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Benedetto Croce in Thomas Mann, Benedetto Croce e Thomas Mann 1- La montagna incantata, il Purgatorio di Dante e il pellegrino–viator alla rovescia, cioè lo statico residente Hans Castorp Der Zauberberg, La montagna incantata è, nel suo strato esteriore e più visibile, una libera riscrittura amplificante del Purgatorio di Dante, assai polemica nei confronti del molto ammirato testo di riferimento 1 . Un giovane amburghese, che si è appena laureato in ingegneria navale, Giovanni (Hans in lingua tedesca) Castorp, va a fare visita a un cugino ricoverato nel sanatorio Internazionale Berghof, sopra Davos. Questa clinica di lusso è collocata dunque sotto la vetta di una montagna altissima, la quale si erge al di sopra della vasta, sconfinata pianura. L’immagine della contrapposizione tra la montagna altissima (il “lassù”) e la pianura immensa (il 1 Abbreviazioni e sigle: Za: T. MANN, Der Zauberberg, già cit. alla nota 46 del cap. I della Parte prima, (1924), Frankfurt am Main, Fischer Taschenbuch Verlag GmbH 1996, prima ediz. in questa collana: aprile 1991 (tr. it: Id., La montagna incantata, traduzione dal tedesco di B. Giachetti Sorteni, Milano, Dall’Oglio editore 1930, 2 voll.); TK: T. M., Tonio Kröger, (1904), in Id., Tonio Kröger. Mario und der Zauberer, Frankfurt am Main, Fischer Taschenbuch Verlag, prima ediz. in questa collana: luglio 1973 (tr. it.: T. M., Tonio Kröger, in Id., Romanzi brevi, a cura e con Prefazione di R. Fertonani, tr. it. di E. Castellani, Milano, Mondadori 1977, edizione Oscar Grandi Classici); Suppl: A. SCHOPENHAUER, Supplementi al quarto libro di Id., Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, Introduzione di G. Vattimo, Milano, Mondadori (collana I Meridiani) 1989; JGB: F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, Nota introduttiva di G. Colli, versione di F. Masini, Milano, Adelphi 2003; GTr: Id., La nascita della tragedia, Nota introduttiva di G. Colli, versione di S. Giametta, Milano, Adelphi Edizioni 1977 (seconda ed.); BrTM: H. BÜRGIN, H.–O. MAYER, Die Briefe Thomas Manns. Regesten und Register, Band I, 18991933, mit einem Vorwort von H. Wysling, Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag 1976; RM: G. VERGA, Rosso Malpelo (187818801897), in Id, Vita dei campi, a cura di C. Riccardi, Firenze, Le Monnier 1987, vol. XIV della Edizione nazionale delle Opere di Giovanni Verga (il racconto è qui citato secondo il testo base della edizione Riccardi, che è quello della editio princeps della raccolta, Milano, Treves 1880, e alle citazioni si accompagnerà pertanto la sigla RM3); Mal: Id., I Malavoglia, a cura di F. Cecco, Torino, Einaudi 1995 (vi è riprodotto il testo della editio princeps del 18811882); VgR: G. D’ANNUNZIO, Le vergini delle rocce, (1895), a cura e con Prefazione di G. Ferrata, Milano, Mondadori (Oscar) 1940; If: D. ALIGHIERI, Inferno e Pg: Id., Purgatorio (secondo il testo stabilito nella ediz critica Petrocchi); Ap: Apocalisse, Nuovo Testamento secondo la Vulgata; Est1: B. CROCE, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, cit. (vd. nota 49 al capitolo I della Parte prima); CartCV: Carteggio Croce–Vossler (1899–1949), Bari, Laterza 1983. D’ora innanzi tutti i riferimenti ai succitati testi d’autore, trattati e carteggi saranno indicati nel testo dello studio mediante le sigle proposte e saranno accompagnati dalla numerazione delle pagine o dall’indicazione dei canti, dei capitoli, dei versi e dei versetti.

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Benedetto Croce in Thomas Mann, Benedetto Croce e Thomas Mann

1- La montagna incantata, il Purgatorio di Dante e il pellegrino–viator alla rovescia, cioè lo statico residente Hans Castorp

Der Zauberberg, La montagna incantata è, nel suo strato esteriore e più visibile, una libera riscrittura amplificante del Purgatorio di Dante, assai polemica nei confronti del molto ammirato testo di riferimento1. Un giovane amburghese, che si è appena laureato in ingegneria navale, Giovanni (Hans in lingua tedesca) Castorp, va a fare visita a un cugino ricoverato nel sanatorio Internazionale Berghof, sopra Davos. Questa clinica di lusso è collocata dunque sotto la vetta di una montagna altissima, la quale si erge al di sopra della vasta, sconfinata pianura. L’immagine della contrapposizione tra la montagna altissima (il “lassù”) e la pianura immensa (il “laggiù”), usata spessissimo dal narratore, naturalmente non è realistica, ma corrisponde alla percezione che hanno della loro esistenza i degenti. La detta immagine si alterna con quella, realistica, del “sotto”, del “laggiù” come di un mondo variamente conformato geograficamente, e ricchissimo di diversità di ogni genere2. Queste diversità, peraltro, proiettano il proprio riflesso anche nel sanatorio. Oltre a Tedeschi, Italiani, Spagnoli, Svizzeri, Russi, Olandesi, Polacchi, e non so quanti altri Europei dell’est e dell’ovest ci sono anche dei Messicani, un Malese, un Giapponese ed è adombrata la presenza, in passato, di Arabi: l’umanità intera, dunque. Castorp dovrebbe fermarsi per una vacanza di tre settimane. Si scopre che egli pure è malato e così egli si ferma sette anni3.

Nel corso dei sette anni Castorp mangia a ciascuno dei sette tavoli presenti nella vasta e lussuosa sala da pranzo. A ogni tavolo egli è commensale per un anno. I sette tavoli corrispondono alle sette cornici del purgatorio dantesco in senso stretto, cioè ai luoghi in cui le anime espianti si purificano compiutamente dalle scorie residue delle tendenze peccaminose cui soggiacquero nella prima vita. I sette anni corrispondono, in chiave biblico–

1 Abbreviazioni e sigle: Za: T. MANN, Der Zauberberg, già cit. alla nota 46 del cap. I della Parte prima, (1924), Frankfurt am Main, Fischer Taschenbuch Verlag GmbH 1996, prima ediz. in questa collana: aprile 1991 (tr. it: Id., La montagna incantata, traduzione dal tedesco di B. Giachetti Sorteni, Milano, Dall’Oglio editore 1930, 2 voll.); TK: T. M., Tonio Kröger, (1904), in Id., Tonio Kröger. Mario und der Zauberer, Frankfurt am Main, Fischer Taschenbuch Verlag, prima ediz. in questa collana: luglio 1973 (tr. it.: T. M., Tonio Kröger, in Id., Romanzi brevi, a cura e con Prefazione di R. Fertonani, tr. it. di E. Castellani, Milano, Mondadori 1977, edizione Oscar Grandi Classici); Suppl: A. SCHOPENHAUER, Supplementi al quarto libro di Id., Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, Introduzione di G. Vattimo, Milano, Mondadori (collana I Meridiani) 1989; JGB: F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, Nota introduttiva di G. Colli, versione di F. Masini, Milano, Adelphi 2003; GTr: Id., La nascita della tragedia, Nota introduttiva di G. Colli, versione di S. Giametta, Milano, Adelphi Edizioni 1977 (seconda ed.); BrTM: H. BÜRGIN, H.–O. MAYER, Die Briefe Thomas Manns. Regesten und Register, Band I, 1899–1933, mit einem Vorwort von H. Wysling, Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag 1976; RM: G. VERGA, Rosso Malpelo (1878–1880–1897), in Id, Vita dei campi, a cura di C. Riccardi, Firenze, Le Monnier 1987, vol. XIV della Edizione nazionale delle Opere di Giovanni Verga (il racconto è qui citato secondo il testo base della edizione Riccardi, che è quello della editio princeps della raccolta, Milano, Treves 1880, e alle citazioni si accompagnerà pertanto la sigla RM3); Mal: Id., I Malavoglia, a cura di F. Cecco, Torino, Einaudi 1995 (vi è riprodotto il testo della editio princeps del 1881–1882); VgR: G. D’ANNUNZIO, Le vergini delle rocce, (1895), a cura e con Prefazione di G. Ferrata, Milano, Mondadori (Oscar) 1940; If: D. ALIGHIERI, Inferno e Pg: Id., Purgatorio (secondo il testo stabilito nella ediz critica Petrocchi); Ap: Apocalisse, Nuovo Testamento secondo la Vulgata; Est1: B. CROCE, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, cit. (vd. nota 49 al capitolo I della Parte prima); CartCV: Carteggio Croce–Vossler (1899–1949), Bari, Laterza 1983. D’ora innanzi tutti i riferimenti ai succitati testi d’autore, trattati e carteggi saranno indicati nel testo dello studio mediante le sigle proposte e saranno accompagnati dalla numerazione delle pagine o dall’indicazione dei canti, dei capitoli, dei versi e dei versetti.

2 Cfr. E. HEFTRICH, Die Welt ‘hier oben’: Davos als mythischer Ort, a cura di T. Sprecher, ‘Zauberberg’–Symposium 1994 in Davos, Frankfurt, Klostermann 1995, pp. 225–247.

3 Della sterminata bibliografia di “carattere generale” relativa a Za ricordo in particolare: H. J. WEIGAND, Thomas Mann’s Novel Der Zauberberg. A Study, New York, AMS Press 1971; H. KURZKE, Wie konservativ ist der Zauberberg?, in Aa. Vv., Gedenkschrift für Thomas Mann, a cura di R. Wiecker, Copenhagen, Text & Kontext 1975, pp. 137–158; Aa. Vv., Thomas Mann's The Magic Mountain, a cura di H. Bloom, New York, Chelsea 1986; H. WYSLING, Probleme der Zauberberg–Interpretation, «Thomas Mann Jahrbuch», (1), 1988, pp. 12–26; H. KOOPMANN, Thomas Mann. ‘Der Zauberberg’, in Aa. Vv., Grosse Werke der Literatur, a cura di H.V. Geppert, Augsburg, Universität Augsburg 1990, pp. 181–198; M. SWALES, Mann. Der Zauberberg, London, England, Grant & Cutler 2000; M. BEDDOW, The Magic Mountain, in Aa. Vv., The Cambridge Companion to Thomas Mann, a cura e con prefazione di R. Robertson, Cambridge Companions to Literature, Cambridge, England, UP 2002, pp. 137–150.

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figurale, al fatto che l’ascesa di Dante al paradiso terrestre, l’intera “scalata”, includente la visita a ognuna delle cornici, ha richiesto del tempo, misurabile apparentemente con l’orologio del tempo terreno; in Pg non si tratta di sette anni ma di sette archi orari corrispondenti a quattro giorni–luce e a tre notti. Il pellegrinaggio di Dante per i tre regni dell’aldilà, tra l’altro, dura sette giorni. Il numero sette, molto intensamente legato alla simbologia biblica sia vetero– che neotestamentaria, rinvia soprattutto ad Ap, alla quale sia Pg che Za sono intimamente ancorché diversamente collegati; e su questo tema, troppo importante perché si possa tralasciarlo, ci si soffermerà nel prosieguo dello studio4.

Antiteticamente rispetto agli altri due regni dell’aldilà, in cui sono già vigenti le leggi dell’eterno e il tempo non ha più valore, in Pg, specie nell’antipurgatorio e nel purgatorio in senso stretto, il tempo è un valore supremo: le anime espianti vivono secondo il motto che Virgilio ― dopo l’arrivo alla spiaggia dell’antipurgatorio e il rimprovero di Catone alle anime (i due poeti tra esse) che si erano fermate ad ascoltare il canto di Casella ― comunica a Dante: «ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Pg, III, 78). Non sembri pedanteria inutile ricordare che sarebbe errato ritenere ‘non–più–esistente’ il tempo nell’Inferno e nel Paradiso: il viaggio di Dante costituisce una delle intrusioni del tempo; altre infatti ve ne erano state, prima della sua, in questi due regni che attendono essi pure l’ultimo giorno, e che a partire da esso soltanto assumeranno conformazione definitiva e immutabile. Occorre riprendere il filo del discorso principale. Le anime espianti dunque hanno fretta: fretta di liberarsi dal peso residuo della peccaminosità e di ricongiungersi a Dio. Il purgatorio si trova al di là del tempo umano, perché lo si raggiunge dopo la fine della prima vita, e tuttavia esso è immerso nel tempo. Esso è l’unico dei tre regni dove il tempo propriamente scorra; è un mondo di passaggio, caratterizzato dalla transitorietà. Da una parte è rivolto al passato, che per certi versi ancóra si ama ma dal quale è necessario liberarsi. Per altro verso le anime del purgatorio sono proiettate verso il futuro, animate come sono da una speranza che non è più quella terrena ma è la assoluta certezza che vedranno Dio.

L’esperienza profondamente umana che gli spiriti penitenti vivono, un’esperienza a suo modo letificante, è quella del desiderio: un desiderio acceso, fervido, ancorché espresso in modi dolci e austeri. Si tratta del desiderio di raggiungere la meta, il quale viene poi simbolizzato da Dante, nel Paradiso, con l’immagine delle acque che diventano fiumi e che, dopo un lungo e travagliato percorso, si riversano nel mare, trovando la quiete, l’appagamento del desiderio. O prima o poi tutte le anime lasciano il purgatorio perché, ormai completamente purificate dal male e libere moralmente, tutte ascendono al paradiso. Eppure nel purgatorio ha immensa importanza anche il presente, perché nell’isola gigantesca si conduce una vita calma e gentile, ma molto ripetitiva, quasi immobile; e càpita di trascorrervi un tempo assai lungo, come i 1250 anni di Stazio. Quando, dal giorno del giudizio, assumeranno compimento vero e definitivo le prerogative dell’eterno, il purgatorio sarà, forse, l’unico dei tre regni che potrebbe scomparire dall’assetto morale e forse anche dalla topografia e cosmologia dell’aldilà. Nondimeno il purgatorio dantesco è anche il regno dell’amicizia, dei rapporti gentili, delle conversazioni ricche di reciproca benevolenza e di delicato senso dell’intimità. Il monte gigantesco, o almeno il viaggio di Dante attraverso di esso, è al contempo lo stato e lo spazio, affettivo e morale, della conversazione, dei colloqui affettuosi, talora intimi e legati a vicende private, altre volte improntati ad argomenti assai fini ed elevati (l’arte) oppure inerenti l’aspetto della vita collettiva più importante dell’ordine terreno o intra–mondano, cioè la politica.

Il rapporto per molti versi di somiglianza e per altrettanti di antitesi tra la vita e l’atmosfera rappresentate in Pg e la vita e l’atmosfera rappresentate in Za sono evidentissimi e vengono messi a tema, si può dire, fin dai primi righi di Za. Si consideri anzitutto un esempio di somiglianza, o di relazione analogica normale. La voce narrante mette in risalto con abilità e finezza che Giovanni Castorp, durante l’ascesa impervia (in treno) verso Davos si sente in una situazione inconsueta e per certi aspetti pericolosa per chi, come lui, è abituato a vivere accanto al mare e in zone pianeggianti («Forse era imprudente e inopportuno per lui, abituato a respirare a un paio di metri sopra il livello del mare, il lasciarsi trasportare in quelle

4 Ricordo preliminarmente solo che dalla lettura di Ap ho “ricavato” sette spiriti, sette chiese, sette candelabri, sette stelle, sette lampade, sette sigilli, sette corna, sette occhi, sette angeli, sette trombe, sette tuoni, sette teste, sette diademi, sette flagelli, sette colli, sette re, sette coppe, settemila persone.

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estreme regioni senza aver prima sostato in qualche luogo posto a un’altezza media»: Za, p. 13; tr. it., vol. I, p. 9). In tal modo, come ognun vede, le acque del mare e l’altissima sommità del monte vengono sapientemente accostati nei pensieri del giovanotto e diventano contigui nella scrittura e nel tessuto del racconto, il che vale a evocare allusivamente l’immagine fantastica di un monte che si erge dalle acque. La raffigurazione di Castorp il quale, situato in alto, vede aprirsi sotto e davanti a lui il mare «ampio, sconfinato […], aperto» verrà replicata, con espediente narrativo completamente diverso quando la narrazione è ormai molto avanzata (ivi, p. 672; tr. it., vol. II, pp. 163–164). Allora Giovanni vedrà il mare azzurro, come ritiene debba essere il Mediterraneo a lui sconosciuto, durante una sorta di meravigliosa allucinazione. Essa sarà provocata dal deliquio in cui il giovane cade dopo essere stato sorpreso dalla bufera durante un’escursione con gli sci ai margini e dentro il bosco; egli non ha più senso di orientamento e per diverse ore si sente perduto, senza speranza di ritorno a “casa”: ancóra una situazione di stampo dantesco, dunque, debitamente rovesciata.

Quanto alla relazione di antitesi, o alla relazione analogica rovesciata, Giovanni Castorp compie l’esperienza di bere (metaforicamente) delle acque del fiume Lete non già dopo che è giunto sulla sommità del monte ed eventualmente alla fine della sua permanenza nel sanatorio, bensì quando il suo viaggio dalle sponde oceaniche verso Davos è appena cominciato:

Lo spazio che ruzzola via fuggendo tortuoso e si interpone fra lui e il suo luogo di residenza, ha in sé forze che di solito si credono riservate al tempo; di ora in ora esso dà origine a interni mutamenti, molto somiglianti a quelli generati dal tempo ma che in certo qual modo li sorpassano. Come quest’ultimo, genera dimenticanza, ma lo fa sciogliendo la personalità dell’individuo dai suoi rapporti e ponendolo così in una situazione libera ed iniziale […]. Si dice che il tempo è il Lete, ma anche l’aria delle lontananze è un’acqua simile, e se i suoi effetti hanno minore intensità sono però di tanto più rapidi. Giovanni Castorp ne fece l’esperienza. Egli non aveva avuto l’intenzione di prendere il suo viaggio troppo seriamente, né di dedicarvi alcuna forza spirituale, anzi contava di liquidarlo in fretta poiché doveva essere fatto; contava di ritornare tal quale era partito e di riprendere la sua vita al punto preciso in cui aveva dovuto lasciarla. (ivi, p. 12; tr. it, vol. I, p. 9)

Il narratore, con lentezza e precisione, spiega ai lettori che Castorp comincia sùbito a dimenticare quella vita sulle sponde del mare, la vita di “laggiù”, che fino al momento di intraprendere il viaggio aveva occupato completamente la sua mente e assorbito le sue energie emotive e razionali. Mentre Giovanni è in viaggio, e ascende intreno la montagna, la sua mente e le sue energie emotive e razionali cominciano a concentrarsi sulla vita ancóra ignota, certo assai diversa e carica di mistero ― come a stento la sua coscienza riflessa si concede di intravedere ― che lo attende lassù:

Fino al giorno precedente era stato preso nella cerchia dei soliti pensieri, cioè del suo esame, e di ciò che stava per accadere, ossia del suo ingresso come praticante nella ditta Tunder & Wilms (cantiere navale, fabbrica di macchine e caldaie). […] Ora però gli sembrava che le circostanze esigessero tutta la sua attenzione e che non fosse il caso di prendere la faccenda tanto alla leggera. Quell’essere portato su su, in regioni dove mai aveva respirato, dove, come sapeva benissimo, regnavano condizioni di vita per nulla affatto comuni, anzi singolarmente ristrette e misere, cominciava ad agitarlo, a infondergli un certo senso di timore. La patria e l’ordine erano ormai lontani, anzi stavano giù in fondo, ed egli saliva, saliva continuamente al disopra di essi. Diviso tra essi e l’ignoto, Giovanni Castorp si chiedeva come si sarebbe trovato lassù in alto. […] Desiderava tuttavia di essere giunto alla meta; una volta su, pensava, si dovrà vivere là come altrove, senza pensare continuamente come ora in quali sfere inconsuete ci si trovi. (ivi, pp. 12–13; tr. it, vol. I, pp. 9–10)

Castorp arriva dunque al purgatorio di Davos sano, libero apparentemente dal male, ma si adatta molto presto alla vita del sanatorio e allo scorrere lentissimo del tempo che qualifica

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l’esistenza colà5: un tempo vuoto, privo di valore e di importanza, contrassegnato da riti ripetitivi sempre–uguali, immune da ogni forma di operosità costruttiva. I degenti del sanatorio devono evitare ogni fatica; l’occupazione principale della giornata consiste nel sottoporsi a più riprese e per ore alla cura sulla sdraio. Avvolti in morbide coperte, e distesi su poltrone comodissime, essi respirano all’aperto l’aria salubre e fina dell’alta montagna e provano in genere una intensa sensazione di riposo. L’interesse principale di ciascuno è rivolto alla misurazione quotidiana, anche qui a più riprese, della propria temperatura corporea. La misurazione dura sette minuti ed è la sola, tra le esperienze che si compiono nel sanatorio, che dia una idea esatta del tempo, cioè del tempo pienamente umano, quello di “laggiù”.

Tutti i degenti o quasi sono molto attaccati alla vita e sperano ardentemente di guarire, ma pochissimi (e tra questi principalmente il cugino di Giovanni, Gioachino) sono coloro che sperano questo perché animati da fervido desiderio di tornare “laggiù”: i più amano, se così si può dire, la vita per se stessa, la vita per la vita. Alcuni, per desiderio intenso e incoercibile di riprendere il proprio posto e la propria operosità “laggiù”, si illudono di esser guariti o quasi, e senza ascoltare il parere dei medici lasciano il sanatorio e scendono a valle; ma dopo qualche tempo sono inesorabilmente afferrati da una recrudescenza della malattia e muoiono (così Gioachino).

O prima o poi tutti i degenti lasciano il luogo di cura, e tutti lo lasciano per tornare “laggiù”: gli uni vi tornano come mera materia organica e inerte, perché la malattia li ha uccisi6; gli altri vi tornano da persone guarite che dovrebbero riprendere il loro posto in famiglia e le loro occupazioni nel mondo dei vivi. Quasi nessuno di coloro che sono guariti riesce a riadattarsi in pieno al mondo di “laggiù”; alcuni si sentono anzi completamente disadattati rispetto alla vita terrena, carica di conflitti, di crudeltà, di ogni genere di durezze: e vorrebbero tornare ― inutile seppure struggente nostalgia ― alla loro vera casa, che è “lassù”, non lontana dalla vetta della montagna altissima. Le conversazioni, i flirts, gli amori, i pettegolezzi, talvolta un poco maligni, ma sempre, in fondo, sostanzialmente innocui, sono il contenuto principale di una varia convivialità ad assetto sostanzialmente comunitario che si attua in particolare nella sala da pranzo e nelle salette di conversazione poste di fronte a essa. All’inizio del soggiorno di Giovanni Castorp questa convivialità è prevalentemente gentile; i malati sono legati tra loro, infatti, da complicità simpatetica, da intensa partecipazione degli uni ai casi degli altri, ovviamente in ordine ai progressi verso la salute o alla recrudescenza della malattia7.

1. Il Purgatorio, il Virgilio–Mentore Lodovico Settembrini e la seconda bestia dell’Apocalisse, alias Leone Naphta

Castorp dunque vagheggia la malattia e questa si manifesta nel suo organismo. Prima di ammalarsi, egli conosce un letterato italiano, cioè un opinionista e critico letterario, Settembrini, figura solare di vero signore, assai cólto ed eccellente parlatore, dalla lingua esteticamente splendida, seppure non corrispondente ai gusti di Giovanni Castorp8. Malgrado

5 Cfr.: H.G. WALTER, Space and Time on the Magic Mountain. Studies in Nineteenth and Early Twentieth Century European Literature, New York, New York, Peter Lang 1999; H.D. KITTSTEINER, Die Rückkehr der Geschichte und die Zeit der Erzählung, «Internationales Archiv für Sozialgeschichte der deutschen Literatur », XXVII–2002, fasc. 2, pp. 185–207; J. KAVALOSKI, The Fourth Dimension. Time in the Modernist Novel, Dissertation Abstracts International, Section A. The Humanities and Social Sciences, LXV–2004, n. 4, 1357. U of Virginia, 2004. DA3131426.

6 Giovanni apprende dal cugino Gioacchino Ziemssen che la casa di cura più alta della montagna è «il Sanatorio “Schatzalp”, […]. Quelli là, d’inverno, devono mandar giù i loro cadaveri in bobsleigh, perché le strade spariscono completamente sotto la neve» (Za, p. 19; tr. it., vol. I, p. 14).

7 N.A. THESZ, Thomas Mann und die 'Welt vor dem großen Kriege': Abgrenzung und Dialektik auf dem Zauberberg, «Monatshefte für Deutschsprachige Literatur und Kultur», XCVIII–2006, n. 3, pp. 384–402.

8 Sul deuteragonista di ZA cfr.: G. LOOSE, Ludovico Settembrini und ‘Soziologie der Leiden’: Notes on Thomas Mann’s Zauberberg, «Modern Language Notes», LXXXIII–1968, n. 3, pp. 420–429; B. KRISTIANSEN, Zur Bedeutung und Funktion der Settembrini–Gestalt in Thomas Manns Zauberberg, in Aa. Vv., Gedenkschrift für Thomas Mann, cit., pp. 159 ss.; H. WISSKIRCHEN, ‘Ich glaube an den Fortschritt, gewiß’. Quellenkritische Untersuchungen zu Thomas Manns Settembrini–Figur, in Aa. Vv., a cura di T. Sprecher, ‘Zauberberg’–Symposium 1994 in Davos, cit., pp. 81–116. M. CAMPILLO, Sobre literatura i sobre l’ensenyament de la literatura. Les raons de Settembrini, «Marges», (53),

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la signorilità e il modo di fare leggiadro, disinvolto, sorridente, ironico, il critico letterario è dimesso nell’abbigliamento; si percepisce che egli è povero. Il ritratto fisico del personaggio è generico; è impossibile che qualcuno possa affermare di riconoscervisi: bruno, sulla quarantina, baffetti appena rivolti all’insù, statura indefinita ma non basso. Il tratto più caratterizzante è che egli cammina con il bastone. Pur essendo italiano parla senza nessun accento un tedesco eccellente. Il nonno di Settembrini era stato un avvocato di idee accesamente democratiche, animato anche da passione risorgimentista, e per questo era stato condannato alla galera. Settembrini, filantropo impregnato di tolleranza, di sentire illuministico scevro di ogni fanatismo, di idee democratico–liberali, membro di un’associazione che vorrebbe eliminare dal mondo il dolore, massone e fautore della pace perpetua sulla terra mediante la confederazione degli stati (idea di kantiana e di mazziniana memoria), si affeziona sùbito al giovane Castorp e prende a fargli da educatore e da Mentore. Egli intuisce che il giovane è incline ad apprezzare la malattia perché essa consente di ritrarsi dalle lotte della vita; il pedagogo fa di tutto per rimandare il giovane, prima che questi si ammali, laggiù, nella vita vera. Non vi riesce.

