Voglia di vincere - Tom Bissell - Appendice

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L'intervista a Sir Peter Molyneux, appendice al libro di Tom Bissell, Voglia di vincere

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APPENDICE: INTERVISTA CON SIR PETER MOLYNEUX

Qualunque appassionato di videogiochi avrà probabilmente un elen-co di titoli di cui avrebbe voluto che io parlassi in questo libro. Guarda caso, anch’io ne ho uno. Fra i giochi che ho trattato ma che poi ho finito per tagliare ci sono Shadow of the Colossus, Half-Life 2 e Assassin’s Creed, mentre fra i giochi che avrei voluto trattare ma non ho trovato il modo di farlo ci sono Indigo Prophecy, Ico, Perfect Dark, Mirror’s Edge ed Eternal Sonata. (Per non parlare di alcu-ni giochi meravigliosi ai quali ho giocato dopo aver terminato il li-bro, tra cui Dead Space della ea e Uncharted: Drake’s Fortune della Naughty Dog.)1 Due dei giochi di cui ero più impaziente di parla-re prima di iniziare il libro erano Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots di Hideo Kojima e Fable ii della Lionhead ed entrambi, ahi-mè, compaiono in Voglia di vincere solo di sfuggita.Ho prodotto molte pagine di appunti e osservazioni su entrambi i giochi e passato due serate davvero piacevoli con la critica di video-giochi Leigh Alexander – la più grande esperta di Hideo Kojima nel mondo occidentale – a giocare a Metal Gear Solid 4, un’opera grafi-camente bellissima e dalla meccanica incredibilmente complessa,

1 Per non parlare di alcuni giochi meravigliosi ai quali ho giocato dopo aver inserito questa nota, e così via.

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che allo stesso tempo conserva un’estetica volutamente retrò (per non parlare delle sue molte bizzarrie ai limiti del lisergico, tra cui una scimmia che fuma indossando un pannolino di lamé argentato). L’interpretazione di MGS 4 della Alexander è così geniale che, men-tre me la esponeva, il mio iniziale cipiglio scettico ha lasciato spa-zio a una bocca spalancata e molti cenni d’assenso assolutamente convinti. Purtroppo, per ammissione della stessa Alexander, la sto-ria raccontata nella serie Metal Gear Solid è «incomprensibile» per chiunque non sia completamente addentro al suo mondo, e cercare di riassumere qui quella storia sarebbe un po’ come voler racchiu-dere Guerra e pace in una sola pagina. Il paragrafo seguente dunque, tratto dalla mia intervista con la Alexander, è solo per cinture mar-roni di Metal Gear Solid o superiori:

alexander: Non considero il gioco esclusivamente metaforico ma credo ci sia un sottotesto intenzionale, e cioè il viaggio del game de-signer la cui metodologia è ormai superata. Dopo Metal Gear Solid 3, Kojima aveva detto: «Non voglio fare altri Metal Gear». Ma poi è ar-rivata la PS3 e sembrava lo strumento giusto per consentire a Kojima di realizzare appieno la sua visione. Devi pensare che Kojima in Giappone è un eroe nazionale e Sony, che è giapponese, l’ha contat-tato e gli ha detto: «Davvero vuoi fermarti proprio ora che potresti realizzare il gioco stealth definitivo su quest’hardware avanzatissi-mo?». E così ecco Snake, un uomo che non si considera un eroe, al-le prese con un’ultima missione, e ciò che la renderà possibile è la tecnologia. Ma le promesse della tecnologia sono lontane dagli uo-mini e finiscono sempre per deludere, e Kojima stesso ha più o me-no affermato che la PS3 non si è rivelata all’altezza delle promesse. In Metal Gear Solid 4, poi, Snake è anziano. Il giocatore è delibe-ratamente portato a compatire quest’uomo, che una volta era forte e inarrestabile e che ora è soltanto una cariatide. Lo stile cinemato-grafico del gioco – anche se sei uno di quelli che detesta le sue epi-che cut scene – finisce per generare un’incredibile empatia per que-sto vecchio, messo costantemente in ombra da gente più giovane e veloce di lui, come Johnny. Quando alla fine del gioco si mette con Meryl, Johnny inizia a somigliare visivamente a Snake da giovane, perfino nel mullet! Il sottotesto è ovvio: a Meryl piace Johnny perché

