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§ PARAGRAFO RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI

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§PARAGRAFORIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI

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ParagrafoRivista di Letteratura & Immaginari

pubblicazione periodica

coordinatore

FRANCESCO LO MONACO

Redazione

FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE,FRANCESCO LO MONACO, FRANCESCA PASQUALI, VALENTINA PISANTY,

LUCA CARLO ROSSI, STEFANO ROSSO, AMELIA VALTOLINA

Segreteria di Redazione

STEFANIA CONSONNI

Ufficio 211Università degli Studi di Bergamo

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webmaster: VICENTE GONZÁLEZ DE SANDE

La veste grafica è a cura della Redazione

La responsabilità di opinioni e giudizi espressi negli articoliè dei singoli collaboratori e non impegna la Redazione

Questo numero è pubblicato con il contributodel Dipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità

© Università degli Studi di BergamoISBN – 978-88-95184-97-5

Sestante Edizioni / Bergamo University PressVia dell’Agro 10, 24124 Bergamo

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Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo

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INCONTRI

§1. GIOVANNI SOLINAS, La critica tra dialogo e conflitto. Conversazionecon Romano Luperini

FIGURE

§2. NICCOLÒ SCAFFAI, Fortuna e sfortuna di un poeta editore. Ineditidi Domenico Buratti

§3. PAOLA DI MAURO, Da dandy. L’intellettuale dada contro la guerra

§4. GABRIELE BUGADA, La pazzia del tiranno. Ritratti di un poterebandito

QUESTIONI

§5. LUIGI MARFÉ, In viaggio con Erodoto. Appunti per una tipologiadel l’anti-turismo contemporaneo

§6. GIANPAOLO IANNICELLI, Tra le crepe della memoria. Dinamiche ecriticità del processo di trasmissione del passato

STERNIANA

§7. STEFANIA CONSONNI, Schemi di costruzione spaziale del tempo inTristram Shandy

§8. STEFANO A. MORETTI, “Quell’inquieto calesse”. Deviazioni spa-ziotemporali in Laurence Sterne e Prosper Mérimée

I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO

NUMERI ARRETRATI

ParagrafoIV (2008)

Sommario

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Romano Luperini è uno studioso attivo ormai da più di quarant’anni. Cri-tico militante, storico della letteratura e teorico dell’interpretazione, è statouno dei principali animatori del dibattito culturale degli ultimi decenni. Siè confrontato con il fitto succedersi di autori, movimenti, proposte critichee svolte metodologiche, e insieme con i grandi passaggi della vita sociale edintellettuale italiana del secondo Novecento. È venuto così maturando unaoriginale prospettiva critica, che, partendo da una base solidamente marxi-sta-materialista, di orientamento prevalentemente benjaminiano, si è poiaperta alla discussione con le filosofie del dialogo (Gadamer innanzitutto).La sua critica si è sempre caratterizzata come fortemente ancorata al conte-sto reale, storico-sociale delle opere. Negli ultimi ven t’an ni si è molto inte-ressato, in quest’ottica, alle questioni relative alla postmodernità, affrontatecon un taglio decisamente critico, al problema della perdita di centralitàdella figura dell’intellettuale, ed all’insegnamento della letteratura nellascuola. I suoi autori d’elezione (sui quali ricordiamo i suoi studi più impor-tanti) sono innanzitutto Verga (Pessimismo e verismo in Giovanni Verga,1982; Simbolo e costruzione allegorica in Verga, 1989), Tozzi (Federigo Tozzi.Le immagini, le idee, le opere, 1995), Montale (Montale o l’identità negata,1984; Storia di Montale, 1986; Montale e il canone poetico del Novecento, acura di, con M.A. Grignani, 1998). Fra i suoi testi di maggior interesse, dalpunto di vista della proposta teorica, bisognerà ricordare almeno L’al le go riadel Moderno (1990) e Il dialogo e il conflitto (1999). Un tentativo recente diconiugare ermeneutica e critica tematica è L’incontro e il caso. Narrazionimoderne e destino dell’uomo occidentale (2007).

Luperini teorizza da tempo un modello di critica letteraria che preve-de il concorso di due diversi movimenti: il conflitto, inteso come con-

§1

La critica tra dialogo e conflittoConversazione con Romano Luperini

a cura di Giovanni Solinas

PARAGRAFO IV (2008), pp. 9-27

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fronto, dibattito anche acceso fra proposte d’interpretazione diverse, ed ildialogo, figura che traduce, invece, la relazione fra l’orizzonte del testo equello dell’interprete. Conflitto, confronto, dialogo: tutte nozioni la cuisfera di senso è dominata dall’idea dell’alterità, dell’apertura agli altri, alfuori, alla realtà esterna allo spazio monadico del pensiero soggettivo. Maun’intervista può essere considerata un vero confronto, un vero dialogo?La dinamica di domanda e risposta che essa prevede può ritenersi lo stru-mento di una costruzione partecipativa del senso? L’interrogativo non èpoi così retorico: la domanda, dice Barthes in Le neutre (1977-78), è unesercizio – se pur in forma minima – di potere, la messa in atto di unmeccanismo elementare di costrizione: “C’è sempre un terrorismo delladomanda; in ogni domanda è implicato un potere. La domanda nega ildiritto di non sapere”. Indubitabilmente vero, ma solo se la domanda, an-ziché essere concepita come il primo atto di uno scambio dialogico, divie-ne un meccanismo che costringe l’interlocutore a rimanere entro i binariprospettici di chi la pone. D’altronde, sempre nel Barthes di Comment vi-vre ensemble (1976-77) si possono rintracciare i termini essenziali di unapratica della convivenza applicabile, in senso positivo, alla dimensione re-lazionale della conversazione: l’indicazione di un criterio di delicatezza sucui dovrebbe reggersi il vivere insieme e il cui principio primo sia quellodel “non maneggiare l’altro, non manipolarlo”; ad essere invocate, in que-sto caso, sono la disposizione all’ascolto, la capacità di porre un limite aldesiderio di espressione di sé (e di controllo sull’altro), la volontà di offri-re il proprio silenzio alle ragioni dell’interlocutore: tutte componenti co-stitutive della conversazione.

Verrà magari da obiettare che difficilmente la dimensione dell’apertu-ra si attaglia ad un intellettuale come Luperini, che ha fatto della coeren-za e della fedeltà a se stesso la sua cifra principale. È vero il contrario. Èsolo in quanto parte di un dibattito, di un conflitto con le idee del suotempo, che una prospettiva come quella di Luperini può arrivare a defi-nirsi. Un doppio movimento prezioso, in un’epoca in cui le diverse pro-poste teoriche, interpretative, letterarie, tendono a sovrapporsi, nella co-scienza di chi cerca di starvi al passo, senza stabilire un rapporto profon-do, vero, con la sua visione del mondo. Il che è forse il portato inevitabiledi una società in cui l’apertura al mondo esterno, anziché rappresentarel’occasione di sentire l’attrito della realtà, rischia di diventare, come di-rebbe Fortini, l’esposizione senza difese ai fantasmi (dei significanti, delleimmagini, dei mondi paralleli) che ci si moltiplicano attorno.