Settembrini continua tuttavia a essere una guida buona e si autoparifica a Virgilio. Castorp si innamora di una graziosissima signora russa, sposata e separata di fatto, lievemente sfacciata e dai costumi notoriamente facili, Clawdia Chauchat (personaggio vincente). Questa non ricambia la passione del ragazzo, però ne è lusingata e non è del tutto indifferente. L’antecedente letterario principale e finora ignoto della sensualissima giovane donna è Nata (personaggio perdente), la contessa russa gravemente ammalata di tisi, gran signora e regina dell’altissima società, coprotagonista del romanzo di G. Verga Tigre reale. Nata e Clawdia, due personaggi congiunti non casualmente dalla marcata dolcezza fonica dei loro nomi, sono creature femminili alle quali, con il consenso dei mariti legittimi, la malattia ha conferito una immensa libertà.

Il Virgilio–Mentore cerca invano di distogliere il proprio allievo dall’affascinante Clawdia, considerata da Settembrini come un pericolo gravissimo per l’equilibrio di Castorp. Clawdia, secondo il pedagogo è una Circe, è una Lilith, che ostacola il ritorno di Giovanni Castorp in pianura, là dove soltanto egli potrebbe essere un Europeo, promuovere il progresso, combattere attivamente il dolore, utilizzare costruttivamente il tempo. Settembrini–Virgilio definirà allora Clawdia Chauchat anche la “Beatrice” di Castorp. Una Beatrice alla rovescia, ovviamente, la quale un giorno tornerà per sempre “laggiù”, alla vita, senza curarsi di Giovanni, che l’aveva aspettata “lassù” lunghi mesi, dopo una prima partenza di lei per andare a trovare suo marito.

Al purgatorio dantesco è estranea ogni asprezza di sentimenti: nella sua atmosfera, come spesso è stato notato, si addensa la quiete dolce delle beatitudini neotestamentarie: umiltà, mitezza, pace, mansuetudine, benignità o benevolenza (il contrario dell’invidia), attitudine fiduciosa. Di contro, nel Sanatorio internazionale Berghof prendono a manifestarsi tendenze e atmosfere infernali, le quali si mescolano a quelle purgatoriali.

Si leggano alcuni passi salienti del romanzo di Mann qui tolto a esame:

Ma che cosa c’era dunque? Che cosa aleggiava nell’aria? Mania di attaccar brighe. Crisi di suscettibilità. Un’impazienza senza nome. V’era una propensione generale allo scambio di parole velenose, agli scoppi d’ira che talvolta degeneravano anche in vie di fatto. Ogni giorno nascevano liti accanite, alterchi volgari fra singoli ospiti o interi gruppi di persone. E lo strano era che anche gli estranei ad un determinato litigio, invece di sentirsi urtati dallo spettacolo indecoroso che presentavano quelli che vi erano coinvolti […] nel loro intimo si abbandonavano ugualmente alla frenesia generale. (Za, pp. 938–939; tr.it., vol. II, p. 369)

Nel punto dove [l’ex studente] se ne stava di solito tranquillamente seduto, la calma fu d’un tratto rotta come per incanto; il giovanotto, pallido in viso, gridava rivolto alla nana in piedi accanto a lui ― Mente! ― gridava con voce ansante ― Il tè è freddo. Il tè che mi ha servito è gelato, non lo voglio; lo assaggi prima di mentire, […]! ― […]… Maledetta storpia!!! ― urlò ad un tratto quasi gettando da sé l’ultimo ritegno e passando alla massima libertà del furore. Nello stesso tempo alzò i pugni contro Emerenziana e digrignò i denti

1995, pp. 65–70.

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letteralmente coperti di schiuma. […] Lo studente furibondo attirava su di sé simpatie e antipatie tremende, tese fino allo spasimo. Alcuni erano balzati in piedi e guardavano a lui coi pugni chiusi, gli occhi ardenti e la schiuma alla bocca. Altri erano rimasti seduti, pallidi, a occhi bassi, frementi». (ivi, p. 940; tr. it., vol. II, pp. 370–371)

Uomo cortese, non sciocco, ed anche di natura gioviale [Sonnenschein, N.d.A.] odiava [Wiedemann, N.d.A.] per quel suo eterno punzecchiare, per gli sguardi feroci che rivolgeva al suo fantoccio. Tale sentimento divenne in breve tanto forte da farlo soffrire, e un giorno tutti accorsero nella hall richiamati dalla zuffa che s’era accesa fra Wiedemann e Sonnenschein. Era uno spettacolo raccapricciante e doloroso. I due uomini stavano azzuffandosi come ragazzi, ma con l’esasperazione propria degli adulti quando arrivano ad un eccesso simile. Si graffiavano l’un l’altro in viso, si tenevano per il naso o per il collo e intanto menavano colpi all’impazzata, si rotolavano sul pavimento con una serietà spaventosa, si sputavano in faccia a vicenda, si calpestavano, si dilaniavano, si trascinavano qua e là in preda ad un furore pazzo». (ivi, p. 942; tr. it., vol. II, p. 372)

Queste atmosfere e tendenze infernali diventano particolarmente insistite sul finire della storia, prima che i degenti siano costretti ad abbandonare il sanatorio, e sono tolte in particolare alla zona degli iracondi immersi nella palude stigia, alla bolgia dei falsatori e all’atmosfera infernalizzata della novella Rosso Malpelo, a sua volta tributaria delle Malebolge dantesche. Si riducano a mente alcuni versi di If tolti dalle zone anzidette:

E io, che di mirare stava inteso, / vidi genti fangose in quel pantano, / ignude tutte, con sembiante offeso. / Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co’ denti a brano a brano. Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi / l’anime di color cui vinse l’ira». (If, VII, vv. 109–116; corsivo mio)

Dopo ciò poco vid’io quello strazio / far di costui a le fangose genti, / che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. / Tutti gridavano: «A Filippo Argenti! » / e ’l fiorentino spirito bizzaro / in sé medesmo si volvea co’ denti. (If, VIII, vv. 58–63)

Ma né di Tebe furie né troiane / si vider mai in alcun tanto crude, / non punger bestie, nonché membra umane, / quant’io vidi in due ombre smorte e nude, / che mordendo correvan di quel modo / che ’l porco quando del porcil si schiude. / L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo / del collo l’assannò, sì che, tirando, / grattar li fece il ventre al fondo sodo. / E l’Aretin che rimase tremando / mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi, / e va rabbioso altrui così conciando». (ivi, XXX, vv. 22–33)

E l’un di lor, che si recò a noia / forse d’esser nomato sí oscuro, / col pugno li percosse l’epa croia. / Quella sonò come fosse un tamburo; / e mastro Adamo li percosse il volto / col braccio suo, che non parve men duro, / dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto / lo muover per le membra che son gravi, / ho io il braccio a tal mestiere sciolto». (ivi, 100–108)

Ad ascoltarli er’io del tutto fisso, / quando ’l maestro mi disse: «Or pur mira, / che per poco che teco non mi risso!» / Quand’io ’l sentí a me parlar con ira, / volsimi verso lui con tal vergogna, / ch’ancor per la memoria mi si gira. (ivi, vv. 130–135; corsivi miei)

[…] ond’ei come due becchi / cozzaro insieme, tanta ira li vinse. (ivi, XXXII, vv. 50–51)

Io avea già i capelli in mano avvolti, / e tratti glien’avea più d’una ciocca, / latrando lui con li occhi in giù raccolti, / quando un altro gridò: […]. (ivi, vv. 103–105)9.

9 Si possono riscontrare anche altri luoghi di If:; «Poi l’addentar con più di cento raffi, / disser: “Coverto convien che qui balli, / sì che, se puoi, nascostamente accaffi”. / Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli / fanno attuffare in mezzo la caldaia / la carne con li uncin, perché non galli.» (ivi, XXI, vv. 52–57); «[…] / e tu per più ch’alcun altro demonio!”. / “Ricorditi, spergiuro, del cavallo”, / rispuose quel ch’avea infiata l’epa; / “e sieti reo che tutto il mondo sallo!”. / “E te sia rea la sete onde ti crepa”, / disse ’l Greco, “la lingua, e l’acqua marcia / che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!”. / Allora il

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RM aveva dato a Thomas Mann il primo e principale nucleo ideativo per la Knabennovelle concepita nel 1897 in Italia, la quale costituirà poi invece la seconda parte dei Buddenbrook (il “romanzo di Hanno”). Si avvertono distintamente in Za anche echi dei Malavoglia (RM e i Mal sono forse i due testi letterari ottocenteschi appartenenti alla letteratura europea non tedesca a Thomas Mann più familiari, almeno fino a quando questi fu costretto a lasciare la Germania)10. Si considerino alcuni passi tolti da RM3 e dai Mal: «Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe» (RM3, p. 51, corsivo mio); e quando nella cava di rena rossa si decide di por termine ai tentativi di scavare, perché non pare più possibile salvare la vita del padre di Malpelo, seppellito vivo dalla frana, il figlioletto comincia a gridare, suscitando involontariamente sadica ilarità e motteggio da parte dei “compagni” minatori:

Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nella rena, dentro la buca, sicchè nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e tale schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza». (ivi, p. 55; corsivo mio)11

Si riduca a mente anche il passo dei Mal qui sotto riportato, in cui si descrive la furiosa zuffa tra ’Ntoni (il quale per spirito di vendetta prende l’iniziativa) e lo zoppo e losco sensale Piedipapera:

― Son venuto a rompervi le corna, se aggiungete altro. ― Alle grida la gente si era affacciata sugli usci, e si era radunata una gran folla; sicchè si azzuffarono perbene, e Piedipapera, il quale ne sapeva una più del diavolo, si lasciò cadere a terra tutto in un fascio con ’Ntoni Malavoglia, che così non valevano a nulla le gambe buone, e si avvoltolarono nel fango, picchiandosi e mordendosi come i cani di Peppi Naso, tanto che ’Ntoni di padron ’Ntoni dovette ficcarsi nel cortile dei Zuppiddi, perchè aveva la camicia tutta stracciata, e Piedipapera lo condussero a casa insanguinato come Lazzaro. […] ― Ti ha mezzo strappata quest’orecchia! ― diceva compare Turi versando adagio adagio dell’acqua sulla testa di ’Ntoni. ― Morde peggio di un cane corso, compare Tino!». (Mal, pp. 120–121; corsivo mio)

In Za si era tuttavia già palesato nel cuore della storia ― dopo che la narrazione era andata procedendo alquanto a lungo, e via via che il tempo, sulla montagna–purgatorio di Davos, era andato scorrendo, e sia pure con lentezza infinita, ben diversamente rispetto al tempo mondano ―, il principale elemento infernale: il gesuita Leone Naphta, un Galiziano proveniente da una famiglia di ebrei osservanti, bruttissimo e sgradevole anche all’aspetto, il quale direttamente si insinua nella vita di Giovanni Castorp in veste di antagonista del solare Settembrini12. Il gesuita vive da anni a Davos, perché la sua malattia è troppo grave; da un lato le sue speranze di guarigione sono scarse, dall’altro le sue condizioni di salute gli consentono di sopravvivere solo all’altitudine di Davos, e respirando l’aria di montagna.

monetier: “Così si squarcia / la bocca tua per tuo mal come suole; / ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia, / tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole, / e per leccar lo specchio di Narcisso, / non vorresti a ’nvitarmolte parole”» (ivi, XXX, vv. 111–123); «ch’io vidi due ghiacciati in una buca, / sì che l’un capo a l’altro era cappello; / e come ’l pan per fame si manduca, / così ’l sovran li denti a l’altro pose / là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca: / non altrimenti Tideo si rose / le tempie a Menalippo per disdegno / che quei faceva il teschio e l’altre cose. / «O tu che mostri per sì bestial segno / odio sovra colui che tu ti mangi / dimmi ’l perché, […]» (ivi, XXX, vv. 126–135).

10 Cfr. il capitolo III (Il Verga verista nel giovane Thomas Mann), e in particolare il paragrafo 7, Rosso Malpelo e la Knabennovelle (la storia di Hanno), nella Parte prima del mio volume Donne mari cieli. Studi su Verga e Quasimodo europei, Roma, Aracne Editrice 2008.

11 Il luogo in oggetto era stato già ricontestualizzato, dopo essere stato sottoposto a efficace rielaborazione, nei Buddenbrook.

12 Cfr. R. ZONS, Naphta, «Zeitschrift fur Deutsche Philologie», CXII–1993, n. 2, pp. 231–250 e F. MARQUARDT, Judentum und Jesuitenorden in Thomas Manns Zauberberg: Zur Funktion der ‘Fehler’ in der Darstellung des jüdischen Jesuiten Leib–Leo Naphta, «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», LXXXI–2007, n. 2, pp. 257–281.

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Essendo destinato a un soggiorno lungo, lunghissimo e forse definitivo in alta montagna, il gesuita non abita nella residenza del sanatorio, ancorché colà si sottoponga alle necessarie terapie; egli ha preso in subaffitto un piccolo appartamento presso il sarto Lukacek e lo ha arredato molto lussuosamente (un lusso di gusto dannunziano).

Naphta è portavoce della tesi che le istanze antimoderne e comunistiche del cattolicesimo sono conciliabili con la lotta di classe attualmente svolta dal proletariato per arrivare a una società che sia governata mediante il terrore di massa. Sia Naphta che Settembrini fanno ora da pedagoghi a Giovanni Castorp, disputandoselo, perché ciascuno dei due vorrebbe condurlo a sé, cioè alle proprie idee.

Mediante ricordi ridotti a mente in discorso indiretto da Leone Naphta, narratore e autore avevavo espressamente evocato If, e segnatamente la bolgia dei falsatori del canto XXX, gigantesco lazzaretto e gigantesco manicomio:

Anche Naphta aveva visitato manicomi, anzi, ricordava di aver visto un “reparto agitati”. In quel luogo gli si erano presentate scene e visioni sulle quali, Dio mio, lo sguardo ragionevole del signor Settembrini e la sua influenza coercitiva non avrebbero certo fatto presa: scene dantesche, grottesche immagini dell’orrore e del tormento; i pazzi nudi accoccolati nel bagno perenne, in tutte le pose del terrore di spirito e dello stupore inorridito, alcuni che urlavano la loro pena, altri che, a braccia levate in alto con le bocche spalancate, emettevano un riso dov’erano mescolati tutti gli ingredienti dell’inferno…». (Za, p. 620; tr. it., vol. II, p. 121)

È palese, come ognun vede, l’allusione, in particolare, alla bolgia dei falsatori (If, canto XXX, di cui si sono dianzi recate alcune porzioni di testo), sorta di gigantesco lazzaretto in cui corrono, anche, dannati letteralmente pazzi e furenti. Giovanni in cuor suo chiama Naphta e Settembrini i due Mentori. I due giungono a un duello in senso stretto. Settembrini spara per primo e spara in aria; Naphta, furente per quel magnanimo gesto di riconciliazione, rivolge la pistola contro la propria tempia e si uccide.

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Sul finire del romanzo tutti gli abitanti della montagna avvertono il «tuono storico che scosse le fondamenta della terra» (Za, p. 975; tr. it., vol. II, p. 399). Anche Dante e Virgilio personaggi–pellegrini della Commedia avvertono qualcosa del genere mentre si trovano in una delle cornici alte del purgatorio, quella degli avari e prodighi: «quand’io senti’, come cosa che cada / tremar lo monte; onde mi prese un gelo / qual prender suol colui ch’a morte vada» (Pg, XX, 127–129). Ma il terremoto che scuote il monte colossale dantesco, come il grido fortissimo e concorde che sùbito lo segue, è segnale di festa. Indica che una delle anime espianti ha concluso il proprio itinerario di purificazione e sta per salire alla casa del Padre. Qui, invece, il terremoto è metafora dell’inizio concreto della prima deflagrazione bellica, coincidente con la carneficina 1914–1918: «rimbombò dunque quel tuono che noi tutti sappiamo, quella detonazione assordante di ammassi calamitosi di stolidezza e di suscettibilità» (Za, p. 975; tr. it., vol. II, p. 399). Tutti i degenti, tranne quelli prossimi alla fine, abbandonano la montagna e tornano alla propria patria13.

Settembrini, quasi morente, non manca di rimarcare che il «dormiente in mezzo all’erba» («der Siebenschläfer im Grase»: Za, p. 978, corsivo mio; tr. it., vol. II, p. 401), il figlio peccatore, cioè Giovanni Castorp, deve tornare infine alla pianura e alla vita: nella fattispecie, alla guerra. Giovanni era stato dormiente e peccatore perché aveva contratto il male appunto sulla vetta della montagna, chiamata da Lodovico il Monte del peccato; ma dormiente era stato anche Dante in ognuna delle notti trascorse nel purgatorio e poi, in pieno giorno, ormai libero dal male, nella divina foresta, accanto all’albero di Adamo14. Il Virgilio–Mentore si congeda dal discepolo con affetto immenso, enfaticamente (secondo Castorp) manifestato, e con parole opposte a quelle che, nel proprio congedo, Virgilio, dopo aver condotto Dante ad altezze vertiginose, fino alla sommità del monte colossale, rivolge al discepolo sul ciglio della selva edenica. Si legga il congedo di Settembrini, la sua addolorata constatazione che il ritorno di Castorp alla Vita avverrà all’insegna della violenza, della guerra, della doverosa, patriottica necessità del fratricidio:

Nel tumulto [alla stazione, N.d.A.] Lodovico lo abbracciò, lo strinse letteralmente fra le braccia e lo baciò come fanno i meridionali (o anche i Russi) su ambedue le guance, cosa che mise non poco in imbarazzo il nostro viaggiatore. Ma questo fu lì lì per perdere addirittura la padronanza di sé quando il signor Settembrini all’ultimo momento lo chiamò per nome, e precisamente «Giovanni», non solo, ma lasciando da parte la forma vocativa d’uso in Occidente, si attenne al «tu»! ― E così in giù, ― disse ― in giù, finalmente! Addio Giovanni mio! Sperai di vederti maturare in altro modo, ma gli dèi hanno voluto cosí, e cosí sia. Speravo di vederti partire verso una vita di lavoro, invece vai a combattere fra i tuoi. Dio mio, tu eri destinato a questo, non il nostro tenente. Che cos’è mai la vita… Combatti valorosamente là dove il sangue ti lega! Nessuno può fare oggi di piú. Ma a me perdona se consacro il resto delle mie forze per spingere anche la mia patria in lizza là dove la chiamano lo spirito ed un sacro egoismo. Addio! (Za, pp. 979–980; tr. it., vol. II, p. 402: i corsivi sono della traduttrice e marcano le espressioni in italiano nel testo)

Si legga ora l’altrettanto paterno, e tuttavia così differente, congedo di Virgilio da Dante, improntato ad affetto non minore rispetto a quello di Lodovico, affetto appena velato, quello di Virgilio, da un atteggiamento assai composto e improntato al riserbo: «Come la scala tutta sotto noi / fu corsa e fummo in su ’l grado superno, / in me ficcò Virgilio gli occhi suoi, / e disse: “Il temporal foco e l’etterno / veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte / dov’io per me più oltre non discerno. / Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; / lo tuo piacere omai prendi per duce; / fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte. / Vedi lo sol che’n fronte ti riluce; / vedi

13 Cfr. Ü. GÖKBERK, War as Mentor: Thomas Mann and Germanness, in Aa. Vv., A Companion to Thomas Mann’s Magic Mountain, a cura di S.D. Dowden, Camden House, Columbia SC 1999, pp. 53–79 e S.B. WÜRFFEL, Zeitkrankheit–Zeitdiagnose aus der Sicht des Zauberberg. Die Vorgeschichte des Ersten Weltkrieges–in Davos erlebt, in ‘Zauberberg’–Symposium 1994 in Davos, a cura di T. Sprecher, cit., pp. 197–223.

14 «S’io potessi […] / ritrar […] / […] / come assonnaro / li occhi spietati udendo di Siringa, / li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro; / come pintor che con essempro pinga, / disegnerei com’io m’addormentai; / ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga. / Però trascorro a quando mi svegliai, / e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo / del sonno, e un chiamar: “Surgi: che fai?”» ( Pg, XXXII, vv. 64–72).

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l’erbette, i fiori e li arboscelli / che qui la terra sol da sé produce» (Pg, XXVII, 124–135; il corsivo è mio). Dante, al contrario di Giovanni, è giunto nel regno della perfetta armonia: della bellezza, della pace e dell’amore. Entrambe le guide paterne sono destinate a una separazione totale e definitiva dai discepoli amati. Virgilio tornerà nel limbo, in cui non si esperisce propriamente la seconda morte riservata alle anime infernali, ma in cui si è pur sempre divisi e lontani eternamente dalla Vita, da Dio. Settembrini sta per lasciare la vita, la sola vita di cui l’uomo goda e soffra, e trascorrerà, quasi con riluttanza, i pochi giorni che gli restano, parteggiando, secondo che le forze gli consentiranno, per le potenze avverse a quelle in favore delle quali dovrà battersi, tra fragori, schianti e soprattutto fuoco, Giovanni.

Giova concludere il parallelo tra Pg e Za con qualche cenno, sintetico ma non troppo, alla relazione che lega entrambi i testi ad Ap. In Ap l’angelo da ultimo (Ap, XXI, specie 9–11, e XXII) trasporta in spirito Giovanni sopra un monte grande e alto per mostrargli la città santa, Gerusalemme, la quale scende dal cielo per posarsi sulla sommità della montagna, e nella quale si trova ora anche la patria della terra di Genesi, I e di Genesi, II (è avvenuta nella città santa una moltiplicazione dell’albero della vita che campeggiava nel giardino di Eden). La vetta del dantesco monte colossale è figura del ricongiungimento del primo con l’ultimo giorno, della prima con l’ultima e definitiva dimora degli uomini. In Ap, prima della discesa della città, sotto il trono di Dio, viene combattuta l’estrema, violentissima battaglia tra gli eserciti del cielo e le forze terrene del male (ivi, XIX, 3).

Anche nella dantesca selva edenica, sulla vetta del monte colossale, sotto i cieli del paradiso, le forze del male, in successione (tra esse il drago, la più tremenda potenza malefica di Ap), e quelle del bene si scontrano tra loro, sia pure senza parvenze epiche, e Dante pellegrino assiste a tutti questi conflitti. Il sommo poeta comincia a introdurre alcuni aspetti di questi conflitti e di queste creature sia malefiche che benefiche a partire dal canto XIX di Pg, insomma dalla cornice degli avari e prodighi: gli avari sono ivi percepiti come coloro che sono cupidi di potere oltre che di ricchezze; e lo scontro è scontro tra l’autorità puramente spirituale del vicario di Cristo e la feroce brama di potere e ricchezze dei recenti e attuali re di Francia, i Capetingi. Come in Ap, anche in Za il male combatte con tutte le sue forze (con tutti i suoi eserciti, verrebbe da scrivere) una lotta senza quartiere contro la Vita.

Contro la sana normalità della vita secondo natura combatte anche l’Ordine originario di Spagna e a suo modo militaresco sotto la cui bandiera si è schierato Naphta; combatte secondo un regolamento spirituale che faceva singolare riscontro con quello che «più tardi, il Federico prussiano emanò per la sua fanteria » (Za, p. 613; tr. it. vol. II, p. 115); combatte anzi al contempo ferocemente e con patologica ascesi. Naphta, adoperando anche espressioni spagnole, perché il regolamento era stato scritto originariamente in lingua spagnola, parla «delle dos banderas, […] intorno alle quali si schieravano gli eserciti per la grande battaglia: la battaglia infernale e la spirituale; questa nei dintorni di Gerusalemme dove comandava Cristo, il “Capitan General di tutti i buoni”, quella nella pianura di Babilonia dove Lucifero fungeva da caudillo ossia Capo…» (ibidem; tr. it., vol. II, p. 115; corsivi di B. Giachetti Sorteni)15.

Nel sommo capolavoro della narrativa novecentesca, in polemica serratissima sia con Ap che con Pg, il male è inteso, materialisticamente e quasi positivisticamente, come malattia puramente organica, fisica ed eventualmente mentale, ma vi è una palpabile allusione anche al male in senso metafisico–religioso. Basti ricordare che da ultimo viene evocato indirettamente ma palesemente l’inferno, cioè lo stagno di pece e di zolfo di Ap e, attraverso il connubio popolaresco tra lo zolfo e il demonio, viene evocato palesemente anche il diavolo, l’ispiratore della guerra, del fratricidio, del male, della morte: «I giornali arrivavano direttamente dalla pianura alla sua [di Giovanni, N.d.A.] veranda; riempivano col loro odore opprimente di zolfo la sala da pranzo e perfino le stanze degli ammalati gravi e dei moribondi» (Za, p. 978, corsivo mio; tr. it., vol. II, p. 401). Il mondo “laggiù”, quello della pianura, sta diventando un inferno.

La Vita autocosciente, capace di attingere lo Spirito, è essa pure, apparentemente, un coacervo di combinazioni organiche; essa è in Za considerata eminentemente nell’aspetto di salute puramente fisica e psichico–organica (ma sono palpabili le allusioni alla salute come

15 Cfr. R. EIS, K.S. GUTHKE, Naphtas Pietà: Eine Bemerkung zum Zauberberg, «German Quarterly», XXXIII–1960, n. 3, pp. 220–223.

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vita autenticamente morale ancorché tutta intramondana): indebitamente semplificando, si può dire che questi aspetti morali e in certa misura metafisici della lotta tra il bene e il male si incarnano nella contrapposizione tra Settembrini (il bene: la ragione, il liberalismo democratico, tollerante e filo–egualitario, lo spirito di fratellanza) e Naphta (il male: il falso profeta che simula di parlare in nome del vero Dio).

In Za, però, la vita terrena degli uomini è la sola vita dello spirito prima della morte e della decomposizione del corpo. Le lastre eseguite periodicamente sui degenti nel gabinetto radiologico del sanatorio mostrano in anticipo, a chi sappia scrutarle con intelligenza, la futura opera della decomposizione, cioè il fatto che la carne, la quale riveste le ossa del corpo, si discioglie in una nebbia evanescente16. La Vita stessa, nella sua unione e contrapposizione allo Spirito, si riduce ai tremendi combattimento raccontati in Ap: ma nessuno sa quali siano le schiere guidate tra gli altri dall’arcangelo Michele e dal Verbo di Dio, e quali le schiere del male guidate tra gli altri dall’angelo dell’abisso, lo Sterminatore, e dal drago, dalla bestia e dai re della terra. La terribile deflagrazione bellica e la susseguente carneficina sono prive di senso: ognuna delle due parti in conflitto è depositaria, nel livello del potere, di valori ritenuti incoercibili, laddove nel livello della gente comune ognuna delle due parti è costretta a stare nell’inferno di ferro e di fuoco senza sapere perché vi sia l’obbligo di odiare, di combattere e di uccidere.

