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Villa Regina Mundi - Pianazze - Piacenza 2 settembre 2011 --------------------------- La vita come benedizione Premesse -1-

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Villa Regina Mundi - Pianazze - Piacenza

2 settembre 2011---------------------------

La vita come benedizionePremesse

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+ Diciamo subito che intendiamo l’avverbio “come”, del titolo della relazione, non come comparazione, ma come “avverbio di qualità”, la qualità intrinseca della vita; in altre parole, la vita vista e vissuta, sentita e realizzata come conseguenza di una benedizione, e quindi benedizione essa stessa.+ Quando sentiamo pronunciare i termini benedire / benedizione, l’immagine che subito ci facciamo è quella di una mano aperta che traccia un segno di croce.E, in effetti, alla fine della messa il sacerdote «benedice il popolo» dicendo «Vi benedica Dio onnipotente..» e traccia sull’assemblea un segno di croce con la mano. Altre volte, pensiamo alla benedizione legata all’aspersione con l’acqua benedetta, come quando il sacerdote passa per la benedizione delle case o come quando si benedicono le campane o gli animali o le automobili o altri oggetti.Quindi, alla “benedizione” associamo immediatamente quel gesto, al punto tale da ritenere che è il gesto stesso a costituire la benedizione, talora anche con una sfumatura di scaramanzia e superstizione.Ma, se è vero che la “benedizione” si esprime attraverso un gesto, un’azione, è altrettanto vero che essa è inscindibile dalla parola. È parola che si fa atto, dono, vita. È, dunque, un bene-dire che coincide con il bene-dare, bene-fare.Ora, per riscoprire il significato autentico del termine “benedizione” e delle sue implicazioni, è necessario per noi risalire al mondo e al linguaggio della Bibbia. Infatti, non solo la Bibbia costituisce il terreno d’origine in cui è nato e si è sviluppato il concetto tipico della “benedizione”, ma rimane per tutte le generazioni di credenti un punto di riferimento obbligato per la sua corretta interpretazione. Non è un caso, perciò, che il tema della benedizione apra e chiuda l’intera Scrittura cristiana, dal primo capitolo della Genesi (1,22) fino all’Apocalisse (5,12-13; 7,12).

La terminologia, anzitutto

Alla luce delle due premesse, è necessario ritornare alla terminologia biblica della benedizione. Nel Primo Testamento, anche se non in modo omogeneo1, essa ruota attorno alla radice ebraica brk (da cui il verbo baràk = benedire, e il

1 Per esempio, la radice brk compare 398 volte nell’Antico Testamento, delle quali solo 26 nella letteratura profetica: C.A. KELLER G. WEHMEIER, brk, in E. JENNI C. WESTERMANN, Dizionario teologico dell’Antico Testamento I, Torino 1978, pp. 306-326; J. SCHARBERT, brk, GLAT, I, pp. 1645-1712.

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sostantivo berakàh = benedizione); mentre per quanto riguarda la traduzione greca (la LXX) e il Nuovo Testamento, il verbo viene reso con euloghein, il cui significato ricalca quello del substrato ebraico2. Sull’etimologia del verbo baràk non vi è un accordo tra gli esperti di filologia semitica. Un’ipotesi, però, avanzata da non pochi esegeti fa notare che questo verbo (baràk) ha le stesse consonanti del termine bérek (plurale birkáim), il quale, in senso proprio, significa “il ginocchio - le ginocchia”; in senso figurato-eufemistico, nella Bibbia, passa a designare “gli organi genitali”, che presiedono alla generazione, alla trasmissione della vita.

L’ipotesi sarà discutibile, però un fatto è certo. La “benedizione” di cui parla la sacra Scrittura è sempre legata al tema della “vita” e di quanto è connesso alla vita. La “benedizione” implica, perciò: fecondità, forza vitale, energia benefica, crescita, successo, prosperità, pienezza, felicità, salvezza, pace... Se tale è la “benedizione”, è ovvio che la sua sorgente prima sia Dio medesimo. Canta il salmista: «È in te la sorgente della vita» (Salmo 36,10).Quando Dio benedice persone o altri esseri, li rende partecipi della sua vita, della sua fecondità; trasmette loro la sua energia vivificante, in molti modi, a seconda di questa o di quella circostanza. Pertanto la persona o la cosa benedetta da Dio fa sempre esperienza concreta della forza vitale che da Lui emana.

L’importanza della berakah

Comprendiamo così perché la berakah costituisca «la pietra angolare» della liturgia ebraica3, sia uno dei termini in cui si condensa tutta la ricchezza e l’originalità del pensiero ebraico e, forse, il termine per 2 «Per pochi vocaboli del linguaggio neotestamentario è chiaro, quanto per euloghein ed euloghia, che non attingono il loro contenuto dalla grecità profana, bensì dai termini ebraici di cui sono la traduzione e che avevano consolidato il loro significato nell’Antico Testamento e nel resto della letteratura ebraica» (H.W. BEYER, euloghein, GLNT, II, pp. 1149-1152).

3 MILLGRAMM A.E. definisce la berakah «a Foundation Stone of Jewish Prayer».-3-

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eccellenza in cui si riassume l’antropologia ebraica: il suo modo di porre l’uomo di fronte a Dio e di fronte al mondo. Infatti la berakah definisce un triplice rapporto: con Dio, con il mondo e con i propri simili. Ma più che di un triplice rapporto - staccato - si tratta, in realtà, di un unico rapporto, che si potrebbe definire triangolare.Con la preghiera di benedizione, l’israelita riconosce questi tre poli e la qualità della loro relazione. Pronunciando la formula: «Benedetto sei tu, Signore, per i frutti della terra...» riconosce Dio come origine e « proprietario» delle cose; il mondo come dono da accogliere e da condividere; gli uomini come fratelli con i quali partecipare all’unico banchetto della vita. In tal modo la berakah coglie la vera intenzionalità del mondo e si pone come condizione per la realizzazione del Regno. Senza di essa il mondo resta triste e opaco, chiuso in se stesso e votato al male. Dice il Talmud Babilonese: «chi usa dei beni di questo mondo senza recitare una benedizione, profana una cosa santa» (Ber 34a). Grazie ad essa recupera il suo splendore originario, svelando in ogni cosa la dimora del Senso, cioè il Sacro.

