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Biblioteca della Fondazione

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Proprietà letteraria della Fondazione Intercultura

Non se ne possono trarre opere derivate.

www.fondazioneintercultura.org

Finito di stampare nel mese di novembre 2018

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Sommario

Prefazione 5

Ricordi dei primi anni 9

Teresa Gennari 11

Alfonso Vittorio Damiani 17

Sandra Ottolenghi 21

Crescita di un’associazione 27

Roberto Ruffino 29

Maurizio Stecco 39

Renata Gallo 43

Monica Bacco 47

Mila Montanaro 49

Giuseppina Primavera 51

Terry Little 53

Carlo Fusaro 57

Ezio Vergani 61

Mietta Rodeschini 63

Riflessioni su un’esperienza 65

Giovanni Giudici 67

Susanna Mantovani 71

Enrico Cucchiani 77

Roberto Toscano 83

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Alcuni pionieri 89

Piero Bassetti 91

Liliana Saiu 95

Eria Magnani 97

Marta Grespan 99

Eleonora Bosco 107

Oltre lo spazio 111

Luca Parmitano 113

Samantha Cristoforetti 119

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Prefazione

Il centenario dell’American Field Service (1915-2015) ha offer-to lo spunto per ripercorrere la storia di questa straordinaria organizzazione, messa in piedi da volontari americani durante la prima guerra mondiale per soccorrere i feriti e cresciuta a istituzione mondiale per promuovere la pace, la comprensione internazionale, le competenze che servono a vivere liberi da pregiudizi nel XXI secolo. L’AFS è rimasto un movimento di vo-lontariato, riconosciuto dalle più alte istanze internazionali, ma oggi opera in modo esemplare nelle scuole, per dare agli adoles-centi la possibilità di fare lunghe esperienze di vita e di studio all’estero, vedendo il proprio Paese e se stessi da una prospetti-va nuova, attraverso gli occhi di chi li accoglie.

Il passaggio epocale da associazione di ambulanzieri ad associ-azione di educatori interculturali avviene alla fine della seconda guerra mondiale. Da allora centinaia di migliaia di giovani di ol-tre 100 Paesi hanno avuto la possibilità di vivere, quasi sempre

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per un anno, in una famiglia del tutto sconosciuta in un’altra par-te del mondo e di sentirla gradualmente come propria, una sec-onda casa in cui mettere in gioco la propria visione del mondo. L’AFS è diventata maestra nel selezionare i ragazzi e le famiglie per questi esperimenti di vita, nell’assisterli nella quotidianità dell’ambientamento reciproco, nel guidarli verso una compren-sione più libera e flessibile delle differenze.

Dagli Stati Uniti il modello AFS è stato esportato in tutto il mon-do e le famiglie ed i ragazzi che erano passati attraverso questi incontri hanno contribuito a creare movimenti simili di volon-tariato educativo in tanti altri Paesi: in Italia è nata così anche Intercultura. Ecco perché è stato naturale - in occasione del cen-tenario - riprendere contatto con alcune delle molte voci, che hanno contribuito a creare questa Intercultura ed il progetto educativo che ne porta il nome, ed ascoltare e registrare i loro racconti.

È il “progetto memoria”: decine di video-interviste ad ex borsisti dell’Associazione, dalle origini ad oggi, conservate negli archivi della Fondazione Intercultura, di cui sono qui pubblicati gli es-tratti più interessanti. E’ un tentativo di storia orale, per lasciare un ricordo vivo di eventi, dagli anni Quaranta in poi, che hanno visto affermarsi nel nostro Paese e in Europa l’esigenza di una formazione più internazionale ed aperta ai valori di altre cul-ture. Il lento evolversi dal “fare gli italiani” al “fare cittadini del mondo” è passato anche attraverso le esperienze raccontate in questo volume.

Non è stato possibile trascrivere per intero tutte le interviste, né è stato possibile trascriverle integralmente. Ci siamo limitati a quelle che contenevano passi interessanti per la storia dell’As-sociazione o per comprendere contenuti ed evoluzione dei pro-grammi, da quando andare negli Stati Uniti era un distacco pe-

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rentorio ed un viaggio avventuroso di molte giornate per mare ad oggi, quando centinaia di ragazzi s’imbarcano tranquilli su un aereo per la Cina e con il cellulare mantengono un piede in Ita-lia. Il linguaggio è rimasto quello degli intervistati, con le locuz-ioni ed i fraseggi di chi racconta una storia agli amici. In questo modo abbiamo voluto preservare la vivacità e l’immediatezza di queste testimonianze.

Colle di Val d’Elsa, novembre 2018

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Ricordi dei primi anni

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Teresa Gennari

Prima borsista italiana negli USA (1948-49)

Sono venuta in contatto con AFS nel 1948 all’università che frequentavo, perché allora l’American Field Service dava la possibilità anche agli studenti dei primi anni di corso univer-sitario di fare domanda per le borse di studio. All’Università di Roma, nonostante nel ‘48 l’università fosse ancora quella che era dopo la fine della guerra, c’era un centro di relazio-ni universitarie con l’estero chiamato CRUE, dove andai ad informarmi e dove trovai una persona che mi disse del pro-gramma di borse di studio. Così mi venne l’idea. Un po’ io l’in-glese già lo sapevo ma non in modo adeguato a seguire un corso universitario in America, anche se potevo dire di avere una conoscenza non proprio limitata. Così chiesi alla mia fa-miglia se potevo fare domanda, se avevano delle obiezioni e [...] non fecero alcuna opposizione. Devo dire anche che era-no abituati perché mia sorella era scout e quindi aveva già avuto delle esperienze all’estero e avevamo avuto anche dei ragazzi francesi come ospiti [...]. Comunque è stata una ra-gione sufficiente per dire “anche io voglio avere la mia espe-rienza all’estero” [...]. E così nel settembre del ‘48 sono anda-ta a Napoli, accompagnata mi pare da mio padre e da una mia cugina, e sono arrivata a prendere questa nave americana. 12 giorni di viaggio da Napoli al doc di New York, alla 41° Strada West dove c’era veramente di tutto e in particolare i migranti con forme di formaggio, prosciutti e bottiglie d’olio

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che portavano ai parenti degli Stati Uniti. Naturalmente lì fui accolta da una rappresentante dell’American Field Service. [...] Questa gentile signora mi accompagnò e mi disse che sa-rei dovuta andare a Saratoga Springs, nella parte Nord dello stato di New York. Mi mise un biglietto in mano, mi disse che dovevo cambiare e così mi trovai in questo treno americano dove ebbi un momento di sgomento perché mi dicevo “spe-riamo di essere all’altezza della situazione!”.

[...] Io lì mi dedicai specialmente alla letteratura anglo ame-ricana. Il mio arrivo nel college fu molto piacevole. Quello che mi colpì, a parte la figura dello student advisor, fu anche la possibilità di usufruire della biblioteca: mentre da noi, nel ‘48, ancora la biblioteca all’università era chiusa, invece lì era aperta anche fino alle 22.00. Mi ricordo che nelle ore della sera una persona poteva andare a studiare. Parlo di un college di livello under graduate, quindi ad un livello che po-trebbe corrispondere ai primi due anni della nostra univer-sità. E poi la disponibilità dei professori, che sono disponibili in determinati giorni e determinate ore per andare a parlare se uno vuole dei chiarimenti.

[Nei periodi in cui invece l’università era chiusa] l’American Field Service aveva organizzato [il nostro soggiorno]. C’era-no delle famiglie volontarie che invitavano gli studenti AFS per la festa del ringraziamento oppure per Natale. Io sono stata ospite di una famiglia americana al Thanksgiving e cre-do anche da un’altra signora durante le vacanze di Natale. Però naturalmente con la libertà assoluta di uscire con le mie amiche, che per fortuna avevo [...]. L’American Field Service naturalmente aveva poi le sue festine e quindi incomincia-rono i primi contatti con Mr. Galatti1 e gli altri studenti che erano venuti a New York.

Galatti era simpaticissimo, ma certe volte ci trattava come se fossimo dei piccoli soldatini ai suoi ordini. Dopo l’esperienza

1 Ambulanziere durante la prima guerra mondiale, presidente dell’AFS dal 1936 al 1964

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AFS tornai una seconda volta a New York, alla fine degli anni ‘50, dopo aver lavorato all’Ufficio culturale dell’Ambascia-ta americana. Volevo vedere meglio l’America e trovare gli amici e le amiche che mi ero fatta al college. Così Mr. Galat-ti mi disse: “vieni, magari ti posso dare pure qualche piccolo contributo per le tue spese” (cosa che poi non fece perché mi sembrava di essere già abbastanza in debito), in realtà quando andai lì feci proprio il contrario, dando una mano con le domande degli studenti, anche italiani, che avevano fatto domanda per la borsa di studio e mi trovai a mio agio. Galatti fu molto gentile: mi presentava come la sua più “ancient stu-dent”.

[Tornando all’esperienza AFS] ogni tanto veniva una signora dell’ufficio [...] a vedere se tutto era regolare, se mi trovavo bene. [...] Alla fine dell’anno feci un bus trip. Andammo fino in Texas, ad Amarillo: fu un tour molto importante. Il ritor-no invece fu su un improbabile aereo, di quelli che adesso potrebbe essere un low cost, ma molto low. Ricordo che co-stava 120 dollari andare fino a Parigi, non era pressurizzato e si è fermato due volte (una volta a Terranova e una volta a Shannon). Si viaggiava molto bassi, tanto che io stavo in un posto vicino al finestrino e vedevo la filatura dell’aereo e avevo paura di cadere sotto. Era un viaggio piuttosto lungo di oltre 20 ore. Io portai con me anche questa ragazza ame-ricana, Sharka: ancora ci scriviamo e lei è sempre la prima a mandarmi gli auguri di Natale. [...]

Per me il ritorno è stato, diciamo, piacevole e naturalmen-te anche gratificante perché avevo acquisito una maggiore sicurezza in me stessa, una consapevolezza che forse avrei saputo affrontare viaggi e soggiorni all’estero con più disin-voltura. Ovviamente una migliore conoscenza della lingua inglese mi ha favorito. Tanto è vero che venni a sapere di un centro di studi americani a Salisburgo, in Austria, dove c’era-no seminari, studi americani, scienze sociali e così via. Feci la domanda, fui accettata e quindi feci anche questa ulteriore

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esperienza di studio nel Schloss Leopoldskron.

L’apprezzamento dei miei insegnanti [dopo l’esperienza] fu piuttosto limitato, anche perché [...] la letteratura americana non aveva ancora avuto l’apprezzamento di quella inglese. [...] Mario Praz, con cui feci la tesi, mi disse: “perché non farla su Orwell, su 1984”. Naturalmente non c’era il libro, neanche all’USIS2: feci tutta la bibliografia, che mi arrivò direttamen-te dall’Inghilterra attraverso amici. [...] Il mio ritorno è stato effettivamente caratterizzato sia dall’offerta di Salisburgo, sia dall’offerta di lavoro dell’ufficio culturale dell’Ambasciata americana. Poi mi sono indirizzata alla Commissione Scambi Culturali con l’Italia e cioè al programma Fulbright (dal nome dal senatore che passò la legge). Il governo americano diede fondi di entità abbastanza cospicua (mentre l’Italia parteci-pò in minima parte), così si avviò questo programma di bor-se di studio, prima per gli undergradutes e poi per i graduate students che aspiravano al conseguimento di un titolo di stu-dio. Questo programma Fulbright fu una delle ragioni per cui l’American Field Service decise di concentrare le sue risor-se sulla scuola secondaria, perché ormai c’era già un ampio programma governativo per gli universitari. Naturalmente la mia esperienza con AFS mi facilitò nel lavoro con l’ambascia-ta americana, proprio con la commissione Fulbright.

[Negli anni successivi al ritorno] Galatti venne a Roma, du-rante uno dei suoi viaggi in Europa. Mi ricordo che io invitai tutti i ragazzi amici da Firenze e da Napoli e facemmo una riunione. Già si era iniziato ad avere dei gruppi di returne-es nelle varie città. Lì si avviò il summer program, anche se fu piuttosto difficile trovare famiglie per ospitare i ragazzi americani che volevano venire per le vacanze a Roma. La no-stra Associazione italiana è nata proprio lì, a Roma, presso l’Ambasciata Americana in via Veneto. La prima seduta fu nel dicembre del 1955, quando fu eletto presidente Alfonso Da-miani; questa riunione si tenne nel teatrino dell’ambasciata.

2 United States Information Service

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Durante il summer program Galatti mi chiese se ero dispo-nibile per andare a Napoli a ricevere un gruppo di ragazzi, che erano di passaggio in Italia e proseguivano per varie destinazioni. Io dissi “sì sì, senz’altro questo lo posso fare”. Così andai a Napoli e incontrai l’accompagnatrice che veniva dall’America e che doveva raggruppare tutti questi ragazzi e portarli a Parigi. Lì ci fu un inciampo dell’American Field Ser-vice, perché questa ragazza americana, che doveva essere la leader che portava gli studenti a Parigi, era molto agitata perché non aveva abbastanza soldi per portare tutti i ragaz-zi del gruppo. Non solo; a Napoli non fecero scendere 3 o 4 ragazzi turchi dalla nave perché non avevano il visto di tran-sito per l’Italia. Erano rimasti a bordo e la nave, che veniva dalla Grecia e andava da Napoli a Genova, sarebbe tornata indietro con sopra questi ragazzi turchi. Allora io chiesi su-bito aiuto all’Ambasciata, che però mi disse che non poteva fare niente. Allora ebbi un lampo di genio. Mi ricordavo di uno studente universitario dei miei anni, della mia Facoltà; anche lui prestava aiuti al CRUE e lavorava a Genova alla Pan America. Gli telefonai e gli dissi:” guarda mi devi fare un pia-cere”. E lui disse: “senz’altro”. “Domani mattina alle 7.30 devi andare al porto a Genova, c’è una nave così così… e devi ti-rare fuori 4 ragazzi turchi in qualche modo”… Ricordo un suo silenzio e poi mi disse “davvero?” E io dissi “sì, certo, davve-ro!” E lui.. “va bene, farò di tutto”. Il giorno dopo mi telefonò e mi disse: “guarda ce li ho qui tutti quanti, ma non ti dico cosa ho dovuto fare. E adesso cosa devo fare?” “Beh intanto dagli da mangiare e poi portali fino a Modane, in qualche modo, alla frontiera e magari paga pure per i quattro studenti; poi io ti rimborso”. L’accompagnatrice americana intanto era ri-uscita a ritirare un po’ di soldi per poter passare per l’Italia in modo da raggiungere poi il gruppo da Modane nella tratta così detta francese.

[Facendo un bilancio dell’esperienza vissuta] posso dire in-nanzitutto di aver acquisito una maggiore consapevolezza,

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un maggior senso di responsabilità e di sicurezza nel fare le cose e nel viaggiare senza la protezione famigliare. Natural-mente i genitori hanno un ruolo fondamentale nel dare fi-ducia ai figli: mi ricordo che mia sorella mi raccontava che molte amiche di mia madre all’epoca commentavano: “ma come, avete mandato Teresa allo sbaraglio negli Stati Uniti, così giovane?” Mentre debbo dire che mio padre e mia ma-dre, ambedue cattolici, erano molto attenti all’aspetto cultu-rale, educativo. [...] Avevo acquisito talmente tanta sicurezza che all’epoca, quando stavo al college, non ho mai sentito il bisogno di telefonare. Solo che ad un certo punto mio padre mi mandò un telegramma che diceva: “ti dispiace di mandare notizie?”

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Alfonso Vittorio Damiani

Ex borsista negli USA (1950-51) Primo presidente di AFSAI (AFS Associazione Italiana)

Era il gennaio 1950 e nella mia scuola, il liceo Dante Alighie-ri, passò una circolare che diceva di un bando dell’Ambasciata Americana per chi volesse partecipare ad un concorso per una borsa di studio di un anno negli Stati Uniti. Quando fu la fine del mese di luglio mi arrivò una telefonata (me la passò mio padre) [...]: “Ah, complimenti, hai vinto”. Io ero scioccato, inebetito, com-mosso, non so che cosa, e mi venne spontaneo dire: “Ma io non ci vado”.

Mio padre, che aveva viaggiato molto ed era un uomo piuttosto di polso, mi minacciò pesantemente [...]: “non ti riconosco più come mio figlio!” [...]

Incominciai a sentire i miei professori. Anche se era luglio, ne ri-uscii ad acchiappare ancora qualcheduno che non era in vacanza e di questi, con mia grande sorpresa, due soli mi diedero il loro benestare. Uno era il professore di Storia dell’Arte, che chiara-mente mi diede un elenco di musei da visitare negli Stati Uniti. L’altro era quello che non mi aspettavo assolutamente, il profes-sore di Storia e Filosofia, che era un assessore del Partito Comu-nista a Perugia. [...] Tutti gli altri: “Eh no, ma perdi le mie lezioni, cosa farai, come farai al ritorno, che guaio...”. In realtà andò tutto bene, superai le mie prove, inaspettatamente, in modo brillante. [...]

Partii solamente, mi pare, il 16 settembre, perché persi il primo

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viaggio. Dopo seppi che io ero uno dei cinque italiani vincitori delle borse per il 1950. Essendo in ritardo (e forse non c’erano altri modi, allora non esisteva la Seven Seas) partii con la moto-nave Atlantic e ci mettemmo ben nove giorni per arrivare a New York.

All’arrivo a New York mi trovai, dopo aver preso un taxi (ero ancora tutto solo) negli uffici del Field Service, alla trentesima strada. Feci due chiacchiere con la Dorothy Field, che mi diede il benvenuto con la massima cortesia [...]. Fatto questo mi die-dero le chiavi e [...] un foglietto: “domani devi prendere il treno alla Pennsylvania Station per andare nella tua scuola a Mount Hermon”. La mattina dopo presi il treno e andai nella mia scuola a Mount Hermon, nel Massachusetts [...]

Arrivato a Mount Hermon, nella valle del Connecticut River, in una bellissima posizione nel Massachusetts, mi trovai in una situazione completamente nuova, perché ero uscito dalla mia famiglia e ora mi trovavo in una scuola che, definita in modo anglo-americano, era una prep boarding school, cioè un collegio. [Noi studenti] vivevamo nell’ambito della scuola, avevamo dei dormitori, delle stanze a due. La scuola aveva circa seicento stu-denti [...] e ognuno di noi aveva un lavoro da fare. Il mio era di lavare le brocche che erano servite per portare il latte a tavola. [...] Per me in questa scuola è stato veramente un periodo di stu-dio. [...]

Il rapporto con i professori era bellissimo. Erano alla mano, vera-mente simpatici, cordiali, ci si poteva parlare; un rapporto com-pletamente diverso da quello con i miei professori italiani.

[...]

I contatti con famiglie americane io li ho avuti estremamente ra-refatti nelle poche vacanze di Natale e nelle altrettante piccole vacanze di Pasqua.

Alla fine del programma partimmo per il bus trip. Forse era uno dei primi bus trip e io ebbi la fortuna di essere nel bus con Steven Galatti junior [...] Partimmo da New York [...] e raggiungemmo

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addirittura il Colorado, Colorado Springs e tornammo passan-do da Washington. Rientrando da Nord a Washington avemmo un colloquio con un rappresentante dello State Department. Ci fece la sua bella chiacchierata, poi si sottopose a tante doman-de. Poi incominciò lui a fare domande a noi e io gli chiesi: “Scusi, ma perché lei rivolge delle domande così importanti sull’amici-zia, i legami fra i popoli, i rapporti internazionali a noi che siamo ragazzini?”. E lui mi rispose: “Perché voi siete gli uomini di doma-ni”. [...]

Nel bus trip avevamo allacciato i primi contatti internazionali fra gli AFSers. Quando rientrammo il comitato tedesco organizzò a Essen il primo summer camp di ex-studenti AFSers [...] E quella fu una prima riunione di una sessantina di studenti. Non fu quello il solo trait d’union fra la partenza per gli Stati Uniti e l’avvio di questi programmi di summer camp; avevamo anche una rivisti-na “Our Little World” che ci aiutava a mantenere i contatti. Con l’allargamento del primo summer camp questi contatti si allarga-rono in modo immenso. Poi ci fu Essen, poi Solemoa, in Norve-gia, poi Salange, nelle Alpi della Savoia francese e poi Gand, in Belgio. E in ognuno di questi incontri c’era lo spirito di creare un qualche cosa, e mano a mano questi comitati dei Field Service si allargavano sempre più. Anche noi italiani, che eravamo in totale forse 7-8, diventammo poi trenta, quaranta, sessanta, ottanta e qualche centinaio, per cui si incominciava anche a vedere come sviluppare ulteriormente, anche su base nazionale, queste ami-cizie e questi contatti.