È esatta la tesi che Za sia un romanzo misterico e, se si vuole, esoterico; e siffatte qualifiche si applicano anche alla Divina Commedia. Vero è altresì che nel romanzo alcuni dei personaggi principali mostrano di essere informati circa idoli e credenze religiose dell’antico Egitto. È da respingere fermamente, però, l’asserzione che «il suo protagonista: Hans Castorp, ha la stessa parte che anticamente avevano gli iniziati ai segreti di Iside, o i cercatori del Sacro Graal» talché «difficilmente riusciamo a sottrarci alla torbida seduzione dell’edificio alpino, così diverso e tanto simile ― con i suoi sotterranei, le sue porte sbarrate, le sue logge tutte uguali in corrispondenza delle camere bianche ― a un enigmatico tempio egizio, i cui penetrali oscuri, per uno sconvolgimento della natura, siano stati sollevati all’impietosa luce del giorno»17.

Peraltro la lunga argomentazione di Settembrini in favore della potenza e capacità di creare incivilimento da parte della letteratura e dunque del legame organico tra parola (bellezza) e vita (politico-morale) ― argomentazione al cui interno sono rievocati aspetti della religiosità egizia ―, sfocia con la massima serietà negli insegnamenti procurati ai Fiorentini da Brunetto Latini; sfocia cioè palesemente in Dante e nella Commedia, sebbene il sommo poeta non sia qui menzionato:

[Settembrini, N.d.A] parlò del Dio egiziano Tot, col quale l’Ermes tre volte grande dell’Ellenismo si identificava e che era stato onorato come inventore della scrittura, protettore delle biblioteche, suscitatore di tutte le aspirazioni dello spirito. […]. Provocò in tal modo un’osservazione da parte di Giovanni Castorp: ma allora quel nativo d’Egitto era stato evidentemente anche un uomo politico ed aveva rappresentato in grande stile la parte di Brunetto Latini il quale aveva conferito grazia ai Fiorentini, aveva insegnato loro il bel parlare nonché l’arte di reggere la Repubblica secondo le regole della politica. (Za, pp. 716–717; tr. it., vol. II, pp. 199–200)

Kenneth Weisinger, nel bel saggio Distant Oil Rigs and Other Erections ritiene che nella porzione di testo in cui si parla di Brunetto Latini siano rievocati indirettamente il girone infernale dei sodomiti e la relazione tra Brunetto e Dante; su ciò non vi è dubbio18. Secondo lo studioso, Mann adombrerebbe in tal modo una componente di attrazione omosessuale nel rapporto tra Lodovico e Giovanni: non a caso il primo non è sposato ed è geloso dell’amore

16 Cfr. almeno P. PÜTZ, Krankheit als Stimulans des Lebens. Nietzsche auf dem Zauberberg, in ‘Zauberberg’–Symposium 1994 in Davos, a cura di T. Sprecher, cit., pp. 249–264 e M. SWALES J. VAN DIJCK, The Transparent Body. A Cultural Analysis of Medical Imaging, Seattle, University of Washington P 2005.

17 Le due citazioni riferite nel testo sono tratte dall’articolo di G. MONTEFOSCHI, Alla ricerca del Sacro Graal sulla Montagna incantata, che occupa tutta la pagina 37 dell’inserto Cultura sul «Corriere della sera» di martedì, 18 novembre 2003.

18 K. WEISINGER, Distant Oil Rigs and Other Erections, pp. 177–220, in Aa. Vv., A Companion to Thomas Mann’s The Magic Mountain, cit.; cfr. in particolare le pp. 204 ss.

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di Castorp nei confronti di Clawdia Chauchat; può darsi, direi. Inaccettabile mi sembra però che il rapporto tra Lodovico e Giovanni venga iscritto dal critico nel contesto di una relazione che ufficialmente sarebbe fraterna, laddove la relazione padre–figlio sarebbe adombrata invece nel rapporto tra Hofrat Behrens e Giovanni. Questo è inaccettabile. Lodovico è un Mentore–Virgilio. Egli è la guida paterna di Castorp, e anche il cono d’ombra ambiguo al cui interno è rievocato un altro maestro di Dante, appunto Brunetto Latini, lo dimostra. Tra i non pochi versi del canto infernale da lui citati, il critico omette di citare proprio quelli in cui Dante espressamente ravvisa in Latini una delle sue guide paterne e per questo gli fa onore («“Se fosse tutto pieno il mio dimando” / rispuos’io lui, “voi non sareste ancora / de l’umana natura posto in bando; / ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, / la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna: / e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo / convien che ne la mia lingua si scerna / […]» ( If, XV, 79–87).

L’atmosfera misterica ed esoterica che intride Za va ricondotta per alcuni versi a Pg ma soprattutto ad Ap e ai moltissimi libri di AT (anche di NT, ma assai meno) con il quale il gran libro, che funge, secondo il canone cristiano, quasi da epilogo di NT, intrattiene strettissime, ed esoteriche, relazioni. Non si sta qui certo negando all’autore una superficiale conoscenza degli antichi culti pagani greci, mesopotamici ed egizi. Essa fu ottenuta probabilmente mediante una non ancóra sistematica lettura di testi storici sull’argomento e sicuramente al modo medesimo con cui Giuseppe Verdi, influenzato dalla forma letteraria del romanzo storico, compose l’Aida, opera che nello Zauberberg ha uno speciale significato, come sarà dato constatare: Verdi si lasciò attrarre da Salammbô di Flaubert (1861–1862; il modello sintetico del libretto fu scritto dall’egittologo Auguste Mariette, egli pure influenzato dal romanzo di Flaubert). Tutto ciò spiega come mai da Za si sprigioni il profumo dell’antico Egitto dei Faraoni e di tanti altri culti pagani.

La diretta immissione nel testo di cifrate simbologie bibliche contribuisce a spiegare in maniera diretta il nome di battesimo del protagonista: Hans, cioè Giovanni, come l’apostolo quasi unanimemente ritenuto, fino a tempi molto recenti, autore e personaggio–testimone di Ap. Peraltro la componente misterico–esoterica di Za va ricondotta parzialmente anche al Medioevo e ai secoli successivi fino al diciottesimo, come si evince dai duelli verbali tra Naphta e Settembrini sui rapporti tra i Templari, i Rosacroce e la massoneria (cfr. in particolare ivi, pp. 695–703; tr. it., vol. II, pp. 183–189)19. Tra le ragioni per cui Thomas Mann ha dato al protagonista di Za il nome Giovanni, è da annoverare, dunque, quella che Hans–Giovanni è al contempo una pallida antitesi di Dante pellegrino e una pallida antitesi del Giovanni, narratore e personaggio di Ap, rapito al cielo, “lassù”, al cospetto della corte celeste (Ap, IV): narratore e personaggio (che non è da identificare con Giovanni apostolo ed evangelista) al quale gli angeli di Dio mostrano ognuna delle furiose battaglie tra il bene e il male e che, infine, conducono sulla vetta della montagna alta e grande.

Come si è notato, anche il cognome Settembrini molto deve ad Ap: il fatto che in esso sia iscritto il numero sette ci testimonia che sul piano “esoterico” il personaggio è egli pure incarnazione del bene, biblicamente inteso. Il cognome in questione, come si vedrà, trova però anche altre ragioni, più profonde. Quanto a Naphta, egli echeggia, ovviamente, come già si è scritto, la «seconda bestia», il «falso profeta», schierato tra le forze del male insieme al drago e alla bestia dalle dieci corna e dalle sette teste. Egli è l’antitesi della luce, adombrata da Settembrini e richiamata dal cognome allusivo del primo inquilino dell’abitazione in cui originariamente abitano entrambi in sub–affitto e poi l’Italiano soltanto: il sarto Lukacek20.

19 Cfr. M. BRENNER, Beyond Naphta. Thomas Mann’s Jews and German–Jewish Writing, in Aa. Vv., A Companion to Thomas Mann's Magic Mountain, cit., pp. 141–157, e H. WISSKIRCHEN, «Gegensätze mögen sich reimen». Quellenkritische und entstehungsgeschichtliche Untersuchungen zu Thomas Manns Naphta–Figur, «Jahrbuch der Deutschen Schillergesellschaft», XXIX–1985, pp. 426–454.

20 Sta scritto in Ap, XIII, 11–18, circa la seconda bestia (probabilmente Cesare–Nerone), cioè il falso profeta, imitazione e caricatura dell’azione dello spirito santo nella chiesa: «et vidi aliam bestiam ascendentem de terra et habebat cornua duo similia agni et loquebatur sicut draco et potestatem prioris bestiae omnem faciebat in conspectu eius et facit terram et inhabitantes in eam adorare bestiam primam cuius curata est plaga mortis et fecit signa magna ut etiam ignem faceret de caelo descendere in terram in conspectu hominum et seducit habitantes terram propter signa quae data sunt illi facere in conspectu bestiae dicens habitantibus in terra ut faciant imaginem bestiae quae habet plagam gladii et vixit et datum est illi ut daret spiritum imagini bestiae ut et loquatur imago bestiae et faciet quicumque non

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Del resto, chi ben guardi, la relazione con Ap contribuisce a spiegare non solo il nome del deuteragonista ma anche quello del suo rivale: Naphta, che letteralmente significa petrolio greggio, olio minerale combustibile, rinvia marcatamente e principalmente allo stagno di pece e di zolfo corrispettivo, in Ap, all’inferno: anche la pece (nera) e lo zolfo sono metalloidi estremamente infiammabili21.

2. Un percorso a ritroso dalla Montagna incantata a Tonio Kröger per capire Lodovico Settembrini

Tutti sanno che nel personaggio di Leone Naphta è adombrata la figura storica del pensatore marxista ungherese György Lukács22. Lukács si riconobbe nel personaggio e fu molto, davvero molto lusingato dell’onore accordatogli. Thomas Mann ha sempre ammesso che sì, che ciò era vero, verissimo, Naphta era stato costruito pensando a Lukács 23. A intervalli di tempo più o meno regolari i pubblicisti esperti di letteratura mitteleuropea, est–europea e russa pubblicano sui nostri quotidiani più letti pregevoli articoli sull’argomento Lukács–Naphta nella Montagna incantata. Ho qui sott’occhio un lungo articolo a firma di Vittorio Strada, E Lukács incantò Thomas Mann. Vi si legge tra l’altro: «Il momento più intenso che il terrorismo e la riflessione sulla sua legittimità etica hanno trovato nella cultura europea è legato alla biografia intellettuale di György Lukács, il filosofo marxista ungherese che è stato, assieme ad Antonio Gramsci, l’espressione più alta del “leninismo occidentale”». Strada ricorda che nella fase della crisi europea compresa tra la prima guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica Lukács scrisse due libri che incontrarono immediato successo presso quelle che io (non Strada!) chiamerei le “coscienze smarrite”, specie di estrema sinistra: Teoria del romanzo e Storia e coscienza di classe. Sono «opere che segnano il suo passaggio da una tormentata ricerca etico–religiosa all’adesione totale al comunismo», «tanto che il giovane Lukács divenne il prototipo di un personaggio di uno dei maggiori romanzi del tempo, La montagna incantata […], dove appare nelle vesti del gesuita rivoluzionario Naphta, avversario di un’altra figura, Settembrini, quintessenza dello spirito democratico». Strada prosegue notando che «la “conversione” di Lukács al comunismo leniniano fu un vero “salto della fede”, una “scelta” kierkegardiana che l’opera successiva di Lukács “razionalizzò” all’estremo, senza però cancellare l’impulso “irrazionale” di base».

Giustamente Strada, non senza che traspaia da parte sua un atteggiamento partecipe e simpatetico, almeno nei confronti delle lacerazioni personali di Lukács e di altri singoli esponenti dell’ideologia del terrore (e dello sterminio, a essa necessariamente connesso), osserva che «il terrorismo occupa», in questa vicenda, «un posto essenziale perché il giovane Lukács fu attratto da quella che era e resta la forma più potente del terrorismo “classico”: quello russo», talché il tema della violenza costituì «per il neofito bolscevico qualcosa di essenziale, un problema che egli doveva affrontare per giustificare a se stesso il passaggio

adoraverint imaginem bestiae occidantur et faciet omnes pusillos et magnos et divites et pauperes et liberos et servos habere caracter in dextera manu aut in frontibus suis et ne quis possit emere aut vendere nisi qui habet caracter nomen bestiae aut numerum nominis eius hic sapientia est qui habet intellectum conputet numerum bestiae numerus enim hominis est et numerus eius est sescenti sexaginta sex»: è esattamente questo il ruolo incarnato, sia pure in modo apparentemente realistico, da Naphta, il gesuita non consacrato, fanatico e oscurantista, il quale preconizza e auspica l’alleanza del comunismo della chiesa primitiva con il comunismo marxista–leninista, promotore di un totalitarismo assoluto fondato sul terrore e sullo sterminio di massa: egli riesce a sedurre solo in parte Giovanni Castorp, assai più attratto invero da Lodovico Settembrini.

21 K. WEISINGER, Distant Oil Rigs…, cit., pp. 206–208 reperisce con pazienza e molto acume diverse altre, meno importanti, implicazioni insite nel nome Naphta (lo studioso, come si è già avvertito, non si avvede però delle implicazioni bibliche). Sul personaggio cfr. anche S. CERF, Thomas Mann’s Leo Naphta: Echoes of Brandesian Intellectual History and Biography, Seminar «A Journal of Germanic Studies», XXV–1989, fasc. 3, pp. 223–240.

22 Cfr. M. LÖWY, Lukács et ‘Leon Naphta’: L’Enigme du Zauberberg, «Études Germaniques», XLI–1986, fasc. 3 (n. 163), pp. 318–326 e H. FEHERVARY, Regarding the Young Lukács or the Powers of Love: Anna Seghers and Thomas Mann, «New German Critique: An Interdisciplinary Journal of German Studies», (XCV), 2005, pp. 81–92.

23 Cfr. M. LÖWY, Naphta or Settembrini? Lukács and Romantic Anticapitalism, «New German Critique: An Interdisciplinary Journal of German Studies», (XLII), 1987, pp. 17–31 e A. GRENVILLE, Linke Leute von rechts': Thomas Mann’s Naphta and the Ideological Confluence of Radical Right and Radical Left in the Early Years of the Weimar Republic, «Deutsche Vierteljahrsschrift fur Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», LIX–1985, fasc. 4, pp. 651–675.

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dall’iniziale idealismo etico all’accettazione piena e attiva del terrore rivoluzionario». Lukács, per venire a patti con la propria coscienza, ricorre in modo rigido (secondo Strada invece «splendido e terribile») alla crudeltà fanatica, intesa alla lettera, della Thorà o di AT: «Vivendo il comunismo come problema morale Lukács nel 1919, nell’articolo Tattica e etica, pone e risolve, a suo modo, il problema del terrorismo rivoluzionario, dell’imperativo rivoluzionario “tu devi uccidere!”, sentito da lui, a differenza della più parte dei suoi compagni di partito, come flagrante violazione dell’imperativo religioso “non uccidere!” ». La contraddizione per Lukács «si scioglie in un modo tipicamente russo, nello spirito del terrorismo rivoluzionario “classico”, del quale Savinkov, con tanti altri conterranei, era stato l’espressione: il terrrorista, uccidendo, “sacrifica per i suoi fratelli non solo la sua vita, ma anche la sua purezza, la sua morale, la sua anima». Il terrorista (cioè Lukács) sa bene «di commettere un crimine e non ha alcun dubbio che “in nessuna circostanza l’omicidio deve essere approvato”, ma sa anche che esso, tuttavia, “può avere tragicamente una natura morale».

Mi compete, per dovere scientifico, l’obbligo di precisare che, contrariamente a quel che pensa Strada, l’ironico e scettico Thomas Mann ― genio dotato di finissimo senso morale: un senso morale che per pudore l’artista nascondeva sotto la maschera dell’ironia ―, non si lasciò gabbare né dalla intellettualistica magniloquenza de L’anima e le forme, né, tantomeno, da Storia e coscienza di classe. Sono, questi, libri assai lontani dai problemi concreti dell’uomo e vicinissimi invece: 1) al narcisismo delle pur riprovate anime belle e, come voleva la moda di allora ― che aveva lontana origine hegeliana, certo ―, anche scisse; 2) alla volontà di potenza degli “intellettuali” che capeggiavano i movimenti rivoluzionari marxisti.

La coscienza critica e la coscienza morale di Thomas Mann smascherano il legame tra i promotori delle ideologie del terrore e la décadence: non certo a caso Naphta ― malgrado il proclamato e conclamato ordine politico–religioso integralmente comunista, da fondare sul terrore ― vive, a Davos, in un appartamento arredato con lusso quasi sfrenato, sibaritico, dannunziano, insomma ultradecadente e insultante e sprezzante nei confronti della povertà materiale di tanti, anzi della massima parte degli uomini. Trattasi di un lusso perfettamente adeguato al personaggio del comunista rivoluzionario di derivazione apocalittica, la seconda bestia o il falso profeta che adombra Cesare–Nerone, ed è esotericamente figura della sede del male e del peccato, Babilonia–Roma. Dall’altro lato, con intimo collegamento ai significati esoterici or ora ricordati, Mann mette in risalto con bravura quasi prodigiosa l’intimo legame tra le forme estreme di integralismo e fondamentalismo religioso e le ideologie della uniformità e dell’uguaglianza comunistica da imporsi necessariamente mediante un ordine politico fondato sull’annientamento della dignità umana: sulla negazione del valore della vita dei singoli uomini; della loro libertà e possibilità di professare e di praticare pacificamente le loro idee, i loro valori religiosi, morali e politici; sul terrore e sullo sterminio di massa24.

È fuor di dubbio che il cognome Lukacek, già ricordato dianzi ― quello del sarto presso il quale Naphta ha preso in affitto un quartierino ―, costituisce un segnale onomastico chiamato a rivelare l’accoppiamento Lukács–Naphta. Nella casa di Lukacek, però, in un altro e assai dimesso alloggetto, abita anche, per ragioni identiche a quelle del suo rivale, Lodovico Settembrini (e qui vale il gioco onomastico–fonetico Lukacek–luce).

Lodovico Settembrini: se io fossi un critico letterario fornito di qualche conoscenza storica della letteratura italiana, del Risorgimento italiano e soprattutto del modo di lavorare di Thomas Mann, escluderei che per costruire Lodovico Settembrini Thomas Mann si sia avvalso del modesto personaggio storico Luigi Settembrini, senza dubbio nobile figura del Risorgimento. E infatti la tesi, sebbene non sia del tutto abbandonata, è oggi sostanzialmente

24 V. STRADA, E Lukács incantò Thomas Mann, sulla terza pagina dell’inserto La Cultura del «Corriere della sera» di mercoledì 31 dicembre 2003 (l’articolo, dal quale sono tratte tutte le citazioni riferite nel testo, si legge integralmente a p. 37 del quotidiano cit.). Nell’Anima e le forme l’esile pensiero di Lukács si è sostanziato elegantemente in un ermetismo che impedisce ogni comprensione certa dei contenuti proposti, talché il libro è stato uno dei modelli della grande fabbrica del vuoto degli anni ’60, ’70 e ’80 del Novecento, quando chi non aveva nulla da dire lo diceva in “ipersinistrese” rivoluzionario prendendo come modelli stilistici il succitato volume di Lukács, le parti più deboli dei libri di Adorno e Horkheimer, il volumetto di Benjamin sulle Origini del barocco tedesco, il saggio del medesimo su Goethe e via discorrendo.

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caduta in discredito25. V’è poi chi, pur ammettendo che l’enigma non si può ancóra considerare propriamente risolto, ritiene che occorra attribuire peso alla dichiarazione di Thomas Mann, invero grottesca, secondo cui egli avrebbe ignorato del tutto l’esistenza storica del patriota italiano Luigi Settembrini e avrebbe coniato il nome del suo personaggio sulla scorta della data 20 settembre. Chi si contenta gode. Ricordo che colui il quale riferì autorevolmente, con fine e scettica ironia, queste dichiarazioni a lui rese da Thomas Mann fu Benedetto Croce, nelle Annotazioni alla sua Storia d’Italia, rievocando brevemente i contenuti di una sua conversazione privata con lo stesso Mann.

A mio avviso Thomas Mann creò parallelismo e antitesi completi tra Settembrini e Naphta. Dietro il personaggio di Settembrini sta una figura storica dal calibro culturale superiore a quello di Naphta–Lukács, un umanista, un uomo saggio, un osservatore partecipe della politica che è anche uno scienziato di essa, un critico letterario, un educatore, un uomo dall’equilibrio olimpico, quasi goethiano; e del resto il personaggio è equiparato a Virgilio…

Occorre adesso ritornare indietro di parecchi anni, agli anni tra il 1902 e il 1904. Devo in questa sede dare necessariamente per scontata, ai fini dell’analisi e della sintesi che mi accingo a fornire, la conoscenza degli studi sulla letteratura italiana nel giovane Thomas Mann da me pubblicati finora, e di ciò mi scuso vivamente con il lettore 26. Punto di partenza casuale di quegli studi fu, più di dieci anni or sono, Tonio Kröger, su cui, fino alla relazione letta al Convegno Internazionale di Onomastica letteraria tenutosi in Sassari (Facoltà di Lingue e Letterature straniere moderne) nei giorni 8–10 ottobre 2008, non avevo mai né parlato in pubblico, né scritto. Rileggendo casualmente or sono diversi anni, per mio puro “diletto”, questo romanzo breve, percepii che nel nucleo più vivo e importante di esso, cioè nel lungo monologo, appena camuffato da dialogo con Lisaveta Ivanovna, in cui Tonio medesimo, tra il serio e il faceto, si paragona ad Amleto27; percepii che Tonio non si scaglia soltanto contro l’arte, contro la vocazione artistica e contro l’idea che dell’arte hanno gli uomini comuni, ma soprattutto contro un ben preciso critico e filosofo. Irritatissimo e adiratissimo, Tonio mette primamente in bocca ad Adalbert, un suo collega, l’invettiva contro la primavera:

«Dio maledica la primavera!» ha esclamato, nel suo stile aggressivo. «È veramente la più atroce delle stagioni. Ditemi un po’, Kröger, […] come potete trovare la calma necessaria a mettere a punto un tono, un effetto, quando un indecente formicolio vi sommuove il sangue e siete turbati da una folla di sensazioni fuor di luogo, che, appena esaminate, vi si rivelano subito come vergognosamente triviali e totalmente inservibili?» (TK, p. 30; tr. it., p. 85)

Tonio grida poi che l’artista non è un uomo, non è partecipe della vita reale e neppure dei sentimenti che gli uomini comuni provano nella vita reale. La letteratura non è un mestiere bensì una maledizione. L’artista è un diverso, un alienato, malgrado possegga eventualmente talento straordinario28. L’arte ha anzi una parentela stretta con l’immoralità, con l’istinto in senso stretto criminale (e qui si sente l’influsso delle teorie sul genio di Cesare Lombroso e di Max Nordau). Perché Tonio è così adirato? E contro chi? Non è improbabile che queste

25 «In 1932 Mann wrote to thank Benedetto Croce for sending a copy of Luigi Settembrini’s memoirs, remarking that “I have observed with pleasure that not only as certain likeness of viewpoint but also a similarity of characters exists between the hero of this book and my Settembrini”. It is on the basis of this letter that the editors of Mann’s correspondence have surmised that Mann actually had Luigi in mind when he created Lodovico, but Mann’s phrase is caglily and politely poised to give that impression but not to confirm it»: K. WEISINGER, Distant Oil Rigs …, cit., pp. 203–204.

26 Oltre al già menzionato capitolo III (Il Verga verista nel giovane Thomas Mann) della Parte prima del mio libro dal titolo Donne, mari, cieli…cit., si vedano gli altri miei studi: Gabriele D’Annunzio nel mondo incantato. Onomastica e altro in Thomas Mann, «Il nome del testo», VIII–2006, pp. 651–660 (full text post–print in http://air.unimi.it); Verga e i suoi autori nel giovane Thomas Mann. Nomi, gioco, parodia in Luischen e in Anekdote, ivi, IX–2007, pp. 247–254 (full text post–print in: http://air.unimi.it/); Verga nel Thomas Mann esordiente, in Aa. Vv., Civiltà italiana e geografie d’Europa, a cura di B.M. da Rif, Trieste, Edizioni Università di Trieste 2009, pp. 106–108 ((full text post–print in: http://air.unimi.it/); La montagna incantata, il Purgatorio dantesco, Tonio Kröger e il misterioso Virgilio–Mentore Lodovico Settembrini, «Il nome del testo», XI–2009, pp. 411–421 (full text post–print in http://air.unimi.it).

27 Cfr. R. SYMINGTON, Tonio Kröger’s Conversation with Lisaweta Iwanowna: Difficulties and Solutions, in Aa. Vv., Approaches to Teaching Mann’s Death in Venice and Other Short Fiction, a cura di B. Jeffrey, New York, Mod. Lang. Assn. of Amer. 1992, pp. 126–133.

28 F. CERCIGNANI, Rileggendo il Tonio Kröger, «Studia Theodisca», X–2003, pp. 51–81.

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domande vengano rintuzzate o ribattute così da lettori competenti di TK: “è una invenzione senza fondamento, è una pura fantasticheria, che Tonio, e attraverso di lui Thomas Mann, ce l’abbia con una persona precisa e identificabile”. E tuttavia gli indizi in tal senso, cioè nel senso della polemica contro un ben preciso intenditore d’arte e teorico di essa, sono fortissimi nel testo, direi inequivocabili; affastelliamone alcuni:

E perché solo gli imbrattacarte credono che il creatore debba «sentire». Ogni vero e sincero artista sorride dell’ingenuità di questo marchiano errore: […]. Se quello che avete da dire vi preme troppo, se il vostro cuore palpita con troppo slancio al suo riguardo, allora potete star certa di un fiasco completo. Cadrete nel patetico, nel sentimentale; qualcosa di pesante, di goffamente serio, di non dominato, non ironico, scipito, noioso, banale, uscirà dalle vostre mani. (TK, p. 31; tr. it., p. 86; corsivo mio)29

Chi è l’imbrattacarte che ha commesso il marchiano errore di attribuire importanza ai sentimenti? Il personaggio suggella così il proprio sfogo: «Proprio così, Lisaveta: il sentimento, il caldo, cordiale sentimento è sempre banale e inservibile» (ibidem; tr. it. pp. 86–87); anzi «solo le esacerbazioni, le fredde estasi del nostro guasto sistema nervoso di “artisti” sono valide ai fini dell’arte» (ibidem; tr. it. p. 87). Il personaggio, per rincarare la dose, si ripete: «Il sano e gagliardo sentimento […] è privo di gusto. Appena diventa uomo e accessibile al sentimento, l’artista è finito» (ibidem). A quanto pare, lo sfogo di Tonio è una veemente e concentratissima confutazione della estetica delle sensazioni e del sentimento. Quale elaborazione teoretica dell’arte ne è il bersaglio principale?