Ora, questo posto centrale della berakah nel pensiero ebraico è espresso con efficacia dalla parabola che ha per personaggi le 22 lettere personificate dell’alfabeto ebraico4

Secondo questo midrash, il mondo è stato creato con la Bet perché l’iniziale di berakah; un modo per dire che il mondo si poggia sulla benedizione: rivela la sua identità e dischiude il suo senso solo per chi la sa pronunciare. Indipendentemente dalla famiglia o dalla sinagoga, «il grande tempio» da cui innalzare la benedizione a Dio è l’arco dell’intera giornata. Secondo la tradizione rabbinica, ogni ebreo credente recita un a benedizione per qualsiasi azione che compie o evento che vive, sia personale (camminare, lavorare, ecc.), sia interpersonale (incontrare un individuo, rivedere un amico ecc.) sia spirituale (pregare, leggere la Bibbia ecc.).

4 cf. Di Sante C., La preghiera di Israele, pp. 37–38 .

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Così, per esempio, svegliandosi dovrebbe dire: «Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, re dell’universo, che restituisci l’anima ai nostri corpi»; prima di mangiare: «Benedetto tu ... che estrai il pane dalla terra»; prima di bere del vino: «Benedetto tu ... che crei il frutto della vite»; guardando le spighe di grano: «Benedetto tu... che crei gli alimenti della terra»; scorgendo monti, colli, valli o fiumi: «Benedetto tu,... che compi l’opera della creazione»; fabbricando una casa o comprando una suppellettile: «Benedetto tu... che ci hai fatto sussistere e ci hai fatto arrivare a questo momento»; utilizzando un profumo: «Benedetto tu... che crei erbe profumate»; incontrando una scimmia, un elefante o una civetta: «Benedetto tu... che rendi le creature variegate»; ascoltando una cattiva notizia: «Benedetto tu... che sei giudice della verità»; rivedendo un amico dopo 30 giorni: «Benedetto tu... che ci hai tenuto in vita e ci hai fatto arrivare fino a questo giorno»; approssimandosi il sabato: «Benedetto tu ... che ci hai dato in dono il sabato»; leggendo la Torah: «Benedetto tu ... che ci santifichi con i tuoi precetti»; ecc.Esiste una benedizione perfino in occasione dei bisogni fisiologici e che è entrata a far parte dello stesso Siddur (Libro della Preghiera): «Benedetto tu... che crei l’uomo con saggezza e lo hai fornito di fori e di cavità. È noto e manifesto davanti al tuo glorioso trono che se si otturasse uno di essi o si aprisse uno di quelli chiusi, nessuna creatura potrebbe sussistere neppure per un’ora. Benedetto tu, medico di ogni essere e che operi meraviglie».

Quando l’apostolo Paolo scriverà ai fratelli della Comunità di Colossi: «E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie [eucharistoùntes] per mezzo di lui a Dio Padre» ( Col 3,17), non farà altro che riferirsi a questa pratica delle benedizioni che ritma la vita dell’ebreo credente.

Per concludere questa parte: di fronte ad ogni cosa, come gli Israeliti di fronte alla rugiada, dobbiamo saper chiedere: «Man hu’?», e come Mosè dobbiamo saper rispondere: «è il pane che il Signore ci ha dato in cibo» (Es 16,14-15). Per chi è capace di berakah tutto è «manna», tutto è miracolo. Secondo Baal Shem «il mondo è pieno di splendore spirituale, pieno di segreti sublimi e meravigliosi. Ma una piccola mano tenuta davanti agli occhi nasconde tutto» (citato da A.J. Heschel). La berakah ha il potere di allontanare questa «piccola mano» e di far cogliere il mondo «pieno di splendore spirituale».Per questo non si benedicono le cose ma si benedice Dio per le sue cose (cf. Preghiera dell’offertorio!); solo così scopriamo il senso ultimo delle cose,

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come segni tangibili dell’attenzione e della sollecitudine del Creatore.Questa percezione delle cose operata dalla berakah e che consiste nel collegarle all’intenzionalità di Dio è espressa, nella bibbia, con la parola timore così descritta da A.J. Heschel:

«Il timore è l’intuizione della dignità di creature comune a tutte le cose e del grande valore che esse hanno per Dio; è il riconoscere che le cose non sono soltanto quello che sono ma implicano anche, se pure alla lontana, qualcosa di assoluto. Il timore è percezione della trascendenza, percezione del fatto che tutto in ogni luogo si riferisce a colui che è al di là delle cose. È un’intuizione che si manifesta meglio negli atteggiamenti che nelle parole »5.

I. La benedizione delle “origini”

Il mondo si poggia sulla “benedizione-vita”: questo aspetto emerge prepotente nel racconto della creazione. Nel testo sacerdotale (Genesi 1,1-2,4a) il verbo baràk compare, infatti, tre volte: la prima in 1,22 riferito agli animali; la seconda in 1,28 riguardo alla coppia umana; la terza in 2,3 per il sabato. Analizziamoli!A) la benedizione degli ANIMALITutti conosciamo la struttura “settenaria” della narrazione. Il quarto giorno (Gen 1,14-19) - giorno centrale nella struttura - è consacrato alla creazione degli astri, trasforma l’alternarsi cosmico del giorno e della notte (Gen 1,3-5) in tempo umano6 e divide in due la creazione del mondo, separando ciò che “non è vivente” dal “vivente benedetto” e dal “sabato”.È, dunque, a partire dal quinto giorno (Gen 1,20-23), quando fanno la

5 HESCHEL A.J. , Dio alla ricerca dell’uomo, p. 93.

6 La funzione degli astri in Genesi 1,14-15 è così descritta: «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni e siano fonti di luce nel firmamento del cielo per illuminare la terra». Il sole e la luna (non nominati espressamente! per non ritenerli “divinità”) diventano così punti di riferimento per il tempo nella sua dimensione umana, sociale, e soprattutto religiosa, con la determinazione del tempo liturgico e delle sue feste.

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comparsa gli “esseri viventi che sono nel mare e gli uccelli”7 , che appare anche la parola divina di benedizione.In Gen 1,22 leggiamo: «Dio li benedisse: Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra».Come si noterà facilmente, la benedizione riguarda la fecondità e l’abbondanza. - Gli esseri viventi (pesci e uccelli) devono «portare frutto» (è questo il senso dell’ebraico parah), devono «moltiplicarsi» (rabah) e «devono riempire le acque (male’)»: la vita ricevuta si manifesta in pienezza nella ricchezza della specie e nell’abbondanza della generazione. - Il mare compete ai pesci, senza concorrenza di altri animali, e devono crescere in esso fino a «ricolmarlo/riempirlo». Agli «uccelli», invece, non si dice di «riempire il cielo», ma di «moltiplicarsi sulla terra». Essi volano verso il cielo ma sulla terra vivono, si posano, depongono le uova, appunto si moltiplicano.Per quale motivo? Che cosa riempie «il cielo?» Cf. Il «quarto giorno!» E non «riempiono» neppure la terra. Perché?Perché questa terra, che genera altri animali (Genesi 1,24), deve essere anch’essa riempita, ma dagli uomini, proprio come manifestazione della particolare benedizione divina.

