Violenza e psicopatologia

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Available at www.sciencedirect.com journal homepage: www.elsevier.com/locate/quip EDITORIALE Violenza e psicopatologia Violence and psycopathology Aggressivita ` e violenza costituiscono connotati caratteristici della nostra civilta `: dai conflitti tra Stati o etnie, alle violenze omicide attuate in ambito familiare, le nostre cronache dedicano spazi sempre piu ` ampi a eventi il cui comune denominatore e ` costituito dalla minaccia e dalla sopraffazione nelle loro piu ` diverse espressioni. In realta ` atti di violenza efferati in famiglia, tra vicini di casa, nei confronti dei soggetti piu ` deboli ecc. sono sempre stati commessi, ma oggi piu ` che mai si assiste a un’ampli- ficazione da parte dei mass media di alcuni eventi di cronaca nera. La violenza torna a riempire le prime pagine dei giornali e intorno a essa si aprono ampi dibattiti che coin- volgono i professionisti piu ` diversi: psichiatri, psicologi, socio- logi, assistenti sociali, educatori, giuristi e anche religiosi. D’altro canto il problema della violenza riveste da sempre primario interesse per lo psichiatra e in generale per tutti i professionisti della salute mentale che, essendo coinvolti in decisioni di carattere sia clinico (curare o non curare) sia medico-legale (responsabilita ` vs non responsabilita `), sono chiamati a stabilire i limiti entro i quali un comportamento violento puo ` essere definito ‘‘normale’’ o ‘‘patologico’’. Non vanno trascurati, inoltre, i problemi di carattere deontolo- gico ed etico relativi a ogni decisione terapeutica in questo settore. Ma che cos’e ` la violenza? Il termine ‘‘violenza’’ deriva dal latino vis, ovvero ‘‘forza, vigore, potenza’’, ed e ` un concet- to tipicamente fenomenologico che allude a una qualita ` del comportamento caratterizzata da sopraffazione, violazione e danno. La World Health Organization (WHO) fornisce la seguente definizione di violenza: ‘‘L’utilizzo intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunita `, che determini o che abbia un elevato grado di probabilita ` di determinare lesioni, morte, danno psicologico, cattivo svilup- po o privazione’’ (1). In Psicologia il concetto di violenza viene considerato come una dimensione dell’aggressivita ` e gli psicologi vedono nella violenza una delle diverse forme che questa puo ` as- sumere. Da un punto di vista fenomenologico si puo ` infatti osservare che se l’azione aggressiva non viene contrastata, per esempio attraverso le norme o contrapponendo altra aggressivita `, essa puo ` sfociare nel comportamento violento. Aggressivita ` e violenza, dunque, possono essere considerate come due concetti che si pongono in un rapporto di continuita ` e contiguita ` e si puo ` affermare che spesso la prima anticipa la seconda. Considerata tale vicinanza tra i due fenomeni, il punto di partenza per la comprensione degli agiti violenti sembra essere quello dell’aggressivita `, che fra l’altro riesce a essere piu ` avulso da considerazioni morali, attratte invece dal concetto di violenza. Dal punto di vista semantico, in generale aggressivita ` significa un agito che tende all’ostilita ` ed e ` finalizzato alla diminuzione del potere dell’altro, e dalla ‘‘vittima’’ vissuto come minaccia al proprio potere. In passato sono prevalse posizioni contrastanti che, da un lato, vedevano l’aggressivita ` come una caratteristica in- nata, istintiva, biologicamente determinata, naturale e percio ` ineliminabile nell’uomo e, dall’altro, accentuavano il ruolo dei fattori ambientali (cultura, ambiente, societa `, famiglia, valori) quali determinanti il comportamento aggres- sivo. Alla luce delle odierne conoscenze biologiche non sembra piu ` dubitabile che il comportamento aggressivo dovette giocare, fin dagli albori della vita, un ruolo indispensabile in quanto parametro di difesa, per l’utilita ` sua nei confronti del rafforzamento del processo vitale. Konrad Lorenz (2), e gli etologi in generale, leggono l’aggressivita ` in modo funzionale alla sopravvivenza dell’individuo e alla soddisfazione degli obiettivi primari (mangiare e copulare). Secondo questi studiosi l’aggressivita ` e ` un istinto che esige una scarica periodica e rappresenta uno dei fattori che determinano l’evoluzione della specie. L’idea di aggressivita ` come caratteristica istintiva e naturale e ` stata sostenuta anche dalle teorie psicoanali- tiche. Si pensi per esempio alla teoria elaborata da Freud (3), secondo il quale l’aggressivita `-distruttivita ` e ` una pulsione istintuale-originaria, un ‘‘male’’ insito nella natura umana. La civilizzazione ha una funzione essenzialmente anti-istintuale, ossia volta a far sı ` che l’individuo contenga e ARTICLE IN PRESS 0393-0645/$ - see front matter & 2009 Elsevier Srl. Tutti i diritti riservati. doi:10.1016/j.quip.2009.04.002 QUIP 2009;28(2):4548

