MARIO PRAZ FABER f - Il Covile · 2016. 1. 3. · Mario Praz. Le gentilissime custodi ci han-no...

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AA . VV. MARIO P R A Z F A BER f

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AA. VV.

MARIO PRAZFABER

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I sei pollici del CovileUna collana dal formato ottimizzato per i

dispositivi di lettura.3

SULLE ORME

DEL MAESTRO DELLA

KELMSCOTT PRESS E INDIF-FERENTI ALLE COLTE MODE CIMI-

TERIALI COME ALLE MINIMALISTICHE

DESOLAZIONI SENZA GRAZIE, LE PAGI-NE DEI LIBRI DEL COVILE FIORISCO-

NO NELL'INVITO A RIPRENDERE

LA BELLA TRADIZIONE TIPO-GRAFICA EUROPEA.

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IndiceCarteggio preliminare..........................................5

Tornando da Roma..........................................5La tradizione sotto forma di arredamento......8Un nonsoché praziano...................................14

Alla ricerca di una dignità sublime (AlmanaccoRomano).............................................................16Tecnologia delle lampade da camera.................53

Lettrice notturna (Mario Praz)....................55Postilla...........................................................74Cronologia.....................................................75

Praz urbanista....................................................79Due volti di Parigi (Mario Praz)...................79Il sorriso della Reggia (Pietro Pagliardini). .98

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Carteggio preliminare*

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Tornando da Roma22 novembre 2008

Caro Almanaccatore,senza ritegno torno a disturbarla, ma la

sua lezione su Chateaubriand è stata per ilCovile un bottino troppo prezioso per nonlasciare la voglia di altre collaborazioni.Ci pensavo proprio oggi pomeriggio insan Luigi dei Francesi davanti alla tombadi Pauline de Beaumont. Ma andiamo conordine.

* Il Covile n°482 del 7 dicembre 2008.

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Oggi, con mia moglie, siamo scesi a Ro-ma per vedere la mostra di Giovanni Belli-ni. Pur senza fiato dopo tanta bellezza, neabbiamo approfittato per visitare la casa diMario Praz. Le gentilissime custodi ci han-no guidati (eravamo tre, c’era anche ungarbato signore inglese) attraverso le stan-ze, ed era come se il padrone di casa fossesoltanto assente.

Mi ha colpito un aspetto di Praz chenon conoscevo: quello faber. Come per ren-dere piú bello un oggetto o per combatte-re squallori moderni lo studioso si sia im-provvisato tappezziere e architetto: pensoalle geniali passamanerie rosse che nascon-dono le orrende cinghie degli avvolgibili,alle bellissime tende di sua ideazione, ai fin-ti camini che coprono i termosifoni, al mo-

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biletto contenitore della radio, ai veri epropri progetti architettonici: galleria, fin-te colonne ecc.

Casa museo Mario Praz. Sala delle biblioteche.

Non so se lei ha seguito qualcuno dei nu-merosi numeri del Covile dove presento leidee di Nikos Salíngaros e Christopher

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Alexander: mi pare che l’intuito, il gusto,di Praz fosse nella stessa direzione. Cosane pensa? Varrebbe forse la pena di racco-gliere qualcosa di organico sull’ar-gomento? […] S. B.

La tradizione sotto forma di arreda-mento

24 novembreCaro Borselli,mio quasi unico lettore e grande promo-

tore di questo povero Almanacco, non po-trei certo negare una risposta alle sue sotti-li sollecitazioni. Anche perché, passandosabato per via Zanardelli, con ancora nellatesta e negli occhi la pittura dechirichianadel dopoguerra, mi veniva da pensare al-l’Eccelso Anglista — come perfino in una

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biblioteca di Vienna si sentí chiamare il no-stro Praz, per paura di sfiorare il nomeproibito dalla sinistra fama — e al suo ruo-lo in quella Roma di allora. Avrei voluto ti-rare fuori le bonarie polemiche tra Praz eBrandi a proposito di Burri o della Bienna-le, quando il devoto di Canova criticava sa-pidamente l’amico per le passioni bizzarreverso delle insensatezze, paragonando isuoi entusiasmi agli accecamenti di DonChisciotte, per cui il generoso hidalgo ce-lebrava come principesse delle misere ser-ve. Oppure rievocare la sua erudizione og-gi inimmaginabile con esempi scherzosi (inun programma radiofonico che collegavaRoma e Londra, egli si divertiva a rispon-dere ai quiz su Shakespeare proposti da u-na giuria neutrale, stendendo con ripetute

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vittorie i colleghi britannici, professori aOxford e a Cambridge). O limitarmi pro-prio a questo aspetto scherzoso che con-traddistinse la vita e l’opera dell’Anglista,a dispetto della tetra aura che lo accom-pagnava, anzi giocandoci sopra comequando — lo raccontava nella Casa dellavita, che già nel titolo è un bel gioco umo-ristico alludendo alle tombe dei faraoniche cosí si chiamavano — preparò unastrana burla a Giovanni Macchia (o forseera Trompeo) facendolo entrare nelle suestanze vuote e buie, appena arrossate dallaluce del camino, in mezzo a statue e cerecadaveriche e lasciandolo ad aspettare alungo in questo lugubre ambiente (abitavaallora a piazza dei Ricci) mentre il padro-ne di casa, nascosto, si godeva la scena.

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Del resto collaborava alacremente a co-struire la nomea di iellatore, arrivando ascrivere con humour in quasi ogni pagina

Georg Friedrich Kersting, ca. 1814,Ritratto di giovane ricamatrice.

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di alcuni suoi libri tutti i possibili sinoni-mi e varianti metaforiche della morte.

Insomma, con queste minuzie aneddoti-che pensavo di accostarmi su Almanaccoal grande interprete di Piranesi, al colle-zionista degli emblemi, al maestro dellaRestaurazione, al decifratore dei misteriromantici. Un Benjamin italiano senzatroppi contorcimenti hegeliani, che oc-cultava la malinconia moderna in una son-tuosa messa in scena neoclassica. Lei mipropone invece il Praz faber, quello addi-rittura con i ferri da calza o l’ago e il filoper nascondere i buchi del tempo (la mo-glie se ne fuggí inorridita anche per que-sto), restauratore costante della casa fuoridel tempo, storico delle dimore altrui, dei

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loro interni, dei loro nascondimenti. Latradizione sotto forma di arredamento:

dalle trascorse generazioni — scrive-va — i moderni han ricevuto in credi-to due cose, osservava Hugo von Ho-fmannsthal, bei mobili antichi e ner-vi ipersensibili: «nei mobili v’è tuttoil fascino che ci attira verso il passa-to, nei nervi il dramma dei dubbi delpresente». Ipersensibilità di nervi eamore per i mobili sono fenomeniconnessi.

Un bel tema, non c’è dubbio, ma inqueste settimane sono preso da un bel po’di lavori e lavoretti. Ci penso su e mi faròrisentire presto. Lei mi spiegherà come hafatto a intuire il mio interessamento perl’inquilino di Palazzo Primoli. [...]

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l’Almanaccatore

Casa museo Mario Praz. Galleria.

Un nonsoché prazianoMercoledí 25 novembre

Carissimo Almanaccatore,le fornisco subito la spiegazione che

chiede, è semplicissima: è stato lei a citarel’«eccelso anglista italiano (che praticavaanche molto le lettere francesi)» nel testo

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su Chateaubriand che ci ha donato; maper la verità devo confessare che quel-l’accenno non mi ha stupito: Chateau-briand, Canova, un certo gusto... per me èun insieme del quale Mario Praz è parte es-senziale.

Piuttosto mi stupisco sempre di come iostesso ne sia restato affascinato. Lo scoper-si casualmente nel 1980 tramite Fiori Fre-schi, trovato curiosando in una bancarella,i miei amici piú colti ne parlavano con ri-spetto ma lo definivano un originale, sot-tolineando, come fanno ancora tutti a Fi-renze, soprattutto la fama di iettatore. Asinistra, si sa, sono cosí superstiziosi...

A ripensarci credo che in quel gusto ari-stocratico ci sia qualcosa di popolare, di ar-tigiano. Forse bisognerebbe indagare, ma

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penso proprio che sia stato questo a conta-giarmi, viste le mie origini: i miei nonnicontadini non conoscevano il termine «ar-redamento», ma per loro era scontato chenel lavoro ci aveva sempre da essere unpiccolo sovrappiú «per bellezza».

Quindi mi aspettavo certo che lei ap-prezzasse «l’anglista», ma, di nuovo, lei èandato ben oltre. La mia piccola idea è difare una presentazione per gli amici, confoto, di quello che ormai abbiamo chiama-to Praz faber, ma aspetterò i suoi contribu-ti. […] S. B.