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Vorrei aprire quest’intervista proponendole uno sguardo retrospettivo sualcune delle fasi più significative sia del dibattito critico letterario italianodegli ultimi quarant’anni, che della sua formazione di critico e di studiosodella letteratura.

La sua attività critica è nata e si è sviluppata entro un’area ideologicaesplicitamente marxista. Più specificamente: ripensando a Marxismo e lette-ratura (e anche a Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzio-ne nel dopoguerra), si potrebbe definire la sua come una prospettiva moltovicina all’orientamento ideologico del cosiddetto marxismo critico, che affon-dava le sue radici già nel decennio precedente; penso a figure come Fortini, adesempio. Eppure mi sembra che con Fortini, per quanto le vostre visioni pos-sano dirsi simili sotto moltissimi aspetti, ci siano alcune differenze di fondo:in Fortini c’è un’insistenza fortissima su una sorta di aristocraticità dell’arte,veicolo di un’altezza e di un’intensità di significati che la rende una dimen-sione cui la realtà (secondo l’idea di Adorno) deve aspirare. Nella sua visione,invece, è la considerazione dell’opera d’arte e della letteratura come conven-zione, prodotto culturale storico-sociale (certo ben presente anche in Fortini,ma in forma forse più debole) a ricevere un rilievo maggiore.

Ho conosciuto Fortini nel 1965, appena dopo essermi laureato, ed èinnegabile che egli abbia esercitato una forte influenza non soltanto su dime, ma su tutto il gruppo di giovani che si raccoglieva allora attorno allarivista Nuovo impegno. D’altro canto rappresentava per noi un riferimentoessenziale anche un’altra figura intellettuale, quella di Sebastiano Timpa-naro. Timpanaro allora abitava nella mia città, Pisa e, proprio nel 1965,uscì il suo libro Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, attorno alquale si produsse una grossa discussione all’interno del nostro gruppo. Inquell’anno uscì anche Scrittori e popolo di Asor Rosa. Ed in effetti devo di-re che questi due testi, oltre a Verifica dei poteri di Fortini, anch’esso del1965, condizionarono profondamente la mia formazione. A questo si deveaggiungere quella sorta di “utero sozzo della storia” – come avrebbe dettoVittorini – da cui venivamo tutti, rappresentato grosso modo da quellaforma di storicismo di sinistra che aveva a Pisa come maestro Luigi Russo,e che vedeva i suoi interpreti e riferimenti principali in Petronio e Muscet-ta, da me conosciuti pochi anni dopo (il mio primo libro infatti – la miatesi di laurea, uscita poi con il titolo Pessimismo e verismo in Giovanni Ver-ga – fu pubblicato da Petronio, mentre con Muscetta entrai in contattosuccessivamente; o meglio, fu Muscetta che mi contattò, per farmi colla-borare alla Storia della letteratura della Laterza). Rispetto a Fortini sì, può

CONVERSAZIONE CON ROMANO LUPERINI / 11

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darsi che da parte mia ci fosse una maggiore attenzione all’arte come pro-dotto culturale e storico-sociale, ma l’elemento di distinzione più impor-tante era un altro, vale a dire la maggior sottolineatura che facevamo allora(oggi direi a torto) dell’elemento negativo nella valutazione dell’arte: inquesto senso eravamo, probabilmente, un po’ condizionati da Asor Rosa.Il mio Marxismo e letteratura, che parzialmente – cosa significativa – eragià uscito, in spagnolo, in America Latina, ed il cui primo saggio era statopubblicato nel 1967 da Che Guevara sulla rivista Casa de las Américas,esprimeva proprio quest’idea dell’arte come splendore e orrore, facendosiportatore di una critica non solo della letteratura, ma alla letteratura. Ec-co, credo che questo elemento, inizialmente, fosse assai più pronunciato inme che in Fortini. Non va poi dimenticata l’influenza fortissima che inquegli anni ebbe su di me Benjamin: lessi Benjamin attorno al ’65-’66 e fuuna lettura decisiva, forse più di qualsiasi altra; ed in Benjamin era moltoforte la convinzione che il patrimonio culturale, ed in generale qualsiasiprodotto di cultura, fosse anche un prodotto di barbarie.

La sua insistenza sulle idee di Gramsci (quasi un caso isolato, il suo, nelpanorama critico italiano) e sul suo originalissimo modello, che lei, in Con-trotempo, ha definito nei termini “di una pragmatica e di una ermeneuticamaterialistiche, intrinsecamente estranee a ogni assolutismo”, mi sembra es-senziale. Che ruolo ha avuto il pensiero gramsciano nella sua formazione?

In realtà, inizialmente, non soltanto io, ma tutto il gruppo di cui facevoparte assunse una posizione molto negativa su Gramsci. Anche in questocaso fummo parzialmente influenzati da Asor Rosa. Allora, infatti, vedeva-mo Gramsci come l’anticipatore di Togliatti, e la critica alla politica cultu-rale del PCI portava automaticamente con sé quella a Gramsci, che a me edagli altri sembrava troppo debitore, nonostante tutto, di Croce. Cambiaipoi idea nel corso degli anni Settanta. Probabilmente il mutare della situa-zione storica contribuì a determinare il graduale modificarsi della mia valu-tazione: a partire dal ’73 (bisogna tener presente che in Italia c’è stato un’68 prolungato: cominciò nel ’65, per lo meno a Pisa, e di fatto finì con ilcompromesso storico, nel ’73), quando fu chiaro che non era più possibilenessuna prospettiva di trasformazione rapida, mi resi conto che probabil-mente Gramsci, con la sua idea secondo cui era possibile un lungo viaggioattraverso le istituzioni, poteva risultare utile. Recentemente, poi, sono ri-tornato su Gramsci, vedendo in lui un forte elemento relativistico ed erme-neutico. Gramsci, cioè, mi pare oggi portatore di una concezione che in-