B) la benedizione dell’ESSERE UMANONel sesto giorno, l’ultimo dell’operare di Dio prima del riposo, vengono creati i viventi propriamente terrestri. Prima gli animali (bestiame, rettili, animali selvatici) e poi l’Essere Umano (l’Adam) .I primi sono “prodotti dalla terra”8 (Gen 1,26), il secondo invece è “fatto” e “creato” da Dio (Gen 1,26.27), perché ha un ruolo specifico e un destino

7 Va qui ricordato che anche il verbo br’, usato per il titolo nel v. 1, viene poi usato solo per il quinto giorno (v. 21) e per il sesto (v. 27, tre volte), per essere infine ripreso nella conclusione (2,3.4a).

8 Nel v. 24 sembra soggiacere al testo biblico la visione mitologica della terra madre dei viventi, che genera gli animali. Questo può fare da sottofondo all’espressione ebraica lì usata, ma il senso è che gli animali appartengono alla terra e trovano in essa la loro possibilità di esistenza. Cf. al proposito C. WESTERMANN, Genesis, BK 1/1, Neukirchen-Vluyn 1974, p. 196.

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unico.E tuttavia gli uni e l’altro condividono lo stesso giorno della creazione (= il sesto: 7-1): l’essere umano, ultima opera di Dio e culmine di tutta l’attività creatrice divina, non è fatto /creato in un giorno a lui consacrato, ma insieme con le bestie, quasi a condividerne, almeno in parte, la natura. Somiglianza inquietante questa, che rischia di attribuire all’animale il valore dell’uomo, e rischia, ancor più drammaticamente, di interpretare l’uomo nei termini di una pura “animalità”. Ma la natura dell’Uomo è quella di essere immagine di Dio: Genesi 1,26-28.Riportiamo il testo in una nostra versione: E Dio disse: «Facciamo l’uomo9 come nostra immagine, secondo la nostra somiglianza10, perché domini sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l’uomo come sua immagine, come immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Quindi li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». La benedizione-fecondità dell’ «’Adam», in Genesi 1,28, ricalca (nella prima parte) quella di Gen 1,22: pur nella identità dell’espressione vi sono, tuttavia, tre essenziali differenze.

1) Innanzitutto, la benedizione è introdotta, letteralmente, in questo modo: «Benedisse loro ‘Elohim e disse loro ‘Elohim», cui seguono degli

9 Traduciamo così, con un unico termine italiano, di per se ambivalente, l’ebraico ‘adam, pur consapevoli che in questa sede il termine ha una portata più precisa (cf. il v. 27): “essere umano” (human person/human being).

010 La traduzione CEI 1974 ha piuttosto “a nostra immagine, a nostra somiglianza”; il testo ebraico può essere inteso così: “come/in nostra immagine” (betzalmenû) e “secondo/come nostra somiglianza” (kidmotenû); le due preposizioni, be-e ke, hanno qui un significato analogo. Il termine “immagine” indica la rappresentazione di una persona umana o di un idolo; “somiglianza”, invece, rinvia a un modello, a un disegno. Il testo di Gen 5,3 mostra molto bene come i due termini siano interscambiabili e molto probabilmente usati come sinonimi; l’esegesi patristica tradizionale, che distingueva le qualità naturali da quelle sovrannaturali, non è fondata perciò nel testo; cf. in C. WESTERMANN, Genesis 1-11, Minneapolis 1984, 145-146 (or. tedesco Neukirchen-Vluyn 1974).

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imperativi. Se fino a questo momento Dio ha dovuto parlare senza interlocutore, da questo momento in poi ha «qualcuno» che lo «ascolta». L’Autore lo sottolinea proprio mediante l’espressione «e (Dio) disse loro»: espressione che distingue l’Uomo (maschio e femmina) da tutti gli altri esseri viventi, per i quali, pure, c’è la benedizione. La benedizione è associata alla parola efficace di Dio, per cui gli imperativi che seguono non sono un comando, ma sono la conseguenza; esprimono cioè l’efficacia della benedizione di Dio come fecondità (berakah).La benedizione divina è il potere di dare e di propagare la vita. Se Gen 1,28 contiene una benedizione, significa che Dio propone alla prima coppia una partecipazione al potere divino di propagare la vita.

2) La seconda differenza: gli animali sono presi globalmente nella molteplicità delle loro specie (10 volte, nel testo): «ciascuno secondo la sua specie (leminehem)» (Gn 1,11-13.21.24-25). L’‘Adam, invece, è unico, e il suo moltiplicarsi sulla terra è all’interno di tale unicità specifica, unicità che lo fa simile all’«unico Creatore», a sua immagine e somiglianza.L’espandersi della vita diventa segno e realizzazione della benedizione originaria di Dio, che invade in tal modo la storia umana passando di generazione in generazione (le famose tôladôt = Generazioni). La fecondità è dono divino che, mentre realizza la benedizione, manifesta la fedeltà di Dio alla creazione e, quindi, all’alleanza stipulata con gli uomini (cf. Gen 17,2.6-7.20; 28,3; 48,3-4...).

3) La terza differenza: al «maschio» e alla «femmina» è data, insieme alla benedizione, la missione di «riempire la terra, soggiogarla» e di «dominare sui pesci...» (Gen 1,28). La terra, riempita dagli uomini, è il dominio a essi affidato, in cui possono esercitare il loro potere. Non si tratta però di un potere assoluto, né di un dominio di dimensioni cosmiche. La sovranità dell’uomo sul mondo è un compito ricevuto da un Altro a cui anche l’uomo è sottomesso. E se la terra deve essere riempita e soggiogata, il cielo resta il luogo del dominio

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incontrastato di Dio,11 ed è solo il Signore a dominare veramente sul cosmo e su tutti i suoi elementi (cf. Ger 14,22; Sal 78,23; 105,31.34; 107,25; Gb 36,26-32; 37,1-12; 38,4-39,2; ecc.). Quasi a sintetizzare il senso della benedizione originaria, il Salmo 115,14-16 dice letteralmente:«Farà crescere (yasaf) il Signore, voi e i vostri figli.Siate benedetti voi (berûkîm ‘attem) dal Signore che ha fatto cielo e terra.I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo».