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Available at www.sciencedirect.com

QUIP 2009;28(2):45–48

0393-0645/$ - see frodoi:10.1016/j.quip.2

journal homepage: www.elsevier.com/locate/quip

EDITORIALE

Violenza e psicopatologia

Violence and psycopathology

Aggressivita e violenza costituiscono connotati caratteristicidella nostra civilta: dai conflitti tra Stati o etnie, alleviolenze omicide attuate in ambito familiare, le nostrecronache dedicano spazi sempre piu ampi a eventi il cuicomune denominatore e costituito dalla minaccia e dallasopraffazione nelle loro piu diverse espressioni.

In realta atti di violenza efferati in famiglia, tra vicini dicasa, nei confronti dei soggetti piu deboli ecc. sono semprestati commessi, ma oggi piu che mai si assiste a un’ampli-ficazione da parte dei mass media di alcuni eventi di cronacanera. La violenza torna a riempire le prime pagine deigiornali e intorno a essa si aprono ampi dibattiti che coin-volgono i professionisti piu diversi: psichiatri, psicologi, socio-logi, assistenti sociali, educatori, giuristi e anche religiosi.

D’altro canto il problema della violenza riveste da sempreprimario interesse per lo psichiatra e in generale per tutti iprofessionisti della salute mentale che, essendo coinvolti indecisioni di carattere sia clinico (curare o non curare) siamedico-legale (responsabilita vs non responsabilita), sonochiamati a stabilire i limiti entro i quali un comportamentoviolento puo essere definito ‘‘normale’’ o ‘‘patologico’’. Nonvanno trascurati, inoltre, i problemi di carattere deontolo-gico ed etico relativi a ogni decisione terapeutica in questosettore.

Ma che cos’e la violenza? Il termine ‘‘violenza’’ deriva dallatino vis, ovvero ‘‘forza, vigore, potenza’’, ed e un concet-to tipicamente fenomenologico che allude a una qualita delcomportamento caratterizzata da sopraffazione, violazionee danno.

La World Health Organization (WHO) fornisce la seguentedefinizione di violenza: ‘‘L’utilizzo intenzionale della forzafisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi,un’altra persona, o contro un gruppo o una comunita, chedetermini o che abbia un elevato grado di probabilita dideterminare lesioni, morte, danno psicologico, cattivo svilup-po o privazione’’ (1).

In Psicologia il concetto di violenza viene consideratocome una dimensione dell’aggressivita e gli psicologi vedononella violenza una delle diverse forme che questa puo as-sumere. Da un punto di vista fenomenologico si puo infatti

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osservare che se l’azione aggressiva non viene contrastata,per esempio attraverso le norme o contrapponendo altraaggressivita, essa puo sfociare nel comportamento violento.Aggressivita e violenza, dunque, possono essere consideratecome due concetti che si pongono in un rapporto dicontinuita e contiguita e si puo affermare che spesso laprima anticipa la seconda. Considerata tale vicinanza tra idue fenomeni, il punto di partenza per la comprensionedegli agiti violenti sembra essere quello dell’aggressivita,che fra l’altro riesce a essere piu avulso da considerazionimorali, attratte invece dal concetto di violenza.

Dal punto di vista semantico, in generale aggressivitasignifica un agito che tende all’ostilita ed e finalizzato alladiminuzione del potere dell’altro, e dalla ‘‘vittima’’ vissutocome minaccia al proprio potere.

In passato sono prevalse posizioni contrastanti che, da unlato, vedevano l’aggressivita come una caratteristica in-nata, istintiva, biologicamente determinata, naturale epercio ineliminabile nell’uomo e, dall’altro, accentuavanoil ruolo dei fattori ambientali (cultura, ambiente, societa,famiglia, valori) quali determinanti il comportamento aggres-sivo.