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tende la storia come qualcosa che si fa attraverso la sua stessa interpretazio-ne: interpretando la storia noi la cambiamo, ci troviamo cioè ad essere pro-tagonisti di un conflitto delle interpretazioni che contiene, in realtà, un fi-ne pragmatico, rivolto ad una trasformazione. Pensandoci meglio, ora chemi viene in mente, il momento decisivo, nell’inversione di segno che subìla mia considerazione di Gramsci, è rappresentato da un saggio, mai riuni-to in volume, in cui analizzavo le differenti letture che Gramsci e Togliattidavano della politica di Giolitti. Allora io mi occupavo de La Voce, e presiposizione contro Asor Rosa e Carpi, che de La Voce avevano una visionecritica: i vociani, infatti, erano considerati da loro sostanzialmente dei sov-versivi di destra. Io vedevo invece un parallelo fra la ribellione della genera-zione vociana e quella del ’68; certo ero consapevole della presenza, all’in-terno del gruppo vociano, di spinte di destra, ma notavo che Gramsci erastato a favore de La Voce, come di Lacerba, e addirittura anche dei primifuturisti. In più c’era, appunto, una divergenza capitale di valutazione, fraGramsci e Togliatti, nei confronti di Giolitti: Togliatti (e sia Asor Rosa cheCarpi si attestarono sulla sua posizione, in definitiva perché convertitisi alcompromesso storico) era favorevole a Giolitti. La posizione di Gramsci,invece, era profondamente antigiolittiana, dunque simile a quella dei gio-vani vociani. Proprio accorgendomi di questa continuità filo giolittiana deidirigenti del PCI e degli studiosi di questo partito cominciai a studiare conmaggiore attenzione il pensiero di Gramsci. Scrissi su Gramsci, Giolitti eLa Voce un saggio, che uscì nella rivista Belfagor, e che riscosse il consensodi Timpanaro; questi riprese la questione e proprio su questo argomentopubblicò uno dei suoi libri più belli, Antileopardiani e neomoderati nella si-nistra italiana. Bisogna infatti tener presente che un altro elemento caratte-rizzante la posizione di Carpi e di altri critici della sinistra di allora era lacritica a Leopardi, esempio negativo, a loro dire, di intellettuale isolato. Siera creato un fronte entro il quale rientravano Salinari autore di un saggiopro-Manzoni e contro Leopardi, Asor Rosa e Carpi, i quali sostenevano leragioni di Giolitti e si schieravano contro i Vociani. Asor Rosa giunse persi-no a dare un giudizio positivo della Controriforma (dietro, ancora una vol-ta, c’era il compromesso storico, in ossequio al quale si cercava di far passa-re l’idea che la Controriforma fosse stata una grande operazione di egemo-nia culturale messa in atto dalla Chiesa). Nel mio lungo saggio presi ap-punto posizione contro tutta questa linea cominciando a sviluppare unaposizione che, come ho detto, Timpanaro poi appoggiò ed ampliò in un li-bro che oggi mi pare uno dei suoi capolavori polemici.

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Sempre restando agli anni Sessanta, nella sua accoglienza dello struttura-lismo apparvero da subito le questioni che caratterizzeranno anche in seguitola sua posizione in merito: la sua opposizione rispetto ad un certo atteggia-mento scientista, tendente a favorire i singoli specialismi analitici ed a rifiu-tare il momento della sintesi, la sua critica ad un tipo di studio che sacrifica-va la specificità e la singolarità dell’opera all’astrazione, allo schema formale,rimanendo così al di qua della scommessa interpretativa. Eppure da più par-ti, anche nell’ambito di quella sinistra di cui si parlava, si sosteneva la neces-sità di un aggiornamento, dell’acquisizione di rinnovati strumenti teorici, at-traverso i quali superare quella cultura genericamente idealista-cattolica cheera ancora preponderante in Italia. Non c’è stato un momento in cui si è cre-duto che lo strutturalismo potesse fornire questi strumenti, in cui si è credutoche lo si potesse usare? Se lei, adesso, dovesse fare un bilancio obiettivo sugliaspetti positivi dello strutturalismo italiano, a cosa penserebbe? Ha portatodelle novità positive, crede che ci siano stati aspetti in esso impliciti che nonsono stati sviluppati?

Nel 1968 pubblicai un saggio intitolato Le aporie dello strutturalismo ela critica marxista, in cui esponevo i miei motivi di critica allo strutturali-smo. Ne attaccavo in primo luogo la tendenza a favorire l’ordine e lastruttura, tendenza spinta sino a disconoscere, o ad abolire, l’elementodella contraddizione; in secondo luogo, ne criticavo l’autoreferenzialità:in molta critica strutturalista si negava di fatto il valore conoscitivo, non-ché la funzione referenziale dell’arte. E la concezione della autoreferenzia-lità portava, naturalmente, ad oscurare la genesi storica dell’opera. Ricor-do che fui uno dei primi a criticare Gli orecchini di Montale di Avalle, ve-dendovi un esempio eclatante della tendenza all’abolizione delle implica-zioni storiche nell’analisi testuale. Le faccio soltanto un esempio: nellapoesia di Montale, accanto all’immagine della donna di fronte allo spec-chio, compare quella degli aerei da guerra. A questo proposito Avalle par-la di un “inserto civile” che non avrebbe alcuna importanza, come fossequalcosa che guasta l’ordine del testo. Io lo ritenevo, invece, un elementosostanziale, responsabile della vera tragicità del messaggio poetico, e misembrava che Avalle lo scartasse solo perché non rientrava nello schemadescrittivo che aveva ingegnosamente approntato. Era presente poi unterzo motivo polemico nella mia posizione: gli strutturalisti sostenevanodi essere avalutativi, mentre in realtà, nei loro modi critici, lasciavano co-munque intravedere una valutazione, ed una valutazione di un certo tipo:quando si dice ad esempio che certe ripetizioni di suoni costituiscono la

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funzione poetica della lingua, si attribuisce ad essi, di fatto, anche un cri-terio di valore. Questa mia visione, fortemente critica, era inscritta entrouna convinzione ideologica di fondo, che mi portava a considerare lostrutturalismo come un movimento omologo alla logica del neocapitali-smo, in accordo, di nuovo, con Timpanaro (più che con Fortini, che suqueste questioni, invece, intervenne molto poco).

Ora, però, nonostante tutto questo, io non ho mai negato che esistes-sero nelle proposte degli strutturalisti degli elementi utili al lavoro del cri-tico. La mia tesi era infatti la seguente: bisogna criticare l’ideologia dellostrutturalismo, ma certe tecniche, che esso ha insegnato, sono utili e van-no usate. Per sostenere questa tesi scrissi nel ’75-’76 un libro molto agile,una lettura di Rosso Malpelo, in cui intendevo appunto utilizzare, nellamia analisi del testo di Verga, tutti i diversi metodi d’analisi allora a di-sposizione, ma con il massimo di disprezzo verso la loro pretesa di organi-cità e completezza; volevo utilizzarli, cioè, come puri strumenti. Mi rivol-si innanzitutto alla narratologia: ai formalisti russi, in particolar modo;ma utilizzai, anche la psicanalisi e certo, nello scrivere questo libro, ebbeuna grande importanza, per me, anche il lavoro di Francesco Orlando Peruna teoria freudiana della letteratura. Feci ricorso poi anche al Frye diAnatomia della crtica, che pure aveva posizioni ideologiche lontanissimedalle mie.