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Alla ricerca di unadignità sublime*

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… egli non sapeva allora se la carrieraecclesiastica lo attirasse per la reli-gione o piuttosto per la bellezza dellecose accessorie, delle ricche vesti, deiraggianti ostensori, dei candelabri al-ti e splendidi, delle rose e dei gigli ilcui profumo si mescolava a quellodell’incenso… (Mario Praz, La casadella vita.)

* Il Covile n°483 del 10 dicembre 2008.

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inistro, satanico, maledetto, ro-mantico morboso (nonostante ilgusto neoclassico), decadente,

amante delle rovine, delle dissolutez-ze, swinburniano, «a great Swinbur-nian» fu accolto in Inghilterra. In Ita-lia, per via dell’interesse verso Joyce inanni in cui da noi suscitava solo frizzi elazzi, fu collocato d’ufficio tra i sensibi-li alle novità, e per lo studio su Lamorte, la carne e il diavolo, questa pano-plia di corpi afflitti, scambiato per unprofessorale surrealista. Perciò provaro-no a celebrarlo post mortem come unozio eccentrico e, messa la sordina aglielzeviri passatisti che aveva scritto à re-bours sul quotidiano romano Il Tempo,

S

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finí per essere rivendicato dagli avan-guardisti come uno dei tanti patroniche si inventano a ogni passo (del re-sto, tutti i grandi della modernità sonoautomaticamente arruolati a sinistraper la pubblica opinione, spiritualmen-te sovversivi, eccetto il gruppetto maleamalgamato Céline, Pound, Gentile;sarebbe opportuno magari far rifulgerela galleria dei conservatori: da Balzac aHugo von Hofmannsthal, passandoper insospettabili letterati e artisti). Maa Joyce il nostro personaggio guardavacasomai come a un manierista dell’Anti-rinascimento, e il giudizio finale suona-va assai moderato, sottolineando nella

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sua ricezione gli effetti speciali dellamodernità:

Un uomo che cogliamo in aspettiobliqui di bohème, di fuggitivo, distraniero, personaggio ambiguo e ta-lora grottesco come il suo Bloom; unpedante, un maniaco, un poeta conmolte caratteristiche del raté, le cuiopere sarebbero rimaste quelle di unraté in ogni altro secolo fuor che nelNovecento, che si arrese al fascinodella loro illeggibilità.

Appunto, illeggibile, invisibile: cosí se-duce la mistica moderna senza metafisica.Quanto al saggio che gli diede la celebritàinternazionale, benché suonasse eccentri-co tra i bigottismi crociani del tempo, pre-sentava sí dettagli di surrealistica invaden-

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za, ma questo sconcertava perché — co-me precisava l’autore nella seconda edizio-ne — «avvicinando una lente a un parti-colare di un quadro» si disturba la visionedi insieme. L’erudito con la lente di in-grandimento, sicuramente dalla impugna-tura pregiata, che si accosta ai contorci-menti libertini, piú che a un compiaciutoseguace della setta di Breton, evoca unprofessore che conosce solo lo spazio del-la biblioteca.

L’Innominabile, il Maligno, il Professo-re, queste le varie facce di Mario Praz chesi riverberano nella imponente biblio-grafia lasciataci, confondendoci — constudiata regia che ricorre al trompe-l’oeil— tra la trama dei libri e quella dei suoitappeti, tra casa e vita, tra collezionismo

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letterario e frequentazione di antiquari erobivecchi. Alla nostra distanza, sembravenir fuori il tentativo di un professoreche vuole distinguersi dalla miseria esteti-ca e morale in cui era affogata la catego-ria. Se la bellezza, l’arte, la grande cultu-ra appartenevano al passato, ecco il no-stro solitario personaggio procedere allaricostruzione di un ambiente di primo Ot-tocento con cui ingannare il tempo. Il fio-rentino si trovava sempre «in un mondoche non era il suo» diceva Giovanni Mac-chia, che condivise la devozione per Bau-delaire, aggiungendo che «sentiva di nonessere nato al momento giusto». Ricorse al-lora a uno stratagemma, cercò di ignorarequel mondo che «non era il suo». Circon-dato da oggetti e figure che sembrano fuo-

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riusciti dall’epoca eroica post-rivoluziona-ria e imprigionati in anguste stanze Bie-dermeier, se ne andò alla ricerca di una di-gnità sublime (in fondo, le due Guerremondiali, con i loro spaventosi sradica-menti, richiedevano come minimo una

Friedrich Wasmann (1805–1886) Paul, Maria eFilomena von Putzer, 1870.

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pausa Biedermeier, se nel XX secolo nonce ne furono, salvo veramente rare ecce-zioni, è perché ormai il mondo aveva per-duto completamente i freni).

Per questo suo progetto il Professoredoveva fare i conti con il denaro che nonaveva, con le paghe del pubblico impiegoche anche a quei tempi non permettevanovite lussuose ai nostri docenti d’universi-tà, almeno a quelli di Lettere che, a diffe-renza di medici e ingegneri, come ricor-dava spesso, vivevano modestamente, inappartamenti piccolo borghesi, distantidalla mondanità come dalla cultura inter-nazionale, arrangiandosi per qualche lussocon articoli sui giornali e con i redditizi li-bri di testo per le scuole. E doveva fare iconti con il clima pauperistico, giustifica-

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re continuamente i suoi peccati di presun-ta frivolezza come in un tribunale sovieti-co, soprattutto di fronte all’onnipresente‹impegno› del dopoguerra; ma anche conle frustrazioni dell’insegnante che si trovain aula pochi studenti, perché le ragazzedi buona famiglia avevano di meglio da fa-re, i poveri che cercavano un impiego percampare non potevano frequentare, e ifuori sede, con i trasporti di allora, si vede-vano poco. C’erano poi quei chiassosi in-convenienti che ci sembrano una nostra in-venzione degli ultimi quarant’anni ma cherisalgono a molto prima, come si evinceda questa scenetta del 1948:

giorni fa non ho potuto far lezione.Un piccolo gruppo di studenti riem-piva di schiamazzi lo squallido e geli-

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do piano nobile della Facoltà di Let-tere dell’Ateneo romano, impedendoai pochi volenterosi di sedersi suibanchi delle aule. […] Dissi agli atti-visti, che erano poi studenti di inge-gneria, che io la lezione la facevo eche, se volevano ricorrere alla forza,avrebbero offeso i piú sani principidemocratici. E chiusi la porta e co-minciai a parlare a quattro signorinee due giovanotti.

Ma gli scioperanti, dopo una eroicomi-ca resistenza degli assediati, sfondarono laporta. Un «incidente molto pittoresco —commentava senza rancore —, una di quel-le manifestazioni della fantasia degl’Italia-ni che tanto piacciono agli stranieri». Alui magari un po’ meno, potendosi per-

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mettere di non soccombere al peccato diesterofilia: «come è noioso l’estero» anno-tava una delle figure meno provinciali del-la cultura italiana, il letterato che la regi-na Elisabetta riconosceva nella folla delleoccasioni mondane, e lo prendeva da par-te per il piacere di parlarci.

In via Giulia, «la nebbia del passato» è«indugiata». Questo lo affascinò la primavolta nella Casa della vita. Nel palazzousato da Henry James per una fosca loca-tion del suo Portrait of a Lady e abitato da-gli aristocratici dei secoli aurei, lo spianta-to professore abituato agli appartamentiammobiliati di due stanze, leggermenteclaudicante per una infermità che divide-va — come scrisse Bianca Riccio — con

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Talleyrand e con Byron, decise di am-bientare la sua resistenza alla modernità.

Nella mia casa in Italia — spiegavaai colleghi britannici — le notti co-me queste io siedo davanti a un cami-netto all’antica, dove arde un fuocodi legna che non riscalda molto, co-me il vostro carbone, ma è bello a ve-dere.

A scapito della praticità osannata neglianni in cui ci si poteva ancora permettere,almeno nell’Italia simil-arcaica, di pre-star fede alle teorie del progresso, il Pro-fessore si preoccupava che tutto quelloche lo circondava fosse «bello a vedere».

Per esaltare il senso della vista, si cam-biò in antiquario, arredatore, restauratore,tappezziere, drappeggiatore; nelle botte-

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ghe degli antiquari faceva risorgere gli og-getti che, morti da lungo tempo, staziona-vano inutilmente nei locali romani di viadel Babuino, evitati dalla moda imperanteche, impiastricciata di espressionismi di ri-torno, non teneva in nessun conto l’epocaneoclassica, l’Empire furniture. Gli basta-va un’occhiata per stabilire se si trattassedel migliore tappeto Impero, eppuremolte cose doveva giudicarle da stentatefotografie in bianco e nero. Senza fatuità,si occupò di bambole, automi, giardini,mobili a sorpresa, maschere, ceramiche,porcellane, tappeti, cere, camini piranesia-ni, stampe, cartografie romane, libri rari,ritratti, conversation pieces, paesaggi, qua-dri storici, mitologici, sculture, bozzetti,silhouettes, corazze. Un theatrum mundi

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domestico, una Wunderkammer novecen-tesca. Consigliere di emblemi per le impre-se dei suoi contemporanei, proposeall’Einaudi un rinascimentale Struzzo e ilsuo motto d’accompagno che ancora cam-peggia sulle copertine della casa editricetorinese.