Alla luce delle odierne conoscenze biologiche non sembrapiu dubitabile che il comportamento aggressivo dovettegiocare, fin dagli albori della vita, un ruolo indispensabile inquanto parametro di difesa, per l’utilita sua nei confrontidel rafforzamento del processo vitale.

Konrad Lorenz (2), e gli etologi in generale, leggonol’aggressivita in modo funzionale alla sopravvivenzadell’individuo e alla soddisfazione degli obiettivi primari(mangiare e copulare). Secondo questi studiosi l’aggressivitae un istinto che esige una scarica periodica e rappresentauno dei fattori che determinano l’evoluzione della specie.

L’idea di aggressivita come caratteristica istintiva enaturale e stata sostenuta anche dalle teorie psicoanali-tiche. Si pensi per esempio alla teoria elaborata da Freud(3), secondo il quale l’aggressivita-distruttivita e unapulsione istintuale-originaria, un ‘‘male’’ insito nella naturaumana. La civilizzazione ha una funzione essenzialmenteanti-istintuale, ossia volta a far sı che l’individuo contenga e

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trasformi, attraverso processi di sublimazione, le pulsionifondamentali (sessualita e aggressivita) in spinte verso ivalori culturali.

Melanie Klein (4), psicoanalista austro-britannica, teo-rizza il carattere innato dell’aggressivita e dell’invidiaprimaria, intravedendo gia nel rapporto col seno materno,che il bambino fantastica di divorare, l’aggressivita infan-tile. Per lei l’aggressivita ha una dimensione fantasmatica,che si origina dalla matrice del trauma della nascita il quale,da subito, conduce il bambino ad avere fantasie di distrut-tivita verso se e verso ‘‘l’altro da se’’.

Posizioni opposte alle suddette sono quelle sostenutedagli ambientalisti, i quali sostengono che l’aggressivita e unfattore acquisito, appreso dall’ambiente. Hebb (5) affermache, benche l’esistenza di elementi comportamentali indi-pendenti dall’apprendimento non possa essere del tuttonegata, il concetto di comportamento innato risulta privo divalore euristico in quanto, di fatto, non si puo mai escluderela partecipazione dell’apprendimento anche nella primis-sima fase dei processi ontogenetici in utero.

Oggi, alla luce degli studi piu recenti e dei contributi delleneuroscienze e della Psicologia dello Sviluppo, ci chiediamoquanto sia ancora valida tale diatriba tra innato-appreso equanto invece sia utile una visione dell’uomo come esserebio-psico-sociale. Questo modello offre una spiegazionemultifattoriale dell’aggressivita in cui interagiscono fattoriambientali, pressioni situazionali, fattori biologici onto efilogenetici, fattori psicologici (innati o acquisiti, normali opatologici: schemi comportamentali, valutazioni).

Quanto al tema dell’aggressivita che sfocia nella violenzae nella distruzione, Lorenz (6) sostiene, per esempio, chenel mondo animale vi e un equilibrio naturale interspecificoche viene conservato, mentre nell’uomo il reale pericoloche la specie si estingua a causa dell’aggressivita (e quindidella violenza) e assai presente. Secondo questo studioso,nella specie umana mancano infatti molti dei meccanismiautoinibitori dell’aggressivita operanti nelle specie inferiori.

Erich Fromm (7) a tal proposito distingue due tipologie dicomportamenti aggressivi nell’uomo: ‘‘Il primo, che egli hain comune con tutti gli animali, e l’impulso, programmatofilogeneticamente, di attaccare o di fuggire quando sonominacciati interessi vitali. Questa aggressione difensiva,‘‘benigna’’, e al servizio della sopravvivenza dell’individuo edella specie, e biologicamente adattiva e cessa quandoviene a mancare l’aggressione. L’altro tipo, l’aggressione‘maligna’, e cioe la crudelta e la distruttivita, e specificadella specie umana, e praticamente assente nella maggiorparte dei mammiferi; non e programmata filogeneticamentee non e biologicamente adattiva; non ha alcuno scopo e, sesoddisfatta, procura volutta’’.

L’aggressivita maligna, essendo una ‘‘pulsione del ca-rattere’’ ed essendo questa a sua volta determinatasocialmente, e strettamente connessa alle esigenze psi-chiche dell’individuo e alle condizioni sociali che caratteriz-zano la sua esistenza.