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le ricorda un giovane Snake. Io credo che questa sia la concessio-ne che Kojima fa agli sviluppatori occidentali che l’hanno messo in ombra. C’è questo giovanotto biondo e stupido che è sempre stato un buono a nulla e ora invece è lui a conquistare la ragazza. E qual è l’aspetto più interessante di Johnny? Che non è stato corrotto dal-la promessa di una nuova tecnologia. Era stupido, ma puro. E quin-di Kojima prende questo buffone e ci dice: «Wow, lo sciocco ragazzo bianco aveva capito tutto fin dall’inizio e ora comanda lui». La guer-ra all’interno del gioco è la guerra delle console.

Visto che non avrei saputo dirlo meglio e visto che ammiro Metal Gear Solid 4 più di quanto mi diverta a giocarci, mi sono reso con-to che non c’era modo migliore, per parlarne, che riportare l’anali-si estremamente persuasiva della Alexander a proposito del suo si-gnificato.

Ho avuto un problema simile con Fable ii, un altro gioco che am-miro in modo tanto profondo quanto sincero. Quando è arrivato il mo-mento di scriverne, tuttavia, mi sono bloccato. Non sono mai riusci-to a trovare un buon punto di vista dal quale analizzare i giochi per i quali provo principalmente ammirazione. E il caso di Fable ii è sta-to particolarmente doloroso perché il suo leggendario designer, Sir Peter Molyneux, era stato tanto gentile da concedermi un’intervista durante la Game Developers Conference del 2009 a San Francisco.

Fable ii è un rpg fantasy open-world che al suo interno ti permet-te di svolgere missioni, posare per una scultura, unirti in matrimo-nio, avere dei bambini, unirti in matrimonio gay, mettere le corna a tua moglie, usare un preservativo, contrarre malattie sessualmen-te trasmissibili, ingrassare, dimagrire, avere un cane, trovare teso-ri, comprare case, insegnare trucchetti al tuo cane, giocare d’azzar-do, lavorare come barista, fare a botte, imparare incantesimi, pagare bardi perché cantino le tue gesta in poemi epici, tagliare la legna, decorare la casa, salvare il mondo e uccidere un amico. Il rifiuto da parte di Fable ii di piegarsi ai cliché dei videogiochi (il combatti-mento finale con il boss si risolve nella maniera più rapida e ina-spettata di tutti i tempi), la sua malizia (raramente, in un gioco con una meccanica di comportamento «buono-cattivo», l’essere cattivi è stato tanto divertente e libero dai sensi di colpa) e il suo senso dello

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humor («Ehi» mi ha risposto un’aristocratica quando il mio perso-naggio donna le ha fatto avances sessuali «era dai tempi dell’uni-versità che non facevo più cose del genere!») lo rendono, senza al-cun dubbio, un’opera di squisita raffinatezza formale: affermazione bizzarra da fare a proposito di un videogioco che utilizza una carto-onesca «ruota delle espressioni» per gestire le interazioni tra i per-sonaggi. Per farla breve, quando vuoi parlare con qualcuno in Fable ii, tieni premuto un pulsante che richiama la ruota delle espressioni, selezioni quale «emozione» vuoi comunicare (felicità, aggressività, giocosità, amorevolezza) e poi selezioni un’espressione particolare di quell’emozione (ridere, flettere i muscoli, scoreggiare, fare gli oc-chi dolci). La comunicazione in Fable ii è dunque per lo più gestua-le, una soluzione davvero audace se pensiamo alle difficoltà che i vi-deogiochi hanno sempre incontrato nell’usare i gesti come elemento significativo dell’esperienza di gioco.

