerà ad occuparsi con maggior enfasi dell’aspetto educativo, visti i ripetuti fallimenti locali, con la scuola in “Urbanistica”, a Venezia (poi Preganziol).

Ma cosa ha a che vedere Astengo con la partecipazione? In apparenza quasi nulla, visto che ogni richiamo fatto non è mai chiaro o indicato o riconosciuto come il valore predominante. Sicuramente è un aspetto latente, considerato come uno dei tanti elementi in concorso per favorire una buona pratica di pianificazione.

«Indifferenza assoluta rispetto ai futuri abitanti, alla loro composizione familiare, al loro raggruppamento sociale, ai bisogni di tale raggruppamento. Indifferenza assoluta all’ambiente umano e all’ambiente naturale, in una parola, assoluta indifferenza urbanistica» (Astengo, p. 3).

O ancora, in maniera implicita, quando fa un elenco delle conquiste che l’urbanistica dovrebbe fare. «Che se poi queste cifre potranno un giorno essere

17 Ricorda tanto le posizioni che Elio Vittorini espresse nei numeri 33-4 del Politecnico del 1946 in risposta ad una lettera critica di Palmiro Togliatti, e che quegli (Vittorini) sviluppava in tale maniera:«Nel corso ordinario della storia, è solo la cultura autonoma (ma, si capisce, non sradicata, non aliena) che arricchisce la politica e, quindi, giova obiettivamente alla sua azione; mentre la cultura politicizzata, ridotta a strumento di influenza, o, privata della problematicità sua propria, non ha nessun apporto qua-litativo da dare, e non giova all’azione che come un impiegato d’ordine può giovare in un’azienda …».

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incrementate con un sistematico incameramento del plus valore fondiario, come previsto dalla recente legislazione inglese, o con contributi volontari dei cittadini [la sottolineatura è nostra], come nel caso di Filadelfia o con sovvenzioni nelle aree depresse, ecc…» (Astengo, p. 6).

Concludendo con le considerazioni e confessioni su Urbanistica (n° 24-5 del 1958), Astengo si augura che «le proposte del piano [vengano] studiate e discusse [come] stimoli di iniziative locali e di una vasta azione di collaborazione […] occorre che il rinnovamento parta soprattutto dall’interno, dall’autocoscienza dei cittadini più responsabili» (G. Astengo, Assisi: salvaguardia e rinascita, 1958, p. 12).

Negli Atti al 4° congresso nazionale di urbanistica, promosso dall’Isti-tuto Nazionale di Urbanistica (1953), la questione è ancora più chiara ed esplicita.

«La pianificazione regionale … impegna la collettività ad un’opera di grande collaborazione umana, che può divenire reale solo attraverso la accettazione e la cooperazione generale …». Più precisamente «nello stesso campo di progetto le indagini locali e le risoluzioni particolari conducono a risultati non organici se manca il fondamento della cooperazione fra tecnici, fra tutti gli interessati, fra gli stessi cittadini»18.

Ma più che la questione della partecipazione come finalità ultima, questi insegue la questione del decentramento e delle autonomie locali. E come altri “rivoluzionari” parte da un riferimento generale e legittimo, che trovi ampio consenso, quale quello della Costituzione19. In particolare dall’articolo 5.

Ma tutti gli anni cinquanta sono investiti da una insaziabile voglia di verità, che passa attraverso le indagini, le inchieste, le analisi, la produzione di elenchi, repertori, dati ed informazioni.