Nel ’55 fu fondata l’associazione italiana dell’American Field Service e da lì cominciò questo nuovo sviluppo. Per inciso io fui il primo Presidente. [...] Questo è stato l’avvio: dal piccolo bus trip, dove abbiamo visto che potevamo fare tante cose insieme, ai co-mitati nazionali, ai summer camp, è partito questo immenso tre-no, questo reggimento di persone che ha dato luogo oggigiorno a Intercultura. Organizzammo questa prima riunione. C’erano i primi comitati locali che si stavano sviluppando, ognuno con le proprie problematiche: in molti casi c’era solo il presidente,

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il segretario e il tesoriere. [...] Oltretutto noi, oltre a essere “ra-gazzini”, eravamo tutti degli squattrinati e anche muoversi, in treno, da una parte all’altra costava molto e le macchine non ce le avevamo! Quindi facevamo tutto in amicizia, quello che si po-teva fare. Facemmo la prima riunione al Teatrino dell’Ambascia-ta Americana a Via Veneto. E lì nacque l’American Field Service Associazione Italiana e poi da lì prese il via il tutto.

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Sandra Ottolenghi

Ex borsista negli USA (1955-56)Primo Segretario Generale dell’Associazione nel 1957

[...]

Allora l’associazione era molto artigianale. Fondamentalmente era basata sui comitati locali, che certamente non coprivano tutta l’Italia. I principali erano Milano, Roma, poi forse Torino, forse Firenze. E l’associazione, che pur aveva uno statuto, si ri-univa una volta all’anno come assemblea, quando ci riuscivamo. Quindi la vita fondamentalmente si svolgeva nei comitati locali. I processi di selezione per lo scambio degli studenti erano gestiti dall’USIS (United States Information Service) che aveva manda-to da parte degli Stati Uniti di organizzare le procedure di sele-zione e tutto quello che era necessario.

L’avvio del primo ufficio italiano consisteva nel passaggio dalla responsabilità della gestione del programma dall’USIS all’A-merican Field Service Associazione Italiana e, con il consenso dell’Ambasciata Americana a Roma, formalizzammo tale pas-saggio.

Spesso passo davanti a Via Solferino 71, che oggi è una strada elegante e il palazzo è stato ristrutturato. Però a quei tempi era un palazzo cadente e via Solferino non era particolarmente ele-gante. Il raffronto con la sede di via Bigli dell’USIS, era veramen-te eclatante. 1 Sede del primo ufficio dell’American Field Service in Italia, a Milano

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Se penso al primo ufficio dell’American Field Service in Italia, penso molto a quella che è stata anche un’avventura personale. L’American Field Service cercava come in altri Paesi di avere un ufficio stabile in Italia e mandò una signora molto simpatica a cercare di individuare possibili candidati per questo ufficio. Io non lo sapevo allora, quindi accolsi questa signora come presi-dente del comitato milanese e, insieme al presidente di turno dell’Associazione, la portammo un po’ in giro, le spiegammo che cosa facevamo e così via. Dopo qualche settimana, mi arrivò la proposta dall’American Field Service, di creare l’ufficio in Italia con pochissimi mezzi, perché in realtà la tendenza, forse inter-pretata in senso restrittivo da me, era di spendere il meno pos-sibile. Quindi, a parte il mio stipendio, le altre spese erano: l’af-fitto di un locale che trovammo appoggiandoci a un’associazione di scambi con l’Inghilterra, i mobili che ci furono prestati e poi a poco a poco gli strumenti di lavoro. Mi ricordo molto bene la richiesta fatta all’IBM di una macchina da scrivere elettrica. L’I-BM gentilmente rispose donandoci una macchina usata che fu la nostra prima macchina da scrivere. Quindi all’insegna di questa povertà di mezzi e di molto entusiasmo, di volontari, di voglia di fare, cominciammo così, con il primo problema che era quello di far conoscere il programma.

L’ufficio di Milano, creato nel 1957, era la filiale dell’American Field Service di New York. Si era stabilito che il responsabile dell’ufficio fosse anche Segretario dell’associazione. Quindi c’e-ra un presidente dell’associazione, io ero responsabile dell’uffi-cio, ma nello stesso tempo anche Segretario dell’associazione.

Il primo problema fu quello di organizzare la selezione degli stu-denti e di avviare il programma di accoglienza per gli studenti americani che era inesistente. [...] Il lavoro era comunque mol-to artigianale. Per i primi due anni ero sola in ufficio e quindi mi dovevo occupare di tutto: rispondevo alle richieste, curavo l’as-semblaggio delle pratiche, la traduzione dei commenti dei sele-

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zionatori, la corrispondenza con New York e così via. Man mano però ci ingrandimmo, già il secondo e terzo anno i numeri degli studenti italiani erano vicini a cento [...].

C’era un processo di selezione anche delle famiglie, che era co-stituito sostanzialmente da un colloquio fatto o da un volonta-rio, o da me, a seconda delle disponibilità. Lo stesso per le sele-zioni locali, perché cercavamo di non far venire per esempio a Milano quelli di Lecco, di Como, ma di andare noi. Erano molto spesso i volontari che si mettevano in gioco, cercando un mini-mo di omogeneità, però certamente il tutto era più affidato al buonsenso, all’esperienza individuale.

Credo che per avere un’idea di cosa fosse l’ufficio nel 1957, bi-sogna ricostruire un mondo che oggi è sconosciuto alla maggior parte delle persone: cioè un mondo senza teleselezione, senza telefonini, senza computer, con qualche macchina da scrivere elettrica che già rappresentava un progresso. Quindi il grosso delle nostre attività, a parte le selezioni e i contatti con le fami-glie e con i ragazzi, era scrivere e spedire quantità gigantesche di lettere e organizzare i viaggi con le ferrovie dello stato. Quella era la parte organizzativa pesante, diciamo [...] Dovete pensare che non avevamo delle stampanti, ma una ciclostile, anche quella usata. Quindi inchiostro sulle mani e francobolli da appiccicare. I volontari spesso venivano in ufficio ad aiutarci ad appiccicare francobolli, perché se uno doveva spedire 2000 lettere, appicci-care 2000 francobolli era un’impresa che richiedeva lo sforzo, e anche l’allegria, di un po’ di persone che si mettevano lì di buona volontà. Quindi i volontari erano essenziali nel mandare avanti i programmi, sia nel processo di selezione, sia nel trovare le fami-glie per ospitare gli studenti americani, ma anche nel lavoro più banale di routine d’ufficio: senza di loro difficilmente saremmo riusciti a spedire 2000 lettere alle scuole italiane, ai presidi e ai professori, perché veramente diventava un impegno grosso dal punto di vista lavorativo.

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La risposta delle scuole era molto varia. Il contatto avveniva tra-mite lettere, [...] e le reazioni delle scuole erano estremamente diverse. Il primo anno forse il 20% delle scuole rispose o pro-pose candidature di studenti, perché appunto il nostro invito poteva trovare orecchie più o meno attente. Andando avanti, man mano che il programma si consolidava, e soprattutto che i returnees nelle loro scuole sensibilizzavano professori e pre-side, c’è stata una maggiore collaborazione. Nulla comunque in confronto ad oggi, con i professori che sono parte attiva dell’as-sociazione. [...]

I rapporti con gli altri uffici d’Europa erano per lo più inesistenti dal punto di vista operativo, perchè ognuno gestiva i programmi nel proprio Paese. Avevamo una riunione a New York una volta ogni 2 anni, che diventava un momento di scambio di esperien-ze. Ma al di fuori di questo e al di là degli eventuali rapporti per-sonali che si creavano, che facilitavano lo scambio di informa-zioni, non c’era niente di formale.

A livello di numeri, gli studenti italiani che andavano all’estero erano molto più numerosi che non gli studenti americani che venivano in Italia. Mi ricordo che il primo anno erano forse una decina gli studenti americani, di cui una fu mia ospite. [...] Cer-tamente era diverso anche il rapporto con le famiglie. Se penso alle famiglie italiane di allora credo che avessero un grande co-raggio. Anche perché, soprattutto con il passaggio del program-ma dall’USIS all’American Field Service, il loro contatto ero io, cioè una ragazza di 20 anni, in un ufficio scalcagnato [...].

Se ripenso alla mia vita di lavoro devo dire che l’esperienza ini-ziale con l’American Field Service mi ha dato moltissimo. Innan-zitutto mi ha abituato a tenere un passo di lavoro molto attivo. Quegli anni sono stati infernali dal punto di vista dell’impegno, perché studiare, lavorare, avere questi momenti di troppo pie-no ti abitua a far fronte alle emergenze. Nello stesso tempo, mi ha dato un grande senso di responsabilità, [...] mi ha fatto acqui-

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stare fiducia in quello che potevo fare e ovviamente mi ha dato, soprattutto l’esperienza americana, una familiarità con altri am-bienti, con altre culture, con altri mondi. [...]

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Crescita di un’associazione

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Roberto Ruffino

Ex borsista negli USA (1957-58)Segretario Generale di Intercultura dal 1967 al 2017Segretario Generale della Fondazione Intercultura dal 2007

Ho cominciato a lavorare professionalmente per Intercultura nel 1967. Allora le cose funzionavano in modo molto diverso da oggi, anche dal punto di vista del nome: non sono stato chia-mato a lavorare per Intercultura, ma per l’American Field Ser-vice – Associazione Italiana, che era il nome che aveva allora l’organizzazione dei volontari e degli ex-borsisti che avevano partecipato al programma dell’AFS. Perché ho detto ‘sono stato chiamato’? Perché anche l’”investitura” era fatta in modo molto diverso da oggi. Innanzitutto, chi lavorava in un ufficio nazionale era legalmente dipendente dell’ufficio internazionale che si tro-vava a New York, per cui la nomina veniva fatta dal presidente internazionale dell’organizzazione, su proposta del consiglio dei volontari del Paese e doveva poi essere approvata dall’assem-blea dei volontari dello stesso Paese.

Ricordo che nell’aprile del 1967, in una riunione di Consiglio che si tenne nella casa di Ezio Vergani, sul lago di Como, fui appunto designato a diventare segretario generale dell’associazione. Al-lora ero il presidente del consiglio d’amministrazione. Per una stranissima coincidenza la comunicazione alla sede interna-zionale fu fatta mentre dalla sede internazionale arrivava una lettera del presidente Arthur Howe che diceva: “vedrei molto

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bene in questo posto Roberto Ruffino”. Fu così che per questa coincidenza di proposta da parte italiana e di richiesta da parte internazionale nella tarda primavera del 1967 mi trovai ad oc-cupare questo posto. La proposta fu poi ratificata dall’assem-blea generale dei soci che si tenne il 25 aprile del ’67 a Brescia. Cominciai formalmente, a tempo pieno, dal primo di giugno del ’67, trasferendomi da Torino a Milano.

Sin dall’inizio avevo posto una questione importante al Con-siglio: “un’associazione nazionale di volontari non può avere il suo ufficio nazionale a Milano (anche se allora c’era una logica nell’essere a Milano: il fatto che i volontari nel ’67 erano quasi tutti chiusi in un triangolo che andava da Torino, a Trieste, a Na-poli, la maggior parte in val Padana). Accetto di svolgere questo compito, ma l’ufficio in tempi brevi si deve trasferire da Milano a Roma” [...] innanzitutto perché Roma è centrale e, se vogliamo crescere in tutt’Italia, dobbiamo essere in un posto che non sia percepito come all’estremo nord del Paese; e poi perché Roma è la sede delle nostre istituzioni”. Il secondo argomento che portai al Consiglio e ai volontari in assemblea fu: “se vogliamo cresce-re, dobbiamo istituire dei rapporti più stretti soprattutto con le istituzioni scolastiche del nostro Paese, perché lì è dove operia-mo con i nostri programmi”. Allora tutti i ragazzi andavano e ve-nivano dall’Italia agli Stati Uniti, dagli Stati Uniti all’Italia, e chi rappresentava il governo degli Stati Uniti in Italia era ovviamen-te l’Ambasciata americana, che stava a Roma e non a Milano. Tutta una serie di necessità interne (sviluppo del volontariato in tutta Italia) ed istituzionali (ministeri, ambasciate ecc. che si tro-vavano a Roma) ci consigliavano questa mossa. E devo dire che il Consiglio di amministrazione accettò di buon grado questa cosa e infatti e già il 20 settembre di quell’anno [...] organizzammo il trasloco da Milano a Roma. [...] La cosa partì con nuovo impeto: nuovo segretario, nuovo personale, nuovo ufficio, e soprattutto una nuova idea di come far crescere l’associazione, sia sul ver-sante della sua espansione territoriale, sia sul versante delle mi-

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gliori relazioni istituzionali.

La presenza al Sud dei volontari dell’associazione era molto limi-tata, praticamente avevamo un grosso gruppo a Napoli, alcuni volontari a Taranto, una persona a Palermo, due o tre persone in Sardegna. Per cui una delle prime preoccupazioni fu quella di vi-sitare capillarmente i paesi e le città del Sud Italia, per vedere di trovare degli agganci che permettessero di creare un’organizza-zione da quelle parti. È strano, perché non è che non partissero ragazzi dal Sud Italia allora: ne partivano, però succedeva quello che tra l’altro succede ancora adesso, che partivano, tornavano in Italia, facevano l’ultimo anno di liceo in Italia, dopodiché an-davano ad iscriversi a Pisa, alla Bocconi, a Torino, da altre parti, per cui non si creava una certa continuità. Nei primi anni cer-cammo di nutrire e rafforzare questi gruppi. Mi ricordo sempre una riunione di volontari combinata con molta fatica da Renata Gallo ad Agrigento, molto ben organizzata: era venuto il sinda-co, i presidi delle scuole. Il presidente nazionale in quegli anni era Roberto Schisano di Napoli, e quando Roberto Schisano pre-se la parola, il sindaco, riferendosi a Schisano, disse: “già, per voi del Nord, è tutto facile” (il Nord era Napoli, ovviamente). Anche attraverso questi viaggi si comprendevano meglio le incredibili e multiple sfaccettature della nostra società italiana… Nel giro di 4-5 anni cominciò a maturare qualche cosa, cominciarono a nascere dei gruppi di volontari non solo in quelle 4-5 città di cui ho detto prima, ma più in generale. Questo fu un effetto bene-fico, penso, di esserci trasferiti nel Centro Italia, per cui chi abi-tava al Sud non sentiva più la sede nazionale come qualcosa di estremamente lontano.

La seconda priorità che ci eravamo dati nell’andare a Roma era quella di migliorare i rapporti con le istituzioni, soprattutto con il Ministero dell’Istruzione e con le istituzioni scolastiche, oltre che, ovviamente, con l’Ambasciata americana. Qui le cose mi riservarono alcune sorprese, venendo io da Torino, perché in

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questi miei giri nel Sud non mancavo mai di prendere appunta-mento con il Provveditore agli studi [...] per parlare dei nostri programmi ed avere una panoramica delle scuole. E mi ricordo benissimo le facce stupite che mi dicevano “ma perché questi ra-gazzi dovrebbero andare all’estero, non stanno bene in Italia?” Mi resi conto molto presto che l’andare all’estero era identifi-cato con l’emigrazione per ragioni economiche, [...] non era un qualche cosa di positivo, ma un qualcosa di sofferto r di negati-vo. [...] L’idea che uno andasse fuori per mettersi alla prova, per vedere com’è il resto del mondo, per vedersi dal di fuori proprio non passava ancora per la mente neppure di persone che occu-pavano posizioni eminenti, come i Provveditori agli studi, cioè organizzatori della vita scolastica, non certo insegnanti alle pri-me armi. Questo fu uno dei nostri sfori maggiori, contribuire a una lenta conversione.

Trovammo due alleati in questo lavoro: da un lato la Direzione Generale per gli Affari Internazionali al Ministero dell’Istruzio-ne, che oggi non esiste più. [...] Trovammo lì sempre una porta aperta e un aiuto operativo: oggi sfugge che negli anni ‘70 non esisteva una normativa di qualche genere che consentisse agli italiani di andare fuori per un anno senza “perderlo” in Italia, o agli stranieri senza un titolo di studio italiano di venire in Italia a frequentare per un anno un nostro liceo. I Presidi ci chiedeva-no “questi come me li metto in classe?”. Proprio con la Direzione Generale per gli Affari Internazionali negoziavamo un accordo: ogni anno, all’inizio dell’estate, mandavamo alla Direzione Ge-nerale l’elenco degli studenti che sarebbero arrivati a settem-bre, e questi mandavano un permesso personale al Preside delle scuole dove volevamo iscriverli, perché li potessero registrare. [...] Oggi fanno sorridere queste cose, però allora erano di una difficoltà incredibile. [...] Cose che oggi si danno assolutamente per scontate, con migliaia di giovani che vanno ovunque, con tutti i programmi dai bambini piccoli agli universitari e ai laure-ati, appena trent’anni fa ponevano un gravissimo problema nor-

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mativo-burocratico, che comportava addirittura l’intervento del Ministro per far andare a scuola un ragazzo che veniva da un altro Paese.

L’altro nostro alleato fu la neonata Associazione Nazionale dei Presidi. Quando fu creata quella che allora si chiamava ‘ANP’ (oggi si chiama Associazione Nazionale dei Dirigenti e delle alte professionalità della scuola), noi andammo subito a conoscere i responsabili e chiedemmo il loro aiuto perché la pratica degli scambi trovasse finalmente cittadinanza nella scuola italiana. E trovammo nei Presidi un aiuto incredibile: da quel momento hanno lavorato con noi e con il Ministero dell’Istruzione, tanto che negli anni successivi cominciarono ad uscire le prime circo-lari che prima autorizzavano ed in seguito incoraggiavano que-sto tipo di attività. Intanto a livello europeo era nato l’Erasmus, erano nati altri programmi di educazione interculturale e alla cittadinanza europea, di interculturalità si parlava in tutte le sedi, per cui non era più solo la nostra Associazione a propor-re cambiamenti, ma era l’aria generale in Europa. Anche se oggi parlare di intercultura è diventata una cosa banale (si scrive con la ‘i’ minuscola e non si riferisce più solo a noi), sicuramente chi ha cominciato a spingere la valanga, più di cinquant’anni fa, sia-mo stati noi.

C’è stato un altro aspetto che ha giocato un ruolo forte nei miei 50 anni alla segreteria di Intercultura, ed è stato quello di aiuta-re l’AFS a diventare da organismo americano con filiali all’estero ad organismo internazionale. Ancora prima di lavorare profes-sionalmente nella nostra associazione, quando ero ancora un volontario, avevo lanciato l’idea di invitare a Torino per qualche giorno altri volontari di tutta Europa per conoscersi e studiare forme di collaborazione intra-europea. Nel 1964, dall’1 al 4 di novembre vennero 25 giovani da molti Paesi. Ricordo che uno arrivò addirittura dalla Turchia, percepita allora come molto lontana! Discutemmo animatamente su che cosa potessimo

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fare che avesse una valenza non solo nazionale, ma europea. L’i-dea che l’Europa in futuro potesse giocare un ruolo all’interno dell’AFS era qualcosa di sentito e decidemmo in quell’occasione di creare un gruppo di coordinamento, che si chiamava AFS-Eu-ropa (con la A finale, non la con la E, per sottolineare che non era un nome inglese), con l’idea di mantenerci in contatto e di avere un centro di informazione, che fu chiamato European Informa-tion Office. Non era un ufficio, era un volontario che ricopriva questo ruolo, con l’impegno di far circolare le notizie e di trovar-ci di anno in anno per aggiornarci e portare avanti una collabora-zione, magari con l’idea in un futuro più o meno lontano di avere anche scambi intraeuropei. L’anno dopo, nel settembre del ’65, ci trovammo a Istanbul. L’anno dopo ancora a Oxford e questa cosa cominciò a prendere corpo, tanto che a New York l’AFS co-minciava a domandarsi: “Cosa vogliono fare questi europei?” Il presidente Arthur Howe (forse un po’ preoccupato, ma sempre molto intelligente) intuì che poteva esserci un futuro in questo progetto europeo, purché nascesse collegato all’AFS. Perciò al quarto anno creò a Bruxelles un ufficio di coordinamento eu-ropeo, con del personale che facesse da sostegno, da sponda a questo movimento di volontari che era nato spontaneamente, senza nessuna organizzazione. Per parecchi anni questa cosa andò avanti così, con un ufficio europeo retribuito dall’AFS e un organismo di coordinamento nominato dai volontari. Finalmen-te nel 1971 si decise di creare formalmente, con atto notarile e l’adesione di tutti i Paesi europei, quella che oggi si chiama EFIL, Federazione Europea per l’apprendimento intercultura-le. Il primo nome era ancora AFS Europa, ma pochi anni dopo fu cambiato in EFIL. Perché anche se oggi queste cose sembrano strane, chiamarsi AFS Europa, in Europa, in quegli anni, era mol-to problematico: erano gli anni del Vietnam, gli anni della conte-stazione. Per cui una cosa che si chiamava AFS Europa suonava come la succursale di un’agenzia del governo americano. Da qui la necessità di cambiare nome, di darsi una connotazione più

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fortemente europea. [...] Mi ricordo che, quando ci chiamavamo ancora AFS Europa, andai ad una riunione europea a Strasburgo per presentare la nostra candidatura alla Fondazione Europea della Gioventù. E ci fu un tedesco che mi sottopose a venti mi-nuti di “interrogatorio” perché, disse, “io prima di venire qua ho chiamato il vostro partner tedesco al telefono e ha risposto di-cendo “pronto, American Field Service”. Allora voi non siete eu-ropei! Voi siete la spia, la lunga mano degli americani in Europa”.