Non so dire con certezza cosa mi abbia impedito di amare Fable ii incondizionatamente come invece è successo con altri giochi senz’al-tro meno ammirevoli. Quando sono andato a intervistare Molyneux – una delle persone più deliziose e intelligenti che mi sia capitato di incontrare durante le mie ricerche per questo libro – speravo in un certo senso di ottenere una risposta. Non sono sicuro di averla avu-ta. Però ho scoperto questo: la reputazione di Molyneaux, considera-to uno dei pochi geni indiscussi del game design, non è affatto esa-gerata; semmai il contrario.

Quella che segue è una trascrizione leggermente ridotta della no-stra conversazione.

tcb: In fiera stamattina giocavo a Resident Evil 5 e ho pensato mol-to ai vantaggi e gli svantaggi della rappresentazione fotorealistica – ovvero i problemi e le soluzioni che il fotorealismo reca ai videogio-chi – e ho capito che uno dei molti aspetti che mi infastidiscono di Resident Evil 5 è che la qualità della rappresentazione grafica è in contrasto con l’esito cartoonesco che ottieni quando spari alla gen-te, che poi è il fulcro del gioco. I nemici volano per aria come i per-sonaggi dei Looney Tunes. Poi ho pensato a Fable ii, che dal punto di vista della rappresentazione è un gioco realistico – un realismo da libro di fiabe, direi – ma che ha anche una ruota delle espressioni

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meravigliosamente improbabile. In qualche modo, però, il gamer non percepisce mai lo stesso tipo di dissonanza. Puoi raccontarmi come avete fatto a bilanciare i due aspetti?

molyneux: Quando abbiamo iniziato con la serie Fable ci siamo guar-dati attorno per cercare uno stile grafico che non fosse troppo detta-gliato. Non sono soltanto i pixel sullo schermo: come dici tu, è l’ani-mazione, è la parlata, sono i tempi, i combattimenti; tutte queste cose devono contribuire al risultato finale. Siamo molto vicini al re-alismo, ma per qualche strano motivo, più ci avviciniamo e più ne siamo lontani. Quindi la fonte di ispirazione visiva scelta per il pri-mo Fable è stato Il mistero di Sleepy Hollow di Tim Burton, che ave-va lo stesso equilibrio che cercavamo noi. È quasi astratto; i colori sono un po’ più brillanti di quelli reali. Credo che, inconsciamente, questo ti trattenga dal pensare: Ehi, le sopracciglia di quel personag-gio non si muovono come dovrebbero. Quando siamo arrivati a Fable ii, ci siamo di nuovo guardati attorno per cercare di cambiare qual-cosa di quello stile grafico, ma non troppo. Abbiamo scelto un film dal titolo Il patto dei lupi. Di nuovo, lo guardi e pensi che probabil-mente è un luogo dove non capiterai mai, ma si avvicina abbastan-za alla realtà da non farti sentire alienato.

tcb: Quindi tu sei d’accordo con l’idea che se il realismo è l’obietti-vo, diventa anche un problema?

molyneux: Assolutamente sì. Se davvero punti a raggiungere un realismo autentico, devi vedertela, in definitiva, con la cosiddet-ta programmazione neurolinguistica. Ci sono centinaia di migliaia di minuscoli messaggi che la nostra mente coglie dai volti, dall’am-biente, dall’illuminazione, dall’ora del giorno, dalla quantità di pol-vere nell’aria, che ci danno, nel migliore dei casi, una sensazione di realtà. E per quanto nei videogiochi stiamo facendo passi avan-ti verso quel traguardo – e non ho dubbi che ci arriveremo – siamo ancora parecchio lontani. Alcuni la chiamano Zona Perturbante. Io non credo esista una Zona Perturbante se scegli il palcoscenico giu-sto. Se scegli il palcoscenico sbagliato... è come cercare di mettere in piedi un’opera di Shakespeare usando dei gatti come attori. Non