Logo Einaudi.

Poco competente di musica, cosí alme-no si dichiarava, raccoglieva inoltre stru-

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menti musicali antichi, tra cui un pia-noforte delle origini, oggetti ancora unavolta «belli a vedere». Coltivò perfino la«gaia scienza della cucina», studiando na-turalmente sui libri prima di mettersi aifornelli, dispiaciuto che l’arte culinariafosse tenuta in cosí poco conto negli anniCinquanta piuttosto affamati. Un «mala-gottiano formidabile» secondo EmilioCecchi, un discendente di quel LorenzoMagalotti, «odorista visionario», antesi-gnano seicentesco delle sinestesie baudelai-riane.

Salta agli occhi un’affinità con il piú an-ziano Bernard Berenson. Il Professorecon la sua casa di piazza de’ Ricci, a viaGiulia, l’ebreo lituano con la villa I Tattia Settignano. In tutti e due si rinveniva lo

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sforzo di edificare una dimora d’altri tem-pi, di proteggersi dalla modernità attraver-so l’arte, di fantasticare l’aristocrazia (an-che se Praz, per parte materna, potevaascendere a nobili avi cinquecenteschi im-parentati con principi e cardinali, addirit-tura ricostruirne senza troppa convinzio-ne le storiche sedi scartabellando vecchitomi, sempre con lo sguardo piú da studio-so che da erede), mostrando una complici-tà di esperti infinitamente piú sapienti de-gli storici dell’arte, che sono abituati a ve-dere sempre da lontano gli oggetti del lo-ro studio, vantando una frequentazione dipersone ricche e di case nobili, di amiciziestraniere e di belle dame, sdegnosi verso leconventicole nostrane e i loro dibattiti sulrealismo socialista cui asservirono addirit-

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tura Caravaggio, distinti insomma connettezza dalla mediocrità spiritualedell’ambiente accademico. Nel Libro de-gli ospiti di piazza de’ Ricci si conservaval’autografo della principessa MargaretWindsor, l’infelice principessa — come lachiamavano le riviste popolari —, sorelladella regina di Inghilterra, visitatrice ec-cellente di Casa Praz: c’erano forse in tut-ta Europa altre abitazioni di professoriche attiravano principesse e studiosi, perammirare un appartamento senza interven-ti di architetti alla moda, bensí messo su al-la buona, con sapienza artigianale del-l’inquilino affittuario che ricuciva a manoi buchi del tempo? Anche fuor di metafo-ra, sapeva ricamare con maestria ‹a pic-colo punto› meglio della moglie e lei, col-

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pita da questo «lato femminile» del con-sorte, o piccata per la sua maggiore tecni-ca, se ne tornò in Inghilterra, lo lasciò persempre solo nella sua casa con l’horrorvacui.

Paolo Mei, La ricamatrice addormentata, 1863.

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C’era nel Novecento chi viveva peri-colosamente, echeggiando «un imparatic-cio nietzscheano», lui si tenne al riparodello scorrere del tempo accelerato, lonta-no dalla mischia; la pericolosità la pregu-stava nell’epoca scelta, nei giorni sanguino-si della Rivoluzione e nei tribolati annisuccessivi, quando la modernità fece il suoingresso. La distanza dal primo Ottocen-to ci aveva soltanto privato delle ultimeeleganze, ma la minaccia di fondo resiste-va; Praz, che non era un apocalittico, lo di-ceva alla sua maniera, con grande sfoggioironico di strumenti macabri: «ci vorràdel tempo prima che cessiamo di notare ilghigno del teschio dietro ogni sorriso checi viene offerto». Che tempi mai sono que-sti — si confessava — in cui non si può

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neppure poetizzare sulle città di una volta,le Toledo, Madrid, Atene, Venezia, Vien-na, Napoli, Firenze e naturalmente Ro-ma? Ecco infatti in che consisteva la mi-naccia moderna: perduta la bellezza e poianche la sua esigenza, il suo desiderio,senza piú gli eroi romantici che la rivendi-cavano confusamente, si doveva parlare dialtro. Non restava che l’antiquariato perceliare sulla bellezza e celarla in qualchemodo. Stabilí una consonanza tra i filolo-gi (nei quali si poneva) e gli antiquari (dicui era membro d’onore).

O ci si poteva divertire a considerare«che cosa significava il nome di Chateau-briand a Hazlitt e quello di Hazlitt a Cha-teaubriand nel 1794». In modo da tenere«la leva segreta del Fato» almeno per il

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passato, abbandonando al suo corso il futu-ro troppo sfuggente. Elémire Zolla, suc-cessore del Professore nella cattedra roma-na di Letteratura inglese, avrebbe censu-rato tutto questo almanaccare che, nellasua Storia del fantasticare, considerava «undeliberato passatempo» derivato dal caosromantico, ma l’eccelso anglista non glidava peso, sotto sotto sprezzava la scrittu-ra del giovane brillante che lavorava nelsuo istituto dilettandosi però di religioniin chiave sincretista, senz’anima.

Nella rara occasione di un pensiero ‹po-litico›, non sapeva trovare di meglio che ri-correre ai musei:

Oh, se per la storia si potesse creareun museo dei falsi come quelloideato una volta a Vienna dall’amico

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Planischig per le opere d’arte, un mu-seo del cattivo gusto, del Kitsch, del‹pošlost›. Un museo che fosse l’oppo-sto di quello delle cere di MadameTussaud, che conferiscono un’aria diautenticità ai piú assurdi fantocci; unmuseo che mostrasse, non piú attra-verso la lente deformante della dabbe-naggine e della follia collettiva, la ve-ra essenza, la sinistra e grottesca es-senza degli idoli delle folle, chesfrondasse gli allori dallo scettro deitiranni. Museo del cattivo gusto nel-la storia politica, ben piú formidabiledel cattivo gusto in letteratura e in ar-te, di quel cattivo gusto che, come sisa, è manifestazione collettiva. Queimostri, quei prodigi, sono il prodot-to di una certa cultura, come i bacillinelle epidemie mortali...

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Subito dopo però, il disincantato con-servatore aggiungeva qualche riga per an-nullare il progetto pedagogico, scetticosulle trovate divulgative che dovrebberocambiare la testa della gente:

Ma forse è un’illusione la nostra.[…] Pur messo in guardia contro unfatale pericolo, l’uomo s’abbandonameno per questo alla venere pande-mia o agli stupefacenti? L’uomo,questo semidivino incurabile idiota

(nella dimenticata raccolta Lettrice nottur-na). Risale al 1945 una tale giocosa propo-sta, nella stagione cioè in cui si tessevanole massime speranze e perfino gli intellet-tuali che se ne erano sempre stati nelleloro torri d’avorio o di mattoni uscivanonelle italiche piazze a credere in qualcosa

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e a scivolare su terreni sdrucciolevoli, addi-rittura un Savinio, per esempio, si illude-va che il liberalismo immaginario trasfor-masse tutto come una bacchetta magica,anche il comunismo (si legga in Sortid’Europa). Ma il nostro professore avevasciacquato i panni nel Tamigi, si era abi-tuato alle ironie di laggiú e soprattuttonon fece mai mostra di un’inflessione adi-rata — lo si è visto pure nei confronti del-la contestazione d’epoca —, come molti al-tri antimodernisti che prediligiamo, forseperché neppure da giovane si lasciò maiandare a comportamenti sovversivi e dun-que nulla mantenne della cadenza militan-te, sia pure cambiata di segno o di direzio-ne di marcia. Perciò nel 1945, mentre crol-lava un mondo, nel primo anno postbelli-

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co a Roma, quando ancora in varie partid’Europa si combatteva la battaglia fina-le, Praz si limitava a fare un po’ colore suquanto di rumoroso accadeva nella suapiazzetta accanto al Tevere per poi tornarea immergersi nei suoi secoli preferiti. Per-ché anche «i lodatori del passato sono de-gli illusi», lui rimpiangeva soltanto di nonpoter aprire il calendario dell’«anno1825». Si attorniava di orologi: «tastare ilpolso del Tempo reso percettibile daigrandi e piccoli congegni che ne contava-no i battiti», ma era un altro tempo, gliamati orologi di bronzo dorato venivanosincronizzati su altre date (strategie cheJünger passerà in rassegna e metterà inopera Al muro del tempo).