Ceserani parlava dell’importanza dell’eclettismo metodologico. Lei erad’accordo su questo?

…e disse, appunto, recensendo subito quel libro, che ero stato ecletti-co. Io gli risposi che non si trattava di eclettismo. È vero, utilizzavo varimetodi, ma da un punto di vista unitario, un punto di vista critico-nega-tivo. La conclusione del mio saggio era questa: l’inferno di Rosso Malpeloè ‘bello’, esiste un rapporto stretto, dunque, fra orrore e splendore, e l’arteha la capacità di trasformare l’orrore in splendore. Cosa deve fare il criti-co? Limitarsi a mostrare la bellezza dell’opera o evidenziarne anche l’or -rore che vi sta dentro? Sceglievo la seconda opzione, mostrando i rapportisociali sottesi al testo, e la componente materialistica e critico-negativadel racconto verghiano. Oggi sono ancora di quest’idea: lo strutturalismoè stato importante, in quanto ha messo a disposizione del critico una se-rie di strumenti che ormai non possono essere ignorati. Un libro comeL’analisi del testo letterario di Segre, del resto, proviene da quella stagione,e oggi qualsiasi dottorando in materie letterarie ha il dovere di leggerlo. Si

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tratta dei ferri del mestiere, che lo strutturalismo ha determinato per dueo tre generazioni.

Anche a livello scolastico…In questo caso penso che l’uso che se ne fa sia persino eccessivo. Cre-

do che ridurre la letteratura ad una serie di schemi e schemini, come nu-merosi manuali scolastici fanno, risulti molto negativo ai fini didattici.Nessuno di noi legge un testo per descriverlo. Ecco, questa è forse la criti-ca di fondo che mi sentirei di fare allo strutturalismo: esso pretendeva diridurre la critica alla descrizione, mentre la critica è sempre anche inter-pretazione.

Il suo metodo critico, vale a dire l’integrazione fra prospettiva ermeneuticae materialismo (di stampo prevalentemente benjaminiano), come lei ha dettopiù volte, l’ultima nel Breviario di critica, è caratterizzato dall’attenzioneinesausta alla storia, al rapporto fra contesto storico, materiale e culturale, edopera. Qual è la sua idea di storicismo, in ambito critico letterario, e qualiautori hanno rappresentato per lei un riferimento in questo senso? Trovo chenelle sue analisi si trovi un interessante elemento di duplicità, un elementoche, mi sembra, viene fuori in modo evidente anche nel suo recente L’au to co -scienza del moderno (penso soprattutto agli studi sul motivo dell’incontro, osulla figura del giovane, in cui la prospettiva storicista si mescola, in modo amio parere molto fecondo, all’analisi tematica): da una parte si fa attenzionead ancorare l’oggetto ‘opera’ al contesto storico in cui sorge, considerando inche modo esso possa dirsi in parte determinato dal plesso di relazioni materia-li e culturali proprie alla sua epoca, possa ritenersi in qualche misura espres-sione di tale insieme: la storia spiega l’opera; da un’altra parte, quasi all’oppo-sto, le grandi opere paiono essere sempre all’avanguardia rispetto al propriotempo, rappresentano il luogo dell’anticipazione, l’indice immediato del cam-biamento: l’opera spiega la storia (ed è in grado di spiegare le epoche a lorostesse).

In realtà le mie prese di posizione, sin dai primi scritti, sono statesempre anti-storiciste. Dello storicismo criticavo l’ideologia, cioè l’ipotesi(e questo era il motivo di discussione e di distanza rispetto a Petronio, so-prattutto quando nacque il ‘caso’ Verga) di un’evoluzione storica tendenteal progresso, lineare. Era l’idea di Petronio, di Muscetta; un’idea che, amio parere, non teneva conto innanzitutto del fatto che il socialismo nonfosse affatto inevitabile – per riprendere una formula che si usava allora –,

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e poi dal fatto che fenomeni come nazismo e fascismo non potessero esse-re crocianamente redenti: non potevano, cioè, essere identificati con ilmomento negativo della storia, necessario a far avanzare quello positivo.Non ho mai condiviso questa concezione della storia. Ho sempre accetta-to, invece, una distinzione fondamentale di Timpanaro, quella fra storici-smo e storicità: lo storicismo è un’ideologia, la storicità un metodo di ri-cerca. E tutt’ora sono dell’idea che un critico effettui sempre una doppiaipotesi. La prima è una congettura di senso: egli ipotizza, infatti, una coe-renza di senso entro l’opera, e se non riesce a ricostruirla, fallisce nella suaoperazione critica. La seconda, connessa alla prima, è un’ipotesi genetica,dunque storica, cui il critico deve saper collegare tale coerenza di senso.La mia, insomma, non è una posizione meccanicistica nei confronti dellastoria. La storia non è una sorta di corsa, di maratona, in cui c’è chi staavanti e chi sta dietro. Il critico deve assumersi la responsabilità della pro-pria visione, deve possedere un’ottica che valuti i fatti storici. In fondoanche la storicizzazione è un atto interpretativo. Non c’è nulla di più di-scutibile della periodizzazione, ad esempio. Essa apparentemente sembranascere dalle cose stesse, ma in realtà è un atto attraverso il quale il criticolegge e interpreta i fatti.

Per quanto riguarda il tema dell’anticipazione, forse è stato più pre-sente in Fortini. È vero: quando scrivo che Mastro don Gesualdo chiude lastagione del liberalismo, dell’uomo che si fa da solo, del capitano d’in du -stria etc., e che dopo di lui sarà possibile solo la figura dell’inetto, da que-sto punto di vista si può dire che la sua opera chiuda un’epoca e ne apraun’altra. L’idea che l’opera possieda una dimensione profetica, però, nondirei che mi appartenga.

Negli ultimi anni lei si è interessato molto alla questione dell’insegnamen-to della letteratura nelle scuole. Ne L’autocoscienza del moderno ha sostenu-to che la critica e l’insegnamento letterario siano due attività “in realtà piùsimili di quanto di solito non si pensi”.