Dunque cambiammo il nome, acquisimmo un’identità europea e cominciammo a realizzare quei programmi intra-europei che oggi sono normali. Oggi un migliaio di studenti fa il suo anno di scuola all’estero in un altro Paese europeo. A livello interna-zionale, grazie al lavoro e alla presenza di questo movimento europeo, nacque già nel ’71 il programma multinazionale, cioè scambi da tutti i Paesi, verso tutti i Paesi. Si ruppe quindi quel monopolio e quella caratteristica statunitense che AFS ave-va all’inizio, semplicemente per il fatto che era stata creata da cittadini americani, non certo perché fosse affiliata al governo americano. Da quel momento nasce anche quella sensibilità che porterà, nel 1991, alla creazione del sistema attuale, che è un sistema di partnership, dove c’è un segretariato internazionale a New York, dove i vari Paesi sono autonomi, quasi indipendenti, (sicuramente economicamente indipendenti), negoziano tra di loro gli scambi e l’ufficio centrale è semplicemente un ufficio di indirizzo e di coordinamento, nello stesso modo in cui a Bruxel-les abbiamo un ufficio di indirizzo e coordinamento per quanto riguarda i programmi europei. La natura dell’organizzazione è cambiata drammaticamente in questi 50 anni: io sono stato as-sunto come dipendente di un ente americano, oggi sono segre-tario di un’associazione italiana, che funziona secondo le norme italiane e negozia i suoi scambi con gli altri Paesi. Questa è stata sicuramente una trasformazione molto forte, visibile, di cui, in tutta onestà, penso che l’associazione italiana possa assumersi la paternità.

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Una domanda logica che mi viene spesso rivolta è “come mai l’Associazione è finita in Toscana?” È finita in Toscana per una storia molto vecchia. [...] La nostra associazione aveva preso l’impegno di organizzare in Italia nel ’68 una mega riunione di volontari di tutta Europa, quelle che allora si chiamavano Sum-mer Conferences, conferenze estive. [...] Non volevamo farla né a Roma, né a Milano, ma volevamo farla in una piccola località. Ci cose buffe che ti rimangono in testa: io avevo un libro delle scuole elementari, in cui ad una certa pagina c’era una foto gri-gia, un po’ sbiadita, di San Gimignano con le sue torri. Mi ricordo che questa cosa mi era rimasta in mente e proposi: “io non sono mai stato a San Gimignano, perché non andiamo a San Gimigna-no?” Era nei giorni del trasloco da Milano a Roma e San Gimi-gnano era sulla strada. Per cui Roberto Schisano ed io facemmo questa deviazione, arrivammo a San Gimignano, ci fermammo a mangiare al ‘Bel Soggiorno’ e poi andammo a prendere il caffè in piazza. Domandammo al barista: “chi si occupa di turismo, di cul-tura qui a San Gimignano?” e lui disse: “quel signore lì, Amedeo Miglianti”. [...] Stava anche lui prendendo il caffè al tavolino di fianco. Allora, Schisano ed io ci presentiamo, “vorremmo…. ““ah ma questa è un’idea bellissima! Dobbiamo subito parlare con il sindaco”. Per cui non so come, nel giro di 20 minuti, rintrac-ciò questo signor Fanciullini, sindaco di San Gimignano, il quale venne anche lui a prendere il caffè e si mise a discutere: “ah sì sì, questa è un’idea bellissima, bisogna farla!” [...] Così, poche setti-mane dopo, tornammoi a San Gimignano e per una riunione for-male. [...] L’anno dopo arrivarono 500 persone da tutto il mondo. [...] Fu un successo incredibile, [...] e fu quello l’inizio del nostro innamoramento per la zona. Il sindaco, subito dopo la fine del-la Conferenza, disse: “ma adesso non vorrete mica andarvene via, no? Faremo delle altre cose”… certo, una cosa così non si può organizzare tutti gli anni, però dall’anno successivo, dal ’69, cominciammo ad organizzare tutti gli anni a San Gimignano la riunione dei ragazzi che partivano per un anno all’estero. [...] E

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dopo poco cominciammo a far venire a San Gimignano anche tutti i ragazzi stranieri che arrivavano in Italia e che seguivano lì il corso di lingua prima di andare in famiglia e di cominciare la scuola. [...] Per tantissimi anni San Gimignano diventò la nostra seconda casa, sin quando, durante la grande gelata del 1985, il nostro ostello, il convento di S. Chiara, fu allagato, fu dichiarato inagibile e da quel momento cominciammo a cercare delle alter-native. E l’alternativa fu Colle Val d’Elsa, che abbiamo incontra-to nell’89, e dove ci siamo trasferiti nel ’91. [...] Ma penso che tutto sia veramente cominciato con quella fotografia sbiadita in bianco e nero sul mio libro delle elementari.

Una delle caratteristiche che hanno contraddistinto la nostra associazione in tutti questi anni è stata la non-discriminazione sociale, l’apertura a tutti. È stata una preoccupazione forte sin dall’inizio e l’abbiamo affrontata in due modi: una, sin dagli anni ’70, col metodo di Robin Hood, cioè cercando di accantonare una parte delle somme che pagavano i ragazzi provenienti da famiglie più abbienti per creare borse di studio per chi prove-niva da famiglie più modeste. È un sistema che abbiamo adot-tato solo noi nell’intero mondo di oltre 60 Paesi di AFS e ci ha permesso veramente di aprire le porte dei nostri programmi ai ragazzi di tutte le classi sociali.

Questo però non bastava e abbiamo cominciato a cercare aiuti esterni per incrementare questo ‘fondo borse di studio’. L’idea ce la diede Pietro Barilla che, negli anni ’70, un giorno capitò in ufficio e ci disse: “io ho parecchi figli e vorrei mandarli all’estero a fare corsi, come fate voi. Mi potete dare una mano?” Il figlio più vecchio ormai non aveva l’età per partecipare ai nostri con-corsi. [...] Quando arrivò il secondo, che invece aveva l’età giusta, partecipò ai nostri programmi e andò a vivere in una famiglia del Texas. Fu un’esperienza molto bella. Come mi disse Pietro Barilla al ritorno dei figli dall’estero: “vedete, io sono una per-sona agiata, i miei figli sono cresciuti nell’agiatezza, con persone

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di servizio ecc. Voi gli avete dato la possibilità di fare un anno normale, in una famiglia normale, semplice, modesta, e capire che non tutto il mondo è come casa mia. E questa è un’educa-zione fortissima, per cui vi sono molto grato. D’ora in avanti vi darò una borsa di studio tutti gli anni, perché possiate mandare all’estero altri ragazzi che non potrebbero permettersi di farlo”. È stato il primo dei nostri sponsor esterni e quando, attraver-so di lui, abbiamo capito che questa era una strada percorribile, abbiamo cominciato ad allargare il gruppo. Ci ha aiutato molto in questo un tedesco, che pochi anni prima era stato ospite del-la stessa mia scuola negli Stati Uniti e che nel frattempo aveva fatto molta più carriera di me ed era diventato vice-presiden-te della Deutsche Bank. Come vice-presidente della Deutsche Bank in Germania, Uli Weiss destinava ogni anno decide di bor-se di studio ai giovani tedeschi. Io lo invitai a venire in Italia e in quell’occasione facemmo una riunione di ex-borsisti italiani che avevano raggiunto posizioni eminenti nel mondo economico ita-liano. Uli raccontò la gratitudine che aveva verso l’associazione, perché era una cosa che tornava a beneficio non solo dei ragazzi e non solo dell’associazione, ma anche dell’azienda, per la visibi-lità positiva che questo programma di borse di studio dava all’e-sterno. Ricordo che nel corso della cena mettemmo insieme 74 borse di studio, il che non fu un successo da poco, e creammo un primo nucleo di aziende e manager di aziende che sostenevano il programma di borse aziendali. Successivamente creammo un apposito dipartimento all’interno della nostra struttura e oggi [...] il programma delle borse di studio sponsorizzate, soprattut-to da aziende, ma anche da fondazioni e in alcuni pochi casi an-che da enti pubblici, è diventato una parte importante della vita di Intercultura.

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Maurizio Stecco

Ex borsista negli USA (1964-65)Ex membro del Board of Trustees AFSEx Presidente EFILEx consigliere d’amministrazione di Intercultura

La mia idea di andare a studiare in America era nata dai miei genitori, soprattutto mio padre, che avevano sempre pensato che il futuro del mondo sarebbe stato nell’essere cittadini in-ternazionali [...] Quindi questa idea era nella mente e io l’avevo assolutamente introiettata molto positivamente [...]. A scuola nessuno sapeva niente di questa opportunità, nessuno ne par-lava, perché nel mio liceo, il Parini, nessuno concepiva l’idea che si potesse andare via un anno da questa fantastica, prestigiosa, perfetta scuola. Per cui nessuno [...] lasciava entrare i volontari a fare pubblicità. Mio padre [...] era riuscito in qualche modo ad avere informazioni sull’AFS. Ricevette quindi una lettera di Ga-latti, che diceva “guarda, se vuoi mandare tuo figlio, deve fare domanda in questo modo [...]”

L’anno in America è stato molto bello, ma molto impegnativo. Io sono andato ad Atlanta, in Georgia, negli anni delle leggi sui diritti civili e posso assicurare che la città, gli autobus, tutto, era-no ancora assolutamente divisi. Ricordo di aver visto perfetta-mente gli ingressi separati per i bianchi e i neri, di aver visto che nell’autobus un nero non si azzardava ad andare oltre le ultime

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cinque file dell’autobus. Una situazione veramente pesante da questo punto di vista, e per me sconvolgente, perché non ero certamente preparato, abituato ad un’idea di questo genere.

La mia scuola era privata, totalmente bianca. Ho trovato però il comitato locale di AFS che era formato da persone molto aperte [...] che dicevano: “guarda, noi la possiamo pensare come voglia-mo su una serie di cose, ma tu hai il diritto di capire”. Per cui mi organizzarono visite alle università nere, un incontro con Mar-tin Luther King, una serie di cose che quando ci ripenso sono abbastanza sconvolgenti. [...] Credo che questa per me sia stata veramente la crescita più importante che potevo avere: una si-tuazione ambientalmente molto stimolante, molto importante da comprendere; la mia full immersion nel mondo che ha spinto poi anche tutta la mia carriera lavorativa.

Negli anni di Intercultura i passaggi cruciali sono stati... prima, se vogliamo, lo spostamento dell’ufficio da Milano a Roma, che per i milanesi è stato un evento assolutamente traumatico. Una de-cisione che ho capito perfettamente e ho condiviso, perché c’era necessità di fare questo salto a livello nazionale. Poi gli anni di crescita come AFSAI e infine la scissione abbastanza traumatica del ’77. All’epoca, noi che avevamo costruito l’AFSAI eravamo già trattati come dei ruderi dell’anteguerra, e c’era una aspra discussione, anche ideologica (ma anche per motivi personali, di ambizione di una serie di persone), sulla strada da percorre-re. Poi eravamo nel ’77 che era un anno di crisi di tutto il movi-mento giovanile, studentesco in Italia. Abbiamo avuto anche un convegno ideologico a Venezia, in cui si discusse se dovevamo o meno collaborare con le istituzioni, se le istituzioni erano il male. Ovviamente, e lo spiega poi la storia successiva di Intercultura, la nostra decisione fu che non eravamo un’istituzione ma era necessario collaborare con le istituzioni per creare qualcosa di

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valido, oppure non avremmo avuto alcun ruolo.

Le priorità strategiche sono passate dalla sopravvivenza dei primissimi anni, alla crescita, e a una crescita significativa, coin-volgente, cioè non semplicemente numerica, ma qualitativa. Quindi discussioni sull’introduzione dei test psicologici, dei col-loqui, dell’orientamento, della pre-partenza, del reinserimento post-ritorno, etc.

La sfida di rendere l’associazione qualcosa di stabile, duraturo, importante, fu una sfida per dei ragazzi che avevano fatto un’e-sperienza molto significativa, in cui credevano, ma che non ave-vano assolutamente le competenze per portare avanti un pro-getto così grande. Ce le siamo via via costruite con molto sforzo e molta volontà. [...] Se guardiamo la composizione dei Consigli di quegli anni è molto facile trovare i nomi di persone che nella loro vita hanno ottenuto ottimi risultati, perché anche per loro Intercultura è stata una palestra di vita.

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Renata Gallo

Ex borsista negli USA (1961-62)Una delle prime a partire dalla SiciliaVolontaria di lunga data, creatrice dei Centri locali di Agrigento e Ivrea

Io sono partita nel ‘61 per gli USA, sono tornata il 26 luglio del 1962. [...] Siccome la mia esperienza era stata positiva, se non ne parlavo con gli altri che significato avrebbe avuto? E quindi approfittavo delle interviste che mi si proponevano, parlavo della mia esperienza con tutti coloro che mi capitavano a tiro. Scrivevo, proponevo articoli ai giornali, ho accettato di fare in-terviste, ne parlavo a ogni piè sospinto, abbiamo ospitato uno studente per l’estate. [...] Si avvicinava il momento in cui si pre-sentavano le domande. “Roberto io sono ad Agrigento, sono qui in questo periodo, pensavo di cercare candidature per l’anno prossimo”. “Ah mi sembra un’ottima idea! Ti faccio avere tutta la documentazione necessaria. Se hai bisogno di chiarimenti tele-fona”. Io ricevo la documentazione, me la leggo con calma, me la studio e mentre sono ad Agrigento faccio il giro delle scuole. [...] Vado a parlare con i presidi, parlo di Intercultura, parlo di que-sti programmi. Qualche risultato si è visto, qualcuno è partito, qualcuno è arrivato (sempre nell’ordine di piccoli numeri, al di sotto delle 5 unità). Consideriamo che io vivevo a Firenze per l’università: quando ero ad Agrigento facevo qualcosa, quando non c’ero avevo il segretario, mio papà.

Ho finito l’università. Volevo fare l’ambasciatore. I grandi sogni:

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bisogna sempre mirare in alto per poter raggiungere risultati più concreti. Volevo fare la carriera diplomatica ed ero orientata su quella strada. Avevo fatto Scienze Politiche nella migliore fa-coltà di Scienze Politiche, quella di Firenze all’Alfieri, avevo fre-quentato la John Hopkins University, specializzandomi in storia contemporanea. Avevo fatto uno stage di 6 mesi alla Comunità Economica Europea, partecipavo a seminari a Strasburgo e alla Nato, tutti questi posti che hanno un peso a livello internazio-nale. E dopo tutti questi studi ho cominciato però a rendermi conto che non potevo continuare a vivere sulle spalle della mia famiglia. A quel punto ho iniziato a lavorare sul serio. [Con mio marito] siamo arrivati a Ivrea nel 69. [...] Una città aperta, colta se vogliamo. Una città che guardava avanti, che aveva un certo spirito imprenditoriale. Nel 79 ho fatto la mia solita telefonata a Roberto: “io sono ad Ivrea. Non c’è nessuno che rappresenti Intercultura. Mi fai avere il materiale?” Sapevo infatti che c’era terreno fertile. Per portare avanti un programma di volontaria-to bisogna crederci, se ci credi rimane pur sempre un lavoro dif-ficile, ma ci riesci. E se ci credi devi portarlo avanti con coerenza, con costanza, con impegno, avendo ben chiaro lo scopo che vuoi raggiungere altrimenti è inutile. Io sono rimasta sola per tanti anni qui a Ivrea. Ho trovato solo delle collaborazioni sporadiche. Ho cominciato con il solito criterio: vai a parlare, scrivi ai gior-nali [...] La scuola è stata un po’ più complicata delle pubbliche istituzioni. [...] Tutti (nelle istituzioni) molto coerentemente mi hanno sempre detto “Dott.ssa Gallo guardi che soldi non ce n’è in cassa, però le strutture di Ivrea sono a sua disposizione. Se lei vuole mandare uno studente straniero in piscina è gratuito, se lei ha bisogno di una sala per fare una conferenza gliela dia-mo gratis”. Io ne approfittavo. La scuola invece è stata un po’ un osso duro perché hanno sempre fatto un po’ di ostruzionismo. [...] Adesso no, la scuola è molto più comprensiva e quindi ci sono dei rapporti diversi e si può parlare, si può entrare. Ogni anno partivano un bel numero di ragazzi, sono arrivata a farne partire

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20. Adesso il Centro locale continua a vivere. [...]

Per gestire un Centro, per farlo funzionare, bisogna fare. Col-tivare le persone, seguirle, interessarle, fare qualcosa di nuovo [...] ma ci vogliono anche i soldi per fare tutto questo e quindi bi-sogna fare campagna finanziaria. Sotto questo profilo non è che io abbia mai ricevuto tanto in termini di soldi dalla città di Ivrea. Però soldi, pochi o tanti, un po’ ci vogliono. E allora, nel 1994, è venuta ad Ivrea un’orchestra di 80 elementi che veniva per fare una tournée in Italia. L’iniziativa era nata a Colle. Ma che c’entra Intercultura con al musica? Intanto la musica è uno strumen-to di comunione fra le genti. Si trattava infatti di un’orchestra statunitense composta bianchi, neri classe elevata, lower class, quindi molto mista. Mi è stato chiesto di accompagnarla nella sua tournée nel Nord d’Italia e mi sono anche offerta di ospi-tarla ad Ivrea per il primo concerto. [...] Sono arrivati e abbiamo sistemato 85 ragazzi nelle famiglie di Ivrea: ma volete mettere 85 famiglie che vengono a contatto con uno studente? 85 fami-glie che conoscono Intercultura, che magari l’anno successivo si offrono per ospitare, oppure che hanno un ragazzo da manda-re. Quale migliore soluzione di questa? [...] Il concerto era stato pubblicizzato dicendo che il ricavato sarebbe stato devoluto per una borsa di studio, ha avuto un grandissimo successo e i soldi sono andati ad una ragazza che è andata in Australia per 6 mesi.

Il concorso fotografico è una cosa che io non sono riuscita a fare quando il centro locale era nelle mie mani perché per molto tem-po sono stata da sola. Era una cosa molto complessa da potare avanti. Non riuscendo a farlo è rimasto un sogno nel cassetto, realizzato quando poi il Centro si è allargato e si sono succeduti altri presidenti. [...] Non tutti erano d’accordo ma la maggioran-za era favorevole e quindi si è portato avanti questo concorso. [...] Abbiamo avuto i nostri momenti di difficoltà perché ci costa-va tanto, troppo in effetti in proporzione. Il ricavato non era un ricavato economico, assolutamente, era di immagine e poi ci di-

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spiaceva rinunziare perché era troppo bello anche per i ragazzi che lo facevano [...].

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Monica Bacco

Tra le prime famiglie ospitanti in Sicilia (1987)Testimone della crescita del volontariato in Sicilia negli anni ‘90Volontaria di lunga data in vari ruoli

Vi voglio raccontare come, nell’86, ho visto un programma in televisione. Mi ha veramente colpito e emozionato perché una famiglia di Noale incontrava in quella trasmissione il suo giova-ne studente ospitato, del Ghana, dopo 10 anni. È stato emozio-nante vedere questo ragazzo che riabbracciava la sua famiglia e mi ha colpito tantissimo. Subito la sera ne ho parlato con mio marito. Mio figlio aveva sei anni e ho detto “Questa è un’espe-rienza che dobbiamo fare! Il nostro bambino deve vivere queste esperienze, deve anche lui a sua volta farle!”. Scrissi una lettera a Intercultura dicendo che ero rimasta colpita da questa tra-smissione e volevo avere più informazioni. E così di là a qualche mese arrivò Anna, svedese, la nostra prima ragazza ospitata. La nostra esperienza è stata bella, intensa, l’abbiamo vissuta non solo noi ma tutta la comunità, i nonni, tutti gli amici. Volevo che più persone si avvicinassero a questo tipo di esperienze. Quin-di con l’aiuto di un giovane borsista dell’epoca abbiamo provato ad entrare nelle scuole a Catania. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare Maria Teresa Fichera, una professoressa che allora insegnava latino e greco in un liceo classico di Catania. Lei ha subito sposato il nostro progetto e così, col suo aiuto, abbiamo avuto la possibilità di conoscere altri studenti, altre famiglie, e

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via via allargarci sempre di più [...].