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Senza troppe chiacchiere teoriche, si oc-cupava davvero della cultura materiale.Celebrava l’artigianato in tempi di produ-zione in serie, coglieva «il profumo delleantiche boiseries». Artigianale era questasua memoria di legni, marmi, tessuti, vistianche una sola volta. Per lui la tradizioneera anzitutto una serie di precise regoleper vivere bene. Da modesti quadretti ano-nimi riusciva a ricavare, senza la prosopo-pea accademica ma sorretta dalla sua con-sueta sapienza, una messe di fantasie. Mae-stro del luttuoso, traduttore anni prima diCristina Campo dei versi di John Donne,del suo supremo Death’s Duell, si dedicavapure all’ingegnoso nonsense dei Limerickdi Edward Lear, un vittoriano pazzerel-lone che costringe a una forma intricata, a

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continue risposte per le rime. Da buon con-servatore, insomma, sapeva ridere.

In Penisola pentagonale, resoconto diviaggi giovanili nella penisola iberica, c’èuna allegra avversione per il folclore anda-luso della Settimana Santa a favore del tu-rismo anglosassone. Non tutte le sospen-sioni del tempo dunque ottenevano la suaadesione, specialmente quando mostrava-no il marchio dell’umiliazione moderna,dell’asservimento all’industria del cosid-detto tempo libero che si sa adornare percivetteria dell’antico. Conteneva peròquel libro anche una stupefacente conside-razione su i viaggi, la morte, per ricorrereal titolo gaddiano che li tiene uniti senzaneppure la congiunzione, una battutabeffarda che intrecciava turismo e agonia:

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Per me ogni viaggio è come un mo-mento mori. L’incombente partenza,il sospetto che la prima volta che iovedo una nuova città sia insiemel’ultima, danno alle mie impressioniil senso definitivo delle cose postre-me. (…) In ogni città io mi sento talo-ra svanito come un fantasma. Sono iltestimonio muto. (…) Forse perchéviaggiare è un sentirsi morire a ognipasso, la vita appare al viaggiatore co-me un’esperienza estremamente ecci-tante, come un’avventura che di cer-to non si ripeterà di nuovo.

Il Grand Tour era insomma trasforma-to in un vagare di morti viventi.

Abituato da piccolo a ‹fare l’altarino›— tanto magnifica era la liturgia cattolica‹tridentina› da incantare addirittura i bam-

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bini, da imporsi nei loro giochi —, conti-nuò anche nella disposizione delle suestanze a echeggiare i sacri cerimoniali e isacri arredi, in un tempo in cui le chieseinvece prendevano, per amor vacui, leforme di una fabbrica (con la paradossaleconseguenza che adesso, mentre scompareil lavoro operaio, restano questi spettraliesempi di ‹archeologia industriale› dovepregare sgomenti, senza consolazione visi-va). La nonna che lo aveva iniziato algusto delle chiese — lui prescelse quellafiorentina della Santissima Annunziata —voleva cosí insegnargli a pregare maquantomeno «gl’insegnava ad ammirare».Consacrato a Madonna Beltà,

ora che si era creata una casa, d’istin-to l’aveva adornata quasi a immagine

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d’una chiesa, e si passava di stanza instanza come da una ad un’altra cap-pella (…). E sebbene non vi fosseroquasi immagini sacre nella sua casa,v’era intorno una dignità di chiesacome di tempio spazzato e adorno.

Sull’arte moderna precisava subito: «ilnome di arte s’usa a questo proposito in di-fetto d’uno piú calzante». Preferiva pensa-re si trattasse di una bieca faccenda econo-mica, come tappezzare le pareti di titoliazionari, diceva, mentre gli scherzi avan-guardisti si rivelavano appunto sorpren-denti tesoretti per gli investitori. Mettevain guardia i suoi lettori sui «sottili, inge-gnosi e capziosi ragionamenti» della criti-ca d’arte, e stava parlando dell’amico Ce-sare Brandi, dove la capziosità si accompa-

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gnava ancora a un’alta cultura e non erasemplice gioco delle tre carte degli spac-ciatori del ‹contemporaneo›.

Ironico detrattore delle scempiagginimoderniste, rivolse un bell’omaggio a Ko-

Firenze, SS Annunziata, Altaredell’Annunciazione.

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koschka: «nel campo della pittura è quelche Dostoevskij e Strindberg sono stati inquello della letteratura». Bizzarrissimopoi che l’amante di Canova, il sostenitoredel gusto neoclassico in epoca assai sca-pricciate e poco consone a tale stile, si inol-trasse nel bosco espressionista, apprez-zando addirittura Van Gogh contra Klimt.

Un conoscitore del mondo dell’arte come lui,non si lasciava ingannare dai paroloni delle avan-guardie, e spandeva sarcasmo su quei poveri spe-rimentatori del nulla:

i pittori vi presentano un’asse crivella-ta di buchi, o una tela grezza con qual-che grammo di colore e li chiamanoquadri, e uno scultore prende il sediledi un cesso, lo combina con un tubodi stufa e lo chiama una statua.

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E in un saggio raccolto poi in I voltidel tempo rispettava la «perplessità del pub-blico» che alla Biennale, di fronte agli og-getti estetici esposti, si chiedeva: «Checosa sono? A che servono?». Praz facevasua e riproponeva la domanda del pubbli-co. Già a che cosa serve una installazione?Bella questione. Oggi irriderebbe le pa-gliacciate istituzionalizzate nei musei, iteppisti — come considerava i suoi odiativicini di casa raccontati dal viscontianofilm Gruppo di famiglia in un interno — ri-spettati come artisti, e forse, pure cosí tol-lerante, si sarebbe scandalizzato per l’inac-cettabile ignoranza dei nuovi colti.

Si era preso gioco anche della egemo-nia culturale della sinistra, di quell’«ottu-

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sa e faziosa speculazione degl’intellettualidi sinistra» che

vedevano la pagliuzza nell’occhiodell’America e si rifiutavano di vede-re il trave nell’occhio della Russia. Ilmostro per loro non era Stalin, maquell’untorello di MacCarthy. Noncredevano alla peste, ma rabbrividiva-no di religioso orrore al solo pensie-ro della varicella. Quos Deus vult per-dere….

A piú di un quarto di secolo dalla mor-te, la sua celebrità resiste in piccole cer-chie soprattutto fuori d’Italia. Un giorno,a chi scrive capitò di incontrare una regi-sta tedesca che aveva in animo di fare undocumentario sulla fama nefasta del Pro-fessore e chiedeva di essere accompagnata

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per una visita nella Casa della vita ormaitrasportata a via Zanardelli da pii trasloca-tori, come quella santa di Loreto, oppor-tunamente posta sopra il Museo Napoleo-nico. Ebbene, mentre la tedesca esprime-va la sua meraviglia per quelle strane stan-ze, si incontrò, unico altro visitatore, ungiovanotto statunitense, venuto appostadall’America, che voleva scrivere un ro-manzo sulla vita antiquaria di Mario Praz,preparatissimo su ogni opera esposta, suogni cassetto di sécretaire, ma per nulla in-formato dei barbagli macabri, delle leg-gende romane sul Professore, dei segretidella Casa; non aveva sospettato nulla leg-gendo la chiusa di un saggio che, con la ca-denza dannunziana cui Praz aveva dedica-to la tesi di laurea, introduceva la «Maestà

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serenissima della Morte». (Non ci è datosapere dei destini del film e del libro diquei due).

L’Almanaccatore

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Tecnologia delle lampadeda camera*

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tre. La nostra indagine su MarioPraz faber prosegue. Abbiamo chie-

sto a qualche amico architetto di commen-tare gli interventi praziani sulla casa di viaZanardelli come fossero opera di un col-lega, aspetteremo. Intanto, come invito al-la lettura, presentiamo il brano contenutonel depliant prodotto dal Museo Prazl’anno scorso per festeggiare il ritorno del-

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* Il Covile N°484 del 13 dicembre 2008.

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la Lettrice notturna al museo (le note so-no mie).

Mi preme però sottolineare, ancorauna volta, l’attenzione dello studioso allacultura materiale: qui si occupa di minutidettagli di tecnologia delle lampade. Perchi vuole approfondire segnalo un testo:L’illuminazione attraverso i tempi: dalleorigini all’utilizzo ottocentesco del gas,messo in rete dalla benemerita Fondazio-ne Neri — Museo italiano della ghisa,Longiano (Forlí/Cesena), un museo checertamente l’anglista avrebbe apprezzato.

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Lettrice notturna (di Mario Praz)

Lettrice notturna 1830 circa, olio su zinco cm 26,5 x 32,5.