18 Secondo G. Paba, nei primi anni cinquanta Astengo fu fortemente influenzato anche da L. Mumford (che scriverà molti articoli sulla rivista Urbanistica e sarà molto presente nel panorama disciplinare italiano) e cita un passo in cui si evincerebbe questo aspetto: la pianificazione dal basso «sensibile nel realizzare un concreto equilibrio fra individuati nuclei sociali ed individuati ambienti costruiti, essa fruisce, all’opposto dell’autoritaria pianificazione dall’alto, di un iniziale vantaggio su quest’ultima: il possibile consenso con il soggetto e oggetto della pianificazione stessa, cioè l’uomo associato. Pianificazione a nuclei, pianificazione dal basso, pianificazione consensuale. (“I nuclei sociali e l’urbanistica”, in AA.VV., Architetture d’oggi, 1955)» (G. Paba, Movimenti urbani. Pratiche di costruzione sociale della città, 2003).19 Danilo Dolci, invece, baserà il suo operato sugli sviluppi dell’art. 4 della Costituzione.

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Lo si vedrà col Piano di Assisi. Questo Piano gli viene commissionato nel 1955, quando Astengo ha ormai 40 anni. Non ha nessuna esperienza professionale nel campo della pianificazione urbanistica, se si escludono gli interventi dei Quartieri Ina-casa (entrambi a Torino, Falchera nel 1950 e a Lucento nel 1953), i due progetti per il Concorso per il Piano regolatore di Torino (1948) e il Piano di recupero della borgata di San Leonardo di Cutro sulla Sila (1954-5).

Si è imposto come grande divulgatore della disciplina, ed ha fatto cono-scere anche all’estero la rivista di “Urbanistica”, che dirigeva da soli sette anni (1952). Ha scritto molto, per portare l’Italia all’estero e questi in Italia. È stato un vero e proprio tramite, un ponte di interscambio culturale e disciplinare.

Il piano di Assisi, richiederà quattro anni di duro lavoro, se si esclude la riedizione del 1966, e quindi sedici anni di interessi aperti, di presenza nella realtà della città con “operazioni di persuasioni”20, un capitale complessivo di 26 milioni, di cui 25 dell’autore stesso21, quando l’Amministrazione poteva permettersi di commissionare un piano avendone solo 1 milione in bilancio, ed infine l’impegno costante di un gruppo di colleghi e di allievi fortemente motivati. Si vuole penetrare la realtà con grande minuzia di dettaglio.

«Può interessare sapere che lo studio è stato quasi tutto condotto in loco, con indagini dirette e continue verifiche, con largo impiego di aiuti, che per vario tem-po e in varia misura hanno collaborato agli studi, e che, fin dagli inizi, esso è stato impostato sotto il profilo operativo, allo scopo di individuare in ogni settore della vita urbana e del territorio quali fossero gli strumenti più adatti per rivitalizzare l’ambiente» (Astengo, p. 11).

Secondo Astengo, l’indagine diretta, ovvero “il metodo del sondaggio con indagini campione”, può solo assolvere determinate funzioni e si dimostra quindi opportuno “per fornire orientamenti di ordine qualitativo”, essendo solo

20 «La vicenda poteva considerarsi chiusa ma l’impegno era stato troppo grande per abbandonare l’impresa. Con infinita pazienza e costante tenacia cercai di recuperare la situazione, incontrando in piazza a testa alta i vari oppositori. Ho impiegato anni continuando nelle visite quindicinali in Assisi. Nel frattempo le licenze fioccavano in pianura, i fondi della legge speciale venivano impiegati troppo spesso per imbellettare senza ordine cose che non richiedevano restauri e per costruire industrie nella piana» (G. Astengo, Assisi: un’esperienza, 1991, p. 119)21 Si veda G. Astengo, Assisi: un’esperienza, p. 118.

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il censimento generale l’unico quadro completo e quantitativo di riferimento. Il gruppo di rilievo e studio entra in ogni casa. Quello che possiamo chiamare un ricco lavoro di analisi e penetrazione “porta a porta”, degno della costan-za e del coraggio dei testimoni di Geova, sicuramente cosa che mai nessun urbanista aveva fatto prima e che tutti vedranno bene (?) dal ripetere. È una penetrazione o intrusione, che vede la partecipazione indotta dall’alto, dalla razionalità di un professionista illuminato e coltivatore di utopie22.