Dopo l’arrivo di Anna a casa mia ci sono stati dei momenti un po’ sconvolgenti, diciamo, per la comunità, per gli amici, per i miei suoceri. Era svedese, bionda, bella; siamo negli anni ‘80, immagi-nate tutti i pregiudizi sulla Svezia, sulle ragazze libere. E tutti in-fatti erano un po’ interdetti, dicevano: “Ah ma come? Come puoi ospitare una ragazza svedese? E tua suocera che dice? E tuo ma-rito? Non ti preoccupi?”. C’erano molti pregiudizi. Naturalmente in una piccola cittadina come Augusta è normale. Ma vedere an-che piccoli cambiamenti è stata una grande soddisfazione, una grande gratificazione per me, anche come volontaria [...].

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Mila Montanaro

Mamma di borsista all’estero e volontaria di Intercultura dal 1990Responsabile per lo sviluppo del volontariato in Sicilia e Calabria Sud dal 1997

Testimone dello sviluppo del volontariato in Sicilia

[Alla fine degli anni ‘80] in Sicilia c’erano pochissimi volontari di Intercultura e i pochi studenti partivano più che altro dalle città di Messina, Palermo, Agrigento e Catania. […] Nel 1987, in occasione delle selezioni di mia figlia, ho conosciuto un’insegnante aperta, illuminata, che aveva abbracciato il progetto di Intercultura. Con lei è nata subito un’amicizia per via di questo comune interesse, che ci ha legate emotivamente.

Questa insegnante mi ha chiesto di aiutarla nello sviluppo del progetto educativo di Intercultura e da quel momento la mia vita è stata un turbine! Ho coinvolto tutta la famiglia, dal marito all’altro figlio. Abbiamo ospitato, li ho coinvolti nelle feste di Intercultura, nella promozione, nella ricerca di altre famiglie, nella ricerca di altri volontari. E piano piano, a Catania, si è creato un gruppo numeroso, molto motivato, molto allegro, capace di trasmettere questi valori. Ricordiamoci che eravamo negli anni ‘90 e non era assolutamente facile convincere le famiglie a lasciar andare i propri figli. [Noi genitori che mandavamo i figli all’estero per un anno] eravamo considerati pazzi e incoscienti.

Naturalmente, io ero la milanese che faceva sempre qualcosa di diverso rispetto alla cultura e alla mentalità di quell’epoca. Forse anche io ho fatto un po’ l’esperienza di Intercultura: venendo in

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Sicilia da Milano ho vissuto la difficoltà di inserimento in una cultura diversa perché, diciamocelo, l’Italia è lunga e le culture sono tante. Quindi anch’io ho fatto il percorso che fanno i ragazzi e ho dovuto vincere molte battaglie, abbattere molti stereotipi, accettare tante cose. E proprio nel momento in cui ho accettato la cultura siciliana, mi sono sentita a casa.

Questo percorso è stato meraviglioso: fino al 1997 sono stata volontaria. […] Abbiamo creato un bellissimo Centro Intercultura a Catania, ma nel resto della Sicilia non c’era nulla. Quindi sono stata invitata da Intercultura a sviluppare il volontariato in tutta la regione, che rispetto al resto d’Italia era indietro di circa vent’anni. Ho cominciato partendo dalle scuole. Abbiamo organizzato tanti seminari per docenti e dirigenti scolastici in collaborazione con l’ANP in tutte le città siciliane. Devo dire che all’inizio è stato difficile perché mi sentivo tanto Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento: la mentalità dei docenti era ancora quella che l’anno trascorso all’estero era un anno di vacanza, non un anno di crescita. […] Però, grazie a degli insegnanti e dei dirigenti illuminati abbiamo sviluppato Intercultura in Sicilia, dove adesso ci sono diciannove Centri Locali e oltre trecento volontari.

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Giuseppina Primavera

Volontaria di lunga data in vari ruoliPromotrice dell’Associazione in Sardegna

La mia conoscenza di Intercultura è avvenuta nell’Oregon, dove mi ero recata con una borsa di studio Fulbright nel 1959. Lì ho conosciuto alcuni studenti AFS e quando sono rientrata in Sar-degna, nel 1968/69, ho preso contatto con il gruppo locale di Intercultura. È stato un fatto naturale appoggiare poi mio figlio Chicco nella scelta, nel 1977, di fare un anno negli Stati Uniti, così come è stato naturale aiutare altri ragazzi a farlo in anni in cui non era un fatto così comune, almeno in Sardegna. E così ho iniziato a collaborare e, alla fine, sono stata volontaria fino a po-chi anni fa, per quasi 40 anni!

Quando ho iniziato la mia attività di volontariato non esisteva una vera organizzazione che promuovesse gli scambi culturali in Sardegna. C’erano soltanto degli ex borsisti animati da buona volontà e con il desiderio di aiutare i ragazzi che intendevano partire a vincere le resistenze della famiglia e della scuola. Pian piano ho cercato di creare una struttura e sono riuscita ad allar-gare i programmi da Cagliari e Oristano, a Sassari, a Nuoro, fino ad arrivare alla creazione di un’Associazione Regionale Sarda.

Tutto questo è stato realizzato andando di scuola in scuola, capillarmente, con l’aiuto di colleghi e partecipando ai consigli d’Istituto e di classe. L’attività più importante è stata quella di avvicinare i ragazzi più motivati, trasmettendo loro l’utilità di

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una simile esperienza, ai fini di una maturazione e di un’apertura mentale verso una società ormai globalizzata.

Nel tempo sono state avviate relazioni con le istituzioni locali (Comuni, Province e Regione) che hanno dato sostegno a Inter-cultura istituendo borse di studio, per dare la possibilità di par-tecipare a queste esperienze anche a giovani economicamente svantaggiati e offrendo gratuitamente le sedi istituzionali per gli incontri di promozione dell’Associazione.

La visibilità pubblica era un aspetto che veniva curato con parti-colare attenzione. Organizzavamo manifestazioni all’arrivo de-gli studenti stranieri all’inizio dell’anno scolastico, l’arrivederci alla fine, convegni ai quali si invitavano gli ex borsisti, anche di altre regioni, e le personalità che avevano dato il più valido con-tributo all’Associazione per avere visibilità sui media e far cono-scere Intercultura alla popolazione.

Ho trovato resistenza da parte dei docenti che erano propensi a pensare che l’anno all’estero fosse un anno di vacanza, perché secondo loro la scuola all’estero era meno qualificata di quella italiana. Sono riuscita a vincere queste resistenze dialogando con i docenti e portando a scuola e in convegni pubblici le te-stimonianze degli studenti che, dopo l’esperienza, esprimevano ampia riflessione sul miglioramento della loro personalità, della loro cultura e sul nuovo metodo acquisito nell’interloquire e in-teragire con gli altri.

La cosa di cui sono più orgogliosa e che ha dato significato a que-sto impegno così lungo è stato il fatto di poter avere un dialogo interculturale con le scuole, famiglie e la società, aprendo la Sar-degna a questa visione degli Stati esteri.

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Terry Little

Ex borsista dagli USA in Turchia (1976-77)

Coordinatore del progetto Casa Aletti (1986-90)

Responsabile dei progetti per adulti con l’Africa - ICCROM/PREMA

La Casa Aletti, anche detto Palazzo Aletti o Centro Aletti, era in Via Paolina 25 a Roma, vicino a Santa Maria Maggiore, ed era stata donata dalla signora Anna Maria Aletti, vedova. La casa in sé era su quattro piani: lei abitava al secondo piano e i borsisti erano all’ultimo piano. Al primo piano e al piano terra c’erano gli uffici e anche la casa del direttore. La signo-ra Aletti già aveva 80 anni, mi sembra, quando cominciarono i primi programmi nel 1986 e gli ospiti africani la adorava-no. La sua casa era sempre aperta ed era una casa bellissima perché non aveva cambiato niente da decenni. Dunque ave-va una casa più o meno dei primi del Novecento, piena di ri-cordi della sua famiglia. Non aveva figli. Quando è deceduta nei primi anni ‘90 abbiamo fatto un cerimonia a Casa Aletti.

Il Centro Aletti è stato fondato nel 1986. Intercultura ha preso in carico la sistemazione degli spazi in modo da ospita-re studenti di tutto il mondo, soprattutto africani. AFS Inter-national, negli anni Ottanta, si era resa conto della mancanza di programmi rilevanti con l’Africa ed era stato soprattutto Roberto Ruffino a lanciare un appello agli altri organismi AFS, soprattutto in Europa, chiedendosi “Cosa possiamo

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fare? Quali progetti, quali programmi hanno un senso per l’Africa?”. Perché avevamo visto che i programmi per i giova-ni erano costosi, la possibilità di avere borse era scarsa, per cui avevamo identificato tre o quattro programmi per adulti: uno per persone che lavoravano nel settore culturale, muse-ale; un altro per giornalisti e uno per gli insegnanti. Quando io sono arrivato a Roma, nell’aprile del 1986, c’erano già tre ragazzi ospiti nella Casa Aletti: un’americana, un brasiliano e un ghanese. Nell’86 erano ancora in corso i restauri. L’idea era di ospitare i borsisti ma anche certi uffici dei programmi di Intercultura che erano sistemati negli spazi al piano terra.

[...] Il programma più consistente era fatto in collaborazione con ICCROM, il Centro internazionale di studi per la con-servazione ed il restauro dei beni culturali, creato dall’UNE-SCO, con sede a Roma. Intercultura, insieme a ICCROM, ave-va trovato i soldi per ospitare 13 o 14 africani per un anno di studi e il ruolo di Intercultura in questo programma era di supporto logistico, ma soprattutto interculturale. Que-sti erano i primi programmi AFS per adulti in generale, non soltanto per Intercultura. [...] I partecipanti per quattro/sei settimane facevano un corso di italiano, prima di cominciare il loro corso professionale all’ICCROM. Insieme al corso di italiano c’era la formazione interculturale. Questi program-mi cominciarono nel ‘86 e ogni anno, fino al ‘90, c’erano tra i quindici e i venti partecipanti. [...] L’obiettivo di questi pro-grammi non era soltanto la formazione professionale, ma era anche quello di creare delle reti professionali. Attraverso la formazione interculturale e attraverso le attività sociali al Centro questo è avvenuto. In più con Intercultura quasi ogni mese organizzavamo delle gite con i Centri Locali. Questo è stato molto positivo perchè ha dato la possibilità a molte famiglie italiane di ospitare africani di un certo livello, di co-noscere una realtà africana un po’ diversa da quella che ve-devano nei media.

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Quali erano i problemi? Era la prima volta che si facevano programmi per adulti e non eravamo molto preparati. Anche noi di Intercultura abbiamo imparato come trattare o non trattare persone di una certa età, di una certa esperienza. Nei primi mesi abbiamo sbagliato molto però per fortuna abbiamo anche imparato molto e abbiamo sviluppato un metodo per la formazione interculturale con questo livello di persone. Anche la convivenza non è stata sempre facile: i partecipanti spesso erano padri o madri di famiglia, con figli a casa, e noi come esperti avevamo 28, 29, 30 anni. Anche questa era una sfida perché molti di loro avevano più anni di noi e in Africa l’età e l’esperienza contano molto.

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Carlo Fusaro

Ex borsista negli USA (1967-68)Ex Presidente di Intercultura (2003-07)Ex Trustee AFS (2008-13)Volontariato a livello nazionale e internazionaleVicepresidente della Fondazione Intercultura dal 2017

L’esperienza all’estero ti segna profondamente, ti fa capire l’utili-tà e l’importanza dell’incontro interculturale e soprattutto con-sente di dire a te stesso “ho superato questa sfida, mi conosco un po’ meglio.” E poi la cosa più bella, se hai un minimo di spirito critico (cosa che per fortuna i partecipanti a questa esperienza di solito hanno) è l’opportunità di vedere con occhiali esterni la propria realtà, il proprio Paese, la propria comunità e quindi ca-pire dal confronto cosa va bene e cosa non va bene, cosa è pre-zioso e cosa invece sarebbe meglio cambiare.

C’è stato un momento in cui l’Associoazione ha conosciuto una cesura e una ripartenza pianificati, studiati. Fu quando si deci-se di interrompere l’esperienza di AFSAI (che stava prendendo una strada che noi ritenevamo sbagliata perché politicizzata e che immaginava, sull’onda del ’68, di tagliar fuori gli Stati Uniti da questa esperienza, cosa anche culturalmente sbagliata) per fondare un’associazione nuova che, dati i partecipanti, fu in gra-do di presentarsi subito a New York, alla sede centrale di AFS, come quella che avrebbe meglio potuto presentare, proporre e sviluppare i programmi di AFS in Italia.

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[...] E per fondare Intercultura, letteralmente col notaio davan-ti, fu scelta la città di Firenze. E fu così che Intercultura nacque storicamente nel ’77 in via De’Serragli credo numero 3, sede del quartiere 3 della città di Firenze, di cui allora ero consigliere.

Il nome Intercultura non era casuale ma rispondeva a un preciso programma strategico, volto a fare di queste esperienze di stu-dio all’estero, in famiglia, presso la scuola, in una comunità, un qualcosa che fosse organizzato e finalizzato a una formazione interculturale, quindi un progetto educativo. Questa è stata sin dall’inizio la caratteristica di Intercultura, una caratteristica che è stata fatta propria anche da altre Associazioni e che da diversi anni è penetrata anche a livello di AFS International Programs (che vuol dire la sede centrale del network, a New York). Un chiarimento: negli anni Ottanta i programmi da bilaterali diven-tarono a Rete: i membri dell’Organizzazione internazionale (che sono circa 55 – 60 in altrettanti Paesi) non facevano più scambi solo con gli Stati Uniti, ma ciascuno con tutti gli altri interessati e disponibili. (…) Questo ha portato a rinnovare l’American Field Service, che ha perso quell’”American” – infatti si chiama “AFS International Programs”, senza più la sottolineatura dell’Ame-rican. In questo contesto, i rappresentanti italiani del Board of Trustees hanno sempre puntato a far sviluppare il più possibile, anche a livello di Rete, a livello mondiale, questo modello di pro-getto educativo, non di viaggio esperienziale e basta.

Ho avuto il privilegio di concorrere allo studio e alla creazione della Fondazione Intercultura. Ero il Presidente dell’Associazio-ne che ha firmato gli atti a Colle Val D’Elsa, nel maggio del 2007, per l’istituzione della Fondazione. La logica era quella di assicu-rare che una parte del patrimonio di conoscenze ma anche di risorse che l’Associazione era riuscita a costruire e ad accumu-lare, restasse sempre finalizzata a quel progetto di formazione interculturale che è nei geni di Intercultura, sin dalle sue origini nel 1977. Il progetto della Fondazione, coerente con e parallelo a quello dell’Associazione, è quello di raccogliere e devolvere ri-

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sorse e finanziamenti volti nel passare del tempo ad affermare questo progetto. Una Fondazione è un patrimonio destinato a uno scopo, non è un’Associazione di volontari che un domani po-trebbero, legittimamente, anche cambiare scopo. Ecco perché le Fondazioni sono gradite dagli interlocutori istituzionali e dalle grandi aziende, perché sanno che ogni euro devoluto è destina-to per quello scopo. La nostra Fondazione si pone quindi come obiettivo quello di concorrere a un progetto di diffusione del-le conoscenze in un settore specifico che è quello cui noi siamo vocati, cioè i programmi di formazione interculturale attraverso scambi con altri Paesi, destinati prevalentemente a persone in età scolastica. Purtroppo ogni tanto si sente ancora dire, dalle famiglie, dai partecipanti, dai volontari: “sai, in quella scuola il professore non le vede bene...” pur se in misura ben minore ri-spetto a com’era un tempo. Allora la Fondazione ha realizzato l’Osservatorio, la Fondazione fa i suoi programmi per diffonde-re fra gli insegnanti la necessità di un certo tipo di formazione interculturale, organizza una miriade di convegni e di incontri anche via web per insegnanti, per concorrere a costituire una classe di docenti sempre più aperta a queste esperienze. lnoltre, la Fondazione destina risorse rilevanti all’Università, sostenen-do programmi di ricerca e dottorati che vanno nella direzione di approfondire, di studiare una cosa che cinquant’anni fa era solo esperienza. Mandi il ragazzo a studiare all’estero in un’al-tra scuola, un’altra comunità, un’altra famiglia: è probabile, anzi è certo che torni cambiato e dovrebbe anche tornare voglioso di trasmettere e conoscersi meglio. Altra cosa però è farlo in maniera strutturata: studiare dove spingere, quali competenze cercare, quale modo di documentare le competenze acquisite. Ecco, c’è un lavoro immenso che la Fondazione ha cominciato a fare da dieci anni e che certamente continuerà a fare nel suo futuro.

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Ezio Vergani

Ex borsista negli USA (1961-62)Ex Presidente di Intercultura (1969-73 e 1977-89)Ex Trustee AFS (1978-91)

La storia della nostra associazione è una storia di successo, pen-so che nessuno lo possa mettere in discussione, tenendo conto dei numeri di borsisti che abbiamo all’anno, e di quanto suppor-to economico diamo, che è una cosa molto più americana che italiana. In Italia le borse di studio si fanno in modo un po’ bizzar-ro, qui c’è quello che gli americani chiamano il financial aid, che viene dato un po’ a tutti coloro che meritano e che non hanno le possibilità di andare all’estero. Quindi, grande successo da que-sto punto di vista.

La creazione della Fondazione, e i rapporti con il mondo del-la scuola e la società esterna in generale sono un altro grande successo dell’associazione, e quindi sicuramente possiamo dire che Intercultura è una storia di successo. Per quali motivi? Ce ne sono tanti. Sicuramente la struttura e le persone, un rappor-to molto buono tra Consiglio d’amministrazione e struttura, un consiglio d’amministrazione particolarmente valido. Mi ricordo sempre, non so a quale congresso, io ero presidente e avevo come tesoriere Giovanni Grandjaquet, che allora era il respon-sabile di una banca americana primaria per tutta l’Europa. Era lui che presentava all’assemblea il nostro bilancio che era bana-lissimo rispetto al bilancio di società varie. Ad un certo punto si

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alzò un bocconiano del secondo anno e disse a me e a Grandja-quet: “beh, capisco che siete dei volontari, che non è il vostro mestiere, però i bilanci dovrebbero essere...” Allora ci fu un po’ una risata a denti stretti da parte nostra, e questa persona forse capì di aver leggermente esagerato. Però questo tipo di apertu-ra, il poter parlare liberamente, esprimendo la propria opinione senza paura di censure è stata una forza veramente importante per l’associazione. In più avevamo – parlando della struttura – i centri locali e le commissioni, che erano dei gruppi intermedi fra il consiglio di amministrazione e il volontariato, i comitati locali ecc. E poi forse abbiamo azzeccato le linee strategiche principa-li: il rapporto forte con la scuola, il rigore in tutte le cose che ab-biamo fatto, nelle scelte, nei bilanci, nelle selezioni, che in alcuni altri luoghi non sono state così limpide e chiare come sono state da noi. E questo alla fine il mercato (anche se i volontari di inter-cultura non amano questa parolaccia, il mercato c’è) e la società italiana l’hanno riconosciuto.

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Mietta Rodeschini

Ex borsista negli USA (1965-66)Ex Presidente di Intercultura (1994-99)Ex Trustee AFS (2000-09)

[...] Divenni Presidente di Intercultura. Proprio l’anno successi-vo alla partenza di mia figlia per gli Stati Uniti ebbi questa occa-sione di potere andare a un Congresso dove fui eletta consiglie-re e poi Presidente, negli anni ‘90. Furono anni straordinari per Intercultura ma anche per me, con un Consiglio meraviglioso in cui c’erano top manager di grandissimo livello. [... Questi] mana-ger davano un impulso straordinario allo sviluppo di Intercultu-ra. [...] Sono stati anni molto fattivi, [...] si sono decise tante cose e anche tante procedure che poi hanno dato all’Associazione la sua struttura fondamentale. Anche il numero dei dipendenti è cresciuto in quegli anni e soprattutto è cresciuto quel che noi in azienda chiamiamo il fatturato. [...] Intercultura in quegli anni è andata avanti bene, ma erano gli anni ‘90, quindi non eravamo ancora nei momenti molto più critici che sono venuti dopo. Cri-tici però per il nostro Paese, non tanto per Intercultura, che ha saputo cogliere il momento, non dare spazio ai competitor, esse-re sempre avanti un passo, essere capace di inventarsi la forma-zione, di lavorare con le scuole, di avere rapporto con i Presidi, di mettere nel Consiglio di Amministrazione un rappresentante dell’Associazione Presidi, di dialogare sempre ad un alto livello.