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inalmente ho trovato una corniceper la Donna che s’addormenta men-

tre legge. Non si tratta di un quadro d’au-tore, d’un inedito Vermeer o Terborch, co-me potrebbe far supporre il titolo; no,questo modestissimo quadretto romanticodipinto su una lamina di zinco non figure-rà mai sotto la luce di un riflettore o allaparete di un museo. Lo appendo nella ca-mera della mia bambina, tra due altri qua-dretti d’importanza di poco inferiore. Uncane ricamato a punto in croce, e un pap-pagallo fatto di perline infilate da una taleMarietta Mazzoni la cui grande firma an-golosa toglie di mezzo qualunque quesitodi attribuzione. Ora, nella cornice che, asuo modo è un gioiello di «secondo roco-cò» tutto curve, cincischi, pennacchi, la

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damigella d’un secolo fa può dormir davve-ro sogni dorati tra le tende rosso cupe del-la sua alcova che rendon sontuosa l’om-bra, mentre la luce della lampada a petro-lio rimasta accesa sul comodino batte inpieno sulla bella che in una posa bizzarra,rococò anche questa, dorme affondatanell’ampio guanciale orlato di gale, e sul-la coltre gialla del letto.

Una mano riposa sul grembo, propriosotto a dove la camicia scopre parte del se-no destro, l’altro braccio si curva eleganteal di sopra del capo, e le dita d’avorio so-no leziosamente aperte sul candido lino,due nastri rosa escono dalle chiome bru-ne, un doppio vezzo di perle circonda ilcollo. Non sarebbe difficile, sottolineandoquesti bianchi e questi rosa, dei lini, delle

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perle, delle carni, a contrasto con quellachioma scura, mettere in valore il «pez-zo». Ma ciò non fu tentato dalla rigattierache mi vendette il quadro; e bisogna an-che dire che nel negozio esso era ancora ve-lato da un’opaca crosta di vernice ingialli-ta la cui rimozione dette brividi di scoper-ta a un amico dilettante restauratore. Nonè tuttavia per il volto delle bella addor-mentata — un volto d’odalisca romantica,con le sopracciglia distanti e purissime, eun occhio languido languido che sotto lepalpebre abbassate appena s’intravede, —e neanche per la natura morta esibita sulcomodino — due libri, uno diritto, uno co-ricato, su quest’ultimo un mazzetto di ro-se; due armille, un calice per metà pienod’un liquido rosa, con un cucchiaino che

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il pittore ha dimenticato di dipingere al disotto dell’orlo del bicchiere: — non è pertutto questo che il quadro m’è andato a ge-nio, ma per il libro scivolato di mano allabella, e aperto lí, tra coltre e guanciale, auna pagina la cui vignetta reca una coppiad’ innamorati, lui scuro in ginocchio din-nanzi a lei candida.

Donna che s’addormenta mentre legge.La mia Lucia non sa leggere ancora, mason certo che, quando avrà gli anni diquesta giovinetta d’un secolo fa, anche leidimenticherà sovente le ore del sonno perqualche libro da cui non saprà staccarsi;anche lei, talvolta, si vanterà con l’amicache le ha prestato il volume: «Ci ho passa-to tutta la notte», anche lei farà le sue or-ge di letture giacenti che, oso supporre, so-

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no una specialità delle donne. Perché, ciscommetterei, se un orologio figurasse sulcomodino della bella addormentata di cuisopra, esso segnerebbe le ore piccole; soloun’eroica saturazione avrebbe potuto farscivolare il libro di mano alla dormienteproprio sul punto in cui gli amanti si co-nfidano la loro mutua passione. A me, let-tore lento e parco (in media leggo una pa-gine mentre altri ne legge tre), tali gestafemminili appaiono circonfuse da un alo-ne di leggenda; e sarei pronto a far la taraa confessioni del tipo: «Ci ho passato tuttala notte», se non sapessi di certa scienzache la cosa accade. Anch’io, sí, tengo unlibro sul comodino, ma giuro di non aver-ne mai letto piú di quattro pagine per serasenza essere stato vinto dal sonno, onde il

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senso del libro s’assottiglia come un filo lo-goro per almeno due delle quattro paginee il ricordo della lettura ne resta poi alter-nativamente preciso e sbiadito, come la co-pia d’una pagina scritta a macchina a unasola interlinea con una carta carbonemolto usata.

Niente di simile sarà accaduto alla bel-la d’un secolo fa: avrà letto d’un fiato finoa quel punto, poi la sua mente, alla scenad’amore, avrà divagato in personali remi-niscenze, e in fondo a quella prospettivainvece di Cupido avrà trovato Morfeo. Etralascio il piccolo problema del lume a pe-trolio che, dimenticato dalla dormiente,potrà di lí a poco filare1 e coprire di tetra

1 «filàre — [...] dicesi anche di lume, candela, fiac-cola o simili, il cui lucignolo mandi una sottilissi-

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fuliggine tutto quel candore di lini, di per-le, di carni. Questo ed altri quadretti estampe simili, frequenti al principio del-l’Ottocento (il libro aperto figura di ritosul comodino delle belle addormentatedell’epoca neoclassica, quando addirittu-ra, come nella caricatura della «politico-mane», non c’è un assortimento di gazzet-te), mi suggeriscono che il tema della let-trice notturna doveva essere allora abba-stanza nuovo per attirare l’attenzione del-la Moda, e mi domando se la novità fu in-trodotta (come credo avrebbe sostenuto su-bito l’autrice di Una camera propria di Vir-ginia Woolf ) dall’emancipazione delledonna che fece rapidi progressi sullo scor-

ma e piuttosto lunga colonna.» Ottorino Pianigia-ni, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana.

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cio del Settecento, o semplicemente dalprogresso dei mezzi d’illuminazione: che,fin quando a fianco del letto non assistero-no che deboli e vacillanti candele, nessu-na donna sollecita dei suoi begli occhiavrebbe voluto gareggiare con gli asceticistudiosi, capaci — cosí almeno riferisconoalcune storie — di leggere perfino al fio-co lume delle stelle. Né lucerne ad olio sa-rebbero bastate, ma solo la lampada Car-cel2 o, appunto, il lume a petrolio. Ed ec-co, una sera concordemente, le belle siportarono il libro a letto accanto allalampada dalla luce potente (per allora) esoave, e da mille finestre sarà trapelato

2 Lampada ad olio azionata da un meccanismo adorologeria messa a punto nel 1800 da BertrandGuillaume Carcel (1750–1812).

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per tutta la notte un blando chiarore; e inotturni annunziatori delle ore (ché aquell’epoca la Spagna non sarà stata il so-lo paese ad aver le città perlustrate dai sere-nos).3 Si saranno domandati con meravi-glia il perché di questo nuovo firmamen-to, e forse avran pensato che un santoesercizio di veglie notturne fosse stato or-dinato per la diocesi. Ma aggattate tra isoffici piumini, le belle leggevano «roman-zi neri», che erano «gialli» d’allora.

Prima del secolo decimottavo, invero,se un libro si vedeva in mano a una donna,nove volte su dieci era un libro pio. Mi

3 I serenos avevano il compito di accendere i lam-pioni e sorvegliare le strade di notte, ma erano an-che incaricati di aprire i portoni delle case nelleore notturne.

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sento di poter fare quest’audace associazio-ne a dispetto di quei fronzoli (piú che librida leggere) che erano i «petrarchini» dellenostre cortigiane. Penso piuttosto a Ofe-lia, a cui il padre raccomanda, mentres’aspetta da un momento all’altro la com-parsa del principe Amleto: «Voi cammina-te qui; leggete questo libro, che il far mo-stra di tale esercizio possa dar calore allavostra solitudine». Un libro di preghiere,di certo, perché Amleto esclamerà: «La va-ga Ofelia! Ninfa, nelle tue orazioni sianoricordati tutti i peccati miei!». E il libroche la Belinda del Pope tiene sulla sua to-letta, tra piumini, cipria, carte di nei e bi-glietti galanti, è la Bibbia. Poche damealtolocate cominciavano a formarsi una bi-blioteca nei primi anni del Settecento, e

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letterati come l’Addison degnavano d’im-partir loro consigli; ciò che mostra comeil fenomeno della donna che legge fosse al-lora all’inizio. Del resto la Leonora di cuiparla il numero trentasette dello Spettato-re era vedova, e una bellezza sfiorita: «Sic-come quella mente che non è stimolata daqualche piacere o da qualche ricerca favo-rita naturalmente cade in uno stato di le-targia e si addormenta, Leonora ha voltotutte le passioni del suo sesso in amore deilibri e della vita ritirata». C’era alcunchéd’ascetico in una donna che leggeva, e Ad-dison segnalava Leonora all’ammirazionedelle sue compagne:

Tra quelle innocenti distrazioni chesi è venuta formando, quanto piú ra-ra appare costei di quelle del suo ses-

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so che si dedicano a divertimenti me-no ragionevoli sebbene di moda?.