Inoltre anche Astengo, secondo la nostra accezione, può essere conside-rato un rivoluzionario. Quella che Astengo costruisce è una rivoluzione della cultura e delle tecniche della disciplina che esercita. E lo si vede dal lessico, ovvero dall’attenzione alla riforma della disciplina a partire dalle sue più pa-cifiche fondamenta. Elemento caratterizzante di ogni “rivoluzionario” come avevamo detto in precedenza, e come si è dimostrato vero in tutti i casi studi analizzati.

È questo l’aspetto creativo(-rivoluzionario) di Astengo. Egli prende qual-cosa che già esiste, ha riconoscimento e forse struttura, oltre che legittimità, e la porta all’estremo, in una posizione di margine e di scarsa dipendenza semantica per risignificarlo, anche se si corre il rischio di fare una operazione illegittima. Vale la pena rischiare perché prima o poi qualcuno la riconoscerà dandogli valore e portando ad un suo avanzamento in quella direzione.

Dolci. L’opera di Danilo Dolci, invece, ci mette difronte ad una situazio-ne “romantica”. La vita è letteratura, ovvero pensiero e azione si confondono uno nell’altra. Il suo è un esempio in una situazione “esemplare”. Reduce dall’esperienza implosiva di don Zeno Saltini, cerca di far esplodere una si-tuazione di forte stagnazione economica, politica, sociale, culturale e morale nella Sicilia vista da piccolo, seguendo il padre ferroviere. Negli anni cinquan-ta (1952) va in Sicilia, nella provincia povera di Palermo (Trappeto) e cerca di entrare a far parte di quella comunità. Impara il dialetto, il loro modo di vivere e comportarsi, impara ad acquistare la loro fiducia, impara a non essere estraneo alle loro sofferenze. Il suo fine ultimo è quello di favorire la nascita di una coscienza di comunità, di gruppo ed ha bisogno di lavorare in maniera

22 «… se per utopia intendiamo un intento non attuabile qui adesso, ma per rendere possibile il quale è necessario operare qui adesso». Definizione ricavata da una risposta fornita dal Prof. Giuseppe Abbate nell’intervista che la tesi ospita al suo interno circa l’esperienza di Assisi, di cui lo stesso è stato testimone.

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pervasiva in tutti gli ambiti della vita quotidiana. L’impegno «non si limita quindi alla sola dimensione politica, alla modifica dei valori ufficialmente ricono-sciuti, ma interferisce con ogni aspetto della cultura e implica una trasformazione profonda della vita effettiva dei membri della comunità» (C. Mazzoleni, Un laboratorio di sviluppo comunitario: il Centro per la piena occupazione di Danilo Dolci a Partitico, 1997, p. 149).

E questo perché «La presa di coscienza [… possa] così divenire organizza-zione, strumento di cambiamento».

Allora se la gente soffre egli soffrirà con loro. Se la gente fa sacrifici il suo impegno farà altrettanto. Saranno appunto le sue “fatiche”, il suo forte attivismo, l’accettazione della lotta e della causa a consentirgli di conquistare terreno, a consentirgli l’entrata nella comunità, la possibilità di intessere un dialogo costruttivo ed edificante, un dialogo d’apprendimento reciproco, di istruzione e di formazione di una coscienza di gruppo. Questa servirà a dare a coloro che aderiranno fiducia, autostima, spinta alla realizzazione dei propri obiettivi e ideali. Come in una terapia di gruppo, egli cercherà di radunare gli individui insieme, di creare un dialogo, di farli ragionare intorno ad al-cuni temi, ai loro problemi, alla loro cultura e ai loro valori. Le “sedute di gruppo” saranno integrate da veri e propri laboratori: si va a scuola; si ascolta musica (classica) e si creano seminari musicali; si realizza una biblioteca e una Università popolare (1952–54); ecc.