Due interpretazioni ebraiche di questo versetto sono per noi particolarmente illuminanti. Commenta Qimchi: «I figli degli uomini devono sapere e riconoscere che Egli è il sovrano di tutto, ed essi i suoi ministri sulla terra...». E ancora: «Il Rabbi di Alexander disse: Ciò che sta scritto: I cieli sono cieli del Signore, e la terra l’ha data ai figli dell’uomo significa: i cieli sono già cieli, ... e la terra l’ha data ai figli dell’uomo perché ne facciano dei cieli». Il dominio dell’uomo sul mondo esercitato in obbedienza, nella consapevolezza e accoglienza della benedizione divina, trasforma la terra, regno dell’uomo, in regno di Dio12.

Una parentesi...

Alle parole della benedizione originaria sull’uomo - notare che siamo sempre nel sesto giorno! - fa seguito un’ulteriore parola di Dio, (la decima parola di ‘Elohim) riguardante il dono del nutrimento fatto all’essere umano (v. 29) e poi anche agli animali (v. 30): ogni erba e ogni albero da

11 In Gen 1,16-18 si dice che il compito degli astri è di «governare» (mshl), il giorno e la notte. La radice verbale usata è quella che solitamente indica l’atto di dominio esercitato dai sovrani. Sono gli astri i «dominatori»e i «governanti» del tempo, creati e chiamati da Dio (cf. Is 40,26), che diventano quasi il simbolo cosmico del dominio divino sulla storia.

212 Alleluia: interpretazioni ebraiche dell’Hallel di Pasqua (Salmi 113-118), a cura di U. NERI, Roma 1981, pp. 126.128.

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frutto sono donati all’uomo, e ogni erba verde agli animali perché siano loro cibo. Il nutrimento, nel progetto divino originario, è vegetale ed esclude la lotta tra i viventi per la loro sopravvivenza. Né uomo né animali hanno bisogno di uccidere per nutrirsi e vivere; nel mondo di Gen 1 non c’è traccia di violenza, né intraspecifica né interspecifica.Ciò fa capire il tipo di dominio che l’uomo è chiamato ad esercitare sulla terra nei confronti degli altri esseri viventi, così da realizzare veramente l’immagine di Dio: si tratta di un dominio nella mitezza, senza violenza alcuna.E’ solo all’interno di queste leggi (e non sopprimendole dall’esterno con un’altra violenza) che possiamo sperimentare l’avvento di un’altra legge, quella del Regno.La nostra condizione, allora, è quella di una situazione di attesa del vero Regno13.

«La decima parola perfeziona l’insieme delle parole. Essa salda in qualche modo la relazione tra l’uomo e l’animale. L’uomo domina l’animale, ma ambedue sono sottomessi ad una dieta vegetariana. Che laconicità per dire finalmente che l’uomo non ucciderà! Questa istituzione alimentare si estende a tutto il creato. Non sono state ancora pronunciate interdizioni. In questo testo, posto in apertura del libro, il dono precede l’interdetto. Dio dona i frutti della terra. Questa dimensione del testo è stata spesso occultata. Pertanto, la decima parola creatrice concretizza il tipo di potere esercitato dall’uomo sul creato: è un potere di tenerezza e di pace. Il regime alimentare è una sorta di indicazione del regime politico. L’uomo deve essere un maestro di tenerezza per il creato. Numerose interpretazioni di questo testo vi hanno letto il potere dell’uomo, senza vedervi la tenerezza. Questa tenerezza è forse il dono più intimo, più segreto dell’atto creatore» (P. Beauchamp).

«La mitezza dell’uomo nei confronti dell’animale, mitezza richiesta dalla sua dieta alimentare, è il segno dell’assenza di guerra tra gli uomini: questo è il punto principale che costituisce l’uomo a immagine di Dio» (IDEM).

313Questa parte è ispirata a BEAUCHAMP P., Leggere la Sacra Scrittura oggi, Editrice Massimo, Milano 1990, pp. 69-77 e a WÉNIN, Non di solo pane, pp. 67-75.

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Tale sarebbe il sogno di Dio al quale rimanda Isaia 11: «Il lupo abiterà insieme all’agnello e la pantera giacerà insieme al capretto... Il leone come il bue si nutrirà di paglia, il lattante si divertirà sulla buca dell’aspide...» (v. 6-8). È l’alba della “NUOVA” creazione!Cristo, il nuovo ‘Adam, non ucciderà gli animali: non vendicherà Abele, ma prenderà il posto di Abele. Prenderà il posto dell’agnello. Il fatto che Gesù, nell’Eucaristia, abbia lasciato come cibo ai suoi non la vittima cruenta dell’antichità, ma il nutrimento vegetale del pane e del vino, è forse un modo con cui la liturgia cristiana celebra il dono escatologico della «comunione» amorosa tra gli uomini, dono che si congiunge con la promessa delle origini.

Ma c’è un altro aspetto da rilevare a proposito del nutrimento, e precisamente quello della fragilità della vita umana (e dei viventi in genere). Il fatto che l’uomo abbia bisogno di pane quotidianamente è segno che non è Dio; la fragilità e la precarietà del suo esistere sono state provvidenzialmente volute dal Creatore, perché l’uomo capisca che, in lui, la vita c’è solo perché è stata donata. Il fatto di mangiare ci dice che non possiamo «originare» la nostra vita, che non possiamo nutrire la nostra vita con noi stessi (ma con qualcosa che assimiliamo dall’esterno) e che la nostra vita non si esaurisce in noi stessi. Tutto ciò è un modo radicale per dire la «creaturalità» dell’uomo, la sua dipendenza e la sua non-autonomia. La sua vita continua perché Dio torna a dargli da mangiare. In questo ordine di idee, acquista rilievo l’atto liturgico della «benedizione della mensa»: con essa «si fa memoria» che tutto discende da Dio, dall’alto; con essa si ringrazia e si loda il Datore della vita.Il pasto familiare rappresenta, per l’ebraismo, l’atto religioso per eccellenza. Per questo, come e più di ogni altro gesto quotidiano, viene accompagnato da una serie di benedizioni particolari, che vanno sotto il nome di birkat ha-mazon = benedizione sugli alimenti. La prima di esse suona così:

«Benedetto sii tu, Signore, nostro Dio, re dell’universo, che nutri il mondo intero nella tua bontà con favore, con grazia e con misericordia, che dai il cibo ad ogni creatura perché la tua grazia è

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eterna. Per la tua grande bontà, il cibo non ci è mai mancato e mai ci mancherà. Per il tuo grande nome tu nutri e sostieni ogni cosa, concedi i tuoi benefici a tutti e prepari il cibo a tutte le tue creature che hai create. Benedetto sii tu, Signore, che nutri tutti gli esseri14».