Per spiegare la motivazione che porta ai comportamentiviolenti entra in gioco, come abbiamo visto, anche il fattoreambientale/culturale (8). La societa attuale ci sottopone aforti conflittualita che originano dall’eccessiva competitivi-ta, dal desiderio di potere, dall’autoaffermazione a tutti icosti, dall’edonismo. Il modello di vita dominante nella

nostra societa e di tipo competitivo e nella maggior partedei casi gli esseri umani vedono nel prossimo un concor-rente, un rivale, un nemico da cui difendersi, da combat-tere, da sopraffare (9).

Molti affermano che la competizione e un fenomenonaturale essenziale alla vita sociale organizzata; essa elevale aspirazioni dell’uomo e lo aiuta a raggiungere granditraguardi. Una sana competizione (emulazione) nella scuola,nel lavoro, nella vita culturale, nella ricerca, nello sport eimportante perche mantiene viva la capacita del sistema diprogredire, di cambiare.

Oggi, tuttavia, si assiste a una trasformazione dellacompetizione da mezzo a fine che riguarda estensivamentetutto il sistema sociale ed e dovuta a molteplici ragioni:economiche, finanziarie, politiche, culturali. L’obiettivopiu importante in ogni campo e divenire abbastanzaforti da sconfiggere i competitori e la mancanza di com-petitivita vuol dire esclusione dal mercato, perdita deldominio sul futuro e sottomissione alla dominazione del piuforte.

Vittorino Andreoli (10) osserva come anche il sistemascolastico sia incentrato sulla logica della competitivita.Secondo questo autore, a scuola si imparano l’importanzadel giudizio e la differenziazione e quindi una gerarchizza-zione tra i ragazzi sulla base dell’intelligenza (o dellaricchezza). Sostiene Andreoli: ‘‘Il tipo di educazione cheviene impartita nella nostra societa ha in generale l’effettodi potenziare le tendenze all’aggressivita e di indebolire oaddirittura di atrofizzare quelle alla cooperazione e all’al-truismo: un ovvio risultato del nostro modello di vitacompetitivo’’.

Un tema di grande interesse per i professionisti dellasalute mentale e quello riguardante l’accostamento traviolenza e malattia mentale. Tale tematica non e certoargomento proprio dei nostri giorni, anche se con ladefinitiva chiusura degli ex ospedali psichiatrici e lacrescente necessita, da parte dello psichiatra operante sulterritorio, di far fronte all’urgenza psichiatrica, si eavvertita in modo pressante l’esigenza di affrontare dinuovo il problema.

La letteratura scientifica degli ultimi decenni non haespresso una posizione univoca riguardo al rapporto tra ilcomportamento aggressivo/violento e la psicopatologia.Tale difformita di opinioni puo essere in parte dovuta alladifficolta nel definire i confini del problema, in parte allaposizione ideologica nei confronti della pericolosita dellamalattia mentale.

La pericolosita e l’imprevedibilita del comportamentosono gli ingredienti centrali della malattia mentale nell’o-pinione pubblica e la legislazione della maggior parte deiPaesi prevede l’assunto secondo cui i disturbi mentalicompromettono la responsabilita per gli atti criminali.

D’altro canto molti ricercatori negano che vi sia un’as-sociazione tra disturbo mentale e comportamento violento.Alcuni dati (11) suggeriscono che solo dal 5 al 15% (puressendo tali valori variabili secondo l’area geografica e iltipo di rilievo statistico) degli imputati di omicidio sianodichiarati, ai fini di legge, affetti da infermita mentale; ilrestante 80-85% delle persone che uccidono sono dichiarateper legge capaci di intendere e di volere (12). Sembrerebbequindi errato il pregiudizio diffuso tra la popolazione

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secondo cui tutti coloro che commettono omicidio sianogravi malati di mente.

Inoltre, nei casi in cui a commettere l’omicidio sia unsoggetto schizofrenico, insieme al contenuto a caratterepersecutorio del delirio andrebbero analizzati altri fattoripredisponenti il comportamento violento, da ricercarsi nelleradici della storia personale del soggetto e dei contatti cheha avuto con la violenza. Il delirio non puo essere il solo‘‘perche’’ un soggetto schizofrenico aggredisce il suopresunto persecutore.