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può funzionare. Un fatto di cui bisogna sempre tener conto è che i videogiochi sono realizzati da persone che sono innanzitutto dei programmatori. All’industria del cinema o della televisione, o al te-atro, sono serviti interi decenni prima di aggiustare il tiro. Il pro-blema che abbiamo avuto con Fable ii, ed è un problema comune a tanti giochi, è che prima di arrivare alla «storia» devi aspettare, perché c’è tutta una parte tecnologica che va creata. Bisogna cre-are il motore per gli script, gli ambienti, le meccaniche di gioco, i controlli... tu continui per la tua strada e tutta quella roba probabil-mente sarà finita soltanto due mesi prima della consegna. Be’, in-dovina un po’? È a quel punto che puoi cominciare a revisionare la storia, ma il tempo non è mai abbastanza.

tcb: È un processo strano.

molyneux: È un processo molto strano. È un po’ come girare un film e usare il 90 percento del tempo per realizzare il set e il 10 percen-to per filmare. Nei film viene girato un mucchio di materiale che poi viene tagliato. Con Fable ii abbiamo innanzitutto capito che non era-vamo capaci di raccontare una storia. Poi abbiamo trovato un regi-sta disposto a raccontarci come organizzare una messa in scena. Ci ha detto più o meno questo: avete una sceneggiatura; avete degli at-tori; capite come posizionarli, quali saranno i loro movimenti, come si comporteranno e dove succederanno determinate cose. Abbiamo affittato uno studio, un posto di nome Shepperton; siamo entrati in questa immensa sala bianca, abbiamo posizionato gli attori, gli ab-biamo dato la sceneggiatura, ci siamo seduti e abbiamo guardato il regista dirigere la scena. E, mio dio, che momento incredibile quan-do abbiamo capito che le sfumature che cercavamo di trasmette-re e la carica emotiva che cercavamo di dare ai nostri personaggi erano sostenute solo ed esclusivamente dai dialoghi. Molto di quel-lo che avevamo scritto avrebbe funzionato meglio alla radio che sul-lo schermo. Il regista diceva cose del tipo: «Okay, ora facciamo ve-nire avanti un attore e gli chiediamo: “Cosa faresti se avessi appena sentito questa notizia?”». Guardare gli attori improvvisare ed entra-re nei personaggi è stata un’esperienza incredibile. Abbiamo fatto questo lavoro con l’intera storia, in modo da capire cosa trasmetteva

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prima di implementarla nel gioco. Quello che abbiamo scoperto – cosa incredibilmente vera per tanti videogiochi – è che la sceneg-giatura che avevamo scritto era così prolissa, lenta e ampollosa, che molti dei dialoghi li avremmo potuti stralciare del tutto. Le emozio-ni erano già tutte lì. Non c’era bisogno di ficcarle in gola al pubbli-co a forza. In quanto esseri umani siamo abituati a percepire ciò che stanno pensando le persone che abbiamo di fronte dalla loro gestua-lità; ora noi stiamo usando questa tecnica anche nei giochi e i risul-tati ottenuti finora sono davvero straordinari.

tcb: Quindi l’utilizzo della ruota delle espressioni è il vostro modo di aggirare la necessità di un’enorme mole di dialoghi?

molyneux: La ruota delle espressioni è un modo attraverso cui il gio-catore può esprimere le sue emozioni, ma non è che io ne sia trop-po soddisfatto. Ci si può fare molto, molto di più. Da un lato funzio-na perché elimina la necessità del dialogo; dall’altro non è riuscita a creare il giusto coinvolgimento emotivo ed è risultata un po’ ba-nale. La cosa più bella sono le storie che la gente si crea in testa ri-spetto a quello che succede nel gioco. Ti faccio un esempio. Il gior-nalista che ho incontrato due ore fa mi stava raccontando una cosa che è capitata a lui e sua moglie mentre giocavano a Fable ii e ri-guarda il figlio che avevano avuto nel gioco. Erano stati via per una quest; tornati a casa, stavano per riabbracciare il figlio dopo tanto tempo. E così hanno pensato: «Che espressione dovremmo fare a nostro figlio?». Il figlio diceva «Mamma, mamma, sei a casa! Dove sei stata?». Loro hanno deciso di far ridere il bambino e hanno pro-vato a fare l’espressione del «pupazzetto buffo». Ma si sono incasi-nati, hanno scelto l’espressione sbagliata e hanno tirato un pugno in aria. Il bambino si è spaventato e ha detto: «Mamma, non farmi ma-le!». Ecco, quel momento è stato incredibilmente straziante per lo-ro. Sono queste le volte in cui, secondo me, la ruota delle espressioni funziona, perché permette alla gente di viversi le proprie storie sen-za restare ingabbiati in quello che volevo fare io. E questo per noi è un traguardo straordinario.