Nel corso del “monologo”, tuttavia, Tonio compie, quasi senza avvedersene, virate assai brusche e nette rispetto alle convinzioni manifestate inizialmente; lo si ascolti mentre nuovamente si esprime in discorso diretto:

è innegabile che nulla è più sordo e disperato di una cerchia di cervelli fini che ne abbiano già sperimentate di tutte. Ogni conoscenza acquisita è per costoro vieta e stucchevole. Provate ad enunciare una verità la cui conquista e possesso vi rendano, forse, giovanilmente felice; uno sprezzante «hm, hm» accoglierà, per tutta risposta, le vostre scoperte da dozzina… (TK, p. 37; tr. it. pp. 92–93)

L’arte non di rado esprime delle conoscenze faticosamente conseguite dall’artista vero, conoscenze le quali rappresentano per l’artista conquiste preziose, e che tanto più da lui sono sentite come tali quanto più egli è giovane; l’acquisizione di esse ha dunque procurato all’artista piacere, gioia, addirittura felicità. Ma allora a quali «cervelli fini» si riferiscono le esacerbate parole di Tonio?

Si proceda oltre, e questi passi sono i più ambigui, perché il lettore ingenuo può credere che Tonio, con la parola «letterato» («Literat») stia definendo soltanto il poeta e lo scrittore–artista, insomma il Künstler. Egli designa anche l’artista, senza dubbio, ma la designazione è in verità duplice, e la duplicità è sicuramente intenzionale. Il termine letterato–Literat (di origine neolatina) congiunge in una sola parola ― e in ciò la lingua tedesca e la lingua italiana si comportano in modo identico ―, l’autore di poesia e di narrativa e il critico letterario. Si legga l’argomentazione di Kröger:

Quanto poi alla “parola”, forse non si tratta tanto di redimere la sensazione quanto di raffreddarla e di congelarla? Seriamente parlando, nulla di più gelido, di più indegnamente presuntuoso di questa sbrigativa, superficiale definizione del sentimento per mezzo del linguaggio letterario. Vi sentite il cuore traboccante, vi sentite troppo scossa da un’esperienza soave e sublime? Nulla di più semplice! Andate dal letterato e in un batter d’occhio tutto sarà messo in regola. Egli analizzerà il vostro caso, gli darà una formula, lo chiamerà per nome, lo esprimerà in un discorso: insomma ve lo sistemerà da cima a fondo in maniera definitiva, lo

29 «È necessario essere qualcosa di extraumano, d’inumano, è necessario trovarsi, rispetto all’umano, in una situazione stranamente lontana e distaccata, per essere in grado […] di farne oggetto di rappresentazione. Il dono dello stile, della forma, dell’espressione ha già come presupposto un simile atteggiamento freddo e schifiltoso verso l’umano, più ancora, un tal quale immiserimento e svuotamento di umanità» (TK, pp. 31–32; tr. it., p. 87).

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renderà indifferente e non pretenderà nemmeno un grazie per la sua fatica. (TK, p. 37; tr. it., p. 93)

Voi potrete tornarvene a casa alleggerita, refrigerata, schiarita [dopo il colloquio con il letterato, N.d.A.], e vi chiederete con stupore che cosa mai ci fosse in quella faccenda che ancora poco fa vi turbava con tanta dolcezza tumultuosa. E voi sul serio volete prendere le difese di codesto gelido e fatuo ciarlatano? Quello che è espresso è sistemato, tale è il suo credo. L’universo espresso significa l’universo sistemato, riscattato, eliminato… (ibidem; tr. it. p. 93)

In verità, nei due ultimi luoghi riferiti, non si sta discorrendo dell’artista, sebbene si finga che di lui pure si discorra. Nessun “uomo comune” va da un letterato a fare analizzare il proprio caso. Si sta invece discorrendo soprattutto o esclusivamente del critico: questi e questi soltanto è il bersaglio, e il referente, degli ultimi attacchi al «letterato». Non a caso, contraddicendosi, Tonio ammette ora che le opere dei letterati sono affar di sentimento. Questi sentimenti, il mondo morale dall’artista amato o odiato, le esperienze soavi e sublimi che egli, filtrandole, ha versato nella propria opera, vengono analizzati da un giudice freddo e presuntuoso, appunto lo studioso delle opere letterarie, che li definisce e li racchiude in formule pseudoscientifiche gelide, cui viene data organizzazione critico–sistematica. Anche le parole successive di Tonio ci dicono che egli sta parlando al contempo dell’artista e del suo critico, sebbene il personaggio si adoperi a intorbidare le acque. Egli infatti, mentre si sforza con accortezza di persuadere il lettore ingenuo che solo dell’artista si sta parlando, ammicca anche, intelligentemente e neppure troppo copertamente, al lettore non ingenuo. Tonio si avvale qui tra l’altro di una classica ipotesi per assurdo e cioè che a recarsi dal letterato sia, guarda caso, Lisaveta, cioè un’artista, una pittrice di talento.

Il letterato, sia l’artista sia il critico e studioso, è un ciarlatano. Ripropongo la domanda dalla quale ero partita: con quale critico e teorico dell’arte Tonio Kröger e Thomas Mann ce l’hanno in particolare? Siamo, lo si ricordi, nel 1903–1904. Conseguentemente, il lettore tedesco cólto, ma ancóra digiuno delle recenti esperienze che si facevano e si affermavano fuori di Germania, è proclive a credere che vi sia in Tonio un atteggiamento ambivalente nei confronti di Schopenhauer e di Nietzsche; in questi pensatori l’autore dei Buddenbrook aveva costantemente indicato, com’è notissimo, due delle stelle appartenenti alla costellazione triadica (la terza stella era Wagner) la quale gli consentiva di orientarsi nelle questioni teoretiche di indole estetica e morale e che gli forniva, anche, diretta ispirazione artistica30. Il sommo scrittore ha inserito nel testo indizi “forti” che spingono i lettori ingenui e medi verso Nietzsche, quelli abbastanza cólti verso la diade Nietzsche–Schopenhauer e quelli cólti verso la diade anzidetta con l’aggiunta di Gabriele D’Annunzio31.

L’indizio principale consiste nella rievocazione, all’interno del monologo, della irresolutezza stanca e della nausea del conoscere di Amleto; e poi, in modo irrelato rispetto ad Amleto ma a brevissima distanza da questo, della malvagità di Cesare Borgia. Amleto è menzionato varie volte nel capitoletto centrale del romanzo breve che si sta per ora considerando, giacché Tonio medesimo scherzosamente paragona il proprio monologo a quello del celeberrimo personaggio di Shakespeare. A mio avviso, il passo di gran lunga più significativo ai fini della presente disamina è questo che si riferisce sotto:

Ma è comprensibile che ogni tanto, malgrado tutte le delizie dell’espressione, vi succeda di averne fin sopra i capelli. […] C’è qualcosa, Lisaveta, che io definisco la nausea del conoscere; lo stato d’animo nel quale all’uomo basta vedere a fondo una cosa per sentirsi disgustato a morte (e per nulla disposto alla conciliazione): il caso di Amleto, del danese, di questo prototipo del letterato. Egli sapeva che cosa significhi essere chiamato al conoscere, senza esservi nato. (TK, p. 36; tr. it., p. 92)

30 Cfr. M. SCHRÖDER–AUGUSTIN, Décadence und Lebenswille. Tonio Kröger im Kontext von Schopenhauer, Wagner und Nietzsche, «Wirkendes Wort: Deutsche Sprache und Literatur in Forschung und Lehre», XLVIII–1998, n. 2, pp. 255–274.

31 Cfr. P.R. MICHAELSON, Erkenntnisekel and the Development of a Democratic Aesthetic in the Early Works of Thomas Mann, Dissertation Abstracts International, Section A: The Humanities and Social Sciences, LXIII–2003, fasc. 11, pp. 39–57 (Wayne State U, 2002. DA3071811).

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Tonio, con l’espressione «vi succeda» intende dire, naturalmente, “mi succeda, a me come a tutti gli artisti”. Mann tiene sicuramente presenti alcuni aforismi, non contigui ma assai vicini tra loro, che si leggono nei Supplementi al Mondo come volontà e come rappresentazione di Schopenhauer e in Al di là del bene e del male e nella Nascita della tragedia di Nietzsche. Vi campeggiano appunto Amleto, colui il cui esempio inibisce ogni azione, e Cesare Borgia, l’uomo–belva, l’animale da preda, al quale Nietzsche tributa, in polemica assai aspra con Schopenhauer, un caldo elogio.

Per il passo in cui chiama in causa Amleto e la nausea del conoscere, Mann rielabora e ricontestualizza un luogo di GTr mantenendone le espressioni letterariamente balenanti e capovolgendone il senso, ma si avvale anche, direttamente, della fonte di Nietzsche, cioè del capitolo su L’idea platonica: l’oggetto dell’arte, appartenente al Mondo come volontà e come rappresentazione. Nel detto capitolo Schopenhauer scrive:

La volontà, secondo gl’individui, appare ora più ora meno energica, ora più, ora meno accompagnata dalla ragione, ora più ora meno addolcita dalla luce della conoscenza; finché, in taluni esseri privilegiati tale conoscenza, […] vede chiaro attraverso la forma del fenomeno, attraverso il principium individuationis. Allora, […] subentra […] la perfetta conoscenza dell’essere del mondo […] che, agendo come quietivo della volontà, produce la rassegnazione, la rinunzia, non soltanto alla vita, ma alla stessa volontà di vivere. Così, nella tragedia, vediamo le creature più nobili rinunziare, dopo lunghi combattimenti e lunghe sofferenze, ai fini perseguiti con accanimento […]. Questo fa il principe Costante di Calderón; questo, la Margherita del Faust; questo, Amleto32.

Schopenhauer inoltre cita, con parole intrise di vivissima riprovazione morale o moralistica, esempi storici di uomini «crudeli» e «malvagi» che avrebbero a parer suo ereditato dal padre «spaventose caratteristiche»; egli reca tra gli altri l’esempio di Cesare Borgia: «Per parte sua, il papa Alessandro VI ebbe per figlio Cesare Borgia, orrendo ritratto del padre»33.

In GTr i pensieri di Schopenhauer sono così echeggiati e rielaborati:

L’estasi dello stato dionisiaco […] contiene infatti, mentre dura, un elemento letargico, […]. Così, per questo abisso di oblio, il mondo della realtà quotidiana e quello della realtà dionisiaca si separano. Ma non appena quella realtà quotidiana rientra nella coscienza, viene sentita con nausea come tale; una disposizione ascetica, negatrice della volontà, è il frutto di quegli stati. In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna delle cose». (GTr, p. 55; i corsivi sono nell’opera)

In JGB Amleto è una sintesi quintessenziale di quello presentato da Schopenhauer, è un “narcotico” che ai filosofi scettici, amanti del quieto vivere, piace contrapporre a quella recente e particolare forma di vitalismo pessimistico, «una nuova sostanza esplosiva», «una dinamite dello spirito»: il nichilismo. Questo propugna in modo accanito il primato del “volere per il volere”: «Contro questa specie di “buona volontà” ― la volontà di una reale, effettiva negazione della vita ― non esiste oggi, a detta di tutti, alcun altro narcotico e

32 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e come rappresentazione, cit., p. 367, ove si legge la citazione riportata nel testo.

33 Gli esempi di figure storiche, e tra esse Cesare Borgia, valgono a confermare la tesi di fondo sostenuta nel capitolo 43 dei Suppl, programmaticamente intitolato Ereditarietà delle qualità: «l’uomo erediterebbe dunque dal padre le sue qualità morali, il suo carattere, le sue inclinazioni e il suo cuore, dalla madre invece il grado, la natura e la direzione della sua intelligenza» (ivi, p. 1413). Amleto viene scelto per esemplificare e attestare il caso del conflitto tra un figlio che si è incorporato le tendenze volitive del padre, e sua madre, o meglio, il mondo morale della madre, ancorché di questa il figlio possa ereditare le inclinazioni intellettuali. Qualcosa del genere accade a Tonio Kröger, artista e figlio di una donna dal temperamento artistico che egli per primo considera focosa e scapigliata, laddove al padre, commerciante, si sente congiunto dalla serietà e disciplina nel lavoro (diverse che siano le rispettive professioni), dalla inclinazione verso la rispettabilità borghese, dal temperamento introverso e severo.

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sedativo all’infuori dello scetticismo; e persino Amleto viene oggigiorno prescritto dai medici del tempo contro lo “spirito” e il suo sotterraneo rumoreggiare» (ivi, aforisma 208: le prime due espressioni recate tra virgolette basse si leggono a p. 112 e la terza alle pp. 112–113).

Si consideri il più pregnante tra i luoghi di Nietzsche che costituiscono una aperta e violenta confutazione delle opinioni espresse da Schopenhauer intorno al grande avventuriero italo–spagnolo del Rinascimento:

Si misconosce profondamente l’animale da preda e l’uomo predatore (per esempio Cesare Borgia), si misconosce la «natura» fintantoché si continua a cercare un «carattere morboso» in fondo a queste che sono le più sane tra tutte le belve e creature tropicali, o addirittura un «inferno» concreato in loro: ed è questo che fino a oggi hanno fatto quasi tutti i moralisti. Si direbbe che nei moralisti ci sia un odio per le foreste vergini e per i tropici! […] A pro degli uomini moderati? dei «morali»? dei «mediocri»? Questo per il capitolo «morale come pusillanimità». (JGB, pp. 94–95, aforisma n. 197)

La critica tedesca ama definire certi testi narrativi di Mann, e soprattutto il Doktor Faustus, opere dalla struttura a strati. Sembra lecito applicare per comodità anche a TK questa definizione. Si è constatato che nel monologo esiste uno “strato Schopenhauer”, e che al di sopra di questo, e in corrispondenza polemica e biunivoca con esso, si trova “lo strato Nietzsche”. Allora davvero i bersagli polemici di Mann e di Tonio sono i due pensatori tedeschi? No. Essi sono maschere. Al di sotto dei due strati v’è il terzo, il più profondo e il più importante, riconoscibile dal lettore competente a prima vista (a prima lettura, sarebbe da scrivere) per il fatto che esso pure è contrassegnato dal ricorso ad Amleto e a Cesare Borgia.

3. L’Estetica di Benedetto Croce e la tormentata riflessione di Thomas Mann, nel Tonio Kröger, su cosa sia l’arte

Si leggano i luoghi, tra loro vicinissimi e intimamente implicati in Tonio Kröger, contenuti nell’opera a carattere speculativo sopra chiamata in causa, senza che mai, finora, essa sia stata non pure esaminata ma neanche nominata nel presente studio. I passi in oggetto tengono naturalmente conto di tutti quelli contenuti nelle opere di Schopenhauer e di Nietzsche ai quali anche Mann si riferisce:

Esempio di carattere economico disgiunto dal carattere morale è l’uomo del Machiavelli, Cesare Borgia, o il Jago dello Shakespeare. Chi può non ammirare la forza della loro volontà, benché l’attività loro sia soltanto economica e vada in contrario della morale? (Est1, p. 60)

L’uomo morale congiunge alla persistenza ed impavidità di un Cesare Borgia, di un Jago, o di un ser Ciappelletto, la buona volontà del santo o dell’eroe. O, per dir meglio, la buona volontà non sarebbe volontà, e, per conseguenza, neanche buona, se, oltre il lato che la fa buona, non avesse quello che la fa volontà. […]. Niente c’impedisce di pensare per ipotesi (ipotesi che spesso si verifica) un uomo affatto privo di coscienza morale. In un uomo così conformato, quella che per noi è immoralità, per lui non è tale, perché non sentita come tale. (ivi, pp. 61–62: tutti i corsivi sono nel testo)

Semplificando molto si può dire che l’autore in questione tributa egli pure un’ammirazione vivissima nei confronti della forte energia volitiva di Cesare Borgia. È sia contro Nietzsche sia contro l’ultimo autore sopra citato e contro le sue idee, da Mann invero lievemente fraintese e impoverite, che si scaglia Tonio quando, schopenhauerianamente, grida: «Ho terminato, Lisaweta. Ascoltatemi. Amo la vita: eccovi una confessione. […] Non pensate a Cesare Borgia o a non so quale ebbra filosofia che va innalzandolo sugli scudi! Per me questo Cesare Borgia è men che nulla, non ne faccio il minimo conto, e mai e poi mai

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potrò ammettere che lo straordinario, il demoniaco, vengano onorati come ideale. No» (TK, p. 38; tr. it., p. 94)34.

Quanto ad Amleto, nell’opera a carattere speculativo che è stata or ora considerata, si legge:

Quando l’uomo pratico si sente all’oscuro sopra uno o più di questi punti o quando è preso dal dubbio, l’azione o non comincia o s’arresta; e il momento teoretico che, nella rapidità del succedersi delle azioni umane, vien appena avvertito e presto dimenticato, diventa importante ed occupa più a lungo la coscienza. E se questo si prolunga l’uomo pratico può diventare Amleto, diviso tra il desiderio dell’azione e la poca chiarezza teoretica dei mezzi e degli scopi; (Est1, p. 52)

La scissione interiore, la paralisi della volontà di Amleto è determinata anche qui dal fatto che il personaggio è sinceramente attratto dalla sfera della volontà e della prassi, ma non sa precisamente quali azioni nella situazione determinata sia opportuno compiere: il dubbio esercita un’azione inibitoria, suscita lotta e contrasto tra energia teoretica ed energia pratica, e Amleto viene così chiamato al conoscere, come notava Tonio, senza esser nato per dedicarsi a ciò.

Tutti gli ultimi luoghi che ho riferito sono tratti dalla Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale pubblicata da Benedetto Croce entro fine aprile o nei primi giorni di maggio del 1902, come l’autore scrive a Karl Vossler da Napoli in data 7 giugno 1902 (cfr. CartCV, p. 18)35. Perché Tonio Kröger e Thomas Mann sono tanto adirati contro Croce? Perché a parere di questo l’arte è forma dei sentimenti e delle sensazioni dell’artista, il quale, esprimendoli, li oggettiva e li spiritualizza nell’opera d’arte. L’arte è espressione teoretica pura ed è, al contempo, catarsi delle sensazioni, dei sentimenti, delle passioni. Così negli artisti dotati si ritrovano «la massima sensibilità o passionalità, e la massima insensibilità od olimpica serenità. Entrambe le qualifiche si conciliano perché non cadono sullo stesso oggetto. La sensibilità o passionalità si riferisce alla ricca materia che l’artista assorbe nel suo organismo psichico; l’insensibilità e serenità alla forma con cui quegli assoggetta e domina il tumulto sensazionale e passionale» (Est1, p. 24). La formula di Adalbert il novelliere ripresa da Lisaveta, «indecente formicolio» di «sensazioni vergognosamente triviali» è, se eliminiamo gli aggettivi e gli avverbi, una bellissima parafrasi della espressione crociana «tumulto sensazionale e passionale».

Gli aggettivi e gli avverbi adoperati da Adalbert e da Tonio hanno come scopo, è ovvio, quello di schernire in maniera quasi insultante: 1) la funzione attribuita da Croce alle sensazioni, alle impressioni e al sentimento come materia per se stessa inerte e cieca, e tuttavia necessaria dell’arte; 2) la tesi crociana che l’artista elabora la detta materia

34 Il lettore competente, avevo scritto dianzi nel testo, si avvede sùbito che nel monologo è implicata anche una sprezzante polemica contro Gabriele D’Annunzio: nella fattispecie contro Le vergini delle rocce, romanzo di cui Mann aveva già fornito una parodia più che derisoria nel proprio romanzo breve Tristan (cfr. nota 14). Tonio, sùbito dopo avere chiamato in causa, in maniera molto emotiva, Cesare Borgia, prosegue così: «No, “la vita”, intesa quale eterno contrapposto allo spirito e all’arte, non si presenta a noi anomali come anomalia, come una visione di sanguinosa grandezza e di bellezza selvaggia; no, il regno delle nostre aspirazioni è proprio la normalità, la decenza, l’amabilità, insomma la vita nella sua banalità seducente!» (TK, p. 38; tr. it. p. 94). Le vergini delle rocce ― romanzo ove si manifesta tra l’altro viva ammirazione nei confronti di Cesare Borgia ― sono conteste di visioni di stragi dalla sanguinosa grandezza. Si legga, a preferenza di tutte le altre che si potrebbero produrre, una porzioni di testo che quasi certamente ha fornito qualche spunto alle prime frasi di Tonio citate nel testo: «Allora una vertigine repentina m’investì, che era come l’orrore d’un desiderio e d’un orgoglio troppo vasti. Si risvegliò forse nelle radici stesse della mia sostanza l’ebrietà barbarica dei lontani padri, poiché l’indefinibile turbamento si tradusse in una successione fulminea d’imagini balenanti ove io vidi uomini che mi somigliavano irrompere nella città espugnata, saltare oltre i mucchi dei cadaveri e degli arredi, affondare le spade nelle carni con un gesto infaticabile, portare in arcione le donne seminude con un gesto a traverso le lingue innumerevoli dell’incendio mentre il sangue saliva al ventre dei loro cavalli agili e crudeli come i leopardi. “Ah io avrei saputo possederti in mezzo alla strage, in un talamo di fuoco, sotto l’ala della morte!” diceva in me l’antica anima a colei che mi stava da presso. “La mia volontà avrebbe saputo costringere al prodigio il mio corpo, e io mi sarei inerpicato su per le pietre lisce di questa muraglia difesa da mille balestre e pur vivo t’avrei tolta.”» (VgR, pp. 89–90).

35 Per una dettagliata analisi critica dei molti temi insiti nell’Estetica crociana del 1902 e per la ricostruzione degli incunaboli di essa rinvio ai primi tre capitoli del mio volume Tra desiderio e realtà, già più volte citato.

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trasformandola in espressione, cioè in conoscenza compiuta seppure non intellettualistica; 3) l’altra e fondamentale tesi secondo cui l’arte è valore espressivo puro, libero da ingerenze concettuali, e volitivo–intenzionali; 4) la riaffermazione della classica persuasione circa l’arte come catarsi, purificazione dalle passioni e impressioni cieche grazie all’oggettivazione di esse (liberazione che, secondo Croce, in primo luogo sentirebbe in se stesso l’artista: cfr. Est1, p. 24); 5) l’idea, connessa organicamente a quella precedente, della creazione come gioia (cfr. ivi, p. 82). Inizialmente, come si è constatato, il giovane Thomas Mann, per bocca del suo portavoce Tonio, ribatte che la passionalità sarebbe esattamente l’opposto dello stato d’animo freddo e quasi disumano necessario all’artista per creare. Egli aderisce però immediatamente alla definizione dell’arte come espressione pura. Via via che Tonio, in modo gridato, cerca di contrapporre una filosofia dell’arte diversa rispetto a quella proposta da Croce, specie in ordine al rapporto (alla scissione) arte–vita e alla relazione (all’antitesi) tra l’artista e gli uomini comuni e normali, sia il personaggio che l’autore finiscono per accogliere e far propri tutti i princìpi basilari speculativamente argomentati dal filosofo italiano.

Malgrado le apparenze, l’adesione del personaggio ai temi propugnati da Croce è molto matura e molto meditata. Tonio finisce per ammettere senza riserve, sia pure con rabbia e sarcasmo (perché egli nell’arte e nell’artista non vede nulla di buono), che l’arte è conoscenza del mondo ed è verità (non scientifica); che la sua essenza consiste nell’esprimere; che, esprimendo, l’arte raffredda, alleggerisce, scioglie, risolve, il tumulto passionale in certa misura dell’autore e soprattutto quello dei suoi lettori–uditori–spettatori. Personaggio e autore accolgono tutti i detti princìpi tranne uno, mi vien da dire scherzosamente. A proposito del fatto che non esiste un bello naturale in sé, cioè riconoscibile universalmente come “oggettivamente” bello, e che il bello naturale è anch’esso oggettivazione espressiva di impressioni soggettive il pensatore napoletano esemplificava così: «Finanche il Golfo di Napoli ha i suoi detrattori, artisti che lo dichiarano inespressivo, preferendogli i tetri abeti, le nebbie ed i perpetui aquiloni dei mari settentrionali» (Est1, p. 106). Come non pensare alla quasi rabbiosa dichiarazione di Tonio circa la sua sazietà e anzi quasi la sua ripugnanza nei confronti dell’Italia e il suo desiderio di godere della poesia che si sprigiona dall’Europa del Nord? La bellissima descrizione del piacere che Tonio prova alla vista del Baltico, della traversata notturna verso la Danimarca, e dei venti che sollevano e fanno cozzare tra loro le onde e le spume del mare nordico sono una gara con le corrispettive descrizioni dannunziane del Mediterraneo (specie nel Piacere e nel Trionfo della morte) e recano un atteggiamento di polemico consenso rispetto all’ultima considerazione crociana che si è riferita36.

Le prime traduzioni dell’Estetica furono quella francese uscita a Parigi nel 1904 e quella tedesca, a opera di Karl Federn, uscita nel 190537. L’insigne trattato, è opportuno ricordarlo, non è affatto monumentale: 153 pagine e basta di filosofia dell’arte e dello spirito scritte in modo ben comprensibile e didascalicamente spiritoso; segue una lunga, geniale, informatissima e arida storia dell’estetica, una sorta di immensa bibliografia ragionata. Dunque TK, con sicurezza, nulla deve alle traduzioni. Se Mann aveva letto l’Estetica poteva averla letta solo in lingua italiana e per di più quando il volume era giunto da poco nelle librerie italiane.

Quanto alla prima questione, essa non pone difficoltà alcuna. La vita di Thomas Mann tra 1895 e 1902 fu contrassegnata da un quasi frenetico alternarsi di soggiorni in Italia e di periodi a Monaco: Mann abitò in Italia almeno ventiquattro mesi, diciotto dei quali in maniera continua e ininterrotta, ed ebbe la possibilità di procurarsi un’ottima conoscenza, forse passiva, della lingua italiana; era insomma perfettamente in grado di leggere Est1, libro

36 J. K. ALLEN, Tonio Kröger’s Imagined Denmark: Poeticized Reality or Decadent Fantasy?, in Aa. Vv., The Nordic Storyteller. Essays in Honour of Niels Ingwersen. Newcastle upon Tyne, a cura di S. Brantly e di T. Dubois, e con introd.di S. Brantly, England, Cambridge Scholars 2009, pp. 316–335.