L’indagine di Link et al. (13) condotta a Manhattanconfrontava il tasso di prevalenza di arresti e di autoag-gressivita proprio di un campione di individui adulti che nonfossero mai stati ricoverati in ambiente psichiatrico conquello riferito a individui affetti da disordini mentali (siaricoverati sia non istituzionalizzati al momento del campio-namento). Sebbene alcune variabili quali sesso maschile,basso grado di istruzione e residenza in quartieri gravati daun’alta incidenza di criminalita sembrassero fattori dirischio in grado di incidere sulla ‘‘formazione’’ di individuoviolento, il gruppo rappresentato dai malati mentali eracomunque contraddistinto da una probabilita maggiore diessere violento rispetto al gruppo di controllo. Tuttavia lostesso Link vedeva nei sintomi psicotici non tanto la causadell’atto violento in quanto tali, bensı la capacita di evocarereazioni di paura e spesso di rabbia nella collettivita al loromanifestarsi; da questo emergerebbe il desiderio di con-trollo e coercizione nei confronti del malato mentalestimolando nello stesso una reazione violenta.

Per quanto riguarda l’implicazione delle patologie psi-chiatriche nello sviluppare, scatenare o acuire comporta-menti violenti, nonostante i familiari dei pazienti psichia-trici presentino un rischio maggiore di subire violenze inconfronto alla popolazione generale, l’impatto e inferiorerispetto ai soggetti con abuso di sostanze e affetti da disturbidi personalita (per esempio, antisociale) (14). A questoproposito, alcuni ricercatori (15) hanno valutato l’associazionetra morbilita psichiatrica e gravita dei comportamenti violenti(considerati in funzione delle lesioni riportate dalle vittime).Sono stati valutati 8.397 soggetti (sottoposti a screeningdall’Osservatorio Nazionale di morbilita psichiatrica nellapopolazione generale) con questionari autosomministrati. Dairisultati e emerso che la meta degli incidenti domestici avvieneper abuso alcolico e nel 24% dei casi si associa un disturbo dipersonalita di tipo antisociale, mentre solo nell’1,2% si associaun disturbo psicotico maggiore. Le vittime di violenza sono nellamaggior parte dei casi familiari di primo grado e i luoghi in cui leviolenze si consumano sono le mura domestiche.

Ricerche recenti hanno evidenziato come ‘‘soggetti sani,in assenza di qualsivolgia disturbo mentale, appartenenti adambienti socio-culturali che s’ispirano a ideali di violenza,sono particolarmente predisposti a comportamenti antiso-ciali e aggressivi’’ (16).

Se consideriamo, per esempio, i fenomeni di violenzadomestica sulle donne, le ricerche suggeriscono come lamaggior parte di coloro che commettono tali forme diviolenza nel contesto familiare non abbiano ne un disturbomentale ne una storia di criminalita (17).

La violenza contro le donne comprende ogni atto, legatoalla differenza di sesso, che provochi o possa provocare undanno fisico, sessuale o psicologico o una sofferenza della

donna, compresa la minaccia di tali atti, la coercizione oarbitraria coercizione della liberta sia nella vita pubblica siain quella privata (18).

I risultati di un’importante inchiesta condotta dalla WHOnel 2005 in tutto il mondo indicano che dal 10 al 50% delledonne, con cifre variabili da Paese a Paese, dichiarano diaver subito violenze, piu o meno gravi, da parte del partner(19). Studi condotti in tutto il mondo hanno dimostrato che itassi di violenza fisica perpetrata da un partner maschile chesi verificano almeno una volta nella vita variano dal 10 al56%. Tra il 10 e il 30% delle donne in questi studi ha inoltreriferito di aver sperimentato la violenza sessuale (20).

Per quanto riguarda la tipologia degli uomini violenti,‘‘nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a uominicosiddetti ‘normali’, che hanno cioe una loro vita socialenormale, relazioni amicali e lavorative soddisfacenti, pro-venienti da diversi contesti socio-culturali’’ (21,22). Solonell’8% dei casi questi uomini fanno uso abituale di alcol o disostanze stupefacenti. Tuttavia cio non spiega i comporta-menti violenti. Il comportamento violento, infatti, non cessaquando cessa l’assunzione di sostanze; anzi essendovimaggior lucidita, il soggetto maltrattante mette in attocondotte violente piu mirate e finalizzate a intimorire ladonna e farle del male (23). Risulta, inoltre, che spesso sonogli stessi uomini a utilizzare come alibi i propri problemi ol’uso di sostanze attribuendo, quindi, all’esterno la causadel loro comportamento (24). In una percentuale moltobassa di casi (pari al 3%) si e in presenza di soggetti affetti dadisturbi della personalita tali da poter, se non giustificare,spiegare almeno in parte questi comportamenti violenti (19).