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tcb: Io posso dirti che quando ho giocato a Fable ii sono diventato una lasciva lesbica bigama e avevo centinaia di figli, che ho pensa-to bene di abbandonare. Tutti.

molyneux: Fantastico!

tcb: Devo dire che Fable ii è probabilmente il gioco che mi ha fatto ridere di più in assoluto.

molyneux: Oh, grazie.

TCB: All’inizio del gioco, per esempio, rompevo tutte le casse e mi chiedevo perché non contenessero nulla. Poi durante una scherma-ta di caricamento è saltato fuori questo messaggio: «Rompere casse è divertente, ma non crederai mica che qualcuno davvero ci nasconda dentro della roba?». Quando l’ho letto, e ho riso di gusto, mi sono chie-sto: forse è la comicità il prossimo grande filone dei videogiochi?

molyneux: Mi ricordo quella storia delle casse; è buffo che tu l’abbia citata. Durante l’ideazione di un gioco si parla e si discute molto e il caso delle casse è stato particolarmente interessante. Mi ricordo che si diceva: «Be’, nelle casse dobbiamo metterci un sacco di roba». E io ho detto: «Perché dobbiamo mettere un sacco di roba nelle casse? Lo sappiamo tutti che non c’è mai niente nelle casse. Davvero vole-te chiedere alla gente di rompere tutte le casse che riescono a trova-re? Quello non è un gioco. È una noia mortale. Invece facciamoli ri-dere con un’unica frase». Credo sia fantastico che abbia funzionato. E ora mi sono dimenticato la tua domanda.

tcb: È la comicità il prossimo grande filone dei videogiochi?

molyneux: Io credo che sia molto difficile riuscire a far ridere la gen-te con qualsiasi forma di intrattenimento. Quando sei al pub e gio-chi a «Qual è il tuo film preferito?» è facile dire qual è il tuo hor-ror preferito, qual è il tuo film d’azione preferito, ma la commedia? È dura.

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tcb: Per caso sei un fan dei Monty Python?

molyneux: I Monty Python sono fantastici. Penso si noti l’influenza dei Monty Python in Fable.

tcb: Sì.

molyneux: L’umorismo migliore è quello che scopri per caso, come il messaggio delle casse. Spero, se pure esistono dei capisaldi nell’uni-verso di Fable, che l’umorismo sia uno di quelli. Ma la comicità è un genere molto, molto difficile. Noi abbiamo quest’autore, Mark Hill, che è assolutamente, palesemente geniale. Tantissimi dei dialoghi sono opera sua. E poi c’è un altro autore, Richard Bryant, che in re-altà è uno scrittore americano e anche lui ha scritto tantissimi dei dialoghi. Non sono cose che decido io. Non dico: «Okay, questo è divertente quindici, portiamolo a diciassette». Sono cose che queste persone fanno con una naturalezza stupefacente.

tcb: So che tanta gente parla del fatto che Fable e altri giochi preve-dono «scelte morali», ma quello che mi è piaciuto di Fable ii è che sembra voler porre questioni che riguardano temi di scelta morale senza per questo giudicare la scelta morale in sé. Il gioco ti incorag-gia a essere malvagio, o no?

molyneux: Ti tenta a essere malvagio.

tcb: Okay, quindi mi stai dicendo...

molyneux: È quello il tema. La tentazione di essere malvagio. Originariamente, quando ho avuto l’idea di realizzare un gioco che ti permettesse di essere buono o cattivo, mi aspettavo che tutti avreb-bero scelto di essere cattivi. Ma è vero l’opposto. È interessante co-me la percentuale di buoni e cattivi dipenda fortemente dal paese d’origine. Gli americani, cosa che trovo affascinante, hanno la più alta percentuale di buoni.

tcb: Davvero?