Nel 1953, Dolci completa il suo inserimento nella comunità locale spo-sando Vincenza Mangano una vedova di Trappeto. Nello stesso anno viene pubblicato Fare presto e bene perché si muore, una raccolta di testimonianze delle difficili condizioni di vita della gente di Trappeto. Il titolo è molto in-dicativo. Occorre attivarsi ed in fretta, la situazione è grave. Ci si muoverà e si imparerà dalla propria autoanalisi. Il punto di vista, e di partenza, è quello della gente, che partecipa con il ruolo di protagonista. Ma occorre anche far conoscere l’entità delle forze e dello sforzo per poter rendere questo possibile. Nasce allora Diario di un anno (1954), che vedrà la pubblicazione solo nel-la raccolta Esperienze e riflessioni del 1974. In questo “diario” sono segnate ed indicate le attività che giorno per giorno il gruppo di Danilo, nelle varie persone, svolge a fianco ed in aiuto delle comunità locali. È un gruppo in for-mazione, il team con cui Dolci lavora, gruppo che si cimenta con problemi di vecchia data: il controllo della pesca illegale, l’assistenza, anche sanitaria, alla

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popolazione bisognosa, l’introduzione e la diffusione delle pratiche e colture irrigue, la documentazione, l’informazione, la denuncia, l’istruzione, ecc… Sono questi i “valorizzatori” di cui parla altrove, le persone “capaci di ridestare le energie latenti nel corpo torbido delle comunità”, i “provocatori di stati d’ani-mo”, che compongono un “gruppo di lavoro e di vita23”.

Le tecniche usate da Dolci sono tecniche nuove alla pianificazione, più vicine alle scienze sociali e psicologiche: metodo del colloquio-dibattito, in-terviste individuali, monografie, autobiografie, inchieste, discussioni in grup-pi aperti, ecc... Testimoniano una esigenza di penetrare in profondità le cose e gli stati d’animo delle comunità, anche a rischio di una immedesimazione che è mimesi. Si pensi ad esempio al saggio Banditi a Partitico, documentazione della situazione nel territorio, suffragata e approfondita anche dal breve sog-giorno in carcere con alcuni banditi della banda Giuliano. Il carcere, inoltre, diviene la dimostrazione diretta di come la lotta al sistema passi per i mecca-nismi di autodifesa dello stesso.

Non si può perpetuare tale stato di cose, per questo in cella Dolci riflette sulla necessità del “modo della rivoluzione”. Con le proprie inchieste, propone un nuovo modo di operare: se la gente conosce i problemi, se li discute in-sieme, se ciascuno si sente partecipe, si possono trovare le leve per cambiare, per creare sviluppo. Come dirà poi Borghi24, suo collaboratore, l’inchiesta è un modo, assieme ai libri che la documentano, di creare un “momento di trasformazione”. Dolci ribadirà ancora questo concetto più tardi, nel 1968. Bisogna

«Partecipare per comprendere ed assumere la necessaria spinta dal di dentro; promuovere profonde e vaste autoanalisi per maturare l’esatta conoscenza delle situazioni, le cause, gli impedimenti particolari e strutturali allo sviluppo; pub-

23 Tale gruppo «incentiva gli interessi e la sensibilità; contribuisce alla realizzazione dell’individuo nel farlo esprimere; dà modo di acquisire le capacità necessarie per il rapporto sociale, strumento indispensabile di sviluppo … sollecita una maggiore tensione, un maggior impegno individuale; dà possibilità di far crescere più rapidamente l’esperienza … attraverso la libera ripartizione dei compiti, permette che ciascuno sia meglio valorizzato per quanto di più specifico, e già determinato può dare; fa crescere in ciascuno il senso di responsabilità» (D. Dolci, Verso un mondo nuovo, 1964, nella raccolta di saggi di D. Dolci, Esperienze e riflessioni, 1974).24 Un allievo di Dewey, docente di pedagogia a Palermo. Aveva già lavorato al Programma di educazione della comunità di Portorico e ai piani di Ivrea e del Canavese, entrambi promossi da A. Olivetti.