Ho pubblicato un libro intitolato Insegnare letteratura oggi, già arrivatoalla quarta edizione, e mi sembra significativo che abbia trovato un certoriscontro di pubblico. Forse i lettori sono i futuri professori, coloro chefrequentano le Scuole di Specializzazione per l’insegnamento, ma credocomunque che possano esserci anche altre ragioni alla base di una similediffusione. In questo testo sostengo, in effetti, che la critica letteraria haun rapporto abbastanza stretto con l’insegnamento. L’elemento in comu-

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ne fra le due dimensioni è la necessità di una spiegazione dei testi che,partendo dalla loro descrizione linguistica e stilistica, li interpreti poi inchiave storica. Sia l’insegnante che il critico devono argomentare tale in-terpretazione e renderla accetta a un pubblico. La mia tesi di fondo è chesi debba fare della classe una comunità ermeneutica, una tesi divenutapiuttosto popolare oggi, anche in seguito al mio manuale La scrittura el’in terpretazione. La formula deriva dal decostruzionismo americano, daFish, contro cui, ribaltandone il senso, la uso. Secondo Fish, com’è noto,il testo non possiede alcuna datità, nessuna consistenza oggettiva. Io cre-do, invece, che ce l’abbia e che si debba prenderne atto attraverso un mo-mento analitico e descrittivo, che la si debba insomma considerare, stu-diare, tenendo sempre presente però che lo scopo finale è quello dell’in-terpretazione. Si tratta, insomma, di fare del testo il punto di partenzaper un discorso rivolto a interpretare non solo l’opera, ma anche l’ex tra -testo. Il giudizio di valore su un’opera, d’altronde, proviene, certo, daqualità interne al tessuto testuale, ma è comunque sempre motivato an-che da ragioni ad esso esterne di tipo morale, civile, culturale ecc. Noidiamo valore ai testi, riconosciamo loro un valore sociale, o esistenziale. Elo facciamo attraverso un atto non fondato scientificamente. Ritrovo,qui, altro elemento di critica allo strutturalismo, di cui prima non ho par-lato: la sua pretesa scientifica, la riduzione dell’opera d’arte a struttura dadescrivere. Mentre la critica è un’ermeneutica, non una scienza. Possiedeun’attrezzatura e un rigore scientifici, come la psicanalisi e la storia, ma, alivello interpretativo, non ha possibilità di verifiche oggettive. E la com-ponente soggettiva, puramente ermeneutica, è fondamentale. Di qui lamia polemica contro la tendenza a ridurre la critica ad una serie di sche-mi descrittivi, senza arrivare mai all’interpretazione diretta del testo. Infin dei conti si tratta di riproporre la questione benjaminiana del rappor-to necessario fra commento ed interpretazione, contenuto di fatto e con-tenuto di verità.

In Insegnare la letteratura oggi lei riflette anche sul fatto che per i giova-ni “il linguaggio della letteratura” è ormai un “linguaggio estraneo e addirit-tura straniero”. Il modo con cui molti, nell’insegnamento della letteratura,tendono spontaneamente a colmare questa distanza, è quello di proporre airagazzi testi letterari, che non soltanto presentino loro contenuti legati allacondizione della gioventù di oggi, temi e modi di pensare in cui gli studentipossano ‘ritrovarsi’, ma anche che assorbano, o che siano in parte improntati,

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ai cosiddetti ‘nuovi linguaggi’ (il linguaggio dell’immagine televisiva, del vi-deoclip, della comunicazione giovanile e così via). In effetti la quotidianaesperienza di insegnamento mostra come l’assunzione di questo tipo di testirisvegli nei ragazzi l’interesse, la volontà di partecipazione alla lettura. Nellostesso tempo non si può sfuggire al sospetto che si corra il rischio, così, di con-fermarli nella dimensione che essi vivono quotidianamente. Esiste a suo pare-re un modo per trovare un equilibrio fra queste due esigenze? Per non far per-cepire agli studenti la letteratura come qualcosa di totalmente distante dalleloro vite, ma allo stesso tempo per cercare di comunicar loro la complessità, sesi vuole la differenza – per utilizzare un vecchio concetto – del linguaggio let-terario, la sua capacità di veicolare significati, modelli, e anche una forma dipiacere, sempre più sconosciuti ai ragazzi e alla contemporaneità in genere?

Per quanto riguarda i metodi, io sono sempre stato d’accordo conl’utilizzare a scuola canzonette, video, o quant’altro si ritenga utile persollecitare l’attenzione degli studenti. Si tratta, però, pur sempre di mezzi.Deve essere chiaro che il fine dell’insegnamento è in realtà far conoscereed apprezzare la letteratura, quella italiana e quella europea, poiché attra-verso di esse passa l’identità culturale del nostro popolo. Per quanto ri-guarda i contenuti, sono contrario egualmente sia ad ogni posizione dog-matica, sia ad ogni posizione nichilista sul canone. Quest’ultima è moltodiffusa in Italia, fra i miei colleghi, e si basa sulla convinzione che il cano-ne non sia necessario, che a scuola il professore possa leggere qualsiasi te-sto. Non sono d’accordo, il professore non può proporre le poesie del vi-cino di casa, o le poesie del poeta locale, più o meno improvvisato. Primadi tutto perché si tratta di una cultura non ‘spendibile’ sul mercato cultu-rale e professionale. Cosa serve ad un ragazzo conoscere le poesie dialetta-li del Salento ed ignorare Montale e Leopardi, o, che so, Shakespeare? Sitratta di uno snobismo inaccettabile. Sono però contrario anche alla posi-zione opposta, cioè all’idea alla Bloom che il canone occidentale sia inva-riabile e determinato una volta per tutte. Questa posizione non tieneconto del fatto che il canone cambia, viene ridiscusso e ri-negoziato inin-terrottamente; ed uno dei luoghi dove lo si fa è appunto la scuola. Adesempio: fino a vent’anni fa era obbligatorio preparare Fogazzaro perl’esame di stato. Non c’è stato mai nessuno che abbia detto “Basta, Fogaz-zaro non va più considerato”, ma nei fatti nessuno oggi lo porta più; alsuo posto si prepara Svevo, o altri autori del Novecento. Lo stesso dicasiper Carducci: è ancora nei programmi, ma è molto meno studiato. Vi èinsomma un processo di lento, graduale cambiamento del canone, che la

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scuola per un verso registra e per un altro incoraggia. Il canone insommalo si rinegozia anche attraverso il confronto con gli studenti: Manzoni (siparla del biennio delle superiori) probabilmente per questo non è più ob-bligatorio.