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molyneux: Io avrei detto il contrario. Una società per certi versi re-pressa, il sogno americano e tutto il resto. Avrei detto che ci sareb-bero stati un bel po’ di ribelli.

tcb: Vuol dire che crediamo davvero nelle nostre illusioni.

molyneux: Già, ora lo so! Quando abbiamo voluto spingerci più in profondità, abbiamo chiesto a una serie di psicologi i motivi di que-ste tendenze e la loro teoria è stata che, nonostante abbiate questo sogno americano, vi sentite comunque più inibiti dal pensiero: «Be’, non posso cadere in tentazione ed essere malvagio. Sarebbe una co-sa davvero tremenda». Mentre gli inglesi, per esempio, sono molto più disposti a giocare nei panni della lesbica bigama o dell’assassi-no senza scrupoli.

tcb: Una volta nei videogiochi seguivo con grande premura la «ret-ta via» e poi li rigiocavo una seconda volta da cattivo. Ora ho adot-tato uno stile di gioco più imprevedibile perché mi interessa capire come i giochi reagiscono alle mie scelte.

molyneux: Questo credo sia stato un po’ un punto debole di Fable ii. Senti di volerlo rigiocare ma la seconda volta non funziona mai be-ne come la prima. Non ti piace altrettanto. E anzi rigiocarlo rischia di rovinare i ricordi che avevi del gioco e della storia.

tcb: Devo dire che l’unica parte in cui non sono riuscito a comportar-mi «male» è stata la sequenza della Malatorre, che ho trovato davve-ro traumatica. Quando ti viene data la scelta di torturare delle perso-ne o di mettere fine alle sofferenze del tuo amico, io non sono riuscito a fare nessuna delle due cose. Ma sono stato felice che abbiate inse-rito quella roba nel gioco.

molyneux: Quella parte poteva essere molto, molto più violenta, ma abbiamo dovuto attenuare i toni per ovvie ragioni di politically cor-rect. C’è sempre quest’idea secondo cui «Ehi, i buoni non crolla-no mai sotto tortura, non crollano mai sotto pressione» e io volevo

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mettere sotto pressione il giocatore, farlo sentire come se stesse re-almente sacrificando qualcosa.

tcb: Quanto erano reali le conseguenze del non uccidere il tuo ami-co? Voglio dire, so di aver perso dei punti esperienza per non aver-lo ucciso, ma...

molyneux: Hai perso dei punti esperienza, ma in realtà avresti dovu-to perderne molti di più. Lì ce la siamo fatta sotto. A un certo punto c’era una scena davvero straziante: c’era una persona legata a que-sta macchina e ti veniva chiesto di torturarla, usando una serie di strumenti diversi. Lì avrei voluto che il giocatore dicesse: «No, non ce la posso fare».

tcb: Tagliare questa parte è stata una scelta interna o esterna?

molyneux: In quel periodo il mondo era in subbuglio e politicamen-te la tortura era una questione ancora più spinosa del solito, per-ciò abbiamo deciso di tagliarla. Una parte che, secondo me, sareb-be stata davvero interessante se solo l’avessimo fatta un po’ meglio, era quando dovevi implorare pietà, quando il Comandante ti diceva: «Supplica! Supplica ancora!». Io credo che avremmo potuto fare di meglio, perché lì erano solo parole. Non c’era di mezzo la violenza fisica. Quella scena aveva il potenziale per essere molto più inten-sa. Esistono mille film in cui i buoni non implorano mai pietà. Ma quanto devo pressarti per farti arrivare a supplicare?

tcb: Per la cronaca, io ho supplicato subito.

molyneux: E ti sei reso conto di aver perso un po’ di rispetto per te stesso.

tcb: Possiamo tornare alla sequenza della Malatorre? Di solito non mi documento molto sui giochi prima di cimentarmici, perché vo-glio che mi sorprendano, e quindi alla sequenza della Malatorre ci sono arrivato a notte fonda senza avere la minima idea di cosa sta-va per accadere. Vedo sullo schermo questo strepitoso titolo molti