37 B. CROCE, Esthétique comme science de l’expression et linguistique générale, trad. sur l’éd. it. par H. Bigot, Paris, Giard et Brière 1904 e Id., Aesthetik als Wissenschaft des Ausdrucks und Allgemeine Linguistik, trad. da K. Federn, Leipzig, Seemann 1905. Sul percorso di questa traduzione, avvenuto quasi nei modi ed entro i tempi previsti, cfr. CartCV, in particolare le lettere di Croce a Vossler da Napoli, 16 novembre 1903 (p. 36) e 19 maggio 1904 (p. 42); cfr. inoltre B. CROCE, Lettere a Giovanni Gentile (1896–1924), a cura di A. Croce, introduzione di G. Sasso, Milano, Mondadori 1981 (specie lettera da Perugia del 14 settembre 1902, p. 123, lettera da Perugia del 30 settembre 1902, p. 127, lettera s.l. (ma quasi certamente da Perugia), datata domenica 5 ottobre 1902, p. 129.

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che ― sebbene ciò non sia mai stato finora rimarcato ― trae il proprio assetto linguistico–stilistico sobriamente elegante e i propri chiarissimi princìpi espositivi soprattutto dal Mondo come volontà e come rappresentazione. Già da anni lo scrittore tedesco progettava di scrivere un’opera narrativa sul dissidio tra arte e vita e sulla maledizione che grava sull’artista, cioè sulla separatezza dell’artista dalla vita. Di quest’aspirazione è traccia anche nei carteggi. Il tema è abbozzato con palpabile insicurezza in diversi racconti antecedenti Tonio Kröger e in modo alquanto più maturo in Tristan. Senonché né Schopenhauer né Nietzsche, malgrado la copiosa dottrina estetica contenuta nelle loro opere, erano stati in grado di rispondere in maniera efficace ed esaustiva a queste semplici domande: cosa è esattamente l’arte? E che cos’è esattamente la vita individuale e sociale degli uomini? Cos’è la vita come natura e la vita come prassi? L’estetica si poneva queste domande e forniva risposte limpide ed esaustive ancorché immature: risposte straordinariamente ricche di germi, come ha notato il suo più acuto lettore e studioso. Era un libro atto a fecondare, come si diceva un tempo, una mente desiderosa di crescere e di intraprendere un difficile itinerario riflessivo oltre che artistico38.

Semmai, dunque, è da chiedersi: come poté Thomas Mann avere tanto tempestivamente notizia dell’Estetica? E come poté capire che doveva assolutamente procurarsi quel libro e leggerlo? Mann aveva lasciato l’Italia il 19 dicembre 1901 per tornare in patria e passare il Natale in famiglia. Dopo lo straordinario successo del suo primo romanzo vagheggiava di tornare stabilmente in Germania e di fissare la propria residenza a Monaco, vicino ai suoi famigliari (la madre, le sorelle e il fratello minore). Quando uscì Est1 egli si trovava ancóra in Germania, a Monaco appunto.

In data 1° agosto 1902 Vossler, con lettera inviata da Heidelberg, comunica al suo amico e sodale italiano di avere «finito adesso un resoconto abbastanza lungo della Sua Estetica, che più la leggo e più l’ammiro. […] Il mio resoconto è diventato un articolo e si stamperà in agosto o in settembre sulla Wissenschaftliche Beilage zur Allgemeinen Zeitung di Monaco, forse il meglio conosciuto giornale della Germania» (CartCV, pp. 22–23). La lunga, minuziosa, anzi dettagliatissima, e assai elogiativa recensione ― non richiesta da Croce ― in cui Vossler riassumeva molto esattamente l’Estetica uscì sulla «Beilage zur Allgemeinen Zeitung» mercoledì 10 settembre 1902: una delle più importanti riviste letterarie di Germania, dunque, che si pubblicava nella città in cui abitava Thomas Mann. Con lettera a Vossler da Perugia del 14 settembre 1902, Croce annunzia di avere ricevuto l’articolo preannunziato (CartCV, p. 24). A chi mi domandasse se lo scritto di Vossler poté eventualmente bastare a fornire l’impalcatura crociana del monologo di Tonio mi sento di rispondere che no, che quel testo non poté bastare. Bastò certamente a far comprendere a un artista che si stesse allora interrogando circa la natura dell’arte, la relazione tra l’arte e la vita, la fenomenologia del processo creativo, il rapporto tra la forma e il contenuto dell’arte e quello tra l’artista e gli uomini comuni: bastava certamente a far capire a chi si stesse interrogando su questi temi che il testo recensito da Vossler tutti li affrontava e forniva risposte per quei tempi assai anticonvenzionali, acute, suggestive, poco rispettose dell’aura fortemente romantica di cui soprattutto in ambiente germanico erano stati circonfusi il tema del bello e dell’arte.

L’editore Fischer, a séguito del successo dei Buddenbrook, aveva deciso di fare uscire entro l’autunno 1902 la raccolta dei racconti brevi già sparsamente pubblicati da Mann, che avrebbe preso il titolo dal racconto Tristan; Thomas Mann doveva tenersi pronto a correggere le bozze. Invece, il 22 agosto 1902, lo scrittore scrive a Georg M. Richter da Monaco che intende restare ancóra qualche settimana a Monaco per poi ripartire il 1° ottobre alla volta dell’Italia, destinazione Riva del Garda (BrTM, 02/31, p. 47). Il 22 settembre Mann scrive all’amico Paul Ehremberg da Monaco auspicando di poterlo incontrare insieme al fratello di lui Carl e alla propria sorella Carla prima della partenza per Riva (ibidem, 02/34). Così, alla fine di settembre del 1902, senza dare spiegazioni a nessuno, Mann ripartì per l’Italia, lasciando editore e stampatore in attesa.

Con data difficile da decifrare, ma quasi certamente 3 ottobre 1902, Thomas Mann invia una cartolina da Riva, Villa Cristoforo, a Hilde Distel a Dresda: il timbro di arrivo è del 5 ottobre 1902 (BrTM, 02/35, p. 47). A Riva lo scrittore trascorre un periodo di assai intenso

38 A. CARACCIOLO, L’estetica e la religione di Benedetto Croce, cit., p. 40 (vd., in questo tomo I, la nota 15 al cap. II della Parte seconda).

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fervore creativo. Il 16 ottobre scrive da lì a Kurt Martens raccontandogli tra l’altro che ha cominciato a comporre TK (ibidem, 02/36). Il 22 ottobre, sempre da Riva, scrive a Paul Ehrenberg che il lavoro a TK procede speditamente; egli ritiene pertanto che la progettata raccolta Tristan (quella che doveva riunire tutti i racconti da lui finora composti), potrà uscire entro gennaio–febbraio 1903 e includere il romanzo breve, la stesura del quale era ormai giunta a uno stadio avanzato (ibidem, 02/37)39.

Thomas Mann non perse più di vista le opere di Benedetto Croce, così come non rinunziò mai più all’idea che l’arte e la letteratura sono “espressione”, cioè espressione autonoma, dotata di statuto suo proprio, diversa da ogni espressione il cui fine non sia precipuamente quello artistico; egli seguì con assiduità anche i fascicoli della «Critica». Venti anni dopo la pubblicazione di TK, Benedetto Croce fornì l’ispirazione principale per la figura di Lodovico Settembrini.

Si è già scritto che il cognome Settembrini trova motivazione nel libro sacro, cioè in Ap, come testimonia il fatto che nel patronimico è iscritto il numero sette. Naturalmente l’arte della nominazione consiste nel fare confluire nel nome significati e allusioni molteplici e tra loro spesso disparate. Nel nome Lodovico Settembrini sono rappresentate almeno una volta tutte le lettere occorrenti a comporre il nome Benedetto Croce, e Mann si industria di far ricorrere più volte quelle che nel nome del sommo critico e filosofo dell’arte ricorrono più volte, quali la –e–, la –t– e la –o– (sappiamo quanta importanza De Saussure abbia annesso all’anagramma anche in ordine alla nominazione). Riesce, Mann, anche a combinare la consonante –b– con la –r–, echeggiando vagamente l’unione tra –c– dura e –r– che c’è in Cr–.

Di Croce, tra l’altro, era uscito recentemente (rispetto allo Za), il volume sulla poesia di Dante, che aveva suscitato anche tra gli studiosi di area germanica un vespaio di polemiche. Preciso sin d’ora che Mann, nello Za, tiene però molto vicino a sé anche lo studio su Shakespeare, mentre non vi è traccia, nel magnifico romanzo, del coevo studio di Croce su Goethe. Lodovico: questo è il nome di battesimo dell’Ariosto, cui Croce, in anni molto recenti essi pure rispetto a Za aveva dedicato il suo saggio critico universalmente riconosciuto come il più condivisibile e riuscito. Lodovico: nel nome di battesimo è iscritto colui che loda Gambattista Vico; e in effetti Croce, fin dai primi del ’900, aveva indicato Vico all’attenzione della grande cultura europea presentandolo come genialissimo precorritore della filosofia storicista e romantica (qualcuno può davvero credere che il saggio di Erich Auerbach su Vico sia frutto di stimoli dalla provenienza diversa ed estranea rispetto agli studi vichiani di Croce?40).

E tuttavia, ancóra negli studi più recenti e importanti dedicati allo Zauberberg non si trova traccia della relazione tra Za e Ap, malgrado si attribuisca grande importanza al numero sette, e si accreditano interpretazioni del nome Settembrini lontanissime da quella esatta o in ogni caso assolutamente principale:

If we beginn with his name, “Settembrini” immediately reminds one of the number seven, which lies encoded in so many of the book’s details(seven tables, seven momths, Room no. 7, Room no. 34, etc.), and of the month September. His usual propaganda is an ironic September song that is filled eith an autumnal nostalgia for the Western culture he raggedly represents. Hans reminds us of this number when he makes the mistake of calling him “Herr Septem ― ” on their meeting. We know that Spenglers Decline of the West was high on Mann’s reading list while working on the earlier phases of the novel, and it is not improbable that the name is somehow intended to cast a shadow of impending decline over the tradition of Western Humanism41.

39 Cfr. anche P. DE MENDELSSOHN, Der Zauberer. Das Leben des deutschen Schriftstellers Thomas Mann, 3 Bände, Frankfurt am Main, Fischer 1991 (specie Band 2, pp. 339 ss.).

40 Cfr. E. AUERBACH, San Francesco, Dante, Vico ed altri saggi di filologia romanza, Roma, Editori riuniti 1987 (seconda edizione). Erich Auerbach fu uno dei due traduttori che primamente voltarono in lingua tedesca il volume di Croce su Vico: B. CROCE, Die Philosophie Giambattista Vicos, nach der 2. Auflage übersetzt von E. Auerbach und T. Lucke, Tübingen, J. C. B. Mohr 1927.

41 K. WEISINGER, Distant Oil Rigs and Other Erections, cit., p. 202.

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4. Da Benedetto Croce a Lodovico Settembrini, attraverso lo zio di Croce, Silvio Spaventa

Occorre mettere a fuoco per sommi capi gli aspetti della biografia di Croce, e di quelle dei suoi familiari che, insieme alla lettura dei più importanti scritti crociani, qualsiasi uomo di cultura europeo poteva nei primi anni del Novecento procurarsi con relativa facilità. Il presente studio è destinato a confluire, con il dovuto ampliamento e riordino, nella speciale monografia, che sto preparando, sulla letteratura italiana in Thomas Mann; pertanto nel presente studio esibirò sì prove ampiamente sufficienti circa la cura con cui Mann si documentò intorno alla vita di Benedetto Croce, e circa gli indizi della propria lettura di opere di Croce sparsi in Za dal sommo scrittore; ma, pur senza rinunziare del tutto a criteri “distinzionistici” e sistematici compirò questo lavoro in maniera relativamente parca42.

Il critico e filosofo napoletano “storico”, era facoltoso, a differenza di Settembrini, ma dal personaggio si sprigiona la medesima, disinvolta, non leziosa né snobistica signorilità del suo modello storico. Benedetto Croce era claudicante, perché una gamba gli era rimasta irreparabilmente offesa nel disastroso terremoto di Casamicciola del 1883, in cui perse i genitori e la sorella: significativo è che Settembrini parli sempre di propri parenti morti e mai di congiunti viventi. Mann decide di non marcare il ritratto fisico di Settembrini (a differenza di quello di Naphta); tuttavia, pur senza attribuire difetto alcuno al corpo dell’Italiano, lo fa camminare con il bastone, quasi egli avesse bisogno di appoggio ulteriore rispetto alle proprie gambe, malgrado l’ancóra giovane età. Il personaggio è assai più giovane (almeno di vent’anni più giovane) rispetto all’età di Benedetto Croce nel periodo in cui Mann riuscì, dopo la lunga interruzione determinata dalla catastrofe bellica, a lavorare con intenso fervore creativo allo Za e a portarlo a termine.

Direi che nell’aspetto esteriore, tanto parsimoniosamente accennato, il personaggio assomiglia piuttosto a Francesco de Sanctis nel periodo in cui questi lasciò Torino per la cattedra presso il Politecnico di Zurigo, periodo in cui aveva l’età di Lodovico. Croce portava i baffetti, ma, a differenza di Lodovico Settembrini e di De Sanctis nel periodo che si è detto, non li portava accuratamente arricciati all’insù. De Sanctis aveva, o aveva acquistato, tratto decisamente signorile, ma durante l’esilio recava in modo visibile nell’abbigliamento, come Settembrini, i segni della povertà. Codeste, tuttavia, sono congetture, e se si sono formulate è stato per un cedimento alla nostalgia e ai sogni. Quanto alla lingua di Settembrini, descritta e giudicata da Giovanni Castorp con accenti nello stesso tempo limitativi e derisori, eppure ricchi di ammirazione, si tratta di una delle più simpatiche ed efficaci raffigurazioni che penna d’artista abbia un poco malignamente dato della lingua splendida, tornita, fluida, elegante, aracaizzante, plastica e chiarissima di Benedetto Croce43.

La verbosità dell’Italiano suonava singolarmente piacevole nella sua purezza ed esattezza […]. Le parole uscivano nette e sonanti quasi nuovamente create dalle sue mobili labbra. Egli gustava i modi eleganti di dire, i giri di frasi agili e pungenti di cui si serviva, perfino la declinazione e la flessione delle parole, li gustava con piacere evidente che si comunicava agli altri rallegrandoli, e sembrava essere di uno spirito troppo chiaro e troppo presente a se stesso per poter commettere anche un solo lapsus linguae. ― parla in un modo così curioso, signor Settembrini, disse Giovanni Castorp, così vivace… non so come chiamarlo. ― Plastico? Replicò l’Italiano». (Za, p. 91; tr. it. vol. I, p. 71)

42 Su Thomas Mann e l’Italia si vedano frattanto: E. KOPPEN, Quest’idioma celeste…. Thomas Manns Rezeption der italienischen Sprache, «Arcadia: Zeitschrift fur Vergleichende Literaturwissenschaft», (1), 1966, pp. 192–209; I. JONAS, Thomas Mann und Italien, Heidelberg, Universitätsverlag Carl Winter 1969; J. DARMAUN, La Bohème italienne du jeune Thomas Mann, «Cahiers d'Études Germaniques», (18), 1990, pp. 161–169; H. KOOPMANN, Thomas Mann e l’Italia in una nuova prospettiva, (trad. di L. Bosco), «Belfagor. Rassegna di Varia Umanità», LX–2005, fasc. 4 (n. 358), pp. 373–392.

43 Secondo Castorp, piccato perché ha cominciato a comprendere che Settembrini non approva che egli si stia acclimatando bene “lassù”, il letterato italiano, più che ai suoi insegnamenti da pedagogo, tiene «molto invece al modo con cui fa sgorgare e scivolar giù dalla bocca le parole… elastiche, come palle di gomma […]; anch’io non mi intendo gran che di letteratura e non ho mai visto un letterato; ma se la cosa più importante non è costituita dai bei caratteri, è costituita evidentemente dalle belle parole. […] Che vocaboli adopera! Parla senza imbarazzo alcuno di virtù, ti prego!» (Za, p. 142; tr. it. vol. I, p. 113).

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La scelta del cognome del Virgilio–Mentore rinvia sicuramente al patriota Luigi Settembrini. Ma se l’anagramma è, saussurianamente, l’indicatore onomastico fondamentale (da Mann utilizzato spesso: tra l’altro in Anekdote, rifacimento di Luischen44), quasi altrettanto fondamentale è che Mann si avvalga di un classico cognome napoletano appartenuto a un patriota accesamente risorgimentista e democratico fervente. La vita di Luigi Settembrini si svolse in parallelo a quella del tutore di Benedetto Croce, Silvio Spaventa, e a essa in numerose e prolungate occasioni si intrecciò strettamente, drammaticamente e, in un momento pericolosissimo per entrambi, rocambolescamente o quasi: momento cruciale, tra tante comuni esperienze drammatiche, perché costituì uno snodo tra la vita e la morte, tra la prigionia e la libertà. Nell’Appendice al presente capitolo si trascrivono le biografie dei due uomini di cultura e patrioti, quali si leggono nell’Enciclopedia italiana. Si è ritenuto necessario, infatti, rievocare con una certa compiutezza le biografie dei due patrioti napoletani sia per evitare di forzarne l’analogia sia per evitare di sminuirla.

Ricordo fin d’ora che Luigi Settembrini fu eminentemente un democratico e che professò in gioventù idee mazziniane; Spaventa, invece, fu un liberale alquanto ibrido, sempre alieno da ogni insurrezionismo e da ogni comportamento antilegalitario. Resta il fatto che entrambi furono fautori convinti dell’indipendenza dallo straniero, dell’unificazione politica italiana, e di ordinamenti statuali antiassolutisti, liberali e democratici. Nel 1848 Luigi Settembrini, Silvio Spaventa, Cesare Braico, Filippo Agresti e altri fondarono la “Grande società dell’unità italiana”, consettario della quale fu anche Francesco De Sanctis; di essa Settembrini tenne la presidenza dal settembre di quell’anno. Sotto la restaurazione borbonica, nel marzo 1849, sia Settembrini che Spaventa furono, per le dette ragioni, arrestati e condannati a morte; la pena fu poi commutata nell’ergastolo e da ultimo nella deportazione. Durante gli anni di prigionia trascorsi sull’isola di Santo Stefano i due furono compagni di cella. Entrambi infine, nel 1859, furono avviati alla deportazione negli Stati Uniti; ma il figlio di Luigi Settembrini, Raffaele, ufficiale della marina britannica, riuscì a far dirottare la nave a Queenstown, in Irlanda, liberando così il padre, Silvio Spaventa e altri 67 condannati (“il fiore del patriottismo liberale napoletano”, come spesso è stato scritto). A chi ritenesse che evincere da tutto questo la presenza dell’ombra di Silvio Spaventa dietro quel Luigi, nonno del personaggio dello Za Lodovico Settembrini, sia mera congettura, e non interpretazione storico–critica basata sui fatti, nulla ho da replicare.

Madre di Silvio Spaventa (e del di lui noto fratello maggiore, il filosofo neohegeliano Bertrando) fu Maria Anna Croce, sorella del magistrato Benedetto Croce, nonno dell’omonimo critico letterario, storico e filosofo che divenne il massimo esponente della cultura italiana del Novecento. Questi, come già s’è scritto e come tuttavia conviene ripetere, all’età di sedici anni, dopo la morte dei suoi genitori nel ricordato terremoto di Casamicciola, fu affidato appunto alla tutela dello “zio” Silvio Spaventa.

5. L’adesione di Thomas Mann, nello Zauberberg, alla distinzione tra personalità pratica e personalità poetica

L’apporto più importante di Croce, nei suoi scritti della prima maturità, alla filosofia della poesia e dell’arte ― come si è già ricordato e come testimonia molto autorevolmente Tonio Kröger ―, fu che quest’ultima è valore espressivo puro; l’apporto più importante, tra quelli appartenenti alla piena maturità, fu invece la distinzione tra la personalità empirico–biografica dell’artista e la sua personalità poetica45. Questa distinzione poggia sulla tesi speculativa della sintesi a priori estetica di sentimento e intuizione46. La differenza tra io

44 Cfr. nota 26 al presente capitolo.45 Cfr. il paragrafo 3 del capitolo II della Parte prima ove si parla della recensione di Croce al

volumetto di Nino Abdelkader Salza, Madonna Gasparina Stampa secondo nuove indagini. Come si ricorderà, il personaggio Tonio Kröger, nel monologo, tratta inizialmente in modo sprezzante la rivalutazione crociana dell’espressione estetica come virtù rasserenatrice e liberatrice, ma infine, quasi senza avvedersene, le riconosce il carattere di qualità specifica della vera arte.

46 Per la sintesi a priori estetica di sentimento e intuizione cfr. in particolare B. C., Intuizio ne, sentimento, liricità, cit., pp. 248–253 e L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte, cit. (vd. nel

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lirico e io pratico–empirico è abbozzata nel saggio Sul carattere di totalità dell’espressione artistica (pubbl. sulla «Critica» nel 1917), poi viene elaborata teoreticamente, in modo esperto e meditato, nel primo capitolo del saggio su Shakespeare (1918–1919), capitolo intitolato appunto Persona pratica e persona poetica; infine è compiutamente sviluppata e argomentata nella Aesthetica in nuce (1928). Si è già scritto in un capitolo precedente del consenso incontrato, sul piano mondiale e presso sommi ingegni non italiani, dalla distinzione tra le due “personalità”47. Giova ripercorrere alcuni passi salienti del primo capitolo del saggio crociano su Shahespeare.

Il grande studioso avverte che «ciò che forma oggetto di studio pel critico e lo storico dell’arte, non è la persona pratica dello Shakespeare, ma la persona poetica; non il carattere e lo svolgimento della sua vita, ma il carattere e lo svolgimento dell’arte sua». Egli manifesta stima alla «naturale curiosità, che porta a ricercare che cosa fossero, nella vita pratica, gli uomini che si ammirano come poeti, pensatori, scienziati». Il desiderio di appagare tale curiosità è tanto più apprezzabile «nel caso dello Shakespeare», di un sommo artista: «piacerebbe di certo strappare il velo misterioso che sembra avvolgere la sua figura; e conoscere attraverso quali passioni ed esperienze mentali ed etiche egli passò» 48. Il sommo critico conviene che il ritrovamento e il possesso di documenti attraverso cui ricostruire la biografia extra–artistica di Shakespeare fornirebbe un aiuto concreto alla comprensione della sua arte, egli è anzi di ciò ben certo:

Se il critico e storico dell’arte conoscesse per filo e per segno la cronologia, le circostanze, l’appartenenza, le composizioni e ricomposizioni, i rimaneggiamenti e le collaborazioni dei drammi dello Shakespeare, avrebbe indubbiamente qualche maggiore agevolezza per lo studio che di essi prende a fare; e non gli accadrebbe di travagliarsi intorno a certe interpretazioni, e di restare più o meno a lungo perplesso dinanzi a certe stranezze, a certe sconcordanze, a certe disuguaglianze, perplesso cioè se siano errori d’arte ovvero forme artistiche difficili a cogliere nel loro riposto nesso interiore.

Senonché, «sfortunatamente, le tradizioni e i documenti sulla vita dello Shakespeare sono esigui, e tutti o quasi si riferiscono a particolari estrinseci e poco significanti: mancano lettere, confessioni, memorie dell’autore, e ragguagli autentici e abbondanti intorno a lui»49. Sulla scorta delle opere del sommo drammaturgo e poeta non era dato riconoscere molto più che le letture da lui compiute con particolare frutto. Valenti critici e filologi, tuttavia, hanno tentato con ogni industria ― e badando a usare la massima cautela e circospezione ― di ricostruire, «la vita, le vicende, la persona, desumendole dagli scritti»:

E, certo, tutte codeste cose è dato desumere dagli scritti di poesia, ma la vita, le vicende e le persone poetiche, e non quelle pratiche e biografiche: salvo il caso (che non è poi quello dello Shakespeare) che nelle poesie si trovino intercalati ragguagli ed escursi apertamente informativi ed autobiografici, ossia non poetici ma prosaici. In ogni altro caso, la vibrazione poetica non riconduce alla vibrazione pratica, perché il rapporto tra le due non è d e t e r m i n i s t i c o, di effetto a causa, ma c r e a t i v o, di materia a forma, e perciò incommensurabile50.

Croce conclude ribadendo che il sentimento trasfigurato in poesia, e innalzato alla cosmicità, è ormai altra cosa dal sentimento come vita pratico–empirica; il primo, e non il secondo, costituisce il contenuto formato della poesia: «Un sentimento realmente provato, nell’atto stesso che è innalzato a poesia, viene strappato dal suo terreno pratico e realistico», e

presente tomo I, nota 40 al cap. II della Parte prima)47 B. CROCE, Shakespeare, in Id., Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, Laterza, 19615 gli

spaziati sono di Croce. Cfr. il paragrafo 3 del capitolo II della Parte prima ove si parla dell’efficacia che Ernst Kris attribuiva alla distinzione crociana tra personalità empirico–biografica e personalità artistica nel caso specifico di Shakespeare, e nota 45.

48 B. CROCE, Shakespeare, cit., p. 77, da cui sono tratte le ultime quattro espressioni riferite nel testo tra virgolette basse.

49 Ivi: la citazione riportata nel testo in corpo minore si legge a p. 78 e quella tra virgolette basse a p. 80.

50 Ivi. I due ultimi passi citati si leggono a p. 83; gli spaziati sono di Croce.

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diviene, nella nuova sfera, un nucleo propulsivo che si sviluppa fino «a comporre un mondo di sogni, uno degli infiniti mondi possibili, nel quale è vano più cercare la goccia di realtà di quel sentimento, come vano è ricercare la goccia d’acqua versata nell’oceano e dalla grandezza stessa e dalla pressione dell’oceano trasformata da quel ch’era prima»51.

Si è già notato che la testimonianza più interessante e autorevole circa il favore incontrato dalla differenza tra personalità pratica e personalità lirico–poetica è appunto quella di Thomas Mann. Essa non si legge in un saggio critico, eppure fu riconosciuta e vivamente apprezzata dallo stesso Croce. Mann si è sicuramente incorporato soprattutto il primo capitolo del saggio di Croce su Shakespeare, esprimendone il sugo con originalità nel settimo paragrafo dell’ultimo capitolo (il settimo) di Za. Si legga la rappresentazione offerta dall’artista:

Giovanni Castorp era solo coi miracoli dello scrigno [un magnifico grammofono, N.d.A.] solo, fra le sue quattro pareti, con le fiorenti produzioni di quel muto piccolo sarcofago di finissimo legno, […] lasciandosi inondare dal fiume sonoro che ne sgorgava. Non vedeva i cantanti e le cantanti che udiva; la loro essenza umana viveva in America, a Milano, a Vienna, a Pietroburgo. Continuasse pure a viverci; ciò che egli aveva di loro era quanto essi possedevano di migliore, era la loro voce. Ed egli sapeva apprezzare quella purificazione o astrazione che restava abbastanza sensibile da permettergli, eliminando tutti gli svantaggi di una vicinanza personale troppo grande (specialmente trattandosi di compatrioti), un buon controllo umano. (Za, pp. 883–884; tr. it. vol. II, pp. 326–327; corsivo mio)

Nel corso della sequenza narrativa alla quale appartiene la porzione di testo sopra riferita Giovanni Castorp a un certo prende ad ascoltare «le scene finali di un’opera pomposa rigurgitante di genio melodico, opera che un gran compatriota del signor Settembrini, […], aveva creato nella seconda metà del secolo scorso» (ivi, p. 884; tr. it., vol. II, pp. 327). Il giovane ospite del sanatorio «la conosceva per sommi capi, conosceva a grandi linee il destino di Radames, di Amneris, di Aida che, dal cassettoncino, cantavano in italiano». Malgrado Giovanni possa capire solo approssimativamente e molto frammentariamente le parole pronunziate dall’«impareggiabile tenore», dal «contralto principesco dal magnifico mutamento di timbro al centro della sua estensione di voce», e dal «soprano argentino», la sua simpatia per le situazioni, che gli erano note, cresceva gradualmente diventando autentica «passione» (ivi, pp. 884–885; tr. it., vol II, pp. 327–328, da cui sono tolte le ultime espressioni riferite tra virgolette basse).