Quando l’uomo (l’Israelita) ha tra le mani il pane, egli deve ricordarsi di Colui che dona, di Colui che è l’Origine nascosta della vita. Riappropriarsi della creazione significa saper rendere grazie per la vita presente: tale è il senso della benedizione dell’uomo nei confronti di Dio.Non solo. Nutrendosi, l’uomo - ogni giorno - ritorna a vivere. Il gesto quotidiano del mangiare, nella sua costante ripetizione, pone davanti agli occhi il mistero di una vita che si rinnova continuamente. In maniera molto semplice, del tutto familiare, si ripropone il mistero globale della creazione, chiamata a morire e a rivivere.C) la benedizione del SABATOLa benedizione e la consacrazione del sabato suggella l’opera creatrice di Dio. Per la terza volta Dio benedice. Non una creatura, ma - questa volta - è «un giorno» ad essere «benedetto»: il giorno del compimento della creazione tutta. Essa è terminata, e benedicendo il sabato, Dio benedice la sua perfezione.Diamo la versione letterale di Genesi 2,1-3 (diversamente dalla CEI):

«Vennero così terminati il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Nel settimo giorno, Dio portò a compimento la sua opera che aveva fatto e si riposò nel settimo giorno da ogni sua opera che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso si riposò da ogni sua opera che aveva creato in vista di fare».

Il numero «sette», infatti, è molto comune nella letteratura dell’Antico Vicino Oriente, data la sua valenza simbolica, se non altro per la radice semitica stessa, che indica «pienezza» (la radice shaba’ significa infatti «essere pieno»). Ciò che importa rilevare è che il «settimo giorno» costituisce il fine di tutta la creazione. L’intera creazione è fatta da Dio in funzione del sabato: i sei giorni lavorativi trovano il loro senso nel riposo e

414 DI SANTE C., La preghiera di Israele, Marietti, Torino 1985, pp. 143-151.-13-

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nel culto del sabato. E questo non è solo per Israele, ma per ogni uomo.Per il sabato vengono impiegati due verbi significativi:

1) Il sabato è benedetto (barûk): come si è detto sopra, il settimo giorno è ricco di «fecondità», possiede, cioè, una energia di vita che dipende solo dal Creatore. Scrive Nicola Negretti: «Mentre nei sei giorni l’uomo si costruisce faticosamente una fecondità mediante il lavoro, nel settimo giorno questa gli viene donata come un bene al quale deve accedere. In un certo senso, la fecondità del tempo sta concentrata nel settimo giorno, per poi distendersi (attraverso l’uomo che la riceve) sul resto del tempo»15.Nel sabato, l’uomo rinuncia alla propria forza operativa per celebrare colui che è l’unico artefice di tutto. Solo così il lavoro dell’uomo nel mondo trova la sua verità: non autonomia idolatrica, ma partecipazione all’opera di Dio. Entrando nel sabato, l’uomo entra nel compimento e nella definitiva accoglienza della benedizione che è fecondità e dono di vita.

2) Il sabato è consacrato (qadash): La radice ebraica qdsh indica «separazione»; alla luce di ciò, è comprensibile il passo di Gen 2,3: Dio santificò, ossia «separò» il settimo giorno dagli altri giorni, perché rimanesse strappato all’ordinarietà dell’operare umano, per divenire un giorno di Dio e per Dio.Il sabato è il giorno di “riposo” di Dio. Ora, “il riposo di Dio” non è “ozio”, ma è attività nuova e completamento del lavoro precedente, una attività che consiste proprio nella benedizione e santificazione del settimo giorno.«Il riposo di Dio è una cifra simbolica per dire che tutto quel che Dio ha fatto è perfettamente compiuto. Ed è un riposo fecondo, perché la benedizione divina rende fecondo il settimo giorno consacrandolo a sé. C’è dunque una fecondità divina che scaturisce dalla sua attività lavorativa e una fecondità che è legata alla sua benedizione» (A. Bonora).

Nasce la domanda: l’uomo può beneficiare di questa «nuova fecondità»?

515 NEGRETTI N., Il settimo giorno, pp. 169-170.-14-

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La modalità concreta con cui l’uomo beneficia della fecondità di Dio immessa nel tempo, è espressa da un testo dell’Esodo, quando si parla della «seconda teofania» sul Sinai. Il testo è Es 24,12-18: In questa «teofania» della narrazione Sacerdotale, il settimo giorno è il giorno del colloquio tra Dio e Mosè, è il giorno della manifestazione della GLORIA di YHWH (kebod YHWH), dopo i sei giorni di velamento nella nube.È proprio nel giorno di «sabato», nel settimo giorno che l’Uomo entra in colloquio con Dio e da Dio riceve quella fecondità che alimenta gli altri sei giorni.C’è tuttavia una seconda modalità concreta in cui l’Uomo può beneficiare di questa “benedizione”. La desumiamo da alcuni versetti dei capitoli 39-40 del libro dell’esodo, ove si parla del completamento della costruzione del “santuario” nel deserto (Es 39,32.43; 40,16s.33).Come al termine della costruzione dell’universo vi fu il riposo divino nel «settimo giorno», così al termine della costruzione della tenda vi è la discesa della Gloria di Dio. Il termine della costruzione, il «riposo» coincide con la «dimora» della nube e della Gloria nel santuario. Si può dedurre che la pienezza del «settimo giorno» è l’abitazione (shekinah) di Dio in mezzo al suo popolo.

In tal modo, il racconto di creazione di Gen 1 si conclude. Dopo ogni sua opera, Dio aveva visto che era «cosa buona» (vv. 4.10.12.18.21.25) e, in ultimo, che tutto era «molto buono» (v. 31). A questa parola di giudizio e apprezzamento del creato deve ora rispondere la parola dell’uomo che, riconoscendo buone le cose, loda il Dio buono che le ha fatte. La prima pagina della Scrittura si pone perciò come fondamento del giusto rapporto dell’uomo con la vita e la sua fonte. La vita, benedetta e buona, è promessa definitiva di cui Dio si fa garante da sempre, fin «dal principio», e per sempre.