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blicare la documentazione prodotta, denunciare in modo che le situazioni possano essere esattamente conosciute da tutti; avviare attraverso sperimentali iniziative-pilota la soluzione dei problemi che possono essere affrontati con le forze che già si possiedono; cercare di essere minuziosi nelle analisi particolari senza perdere di vi-sta la più ampia prospettiva» (Dolci, Inventare il futuro, 1968-72, in Esperienze e riflessioni, 1974).

Tra gli ispiratori di Dolci vi è la figura di Gandhi, che assieme alle teoriz-zazioni di Capitini, il filosofo cattolico perugino, gli forniscono un modello di azione “rivoluzionario” ma non-violento. Tra i metodi da questi teorizzati il digiuno ha grande importanza strategica. Per Dolci, è una forma per attira-re l’opinione pubblica, fare propaganda, rendere pubbliche alcune questioni, dare inizio ad una situazione di lotta. Altro metodo rivoluzionario non-vio-lento è lo sciopero. Sciopero nella casa di povera gente sul letto dove è morto il piccolo figlio, per denunciare e dimostrare contro la fame; sciopero con centinaia di pescatori sulla spiaggia per manifestare contro la pesca fuorileg-ge; “Sciopero alla rovescia” intrapreso con centinaia di disoccupati, e quattro sindacalisti (Zanini, Termini, Speciale e Abbate), per rendere transitabile una “trazzera” (strada vicinale tra i campi) locale, ed al tempo stesso per affermare il diritto al lavoro, sancito dall’art. 4 della Costituzione italiana, che «ricono-sce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». In quest’ultimo caso il pacifismo non riu-scirà ad attutire l’evidenza dell’azione rivoluzionaria e sovversiva del sistema. Verranno fermati dalla polizia e arrestati. Dolci verrà giudicato “individuo con spiccata capacità a delinquere”. Verrà intentato un processo per occupazione abusiva di suolo pubblico e agitazione delle masse. Come sempre lo difenderà P. Calamandrei, e lo farà scarcerare per “moventi di particolare valore morale”.

Purtroppo c’è un divario molto grande tra gli ideali su cui il sistema è nato (la Costituzione) e su come questo funziona. Da questa esperienza na-sce Processo all’art. 4, pubblicato il 30 Agosto 1956, seguito da “Inchiesta a Palermo” (Dicembre). Di quest’ultimo saggio-inchiesta, Zevi dirà

«[…] è il “libro bianco” di un architetto dimissionario; un testo che dovrem-mo rendere obbligatorio nelle scuole di architettura» (B. Zevi, Danilo Dolci: la pianificazione dal basso, pp. 304-5).

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Nel 1957 organizza il Congresso per la piena occupazione, a Palermo (1-2-3 Novembre), con la partecipazione di tecnici, economisti, sociologi e urbanisti, italiani e non. In seguito al Congresso, ovvero dal 7 al 19 Novembre, Dolci e Franco Alasia fanno un digiuno a Cortile Cascino (PA), per denun-ciare l’orrenda situazione dei quartieri più poveri di Palermo, e sottolineare i risultati del Congresso. Il quartiere verrà risanato. Più tardi Dolci dirà che

«Il primo strumento che ciascuna persona ha a disposizione da valorizzare, è se stesso» (Dolci, Riflessioni su obiezione di coscienza, gruppi, pianificazione, 1963, p. 107, in Esperienze e riflessioni, 1974).

E l’uomo diventa il frutto del suo punto di vista e dei suoi interessi, una sintesi di sensibilità, istinto, eredità culturali, capacità di astrarre, intuire, ragionare. Egli, «l’uomo non ha in sé la verità assoluta, il metro per misurare esattamente […] ha però la possibilità di aprirsi, osservare, analizzare, ordinare, ricordare, confrontare, connettere, bilanciare, verificare, sintetizzare, intuire, ipo-tizzare; ed ha in sé tutto un complesso processo attraverso il quale può pervenire a scelte determinanti per lo sviluppo suo e degli altri» (Dolci, p. 108).