La voce narrante offre poi uno splendido riassunto parafrastico, non privo di accenti tragico–shakespeariani, dell’ultima parte dell’Aida; in esso Mann, fatto per lui inconsueto, tributa all’arte di Verdi, come si è già constatato, un omaggio colmo di ammirazione sincera e profonda. Lo scrittore tedesco, inoltre, si allontana qui recisamente dalle abitudini contratte rivaleggiando con il D’Annunzio del Trionfo della morte, il quale esegue con successo la parafrasi (oggi si direbbe la transcodificazione) dell’opera di Wagner secondo i criteri espressivi dell’arte totale: abitudini, e competizione con D’Annunzio, da Mann oggettivate rappresentativamente, p. e., nei capitoli finali dei Buddenbrook con le transcodificazioni del Lohengrin e dei Maestri cantori o in uno dei capitoli conclusivi di Tristan con la parafrasi di Tristano e Isotta. Nella parafrasi dell’Aida il canto e le note musicali sono tradotte tutte o quasi in materia verbale, ordinata secondo i criteri della dispositio e della elocutio più sobrie e squisite: si è scritto “quasi”, perché il finissimo intenditore di musica non rinunzia a esibire con leggerezza la sua cultura musicale, immensamente superiore rispetto a quella di Croce52.

Il segno acustico–musicale tuttavia, lo si ribadisca, è quasi compiutamente ricondotto al segno linguistico ed è suggestivamente sottomesso e risolto nella forma prosastico–narrativa e dialogica. A questa concentrata sintesi rappresentativa sono intercalate numerose citazioni, tratte sia dal libretto d’opera che dal canto, e riferite tra virgolette. Si tratta in sostanza di un commento al finale dell’Aida condotto con piena e anche assai commossa adesione alle migliori e più celebri parafrasi critiche di Croce: il narratore, tra l’altro, informa apertamente i

51 Ibidem.52 Cfr. almeno H. GUTMANN, Das Musikkapitel in Thomas Manns Zauberberg, «German

Quarterly», XLVII–1974, fasc. 3, pp. 415–531 e J. ACQUISTO, Music, Desire, and Death in The Magic Mountain, in Aa, Vv., Literature and Music, a cura di M.J. Meyer, Amsterdam, Netherlands, Rodopi 2002, pp. 9–21.

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lettori che quella musica, quel canto, quelle situazioni, toccavano profondamente il cuore del solitario ascoltatore Giovani Castorp.

Si leggano i passi salienti della parafrasi:

Per prima cosa Radames e Amneris venivano ad una spiegazione: la figlia del re si faceva condurre davanti il prigioniero che essa amava e desiderava ardentemente di salvare per sé, quantunque egli, in causa della schiava barbara, avesse sacrificato patria ed onore. Egli però affermava che nel profondo del suo cuore il sentimento dell’onore era rimasto immacolato. Tuttavia l’integrità della sua coscienza, che egli proclamava nonostante la colpa che gravava su di lui, gli giovò poco perché in causa del suo delitto chiaro e lampante fu sottoposto al tribunale dei sacerdoti. (Za, p. 885; tr. it., vol. II, p. 328)

I sacerdoti però «non conoscevano senso di umanità […]». La innamorata principessa «Amneris si dava un gran da fare col tenore, melodioso ma tragicamente cieco e disgustato della vita, il quale quando essa lo pregava disperatamente di rinunciare alla schiava, pena la vita, non faceva che cantare: “Non posso!” e “Invano!”» (ibidem, da cui sono tolte tutte le citazioni).

«Poi Amneris accompagnava con le sue esclamazioni di dolore le repliche di un formalismo monotono e terribile che il tribunale sacerdotale faceva cupamente echeggiare nelle profondità ed a cui lo sciagurato Radames non si interessava affatto». (ivi, pp. 885–886; tr. it., vol. II, p. 328)

«“Radames, Radames!” insisteva il Gran Sacerdote rinfacciandogli aspramente il suo delitto di tradimento». «“Discolpati!” esigevano i sacerdoti in coro». «“Radames, Radames!” tornava a ripetere il presidente del Tribunale. “Tu hai abbandonato il campo prima della battaglia”». «“Radames! Radames!” si udiva ripetere per la terza volta l’inesorabile accusatore. “Tu rompesti fede alla patria, all’onore e al re”». (ivi, p. 886; tr. it., vol. II, p. 328, ove si leggono le tre ultime citazioni)

E «Traditore! », riconobbe definitivamente il corpo sacerdotale dopo che la sua attenzione fu attratta sul fatto che Radames manteneva un assoluto silenzio. (ivi, p. 886; tr. it., vol II, pp. 328–329)

Così non si poté evitare l’inevitabile […]: egli doveva morire la morte del maledetto, doveva entrare vivo nella tomba, sotto il tempio dell’umanità irata. (ivi, p. 886; tr. it., vol. II, p. 329)

Nell’ultima scena «Radames e Aida cantavano dal fondo della loro tomba il duetto finale mentre sopra le loro teste i sacerdoti bigotti e crudeli celebravano nel tempio il loro culto, alzavano le mani e iniziavano un sordo brontolio»:

«Tu, in questa tomba?!» echeggiava la voce, veramente simpatica, dolce ed eroica ad un tempo, di Radames spaventato e inebriato… Sì, al suo fianco si trovava l’amata, per cui egli aveva rinunciato all’onore e alla vita. Essa lo aveva aspettato laggiù, s’era fatta rinchiudere con lui per morire insieme al suo amore». (ivi, pp. 886–887; tr. it., vol. II, p. 329, da cui sono tratte tutte le citazioni)

Per Giovanni Castorp «era così bello che Aida si fosse unita al perduto Radames per condividere con lui eternamente il suo destino di morte! Con ragione il condannato protestava contro il sacrificio di una vita così cara, ma il suo grido tenero e disperato: “No, no, troppo sei bella” era da attribuirsi all’estasi di un’unione definitiva con colei che mai più avrebbe sperato di rivedere»:

E i canti che essi si scambiavano a vicenda, a volte interrotti dalla cupa eco del cerimoniale che si svolgeva al piano superiore, a volte uniti ad essa, erano appunto quelli che

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avevano colpito nel più profondo dell’anima l’ascoltatore notturno e solitario. Lo avevano colpito sia per riguardo alle circostanze, sia in causa della loro espressione musicale.

In quei canti si parlava di cielo, «ma i canti stessi erano celestiali ed eseguiti in modo celestiale»:

La linea melodica che le voci di Radames e di Aida segnavano insaziabilmente prima da sole poi insieme, quella curva semplice e benedetta aggirantesi intorno alla tonica e alla dominante che dalla fondamentale saliva, per prolungarvisi, al semitono prima dell’ottava, e, dopo un fuggevole contatto con questa, si volgeva alla quinta, sembrava all’ascoltatore quanto di più trasumanato e di più ammirevole avesse udito in vita sua. Tuttavia egli non si sarebbe tanto innamorato dei suoni senza la situazione posta loro a base, situazione che rendeva tuttavia così sensibile il suo spirito alla dolcezza emanante dagli stessi. (ivi, p. 887; tr. it. vol. II, p. 329, ove si leggono i quattro ultimi luoghi citati)

Tra il sommo critico e il sommo scrittore che lo imita e si fa suo discepolo si istituisce dunque una sorta di gara. È solo il secondo, il sommo scrittore, colui che cerca la competizione–imitazione; e forse questa, all’origine, chissà, non era priva di intento giocoso e parodistico. Essa diventa in corso d’opera e rimarrà definitivamente una competizione virtuosistica, ricercata ma non artificiale, anzi autentica nella più intima sostanza come in ogni dettaglio esteriore: una gara in cui vibrano tutte le corde più elevate dell’anima del sommo artista, eccitate o sollecitate quasi fino all’ebbrezza “dionisiaca” dal contatto intimo con la musica e il canto dell’Aida. Il desiderio di parafrasarli, per istituire una competizione con Croce su una sorta di terreno adatto a entrambi ― un’opera d’arte italiana, dominio di cui Croce era il critico sovrano, ma un’opera musicale, dominio da Mann governato con competenza assai maggiore rispetto a quella di Croce ― conduce il raffinatissimo scrittore tedesco a gustare in modo speciale l’opera sontuosa e popolare: in un modo pari, questa volta, a quello con cui aveva sempre mostrato di ammirare l’arte e la musica di Wagner. Thomas Mann consegue pienamente lo scopo che si era prefissato: quello di fornire, mediante la sua parafrasi riassuntiva espressivamente magistrale, un piccolo saggio critico efficace tanto quanto quelli copiosamente forniti da Croce non solo nelle proprie opere in senso stretto critiche ma anche nei propri saggi di filosofia della letteratura: basti pensare all’analisi dell’ode di Foscolo All’amica risanata nel Breviario di estetica del 1913 oppure al commento parafrastico al Re Lear e a Macbeth nel saggio su Shakespeare.

Settembrini, del resto, fin dai primi colloqui con Giovanni Castorp, si era definito un amante della musica ma aveva convenuto di non esserne un vero intenditore; e aveva altresì precisato che i segni verbali compiutamente articolati, cioè la parola, era ed è a parer suo la «portatrice dello spirito», laddove «la musica è qualcosa di semiarticolato, è l’elemento dubbio, irresponsabile e indifferente» (Za, p. 158; tr. it., vol I, p. 126), il quale infiamma i nostri sentimenti ed eccita l’entusiasmo anziché infiammare la ragione. A questo punto il controllo sul personaggio era sfuggito un poco di penna all’autore. Settembrini era diventato portavoce di idee certo più consone a Thomas Mann ― direi a lui connaturate fin dalla prima gioventù, e sicuramente fin dai Buddenbrook ―, che non a Benedetto Croce. Lodovico aveva affermato che la musica può essere efficace all’elevazione dello spirito umano (e quindi del progresso) solo se la letteratura l’abbia preceduta: e questo, chi ben guardi, è appunto, probabilmente, il caso della musica e delle opere di Verdi, in ciò antitetiche rispetto a quelle, certo più raffinate ma anche assai più sensualistiche, di Wagner.

Thomas Mann, poi, avvalendosi di pensieri da Giovanni Castorp formulati mentre questi finisce di ascoltare l’Aida, non rinunzia a polemizzare, forse in modo ingenuo e certo con sensibilità decadente, contro la recente elaborazione teoretica crociana del carattere etico–cosmico e universalmente umano in cui si sostanzia la sintesi a priori artistica o trasfigurazione del sentimento; ingenuamente, perché la sua polemica investe situazioni, a lui evidentemente poco note, presenti proprio nella poesia italiana maggiore53.

53 Questa poesia era stata giudicata sublime da Croce, come da tutta la buona critica a lui precedente (in particolare da De Sanctis) e da tutta quella successiva. Si riduca a mente l’episodio dantesco–infernale del conte Ugolino oppure il carme foscoliano Dei Sepolcri: «Giovanni Castorp non era certo costretto a fare uno sforzo di immaginazione per capire l’estasi e la riconoscenza di Radames.

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Nel giro di pagine di Za che si stavano prima considerando, alla parafrasi dell’Aida altre ne seguono, tutte splendide. Giovanni Castorp ascolta da solo brani musicali tra loro diversi e disparati e li rivive in sé, e ne gode, e li riproduce interiormente. Le prime parafrasi successive a quella dell’opera di Verdi sono condotte con i medesimi criteri adottati per essa. Infine il narratore ritorna lentamente, e di certo intenzionalmente, alle consuetudini più congeniali all’autore, cioè alla transcodificazione fondata sulla potenza dell’istinto, quello trasmesso dal brano musicale e dalla canzone e quello puntualmente rivissuto dall’uditore. Giovanni Castorp sente tremare le proprie fibre più intime, morali, spirituali e sensuali: la canzone meravigliosa e purissima (il Tiglio di Schubert) suscita in lui l’intuizione di un amore proibito; egli avverte dubbi di coscienza circa la più o meno alta moralità del suo amore per quella canzone; infine, con morbido ma riluttante, non voluttuoso, cedimento alla temperie decadente, si rende conto che il mondo sotteso a quella canzone è la morte, e di questo gusto, di questa sensibilità, personaggio, narratore e autore danno prova anche nel finale della parafrasi dell’Aida, come si è notato.

6. Lodovico Settembrini e Benedetto Croce: antitesi e analogie politico–culturali e ideali

Sarebbe certo possibile affastellare altri elementi probatori del fatto che Lodovico Settembrini è in larga misura una libera trasposizione artistica di Benedetto Croce e della premessa, sottesa a questo dato, secondo cui Thomas Mann fu per molti anni un lettore di Croce: fatto, quest’ultimo, a dire il vero assai banale, quasi ovvio. O davvero si può ancóra credere che un sommo scrittore dal tratto fine, signorile e distaccato, dalla personalità ironica e alquanto ambigua ma sostanzialmente molto ordinata ed equilibrata, incline alla meditazione, attratto dal pensiero filosofico o filosoficheggiante, proclive a coltivare le relazioni tra arte e filosofia, tra arte e riflessione teoretica sull’arte: davvero si può credere che un siffatto scrittore nulla leggesse, tra il 1902 e il 1938 ― quando lasciò la Svizzera e l’Europa per gli Stati Uniti ―, dell’opera di uno dei maggiori talenti speculativi europei, molto legato alla cultura tedesca del periodo aureo da Kant a Goethe a Hegel, e universalmente considerato come il più importante filosofo dell’arte e critico letterario vivente? I pregiudizi sono tenaci, tenacissimi, sono come “ellera abbarbicata”, per strappare ed estirpare la quale occorrono molto tempo e molta pazienza.

Si cercherà di fornire delucidazioni ulteriori sul tema “Croce in Mann” nella preannunziata speciale monografia sulla letteratura e cultura italiana nella narrativa di Thomas Mann, con speciale riguardo a quella giovanile. Occorrerà in tale sede discorrere altresì, naturalmente, di quelli, tra gli aspetti che contrassegnano Settembrini, i quali lo allontanano maggiormente da Benedetto Croce: Settembrini non rigetta la qualifica di illuminista ed è un massone, mentre Croce aborriva l’astratto umanitarismo illuminista e la mentalità massonica; Settembrini da ultimo diventa interventista, laddove Croce non lo divenne mai, e si limitò a manifestare, negli anni della guerra, un equilibrato patriottismo, ancorché successivamente, nella Storia d’Italia, abbia velato alquanto, a parer mio in buona fede, le proprie decise convinzioni antinterventiste54.

Mi pare nondimeno doveroso cominciare a toccare sùbito i punti or ora menzionati e poi annotare qualche altro riscontro circa la trasposizione per lo più molto seria, perfino commossa, e solo a tratti ironica, di Benedetto Croce in Lodovico Settembrini. Il primo, assai evidente, indizio di ciò è il fortissimo apprezzamento di Settembrini nei confronti della poesia

Ma ciò che da ultimo egli sentiva, capiva e gustava […] era né più né meno che la vittoriosa idealità della musica, dell’arte, del sentimento umano, l’eletta e indiscutibile veste di bellezza con cui essa ricopriva la volgare bruttura delle cose reali. Bastava pensare con calma obiettività a ciò che in quel caso sarebbe avvenuto. Due sepolti vivi dovevano per forza morire là sotto insieme, o, ancora peggio, l’uno dopo l’altro, morire nelle convulsioni della fame, coi polmoni asfissiati dal gas della caverna. La putrefazione avrebbe poi eseguito sui loro corpi la sua opera indicibile fino a che, sotto la vôlta, non ci fossero più che due scheletri, ad ognuno dei quali sarebbe stato assolutamente indifferente l’essere solo o in compagnia. Questo era il lato reale e obiettivo delle cose, un lato ed una cosa a sé che l’idealismo del cuore non prendeva affatto in considerazione e che lo spirito della bellezza e della musica metteva in ombra nel modo più trionfale» (ivi, pp. 887–888; tr. it. pp. 329–330; corsivi miei).

54 Cfr. intanto V. VITIELLO, La conciencia europea ante la primera guerra mundial: Thomas Mann y Benedetto Croce, (trad. di F. Duque), «Revista de Occidente», (CLX), 1994, pp. 37–56.

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carducciana, della quale egli è a suo modo uno studioso: attaccamento che è quasi la prima notizia appresa da Giovanni Castorp sull’Italiano. Com’è notissimo, il fondamentale saggio su Carducci, esaltato da Croce come poeta più che insigne, inaugurò nel 1903 sulla «Critica» le ‘Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX’. D’indi innanzi l’Europa cólta seppe che Carducci era colui al quale Croce sempre continuò a conferire l’alloro come il poeta sommo tra quelli italiani contemporanei55. Sono menzionate in Za, e inserite nella narrazione in maniera spiritosa, tutte le parole–chiave con cui la filosofia di Croce si impose entro i primi anni del Novecento; parole poi divenute luoghi comuni banali, e che furono talvolta oggetto di beffa: malevola da parte dei “nemici” e benevolmente scherzosa da parte degli “amici”.

Prima a esser menzionata, con una certa forza, anche grafica, è l’intuizione (nella sua forma di derivazione latina), abbinata al genio. Si tratta nella fattispecie, con fine umorismo del narratore e dell’autore, di intuizione e genio affaristico, quelli del Dottor Behrens. Dice Settembrini del dottore, nel corso del primo colloquio con Castorp: «Und er habe dieses Theoremen unter die Leute zu bringen gewußt, habe popoläre Artikel darüber verfaßt und sie in die Presse lanciert. Seitdem gehe das Geschäft im Sommer so flott wie im Winter. “Genie!” sagte Settembrini. “In–tu–i–tion! Sagte er» (Za, p. 90)56. Alla parola usata, nella terminologia crociana, come significante della forma artistica dello spirito, viene conferito fortissimo risalto mediante la sillabazione grafica, ma essa in Za è usata a bella posta per qualificare la forma da essa in Croce più lontana, quella economica in senso stretto. Peraltro il dottor Behrens ― come era stato già notato nel corso della conversazione ―, è anche un artista vero e proprio; egli dipinge a olio.

Nella conversazione successiva tra i due cugini e il letterato italiano Settembrini rimprovera a Castorp di considerare la malattia come qualcosa di “distinto”, cioè di signorile (“Vornehmen”). Il termine aggettivale e participiale tedesco ― facilmente sostantivabile, come lo sono, nella lingua tedesca, tutti i participi e gli aggettivi ― per esprimere “distinto” nel senso di “diverso” (aver distinto, avere operato la distinzione, la differenza) è “verschieden”. Va da sé che l’aggettivo e il participio italiano “distinto” provengono dalla identica matrice ― distinguere nel senso di operare la distinzione, di marcare la differenza ― seppure abbiano assunto due diversi significati: il significato sinonimo di “signorile” è una espansione e derivazione dell’altro, come suole accadere. Chiunque conosca bene la lingua italiana, o anche chi non la conosca bene ma conosca bene le parole chiave della filosofia di Croce e sia uno Zauberer, un mago nella creazione dei doppi sensi, delle duplicità espressive, dei coni d’ombra semantici ben camuffati, ha buon gioco nel creare un’ambiguità espressiva forte. La prima e più certa traduzione italiana di “vornehmen” è senza dubbio “distinto”, e così traduce sempre Bice Sorteni–Giachetti in quella che è di gran lunga la migliore traduzione nella nostra lingua di un’opera di Thomas Mann, nella fattispecie, fortunatamente, della più importante: la traduzione migliore, ai limiti del miracolo, sia per la fedeltà alla lettera del testo tradotto sia per la straordinaria bellezza espressiva della versione in lingua italiana. Certo, solo una cerchia di persone davvero ristretta potevano cogliere l’ambiguità e il gioco di parole quando lo Zauberberg fu pubblicato: Croce stesso, Vossler (che nutrì sempre antipatia nei confronti di Mann, ancorché non la palesasse, forse a causa dell’ammirazione di Croce per il sommo scrittore), Auerbach… e pochi altri:

Wenn Sie Krankheit für etwas so Vornehmes und ― wie sagten Sie doch ― Ehrwürdiges zu halten scheinen, daß sie sich mit Dummheit Schlechterdings nicht zusammenreimt. Dies

55 Nell’importante saggio Di un carattere della più recente letteratura italiana, cit. (cfr. nota 26 al cap. II della Parte prima), Croce aveva distinto due periodi nella letteratura italiana recente: «il primo, […] dal 1865 al 1885 (o dal 1870 al 1890), e il secondo dal 1885 (o 1890) ai giorni nostri, che si possono riassumere e designare il primo col nome di GIOSUE CARDUCCI [sic!, N.d.A.], il secondo con la triade onomastica D’ANNUNZIO, FOGAZZARO e PASCOLI», e nel secondo periodo ravvisava un’atmosfera di insincerità e di decadenza delle anime divenuta abito costante (p. 188; i maiuscoletti sono di Croce). Aveva poi soggiunto: «L’ideale carducciano non è un ideale transitorio, ma è quello che canta nel fondo di ogni animo forte e sensibile, complesso e sereno: perciò il Carducci è nella linea della grande poesia, è un omerida» ed è una «grande persona» (p. 189 e p. 190).

56 «E seppe anche diffondere questo assioma [quello della efficacia della cura estiva, N.d.A.] fra la gente, compilando articoli redatti in stile popolare e lanciandoli per mezzo della stampa. Da quella volta l’affare procedette d’estate tal quale come d’inverno. Genio, ― concluse Settembrini. ― In–tui–zio–ne.» (tr. it., vol. I, p. 70).

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war ebenfalls Ihr Ausdruck. Nun denn, nein! Krankheit ist durchaus nicht vornehm, durchaus nicht ehrwürdig, ― diese Auffassung ist selbst Krankheit oder sie führt dazu. (Za, p. 138)57

Alla parola chiave “distinto” si accompagna naturalmente la menzione del collegamento intimo tra le categorie: «Da aber im Geistesleben alles zusammenhängt und eines sich aus dem andern ergibt» (Za, p. 139)58. Sono menzionati anche, uno per uno, i crociani concetti distinti, eventualmente attraverso piccole parafrasi e perifrasi: il lavoro, cioè la forma economica dello spirito, in tutta l’accezione che ha in effetti nel giovane Croce (il lavoro che procura la mera sopravvivenza materiale e il lavoro che dignifica e acquista onore a chi lo compie: cfr. ivi, p. 138; tr. it., vol. I, p. 110); il pensiero, la conoscenza, la riflessione, che Settembrini costantemente chiama, con ricercata inflessione neoilluministica, ragione e rischiaramento «Vernunft und Aufklärung» (ibidem); e qui ho usato una formula diversa da quella, più bella ma leggermente meno letterale, di Giachetti–Sorteni (la quale in tr. it., cit., vol I, p. 110 scrive «ragione e progresso»). Infine Settembrini nomina quasi incidentalmente la «virtù» vale a dire la forma morale dello spirito («Tugend»: cfr. Za, p. 140; tr. it., vol I, p. 111); egli la nomina all’interno di un appassionato e partecipe breve discorso su Leopardi, l’ammalato nel corpo, il quale finì per disprezzare perfino la gloria e la virtù. Senonché proprio quest’ultima parola colpisce, non favorevolmente, Giovanni Castorp. Questi confida poco dopo, riservatamente, al cugino che Settembrini gli pare semplicemente una persona la quale attribuisce la massima importanza alle belle parole: «Che vocaboli adopera! Parla senza imbarazzo alcuno di virtù, ti prego! In tutta la mia vita non ho mai avuto in bocca una parola simile» (ivi, p. 142; tr. it. vol. II, p. 113). Così il narratore procura grande risalto a una parola–chiave della filosofia pratica di Croce la quale, nel giro di pagine di Za che si stanno considerando, era rimasta seminascosta rispetto alle altre dal filosofo adoperate per denominare le categorie antecedenti la forma pratica e morale dello spirito.

L’allusione alle celebri quattro parole di Benedetto Croce è fittamente sparsa in Za, sovente, come si è scritto dianzi, per via parafrastica. Thomas Mann non rinunzia però, naturalmente, al piacere di inserire in maniera, per così dire, o debole e quasi priva di risalto, oppure semanticamente ben dissimulata, le quattro parole nella loro traduzione tedesca letterale. Si legga la porzione di discorso attribuita a Settembrini, nel corso del secondo impegnativo colloquio tra questo e Naphta al quale i due cugini assistono in modo partecipe. Nella porzione in oggetto si trovano, disposte secondo una sorta di importanza gerarchica, le categorie che costituiscono il circolo spirituale (gli aggettivi «gut, wahr und gerecht» e l’esclamazione «Schön!»):

«Sie lehren da einen pragmatismus», erwiderte Settembrini, «den Sie nur ins Politische zu übertragen brauchen, um seiner ganzen Verderblichkeit ansichtig zu werden. Gut, wahr und gerecht ist, was dem Staate frommt. Sein Heil, seine Würde, seine Macht ist das Kriterium des Sittlichen. Schön! Damit ist jedem Verbrechen Tür und Tor geöffnet, und die menschlische Wahrheit, die individuelle Gerechtigkeit, die Demokratie ― sie mögen sehen, wo sie bleiben…». (Za, p. 547; i corsivi sono miei)59.

Benedetto Croce fu dunque il personaggio storico il quale dette principalmente alimento alla raffigurazione di Lodovico Settembrini, alimento maggiore rispetto a quello dato copiosamente anche da Heinrich Mann, cui è però attribuito per molti versi un ruolo da “persona–schermo”. La “scoperta” sopra detta, nondimeno, può incontrare obiezioni non spregevoli, per la ragione, inoppugnabile, che tra il filosofo e letterato storico e quello

57 «Comincia quando sembra considerare la malattia come qualcosa di distinto e, (come ha detto?), di venerando, così che la stupidaggine non si accorda assolutamente con essa. Ebbene no! La malattia non è affatto qualcosa di distinto, non è affatto veneranda, questa concezione è malattia di per se stessa o almeno vi conduce» (tr. it., vol. I, pp. 109–110; corsivi miei, N.d.A.).