[Alla fine del mandato come Presidente di Intercultura] mi fu

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chiesto di concorrere per diventare Trustee e fui eletta. [...] Fui Vicepresidente del Board dei Trustees1 per diversi anni, dal 2000 al 2009. Sono stati anni molto interessanti. Naturalmente il Trustee dovrebbe essere super partes, ma non puoi essere su-per partes se sei stato Presidente di un’Associazione nazionale, quindi è logico che io abbia lavorato anche per Intercultura, ma soprattutto perché era un bene per gli altri, perché le esperienze e le linee programmatiche e strategiche di Intercultura segna-vano veramente un turning point importante. Abbiamo cercato tutti di fare in modo che l’AFS si trasformasse da associazione internazionale un po’giovanilistica in qualche cosa di più. Molti dei nostri partner sono associazioni giovanili, soprattutto per-ché ricevono contributi dai loro Stati per questo. Ma questo non aiuta assolutamente il futuro delle varie Associazioni, perché c’è un turn over molto forte: è una problematica che purtroppo non è migliorata nel tempo. Anche perché è molto difficile dirigere un network internazionale con più di 60 Paesi, con un budget molto limitato e anche una capacità di influenza molto limita-ta. Forse un tempo, quando era tutto centralizzato, New York comandava e gli altri dovevano obbedire, ma questo ormai non può più succedere. Un’altra cosa interessante che abbiamo fat-to in quel periodo è stato proteggere il marchio attraverso una fondazione in Svizzera, perchè fino ad allora non lo era.

1 Il Consiglio di amministrazione di AFS a livello globale

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Riflessioni su un’esperienza

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Giovanni Giudici

Ex borsista negli USA (1957-58) Vescovo emerito di Pavia

La famiglia a cui sono stato affidato era la famiglia Osborne che abitava a Buffalo di New York. La madre era bibliotecaria, il papà invece faceva il professore di università, precisamente sul tema della biologia. Una famiglia molto serena, una famiglia con rap-porti molto buoni con i vicini, cosa che appunto mi colpì molto, una famiglia anche molto attenta alle diversità: io ero cattolico, ho vissuto tutto l’anno praticando la chiesa cattolica, mentre loro erano protestanti. Questo non impedì di dialogare tra di noi, in particolare sul tema scientifico perché il professore d’uni-versità aveva studiato tutto il tema della biologia, anche il tema della pillola, ma questo non impedì che ci scambiassimo opinio-ni. [...] Sono sempre stati comunque attenti e rispettosi del mio essere credente e io ho avuto anche l’agio di vivere più da vicino la dimensione esperienziale della chiesa cattolica americana.

L’incontro con le altre culture penso che sia stato uno degli ef-fetti più positivi di questa mia esperienza. Intanto perché ve-nendo da una città di provincia, da un Paese allora bloccato sulla dinamica comunismo/anti-comunismo, giungevo in un Paese in cui il dibattito politico era sereno, tranquillo, non c’erano sco-muniche reciproche, potremmo dire così. In un Paese in cui vive-vo in una famiglia protestante, partecipavo talvolta al loro culto, e tutto questo mi ha fatto incontrare in concreto una diversità,

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sperimentare le ragioni della vita, e capire che certi aspetti di natura etica (comportarsi bene, l’amore e la giustizia, l’atten-zione al prossimo, ai vicini, come questa famiglia viveva) sono trasversali, sono al di là di ogni cultura e ideologia. E questo na-turalmente ha fatto crescere in me anche una lettura diversa della mia vocazione cristiana, perché la Bibbia è un libro che va bene, in un certo senso, per tutte le domande che gli uomini e le donne si fanno, nel desiderio di vivere una vita buona. Questo mi ha fatto comprendere anche meglio come ogni cultura è in un certo senso una sintesi, dovuta alla storia, alle dimensioni sociali e politiche che una persona vive, il passato che ha, una sintesi nel tentativo di scoprire “come posso vivere bene”. Allora queste varie sintesi non sono contrapposte, anzi, talvolta si fecondano l’una con l’altra. Questa è una delle acquisizioni più belle che ho portato con me per tutto il resto della vita, che mi ha consentito di incontrare culture, religioni diverse, e anche persone molto diverse. In un certo senso, ha anche avuto un effetto sulla mia vocazione, perché il cogliere che la Bibbia è in grado di risponde-re a tante diverse dimensioni della vita umana mi ha fatto pen-sare che allora predicare la Bibbia, cioè diventare prete, potesse essere utile nei confronti della vita degli altri.

Anche il ritorno è stato molto interessante, perché evidente-mente portavo con me qualcosa di nuovo, dal modo più informa-le di vestire (le mie camicette potevano essere un po’ singolari in quegli anni) all’aspetto più interessante di portare, nel dialogo con le altre persone e nella scuola stessa, questa esperienza di universalità che avevo vissuto. Questo si è manifestato anche in una maggiore intraprendenza [...], e questo mi ha condotto fino ai 19 anni, quando ho scelto di entrare in seminario. E anche lì ero un po’ un punto interessante per i miei compagni, per questo riflettere ad alta voce sull’esperienza che avevo fatto, su questo incontro con le persone che avevo vissuto. Poi per continuare questo tema direi che è stato utile in genere nella vita, per la ca-pacità di accogliere diversità culturali e religiose con semplicità,

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perché avevo vissuto questo dialogo con le altre culture e anche religioni proprio nella concretezza della mia vita quotidiana ne-gli Stati Uniti.

Questa esperienza mi aveva segnato tanto positivamente per cui ho dato anche un po’ di energie in quello che allora si chiama-va AFSAI e oggi si chiama Intercultura. I gruppi erano piuttosto rari in Italia, noi avevamo rapporti soprattutto col gruppo di Mi-lano e ricordo che mi fu affidato qualche dialogo con le famiglie di ragazzi che volevano partire per gli Stati Uniti. Questa cosa mi consentì di collocarmi anche un po’ dentro il movimento di volontari. Naturalmente essendo entrato poi in seminario il set-tembre successivo, ho perso un po’ i contatti diretti. Sono rima-sto sempre però molto persuaso di questa formula, cioè che del-le persone mettano a disposizione il loro tempo e la loro energia per creare questo dialogo tra le persone, per far conoscere. Mi sembra sempre molto importante ciò che Galatti ci disse a New York, e cioè: “noi, che siamo gli eredi di chi ha fatto l’ambulanzie-re nella Prima Guerra Mondiale e poi ha visto il tradimento della pace nella Seconda Guerra Mondiale, abbiamo desiderato che ci fosse un inizio di dialogo e quindi di costruzione della pace, attraverso questo movimento di giovani studenti che si scam-biavano da un Paese all’altro”. Da questo punto di vista, per quel-lo che mi riguarda, la missione l’hanno compiuta, perché sono rimasto appassionato della pace, ho fatto parte di un movimen-to cattolico pacifista, Pax Cristi, ne sono diventato presidente per qualche anno e questo mi ha consentito anche di girare per il mondo.

Quando mi domando che cosa ha significato per me questa esperienza, alcuni aspetti sono macroscopici, come ad esempio la buona conoscenza dell’inglese parlato e scritto. Questo certa-mente mi ha aperto molte prospettive, anche dal punto di vista “professionale”: sono stato incaricato di seguire i missionari in varie parti del mondo. Il fatto di sapere bene l’inglese mi consen-

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tiva di viaggiare, di incontrarli, incontrare le autorità religiose e politiche di molti Paesi dell’Africa, dell’America Latina, qualche Paese del Medio Oriente.

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Susanna Mantovani

Ex borsista negli USA (1963-64)Docente di pedagogia e già pro-rettore vicario dell’Università di Milano – BicoccaMembro del Comitato Scientifico e del Consiglio Direttivo della Fondazione Inter-cultura

Sono partita per gli Stati Uniti (Tulsa, Oklahoma) nell’agosto del 1963.

Se ripenso all’esperienza fatta tanti anni fa, è stata un’esperien-za molto forte. Molto forte il viaggio e anche molto importante allora, questi 7 giorni in mare che decantavano, che davano un tempo di distacco, in cui si stava insieme e in qualche modo ci si preparava. L’emozione di arrivare di mattina, all’alba a New York, vedendo la statua della libertà – questa credo sia stata un’emozione per molti. Poi, tante esperienze e aneddoti molto divertenti, se ripensati oggi: il senso di disagio perchè quando sono arrivata nella città dove ho passato l’anno, avevo subito un date, un appuntamento per quella sera con un giovane scel-to dalla famiglia che mi ospitava. Questa cosa che mi aveva tur-bata perché all’epoca, anni ’60, avere un appuntamento con un ragazzo, soprattutto per una ragazza che veniva da una città di provincia, era una cosa molto impegnativa, e comunque non è che qualcuno te lo preparasse. Non potevi andare ad un evento, a una partita di football da sola: questo era disdicevole. Dove-vi essere accompagnata da qualcuno di cui la famiglia da cui eri ospitata si potesse fidare. […] Questo fu forse il primo inciden-

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te interculturale che ricordo. E di incidenti come questi, credo che chi fa tutt’ora quest’esperienza ne incontri molti e impari a capire i significati diversi che hanno comportamenti, abitudini, consuetudini in contesti molto diversi.

Quell’anno è stato segnato per me da un’esperienza fortissima: io ero a scuola quando l’altoparlante annunciò l’attentato, l’omi-cidio di Kennedy. Fu un’esperienza fortissima sul piano emotivo, con un elemento di sorpresa perchè nei giorni successivi, molti miei compagni mi dissero che si vergognavano nei confronti di chi veniva dall’Europa, di uno studente straniero, che negli Stati Uniti potesse essere avvenuta una cosa del genere. Qualcuno mi disse “che cosa penserai di noi?” Io mi sentivo talmente im-mersa in questa vita che era qualcosa che mi aveva fortemente sorpreso. Comunque, un’emozione fortissima. Ricordo anche che ero davanti alla televisione quando Ruby uccise Oswald e mi ricordo però nello stesso tempo come la famiglia dove io vivevo, repubblicana, pur profondamente scossa e molto coinvolta in quanto americana, ciò nonostante continuasse questo discorso, questo dialogo critico nei confronti di Kennedy come persona e come presidente. È una cosa che mi aveva sorpreso, perché ero partita con questa figura ideale che invece, conosciuta più da vi-cino, aveva forse delle idealità, ma anche delle ombre.

Spesso mi capita a lezione qualcuno che ha avuto esperienze con Intercultura o con qualche associazione analoga, e ho l’im-pressione che tutti abbiano queste caratteristiche di energia, di realismo e anche di perseveranza e resistenza a situazioni non facili. Sono più forti in qualche modo, hanno una maggior sicu-rezza. Credo che questo sia un elemento fondamentale dell’e-sperienza di scambio di Intercultura. Forse veniva considerata più difficile ai miei tempi. Oggi qualche volta può essere vista come “in fondo oggi si va tanto in giro per il mondo”, forse è più facile. Sono convinta però che comunque inserirsi in un sistema scolastico, in una famiglia, per un tempo lungo non sia facile: ri-

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chieda energia, richieda delicatezza, richieda decentramento e faccia emergere un senso di responsabilità e di rappresentanza a cui non sempre i giovani sono abituati. Si fanno degli errori, si è molto stanchi la sera e quindi c’è anche un elemento di resi-stenza fisica molto importante, che tempra. E che tempra e fa maturare un tema educativo secondo me è importantissimo: la sensazione di potercela fare.

Io sono molto stupita oggi, molto più di quanto non lo fossi ai miei tempi, di una certa diffidenza degli insegnanti quando non un ostacolo forte [nei confronti dell’esperienza all’estero]. Io provenivo da un liceo di provincia, molto qualificato, da cui erano già partiti degli studenti molto brillanti, che sono stati dei borsi-sti prima di me. Quindi c’era un po’ di diffidenza nel mio caso - in seconda liceo ci si perde il Rinascimento! Come si fa a non fare greco e di latino con i propri insegnanti? - però non un’ostilità così forte come ho visto negli anni seguendo l’associazione e che ancora oggi vediamo negli insegnanti di molte scuole. Anche la studentessa che ho quest’anno mi dice che lei ha dovuto fare un’esperienza estiva, proprio perché la sua scuola la sconsiglia-va vivamente dal – questo lo aggiungo io – “perdere tempo”, o in qualche modo mettere in crisi i suoi risultati scolastici con un’e-sperienza da un’altra parte del mondo. Ecco, questo elemento non riesco a spiegarlo, come non riescano a uscire da questa gabbia che è la loro materia, la loro disciplina, e non riescano a capire che un giovane che vuole fare un’esperienza del genere sa anche studiare da solo, può recuperare, può anche scrivere loro, può mantenere il contatto. E quindi non riesco a spiegar-mi ancora, e trovo un ostacolo su cui riflettere, questo senso di disagio nella scuola, questa diffidenza che manca in pochissimi insegnanti, che magari sono stati borsisti, o negli insegnanti di lingua, nei quali però vedo un elemento un po’ riduttivo: non si fa un’esperienza così, solo per imparare una lingua, anche se la lingua è un’esperienza fondamentale.

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[...] Credo che Intercultura abbia un compito, una sfida straor-dinaria, cioè favorire l’incontro con chi è diverso. Diverso vuol dire che è fondamentalmente uguale ma che porta con sé delle variazioni e delle costanti culturali diverse. È un incontro sem-pre interessante, anche se faticoso, e richiede sempre delicatez-za, uno sforzo di riconoscimento, di comprensione, e poi anche di avvicinamento e distanziamento. È un rischio anche l’idealiz-zazione dell’integrazione e del contatto tra chi è diverso; è un rischio che non porta molto lontano. Mentre invece lo stimolo, la curiosità, l’interesse per la conoscenza di chi vive vite diverse, di chi viene anche da mondi diversi, non è la curiosità superficia-le dell’esotico, ma l’interesse di chi vive insieme e di chi comincia questo incontro non in posizione di vantaggio (perché un ele-mento importante nell’esperienza di Intercultura è che siamo noi gli stranieri e quindi non in una posizione di vantaggio): sei tu che devi entrare in contatto con questo aspetto. Credo che que-sto faccia pensare, ti dia degli strumenti per capire, riuscire a de-centrarti e riuscire in qualche modo a capire come vive chi è da un’altra parte, quando lo incontri in qualunque contesto: capire come sia difficile posizionarsi, capirsi e come sia impegnativo trovare una lunghezza d’onda in cui gli elementi di comprensio-ne sono maggiori che non gli elementi di allontanamento. Non necessariamente l’identificazione. Come in ambito psicologico, si dice che devi essere empatico, ma essere empatico non vuol dire che ti devi identificare con la persona con cui parli. Quindi occorre una modalità di ascolto, un tentativo di comprensione, di negoziazione dei significati, questo elemento di “io ho capito bene”, che facendolo tra giovani ti allena molto, a quello che po-trai fare nel mondo del lavoro, o in altri campi, e che non bana-lizza l’incontro laddove ci sono delle differenze, ma che lo vede come una sfida interessante, delicata, perché se mal condotta può ferire profondamente qualcuno e anche creare conflitti, ma che se invece ci si mette nella posizione giusta può prevenire delle conflittualità distruttive. Direi che quest’esperienza mi ha

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insegnato a non idealizzare affatto l’incontro con chi viene da mondi e ha delle vite diverse dalla mia, ma ad avere interesse, curiosità e a fare dei tentativi per riuscire a trovare degli spazi di comprensione, di accordo, di alleanza in qualche modo comune. Un po’ una danza che si fa per cercare di capirsi, come quella che si fa con i bambini molto piccoli, che non hanno la tua lingua, non hanno la tua esperienza e tu devi arrivare a trovare delle moda-lità di fiducia, delle modalità di comprensione.

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Enrico Cucchiani

Ex borsista negli USA (1967-68)Dirigente presso varie aziende e sponsor di borse di studioVolontario di Intercultura in vari ruoliEx consigliere d’amministrazione di Intercultura

L’esperienza di Intercultura è stata molto importante, seppur in-direttamente, in quello che è stato il mio sviluppo professionale, e lo è stata sotto più aspetti. L’aspetto più banale è quello della lingua. Dico più banale perché è il più scontato, ma non meno importante, perché oggi nel mondo moderno ci sono due lingue fondamentali: la prima lingua fondamentale è l’inglese, che è la lingua della globalizzazione, del business, degli affari; la seconda lingua essenziale è la matematica, perché è la lingua della scien-za. Ma direi che l’aspetto invece più rilevante è stata l’esposizio-ne all’interculturalità. Che cosa vuol dire interculturalità? Vuol dire vedere un mondo diverso con occhi diversi. E questo ti apre gli orizzonti e soprattutto ti insegna a accettare realtà diverse e a porti tante domande. Poi ho fatto tante altre esperienze for-mative importantissime sotto il profilo professionale: la Bocco-ni, Harvard, Stanford, McKinsey. Però queste sono esperienze che mi hanno sì esposto all’interculturalità, ma quando l’inter-culturalità era già un fattore acquisito. In queste esperienze che cosa ha fatto premio? L’acquisizione di nuove conoscenze e nuo-ve competenze. Direi che l’insieme di queste cose certamente mi ha aiutato molto nel mio sviluppo professionale. C’è poi un

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altro aspetto che non è rilevante per lo sviluppo professionale ma per lo sviluppo personale e qua vorrei evidenziare una cosa della quale poco si parla: l’affettività. Allora, tutti noi impariamo l’affettività in famiglia, però la famiglia è una, impariamo dalla mamma, dal papà, dai parenti, ma è un nucleo unico e questo rimane il riferimento più importante per ciascuno di noi. L’aver fatto un’esperienza di affettività in un nucleo familiare diverso certamente contribuisce alla crescita personale di una persona e alla capacità di esprimere affettività.

L’esperienza fu talmente coinvolgente che poi al ritorno fu solo naturale continuare come volontario. E l’esperienza di volon-tariato in Intercultura è stata straordinaria. Noi ci ritrovavamo sempre il lunedì sera, con una serie di persone con cui siamo an-cora legati da un rapporto di amicizia importante, che si è for-mato proprio in quegli anni. E che cosa ci portava a far sì che ci si ritrovasse ogni lunedì sera con grande entusiasmo? Io penso che ci fosse la continuazione dello spirito ideale del “Walk to-gether, talk together”, che sono un po’ i semi del pensiero, dell’i-dealismo globale, i germi della globalizzazione che allora era un fenomeno in una fase assolutamente iniziale. Ed erano gli aspet-ti che ci portavano a pensare ad un mondo migliore e che sono sostanzialmente rimasti l’aspetto nobile della globalizzazione. Ma è stata anche una esperienza insolita e straordinaria sotto il profilo professionale, perché eravamo ragazzini ma andavamo a parlare coi presidi, con gli insegnanti, dovevamo fare il recruiting degli studenti, quello che poi in termini moderni si chiamerebbe marketing di Intercultura. E poi c’era il processo delle selezioni, estremamente rigoroso e professionale, che fra l’altro mi è ser-vito molto anche per selezionare i giovani dirigenti nelle azien-de che ho diretto. C’era poi anche il confronto con le famiglie, le visite alle famiglie.

Sono cresciuto professionalmente, sono cresciuto d’età, è cre-sciuta Intercultura. Intercultura mi ha chiesto di entrare nel

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Consiglio d’Amministrazione e lì ho trovato una dimensione diversa. Francamente nel corso della mia carriera sono stato e sono membro di numerosi Consigli di Amministrazione di gran-di gruppi internazionali. Ma posso dire con assoluta tranquillità che il livello di governance di Intercultura è allineato. Era alline-ato già allora alle migliori best practice internazionali attuali. È questo il livello di qualità dei componenti, il rigore nella gover-nance, la trasparenza e anche l’innovazione. Intercultura quan-do io sono stato negli Stati Uniti dava all’incirca, se ben ricordo, 120 borse di studio all’anno a italiani che andavano all’estero e un numero molto più ridotto a stranieri che venivano in Italia. Nel frattempo, questo numero è cresciuto esponenzialmente. E la qualità della gestione professionale dell’Associazione è cre-sciuta altrettanto esponenzialmente. Tanto per fare un esem-pio, già allora alla fine degli anni Novanta si impiegavano risorse non indifferenti nell’effettuazione di ricerche di mercato molto specifiche e molto focalizzate, che ci consentivano di avere la percezione degli studenti, delle scuole, delle famiglie, di avere tutto questo sotto controllo, sapendo anche come ci si posizio-nava rispetto ad altre organizzazioni che favorivano gli scambi internazionali. E il tutto direi con grandissima professionalità e grandissimo rigore. Credo che anche questa per molti di noi sia stata una palestra, anche professionale. [...] Questi sono aspetti importanti perché francamente non conosco nessuna altra or-ganizzazione impostata o dipendente dal volontariato così ef-ficiente, così efficace e così avveduta e così proiettata in avanti come Intercultura. Quindi grande merito a chi ha saputo coor-dinare e orchestrare questo sviluppo non solo nei numeri, non solo nell’espansione geografica, ma anche nella creazione di una infrastruttura che poi, credo, sia la migliore garanzia per le fami-glie e per i ragazzi di un prodotto di straordinaria qualità.