Poiché«Senza un vivo rapporto coi principi, senza tensioni a fini e ideali sufficien-

temente vasti, i nostri interessi appassiscono, si rinchiudono, e tutta la nostra vita immiserisce» (Dolci, p. 110).

Per voler fare un bilancio complessivo e sintetico dell’operato di Dolci nel decennio in esame, si può dire semplificando e banalizzando una ete-rogenea complessità che negli anni ‘50 nelle sue opere, Banditi a Partinico, Processo all’art. 4, Inchiesta a Palermo e Spreco, quello che prevale è l’elemento dell’indagine. Non si commetta tuttavia l’errore di considerare questi lavori come semplici documenti di analisi territoriale. Al contrario essi risultano abbastanza finalizzati ed esplicitamente tendenti ad un progetto di sviluppo e, nei racconti, rappresentano il bisogno di riflettere, anche linguisticamente, sull’individuo e sui gruppi. Così il sistema delle relazioni sociali, già presente, risulterà molto più strutturato nel decennio successivo e, in particolare modo, sotto il profilo della proposta di un modello di società capace di superare il fatalismo, l’individualismo e la rassegnazione del vissuto quotidiano.

Ci si può congedare da questa figura con l’idea di aver appreso i suoi mes-saggi facendo propri parte del testo di una lettera che Aldo Capitini gli aveva inviato, e che Dolci riporterà per intero nel proprio Diario di un anno:

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«[… il] fine viva già nella qualità e nell’assunzione del mezzo, e sia lì evi-dentemente riconoscibile. Mettere del tempo nell’intervallo, rimandare a tempo indeterminato l’armonia del mezzo col fine, è manifestare uno scarso interesse alla vita del fine, alla sua scelta, all’accorciamento della distanza da esso. Se si ama il fine esso pervade già il presente e lo muta, non rassegnandosi ad essere rimandato indefinitivamente» (Dolci, Diario di un anno, 1954, p. 21, in Esperienze e ri-flessioni, 1974).

Partecipazione rivoluzionaria. La partecipazione, quella vera e comple-ta in ogni sua forma nasce in Italia, per essere dimenticata e non essere più recuperata, nel periodo del dopoguerra. Porta con sé una sensibilizzazione ai problemi ed una voglia di riscatto e di empowerment inediti alle situazioni precedenti. Infuoca gli animi di molti, rendendoli rivoluzionari, ma in una accezione nuova rispetto a quella a cui siamo abituati, ed è per questo che occorre definirla e chiarirla, onde comprendere quel passato e dare linfa vitale al nostro spento presente.

Il termine “rivoluzione” sta ad indicare l’incontro tra due concetti diversi e per molti aspetti paralleli: “riforma” ed “utopia”. Per evitare ulteriori confu-sioni e per meglio spiegare gli sviluppi e le declinazioni del temine risultante, ci soffermeremo su una rapida rivisitazione dei due termini dialettici. Tutti e tre i termini, e si considera anche il termine stesso di rivoluzione, indicano sia un processo che un risultato, un effetto. Iniziamo dal termine più vecchio, “Riforma” (del XVI secolo, ma diffusosi soprattutto dopo il 1618). Questo indica sia la «modificazione sostanziale, ma attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, un’istituzione, un ordinamento, ecc., rispondente a varie necessità ma soprattutto ad esigenze di rinnovamento e di adeguamento ai tempi» (G. Treccani, Vocabolario della lingua italiana, 1991) sia «l’effetto, il risultato stesso di tale attività, cioè i cambiamenti che si sono operati, le modificazioni che si sono compiute» (Treccani). È un atto e un esito di una “ri”-“forma”, di un cambiamento di forma. Si viene ad imprimere nuovamente la forma. Il problema di tale processo ed esito sta tutto nella intenzionalità dell’atto. Si può dare la forma o “nello stesso modo” o “in modo diverso”, l’importante che tale atto passi come una “modificazione sostanziale”. Anche quando si riproduce la situazione precedente si è dato «un ordine nuovo e migliore [… a] una situazione, una società e sim…» (N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, 1999). Ma l’opzione delle alternative non è indolore. Nel primo caso