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anni dopo e all’improvviso mi ritrovo ad addestrarmi per diventa-re un soldato malvagio nella Malatorre, senza più tutti i miei incan-tesimi, le mie armi, i vestiti, gli oggetti e, mio dio, mi hanno rasato la testa. Cioè, sono cose che non si vedono nei videogiochi. Mai. Le mie aspettative sono state completamente capovolte. Molti anni do-po? La cosa che ho adorato di più è che mi è sembrata – e questo ti suonerà un po’ pretenzioso – mi è sembrata una scelta estetica dav-vero coraggiosa.

molyneux: Ci sono state infinite discussioni su quella sequenza.

tcb: Ci credo.

molyneux: Ma sì, anche a noi è sembrata così.

tcb: Coraggiosa?

molyneux: Un po’. Avrei voluto che fosse ancora più forte di quello che poi è stata, perché lì il punto era proprio di sovvertire il ritmo della storia. Eri riuscito a trovare Hammer, avevi superato l’Arena e ti sentivi questo grande, tostissimo eroe. E io volevo toglierti tutto e dire: «Aspetta un attimo. Non sei poi tutto questo granché, non sei invincibile e non è detto che tu debba vincere ogni combattimen-to che affronti». Credo abbia funzionato solo fino a un certo punto, quindi è fantastico sapere che tu l’hai recepito.

tcb: L’ho adorato. Io sono convinto che ciò che rende grande un’ope-ra d’arte sono spesso i suoi aspetti più strani e in qualche modo im-perfetti. Quello che ammiro in uno come Hideo Kojima è la sua ec-centrica insistenza a usare cut scene da quarantotto minuti. Non m’importa se non «funzionano». È la sua visione personale. E ho pensato la stessa cosa della sequenza della Malatorre: una visione realizzata, e al diavolo convenzioni e conseguenze.

molyneux: Mi piacerebbe parlarti di un’altra cosa a cui stiamo lavo-rando – ma non posso – perché sentirai parlare di questi «ventidue minuti». E ne sentirai parlare molto presto. Perché ventidue minuti?

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È qualcosa che succede in ventidue minuti. Non c’è niente di logi-co; è una cosa che ho in testa. Quando vedrai l’annuncio, capirai di cosa sto parlando.

tcb: Non insisto, anche se avrei tanta voglia di farlo. Una delle per-sone con cui ho parlato durante la lavorazione di questo libro è sta-to Jonathan Blow.

molyneux: Sì.

tcb: Sei d’accordo con la sua idea che la progressione della storia e «l’attrito» della sfida creino una narrazione strutturalmente debole? Che i videogiochi in un certo senso non possano raccontare storie, perché poggiano su fondamenta imperfette?

molyneux: Non so se sono d’accordo.

tcb: Non lo so neanch’io, ma è un punto di vista interessante.

molyneux: È vero. Sai, il fatto è questo: io ho adorato Braid, ho ado-rato la sua atmosfera, ho adorato la sua visione, ho adorato la mor-bidezza che trasmette. È come passare le mani su uno scampolo di seta. È un gioco davvero adorabile. Ma ecco cosa non ha funziona-to per me: a un certo punto è diventato così difficile che la mia vo-glia di continuare a esplorare il suo mondo si è scontrata con la sen-sazione di non essere abbastanza intelligente per farlo. È come se il mio cervello avesse sbattuto contro un muro: provavo e riprovavo a capire meglio come funzionava quel mondo, e mi sentivo sempre più stupido. Dopo un po’ ho pensato: Che gioco idiota. Ora, comun-que, so che mi sbagliavo. Ma un’altra discussione che abbiamo fat-to per Fable ii riguardava proprio questo e in particolare la mecca-nica della morte.

tcb: Fable ii ha una meccanica della morte particolarmente clemen-te. In molti hanno accusato il gioco di essere troppo facile.