Nella recente presentazione al libro di Giovanni Jervis, Contro il relativi-smo, lei ha tracciato un’interessante distinzione fra relativismo e nichilismo.Ha sostenuto che il primo muove dalla consapevolezza della parzialità diogni posizione. Mi sembra molto interessante quest’idea della coscienza delproprio essere ‘parte’, o se si vuole ‘di parte’, la quale implica, evidentemente,anche l’idea del ‘sentirsi parte di’, del sentirsi coinvolti, e deriva dalla sua at-tenzione al pensiero ermeneutico, alle filosofie del dialogo. Eppure quello chelei ha definito il “nichilismo morbido” espresso da certa cultura postmoderna,e contro cui ha polemizzato, sembra aver concesso spazio alla molteplicità del-le prospettive, delle differenze. In che cosa differisce questo orizzonte rispetto aquello da lei suggerito? Ed in relazione al suo modello, non c’è forse contrad-dizione fra l’attitudine relativista che implica il costante tener presente laparzialità della propria angolazione, e l’esito naturalmente inscritto nella di-namica del ‘conflitto’, che prevede l’affermarsi di una sola delle posizioni?

Quella del nichilismo morbido, se si vuole usare quest’espressione,molto di moda negli anni Ottanta, non è una posizione relativistica, mapiuttosto, come dice il nome, nichilista. Si fonda sulla convinzione chenon ci sia nessuna verità. La mia tesi, invece, è che esista un conflitto del-le verità, dove il termine verità è da intendere, evidentemente, in sensoermeneutico, e non dogmatico o ontologico. La visione particolare che èfatta propria e circola all’interno di un gruppo sociale, costituisce certa-mente una posizione parziale, ma, per quel gruppo, rappresenta una ve-rità; una verità relativa, che evidentemente differisce da quella di altrisoggetti sociali, ma comunque una verità; si è dunque in presenza di unriconoscimento di valori. Il nichilismo morbido si basa invece su unaconcezione decostruzionista fortemente contraria all’idea dell’affermazio-ne di valori anche parziali. È vero, il postmoderno tiene conto della mol-teplicità delle posizioni, ma, nel quadro di tale molteplicità, ogni lettura èugualmente giusta ed ugualmente sbagliata. Facciamo un esempio: il con-cetto del misreading, cioè della lettura necessariamente sbagliata di ogniopera d’arte, in realtà è molto pericoloso proprio perché presuppone chetutte le letture siano sbagliate come giuste. E questo non è vero (un pro-fessore a scuola lo vede benissimo): esistono letture che non possono esse-

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re ammesse, e non tanto per una questione scientifica, quanto per motivideontologici: se per strada alla domanda “dove vai” mi si risponde “soncipolle”, la mia risposta è sbagliata. Se dunque qualcuno legge il senso“oggi piove” in un testo in cui apertamente si dice che oggi c’è il sole,questa risposta non è accettabile: esiste una verità relativa di quel testo. Sipuò poi discutere se “oggi c’è il sole” venga detto nel testo con malinco-nia o con rabbia, con ironia o con gioia – questo fa parte del conflittodelle interpretazioni –, ma non si può negare la materialità immediata delsenso del testo. Se si mette in discussione questo, si tolgono le radici allaconversazione umana, al dialogo fra gli uomini. Il dialogo presupponeuna possibilità di intesa, per cui se qualcuno dice “porta” tutti capiscono“porta”. Ricorda la famosa discussione fra Derrida e Gadamer? Il primorimproverava al secondo di presupporre ancora la possibilità dell’esistenzadi un senso, e Gadamer gli rispondeva: “però tu vuoi essere inteso”. Sipuò decostruire il senso quanto si vuole, ma non si può negare che allabase di questa stessa operazione ci sia una pretesa di essere compresi e unavolontà di comunicazione. In più non sono convinto che l’esito naturaledel conflitto sia l’affermazione, la vittoria di una sola posizione. In Il dia-logo e il conflitto sostengo che il modello del conflitto fra le diverse tesi in-nesca un procedimento a spirale. E non parlo tanto di un meccanismodialettico, che preveda il realizzarsi di una sintesi capace di superare edannullare la tesi e l’antitesi contrapposte. Mi riferisco invece ad una dina-mica in cui di volta in volta si crea un nuovo livello diciamo così di ‘ve-rità’, a partire dal quale il conflitto delle interpretazioni rinasce; conflittoche, dunque, non si conclude mai con la vittoria di una delle due o dellevarie parti. Esso è inseparabile dal procedimento ermeneutico, dalla pro-duzione sociale di senso. Il critico produce del senso, e questo senso èmesso in circolo e discusso. Per tornare alla figura di Gramsci, cui ci sia-mo richiamati in precedenza, devo riconoscere che la mia affermazionesull’importanza dell’essere di parte è certo un debito gramsciano. Devomolto a Gramsci per questa riflessione sulla parzialità e sulla esigenza diesibire la propria parzialità.

E se le si proponesse di sostituire il termine parzialità con quello di pro-spetticità, in riferimento alla visione del soggetto dei filosofi alla base dellasvolta linguistica: Heidegger, Nietzsche, secondo i quali il soggetto è sempre si-tuazionato, non può sottrarsi alla sua prospettiva di visione del mondo, deter-minata appunto dal linguaggio?

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A venir meno, nella visione heideggeriana, è quell’ontologia dell’esseresociale, come la chiama l’ultimo Lukács, che a mio avviso è l’unica onto-logia possibile. Se invece si vede il soggetto come un’entità completamen-te isolata, si ha sì una situazione prospettica, ma al di fuori di ogni dina-mica sociale. E su questo non posso proprio concordare.

Ne L’allegoria del moderno lei ha parlato della critica allegorica come diun modello in cui (cito il passo in cui si riferisce direttamente a Benjamin)“un’immagine del tutto viene fornita a partire dalla scelta di una costellazio-ne particolare, dal gesto parziale di chi si assume la responsabilità di indicar-la fra le altre strappandola dai legami vitali che la uniscono al contesto”;dunque della scommessa interpretativa di chi sceglie un collegamento virtuale(come lo è la costellazione nei confronti delle stelle) fra quei dati oggettivi chesono i ricordi pietrificati e sottratti al continuum storico. In generale, potreb-be ricostruire i motivi che l’hanno portata a formulare la sua proposta legataalla dimensione dell’allegoria?