Se rara era la donna amante dei libri, ladonna che legge in letto, poi, non era piúpensabile di quel che non dovesse esserlonel Rinascimento.

Giorgione (1478–1510), Venere dormiente, 1507.

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ne che s’è addormentata ignuda in un’ame-na campagna; ma la cosidetta Venere delTiziano giace su un letto in una stanza ci-vile, eppure che pensa il pittore di metter-le in mano?

Un petrarchino? nient’affatto: un maz-zolin di fiori. Giurerei che un romanticoavrebbe pensato per prima cosa a un libro.

Tiziano Vecellio (1490–1576),La Venere di Urbino, 1538.

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A una sola bella donna sdraiata i pittorifino al Settecento, mettevano innanzi unlibro: alla Maddalena, e il libro, superfluoaggiungere, era un libro devoto (per quan-to, dall’aspetto d’una Maddalena comequella di Pompeo Batoni, ci si aspettereb-be altro).

Pompeo Batoni (1708 -1787) Maddalena penitente.(il dipinto era conservato nello Staatliche Museum

di Dresda e fu distrutto nei bombardamentidel 1945).

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A chiunque scrive di storie della modae del gusto par di toccare il cielo con un di-to quando scopre il punto preciso in cui av-viene una svolta. Nel caso presente, code-sta svolta ci pare di seguirla guardandodue ritratti di Madame Récamier. Nel-l’anno 1800 David dipingeva il famosoquadro delle leggiadra Giulietta adagiatasu un sofà, con i piedi nudi, come una dea,accanto a un alto candelabro di bronzod’impeccabile forma antica.

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Il candelabro non reca luce alcuna; lamano della bella signora, inerte lungo ilfianco, è vuota. Ventisei anni dopo, Fra-nçois-Louis Dejuinne ripeteva la posa pelritratto della dama nella sua «cella»all’Abbaye aux-bois.

Jacques-Louis David (1748–1825),Madame Récamier, 1800.

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L’ambiente non è piú rigorosamenteclassico: la biblioteca, l’arpa, il piano, untavolo con un vaso di fiori spirano intimi-

Francois Louis Dejuinne (1784–1844), La Chambre de Madame Récamier

à l’Abbaye-aux-Bois, 1826.

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fuori posto, mentre possiamo benissimoimmaginare sul tavolo una lampada Car-cel o magari, se non fosse ancora troppopresto, un lume a petrolio. Il sofà su cui èadagiata la dama è press’a poco il medesi-mo del quadro del David; ma la mano del-la bella lungo il fianco non è piú vuota:regge, naturalmente, un libro. E non perdarsi un contegno, non in cambio d’unmazzolin di fiori. Gli scaffali colmi di vo-lumi dietro la dama la dichiarano divoratri-ce di libri. Ma — notate il punto, e absitiniuria verbo — la posizione della dama èorizzontale. Dal principio dell’Ottocentoin poi la donna della buona società si cori-ca con un libro; siam certi che leggendofarà le ore piccole. Il letto, il sofà, l’ama-ca, in mancanza dell’altro il fresco giaci-

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glio dell’erba, sono i consueti concomitan-ti della lettura. Poi, a un certo momento,il libro scivolerà di mano, e la vicenda con-tinuerà nel sogno.

Mario Praz, 1943

Postilla noto come la posa della Dama sulsofà dipinta da David non sia stata ri-

presa soltanto da Dejuinne. Anche Ingresne fu affascinato, a sua volta imitato egre-giamente dal nostro Luigi Mussini, delquale abbiamo presentato qualcosa nel N°426. N

È

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Cronologia

1943 Mario Praz acquista dall’antiqua-rio romano Eugenio Di Castro per 400 li-re un piccolo dipinto raffigurante una don-na che si addormenta mentre legge.

Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780–1867),La Grande Odalisque,1814.

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1943 22 maggio, esce sul Corriere del-la Sera un articolo di Mario Praz dal tito-lo «Lettrice notturna».

1952 Mario Praz pubblica una raccoltadi saggi dal titolo «Lettrice notturna».

1982 23 marzo, ad 86 anni muore Ma-rio Praz.

1982 17 aprile, furto di 200 oggetti del-la Collezione Praz, tra cui la Lettrice not-turna.

1983 25 marzo, la Collezione Praz vie-ne notificata ai sensi dell’art. 5 della legge1089/39 dal Ministero per i Beni e le Atti-vità Culturali.

1986 ottobre, il Ministero per i Beni ele Attività Culturali acquista la CollezionePraz per 2 miliardi e 100.000 milioni di li-re, destinandola alla Galleria Nazionale

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d’Arte Moderna per l’erigendo MuseoMario Praz.

1988 Il Nucleo di Tutela dei Carabinie-ri recupera ad Ostia la Lettrice notturna.

1989 L’Avvocatura dello Stato, in meri-to al contenzioso sorto tra gli eredi Praz ela Galleria Nazionale sulla proprietà delleopere recuperate, si esprime in favore de-gli eredi Praz.

1995 1 giugno, apre al pubblico la CasaMuseo Mario Praz, museo satellite dellaGalleria Nazionale d’arte moderna,nell’appartamento al terzo piano di Palaz-zo Primoli che era stata l’ultima abitazio-ne del collezionista, dal 1968 fino alla suamorte.

2001 Gli eredi Praz offrono in venditaallo Stato Italiano 6 opere già in Collezio-

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ne Praz, tra cui la Lettrice notturna, mal’acquisto non si conclude.

2006 La Lettrice notturna viene espo-sta in Galleria Nazionale nell’ambito del-la mostra Il libro come tema. Al terminedella mostra gli eredi Praz offrono nuova-mente in vendita il dipinto allo Stato Ita-liano.

2007 La Lettrice notturna viene acqui-stata per 20.000 € dal Ministero per i Be-ni e le Attività Culturali e destinata allaCasa Museo Mario Praz. (Via Zanardelli,1, 00186 Roma, Tel. +39.06.6861089,[email protected])

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Praz urbanista*

Con il commento di Pietro Pagliardini.

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Due volti di Parigi (di Mario Praz)4

uello là è il nostro apparta-mento» disse la principessaK. puntando il dito nella dire-

zione d’un semicerchio di case nel nuovocomplesso edilizio di Parly. La trancia edi-lizia era cosí uguale in tutti i punti dellasua lunga estensione che era difficile di-

«Q

* Il Covile n°487 del 1° gennaio 2008.4 Da Il mondo che ho visto, Adelphi, 1982, pp. 370–

374.

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stinguere una parte dall’altra. «Il nostro èquello dove han già messo i vetri». Cer-cammo invano nella monotonia. del ce-mento un luccichio di cristalli. Contro losfondo del parco di Versailles questocomplesso di appartamenti eleganti facevapensare a un quartiere residenziale d’u-n’università americana o australiana.

Parigi, Marly Le Roi, incrocio Rue Paul Leplat-Rue Thibault. Il «falansterio di Parly»?

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Al centro sorgeva un grande ristorante,come tra i motels di Charlottesville. Eli-minata ogni preoccupazione pei residenti:in comune i servizi, pulizia degli apparta-menti, alimentazione, eccetera. Molto co-modo. Abolizione del problema domesti-co, possibilità di cavalcate nel parco.All’ora dei pasti si entra nel grande anfi-teatro del ristorante e ci si siede a uno deitanti tavolini, sotto i lampioncini gialli earancione che conferiscono un’aria di fe-sta alla Renoir. Davanti ai gelati detti «pie-montesi» di forma fallica, tutti i volti siestasiano. Lí vicino c’è Versailles, c’è ilGrandi Trianon, dopo i restauri smaglian-te di mogano e di bronzi Impero. Questisono i beaux contrastes — per dirla conuna frase usata da Barrès per Siena — i

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contrasti, non so proprio se belli, della Pa-rigi d’oggi. Poco prima avevamo visto, da-vanti alla basilica di Saint Denis, coi suoiinnumerevoli gisants regali ricomposti do-po una rivoluzione, un’immagine sten-torea di Lenin che copriva tutta la faccia-ta d’un edificio pubblico tra bandiere ros-se, con un missile che seguiva la direzionedel suo colossale braccio teso: un cartello-ne pubblicitario simile ad altri che incul-cavano altri prodotti di consumo. Il nomeDrug-West era qua e là visibile nel falan-sterio di Parly. Forse la droga ha qualcosaa che vedere con molte manifestazioni con-temporanee.

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Ad esempio, quale droga manca a meper apprezzare l’esposizione di sei pittoriamericani alla galleria Knoedler in Ruedu Faubourg-Saint-Honoré? Gli sberleffineri di Kline, gli sbadigli monocromi diRothko, i formicolii policromi di Pollock,quale droga li fa apprezzare ai critici

«La trancia edilizia era cosí uguale...»