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molyneux: Come autore, mi sono chiesto: perché in così tanti video-giochi – anche alcuni di quelli che ho creato io – quando il giocato-re muore, è costretto a tornare indietro e rifare quello che aveva già fatto? Perché? Mi fa soltanto sentire stupido e incapace e mi fa di-menticare la storia. Interrompe il coinvolgimento. Qualcuno mi sta spiegando di nuovo che cosa devo fare e io avrei soltanto voglia di ammazzarlo se me lo ripete un’altra volta! Io credo che... be’, quan-do pensi alla storia, alla narrazione e alla meccanica di gioco, i rit-mi dovrebbero essere gli stessi. Non dovrebbe esserci questa cosa enorme, che è la meccanica di gioco, che urla: «Sono più importante di te!». Dovrebbero lavorare insieme, agire di concerto. E se lo fan-no, allora il mio obiettivo è che la narrazione ti trasmetta sensazio-ni fantastiche, che il ritmo della storia ti trasmetta sensazioni fan-tastiche e che tu ti senta un giocatore fantastico. È quello che senti tu, non quello che sento io in quanto designer. È quello che senti tu che è importante.

tcb: Segui la scena dei videogiochi indipendenti? Molti degli scrit-tori che ho incontrato sembrano pensare che la scena indie sia il fu-turo.

molyneux: La cosa buffa è che questo settore c’è già passato. Tre an-ni fa questa gente non esisteva. Non c’erano. Le barriere all’ingres-so erano altissime. Se mi avessi chiesto tre anni fa come entrare nel settore dei videogiochi, ti avrei risposto: «Vai all’università, prendi-ti una buona laurea, poi vai a lavorare come programmatore o desi-gner junior e forse tra sette anni sarai lead designer su un gioco». Ora posso dirti: «Chiama un amico, fumatevi tonnellate d’erba, chiu-detevi in una stanza, uscite solo quando avete un’idea davvero buo-na e poi rilasciatela per Xbox Live Arcade». E sai cosa? È quello che facevo io vent’anni fa. Vent’anni fa ero uno di loro. Lavoravo a un gioco di nome Populous. Ero chiuso in una stanza e non avevo idea di quel che stessi facendo. Non sapevo nulla di game design e qua-si nulla di programmazione e me ne sono uscito con un’idea. Quindi sì, alcune di queste persone saranno il futuro, ma non credo che, an-che guardando a Braid, si possa dire: Questo è il futuro dei videogio-chi. È soltanto un suo aspetto.

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tcb: Stamattina sono stato alla conferenza di Hideo Kojima; ha mo-strato delle slide del primo Metal Gear e poi di quello più recente e vedere quelle immagini una accanto all’altra mi ha fatto pensare: «Mio dio, in vent’anni siamo arrivati dai graffiti nelle caverne alla Cappella Sistina!».

molyneux: Voglio alzare ulteriormente la posta, perché amo quello che faccio e amo questo settore. Ecco cos’è ancora più stupefacente: se dovessi disegnare su quel muro il personaggio di un videogioco di vent’anni fa, sarebbe fatto di sedici punti per sedici, fine. Siamo par-titi da quello e ora osiamo pensare che potremmo replicare il volto umano. E più o meno tutto ciò che abbiamo fatto, l’abbiamo inventa-to. Non siamo andati a pescarlo da un insieme di tecnologie preesi-stenti. Dieci, quindici anni fa non potevi comprarti un libro e imparare come fare certe cose. Non c’erano libri su questa roba. Non esiste-vano. Dipingere la cupola della Cappella Sistina? No. Prima abbia-mo dovuto inventare l’architettura. Abbiamo dovuto estrarre la roccia. Abbiamo dovuto inventare la pittura. Questo è davvero stupefacente. Pensa ai word processor o ai fogli di calcolo o ai sistemi operativi: so-no gli stessi di quindici anni fa. Non esiste altra tecnologia su questo pianeta che abbia tenuto il ritmo dei videogiochi. L’industria dei vi-deogiochi continua a marciare così sicura perché ha il sogno di poter diventare reale, un giorno. Creeremo una vita reale, personaggi reali, drammi reali. Cambieremo il mondo e creeremo un tipo di intratteni-mento diverso da tutto ciò che è venuto prima.