Una particolarità

Genesi 2,3, diversamente dalla CEI, deve essere letto così: «Dio benedisse -15-

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il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso si riposò da ogni sua opera che aveva creato per farla ( o in vista di farla)».Cosa significa? Il sabato di Israele è «memoriale della creazione» e della sua «cessazione della creazione». Affermare che Dio «si riposa dalla creazione» o «cessa di creare» è un modo per dire che egli ha bisogno dell’uomo per portare a termine il suo disegno di amore; che egli associa a sé l’uomo per realizzare il suo progetto creatore che consiste nel volere il bene dell’uomo. Da alcuni maestri di Israele vengono intese letteralmente in questo modo: Dio si riposa dalle «opere» della creazione per «consegnarle» ad ‘Adam perché fosse lui a «farle». Dio finisce la sua «parte» per lasciare all’uomo la «sua». La «parte» che Dio chiede all’uomo non è, in primo luogo, di cambiare il mondo, ma di accoglierlo e ridonarlo con la sua stessa intenzionalità di amore e di dono.Quindi l’espressione si potrebbe parafrasare nel seguente modo: «In esso (nel settimo giorno) si riposò da tutta la sua opera che Egli stesso aveva creata affinché poi l’uomo la continuasse». Si comprende questo anche dal compito che Dio dà all’uomo quando lo crea e gli dice di dominare il mondo, sottometterlo, ecc. (cf. Gen 1,26-28).L’intenzione di Dio è che l’uomo sia, in sua vece, creatore. «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (cf. Gen 1,26). Ma, in quale modo? Nell’agire: il comportamento dell’uomo deve imitare l’agire divino.Celebrare lo shabbat non è solo contemplare l’amore di Dio, ma sentirsi appellati ad amare come Dio. Il sabato celebra la vocazione di Israele come partner di Dio nella creazione del mondo che è creazione dell’amore e per l’amore.

Un’ultima osservazione può essere utile per cogliere ulteriormente il valore del sabato. Al termine del testo sul sabato non ritorna la formula che ha accompagnato tutti gli altri giorni: «E fu sera e fu mattina»: il settimo giorno non ha un termine, non ha una “sera”, ma è proiettato sul

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futuro.

«Riposarsi con Dio il settimo giorno - scrive Luca Mazzinghi - significa comprendere che il senso della creazione sta proprio qui, nel servizio e nell’incontro con Dio che costituiscono il vero compimento della creazione. Entrare nel settimo giorno significa perciò entrare nel tempo di Dio. Nel primo giorno Dio crea il tempo; nel settimo crea il fine (attenzione: non «la» fine!) del tempo, la comunione con lui».

Il sabato manifesta così una valenza escatologica, orienta verso il compimento di un rapporto di comunione e di alleanza con il Signore, cui tende la storia di Israele e dell’umanità intera. Per il cristiano ciò si realizza a partire dall’evento di Gesù Cristo che, «Signore del sabato» (Mc 2,28; Mt 12,8; Lc 6,5), lo porta a compimento.Il sabato «tesoro» e « sposa» di Israele

Concludiamo queste riflessioni sul «sabato» con le autorevoli frasi di A.J. Heschel (filosofo ebreo):

«La legge del sabato cerca di convogliare corpo e spirito nella dimensione del sacro; essa cerca di insegnarci che l’uomo è in relazione non soltanto con la natura ma anche con il creatore della natura. Che cosa è il sabato? È lo spirito sotto forma di tempo. Con il nostro corpo noi apparteniamo allo spazio, ma il nostro spirito, la nostra anima si leva verso l’eternità e aspira al sacro. (...) Il sabato è un microcosmo dello spirito, come se riunisse in sé tutti gli elementi del macrocosmo dello spirito»16.È così che la temporalità dell’uomo si dilata su Dio; è così che la storia tende verso Dio, verso il compimento di questa «presenza», anticipata nel «settimo giorno».

Il tempo è «santo» perché sottratto alla totalità e destinato ad essere la porta per la quale il Santo entra nella storia, l’Infinito si consegna al finito e l’Eterno si incarna nel mondano.

616HESCHEL A. J., Il sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Rusconi, Milano 1972, pp. 112ss.

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Memoriale dell’evento fondante - della Parola di Dio e della responsabilità umana -, il sabato custodisce, come tutti gli eventi fondanti, il segreto della riuscita della creazione e del mondo. Per questo esso è il «tesoro di Israele», la sua cosa più cara.Narra un midrash che «quando stava per consegnare la Torah ad Israele, Dio parlò così: “Figli miei! Se voi accetterete la Torah e osserverete le mie mitzwoth, vi darò per tutta l’eternità una cosa estremamente preziosa che è in mio possesso”. “Che cosa è mai”, domandò Israele, “questa cosa preziosa che ci darai se obbediremo alla tua Torah?”. “Vi darò il mondo futuro”». “Mostraci in questo mondo un esempio del mondo futuro”. “Il sabato è un esempio del mondo futuro”» (Heschel, Il Sabato, p. 109).Il sabato è la cosa più «preziosa» che Dio possiede e che affida ad Israele, ed in esso si riflette il «mondo futuro», cioè il mondo come voluto e creato da Dio.

Ma per esprimere l’importanza del sabato, più che alla metafora impersonale del «tesoro», la tradizione ebraica ricorre a quella relazionale e nuziale dell’amore (in ebraico shabbat è femminile): «Disse Rabbi Simeone ben Jochaj: quando fu terminata l’opera della creazione, il Settimo giorno (il Sabato) si lamentò: “Signore dell’universo, tutto quello che hai creato è fatto a coppia e a ogni giorno della settimana tu hai concesso un compagno. Soltanto io sono rimasto solo”. E Dio gli rispose: “La comunità di Israele sarà il tuo compagno”» (Bereshit Rabba 11,8). Il sabato è la «sposa» della quale Israele è «lo sposo» e tra i due si intreccia una storia d’amore, la stessa di quella dei due amanti del Cantico dei Cantici. Questa spiritualità, dai tratti così simbolici e mistici, ha trovato la sua espressione più alta nel celebre inno Leka dodi liqra’at kalah [Vieni mio caro, incontro alla sposa] di Shelomo ben Moshe Alqabetz (1505-1576) che la maggior parte delle comunità ebraiche del mondo cantano ogni venerdì sera per dare il benvenuto allo shabbat:

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Vieni, mio caro, incontro alla sposa volgiamoci a ricevere il Sabato... Incontro al Sabato venite, andiamo,esso è fonte di benedizione,da principio, da tempo antico consacrato,conclusione dell’opera della creazione, ma al primo posto nel pensiero divino....