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d’arte e al pubblico? E a quale pubblicopoi? La gente che s’incontra per le vie diParigi sembra normale, i capelloni son ra-ri, stan passando di moda, dicono. Mal’astrattismo non passa di moda cosí facil-mente. L’astrattista Magnelli, che vive aMeudon-Bellevue e che mi ha fatto pia-cere d’incontrare di nuovo, dai lontanitempi delle Giubbe Rosse, ha i suoi ot-tant’anni, e come capita con l’età senile di-mentica spesso i nomi. «Quel pittore diFerrara... come si chiama?... Già, De Pi-sis...». De Pisis ha esaurito il suo ciclomortale, poveretto, i suoi quadri hannoconquistato la fama fino al punto di provo-care le falsificazioni, e Magnelli, che eraastratto da giovane, seguita a essere astrat-to da vecchio. Oramai l’astrattismo è ri-

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spettabile, è d’età venerabile, quasi come imeravigliosi oggetti che adornano la casadel barone Elie de Rothschild.

Inutile aggiungere che io preferiscoquesti. Le tele di Rothko e di Pollock co-stano milioni; se io avessi i milioni, li spen-derei piuttosto in oggetti antichi, come ilvaso d’argento achemenide con stambec-chi per anse, o il grande cammeo di sardo-nica d’epoca costantiniana in una montatu-ra bizantina di filigrana dorata, o la prezio-sa legatura, opera dedalea di BenvenutoCellini, della bibbia di Enrico VIII, o lagranata di Salamanca o il Gioiello ele-fante, o la tabacchiera di Choiseul daiguazzi raffiguranti l’appartamento delduca in Rue de Richelieu, o perfino quelprezioso cucchiaio rinascimentale all’estre-

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mità del cui manico si snoda un piccoloacrobata.

I Rothschild sembrano crescere conun bisogno fisico di circondarsi dellepiú squisite e sontuose opere d’artecreate dalla mano dell’uomo

scrisse Douglas Cooper parlando di que-sta collezione. E aggiungeva:

Se fosse possibile compilare un cata-logo dei tesori artistici che sono statisalvati dalla distruzione e accumulatidai vari mèmbri di questa singolarefamiglia, il mondo rimarrebbe attoni-to davanti a tanta ricchezza.

I futuristi volevano distruggere i musei, ehan distrutto tesori d’arte antica i cinesi diMao. Da varie parti, con vari intenti, si co-

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spira alla distruzione del retaggio del pas-sato. «La Natura» scrisse il marchese diSade in Justine «cammina a gran passi ver-so il suo scopo, dimostrando ogni giorno acoloro che la studiano che essa non creache per distruggere, e che la distruzione,la prima di tutte le sue leggi, dal momentoche senza di essa non giungerebbe ad al-cuna creazione, le piace assai piú della pro-pagazione, che una setta di filosofi grecichiamava, con molta ragione, il risultatodi assassinii». Da questo punto di vista iRothschild son dunque innaturali, ma tut-ta la storia della civiltà non è forse un an-dare contro corrente rispetto a quello cheè il corso della Natura: la storia dell’uma-nità non documenta forse uno sforzo co-stante di superare il caos primitivo, per

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creare una società in cui si possa vivere?Come nell’arte primitiva, vogliamo torna-re ai costumi dei popoli primitivi, dal mo-mento che ogni arte è espressione di un co-stume? Rothko, Kline, De Kooning, i ca-pelloni, la messa yé-yé, l’arte Pop, l’arteOp, questo galoppo verso il caos potrà an-che vincer la giornata, e come il protagoni-sta della Nube purpurea di Shiel ci diverti-remo a dar fuoco alle città. Ci divertire-mo: ma in quanti siamo a volere questogaloppo al caos? Mica tanti, dopo tutto!Ma i piú non hanno coraggio, si lascianotrascinare dalle cosidette avanguardie, la-sciano correre, consentono. È la vecchiastoria di tutte le rivoluzioni.

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Luoghi come questa casa dei Roth-schild a Rue Masseran, costruita da Bron-gniart nel 1787–88 per il principe di Mas-serano ambasciatore di Carlo IV di Spa-gna alla corte di San Giacomo, non sonosoltanto serre dove artificialmente si con-servano in vita i tesori del passato; la baro-nessa Liliane, che tanto ha contribuitoall’arricchimento di questa collezione,

Parigi, Rue Masseran, 11 (fonte: Google Street).

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non è la pallida vestale d’un fuoco che siestingue.5 A guardar bene, c’è piú vita,molta piú vita in questo palazzo arredatocon quanto di meglio han prodotto artisti,orefici, mobilieri e arazzieri nei secoli, chenon nell’anonima struttura di Parly o nel-le composizioni senza volto dei sei pittoriamericani che si confondono con le mac-chie, gli sgorbi, le bandiere, i sacchetti dicoriandoli.

Un quadro della Vigée-Lebrun,6 unritratto di Madame du Barry, iniziato nel

5 Balza alla mente Nicolás Gómez Dávila: «Nonappartengo a un mondo che perisce. Prolungo etrasmetto una verità che non muore.» (In margi-ne a un testo implicito, Adelphi).

6 Su Elisabeth Louise Vigèe Le Brun (1755–1843)si veda il sito amorevolmente curato da Kevin J.Kelly a www.batguano.com/vigee.html.

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settembre del 1789, interrotto per lo scop-pio della rivoluzione, e completato moltotempo dopo la tragica fine del modello,mostra l’antica favorita reale in una posalanguida, con un giglio e una rosa nella

Elisabeth Louise Vigèe Le Brun,Madame du Barry, 1789–1820.

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mano abbandonata sul ginocchio. Il cieloroseo del tramonto all’orizzonte fu delibe-ratamente scelto come sfondo dalla pittri-ce che disse d’aver dipinto in quel quadroil tramonto della monarchia. E forse que-st’impressione di tramonto resta anchedalla visita a questa casa che documentaun’epoca e un gusto molto diversi dalla ci-viltà delle masse e dei consumi. Tramontonon di un clima troppo raffinato per potersussistere, ma semplicemente tramontodella qualità.

Per questo non sentii un netto distaccovisitando poco dopo una casa assai dif-ferente, quella di Leonor Fini e di Stani-slao Lepri in Rue de la Vrillière, molte del-le cui finestre danno su una di quelle cortidalle facciate bianco spento, dalle fitte

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persiane grigie e dai tetti d’ardesia, chesono un incanto della vecchia Parigi.L’arte dei due pittori non ha rotto col pas-sato, e per questo forse la critica infeudata

Parigi, Rue de la Vrillière, 8(fonte: Google Street).

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all’astrattismo non ha mai reso loro pienagiustizia.

Ma non è solo come insuperabile illu-stratrice di volumi (le sue illustrazioni al-le Fleurs du mal sono le piú ispirate che ioconosca) che Leonor è ammirevole: la suaultima maniera, piena di suggerimentidell’art nouveau, ha saputo distillare laquintessenza di questo stile, realizzarneespressioni perfette nella tradizione diKlimt, di Toorop, di Thorn Prikker. C’èun suo recentissimo quadro, la Guardianadelle sorgenti che, pei preziosi calici multi-colori, fa pensare ai famosi versi di Solo-gub: «E due profondi calici di vetro deli-catamente tintinnante tu ponesti sottouna lucente tazza, e versasti una soave spu-ma. Versasti, versasti, versasti, agitasti due

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cristalli carnicini; piú bianca d’un giglio,piú rossa d’un rubino, tu eri bianca e cre-misi».

Leonor Fini, La guardiana delle sorgenti.

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Nel suo appartamento Leonor ha rac-colto oggetti liberty sorprendenti, comedue lampade murali in forma di iris, diJean Dampt, una torcerà di ferro battutodai viticci serpentini e dal calice a fior dininfea, un tavolino i cui tre sostegni sonmostri dal capo di libellula, e agli oggettis’intonano i parati e le stoffe: una moquet-te verdina a motivi di ninfee bianche estocchi di Kniphofía color zafferano, la co-pertura d’una chaise-longue color acqua-marina costellata di iris bianchi. Con que-sta sapiente selezione di motivi libertyLeonor ha fatto risuscitare uno stile, fa-cendo suo, si direbbe, un assioma di Pe-trarca nelle Senili, secondo cui la poesiaaltro non è che ricordo di cose sperimenta-

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te e provate. Una verità troppo spesso di-menticata oggi.

Mario Praz 1967

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Il sorriso della Reggia (di Pietro Pagliardini)

l non troppo celato disprezzo che tra-spare dalla descrizione dell’apparta-I

Versailles

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mento della Principessa K., e l’immagineaerea, largamente esplicativa di quello,non è bastato a togliermi la curiosità, madirei il vizio, di andarne a cercare foto tri-dimensionali piú dettagliate per meglioafferrare il senso dei due volti di Parigi.