Il principale motivo di interesse per il metodo allegorico è legato pro-prio al suo carattere relativo, parziale. Esso afferma una verità nella consa-pevolezza della non coincidenza con la verità assoluta. Se il simbolo pre-suppone la convergenza di particolare ed universale, l’allegoria invece pre-suppone la loro scissione. E qualsiasi verità si pronunci, lo si fa sapendoche è una verità parziale, consapevoli che siamo noi ad attribuire un sensosempre particolare. Non si tratta, dunque, di un senso che nasce dallarealtà, grazie ad una non meglio definita dinamica secondo la quale ilmondo, unendosi simbolicamente a me, sprigiona un significato. Sono ioche, partendo da dei dati reali, attribuisco loro un significato attraversoun atto che è puramente interpretativo. Il tentativo di dare senso ad unpercorso storico coincide in qualche modo con un’attribuzione di sensodi tipo allegorico. I fatti stanno lì, si tratta di stabilire fra loro un collega-mento, di leggervi, allegoricamente, un disegno virtuale. Le stelle ci sono,ma si tratta di vedervi una costellazione, diceva Benjamin, e ogni popolotraccia costellazioni dotate di senso diverso. Il grande carro può diventarel’Orsa o, in Nord America, il Cucchiaio…

Lei sostiene che non può esistere critica letteraria senza ideologia, intesacome prospettiva, proposta interpretativa della realtà, diciamo visione delmondo, entro la quale il critico inscrive la sua lettura. Una visione del mon-do che, naturalmente, deve essere conscia della propria parzialità. Mi sembra

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di capire che secondo lei la mortificazione del ruolo attuale della critica trovauna delle sue ragioni principali nel venir meno dell’ideologia intesa in questosenso. È così? Ed è forse così anche per la letteratura? Mi riferisco anche allapolemica sviluppatasi sulle pagine dell’Unità, in seguito alla pubblicazionedel suo articolo che criticava profondamente il panorama culturale e lettera-rio italiano degli ultimi anni. La vera letteratura si ha soltanto quando sisente la necessità di portare avanti una visione delle cose, di esprimerla attra-verso le opere?

Ormai da una quindicina d’anni, a partire dal libro di Segre che la de-nunciò, si parla sempre più diffusamente di una condizione di “crisi dellacritica”. Io ritengo che questa difficoltà della critica sia legata innanzituttoalla crisi dell’intellettuale. Quest’ultimo ha perso, ormai, la sua funzionelegislativa, il suo ruolo sociale, ed il critico si è sempre più ridotto a dueambiti: il primo è quello del filologo, che non giudica, ma commenta edisossa le opere, tutto interno ad una visione oggettivistica e scientificadella critica. Si tratta del critico con il camice bianco ed i guanti di latti-ce, che ‘fa il proprio mestiere’, il mestiere che la società gli riconosce – va-le a dire quello di addetto alla manutenzione dei testi – senza intervenirenel merito. Il secondo, molto in auge negli anni Novanta, ed oggi fortu-natamente un po’ in crisi, è quello della critica en artiste, della critica nar-cisistica nata dall’idea tipicamente postmoderna secondo la quale non esi-ste più confine fra le discipline: la filosofia si letteraturizza, l’antropologiasi letteraturizza, la letteratura sparisce ma nello stesso tempo tutto diventaletteratura. Il critico utilizza la critica come pretesto per fare della scrittu-ra originale o ‘creativa’, rinunciando così ad enucleare il contenuto di ve-rità di un’opera. Un simile critico non ha più una militanza, una ragionedi scrivere rivolta all’ordine sociale. Lo svuotamento della funzione del-l’intellettuale che si manifesta, nell’ambito della critica letteraria, attraver-so queste due modalità, ha collaborato a parte subiecti ad una crisi dellacritica in realtà già in atto per ragioni che agivano a parte obiecti, per ra-gioni storiche oggettive. Le cose sono differenti per la letteratura. Per scri-vere una grande opera letteraria non bisogna essere impegnati; io nonl’ho mai pensato e questa è stata anche una delle ragioni della mia estra-neità al pensiero lukácsiano. La letteratura non deve necessariamente por-tare avanti una certa visione del mondo. La ragione per cui negli ultimitrent’anni si è abbassato il livello medio della produzione letteraria èl’incapacità degli scrittori, evidentissima in Italia, di confrontarsi con imassimi problemi della società italiana e mondiale. Se prendiamo le ope-

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re della narrativa americana recente, ad esempio un capolavoro come Pa-storale americana o un testo come Carne e sangue di Cunningham, notia-mo che si tratta di romanzi quasi balzachiani, che esprimono la volontàdi un confronto profondo con la realtà. Sono grandi opere d’arte, e con-temporaneamente romanzi in grado di fornire una rappresentazione dellarealtà. In Italia tutto ciò manca completamente (per quanto qualcosa diinteressante stia forse cominciando a emergere fra i giovani). C’è da noi,infatti, una situazione fortemente asfittica, che fortunatamente si registrameno nella poesia lirica. Quest’ultima regge, tuttora, in Italia, prima ditutto per la forte tradizione che ha alle spalle (tradizione assente, invece,nella grande narrativa), e poi perché vive nella clandestinità, in una estra-neità al mercato che in parte la protegge.

In questo senso, qual è a suo parere la relazione che con il proprio periodostorico stabiliscono, intendono o riescono a stabilire gli autori delle nuove ge-nerazioni? In un recente saggio Antonio Scurati ha sostenuto che gli scrittoridevono fare i conti con la dimensione dell’inesperienza, vale dire l’im pos si bi -li tà di scrivere in rapporto alla realtà, o meglio, più alla radice, di percepirela realtà come un insieme di esperienze effettive, che divengano il contenutodella propria narrazione. Esiste ancora la possibilità di una letteratura chestabilisca con l’epoca in cui sorge quel rapporto doppio per cui essa è allo stessotempo espressione di una fase della cultura umana, e, in qualche modo,espressione del suo superamento, cioè, in quanto avanguardia del pensiero col-lettivo, anticipazione, indicazione della nuova direzione della storia?

Pochi mesi fa ho partecipato a un’iniziativa, a Macerata, in cui sonostate presentate le opere di giovani autori. Anche lì ho avuto l’ulterioreconferma di un’impressione che già mi ero fatto, e cioè che stia nascendoqualcosa di nuovo, non solo nella produzione dei più giovani, ma anchefra gli autori più anziani. Questo, io credo, in conseguenza alla mutata si-tuazione del mondo; in uno dei miei ultimi libri parlo di fine del post-moderno (o come lo si vuole chiamare, non ne ho mai fatto una questio-ne terminologica), sostenendo che una certa maniera di concepire la let-teratura come manierismo, citazionismo, meta-letteratura, ironia, interte-stualità infinita è entrata in crisi, e per una ragione molto chiara: quandoti casca una bomba sulla testa è difficile dire che esiste solo il linguaggio.L’idea del primum linguistico, che accompagnava la teoria della fine dellastoria e delle contraddizioni, è entrata in crisi. Da una decina d’anni si as-siste infatti ad un ritorno forte delle contraddizioni: si pensi soltanto al