Da quello che ho detto credo che traspaia chiaramente che In-tercultura mi ha dato molto, così come ha dato molto alle altre persone che hanno avuto la fortuna di fare questa esperienza.

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Ma se uno ha avuto molto, la domanda logica è: che cosa si può fare per ritornare un po’ della fortuna che si è avuta? Il famoso senso di giving back degli anglosassoni e che è molto forte, un sentimento molto presente nel mondo anglosassone ma rela-tivamente poco presente nell’Europa continentale. E alla fine è giunto il momento in cui io mi sono trovato, anche grazie all’e-sperienza di Intercultura, nella posizione di poter fare qualche cosa. Quando ho avuto delle posizioni di responsabilità, quale Capo Azienda, Amministratore Delegato, Presidente di aziende rilevanti nel mio Paese, l’Italia, o su maggiore scala a livello glo-bale. Allora la domanda è: ma che cosa si può fare? La risposta logica più naturale è stata quella di dare delle borse di studio. Non so quante ne ho date nel corso della mia vita ma credo pa-recchie centinaia, forse più di mille. L’ho fatto in più aziende e la cosa che mi conforta maggiormente è che questo programma di borse di studio per dipendenti, ma non solo, è continuato anche dopo la mia uscita da queste società. Il che vuol dire che c’è una comprensione di quanto sia importante ed anche utile per l’a-zienda fare un investimento di questo genere.

La domanda ovvia ma importante è: perché un’azienda decide di investire in borse di studio? Beh.. Bisogna dire che il mondo delle imprese si è evoluto nel corso degli anni ed è ormai un fatto acquisito che un’azienda non deve pensare solo al proprio bilan-cio, al conto economico, al profitto, ma deve pensare anche al proprio ruolo nell’ambito della società intesa in senso lato. Ad-dirittura la legge, credo, preveda a partire da quest’anno che ci sia una rendicontazione delle attività, dell’impegno dell’azienda nella cosiddetta corporate social responsibility, vale a dire quel-lo che l’azienda ha fatto al di fuori di quello che è l’interesse primario dell’azienda stessa e degli azionisti. E tipicamente le aziende dedicano una frazione piccola di quello che è lo stato patrimoniale, il conto economico, i profitti da investimenti nel restauro di monumenti, nella sponsorizzazione di concerti, in attività culturali che certamente sono encomiabili, sono nobili e

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meritano l’apprezzamento di tutti. Ma io mi sono sempre posto una domanda: è questo l’investimento migliore e più produttivo che noi possiamo fare per la società? E la risposta che mi sono dato è sempre stata la stessa: la cosa migliore è investire nel fu-turo. E che cosa c’è di più proiettato nel futuro dei nostri figli, dei ragazzi, dei giovani. Da qui la decisione di investire in borse di studio, in borse di studio per i giovani e in particolare in borse di studio per esperienze di studio all’estero. Perché? Perché io ho visto il beneficio che ne ho tratto personalmente, quindi se io ho beneficiato di una maggiore apertura nei confronti del mondo, di una maggiore curiosità, di una maggiore disponibilità che poi si è tradotta anche in benefici professionali, perché non dare la medesima opportunità agli altri? C’è stata poi una certa evolu-zione nel dare le borse di studio, che inizialmente erano per i figli dei dipendenti, anche ai figli dei clienti. Io, come dicevo prima, ho avuto la fortuna di guidare imprese con una forte presenza internazionale e un forte radicamento su tutto il territorio na-zionale e debbo dire che se da un lato il beneficio dell’esperienza per i figli dei dipendenti era scontato, credo di essere stato un pioniere nel lanciare le borse di studio per i figli dei clienti. Però questo era un terreno vergine, inesplorato e la domanda che poi un amministratore si pone sempre è: “Beh... ma qual è poi il ri-torno per l’azienda?” Ebbene, è l’investimento più straordinario che un’azienda possa fare, perché che cos’ha di più caro il cliente del proprio figlio o della propria figlia. Si instaura un rapporto fi-duciario completamente diverso, perché quando il cliente vede che sei disposto a investire, non solo su di lui ma anche sul suo nucleo familiare, sulla parte più giovane, più debole, ma anche più promettente del nucleo familiare, ebbene, si apre un altro mondo. E c’è un ritorno di immagine, di credibilità straordinario anche per le aziende. Credo che questa sia l’innovazione che ho introdotto. Credo che poi ci sia un ulteriore elemento, l’aspet-to educativo, perché la corporate social responsibility dovrebbe essere anche una individual social responsibility, un’educare al

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sentimento del giving back per ciascuno di noi. Noi tutti siamo fortunati, privilegiati: intanto siamo stati dotati di buona salu-te, buona intelligenza quando siamo venuti al mondo; abbiamo avuto la possibilità di fare buone scuole, esperienze straordina-rie e il tutto ha innescato un circolo virtuoso che ci ha portato ad avere molto nella vita.

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Roberto Toscano

Ex borsista negli USA (1960-61)Ex Ambasciatore d’Italia in Iran e IndiaVolontario di lungo corsoPresidente della Fondazione Intercultura dal 2007

Le conseguenze di quell’esperienza, di quell’anno all’estero sono state fondamentali nel determinare quella che è stata poi la mia vita e anche la mia professione. Innanzitutto quel cambiamento così radicale mi ha messo su una diversa strada. A me piace cita-re il fatto che nel De Rerum Natura di Lucrezio, gli atomi cadono dal cielo in parallelo, ma ad un certo punto avviene una deviazio-ne, un clinamen. Questa deviazione produce una ricombinazione e quindi la formazione dei singoli oggetti della realtà. Ecco, per me questa prima deviazione è stato l’anno da studente di una cosa che ancora non si chiamava Intercultura. Allora non avevo la vocazione del diplomatico, anche perché non avevo mai visto un diplomatico, però certo avevo la vocazione per continuare quell’esperienza di contatto con altri mondi, altre culture, altre lingue. Quella è stata la mia vera scelta. Le mie scelte successi-ve di studio e di interessi culturali sono dipese dallo sviluppo di quella prima apertura, di quella prima deviazione.

Quando poi, alla fine dei miei studi, ho fatto un Master in Rela-zioni Internazionali in America e ho dovuto decidere che cosa avrei potuto fare con quello che avevo studiato, la diplomazia si è presentata come uno sbocco quasi ovvio.

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Questa potrebbe sembrare una spiegazione di tipo troppo tec-nico: avevo gli strumenti culturali, grazie anche a quell’esperien-za, per fare il diplomatico. Ma c’è qualcosa di più. Il diplomatico può essere un ottimo tecnico delle relazioni internazionali, cioè può trattare benissimo i rapporti fra due Paesi, fra due governi. Se però si aggiunge a questa competenza professionale una sen-sibilità interculturale, le cose cambiano: innanzitutto il mestiere diventa più interessante, ma non solo questo! Il mestiere si fa meglio: senza una grande curiosità nei confronti dell’altro e una capacità di comprendere l’altro al di là degli schemi e dei luo-ghi comuni, il modo in cui si sviluppa e si esercita la diplomazia è carente. Quindi io sono grato a quest’esperienza non soltanto perché mi ha dato gli strumenti, ma perché mi ha dato una di-mensione che altrimenti non avrei avuto. È per questo fra l’altro che ho sempre creduto in Intercultura.

Facendo un fast forward a quello che poi è stato il mio mestiere di diplomatico, soprattutto di ambasciatore (io ho fatto l’amba-sciatore per sette anni: cinque anni in Iran e due in India), in che misura quella mia esperienza interculturale ha influito sul modo in cui ho fatto il diplomatico e concretamente l’ambasciatore? Ha influito innanzitutto in una priorità che io ho sempre dato alla dimensione culturale. Il diplomatico deve occuparsi di tutto: il rapporto sulle questioni di sicurezza, sull’economia, sulle que-stioni consolari, però c’è anche la cultura. Non tutti i diplomati-ci hanno la stessa passione per la cultura. Io confesso di averla avuta e devo dire che attraverso la cultura si può poi facilitare anche il lavoro nelle altre aree, anche negli altri settori che fan-no parte del compito del diplomatico.

Questo è soprattutto vero per un Paese come l’Italia, che con la sua cultura attira sia l’attenzione che una simpatia che facilita i contatti molto più della sola potenza economica o addirittura militare di un Paese. Quindi la cultura ci concede un’apertura, un pregiudizio favorevole. Certo si tratta poi di riempire questa di-

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sponibilità di azioni, di attività, di dialogo, e in questo bisogna es-sere capaci di dialogare con il diverso. E che cosa ci poteva esse-re di più diverso di un ayatollah iraniano? Eppure anche in quel caso, proprio per questo atteggiamento, credo di essere riuscito a stabilire dei contatti che hanno aperto degli spazi. La stessa cosa nell’India, che è un Paese totalmente diverso, caratteriz-zato da una cultura molto autoreferenziale, molto complessa al suo interno, ma difficile rispetto al contatto con l’esterno. Quin-di, la cultura come veicolo principale, come apertura principale. C’è un’altra cosa che non è soltanto nella diplomazia: il lavoro interculturale, se ci pensiamo bene, serve anche all’interno delle singole culture, perché in una struttura complessa, un posto di lavoro, un’azienda, una fabbrica o un’ambasciata, le diversità ci sono anche fra persone che teoricamente dovrebbero apparte-nere allo stesso mondo.

Io dico sempre, e soprattutto adesso con il fatto delle migra-zioni e della multiculturalità, che l’intercultura comincia a casa propria. Questa capacità che per me è stata acquistata fuori, si può riportare anche dentro. È stata acquistata fuori, perché a quei tempi per le strade di Parma quando passava una persona di colore tutti erano incuriositi e quasi divertiti: “ah guarda che bello, un nero!”. Per me quindi la diversità non c’era: c’era un’o-mogeneità totale. Io sono cresciuto negli anni ’50- ’60 a Parma in un’istituzione di omogeneità che oggi in Italia sembra leggen-daria. Adesso se andate a Parma ci sarà un 20% di popolazione nera, con tutta un’altra problematica. Quindi per me quell’espe-rienza al confine con il Messico, nel Texas, è servita ad avere un primo approccio alla diversità e una familiarità con la diversità. Fra l’altro, proprio perché ero al confine con il Messico, metà dei miei compagni di scuola erano messicani, in realtà. Questo era un doppio vantaggio.

Qual è il rapporto non solo personale, ma istituzionale, che poi il mondo della diplomazia ha avuto e ha con Intercultura? Inter-

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cultura è una organizzazione non-governativa per definizione, eppure non c’è dubbio che siano importanti i rapporti con le strutture pubbliche. Sono importanti non dal punto di vista fi-nanziario, perché se voi guardate il bilancio di Intercultura vi rendete subito conto del fatto che il finanziamento delle nostre attività non è di natura pubblica, però quanto è importante la di-mensione pubblica e la dimensione ministero degli esteri e am-basciate? Innanzitutto per la questione dei visti, perché quando i giovani vengono in Italia il problema dei visti è uno dei più com-plicati, per una burocrazia che, aimè, io conosco come ambascia-tore, con norme molto restrittive. Lì serve che qualcuno, all’in-terno dell’ambasciata, affronti questi temi con la ragionevole flessibilità che poi permette a questi programmi di svolgersi. E poi devo dire che le ambasciate sono anche importanti perché purtroppo possono accadere delle emergenze, può esserci un terremoto, un disastro, o un fatto politico come un colpo di stato o una rivoluzione: in quel caso, è legittimo che le famiglie conti-no sul fatto che qualcuno provveda a portare i figli a casa prema-turamente, interrompendo il programma. A noi è successo e per fortuna l’organizzazione è stata in grado di far fronte a queste emergenze, ma lo è stata soltanto perché sul posto c’era un’Am-basciata che conosceva Intercultura, cui Intercultura dava le necessarie garanzie, e che quindi è intervenuta rapidamente, in modo efficiente.

Io sono presidente della Fondazione da 10 anni. Perché la Fon-dazione? L’associazione ha sempre avuto un’agenda non troppo nascosta, che andava al di là della semplice formazione cultura-le e linguistica dei giovani. Non si trattava solo di quello. Però tutto questo era piuttosto implicito: la Fondazione non solo ha reso espliciti questi aspetti, ma li ha trasformati in oggetto di approfondimento culturale e accademico, sulla base di studi e di incontri. Incontri che permettono di affrontare quello che sta dietro il semplice fatto di trascorrere un periodo all’estero. Ed è interessante forse ricordare quali sono state le grandi temati-

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che affrontate in questi dieci anni, con una cadenza biennale. La prima sull’identità italiana. L’identità è un concetto di cui si parla moltissimo, ma che non viene affrontato in tutta la sua diversi-tà interna, in tutti i suoi aspetti, che possono essere conflittuali, ma che possono anche risultare dialogici, se affrontati nel modo giusto. Due anni dopo, la conferenza si chiamava “Ricomporre Babele”. Si trattava di una conferenza sul cosmopolitismo: in che misura uno, pur appartenendo ad una nazione, è capace di tra-scendere questo suo punto di partenza e non trasformarlo in un punto di arrivo e di chiusura. Ricomporre Babele non significa invertire Babele, perché in nessuna maniera il concetto che sta alla base del nostro progetto vorrebbe un’uniformità. Non stia-mo cercando un nuovo esperanto: vogliamo che tutte le lingue continuino ad essere parlate, ma che ci si capisca quando ognu-no parla la propria. Due anni dopo, un tema che poi si è rivelato molto attuale e che oggi non è soltanto di nicchia o di qualcuno che ha particolare interesse: intercultura reale e intercultura virtuale: si chiamava “Il corpo e la rete”. In che misura l’uso di questi strumenti nuovi che sono stati messi a disposizione dalla tecnologia (social media, internet, twitter) influisce sull’inter-cultura? È un modo di rafforzare l’intercultura o di mettere in campo un’intercultura diversa, senza il corpo, senza il contatto diretto? Perché la cosa può essere davvero problematica. Se un giovane dice: “io non devo andare in Cina, tanto ho 10 amici su Facebook che sono cinesi” ecco, questo va affrontato e l’abbia-mo affrontato con l’aiuto di esperti che ci hanno detto natural-mente che questi strumenti non si possono dis-inventare, ma che vanno gestiti, usati, impiegati in un modo razionale, che non neghi il valore del corpo, del contatto diretto, dell’esperienza di condividere una tavola. A Trento poi, 2014, una conferenza che ha preso l’occasione del centesimo anniversario della pri-ma guerra mondiale, per dire in che misura si può passare dalla guerra alla riconciliazione. Credo che sia un tema piuttosto inte-ressante e infatti lo abbiamo trattato coinvolgendo persone che

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vengono da Paesi che hanno vissuto esperienze traumatiche da cui però sono riusciti a uscire: Sud Africa, Irlanda del Nord, Pa-ese Basco. Persone che sono state attive in questo processo di pace e riconciliazione sono venute a condividere con noi la loro esperienza, che è un’esperienza fondamentalmente di tipo in-terculturale, perché come dicevo anche all’interno delle stesse società ci sono divergenze profonde che si possono affrontare solo con la capacità di ascolto e di dialogo [...].

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Alcuni pionieri

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Piero Bassetti

Ex borsista negli USA (1951-52) con un programma universitarioPrimo presidente della Regione Lombardia (1973-74)Ex Presidente di Unioncamere (1982-91)

Io ero in Bocconi e mi è arrivata la comunicazione di presentar-mi in direzione, negli uffici del rettorato, perché volevano comu-nicarmi qualche cosa. Un personaggio abbastanza caratteristi-co, che mi conosceva, mi ha detto “dunque guarda, qui c’è una delegazione americana che cerca degli studenti meritevoli per dare loro, eventualmente, una borsa e farli stare un anno acca-demico negli Stati Uniti. Saresti disponibile?” Io naturalmente ho detto di sì, anche se mi sono riservato di parlarne in famiglia. In famiglia mi hanno detto di sì e allora mi è stato detto, il giorno dopo: “vieni che ti faranno un’intervista”. Io sono tornato in un ufficio della Bocconi e c’era Galatti che con un atteggiamento molto cordiale mi ha detto “noi cerchiamo degli studenti bravi, la Bocconi ha segnalato te. Ci hanno detto che sei interessato a quest’esperienza e vorremmo farti delle domande”. Ad un certo momento, fra le altre cose, mi hanno chiesto se io facevo attivi-tà sportiva. Quando ho detto che sì, io facevo attività sportiva, (avevo fatto le Olimpiadi a Londra nel ’48) allora tutto il discorso è cambiato e la mia impressione è stata che molto più dei miei meriti universitari abbia avuto un effetto il fatto di esser stato un atleta olimpionico in atletica leggera: è una specialità che pia-ce all’università americana.

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L’incidenza sulla mia vita, credo che, sia pure indiretta, sia stata fortissima. Da un lato l’esperienza di Cornell e degli Stati Uniti mi ha iniziato a tutti i valori politici, democratici della società ame-ricana. Tenete presente che allora il divario fra le due società era molto più forte di adesso [...]. Per cui quando ho cominciato la vita politica, avevo da un lato il vantaggio di una formazione che gli altri non avevano, la lingua che allora pochi conoscevano, il rapporto con le autorità americane, il consolato, l’USIS ecc. Ba-stava che dicessi quali erano le mie esperienze di rapporti con gli Stati Uniti e tutte le porte si aprivano. Certamente quest’e-sperienza mi ha aperto un sacco di porte nella mia esperienza socio-politica, perché appunto mi ha consentito di essere spes-so scelto, selezionato per tutta un’attività para-politica tra Stati Uniti e Italia, comprese organizzazioni indubbiamente molto selettive come la Trilaterale e altre. Ambienti ai quali non avrei avuto accesso, se non avessi avuto la conoscenza degli Stati Uni-ti, la lingua e anche referenze interpersonali. Aggiungerei anche una cosa: la conoscenza dei limiti della dimensione americana, cioè gli aspetti meno positivi, che, soprattutto per uno chiamato a fare politica, si sono rilevati interessanti. Avevo imparato certe cautele da adottare verso certi pregiudizi e conosciuto aspetti un po’ interni alla società americana. Per esempio, me lo ricordo ancora benissimo, che vedere il cartellino sui gabinetti “bianchi” e “neri” era una cosa che mi aveva fatto molta impressione.

Dopo la laurea e un’esperienza in Inghilterra con la borsa Strin-ger e poi l’esperienza militare in Italia, ho iniziato un’attività po-litica che mi ha portato ad essere consigliere comunale di Mila-no nel ‘56, assessore nel ‘60, e poi dimissionario dal Comune nel ’67. Ho iniziato l’esperienza politica del regionalismo italiano, che c’era nella Costituzione, ma non era applicato concretamen-te e mi sono trovato ad esserne un po’ tra i leader, per quanto ri-guarda l’istituzione e l’avvio delle Regioni, il che mi ha portato ad essere il primo presidente della Regione Lombardia. È stata per me un’esperienza importante, perché mi ha fatto capire molte

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cose, anche molto negative della politica italiana. Infatti nel 70 mi sono dimesso da presidente della Regione prima che scades-se il termine, liberamente e volontariamente, perché avevo ca-pito che la vicenda della corruzione e della partitocrazia era agli sgoccioli. Ho vissuto come presidente della Regione non solo le tensioni degli anni caldi, ma poi soprattutto gli anni del terrori-smo. Ho cercato in tutto questo periodo di dare importanza alla dimensione meta-nazionale e alla dimensione che un marxista direbbe strutturale, cioè dei modi di produzione nella vita so-ciale e politica. Questo mi ha portato anche alla creazione della Fondazione Bassetti, che si occupa appunto della responsabilità dell’innovazione: pensavo che il mondo sarebbe stato domina-to dall’innovazione e quindi trasformato, nella consapevolezza raggiunta 23 anni prima, che il mondo sarebbe diventato “gloca-le”, e non più internazionale. In fondo l’AFS nasce da un’esperien-za vicino alla guerra e richiama al fatto che i rapporti tra società civili e guerra sono un aspetto centrale per la vita di una classe dirigente. Quindi io non avrei nessuna esitazione a dire che tut-ta la mia esperienza, compresa quella sviluppata nelle camere di commercio mondiali, è stata molto influenzata da un sistema di esperienze e di valori iniziato con il conferimento della borsa. Se gli americani non fossero venuti a cercarmi e propormi di fare il borsista, probabilmente la mia vita sarebbe stata radicalmente diversa.