58 «Ma siccome nella vita dello spirito tutto è legato e una cosa genera l’altra» (ivi, p. 110).59 «― Lei insegna qui un pragmatismo, ― replicò Settembrini, ― che non ha bisogno se non di

essere trasportato in politica perché se ne possa constatare tutta la perniciosità. Buono, vero e giusto è tutto quanto porta vantaggio allo Stato. La sua salvezza, la sua dignità, la sua potenza sono il criterio della morale. Bello! Ma con questo è aperto l’ingresso a ogni delitto, e la verità umana, la giustizia individuale, la democrazia, mi dirà lei dove rimangono…» (tr. it., vol. II, pp. 62–63). Croce, come si ricorderà, aveva ricondotto la filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, pur riconoscendo al diritto il carattere di zona più elevata del livello economico–politico.

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“inventato” esistono divergenze assai consistenti. Queste sono riconducibile soprattutto alle opinioni politiche e morali e mai, invece, alle questioni poetico–letterarie o meglio, relative alla “filosofia della parola poetica”. Thomas Mann sapeva sicuramente di attribuire al personaggio anche ideali e idee non condivisi dall’ammirato Croce storicamente esistente. Il medesimo egli ha fatto del resto anche con Naphta, da sempre universalmente riconosciuto come una libera trasposizione di György Lukács. Naphta è anzitutto un gesuita fanatico e innamorato dei costumi e delle idee più retrive del medioevo cristiano (non di Dante, dunque!), il quale propugna il diritto della dottrina cattolica di rendere schiave le coscienze, specie quelle delle masse popolari, mantenendole nell’analfabetismo e nell’ignoranza più oscurantisti e più barbari. Lukács, malgrado il suo fanatismo da anima bella, non fu mai banditore di idee siffatte.

Direi che vi è ancóra una volta perfetto parallelismo nelle due trasposizioni. Naphta–Lukács ha anche, e forse nelle sembianze morali più visibili, i tratti or ora menzionati, lontanissimi, apparentemente, dalle convinzioni professate dal pensatore ungherese; del pari, alla sua antitesi italo–latina, portavoce nel romanzo dell’umanesimo integrale e del valore della cultura come promotrice della dignità umana e del progresso civile e sociale, cioè a Settembrini–Croce, sono state attribuite intenzionalmente da Mann, anche e soprattutto nelle parvenze più visibili, inclinazioni lontanissime rispetto a quelle apprezzate dal Croce storico. Settembrini è secondo Naphta un razionalista volterriano, poi anche un rousseauiano: l’Italiano è però molto distaccato in proposito; afferma sùbito, senza far caso alle etichette attribuitagli da Naphta, e senza vera sintonia né con Voltaire né con Rousseau, ma in perfetta sintonia, invece, con Benedetto Croce, che non esiste alcun dualismo tra natura e spirito, perché la natura è essa stessa spirito (Za, p. 514; tr. it., vol. II, p. 37). Settembrini è, per sua aperta e orgogliosa ammissione, un filo–mazziniano (attardato: insomma, fedele ai ricordi di famiglia), qualcosa dunque di ben distante dal volterrianesimo; ed è anche, contraddittoriamente, una sorta di liberale individualista. In verità Settembrini, proprio come Mazzini e al contrario di Naphta, non crede nell’uguaglianza predicata dal marxismo; al sogno della proprietà comune egli sostituisce il principio dell’associazionismo, che implica il superamento dell’egoismo individuale.

Dei tratti qualificanti Settembrini quello per certo del tutto antitetico rispetto alle idee e alle inclinazioni sempre professate da Croce, in ogni momento della sua vita ― e a prescindere dalle fitte e continue modificazioni che egli via via impresse al suo pensiero e al suo mondo morale ―, risiede nel fatto che Settembrini è un massone convinto. Egli si adopera per l’instaurazione e per la liberazione dell’uomo dal dolore (da quello fisico e dall’infelicità morale). Egli è un pacifista, però non condanna le guerre nazionali; esse sole possono rendere le nazioni libere e uguali, possono proteggere le piccole e deboli dalla oppressione e possono rettificare i confini secondo lo spirito di nazionalità (cfr. Za, p. 523; tr. it., vol II, p. 45). Settembrini crede e spera che una società mondiale dei massoni potrà contribuire fattivamente a instaurare la pace perpetua e la repubblica universale degli uomini, della quale l’avvento di stati nazionali è la premessa. Da ultimo, quando si cominciano ad avvertire i venti di guerra, egli finisce lentamente, e ancóra una volta un pochino contraddittoriamente, se così piace, per abbracciare una posizione filointerventista.

Croce medesimo, nelle Annotazioni alla Storia d’Italia, che volle aggiungere nelle edizioni successive alla prima a mo’ di glosse o chiose a punti particolarmente importanti dei singoli capitoli, ricorda con compiacimento e approvazione la figura di Lodovico Settembrini, da essa prendendo con misura le distanze riguardo a ideali specifici che ormai la sua mente e il suo cuore non stimavano tra quelli da riprovare in modo speciale: «Nel recente romanzo di THOMAS MANN, Der Zauberberg (1924), il tipo dell’italiano illuminista, democratico, interventista è rappresentato nel modo più serio e nobile dal personaggio al quale l’autore dà il nome di “Settembrini”»60. Per un verso Croce in tal modo accenna delicatamente i punti nei quali gli era impossibile rispecchiarsi in Settembrini; per altro verso, assai più importante, il personaggio di Thomas Mann, nel quale egli aveva potuto riconoscere una ironica, garbata e nobile trasposizione di se stesso, valeva a giustificare la tesi, sostenuta nella Storia d’Italia, per cui egli sfumò vistosamente il conflitto ideale interno (“domestico”)

60 Cfr. Storia d’Italia, cit., p. 321, ove si leggono le espressioni riferite nel testo tra virgolette basse.

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tra interventisti e antinterventisti alterando così leggermente i fatti, cioè le posizioni degli schieramenti etico–politici in Italia, limitatamente al conflitto in questione.

Non si tratta di alterazione intenzionale e neppure volta ad autogiustificarsi, tutt’altro. Semplicemente, la intensa e sia pure molto civile partecipazione alla propaganda patriottica, l’incoraggiamento ai connazionali al fronte, e il tentativo di evitare che la guerra ormai necessaria e in atto diventasse un pretesto per fomentare odio e accanimento cieco contro l’avversario portarono Croce a ricordare in maniera velata i dissidi “domestici” antecedenti l’ingresso dell’Italia in guerra e a fare battere l’accento invece sul contributo morale che alla guerra nazionale e patriottica avevano dato anche coloro i quali, in un primo tempo, erano stati antinterventisti (parola che Croce non usa, preferendole “neutralisti”). Lodovico Settembrini, deciso fautore di stampo mazziniano della pace attraverso la confederazione degli stati europei, quando i venti di guerra cominciarono a soffiare, aveva finito per abbracciare il partito della necessità e inevitabilità della guerra, pur senza rinnegare gli ideali implicitamente kantiani e apertamente mazziniani: nella guerra vedeva anche la possibilità per alcuni paesi di rendersi indipendenti dal dominio straniero e di portare a termine il processo di unificazione nazionale, sia sul piano territoriale che su quello morale61.

Scrive Croce nella Storia d’Italia che «I contrarî alla guerra fuori di ogni considerazione politica, unicamente per paura della guerra, chiusi nel loro comodo e nel loro egoismo, erano certamente molti, in Italia come altrove, […] ma non contavano perché qui si discorre di coloro che politicamente pensavano, parlavano e operavano». Da tutt’altre ragioni erano mossi a parer suo i non–interventisti: «I neutralisti erano, […] nella presente questione, liberali di Destra, che non prendevano alla leggiera l’alleanza, per tanti anni mantenuta con gli imperi centrali» e «non prendevano alla leggiera la partecipazione dell’Italia a una guerra di interminabile durata e gravida di sorprese […] e soprattutto non si davano a intendere che la guerra che si combatteva fosse una chiara guerra di idee, tra regimi liberali e regimi illiberali»62. Il sommo studioso pronunzia il suo giudizio sui fautori dell’intervento in guerra dell’Italia: «Gli interventisti o liberal–democratici ragionavano diversamente, con diversi presupposti di cultura o di forma mentale, e si tenevano sicuri che si trattasse, in quella guerra, di coronare l’edifizio incompleto della indipendenza dei popoli e delle libertà interne, e che la giustizia fosse da parte dell’Intesa»; si tratta di un giudizio chiaramente positivo: «e non si può dire che avessero torto, come non si può dire che l’avessero i loro oppositori» (p. 267); come che sia, i non–interventisti, dopo la decisione governativa in favore dell’ingresso nel conflitto, finirono per amalgamarsi, a parere di Croce, agli interventisti: «la qualità affatto patriottica dell’opposizione dei “neutralisti” si mostrò allorché la guerra fu decisa e dichiarata, quando tutti essi smisero le polemiche, si sentirono tutt’uno coi loro concittadini e coi loro stessi oppositori, e aiutarono alla guerra e partirono anch’essi […] per la guerra, chiamati o volontarî, né più né meno di tutti gli altri»63.

Croce si mostrò sempre asperrimo e ostilissimo nei confronti della mentalità e delle forme da lui ritenuta massoniche del democratismo e del socialismo. L’avversione è espressa bene nella Storia d’Italia, successiva a Za, ma è manifestata a chiare lettere anche nello scritto Socialismo e massoneria, pubblicato nel 1910 sulla «Voce», come si ricorderà, e poi inserito in Cultura e vita morale (1914) con un titolo leggermente diverso, La mentalità massonica. Nello scritto in questione il sommo studioso affermava che il carattere virile e pugnace del socialismo di stampo marxista era stato infiacchito e snaturato dal “massonizzamento”64.

61 Cfr. B. THOMAS, Fragments of the Human: The Concept of Humanism in Kant, Goethe, and Thomas Mann, Dissertation Abstracts International, Section A: The Humanities and Social Sciences, LXVIII–2007, fasc. 6, 2471, Duke University, DA3269525.

62 B. CROCE, Storia d’Italia, cit.; la prima espressione riferita nel testo tra virgolette basse si legge a pp. 266, la seconda e la terza si leggono a p. 267.

63 Ivi: le prime due citazioni sono tratte da p. 267 e la terza da p. 268.64 «― Lei mi ha chiarito le ragioni della sua avversione alla mentalità massonica. Vorrebbe dirmi,

venendo all’altro termine del paragone, perché ha voluto richiamare l’attenzione sui danni che il socialismo riceve dalla massoneria? ― Gliel’ho già detto. Perché il massonizzamento del socialismo, che era così opposto alla massoneria di origini e di tendenze, nato dalla filosofia hegeliana, nutrito di realtà storica, violento, sarcastico, avverso al sentimentalismo e alle fratellanze, mi è parso un caso tipico ed estremo dell’invasione mentale massonica, della quale Dio guardi e liberi me, Lei e l’Italia»: B. C., La «mentalità massonica», cit., p. 146 (vd. nota 19 al capitolo II della Parte prima). La silloge Cultura e vita morale, si badi, non fu tradotta in tedesco prima della pubblicazione di Za. Ciò non consente di escludere categoricamente che Mann abbia avuto tra le mani, eventualmente dopo la conclusione della guerra, la prima stampa in italiano presso Laterza del volumetto (ma sarebbe stato

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Repetita juvant: nella convinta adesione e partecipazione di Settembrini alla massoneria consiste il principale dissidio tra Croce e il personaggio. Ciò è vero sia che Mann abbia avuto notizia tempestivamente dell’intervista sopra ricordata sia che egli di essa nulla abbia mai saputo. La conoscenza diretta o indiretta (da resoconti altrui) dell’intervista da parte dello scrittore tedesco costituirebbe un segnale ulteriore del suo intento giocosamente e bonariamente derisorio nei confronti di Croce. Le congetture hanno scarso valore e dunque ci si astiene dall’azzardarne; doveroso è però segnalare che se Mann, per avventura, avesse voluto informarsi intorno alle più recenti prese di posizione di Croce, ne ebbe agevole il modo durante la primavera del 1911. In quel periodo egli soggiornò per diverse settimane in Italia con la moglie Katja e il fratello Heinrich. A partire dalla terza settimana di maggio del detto anno, tra l’altro, ebbe inizio la celeberrima villeggiatura a Venezia del gruppetto, nel corso della quale Thomas concepì Der Tod in Venedig. In Settembrini, lo si è scritto e ripetuto, vi è molto anche di Heinrich Mann. La massoneria e l’idealismo mazziniano sono sì in Za un espediente divertito mediante il quale Mann prende in giro sia il fretello che il pensatore italiano; sono però altresì figura o simbolo serissimi della élite culturale sovranazionale e liberale–democratica alla quale è demandato il cómpito di creare le condizioni per la republica mondiale, opera suprema della libertà e dell’amore. È questa la legge della libertà, se è vero, come afferma Settembrini, che «la libertà è la legge dell’amore del prossimo» (Za, p. 515; tr. it. vol. II, p. 38): si tratta di un ideale che Croce abbraccerà apertamente nella Storia d’Europa, probabilmente anche per l’influenza sensibilissima su di lui esercitata da Za65.

Tutti gli altri aspetti in conflitto con le idee del Croce storico recano una costitutiva duplicità o ambiguità. Thomas Mann coglie acutamente che la filosofia pratica di Croce, tra 1914 e 1924, si evolveva rapidamente. Lungo questo percorso si ravvisavano in essa forti ondeggiamenti, i quali possono apparire e per certi versi sono effettivamente contraddittori, in linea con le convulse vicende storiche cui si riallacciano (gli ondeggiamenti in oggetto saranno partitamente trattati nel capitolo II della Parte prima del tomo II). Questi ondeggiamenti e movimenti contraddittori vengano plasmati liberamente dall’artista, forse più per virtù di coscienza spontanea che non per virtù di coscienza riflessa. Per altro verso Mann scorge quasi profeticamente alcune linee di tendenza in grazia delle quali Croce approderà ― non senza aver subìto l’influenza di Za ―, nella Storia d’Italia e soprattutto nella Storia d’Europa, a esiti da lui prima ben lontani66: la rivalutazione degli individui (cardine del pensiero liberale–democratico); il già ricordato caldo auspicio che l’utopia kantiana, e poi mazziniana, della Confederazione mondiale degli stati e della conseguente instaurazione della pace perpetua possa essere realizzata concretamente dopo il desiderato crollo delle autocrazie e il ritorno di ordini politici liberali e liberali–democratici. Entrambe queste aspirazioni, riconducibili all’irenismo del tardo Cinquecento e del Seicento, trovano una lontana origine nella Monarchia di Dante.

Il sogno di Mazzini si è attuato, oltrepassando le speranze dell’insurrezionista “visionario”; si spera che altrettanto avvenga di quello kantiano. Di più: la stesura medesima di Za abbracciò il giro di anni sopra ricordato; il romanzo fu concepito nel 1912, nel 1913 ne venne iniziata la stesura e fu portato a compimento nel 1924. Nel corso di questi dodici anni il lavoro patì frequenti e anche molto lunghe interruzioni a causa della guerra e dell’impegno patriottico di Mann67. Il personaggio di Settembrini, sebbene in esso sia ben presente anche

sufficiente, lo si ribadisca, che avesse notizia della conversazione or ora citata).65 «Se, infatti, le idee della individualità nazionale e della libertà politica avevano preso assetto

stabile nelle divisioni territoriali e negli ordini interiori di quasi tutti gli stati europei, e si attuavano nelle leggi e nel costume, assai diversamente era accaduto di un’altra conseguenza del principio di libertà, che era stata dedotta o presentita sin dall’inizio di quel movimento: l’auspicata estensione di quel principio ai rapporti internazionali, in forma di alleanza dei popoli liberi del mondo o, per stare nel pratico, di alleanza di quelli di Europa, degli “Stati uniti d’Europa”. A questo segno avava avuto sempre fiso l’occhio suo di veggente e di apostolo Giuseppe Mazzini» (B. CROCE, Storia d’Europa…, cit., p. 285).

66 Sul carattere spesso profetico della grande letteratura e poesia, cioè sulla sua capacità di dar voce e forma a desidèri e aspirazioni di uomini e di popoli prima che questi acquistino coscienza riflessa di tali sogni ed esigenze, Croce stesso si era soffermato nella Filosofia della pratica (1908), fornendo una spiegazione assai acuta di questa tendenza dell’arte alla premonizione. Per un conciso chiarimento di questo tema cfr le pp. 283–298 del mio più volte ricordato volume Tra desiderio e realtà.

67 Si vedano: E. WESSELL, Magic and Reflections. Thomas Mann’s The Magic Mountain and his War Essays, in Aa. Vv., A Companion to the Works of Thomas Mann, Rochester, a cura di H. Lehnert e

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l’attività culturale (soprattutto la filosofia estetica) di Croce fino ai primi anni ’20, risente per forza di cose e in larga misura delle opinioni morali, politiche e in certa misura anche scientifiche sul grande uomo di cultura italiano che Mann potè essersi formato entro il 1914. Per altri versi, gli ondeggiamenti e il tormentato sviluppo etico e culturale di Croce tra 1914 e 1924 si riflette a suo modo nell’analogo e sofferto sviluppo conosciuto nei medesimi anni da Mann.

L’autore di Za attribuisce a Settembrini, in modo comico e bonario, i caratteri morali e letterari che Croce, nella recensione alle Betrachtungen, aveva riconosciuto come vizi contro i quali, a buon diritto, Thomas Mann aveva esercitato una critica serratissima. È fin troppo noto e risaputo che le critiche da Croce molto apprezzate erano dirette in particolare contro Heinrich Mann. Conviene leggerle: «Il tema del libro è l’opposizione allo spirito politicien, democratico, demagogico, frasistico e letterario: tema non nuovo, ma qui sentito a nuovo e trattato con finissime osservazioni»68. Di Lodovico Settembrini viene sovente messa in caricatura da Thomas Mann anche la meridionale affettività esuberante. Per il sommo scrittore tedesco era impossibile rinunziare a un atteggiamento ironico e lievemente schernevole perfino nei confronti del personaggio romanzesco forse in assoluto più positivo che egli abbia mai plasmato e anche della persona storica, molto rispettata e ammirata, che gli fornì la materia principale per quello. Thomas Mann attribuì sì al personaggio anche aspetti a Croce assai antipatici, nella fattispecie lo spirito politicien, democratico, un po’ demagogico, frasistico e letterario; prevale di gran lunga, però, nell’assai plastica raffigurazione di Lodovico, l’aspetto del Virgilio–Mentore saggio, equilibrato, coltissimo, straordinariamente intelligente e beneficamente sollecito delle sorti del suo discepolo e dell’umanità intera, tutte qualità che all’epoca della stesura del romanzo Thomas non avrebbe ritenuto proprie del fratello Heinrich.

Ciò posto ― si potrebbe obiettare ―, non sono stati menzionati in maniera esaustiva tutti gli aspetti di Settembrini più lontani dagli abiti mentali e dalle credenze del Croce persona storica, quali il massimo uomo di cultura italiano del Novecento li aveva palesati alla intellighenzia italiana ed europea tra 1914 e 1924. In particolare, è stato trascurato un aspetto dalla importanza pari all’aborrimento di Croce nei confronti della massoneria e della mentalità massonica: Settembrini (come Heinrich Mann, verrebbe da scrivere) è anche un socialista; Settembrini è anzi un “socialista massonizzato”, il quale ha abbracciato un filantropismo nobilissimo, venato d’utopia eppure tutt’altro che privo di realismo nel modo di giudicare sia la convenienza politica del momento sia di scorgere le istanze ideali non attuabili nel presente ma gravide di futuro e benefiche per l’umanità; è un socialista anticomunista, mazzinianeggiante, proclive all’ateismo e vicino alle grandi correnti spirituali dell’idealismo europeo ottocentesco. Naphta medesimo taccia di egualitarismo rousseauiano l’amico e rivale perché gli erano ben note, in verità, le idee socialiste dell’altro. Ora, Croce, fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, ebbe fama in Europa di essere vicino, molto vicino al socialismo revisionista prima (alla Bernstein, per capirsi) e al nuovo socialismo coincidente con il sindacalismo più o meno rivoluzionario poi.

Questo è risaputo, ma non è tutto. Nelle due interviste rilasciate nel 1910 e nel 1911 Croce sosteneva che l’ugualitarismo puro aveva da gran tempo rivelato il suo volto astratto e antistorico e che la classe operaia ― la quale avrebbe dovuto, secondo Marx, sostituire la vecchia borghesia ―, si era andata felicemente integrando nel mondo moderno. A ben guardare, erano giudizi che, presi alla lettera e nel loro valore puramente storico–teorico, Mazzini avrebbe in fondo potuto condividere; tanto più che Croce tesseva conclusivamente grandi elogi del contributo, rilevante, che il socialismo moderno e storico aveva apportato al progresso in genere e alla promozione di una società, se non “buona”, certo migliore di quella antecedente la rivoluzione industriale. Gli elogi concernevano in particolare il mantenimento

di E. Wessell e con introd. di H. Lehnert, NewYork, Camden House 2004, pp. 129–145; J. MEYERS, National Stereotypes in Mann’s The Magic Mountain, «Notes on Contemporary Literature», XXXV–2005, fasc. 1, pp. 2–4; D. HOLMES, Politisierung eines Unpolitischen? Thomas Mann and Socialism, 1918–1933, «Oxford German Studies», XXXIV–2005, fasc. 2, pp. 189–196; M. RUPPRECHT, Thomas Mann und Ernst Jünger, «Wirkendes Wort: Deutsche Sprache und Literatur in Forschung und Lehre», XLVI–1996, fasc. 3, pp. 411–423.

68 La recensione di Croce alle Betrachtungen uscì sulla «Critica», XVIII–1920, pp. 182–183, con il titolo Le considerazioni di un non–politico. Le parole riferite nel testo tra virgolette basse si leggono a p. 182.

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della pace tra i popoli, la legislazione del lavoro; l’elevamento intellettuale della classe operaia, la diffusione di un senso concreto della realtà sociale, il risveglio antipositivistico degli studi storici ed economici e via discorrendo. Tutto ciò rende molto difficile asserire che Mann abbia presentato un Settembrini–Croce filomazziniano perché le due celebri interviste pubblicate primamente sulla «Voce» e sul «Giornale d’Italia» gli erano sempre rimaste ignote69.

C’è di più: chi avesse seguìto con particolare attenzione l’annata 1907 della «Critica» ― e fu questo, sicuramente, come si vedrà, il caso di Thomas Mann ―, non avrebbe potuto non abbracciare l’opinione che Croce, eventualmente da revisionista, tenesse di gran conto il socialismo di derivazione marxista:

Ma l’altra colpa richiederebbe l’analisi delle condizioni economiche e delle lotte sociali del secolo decimo nono, e in particolare di quel gran moto storico che è il socialismo, ossia l’entrata della classe operaia nell’agone politico. […]. Ma, sotto l’aspetto generale, la pretesa di distruggere il movimento operaio, nato dal seno stesso della borghesia, sarebbe come pretendere cancellare la rivoluzione francese, la quale creò il dominio della borghesia; anzi l’assolutismo illuminato del secolo decimottavo, che preparò la rivoluzione; e via via sospirare la restaurazione del feudalismo e del sacro romano impero, anzi addirittura il ritorno della storia alle sue origini: dove poi non so se si ritroverebbe il comunismo primitivo dei sociologi […], ma non vi si troverebbe, di certo, la c i v i l t à.

L’ipotetico, o, se così piace, ipotizzato lettore, non avrebbe potuto non ricavare l’impressione che Croce riponesse nel socialismo le proprie più concrete speranze di riforme volte a creare un ordine politico e una società, se non “ottimi”, migliori:

Chi prende a combattere il socialismo, non più in questo o quel momento della vita di un paese, ma in generale (diciamo così nella sua esigenza), è costretto a negare la civiltà, e il concetto stesso morale sul quale la civiltà si fonda. Negazione impossibile; negazione che la parola rifiuta di pronunciare, e che perciò ha dato origine agli ineffabili ideali della forza per la forza, dell’imperialismo, dell’aristocraticismo: tanto brutti che ai loro medesimi assertori non regge l’animo di proporli in tutta la loro rigidezza, e ora li temperano con mescolarvi elementi eterogenei, ora li presentano con cert’aria di bizzarria fantastica e di paradosso letterario, che dovrebbe servire a renderli accettabili70.

7. I rapporti direttamente intercorsi negli anni ’30 tra Benedetto Croce e Thomas Mann

Nel 1931, poco dopo aver licenziato la terza e la quarta serie delle Conversazioni critiche, Croce compì, con la figlia Elena, un viaggio in Germania. Nel corso di esso ebbe modo di incontrare alcune eminenti personalità della libera scienza e cultura tedesca (tra questi Simon, il Direttore della «Frankfurter Zeitung», e Einstein)71. A Monaco ― dove i Croce erano ospiti di Karl Vossler ― lo studioso italiano, nel pomeriggio del 28 settembre, ebbe un incontro con Thomas Mann, in casa di Hans Feist, il valoroso traduttore delle opere di Croce in lingua tedesca. Nelle note biografiche premesse alla traduzione italiana di parte della saggistica di Mann in una Collana dal consolidato prestigio, la quale pubblica opere di classici italiani e

69 Ho dianzi tenuto presente nel testo soprattutto la seconda intervista o conversazione, sulla Morte del socialismo.

70 B. CROCE, Di un carattere della più recente letteratura italiana, cit.; il primo passo riportato nel testo è tolto da p. 204 e il secondo dalle pp. 204–205.

71 Cenni alle conversazioni con questi Tedeschi illustri si leggono nell’articolo politico–biografico di B. CROCE, Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, datato dal suo autore Sorrento, 27 dicembre 1943 (cfr. in particolare p. 53), e raccolto ora alle pp. 43–61 di CROCE – MANN, Lettere 1930–36, Con una scelta di scritti crociani su Mann e sulla Germania, Prefazione di E. Paolozzi, nota introduttiva di E. Cutinelli Rèndina, traduzione e note di R. Diana, Flavio Pagano Editore 1991. Ancóra utile lo studio, certo datato, di A. VENTURELLI, Thomas Mann e Benedetto Croce. Un confronto tra due borghesie, «Studi Germanici», (13), 1975, pp. 333–353.

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stranieri in edizioni di lusso, si è omesso di menzionare questo incontro importante, mentre si menzionano gli incontri di Mann con György Lukács, con speciale riferimento al primo, del 1922. Il successo di Lukács, nella provincialissima Italia tra 1960 e 1995, successo del quale, dolorosamente, non c’è da andare orgogliosi, in queste pagine non è mai stato negato. L’omissione sopra menzionata sarebbe un “peccato veniale” se avvenisse in note biografiche destinate al pubblico finlandese o australiano o sudafricano, ma non lo è nel caso del pubblico europeo, americano e latino–americano; se poi si tratta addirittura del pubblico italiano, la svista è un segnale quasi inquietante72.