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precariato lavorativo, ma più in generale alla precarietà della vita, soprat-tutto dei giovani. E forse è per questo che, rispetto a dieci anni fa, i gio-vani danno l’impressione di essere oggi più politicizzati di prima, anchese assai confusamente (penso ai miei dottorandi, ad esempio, che trovoiperpoliticizzati). Un tempo si diceva che cambiare di continuo il lavoroera qualcosa di positivo, anzi qualcuno sosteneva che questo fatto rappre-sentava l’anticipazione del comunismo (penso alle posizioni di Autono-mia Operaia: uno oggi fa il pescatore, domani scrive una poesia…); maoggi, di fronte al precariato, nessuno potrebbe dire una cosa del genere.Se a ciò si aggiungono le guerre, l’immigrazione in massa delle popolazio-ni dell’Est e del Sud del mondo, il rischio degli attentati, diventa difficilesostenere posizioni da ‘ilare nichilismo’. Questi giovani non ne voglionosapere dei padri, e neppure dei fratelli maggiori. In narrativa una delle co-se più interessanti degli ultimi tre o quattro anni è il libro di BalestriniSandokan che narra di un fatto concreto, la camorra; ma si pensi ancheall’interessantissima evoluzione di Nove, che prima era un ‘cannibale’. Èvero che c’è anche una maturazione personale, legata a fattori d’età, mapersino Ammaniti, che trovo molto più discutibile, è passato dal descrive-re stupri, vomiti etc. a un romanzo come Io non ho paura, che restituiscepur sempre al lettore un’immagine dell’Italia. Vedo dunque una possibi-lità di evoluzione. È vero che è sempre più difficile fare esperienza, maquesto già lo registrava Flaubert: l’Educazione sentimentale è un romanzoche nega l’esperienza. Eppure c’è un elemento materiale che è difficileabolire dalla vita. E oggi più di ieri. In una situazione come quindici annifa potevamo presupporre che il nostro occidente ci proteggesse, che que-sto mondo senza esperienza potesse durare, oggi non lo si può più crede-re, o è sempre più difficile crederlo.

Rispetto a ciò, io sono dell’idea che nel dibattito sulla condizione attualedella letteratura si stia un po’ poco attenti alla figura del lettore. Mi viene dachiedermi se oggi si cerchi ancora nei romanzi quella condizione di pienezzadi senso e di densità esistenziale che da sempre si è individuato nei loro perso-naggi e nelle loro vicende. La proiezione che si esprime nel “vorrei che la miavita fosse così”, nell’aspirare a possedere, cioè, un simile grado di plenitudine,di realizzazione, trova sempre di più il proprio ambito di investimento nell’e-sistenza reale (o meglio nella proiezione immaginaria dell’esistenza reale),anziché nell’arte. Le società occidentali propongono agli individui il miraggiodi una vita che si fonda sull’inesausto rinnovamento, sul continuo riproporsi

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di nuove possibilità, di nuove direzioni esistenziali. L’immagine che un tem-po il soggetto aveva del proprio percorso biografico, quella di un tracciato uni-co, i cui sviluppi futuri, nei loro termini generali, fossero in qualche misuragià segnati, è stata sostituita dalla convinzione indotta che la propria esisten-za sia definita da un serie di ripetute occasioni di rigenerazione dell’Io, siafatta da una serie continua di nuovi inizi, di prospettive di realizzazione chenon cessano di riproporsi. Come la ‘promessa’ del romanzo può competere conquesto miraggio, il cui contenuto sembra essere, in definitiva, l’abbattimentodei limiti dell’individuo?

Di primo acchito mi verrebbe da pensare questo: noi viviamo in unasocietà che Fortini chiamava del surrealismo di massa, dove si potenzianole facoltà oniriche a scapito di quelle razionali. Una società in cui sostan-zialmente, per riprendere un’espressione usata ancora da Fortini, “si vivecome drogati”, come se non esistesse più la memoria storica, e come se cisi cibasse di epifanie. Lei dice che questo modo di vivere dà l’illusione diun’infinita possibilità di rigenerazione delle possibilità esistenziali… Chequesta sia un’illusione diffusa è innegabile, che corrisponda alla realtà noncredo. I ragazzi, oggi, vivono assieme ai loro genitori sino a quaranta an-ni, sono degli eterni adolescenti e rischiano di non diventare mai adulti,perché non hanno la possibilità materiale di crearsi una vita propria, nonviene data loro la possibilità di farsi un mestiere e di diventare adulti. Ioho lavorato, vissuto e guadagnato da solo dall’età di ventitre anni. Quantisono quelli che oggi possono permettersi questo? Credo pochi. Ripeto, amio modo di vedere quell’ampliamento delle possibilità esistenziali cui leifaceva riferimento è più che altro un’illusione. Si torna al discorso fattoprima: si può forse credere che tutto sia linguaggio e illusione, ma quan-do ti casca una bomba sulla testa, le illusioni crollano e resta la realtà. Chiguadagna, e per dieci-quindici anni continua a guadagnare, poco più di500 euro al mese, è costretto ad interrogarsi su questo fatto. Per cui mirendo conto che esiste, sì, questa ideologia, e può essere vero che abbiaanche un certo scintillio, un certo potere d’attrazione; io, però, credomolto nella materialità nuda e cruda dei fatti, e penso che, alla lunga, ladatità delle condizioni materiali venga fuori. Quest’illusione sostituisce leproiezioni immaginarie che erano suscitate un tempo dalla lettura dei ro-manzi? È probabile. Anche in questo caso, però, resta il fatto che la lette-ratura americana, che sorge in quella società in cui questa illusione è piùforte, rappresenta duramente e amaramente la realtà dei fatti. Pensi all’ag-ghiacciante conclusione di Pastorale americana. Bisogna forse tener conto

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anche di un elemento di profondo provincialismo culturale dell’Italia: noisiamo più americani degli americani; e niente, mi creda, è peggio degliamericanizzati. Ritornando a Gramsci, si pensi a quanto è conosciuto econtinuamente citato in America. Da noi non se ne parla più, invece.L’anno scorso, quando ho insegnato a Toronto, sono arrivato che si stavatenendo un convegno su Gramsci. Quanto tempo è che in Italia unagrande università non organizza un convegno su Gramsci? C’è qualcosanel comportamento di molti italiani di zelante, qualcosa che è proprio deiparvenus, per questo gli italiani vogliono essere più americani degli ameri-cani. In conclusione: la situazione storica cambia il comportamento degliindividui, e il riferimento alla storia è fondamentale per cercare di capirequello che succede. È più importante la materialità dei dati di fatto, chenon il condizionamento, alla Baudrillard, degli effetti ideologici, innega-bilmente presenti, della società dei consumi e della comunicazione. Que-sti effetti esistono, e, finché le cose vanno così, continueranno a influen-zare l’umanità; però poi l’uomo rimane un essere che nasce, si ammala,muore in certe precise condizioni materiali. Oltre un certo grado nonsarà più possibile ignorarle, queste condizioni. Il romanzo si salverà o de-perirà a seconda che questa capacità di mimesis si realizzi oppure vengaancora accantonata.

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