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Liliana Saiu

Ex borsista negli USA (1961-62)Una delle prime a partire dalla SardegnaTestimonial dello sviluppo dell’Associazione in SardegnaEx Docente di Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Cagliari

La mia partenza è stata vissuta con reazioni alterne e diverse tra di loro. C’era chi riteneva che fosse un po’ come mandare la figlia alla perdizione, c’era chi invece mi incoraggiava, pensando che fosse un’ottima occasione; diciamo che alla fine, evidentemen-te, i favorevoli hanno prevalso sui contrari. Il mio era un liceo estremamente conservatore, come poteva essere al tempo un liceo Classico con classi femminili e classi maschili. Ero la prima a partire da quel liceo; neanche tra i maschi era mai partito nes-suno. Sorprendentemente il preside ne fu soddisfatto; mi diede anzi una lettera di presentazione da consegnare al preside della High School che avrei frequentato. Naturalmente, il candida-to che veniva scelto per beneficiare di questo bellissimo pro-gramma, non poteva scegliere la destinazione e oltretutto l’AFS cercava di piazzare tutti in comunità piccole. Nessuno andava a New York city o Los Angeles perché lo scopo era anche quel-lo dell’integrazione con una comunità che quindi, di necessità, doveva essere piccola. E allora queste persone che facevano gli abbinamenti candidato-comunità cercavano di fare del loro meglio per trovare una comunità in zone che fossero non trop-po lontane come tipologia dalle zone di origine. Nel mio caso,

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venendo io dalla Sardegna, terra reputata agricola, venni desti-nata a un’area rurale, nelle grandi praterie nel Nebraska dove si coltiva granturco a perdita d’occhio. Comunque così venne fatto questo abbinamento e in effetti la comunità piccola aiuta per-ché a scuola nell’ultimo anno dove io sono stata iscritta eravamo 92, quindi numeri gestibili.

Certamente l’esperienza è stata molto importante per le mie scelte professionali. Ricordo che mentre mi trovavo a Washin-gton fummo ricevuti nei giardini della Casa Bianca. Il Presidente era Kennedy. Era il 1962. Il discorso che fece Kennedy era molto orientato sulla guerra fredda, sul Muro di Berlino. Allora natu-ralmente Kennedy era vivo, non era ancora il mito che è diven-tato, però comunque era il presidente giovanissimo amato da tutti, specialmente da noi ragazzi e certamente questa è stata un’altra spinta verso la mia carriera personale che ho concluso solamente con il pensionamento. La conoscenza della lingua è stata fondamentale. È una conoscenza che io ho sempre messo in pratica. Il mio lavoro di ricerca si basa sulla ricerca d’archivio e gli archivi italiani sono un pochino avari nel senso di accessibilità ai documenti. Nel mio ramo specifico, gli archivi più importanti sono quelli di Londra e quelli di Washington DC, quindi diciamo che l’acquisizione della lingua è stata anch’essa un fattore deter-minate. Io tra l’altro ho pubblicato il mio primo libro negli Stati Uniti e questo ha avuto anche un valore per il prosieguo della mia carriera.

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Eria Magnani

Ex borsista in USA anno 1959-60Volontaria di lunga data e vincitrice del Galatti Award nel 2008

Il Centro locale [di Reggio Emilia] nasce con l’aiuto di alcune volontarie che sono partite come madri ospitanti e che sono ancora in pista. Credo che l’ospitalità abbia avuto, soprattutto nella mia storia, un’importanza enorme, perché nonostante l’invio abbia dato tanto (sono partiti tantissimi ragazzi, parliamo proprio di centinaia e centinaia), l’ospitalità mi ha dato tantissimo perché essere a contatto con questi ragazzi ha significato molto, tant’è che molti sono ancora in contatto con me e con tantissime altre persone del Centro locale. Siccome le sfide ci piacciono e ho avuto l’appoggio anche di altre volontarie, ad un certo punto l’Asia (che apparteneva già alle mie passioni a prescindere da Intercultura) mi ha colpito, soprattutto quando abbiamo sentito parlare di ospitalità di ragazzi cinesi. La Cina nel 2000 non era certo quella di oggi! Quindi abbiamo chiesto un fascicolo e ci è arrivato quello di questo ragazzo, Liu, figlio del direttore del Balletto dell’Opera di Pechino. La mamma insegnava cinese all’Università, la zia era restauratrice alla Città Proibita. Questo significava che Liu arrivava con un bagaglio culturale molto particolare e veniva da una famiglia dalle tradizioni molto forti [...] e però con questo desiderio tanto smodato di modernità. All’epoca, verso la fine degli anni ‘90, Liu dava la sensazione di avere quasi un senso di inferiorità verso di noi. Ricordo che disse

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una cosa bellissima prima di partire: “io spero che la Cina diventi bella un giorno come l’Europa”. [...] Quindi c’era proprio questo desiderio di imparare, ma soprattutto il desiderio di bellezza.

Le famiglie che hanno ospitato e che noi abbiamo incoraggiato ad ospitare, sono state sempre contente dell’ospitalità di questi ragazzi orientali (dico orientali perché poi, oltre alla Cina, abbiamo aperto anche ad altri Paesi). Occorre però prepararle bene all’esperienza, perché all’inizio tendono a vedere solo la parte più superficiale, ad esempio che una ragazza orientale dice sempre di sì. Ma ospitare un orientale significa anche capire che tu, famiglia ospitante, devi intuire quali possono essere le esigenze dello studente, perché non ti dirà mai di no. Devi capire che se non fa niente non è perché non sa far niente o non gli interessa, ma perché non è abituato a decidere. Per esempio alla fine dell’anno chiediamo a tutti di scrivere una cosa che li ha colpiti o che comunque hanno imparato qui in Italia. Una ragazza giapponese scrisse: “ho imparato a dire di no”. Sembra una frase quasi senza senso invece è importantissima!

Ovviamente, diversi anni dopo, è diventata una ricchezza anche il fatto che ci siano dei ragazzi italiani che decidono di scegliere la Cina, mettendosi in gioco, spesso contro il parere dei loro genitori, dei loro insegnanti, dei loro amici. Significa che la curiosità è veramente forte e devo dire che tutti quelli che sono andati in Cina, pur parlando delle obiettive difficoltà, sono tornati ricchissimi e orgogliosissimi di avere fatto questa esperienza. Questo ha comportato, da parte dei Centri locali, anche una maggiore consapevolezza e necessità di competenze e formazione.

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Marta Grespan

Prima borsista in Cina (2002-03)

Questa esperienza nasce fondamentalmente dalla curiosità di vedere cosa c’era e cosa c’è ancora fuori dall’Italia. Questa idea mi era venuta quando avevo visto all’ingresso del mio liceo un cartellone promozionale di Intercultura. Ero in seconda supe-riore e sono andata subito alla riunione a sentire di che cosa si trattava e poi ho scoperto che ero troppo giovane e che dove-vo avere pazienza un anno. Quindi l’anno dopo sono ritornata alla riunione: i tempi erano maturi e ho chiesto ai miei genitori di poter partire senza avere un’idea di dove di fatto sarei voluta andare. Avevo il desiderio di vedere qualcosa di nuovo. Quando dopo le prime selezioni è arrivato il momento di scegliere i pa-esi, ho scelto Hong Kong, Jamaica e Danimarca, quindi tre posti completamente diversi l’uno dall’altro. L’unica idea di fondo era quella di scoprire, di andare all’avventura. Poi per una serie di coincidenze e casualità mi è stato chiesto di andare in Cina per-ché all’epoca, non essendo ancora tra i paesi disponibili ad acco-gliere degli studenti Intercultura, non era stata messa nell’elen-co dei paesi tra cui scegliere. Ho detto sì senza avere una minima idea di quello che volesse dire andare in Cina. Questo è stato l’i-nizio. Il percorso di formazione è stato un percorso tradizionale, diremmo standard. C’è stato un momento di focus sulla Cina ma essendo noi i primi era ancora una cosa un po’ generale. Non c’è stato un momento di approfondimento vero e proprio semplice-

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mente perché non c’erano dei precedenti. C’era però una lunga tradizione che era quella di Intercultura e la volontà di prepara-re le persone che sarebbero stati i pionieri in Cina, dando loro gli strumenti per essere quanto più aperti possibili alle nuove esperienze. [...] I miei genitori erano contenti. Anche loro non sapevano cosa aspettarsi però mia mamma è sempre stata aper-ta, curiosa; mio papà avrebbe preferito magari avermi un poco più vicina: la Cina, all’epoca, si percepiva come distante. I pro-fessori non erano per niente entusiasti di questa mia idea, ma era una cosa comune all’epoca: qualunque fosse la destinazione i professori la sentivano molto come “perdi un anno, imparerai delle altre cose però sai che quando torni dovrai studiare, vero?” Certo, poi è stato così perché quando sono tornata ho studiato tanto, ho recuperato tutto quello che dovevo recuperare senza alcuno sconto. Però è una cosa che adesso a posteriori apprezzo moltissimo. La loro reazione era stata “non appoggiamo la tua decisione, però ti lasciamo libera di scegliere quello che tu ritie-ni sia migliore per te. Quando torni però non avrai uno sconto, anzi, dovrai essere in grado di proseguire il tuo percorso di studi come gli altri compagni che hai lasciato qui”. Io francamente ho apprezzato questa serietà [...].

I primi tre giorni in Cina sono stati uno shock linguistico e non me l’aspettavo. Sono arrivata a Pechino ed ero con tutto il gruppo di studenti stranieri, di AFSers (all’estero ci si chiama tutti AFSers) e io non riuscivo a dire una parola. Io sapevo parlare in inglese e in francese ma non mi usciva una parola. C’è stato questo mo-mento buffissimo in cui un ragazzo americano, di una gentilezza squisita, mi è venuto vicino e ha provato a parlarmi addirittura in francese e in spagnolo; io ascoltavo, capivo tutto, ma non mi veniva da dire niente. Passati i primi tre giorni c’è stato il tra-sferimento nella città e nella famiglia a cui ciascuno di noi era stato destinato (io a Tianjin). Lì un po’ alla volta ho cominciato ad interagire con le persone che mi stavano intorno. All’inizio in in-glese, ma anche con qualche parola in cinese. Uno degli oggetti

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simbolo della mia esperienza in Cina è un vocabolarietto giallo con una striscia azzurra che è consumato, perché all’epoca non c’erano gli smartphone e quindi quando uno aveva bisogno di un vocabolo usava il vocabolario. E l’inizio è stato così, cercando di farsi capire, di interagire con le persone, di stabilire dei rappor-ti anche al di là della lingua, quindi tenendo in considerazione anche altri modi di comunicare: sorrisi, l’avvicinarsi, anche un modo diverso di relazionarsi con le persone a distanza, una di-stanza fisica, un gesticolare che può avere delle valenze diverse in culture diverse. Ho cambiato due famiglie. Sono stata i primi 4 mesi in una famiglia e poi altri 4 mesi in un’altra famiglia. Anche per AFS erano le prime esperienze in Cina. I programmi erano organizzati attraverso i professori, non c’erano volontari e tutto avveniva attraverso la scuola. Anche le famiglie ospitanti non la sentivano come una sorta di volontariato, quanto più un’occa-sione per i propri figli di imparare una lingua straniera e venire a contatto con degli stranieri. [...] Sono state due esperienze mol-to belle e molto differenti tra loro. La prima famiglia era all’e-poca la classica famiglia cinese, con un figlio unico. [...] Era una famiglia un po’ speciale nel senso che il papà lavorava spesso in altre parti della Cina e quindi io vivevo di fatto con mia sorella e con la mia mamma. [...] La seconda famiglia invece era allargata, nel senso che oltre ad avere mamma, papà, mia sorella e un cane, c’era tutta la famiglia dalla parte della mia mamma: zii che abita-vano al piano di sopra, zii che abitavano al piano di sotto, quindi era una dimensione diversa che ho molto apprezzato.

Uno dei più grandi insegnamenti che ho ottenuto durante la for-mazione è stato: non c’è un giusto o uno sbagliato, c’è un diver-so. Questa è una delle cose che ho sempre portato con me e ci sono stati molti esempi, anche divertenti, di questi scarti cultu-rali. Questo è un aneddoto che fa sempre ridere le persone a cui lo racconto. All’epoca vivevo in un compound, una serie di con-domini tutti recintati in cui c’era un bagno pubblico. Questo si-gnifica che il sabato pomeriggio andavamo (io, mia sorella e mia

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mamma) a fare il bagno in questa sala, dove c’erano tante docce e le donne stavano lì i pomeriggi a chiacchierare e a lavarsi l’u-na con l’altra. A casa mi lavo: faccio al doccia una volta al giorno e dura 10 minuti, un quarto d’ora. Penso sia sufficiente. Allora quando sono andata la prima volta in questo bagno pubblico mi sono lavata come ero abituata a lavarmi, come sono tutt’ora abi-tuata a lavarmi. Vado dalla mia mamma dopo 10 minuti e dico: “io sono a posto, posso andare, sono pulita”. Lei mi guarda: “no che non sei pulita”. E io: “veramente mi sono lavata, insaponata e risciacquata, sono a posto”. “No no, adesso ti faccio vedere che non sei pulita”. Ha preso un tovagliolino, l’ha bagnato, l’ha striz-zato, l’ha tutto arrotolato e poi me l’ha strofinato contro ed è venuta via la prima pelle e mi ha detto: “vedi, tu non sei pulita, tu ti lavi tutti i giorni ma non sei pulita!” Io per una settimana intera dicevo: “ma perché non riesco a farmi una doccia al giorno?” Non mi sentivo pulita. Questa è una delle cose che può dare la misura di quello che può essere uno scarto culturale: cos’è la pulizia? Certo, ci sono dei parametri, ma ce ne sono anche degli altri.

Un’altra riflessione che ho fatto riguardava il metodo di studio. Io venivo da un liceo in un momento storico in cui la gente non imparava più a memoria. Cosa ti serve imparare a memoria? Ar-rivo in Cina, mi siedo al mio banco, lezione di letteratura cinese (quello che è l’equivalente di lettere): i professori dicono “uno due tre” e i miei compagni partono a ripetere a memoria que-sti classici. Era un modo completamente diverso di approcciare la memoria, giusto o sbagliato, efficace o meno efficace, però il punto era trovare l’equilibrio, cercare di capire e non liquidare la faccenda con: io sono pulita se mi lavo una volta al giorno, sono sporca se mi lavo una volta alla settimana”, “non faccio funziona-re il cervello se ripeto a memoria”: ci sono una serie di sfumature e una serie di prospettive diverse. Uno dei passaggi successivi è capire perché un modo di fare può essere efficace in una certa cultura e non lo è o non lo è più in un’altra cultura. I miei nonni hanno imparato tanto a memoria, i miei genitori un po’ meno,

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i ragazzi di adesso non imparano quasi più niente a memoria, però c’è una motivazione storica. Non si può mai fermarsi sem-plicemente alla cosa e prenderla come una reazione; è neces-sario cercare di contestualizzare. Io dopo mi sono resa conto di una cosa studiando letteratura all’università: che è necessario imparare a memoria proprio per la struttura linguistica e per la scrittura, quindi ci sono tante altre motivazioni, tante altre ne-cessità intrinseche di una cultura.

Ricordo la ginnastica al mattino, le uniformi bianche con queste strisce verdi che quando pioveva diventavano assolutamente impresentabili, però noi con queste divise bianche dovevamo starci tutto il giorno. La ginnastica al mattino, che per me era una cosa stranissima, nuovissima; la giornata intera a scuola e quindi la mensa, il fatto che non ci fossero i bidelli e che dove-vamo pulire tutto noi: avevamo proprio i turni, i servizi. Ricordo queste aule grandissime: eravamo in 50, io passavo da aule di 20 persone ad aule cinesi di 50 persone. Una cosa che mi ricordo tantissimo: le biciclette, il fatto che le persone facessero come servizio quello di mettere a posto le biciclette, perché se ognuno fosse arrivato e avesse messo la bicicletta semplicemente par-cheggiata dove c’era spazio, nessuno poi avrebbe potuto par-cheggiare la bicicletta e quindi c’era chi prendeva la bicicletta, la spostava, la sistemava bene ed era uno dei servizi che facevano gli studenti. Mi ricordo però anche un rigore rispetto all’inse-gnamento, un modo di relazionarsi ai propri professori comple-tamente diverso rispetto a quello cui ero abituata. Al mattino avevo una scuola per stranieri e al pomeriggio seguivo le lezioni con gli altri ragazzi cinesi. Questo perché fiondarmi in una si-tuazione linguistica e culturale così diversa, sola e senza alcun supporto, avrebbe significato semplicemente scaldare il banco. Ho scritto tanto, ho letto tanto, ho studiato tanto, ma perché era tutto il contesto che lo richiedeva. Ho fatto le scuole superiori in un momento in cui in Cina la scuola superiore era forse il clou della carriera dei ragazzi, perché se uno passava la maturità in

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un certo modo aveva accesso all’università e poteva cambiare il suo status sociale. E quindi si studiava tutti tanto. Non aveva-mo sconti per il fatto di essere stranieri: noi dovevamo studiare come gli altri e studiavamo come gli altri; nei libri di testo di pri-ma elementare, però studiavamo il nostro.

Il rientro è stato improvviso perché all’epoca c’era la Sars. C’era questa epidemia che non si sapeva bene come si sarebbe svilup-pata e quindi l’ufficio di Pechino ha deciso di rimandare a casa tutti i ragazzi che erano in Cina quell’anno. Noi ci siamo ritrovati dal venerdì sera al lunedì mattina a fare le valigie, essere in ae-roporto e ritrovarci nei nostri paesi d’origine. È stato un rientro brusco, non abbiamo avuto il tempo di salutare le persone a cui eravamo legati, a cui avevamo voluto bene e siamo ritornati in quattro e quattr’otto senza nemmeno avere avuto una forma-zione, una preparazione che è quella che di solito viene data ai ragazzi che rientrano.

Una delle tante coincidenze della mia vita, perché poi ne sono seguite delle altre, mi ha portato qui a lavorare al Luogo di Aimo e Nadia. Dopo Intercultura ho fatto un primo semestre in Cina immediatamente dopo la maturità, sono rimasta per altri 6 mesi, quindi un anno e poi mi sono iscritta all’università in Cina, in let-teratura cinese. Durante l’università era previsto un tirocinio e io ho fatto questo tirocinio in un ristorante italiano a Shangai dove ho conosciuto Stefania, che è una dei soci che porta avanti il Luogo di Aimo e Nadia. Siamo diventate amiche e dopo tanti anni sono venuta a Milano a lavorare con lei.

Io non ho avuto aspettative e forse questo mi ha protetta e mi ha lasciata molto libera. Si può partire anche con delle aspettative precise, non dico di no, ma non fermarsi alla delusione, cerca-re forse di scoprire che anche la delusione può essere uno sti-molo a guardare le cose in maniera diversa. Che cosa s’impara? S’impara a misurarsi con delle realtà diverse. È fondamentale rimanere aperti, cercare di mettersi in discussione, cercare di

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pensare che non c’è un solo modo di approcciare le cose ma ce ne possono essere tanti. Cercando di rimanere in sintonia con il contesto in cui le persone si trovano. Questo in alcuni paesi è più necessario, è anche la sfida più grande, forse, quando si in-contrano popoli e culture molto diverse dalla propria e la Cina è una di questi. Quindi, per chi andrà in Cina in futuro, l’unico suggerimento che posso dare è: rimanere aperti, cercare di ca-pire e di valutare la propria cultura sempre in relazione all’altro e di capire la cultura ospitante in relazione ad altro, cercare di contestualizzare le cose tenendo sempre uno sguardo aperto, limpido, quanto più possibile fresco.

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Eleonora Bosco

Prima borsista in India (2007-08)

Io sono stata una delle prime cinque ragazze che sono andate in India con il programma di Intercultura. La scelta era nata da una curiosità per l’Asia in generale. Era venuta una ragazza a pre-sentarci il programma di Intercultura, in classe. Lei era stata a fare l’anno ad Hong Kong e mi aveva subito entusiasmato l’idea di partire per un paese completamente diverso, dove la lingua è un ostacolo, ogni angolo è una difficoltà, è tutto nuovo. Allora ho iniziato a pensare a Hong Kong, poi ho pensato alla Cina e poi avevo visto che c’era l’India. In realtà l’India era il paese asiatico con cui avevo più legame, perché mio zio e mia nonna ci erano stati in precedenza, mi avevano sempre portato molti sari, og-getti, giocattoli, per cui in qualche modo era già parte della mia vita, in qualche modo avevo sentito tante storie. Per cui ho det-to: “ma perché no?” Sembrerebbe ancora più avventuroso, pro-viamo ad andare in India. Lì per lì devo dire che non ho pensato tanto alle difficoltà, mi ha affascinato più l’idea di partire per questo posto nuovo. Penso di aver realizzato la mia scelta a pie-no quando mi sono svegliata il primo giorno in India nel mio letto della mia casa ospitante e ho detto “wow! Adesso sono qua” e ho realizzato lì quanto fosse diverso e le difficoltà che avrei incon-trato durante l’anno.