Vieni in pace, o corona dello sposo, ed in gioia, in canti e allegria,in mezzo ai fedeli del tuo popolo prediletto, vieni o sposa, vieni o sposa.In mezzo ai fedeli del tuo popolo prediletto, vieni o sposa, Sabato regina.

Due sono i personaggi del poema, Israele e il Sabato, che personificano gli amanti del Cantico dei Cantici: Israele lo sposo, il Sabato la sposa. + In un primo momento il poeta si rivolge allo sposo perché vada incontro alla sposa: « Incontro al Sabato, venite, andiamo »; lo fa in prima persona plurale perché lui stesso, in quanto parte e voce del popolo, si sente «sposo» dello sbabbat. + In un secondo momento, alla fine, si rivolge al Sabato, «corona dello sposo», perché sia lei a venire e a rallegrarsi: «vieni in pace o corona dello sposo/ed in gioia, in canti ed allegria,/in mezzo ai fedeli del tuo popolo prediletto,/vieni o sposa, vieni o sposa». Il poema, come il Cantico dei Cantici, è un invito allo sposo e alla sposa ad entrare in comunicazione, ad essere in dialogo, perché è da questo incontro che nasce lo shalôm, la pace17.

717 Commentando questo midrash A.J. Heschel scrive: «Nonostante la sua maestà, il sabato non è autosufficiente, la sua realtà spirituale reclama la partecipazione dell’uomo. Un ardente desiderio pervade il mondo: i sei giorni hanno bisogno dello spazio, il settimo ha bisogno dell’uomo. Non è bene che lo spirito sia lasciato solo; per questo Israele è stato destinato a essere il compagno del Sabato». La luminosità del tempo, sottesa al divenire umano, si rivela solo a coloro che la ricercano assecondandola. Il sabato, tempo quantitativo, diviene sbabbat, tempo qualitativo, solo per chi sa farsene

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II. La benedizione in Abramo

Il capitolo 12 della Genesi comincia con la parola del Signore rivolta ad Abramo. Come fanno notare i commentatori, qui si comincia per così dire da zero, cioè ci si riporta al primo capitolo della Genesi: “Dio disse: Sia la luce” (Gen 1,3). Dagli inizi «assoluti» (cf. Gn 1-11) si passa agli inizi «relativi».Un commento ebraico tende a porre in relazione la figura di Abramo (e il ruolo in essa giocato dalla benedizione) con il fatto che egli si presenti come il luogo di origine di una nuova creazione:

«Viene notato che la parola benedizione/benedire ritorna per Abramo per cinque volte, come per cinque volte è usata la parola luce (‘or) per la creazione del primo giorno. Con la venuta di Abramo si ha la creazione di un secondo mondo, un mondo di benedizione, data agli uomini per mezzo di un uomo»18.

Siamo dunque in un’iniziativa divina primordiale; la parola del Signore è il principio e il fondamento di tutta la storia di Abramo: non Abramo ha cercato Dio, ma Dio ha cercato Abramo. È la parola di Dio che entra in dialogo con Abramo e con lui crea una storia di benedizione e di salvezza.La parola del Signore è espressa mediante un imperativo (lek-leka), seguito da varie proposizioni che indicano le azioni future che verranno compiute da Lui stesso.L’imperativo «vattene» [meglio: parti], seguito da un rafforzativo enfatico (il pronome), potrebbe essere reso così: «va’ per te/ va’ verso di te/ va’ in te». . Questa espressione ha ispirato il commento di Rashi e di molti altri dopo di lui: «Va’ per il tuo bene e per la tua felicità». È come se il Signore dicesse: «Per il tuo bene (va’ per te) lasciati alle spalle il tuo passato; entra in te stesso (va’ in te), nell’intimo della tua coscienza, verso la

«compagno». Sposa del mondo, essa (in ebraico sbabbat è femminile) dischiude i suoi tesori di amore e di bellezza solo a chi sa accoglierla con il candore e la passione di uno sposo.

818 Citato da Segre, Abramo nostro padre, Roma 1982, p. 93.-20-

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scoperta del mio progetto di vita su di te (va’ verso di te), e perciò della tua vocazione più autentica»19.

Il «futuro» aperto da Dio è segnato dalla ripetizione del verbo benedire, che si allarga sempre più fino a inglobare “tutte le famiglie della terra”. La storia di Abramo e della sua discendenza ha una dimensione universale e raggiunge il suo fine solo quando includerà tutte le stirpi della terra (‘adamah). La missione di Abramo non è limitata alla creazione di Israele, è come una ri-creazione di tutta l’umanità.Infatti, come abbiamo detto, per cinque volte ritorna la radice brk in Gen 12,2-3 e ciò è in evidente contrasto con il tema della «maledizione»: «Benedirò coloro che ti benedicono, e colui che ti maledice maledirò». Ora, precisamente altrettante volte compare, nella storia delle origini, la radice ‘arar, «maledire»; ed essa concerne il rapporto tra l’uomo e gli animali (il «serpente»: Gen 3,14); tra l’uomo e la terra, maledetta a causa sua (Gen 3,17; 5,29); tra l’uomo e l’uomo (la maledizione di Caino: Gen 4,11; e di Cam: Gen 9,25). Sono questi ambiti fondamentali dell’esistenza umana, soggetta alla maledizione, che vengono ad essere riscattati dalla storia della benedizione che inizia con Abramo.«Le parole: “In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra possono apparire un po’ oscure. Alcuni vi danno una interpretazione più semplice, intendendo che le famiglie della terra un giorno si benediranno l’un l’altra dicendosi a vicenda: benedetta sei tu come Abramo; cioè sarà un modo di benedirsi, e Abramo sarà felice che se lo diranno.Però già nell’Antico Testamento il Siracide (44,21), poi la LXX, e infine il Nuovo Testamento le hanno interpretate in modo più forte, pregnante: in te tutti saranno benedetti, cioè tu sarai causa di benedizione per tutti. Quindi c’è la visuale di un grande popolo, di una unità di tutti gli uomini che si farà in Abramo» (C. M. Martini, Abramo, p. 55).Se, dunque, la benedizione è un fatto eminentemente singolare, la prospettiva che essa apre ha delle dimensioni globali, cosmiche, riguarda tutte le nazioni, anzi addirittura ogni «famiglia», ogni parentado della

919 CAPPELLETTO, Genesi 12-50, EMI, Padova 2001, p. 31.-21-

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terra. Ed è questa una prospettiva, evidentemente, ancora ben lungi dall’essere adempiuta.