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avremo un “riformismo riformista” (nello stesso modo), nell’altro un “rifor-mismo eretico” (in modo diverso). Storicamente vengono ricordate due tappe o parentesi dell’evoluzione del termine, quella illuminista nel primo caso e quella protestante-calvinista nel secondo. Non è un caso che molte posizioni del periodo, a cominciare dall’urbanista demiurgo, illuminista e positivista (da Le Corbusier a Giovannoni e Astengo), si richiamino a tale matrice storica del termine. Purtroppo il termine è minato da una connotazione peggiorati-va, negativa. I riformati al servizio di leva militare sono coloro i quali si sono visti considerare delle inabilità, ad esempio. Lo stesso evidenzia l’umorismo nero ed ironico dell’espressione: “Ti riformo i connotati!”. Tale aspetto è da noi compensato e controbilanciato dai significati del termine “Utopia” (1516, ma diffusosi soprattutto a partire dal 1821). Sono entrambi termini frutto del “rinascimento”. “Utopia”, da termine fittizio, creato dalla fantasia di T. Moro sulle sue conoscenze del greco (“non” + “luogo”), è finito per indicare sempre più un «modello immaginario di governo di una società ideale» sia esso percepito ed elaborato come «concezione, idea, progetto, aspirazione e sim.» sia inteso più o meno «vanamente proposto in quanto fantastico o irrealizzabile»25. È la proposizione di un «ideale, speranza, progetto, aspirazione che non può avere attuazione», una «formulazione [soprattutto riguardante] un assetto po-litico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello»26. Una linea e una meta a cui tendere. Ne emerge l’aspetto astratto e forse irrealizzabile, ma comunque critico, oppositivo al sistema esistente e propositivo di nuovi orientamenti. Una versione completa ci sembra essere quella delineata da De Nardis.

«Dal punto di vista filologico si possono dare due definizioni linguistiche del termine: la prima lo interpreta, derivandolo dalla matrice greca, come “luogo che non esiste”, essendo la parola composta dalla particella ou (non) e dal termine topos (luogo); mentre la seconda interpreta la vocale iniziale del termine u come contrazione della particella eu (bene), per cui Utopia verrebbe a significare “luogo della felicità”, del bene» (P. De Nardis, “Utopia”, in M. D’Amato e N. Porro,

25 Considerazioni mutuate dai significati alla voce “Utopia” del Dizionario della lingua italiana di N. Zingarelli (Zanichelli 1999).26 Considerazioni mutuate dai significati alla voce “Utopia” del Dizionario della lingua italiana di G. Treccani (1991).

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Sociologia. Dizionario tematico, anche in AA. VV., Stato e società. Dizionario di educazione civica, a cura di R. Marchese, B. Mancini, D. Greco, L. Assini, 1994, alla voce Utopia, curata da R. Marchese, p. 461).

Il termine “utopia” si rivolge ad un luogo che non esiste, ad una situa-zione che non si può realizzare alle condizioni presenti, ma che mira ad un qualche raggiungimento di una felicità maggiore. E quando queste province di significato incontrano quelle del termine “riforma” nasce la “rivoluzione”. In breve e a mo’ di conclusione diremo allora che la “rivoluzione”, così come noi la intendiamo, è una “riforma” (riforma nell’eccezione eretica) utopica, ovvero una modificazione sostanziale e tendenzialmente positiva (il prima si spera migliore e diverso del dopo), mossa da particolari orientamenti e che non può realizzarsi alle condizioni presenti.

Cosa era l’utopia in quegli anni? Era una regola, quasi. Una regola del particolare clima prodotto dalla “rivoluzione silenziosa e pacifica”. K. R. Popper affermava addirittura che il secolo (oramai scorso) era stato «un gigantesco laboratorio, il più grande esperimento di attuazione dell’Utopia».