Una delle difficoltà maggiori è stata capire il mio ruolo all’inter-no della famiglia, perché all’inizio pensavo di potermi orientare

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al ruolo che avevano i miei fratelli ospitanti. Pian piano ho rea-lizzato che c’era una bella differenza tra me e loro per il fatto che io ero una ragazza e loro erano dei ragazzi. Questo talvolta ha portato a delle tensioni con la madre perché si aspettava da me certe accortezze che io non realizzavo di dover fare, per esem-pio il mio ruolo all’interno dei lavori domestici: se bastava che i ragazzi sparecchiassero la tavola, da me si aspettavano che aiu-tassi a pulire i piatti, anche se avevamo una donna che lo faceva. Piccolezze che io all’inizio non riuscivo a capire semplicemente osservando quello che succedeva intorno a me. La relazione più forte è stata con mio padre ospitante, con Ganesh. Avevamo un nostro rituale ogni giorno: lui tornava dal lavoro verso le cinque e ci bevevamo un chai. Io preparavo il chai, ci sedevamo a tavola e mi chiedeva della mia giornata, di cosa avevo fatto e mi raccon-tava un po’ del lavoro. La madre, al contrario di molte famiglie indiane, era spesso presa da attività più sociali, non stava molto a casa. Però era molto appassionata di arte, di rangoli, di mehndi. Rangoli è l’arte indiana di disegnare mandala con polvere di riso, spesso davanti alle porte di entrata di casa o davanti ai templi. Mehndi sono i disegni con l’henné che vengono fatti per esempio alle spose durante i matrimoni. Lei era spesso in giro a preparare e organizzare eventi, a fare corsi di mehndi e rangoli e mi portava sempre con sé, mi chiedeva se volevo andare. Per cui nonostan-te non si interessasse sempre molto della mia routine o di quello che facevo io, come andavo a scuola, con gli amici, è lei che mi ha aperto a questo mondo culturale dell’India. Ha giocato perciò un altro ruolo molto importante in questa esperienza.

La scuola che ho frequentato durante l’anno in India era il Fer-gusson College, nel centro di Pune. È stato bello avere il colle-ge in centro città perché mi ha permesso di girare molto la città stessa. Ero nell’undicesima classe e l’undicesima e la dodicesi-ma classe in India si separano: gli studenti che seguono i corsi di arte o di scienze umanistiche e gli studenti che fanno scienze naturali. Ovviamente tutti gli stranieri, a meno che non chieda-

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no diversamente, vengono messi nei corsi di scienze umanisti-che. Quindi seguivo corsi di inglese, di psicologia, di filosofia che è stata anche molto interessante perché facevamo sia filosofia indiana che filosofia occidentale: sentir parlare di Kant, di Hegel dagli insegnanti indiani è stato interessante. Il mio interesse è sempre stato per le arti, per la cultura, e ho avevo la fortuna di abitare con una madre che era un’esperta in quest’ambito. Pen-so che uno dei motivi per cui sono andata in India fosse la danza classica indiana. Ovviamente prima di partire era solo l’immagi-ne di uno spezzone di un film che mi era rimasto in mente. Ma da lì è nata la voglia di provare io stessa a fare il corso. Tramite una compagna di scuola ho iniziato a fare un corso di bharatanatyam, due volte a settimana. Era molto bello perché il corso compren-deva tutto: da bambine di 4 anni a ragazze 15enni, 18enni. La lezione veniva suddivisa: all’inizio c’erano i movimenti più sem-plici che facevamo tutti e più andavano avanti le lezioni e più diventavano complicate le coreografie e l’insegnante si concen-trava sulle ragazze più esperte. Per cui all’inizio facevo la prima mezz’ora insieme alle ragazzine di quattro anni e poi mi anda-vo a sedere con loro e stavo a guardare. È stata un’esperienza anche molto bella per capire la relazione che c’è in India tra lo studente e l’insegnante, il guru. Il guru non è solo una persona religiosa, è una qualunque figura che ti dedica del tempo per in-segnarti un’arte, in questo caso la danza. Una cosa che mi è rima-sta impressa è stata che alla fine di ogni lezione c’era un saluto, un ringraziamento al guru: dovevamo inginocchiarci, mettere le mani per terra e poggiare il capo per terra in segno di ringrazia-mento all’insegnante. Era un gesto che mi risultava molto diffi-cile all’inizio. Da noi in occidente, penso che abbassarsi al livello del suolo davanti ad una persona, sia quasi denigrante, insomma ci si sente quasi umiliati. Per cui all’inizio mi abbassavo, ma non riuscivo a poggiare la testa per terra, stavo lì a quattro centime-tri di distanza. Però in India non hai altro modo per esprimere gratitudine, perché il contatto fisico non esiste, neanche con i

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genitori. Alla fine dell’anno ho imparato ad apprezzare questo gesto e a capire. Ero grata di poter fare questo gesto per la mia insegnante per poter dimostrare la gratitudine e l’affetto nei suoi confronti.

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Oltre lo spazio

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Luca Parmitano

Ex borsista negli USA (1993-94)

Astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea ESA

Nel 1993 ero un giovane studente di 16 anni, con tutte le fanta-sie e l’immaginazione di un adolescente e mai avrei immaginato di trovare un legame, un punto di contatto con una famiglia mi-litare. La mia famiglia, la mia host family, era una famiglia milita-re e io, come tutti gli adolescenti, ero assolutamente pacifista e non riuscivo ad immaginare come sarebbe stato il contatto con questo tipo di famiglia. La mia grande sorpresa è stata quella di incontrare nel mio host father, che era un tenente colonnello dei Marines, navigatore di F18, una persona straordinaria che mi ha costretto a rivedere, a ripensare completamente la mia vi-sione di quello che è il mondo nella sua complessità. Devo dire che la sua presenza e la sua personalità, il suo modo di vedere il mondo e di interagire con il mondo ha poi condizionato tutto il resto della mia vita perché il mio grande sogno di volare, che era rimasto in un cassetto per tanti anni, si è risvegliato grazie a questo aviatore americano, che mi ha riavvicinato al mondo del volo, portandomi a vedere i suoi interessi, la base in cui lui lavo-rava, le manifestazioni aeree che erano lì nei dintorni. Così ho riscoperto il mio desiderio di avventura e di avvicinarmi al volo. Quindi, in un certo senso, la sua presenza, il contatto con questa famiglia così diversa dalla mia, è stato determinante, ha cambia-to tutto il mio futuro. Se mi sono avvicinato al mondo dell’aero-

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nautica e poi in seguito all’astronautica credo che sia stata una conseguenza, una fiamma che è nata da quella scintilla dovuta all’incontro con questa persona che mi ha costretto, appunto, a rivedere le mie idee.

La Sicilia degli anni ‘90 è molto diversa dalla Sicilia di oggi, ov-viamente, dall’Italia di oggi e dalla cultura di oggi e il distacco con la cultura californiana, che è sempre stata innovativa anche rispetto al resto degli Stati Uniti, si potrebbe immaginare come uno shock culturale. Ma devo dire che in realtà l’inserimento nella cultura di quegli anni in California mi ha permesso di ve-dere molte più similitudini che differenze. Per un ragazzo nato e cresciuto in Sicilia, nella Sicilia degli anni ‘70- ‘80, la cosa che più mi ha costretto a cambiare durante la mia esperienza negli Stati Uniti è stato quello che ci si aspettava da me in termini di indi-pendenza. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma sicuramente i ragazzi della mia generazione cresciuti in Italia sotto una famiglia tradi-zionale erano piuttosto “viziati”, avevano tutto a loro disposizio-ne. Per cui, il più grosso cambiamento per me è stato quello di dovermi rendere più indipendente e più utile nel contesto fami-liare, quindi partecipare molto di più alle attività di famiglia gior-naliere. Sicuramente questo è stato un cambiamento che mi ha sorpreso, perché era una cosa che semplicemente non mi aspet-tavo e alla quale non ero abituato. Ma il bello dell’esperienza in-terculturale è proprio quello di scoprire che le differenze non sono scontro ma sono arricchimento, quindi è molto importante abbracciare queste differenze fino a comprendere che in realtà sono ciò che rende il mondo interessante.

Fare un’esperienza all’estero a sedici anni è completamente diverso dal vivere un’esperienza anche simile in un contesto successivo. Negli anni ‘90 si iniziava già a parlare di Erasmus, di altre esperienze all’estero per studenti di età superiore, quindi universitari o comunque dottorandi che da sempre viaggiano verso destinazioni anche estere. Ma viverla da studente ancora

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adolescente ha un impatto completamente differente, perché uno studente di sedici anni non si conosce ed è ancora in fase di trasformazione, è in fase di crescita e di maturazione; quindi l’impatto è sicuramente superiore. Lo posso dire con certezza perché ho vissuto entrambe le esperienze, ho studiato e vissuto all’estero anche da grande ma nulla mi ha trasformato, o cam-biato o ha avuto lo stesso impatto della mia esperienza da adole-scente. Cosa può scoprire un adolescente vivendo un anno all’e-stero? Innanzitutto, scopre di avere molte più risorse di quelle che pensa di avere; nel confrontarsi con periodi di grande diffi-coltà, che arrivano per tutti gli studenti che affronteranno una esperienza come quella di Intercultura, dovuti alla distanza, alla separazione dal mondo abituale o anche semplicemente a un ci-clo normale di alti e bassi che si susseguono nella nostra vita. Trovarsi in un certo senso “isolati” dal proprio mondo costringe gli adolescenti ad attingere a risorse delle quali prima non ave-vano avuto bisogno, e per poterle trovare bisogna assolutamen-te che tutto il resto venga a mancare. Farlo in seguito, farlo da adulti, farlo da studenti già maturi probabilmente non permette di arrivare davvero in fondo a trovare quelle risorse.

Inoltre, c’è un grosso impatto con la paura. Le nostre società si portano appresso un retaggio culturale che è basato sulla di-visione. Io sono siciliano, poi sono italiano, poi sono europeo e tutto il resto è al di fuori di questa mia esperienza. Questa di-visione è creata in maniera artificiosa per permettere una finta unione all’interno del piccolo gruppo. Quindi, io siciliano sono unito con tutti i miei compatrioti siciliani contro un mondo più grande, quello italiano. Ma io italiano sono unito come italiano insieme a tutti gli altri italiani contro un nemico esterno, che è quello europeo. Questa identificazione serve a dare una direzio-ne unica che però è in senso negativo. Un’esperienza come quel-la di Intercultura permette in maniera individuale di insegnare a uno studente che esiste un altro tipo di unione, che è l’obiettivo comune, ovvero anziché una unione in negativo contro qualco-

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sa, trovare un obiettivo comune che è unificante ma in positivo. E ci si rende conto a quell’età che è possibile trovare in tutti i po-poli della terra dei punti di contatto che sono universali. Forse sono un po’ ingenuo nella mia ammirazione di un filosofo come Karl Popper ma credo nella fondamentale bontà dell’uomo e l’e-sperienza da adolescente all’estero mi ha insegnato che allora è molto meglio avere un obiettivo positivo comune. Nel mondo di Intercultura si impara a comunicare con un mondo che è diverso da quello al quale siamo abituati e che è possibile inseguire un obiettivo comune: la pace, l’integrazione. Nel momento in cui ci si espone alla diversità e si comprende che non è il mondo ad essere diverso, ma magari siamo noi in quel momento a essere quelli diversi, ci si predispone al cambiamento, all’evoluzione, e credo che utilizzare un’esperienza come quella di Intercultura per migliorarsi, per evolvere, ci prepari poi in seguito nella vita a essere pronti a quel cambiamento, a quella evoluzione. Nella mia vita professionale, l’esperienza di Intercultura mi ha in un certo senso condizionato in termini positivi. L’aver imparato da giovane una lingua importante, quasi universale ormai, come quella inglese mi ha sicuramente dato un vantaggio. L’esperienza mi ha aiutato ad allargare i miei punti di vista e a ricercare, a ab-bracciare le difficoltà, cercare gli ostacoli nella vita per prender-li come opportunità di crescita. E sicuramente se sono arrivato poi nel mio percorso ad essere un astronauta dell’Agenzia Spa-ziale Europea è anche per quel mio desiderio di confrontarmi in continuazione con la diversità, con gli ostacoli, con la differenza. È perché ho potuto coltivare quella mia curiosità universale, che forse è il tratto più comune per chi fa il mio lavoro.

L’esperienza di Intercultura non è limitata all’arco temporale dell’esperienza all’estero, è qualcosa che comincia prima e poi continua per il resto della propria vita. Perché dico che comincia prima? Perché bisogna avere un desiderio, una volontà, una pre-disposizione al tirarsi fuori dalla propria comfort zone per poter affrontare un’esperienza come quella. E continua anche dopo

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perché chi, come me, ha avuto il privilegio di poter studiare all’e-stero da così giovane poi credo senta il bisogno in qualche modo di restituire parte di questo privilegio ottenuto. Ed è giusto che sia così. Per quanto mi riguarda, subito dopo la mia esperienza all’estero, ho avuto degli impegni di studio e professionali che non mi hanno permesso di essere un volontario in maniera co-stante. Seguivo però con interesse i miei colleghi borsisti, amici che avevano, dopo l’esperienza, continuato il proprio contat-to con Intercultura come volontari, come punti di riferimento. Quindi mi sono ritrovato anni dopo a pensare in che modo po-ter restituire ad Intercultura, alla società in generale in qualche modo, parte della mia esperienza. L’opportunità si è concretiz-zata quando, durante la mia preparazione al volo per la missione Volare sulla Stazione Spaziale Internazionale, ho avuto l’oppor-tunità di essere un portavoce di Intercultura e dell’esperienza internazionale. La Stazione Spaziale Internazionale è, per sua definizione, un luogo di scambio culturale, un luogo in cui le dif-ferenze vengono annullate e il proprio retaggio culturale viene assolutamente messo da parte nel cercare un obiettivo comune, che è quello della scienza. Quell’esperienza è in qualche modo un riflesso ingrandito di quella che è stata la mia esperienza cul-turale di 20 anni fa. Per cui ho pensato di poter utilizzare questa piattaforma di comunicazione per portare il messaggio di In-tercultura. Successivamente, l’idea di poter restituire anche in maniera fattiva donando una borsa di studio per uno studente mi è sembrato un modo forse piccolo ma efficace di cambiare il mondo, l’idea di poter cambiare la vita di una persona dando l’opportunità di studiare all’estero per un anno. La mia vita è sicuramente cambiata in positivo dopo l’esperienza di Intercul-tura e allo stesso modo mi piacerebbe poter pensare di contri-buire al miglioramento della società partendo da questa borsa di studio e offrendo l’opportunità a uno studente meritevole di studiare al’estero per un anno con Intercultura. È un segnale di gratitudine verso una organizzazione che in maniera silenziosa

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ma efficace cambia il mondo e la società una persona alla volta.

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Samantha Cristoforetti

Ex borsista negli USA (1994-95)

Astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea ESA

Quando sono andata negli Stati Uniti a 17 anni ero già molto ap-passionata di spazio e di fantascienza, quindi in un certo senso mi sembrava di essere arrivata in paradiso semplicemente per il fatto che la sera in televisione mostravano due puntate di Star Trek, di cui ero appassionatissima. All’epoca in Italia era poco conosciuto; era un miracolo, riuscivo a vedere qualcosa di nuo-vo in televisione! E poi qualche mese dopo, per caso, ho visto la pubblicità di quello che si chiama space camp, che è un campo commerciale ad Huntsville, in Alabama. Fanno questi campi per bambini e ragazzi di diverse età: quello a cui ho partecipato io si chiamava space academy per i ragazzini un po’ più grandi, dove si simula di essere degli astronauti in addestramento per una set-timana. Quindi si vive tutti là in questo posto meraviglioso: fuori c’è un Rocket Park con un sacco di razzi che si possono visitare, hanno un cinema I-max dove si possono vedere i film su questo schermo molto immersivo. Ebbi l’opportunità di andarci anche grazie all’incoraggiamento e al sostegno della mia famiglia d’o-rigine, perché chiaramente fu una spesa, ma anche della signo-ra che mi ospitava e della scuola; in America sono molto severi sulle assenze però non hanno fatto una piega a lasciarmi andare una settimana a simulare di essere un’astronauta.

Quello che mi sono portata io è innanzitutto una competenza

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molto pratica, molto utile: la conoscenza dell’inglese. Io cerco sempre di dirlo ai ragazzi, alle ragazze, ma già ai bambini e alle bambine che incontro, soprattutto in Italia, che l’inglese non è una lingua straniera, bisogna saperla come l’italiano. E quindi, naturalmente, è stato un grosso vantaggio pratico averla acqui-sita a quell’età. Ma poi quello che ti porti dietro, indipendente-mente dal Paese dove vai, dalla lingua che apprendi, è l’esperien-za dello shock culturale, che sembra una cosa così di nicchia: uno dice “vabbé tu lo shock culturale e tu i corsi di pianoforte”. No, è una cosa fondamentale che ti cambia radicalmente la vita. Io la renderei un’esperienza obbligatoria per tutti. Impari che ci sono diversi modi di vedere le cose, impari che è possibile - e non è la fine del modo - cambiare le abitudini, abituarti a fare le cose in maniera diversa. Questo processo, che i volontari di Intercultu-ra sono bravissimi a spiegare prima che tu parta, in modo che tu sappia quello che ti aspetta: è assolutamente normale passare attraverso una fase di entusiasmo, dove tutto sembra eccezio-nale e poi arrivare alla fase di crisi, dove si mette in discussione tutto, dove si critica tutto, dove tutto quello che si fa a casa è molto meglio. È una fase che ad un certo punto finisce e si esce dall’altra parte, dopo questa traversata, molto più forti, molto più contenti, molto più appagati e anche molto più capaci di vi-vere appieno l’esperienza. Avere fatto questa esperienza in gio-ventù ti rende una persona molto più capace di gestire esperien-ze simili in futuro, altrimenti purtroppo poi rischi di non essere più capace di gestire queste cose e la tua vita, le tue possibilità, si restringono.

Voglio credere che la maggior parte delle aziende siano convinte che è anche nel loro interesse (a parte la responsabilità sociale di un’azienda, ma proprio anche da un punto di vista utilitaristico) contribuire alla formazione di giovani uomini e di giovani donne con questa apertura internazionale. Le nostre aziende hanno bi-sogno come il pane di giovani professionisti così. Rispetto a 20 anni fa o quando sono partita io, c’è molta più varietà nelle de-

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stinazioni ed è bello vedere che i ragazzi di oggi sono anche più avventurosi di quanto eravamo noi all’epoca e scelgono destina-zioni non scontate. Credo che dal punto di vista dell’esperienza culturale, più distante ti appare la cultura in cui vai ad inserirti, più diventa ricca l’esperienza. So che moltissimi adesso vanno in Cina; anche questo è molto bello, da incoraggiare, perché è un Paese che sarà sempre più importante nella nostra vita, nella nostra economia, e anche nella nostra cultura.

Mi sento di incoraggiare questi ragazzi e queste ragazze ad es-sere sempre più avventurosi. L’anno di Intercultura è un anno che bisogna sfruttare appieno, è un’occasione che non tornerà mai più nella vita, non avrai più 17 anni, non sarai più in questa situazione protetta, inserita all’interno di in una famiglia che ti vuole bene; non sarai più circondata da un’organizzazione ca-pillare di volontari che veramente vogliono farti star bene, vo-gliono farti sperimentare il più possibile del Paese che ti ospita. È un’esperienza eccezionale, da vivere essendo anche generosi con se stessi e quindi aprendosi davvero a tutte le opportunità.

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Biblioteca della Fondazione

Nella stessa collana:

1. M. Furloni, AFS e Intercultura - un viaggio per il mondo, un viaggio per la vita

2. Atti del Convegno, Identità italiana tra Europa e società multiculturale

3. Autori Vari, L’altro/a tra noi. La percezione dei confini da parte delle e degli adolescenti italiani

4. Autori Vari, Internazionalizzazione della scuola e mobilità studentesca. Il ruolo degli insegnanti

5. A. Fornasari, F. Schino e M.C. Spotti, Interpretare il successo. L’integrazione e il successo scolastico degli studenti esteri di Intercultura in Italia

6. Atti del Convegno, Ricomporre Babele. Educare al cosmopolitismo

7. C. Roverselli e A. R. Paolone, Competenze trasversali. Valutazione e valorizzazione delle esperienze di studio all’estero

8. Atti del Convegno, Il Corpo e la Rete. Strumenti di apprendimento interculturale

9. A. Fornasari, F. Schino, A. Cassano e M. C. Giorda, Dietro lo schermo. Gli adolescenti e la comunicazione ai tempi di Facebook

10. Atti del convegno, Saper vivere insieme. Umanitarismo, riconciliazione, educazione alla convivenza

11. Autori Vari, Il conservatorio di San Pietro in Colle di Val d’Elsa

12. Atti del Convegno, Il silenzio del sacro. La dimensione religiosa nei rapporti interculturali

13. Atti del convegno, Multicultural identities. Challenging the sense of belonging