Il tempo del compimento

La benedizione in Abramo annuncia la definitiva benedizione degli ebrei e dei pagani da parte di Dio in Cristo. Il Padre, infatti, dopo che ha risuscitato Gesù, lo può inviare di nuovo al mondo «benedicente», afferma Pietro in Atti 3, 26.Nei giorni incandescenti vissuti dalla comunità di Gerusalemme dopo la Pentecoste, Pietro risana uno storpio, sotto lo sguardo di tutto il popolo che saliva al tempio (Atti 3, 1-10). Alla meraviglia stupefatta della gente, Pietro risponde attribuendo il fatto prodigioso alla potenza di Gesù, ucciso dal popolo e dalle autorità giudaiche, ma risuscitato dal Dio dei Padri (Atti 3, 11-26). Fra l’altro affermava Pietro, in quel giorno:

Mosè [...] disse: «Il Signore vostro Dio vi farà sorgere un profeta come me in mezzo ai vostri fratelli; voi lo ascolterete in tutto quello che egli vi dirà. E chiunque non ascolterà quel profeta, sarà estirpato di mezzo al popolo». Tutti i profeti, a cominciare da Samuele e da quanti parlarono in seguito, annunziarono questi giorni. Voi siete i figli dei profeti e dell’alleanza che Dio stabilì con i vostri padri, quando disse ad Abramo: «Nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra». Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione (eulogountas hymas) e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità» (At 3,22-26).

In che cosa consiste questa benedizione che, attraverso la “discendenza” di Abramo, viene donata alle nazioni della terra? Per gli Atti degli Apostoli, il Risorto continua ad agire nella storia attraverso la predicazione apostolica che chiama alla conversione; in forza di essa ognuno si appropria della benedizione di Abramo, cioè della parola che salva. La benedizione di cui Gesù è portatore si colloca perciò nella sfera dell’annuncio e interpreta l’atteso compimento della promessa fatta ad Abramo nei termini della realizzazione della predicazione universale della

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Page 23: Villa Regina Mundi - Pianazze - Piacenza · Web viewVilla Regina Mundi - Pianazze - Piacenza 2 settembre 2011 La vita come benedizione Premesse + Diciamo subito che intendiamo l’avverbio

salvezza. In essa risuona il Nome di Gesù, che alla luce della risurrezione rivela di essere il Nome che salva, il «Nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (Atti 4,12).

Dal canto suo, Paolo, con profonda scienza rabbinica, scriverà nella Lettera ai Galati: «Fratelli, ecco, vi parlo da uomo: un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa. Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: «E ai tuoi discendenti», come se si trattasse di molti, ma: E alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo»(Gal 3,15-16).Sulla base dell’assunzione che la vera discendenza di Abramo è Cristo stesso, noi confessiamo che in Cristo è stata compiuta la promessa universale di Dio per tutte le genti, rivolta un giorno ad Abramo.

Non solo Gesù è il compimento della benedizione abramatica, ma è il perenne “benedicente”.Nella narrazione lucana, l’ascensione è descritta così: «alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato verso il cielo» (Lc 24,50).

Alzare le mani per benedire è espressione tecnica che ci rimanda all’azione del sommo sacerdote che trasmette al popolo la benedizione di Dio. La scena di Gesù benedicente ci rimanda all’inizio del Vangelo di Luca. Esso, infatti, si apriva su una cerimonia liturgica nel tempio del Signore, a Gerusalemme. L’officiante era Zaccaria, un rappresentante del sacerdozio levitico; ma, al termine della sua funzione religiosa non aveva potuto benedire il popolo a causa del suo «mutismo». Dunque, non aveva potuto far risuonare su Israele il «Nome che salva» (cf. Numeri 6, 23-27). «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:benedica te il Signore e custodisca teillumini il Signore il suo volto verso di te e abbia pietà di te

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sollevi il Signore il suo volto verso di te e ponga su di te shalôm”».

La benedizione che il popolo attendeva invano da Zaccaria diventa il segno di come il culto veterotestamentario non è più capace di trasmettere i benefici divini. Si apre l’interrogativo: quando e come la benedizione divina tornerà a riversarsi sul popolo di Dio?Nel momento finale, Gesù dona la benedizione che Zaccaria non aveva saputo donare: la benedizione trova finalmente il suo compimento in questo ultimo gesto di Gesù.Distaccandosi dai suoi, Gesù non si estranea da loro. Il distacco non rappresenta un’azione successiva alla benedizione; al contrario, quest’ultima accompagna il distacco o, anche, è la modalità con cui esso si attua. Il Gesù che si allontanava visibilmente dai suoi è il Gesù che benedice.La benedizione rinvia alla parola originaria del Creatore ad ‘Adam (Gen 1,28), confermata ad Abramo sotto forma di promessa (Gen 12,1-3), inscindibilmente connessa con l’alleanza (Gen 15,1-19; 17,1-8). Tutto ciò è divenuto realtà nel Messia Figlio di Dio, che ora entra nella gloria, nella nuova creazione come Signore. Terminiamo con le autorevoli parole di Papa Benedetto XVI a conclusione del suo secondo volume su Gesù di Nazaret: «Gesù parte benedicendo. Benedicendo se ne va e nella benedizione Egli rimane. Le sue mani restano stese su questo mondo. Le mani benedicenti di Cristo sono come un tetto che ci protegge. Ma sono al contempo un gesto di apertura che squarcia il mondo affinché il cielo penetri in esso e possa diventarvi una presenza.Nel gesto delle mani benedicenti si esprime il rapporto duraturo di Gesù con i suoi discepoli, con il mondo. Nell’andarsene Egli viene per sollevarci al di sopra di noi stessi ed aprire il mondo a Dio. Per questo i discepoli poterono gioire, quando da Betània tornarono a casa. Nella fede sappiamo che Gesù, benedicendo, tiene le sue mani stese su di noi. È questa la ragione permanente della gioia cristiana» (Gesù di Nazaret. Seconda parte, p. 324).

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In Lui è il compimento della promessa originaria e in Lui si fa definitivo il dono della benedizione divina che ci rende a nostra volta benedicenti:

«Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef

1,3).

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