Vediamone in breve e a mo’ di conclusione alcuni portati di questa.La dimensione immaginativa e innovativa. L’Utopia col suo rimando

ad aspetti irreali e fantastici, attiva una dimensione altamente immaginativa. Si introducono così degli “elementi totalmente nuovi”. È una aspirazione innovativa che in passato non riusciva a trovare sfogo se non attraverso «i miti, le belle favole, le promesse oltremondane della religione, le fantasie degli umanisti, i romanzi di viaggio» (R. Marchese, Utopia, p. 462). Era un qualcosa che la vita reale non poteva offrire alle condizioni attuali, ma che manifestava la tendenza ad un mondo e ad una condizione migliore.

La dimensione educativa. L’aspetto educativo è sempre presente dove si manifesta l’influenza dell’Utopia. Si pensi ai vari trattati. «Nelle Utopie i metodi educativi [… sono] garanzie per la migliore formazione dell’uomo e per la corretta riproduzione del nuovo sistema» (Marchese, p. 462). Infatti l’utopia è il “luogo della felicità”.

La dimensione storica. «L’Utopia è un prodotto storico con tutti i segni riconoscibili della sua gestazione – qualunque grado di preminenza si voglia poi assegnare all’autore (all’individuo) in relazione al gruppo sociale e all’ambiente culturale che lo esprime» (Marchese, p. 462-3).

Molte volte il suo intento è quello di umanizzare la storia stessa. E lo fa con un modello di perfezione e descrizione storico, ma atemporale.

Vito Garramone

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La dimensione politica. Possiamo dire che «l’Utopia – come le rivoluzioni del nostro secolo dimostrano ampliamente – finisce prima o poi per essere assunta come un progetto politico da realizzare, tenuto conto delle spinte che agiscono nella storia, cioè dei contrasti di interessi che oppongono le classi sociali e dell’aspirazione di masse sempre più numerose verso la liberazione del bisogno, dallo sfruttamento e dall’oppressione politica. È a questo punto che esplode una contraddizione insanabile tra la volontà dell’uomo o del gruppo politico impegnato nell’abbattimento [anche riforma] delle vecchie istituzioni e nell’edificazione della nuova società, cioè una vera e propria rivoluzione» (Marchese, p. 463).

La “strana” dimensione parziale. Le Utopie non sono mai totali, ma totalizzanti. «Difficilmente l’Utopia riesce a tener presente l’intera situazione dell’uomo nel mondo: spesso si impegna a prospettare una modifica della società che dovrebbe salvare la società stessa dai mali che all’utopista appaiono più gravi e diffusi. [… allora] Certe utopie esaltano la giustizia a scapito della libertà. Alcune mettono sopra ogni altra cosa il benessere, altre i valori morali; alcune la supremazia della tecnica, altre quella della religione. Ma in generale ogni utopia dà per scontato tre cose: l’uniformità delle aspirazione umane, l’immutabilità delle istituzioni e la saggezza infallibile dei governi» (N. Abbagnano, Per e contro l’uomo, 1968, p. 251).

L’illusione è la speranza di una possibilità.

Per concludere, almeno provvisoriamente, diremo che l’Utopia è quella meta ideale verso cui tendere, un modo per far “partecipare” ad una società ideale, volta alla felicità, attraverso l’impegno, il sacrificio, la difesa della dignità, le trasformazioni dell’esistenza e delle aspettative, in favore di una tendenza progressivamente maggiore verso le spinte dal basso e non sempre con la violenza. Ma, occorre ricordare, indica una tendenza verso tutto ciò, altrimenti sarebbe rivoluzione.

Occorre stare attenti alle degenerazioni del termine di Utopia in Distopie o Antiutopie, il fine verso cui portano i regimi totalizzanti, e in Subutopia, stato degenerativo dell’utopia stessa.

L’intervista aperta, le immagini di una città e la voce degli invisibili che si muovono a Potenza

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