Un altro esempio di come i fenomeni di violenza non sianonecessariamente associati a disturbi psichiatrici e la violen-za di gruppo, come quella degli ultras e degli hooligan neglistadi.

A livello sociale si e visto come anche i fattori di gruppofavoriscano lo scatenarsi di comportamenti violenti. All’in-terno del gruppo si verifica un indebolimento del controllo edell’inibizione delle condotte negative e si sviluppa unariduzione della responsabilita individuale.

Una larga parte della letteratura parla di insorgenza dicomportamenti legati alla salute mentale per ‘‘contagio’’.Secondo questi studi alcuni comportamenti, tra cui certi tipidi violenza, possono diffondersi in maniera analoga alcontagio delle malattie infettive, un processo che e statodefinito come ‘‘contagio comportamentale’’. In una revi-sione del 1998 (25), la violenza era compresa tra le seicategorie di situazioni comportamentali in cui il contagiopuo avvenire, insieme a: contagio isterico, comportamentodi violazione delle regole, autopunizione deliberata, com-portamento finanziario e comportamento di consumo.

In una ricerca del 2004 (26) e stato utilizzato il modellomatematico di contagio delle malattie infettive di Kermacke McKendrick (27) per valutare l’impatto di alcuni fattori (digruppo e non) sul comportamento violento (per esempio, latendenza ai disordini che si verifica nei grandi gruppi,l’importanza di una rapida eliminazione degli individuiviolenti dalle folle, il ruolo del consumo di alcol e i processidi identificazione sociale). I risultati di questo studioevidenziano i fattori che aumentano la trasmissibilita dicomportamenti violenti. Fra di essi sono citati gli elementiche accrescono l’identificazione sociale, per esempio la

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squadra che indossa gli stessi colori, l’uguale fascia d’eta, icomportamenti collettivi come il canto o il coro. La proba-bilita di trasmissione puo essere aumentata inoltre dall’usodi alcol, che ha proprieta di disinibizione, e da una maggioreeccitazione emotiva. Infine, la durata di tempo nel quale unindividuo violento rimane in una folla (prima del ritiro, daparte della polizia, o di intervento degli astanti) sembre-rebbe influenzare la probabilita di propagazione del com-portamento agli altri membri della folla che sono vulnerabilialla sua trasmissione.

La violenza nei confronti delle persone anziane e altret-tanto diffusa, anche se solitamente non viene denunciata, eha pesanti costi finanziari e umani (28). E difficile ottenereinformazioni accurate sulle reali dimensioni del fenomeno,ma i dati provenienti dal National Elder Abuse IncidenceStudy (NEAIS) (29) ne denunciano un crescente aumento. Letre categorie piu comuni di violenza sugli anziani (30) sonoquelle domestica, istituzionale e autoinflitta. Tra gli autoridi violenza sugli anziani, secondo l’Adult Protective Service,la distribuzione e pari tra i due sessi. La maggior parte dellepersone che attuano la violenza sono piu giovani dellevittime (65% sono al di sotto dei 60 anni). Per quantoriguarda il rapporto con la vittima, i parenti e i coniugi dellevittime sono coloro che piu frequentemente commettonoviolenza domestica e circa il 90% di quanti la attuano hannoun rapporto con le vittime. I fattori di rischio per la violenzanei confronti degli anziani includono: l’abuso di sostanze ol’infermita mentale, la dipendenza (per esempio econo-mica) da parte della persona che infligge violenza, una storiadi violenza (specialmente quella tra i coniugi e un fattore dirischio per violenza in eta piu avanzata) (31). Secondo laWHO (32) sono molti i fattori che contribuiscono all’insor-genza di comportamenti violenti contro gli anziani: lapersonalita, le condizioni sociali e il livello di tensione acui sono sottoposti coloro che si prendono cura di loro. Aquesti si aggiungono l’emarginazione sociale e le condizionidi vita estreme, con ristrettezze economiche e mancanza diprivacy, i fattori e i pregiudizi culturali e sociali.

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Eugenio AgugliaClinica Psichiatrica, Azienda Ospedaliero-Universitaria,

Policlinico ‘‘G. Rodolico’’, CataniaE-mail address: [email protected]