Eseguita la richiesta è inevitabile fer-marsi sull’immagine delle Reggia di Ver-sailles e domandarsi quale sia il significatodello sguardo vòlto verso il cielo, irri-dente e sicuro, di questa figura antropo-morfa.

Muovo il mouse in ogni direzione, la ro-tellina zooma di continuo ma quello cheriesco a trovare intorno al nostro amico so-pra è questo:

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e questo:

e perfino questa casuale e anoressica paro-dia del suo ben piú nobile vicino:

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Continuando nella mia ricerca, trovocanali, linee ferrate, strade, case e alber-ghi sotto lo stesso nome di Parly, ma dellombrico che accoglie in uno dei suoi anel-li l’appartamento della Principessa K. nes-suna traccia.

Rinuncio: quanto trovato giustifica dasolo sia i due volti che la sardonica fissitàdel volto dell’opera di Le Notre, consape-

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vole del fatto che nulla avrebbe potutoeguagliarla.

Certo, una cosa è il profondo convinci-mento di vincere ogni confronto nei seco-li a venire, altro è ritrovarsi del tutto soliin campo senza plausibili avversari.

D’altronde, noblesse oblige, la Reggiadi Versailles aveva l’obbligo dinastico di es-sere raffinata e superiore, vantando nobilinatali come questo:

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e, piú lontano nel tempo, come questo:

Cerchiamo di afferrare meglio il per-ché i due volti siano cosí diversi.

Sia gli antenati che il nobile discenden-te sono rappresentazioni «astratte» del-l’armonia e della bellezza del corpo uma-no, dove astrattismo sta per sintesi, gene-ralizzazione di un canone di proporzioniumane che diventano unità di misuradell’universo (braccia, passi, piede, polli-

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ce, ecc). In questo modo l’uomo stabilisceuna relazione intima e fisica tra sé stesso ela natura, si appropria dello spazio pren-dendone le misure in base alle misure delproprio corpo, fissa una «legge naturale»che determina i moduli di ogni cosa, unalegge comprensibile tanto dall’architettoche erige templi quanto dal contadino chedetermina i confini e le superfici dei pro-pri campi. Poi alla «legge naturale» si so-stituirà la «legge positiva», quella basatasu convenzioni che la società accetta emodula nel tempo in funzione del comu-ne sentire, cioè in funzione dei complessirapporti che si instaurano nel corpo socia-le, oggi regolati dal principio democraticodella maggioranza. Tuttavia non vi è alcu-na garanzia nella coincidenza tra scelta

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maggioritaria e scelta migliore, non a casovi sono le minoranze che cercano di affer-mare scelte diverse.

Immagino che Praz una pur fuggevolequanto spontanea considerazione sui diver-si quarti di nobiltà sia stato costretto a far-la nel constatare la differenza dei riferi-menti culturali tra il Re Sole e la Princi-pessa K. e forse l’anonimato di questa nonè solo rispetto di privacy ma un pietoso,amichevole velo di silenzio sul nome delladecaduta la quale, al pari di un socio dicooperativa, va in cantiere a cercare il suoalloggio, riconoscendolo dalla presenzadei vetri.

Non riesce il nostro, e noi con lui, adimmaginare il Re Sole che, nel corso di unsopralluogo per verificare il procedere dei

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lavori, venga assalito dall’incertezza suquale possa essere la sua regale dimora esia costretto a chiedere conferma al suo se-guito.

E allora Praz volge lo sguardo verso laReggia, non osando fare improponibiliconfronti e viene assalito da dubbi incon-fessabili.

E in quel breve attimo in cui giudica,senza cattiveria verso l’amica, si vede scor-

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co, e si ricorda di Mondrian leggendovi unprincipio astratto che non è astrazione diregole dalla natura ma composizione diforme che hanno un lontano quanto cere-brale fondamento nel meccanismo di per-cezione visiva, incomprensibile ai piú esempre opinabile e sempre relativo.

Chi si accorgerebbe mai e soprattuttochi coglierebbe un senso di disordine o didiverso ordine se lo stesso quadro fosse que-sto sotto?

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Se fosse un’autentica opera di Mon-drian, invece che una mia veloce manipo-lazione della stessa, avrebbe avuto egualsuccesso oppure sarebbe stata ritenutaun’opera minore, meno riuscita?

Indubbiamente, per modificare questoquadro anch’io ho cercato di leggervi unordine, di afferrarne una regola, in mododa conservare una certa coerenza conl’originale; ma l’ordine consiste in un equi-librio di forme astratte e in una valutazio-ne ottica del tutto individuale: se infattiavessi «sbagliato», come probabile, chipotrebbe spiegarmi in cosa e perché?

Viceversa, chiunque avverte subito chequalcosa manca in questa statua, com-presa la stabilità:

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e tuttavia il cervello riesce a ricostruiree ad immaginare le parti mancanti. Dalleparti si può ricavarne il tutto, anche senzaessere specialisti.

Per questo statue come la Nike di Sa-motracia conservano molto della loro bel-lezza, pur mancando della testa.

Ma qui ci siamo fermati al campo dellapittura e della scultura le quali, in fondo,hanno il pregio di essere attaccate ad un

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muro o poste su un piedistallo e dal qualepossono sempre essere rimosse senza pro-blemi e collocate in cantina o in un mu-seo, la visita del quale è scelta volontaria econsapevole (ad eccezione delle scolare-sche e delle gite organizzate). Queste for-me d’arte non sono fatte per essere abitatema abitano loro stesse e possono essere spo-state.

Ma che dire quando ragioniamo di ar-chitettura che consiste di manufatti dura-turi e la cui scelta è privilegio del commit-tente, ma la cui permanenza incombe, ob-torto collo, su chiunque la abiti, la usi, vipasseggi solo davanti?

Si faccia una brevissima sosta con losguardo a queste due immagini:

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Sono quadri astratti o edifici?7

Chi si accorgerebbe (oltre ai residenti)se cambiassi la trama delle finestre? Nessu-

7 Si tratta di fotografie di edifici scattate da Mi-chael Wolf.

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no, probabilmente, perché se è pur semprevero che (con grande generosità) una sor-ta di regola «compositiva» si riesce a tro-varla in queste due immagini, è altrettantosicuro che se vi inserissi elementi di «disor-dine» apprezzabile, questa scelta potrebbeessere accolta come consapevole deviazio-ne da una regola, giustificata da criterioestetico del progettista, cioè scelta relati-va, individuale e perciò non confutabile.

Dunque la logica di questa Parigi del-l’astrattismo è completamente diversa daquella delle vie amate da Praz. E quel qua-dro di Mondrian, al pari di altri autori, èla matrice di quelle architetture del voltoodierno: geometrie astratte, mancanza diornamento, distacco totale dalla natura edai luoghi, disegno frammentario che

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non ammette continuità di tessuto nel pas-saggio da un insediamento all’altro.

Io ho mostrato immagini aeree dicendodi averle tratte da un volo su Versailles;ma siete propri sicuri che non abbia menti-to e che esse non provengano da un altroluogo?

No, non potete esserlo, dovete fidarvidi me, della mia parola, esattamente comecoloro che abitano o transitano in quegliinsediamenti: se a qualcuno sembrasserobrutti, che si fidino, l’Architetto ha dettoche sono bellissimi, rigorosi e adatti per vi-verci dentro.

«Ma lei dove abita, Architetto? — Ah,io vivo in un palazzo del ‘700 nel centrostorico, eredità della mia famiglia e non vo-levo certo abbandonarlo. Sa, c’ero troppo

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affezionato! Ma se avessi potuto sceglie-re…».

Tutte le città hanno due volti, perchégli Architetti che le progettano dovrebbe-ro averne uno solo?

Pietro Pagliardini

J

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Elenco dei volumi pubblicati in questa collana.

1 AA. VV. — Indagini su Epimeteo tra Ivan Illich, Konrad Weisse Carl Schmitt.

2 Claudio D’Ettorre (Omar Wisyam) — Giorgio Cesarano e lacritica capitale.

3 AA. VV. — Mario Praz faber.

4 Fabio Brotto — Rileggendo Simone Weil.

5 Almanacco Romano — Storia della «Religione dell’arte».

6 Rodolfo Papa — Le ragioni dell’arte.

7 AA. VV. — Figure adelphiane. Cristina Campo, Furio Jesi, Ja-cob Taubes, Simone Weil.

8 Stefano Borselli — Raccolta 1985-2000.

9 Lothar Meggendorfer — Le nuove tabelline.

10 Alfred Tennyson — La dama di Shalott.

11 Lewis Carroll — La cerca dello Squallo.

Elenco aggiornato a www.ilcovile.it/pdf.htm.

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ornamenti, i Fell Types di Igino Marini, per i capi-lettera & decori, vari di Dieter Steffmann

& altri.

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