L’incontro Croce–Mann, infatti, in qualche modo suggellò una delle tappe qualificanti la resistenza culturale europea al fascismo, e poi, per taluni aspetti, anche al nazismo.

Tra le eccezioni al diffuso e mediocre provincialismo, figlio della subcultura sociologica, che contrassegna spesso il giudizio di studiosi italiani della cultura italiana circa la collocazione storica di Benedetto Croce nella cultura europea, si segnalano le ricostruzioni acute e attente, seppure assai stringate, dei rapporti tra Croce e Mann a partire dalla fine della prima guerra mondiale procurate da Emanuele Cutinelli Rèndina e da Arnaldo Di Benedetto73. Quest’ultimo ricorda che Croce, nella sua recensione decisamente favorevole alle Betrachtungen eines Unpolitischen (1918), cioè nel suo primo scritto intorno a un lavoro di Mann, lasciava capire che lo stato d’animo del grande Tedesco di fronte alla guerra era stato assai simile al suo74. Trascorsero tuttavia dieci anni ― nel corso dei quali fu tra l’altro pubblicato Za e conferito a Mann, nel 1929, il premio Nobel ― prima che Benedetto Croce decidesse di entrare direttamente in rapporto con Thomas Mann. Nel 1930 egli inviò all’artista tedesco una copia del proprio saggio Antistoricismo, letto il 3 settembre di quello stesso anno al settimo Congresso internazionale di filosofia in Oxford, saggio che suscitò poi anche il vivo interesse di Friedrich Meinecke75. Mann ringraziò il pensatore italiano con lettera da Monaco datata 28 novembre 1930, dal tono sinceramente riconoscente e concorde con i pensieri da Croce espressi nell’Antistoricismo, di cui l’artista aveva sicuramente compiuto un’attenta lettura76.

Nella lettera succitata lo scrittore rievocava con atteggiamenti da discepolo il suo Nietzsche, pur osservando che l’antistoricismo di questo andava ora mitigato con lo storicismo elogiato da Croce. Sappiamo con certezza (lo si è già ricordato: lo studioso italiano accenna la cosa nelle Annotazioni alla Storia d’Italia) che Croce, nel corso del suo colloquio con Thomas Mann a Monaco, gli aveva chiesto notizie circa la ideazione del personaggio di Settembrini. Mann si era però mostrato reticente; e aveva affermato di non aver mai saputo dell’esistenza del Luigi Settembrini patriota risorgimentista napoletano. Non vi è alcun dubbio, pertanto, circa il fatto che a Croce premesse molto di conoscere direttamente Thomas Mann anche per cercare discretamente di capire se lo scrittore era

72 Cfr. T. MANN, Nobiltà dello spirito e altri saggi, con un saggio di C. Magris e con introduzione di A. Landolfi, Milano, Mondadori 1997 (Collana dei Meridiani). Il primo incontro con Lukács è ricordato nella cronologia, a p. LXXX. Qui nulla si intende togliere al prestigio universalmente riconosciuto di Magris, forse il più autorevole germanista italiano e operatore culturale di frontiera tra Italia e mondo germanico. Quanto a Landolfi, il germanista che ha curato il Meridiano, egli è sicuramente un espertissimo e anzi eccellente conoscitore della letteratura tedesca e mitteleuropea; però, forse, sarebbe stato utile avvalersi anche, giacché la raccolta di saggi veniva destinata al pubblico cólto italiano, della supervisione di un italianista dalla provata e universalmente riconosciuta statura scientifico–culturale, distaccato rispetto alle ideologie e alle mode dominanti. Sicuramente assai più “veniale” la omissione, giustamente segnalata da Arnaldo Di Benedetto, che è stata compiuta da uno studioso tedesco: «Passa sotto silenzio l’incontro [con B. Croce, N.d.A.] Klaus Harpprecht nel voluminoso Thomas Mann. Eine Biographie, Rowolt, s. l. 1995, che pure menziona due volte Croce (alle pp. 527 e 536)» (A. DI BENEDETTO, Interesse di Croce per Thomas Mann: una breve intesa?, «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXV–1998, p. 353, nota 22).

73 Cfr. la bella e molto informata Nota introduttiva di E. Cutinelli–Rèndina (pp. XIII–XXV), nel pregevole opuscolo CROCE – MANN, Lettere 1930–36…, cit. e il saggio di Di Benedetto cit. alla nota precedente, pp. 341–372.

74 T. MANN, Betrachtungen eines Unpolitischen, Berlin, Fischer 1919. La recensione alle Betrachtungen è anche il secondo scritto sullo scrittore tedesco comparso in Italia di penna di un Italiano: a p. XVIII della citata nota introduttiva di E. Cutinelli Rèndina all’opuscolo CROCE–MANN, Lettere 1930–36…, cit., si legge che il primo saggio di un Italiano, Alberto Spaini, su Mann, fu pubbl. sulla «Nuova Antologia» nel 1916.

75 Cfr. A. DI BENEDETTO, Interesse di Croce…, cit., p. 351, nota 19; Di Benedetto ricorda che Meinecke fece stampare il saggio di Croce «nella traduzione tedesca di Karl Vossler, su “Historische Zeitschrift” nel 1931 (pp. 455–456)».

76 La lettera di Mann si può leggere alle pp. 3–4 del volumetto CROCE – MANN, Lettere 1930–36…, cit.

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disposto a parlargli di Settembrini. Il grande critico italiano aveva riconosciuto in Lodovico, sebbene mai abbia apertamente scritto ciò, tanta parte di se stesso: aveva il dubbio di essere stato forse l’ispiratore principale del personaggio.

Croce non si rese mai insistente e indiscreto, ancorché la genesi di Settembrini dovesse incuriosirlo parecchio. Per lasciare intendere a Thomas Mann, molto educatamente e con un pizzico di ironia, che non aveva prestato fede alla spiegazione da questo fornitagli a Monaco intorno alla genesi di Settembrini gli inviò, nel gennaio 1932, le Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini. Se Mann accusò il colpo, seppe farlo con grande signorilità e senza rinunziare al riserbo e al mistero di cui voleva che il personaggio restasse cinto. Ringraziando Croce dell’invio, gli scrisse infatti da Monaco, il 27 gennaio 1932, di avere «constatato con piacere che fra il protagonista di questo libro ed il mio Settembrini sussiste non soltanto una comunione di idee, ma anche molta affinità di carattere»77. Non è il momento di indagare se davvero vi fossero codeste affinità; conta soltanto l’assai velata ammissione che esistevano relazioni tra il Settembrini storico e quello romanzesco (la vita del primo è riepilogata nelle sue linee essenziali nell’ultimo paragrafo del presente capitolo). Non posso tuttavia astenermi fin d’ora dall’osservare che Croce ― e non trovo mai menzione di ciò negli studi attinenti i rapporti tra lui e Mann ― aveva pubblicato nel 1913 un breve e succoso profilo del patriota e letterato napoletano corredato come sempre di una completa bibliografia degli scritti di lui e degli scritti su di lui. Quel profilo sarebbe stato, da solo, più che bastevole a consentire la ideazione del personaggio discendente di Luigi Settembrini: figuriamoci poi se Mann, dopo avere probabilmente scorso il saggio, si fosse preso la briga di dare una occhiata alla bibliografia, assai agevolmente reperibile…78.

Ma l’incontro con Mann, di certo, non era stato cercato solo per questo e meno che mai principalmente per questo. Mann, si badi, è il solo grande scrittore riconducibile alla temperie culturale della “decadenza”, da lui condivisa e rispecchiata in modo sempre ironico, discreto e sobriamente elegante, al quale Croce abbia tributatato viva ammirazione e sincero consenso morale. Croce accarezzava l’idea di dedicargli la Storia d’Europa, il volume che sarebbe divenuto il principale monumento della resistenza culturale europea al fascismo. Egli desiderava capire se Mann condivideva almeno in buona misura l’opinione, in Croce divenuta ben salda, che pensieri e ideali concordi univano realmente l’uno all’altro. Lo si evince dalla lettera di Croce a Mann da Napoli, del 6 dicembre 1931, che conviene riferire per intero:

Chiarissimo Signore,Le mando, come le promisi a Monaco, la mia Introduzione alla storia del secolo XIX.

Questa storia è tutta scritta e verrà fuori nel prossimo anno e in varie lingue. Ora io le domando se Ella mi permette di dedicarla al Suo nome. Ricordo i concordi pensieri della nostra conversazione monacense, e provo il naturale desiderio d’indirizzarla a uno dei pochi (non sono molti in Europa) che coltivano ancora taluni ideali. Dalla lettura dell’introduzione Ella vedrà quale sia la linea di questa storia. Le debbo anche dire che nel corso di essa sono interpretazioni della storia prussiana, bismarckiana, treitschkiana, nazionalistica, ecc. non certamente favorevoli. Ma pensi che io mi sono educato sui libri e nel pensiero tedesco, e che molte delle mie critiche sono critiche a me stesso, alle mie idee di un tempo. E ormai tutti abbiamo fatto e facciamo il nostro esame di coscienza. La prego di porgere i miei ossequii alla Sua Signora, alla quale e a Lei anche la mia figliuola si ricorda, e mi abbia sempre

77 Cfr. ivi, p. 9. Cervellotiche alcune spiegazioni del cognome Settembrini, proposte da studiosi autorevoli: «Heilbut offers a more interesting note on the provenance of Settembrini’s name: This author recently learned that ‘Settembrini’ is Venetian dialect for the ‘September men’, the pederasts who arrive once the season is over and buy the local boys at half–price» (K. W EISINGER, Distant Oil Rigs and Other Erections, cit., p. 203). Alla tendenza di moda, malsana, di interpretare l’insieme e i dettagli delle opere narrative di Mann alla luce della assai enfatizzata omosessualità dello scrittore tedesco non reca ostacolo il fatto che il binomio Silvio Spaventa–Benedetto Croce sia nascosto e adombrato nell’altro Luigi Settembrini–Lodovico Settembrini: Settembrini, marito devoto e padre affettuoso, lasciò intuire le proprie tendenze omosessuali.

78 Cfr. B. CROCE, Luigi Settembrini, sulla «Critica», XI–1913, pp. 8–17. Il breve articolo fu ristampato nel vol. I dei saggi raccolti nella Letteratura della Nuova Italia.

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Suo B. Croce79

Con lettera da Monaco del 27 dicembre 1931, la quale costituisce il momento apicale del rapporto personale tra i due, divenuto poi più sbiadito, Mann ringrazia molto calorosamente Croce della proposta di dedicare a lui la Storia d’Europa, accetta che la Storia gli sia dedicata e giudica come un onore straordinario il fatto di ricevere tale dedica. Si leggano alcuni passi salienti:

Io non voglio parlare dell’onore che Lei mi concede con la dedica del Suo saggio, un onore che in tutto il mondo sarà sentito come qualcosa di grande e di bello, ma sottolineare la gioia suscitata in virtù di una simpatia che unisce in questi nostri tempi bui un numero di spiriti dotati di buona volontà e ben disposti verso la vita, e che nella Sua dedica si esprime con la mia inclusione in questa società spirituale. Io fui profondamente colpito dalle parole della Sua lettera, nelle quali si affermava che una buona parte della Sua critica alla storia tedesca più recente era una critica a Se stesso ed alle Sue proprie idee. Questo è esattamente il processo che anche io ho attraversato e conosciuto nel corso di quest’ultimo quindicennio […]80.

È stato universalmente ritenuto ― anche, riservatamente, da chi scrive, prima di scrutare più in profondità la questione ― che in entrambe le due prime responsive da lui inviate a Croce, e soprattutto nella seconda e più importante, Mann facesse una gaffe non lieve. Egli vi esprime infatti ossequio caldissimo al magistero di Nietzsche, il quale sarebbe stato per lui una «vissuta esperienza di formazione»; e indica precisamente in questa esperienza e in quel pensatore le più solide basi che, nell’ultimo quindicennio, lo avevano preparato alla «esperienza di un’autocorrezione e di un autosuperamento»81. Arnaldo Di Benedetto ipotizza, con prudenza ed equilibrio, che in Croce dovette esservi una «punta di perplessità nel leggere il nome di Nietzsche». Lo studioso ricorda a buon diritto che Croce aveva sì recensito assai positivamente sulla «Critica», nel 1907, la «Geburt der Tragödie, definita un “genialissimo libro”», ma successivamente e a più riprese aveva espresso forte disistima nei confronti di Nietzsche, «da lui stimato nel complesso uno scopritore di mezze verità e quindi ― come scrisse una volta ― di mezze bugie»82. A mio avviso si impone anche un altro rilievo. Mann,

79 Ivi, p. 5. Il traduttore precisa (ivi, nota 8, pp. 5–6) che la Introduzione ad una storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari, Laterza 1931 era un volumetto che comprendeva tre capitoli: I La religione della libertà, II Le fedi religiose opposte, III Il romanticismo. Essi erano stati «letti il 3 febbraio 1931 all’Accademia di Scienze morali e politiche della Società Reale di Napoli e pubblicati con il titolo Capitoli introduttivi di una storia dell’Europa nel secolo decimonono», e soggiunge: «Gli estratti si esaurirono in brevissimo tempo. Nell’Avvertenza preposta all’Introduzione Croce spiega che, pur avendo già concepito questi capitoli come parte di un’opera più estesa, si decise a preparare una seconda edizione riveduta, sia per venire incontro alla richiesta degli studiosi sia perché questi capitoli, in fondo, potevano costituire un’opera autonoma».

80 Ivi, pp. 6–7. Da un biglietto inviato da Thomas Mann a Karl Vossler in Monaco, datato 9 dicembre 1931 (cfr. BrTM, 31/162, p. 640) si evince che il primo aveva inviato la lettera di Croce al secondo, con preghiera che questi gliela traducesse. Che Mann, intorno al 1930, avesse dimenticato in gran parte la lingua italiana è possibile, se non probabile. Di certo, tuttavia, era ancóra in grado di comprendere che la lettera inviatagli da Croce era molto importante, era quasi un piccolo avvenimento storico; è quindi comprensibile che desiderasse averne una traduzione perfetta e sicura da uno dei migliori amici e discepoli dello studioso italiano (il quale era anche uno dei più reputati traduttori della persona in oggetto). Non è da escludere del tutto, però, che agisse in parte nello Zauberer un certo desiderio di depistaggio: da un lato il desiderio di allontanare dai contemporanei “attrezzati” il sospetto che egli fosse stato in grado di leggere e avesse letto effettivamente Croce in lingua italiana; dall’altro lato il desiderio di allontanare questo dubbio anche dai posteri, dai lettori futuri delle opere di Croce e delle sue. Thomas Mann sapeva bene che gli epistolari di Karl Vossler erano destinati, in futuro, alla pubblicazione e a una vasta divulgazione. Di atti di depistaggio compiuti da Thomas Mann, com’è notissimo, ne sono già stati trovati e provati parecchi.

81 CROCE – MANN, Lettere 1930–36…, cit., p. 7, da cui sono tolte entrambe le espressioni riferite nel testo.

82 A. DI BENEDETTO, Interesse di Croce…, cit., p. 358, ove si leggono le due citazioni riportate nel testo. Più reciso e cinto di minori cautele è il parere di E. Cutinelli Rèndina, nella sua nota introduttiva già citata a CROCE – MANN, Lettere 1930–36…, cit. Egli scrive: «Certo, Mann aggiungeva che in ciò un ruolo determinante lo aveva avuto per lui “la familiarità con la vita ed il pensiero di Nietzsche”: argomento che probabilmente in Croce produsse l’effetto di una stonatura, e che comunque era caratteristico di una non secondaria difformità di formazioni culturali e attitudini spirituali cui le circostanze mettevano la sordina, richiedendo piuttosto che emergessero e fossero sottolineate le molte convergenze e i consensi» (ivi, p. XV). Per un parallelo tra le posizioni dei due grandi uomini di cultura intorno a questioni divenute cruciali negli anni tra le due guerre mondiali cfr. P. CHIARINI, Benedetto

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quando doveva discorrere di se medesimo, andava da Buddenbrooks in poi quasi ossessivamente scrivendo e ripetendo ― anche nelle Betrachtungen, tra l’altro ― che alla base della sua formazione e della corda tedesca della sua anima stava una lucente costellazione triadica, formata da Schopenhauer, Wagner e Nietzsche. A Croce, in entrambe le lettere, egli menziona solo Nietzsche, come se avesse ragione di credere che Nietzsche in particolare non dovesse punto risultare sgradito al corrispondente.

Di Benedetto ha embrionalmente intuito le ragioni della gaffe di Mann, ragioni che Croce, invece, comprese benissimo, in modo limpido. L’episodio sintetizzabile nella formula “gaffe di Thomas Mann” acquista il suo significato autentico se consideriamo che fin dal 1903, dopo l’intensissimo rapporto stretto con Est1, Mann leggeva sia gli scritti teorici sull’arte che i saggi di critica letteraria di Croce. Egli aveva seguìto «La Critica», non possiamo stabilire quanto assiduamente ma di certo abbastanza assiduamente, fin dagli esordi della rivista: le biblioteche di Monaco erano abbonate alla «Critica» come si desume anche dal carteggio Croce–Vossler. Si spiega così, come si è già notato, la fortissima ammirazione di Lodovico Settembrini nei confronti di Carducci83. È da osservare, a rincalzo di tutte queste osservazioni, che ad alcuni tra i maggiori scrittori di area germanica non era sfuggito che vi erano delle affinità tra il pensiero estetico di Croce e alcune convinzioni intorno all’arte espresse da Mann negli anni della guerra84.

Croce cambiò in effetti abbastanza presto parere su Nietzsche. La lunga e molto argomentata recensione del 1907, tuttavia, è forse la più positiva, quasi entusiastica, certo enfatica attestazione di stima e di ammirazione da Croce tributata a un pensatore recente che aveva ormai acquisito gran fama. Se ne considerino alcuni lacerti:

Gli elementi interpretativi delle Origini della tragedia sono tutti nel periodo classico della letteratura e della filosofia tedesca. […] Il libro del Nietzsche è figlio legittimo del periodo goethiano: è un ultimo prodotto di quel gran movimento; venuto a luce troppo tardi (1871), in un tempo in cui il movimento era cessato e gli animi erano affatto alienati dai problemi che agitarono la generazione precedente, o meglio, antiprecedente.

Conforme alle tre serie di problemi interpretativi che ho accennato, Le origini della tragedia contengono, in primo luogo, una metafisica, cioè un tentativo di soluzione del mistero della realtà […]. In secondo luogo contengono un tentativo di storia letteraria nel più schietto stile dei primi creatori della storia letteraria in Germania: ossia fatto con una ricerca in cui la filologia serva da mero strumento per giungere alle condizioni spirituali dei tempi passati: le interpretazioni, che vi si discutono come degne di discussione, sono sempre quelle di Goethe, di Schiller, degli Schlegel; con una punta di disprezzo verso gli epigoni come il Gervinus, e con completo silenzio verso i puri filologi posteriori. Infine, in tutto lo stile, c’è del poema: le Origini della tragedia si riattaccano alla poesia del Faust.

Ne è venuto fuori un libro scientifico, sì, nell’assunto, ma circonfuso d’arte: una filosofia veramente poetica […]. Quanto al valore della interpretazione nietzschiana della storia letteraria greca, è noto che essa dette luogo a fiere polemiche tra i filologi tedeschi. E, senza dubbio, ha esagerazioni ed eccessive semplificazioni. Ma quale benefica efficacia ha esercitato o dovrebbe esercitare, ricordando alquanto bruscamente ai maneggiatori di testi che quei testi – sono anime.

Croce, Thomas Mann e a la ‘questione ebraica’, sul «Veltro. Rivista della Civiltà Italiana», XLIX–2005, nn. 4–6, pp. 198–213.

83 Gli stessi giudizi erano stati ribaditi da Croce, con pari ammirazione, nel volumetto su Carducci, che costituisce un ampliamento maturo della citata sua nota pubbl. nel 1903 e uscì esso pure nel giro di anni in cui Mann leggeva intensamente le opere recenti di Croce (come il vol. su Ariosto Shakespeare e Corneille) al fine di plasmare Settembrini: B. CROCE, Giosuè Carducci. Studio critico, Bari, Laterza 1920.

84 Cfr. R. MUSIL, Diari, tr. it. vol. I, Torino, Einaudi 1980, p. 719; Musil accenna l’Estetica di Croce anche a p. 722. Ancóra una volta Di Benedetto (Interesse di Croce…, cit., p. 347) sfuma con finezza l’importante circostanza, per il fatto che non ha le prove della lettura dell’Estetetica e di altri scritti di Croce compiuta da Mann tempestivamente e con tanto appassionato interesse, come si è constatato nei paragrafi precedenti: «Stando agli appunti di lettura di Robert Musil nelle Betrachtungen vi sarebbe qualche concordanza con Croce in materia di pensiero estetico».

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Di Hegel non sapeva nulla di preciso: quando vi accenna in qualche suo libro mostra di averne l’idea comune e convenzionale, appresa forse dallo Schopenhauer. Se l’avesse conosciuto, avrebbe trovato un suo fratello spirituale, che amò la tragedia greca, da giovane odiò appassionatamente come lui il cristianesimo preferendogli la grecità, e, come lui, fu volto a cercare una congiunzione dell’elemento apollineo col dionisiaco85.

Ancóra: Giovanni Papini aveva recensito sulla «Critica», pochi anni prima dell’intervento di Croce su Nietzsche, il volume di Francesco Orestano Le idee fondamentali di Federico Nietzsche nel loro progressivo svolgimento86. Papini affermava che Nietzsche, artista grandissimo, non era stato propriamente un filosofo sibbene un insigne moralista, e tuttavia si era espresso in maniera molto favorevole alle idee di Nietzsche. Era un ammiratore e per molti versi un seguace di Nietzsche, nei primi dodici o quindici anni del Novecento, il grande amico di Croce, Georges Sorel, a sua volta collaboratore abbastanza assiduo della «Critica». Tirando le conclusioni: chiunque avesse seguìto «La Critica» all’incirca tra 1903 e 1910 o 1914, specie dalla Germania, non poteva non essersi formato la ben salda opinione che la rivista e il suo direttore avessero riservato una molto favorevole accoglienza al pensiero di Nietzsche e volessero divulgarlo quanto più estesamente possibile in Italia. Poi vi fu la guerra, e gli scambi e i contatti tra la cultura italiana militante e la coeva cultura tedesca divennero assai più radi e difficili. Mann non si avvide tempestivamente che Benedetto Croce aveva modificato in maniera radicale le proprie opinioni sull’“immoralista” tedesco.

Presentando a Croce un “passaporto nietzscheano” il sommo scrittore era di sicuro convinto di presentare un passaporto perfettamente in regola, il migliore tra i passaporti possibili, e di offrire pertanto a Croce una ulteriore e fortissima ragione della loro concordia spirituale. Lo studioso italiano non poté non comprendere ciò perfettamente. Se per caso provò qualche forma di turbamento, questo poté risiedere solo nella constatazione che la sua recensione del 1907 aveva avuto larga diffusione ed era familiare ai grandi esponenti della cultura europea. Peraltro, impavidamente e con straordinaria onestà intellettuale, Croce raccolse a più riprese in volume (nel Saggio sullo Hegel) quel vecchio scritto, lasciandolo quasi tal quale. Attenuò cioè espressioni enfatiche di scarso buon gusto e in contrasto con la sobrietà stilistico–affettiva della sua piena maturità e vecchiaia, ma non alterò affatto la fisionomia originaria della recensione87. Le stroncature di Nietzsche e della influenza da questo esercitata furono creazioni ex novo, parallele alle ristampe della recensione primamente pubblicata nel 1907.

È stato notato che, a parte le Betrachtungen, Croce menziona nei suoi scritti due testi narrativi di Mann soltanto: Tonio Kröger e Der Zauberberg. Qualcuno si è chiesto se per caso queste non fossero le sole due opere di Mann che Croce avesse letto. Di Benedetto respinge siffatta ipotesi, ma non reca alcuna prova realmente valida, che abbia un certo peso, a sostegno della tesi che Croce avesse letto, se non tutta, almeno gran parte della narrativa manniana. È chiaro, ormai, che il problema era impostato male alla radice. Non sapremo forse mai se Croce abbia letto Buddenbrooks, Tristan (la raccolta di novelle che comprende, tra le altre, il racconto omonimo), Der Tod in Venedig, Fiorenza, Königliche Hoheit, Herr un

85 B. CROCE, rec. a ‘F. NIETZSCHE, Die Geburt der Tragödie’, cit. (vd la nota 74 nel capitolo II della Parte prima). I quattro passi riferiti nel testo si leggono rispettivamente a p 311, alle pp. 311–312, a p. 312 e a p. 313.

86 Vi si legge tra l’altro: «Ne fanno soprattutto un egoista e un immorale: ma un uomo che pensa agli altri, che vuol portare la luce agli uomini, che sogna una nuova civiltà, che fa delle profezie, che desidera la propaganda delle sue idee non può dirsi egoista ― e chi tenta di creare un nuovo tipo di morale, chi predica il rispetto dell’uomo, l’odio della menzogna, la purificazione colla solitudine, la formazione di nuovi valori non può dirsi immorale. Il suo egoismo, in fondo, ha delle forme molto altruiste e il suo immoralismo non è che il tentativo di una morale nuova. Quest’uomo, che rappresentano come il superuomo solitario ha delle mosse da pastore di popoli e tutta la sua crudeltà non è che un gradino a una pietà superiore, alla pietà della razza che s’infiacchisce e s’ammala e che ha bisogno di essere scossa e disciplinata. Egli odiava il “nihilismo europeo”» («La Critica», II–1904, pp. 63–66; la citazione è tolta da p. 65). Cfr. anche la rec.di B. CROCE a ‘G. PAPINI, Il crepuscolo dei filosofi (Kant, Hegel, Schopenhauer, Comte, Spencer, Nietzsche), Milano, 1906’, sulla «Critica», IV–1906, pp. 142–145. Croce polemizza in maniera assai urbana soprattutto contro le critiche mosse da Papini a Hegel, ma non revoca minimamente in dubbio la tesi che tra i «principali filosofi moderni» (ivi, pp. 140–141) sia da annoverare anche Nietzsche.

87 Cfr. B. CROCE, Le «Origini della tragedia» di F. Nietzsche, in Id., Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, Bari, Laterza 1913, pp. 423–427, poi ivi, 19272, pp. 411–415, poi ivi, 19483, pp. 406–410.

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Hund, Unordnung und frühes Leid, Mario und der Zauberer e via discorrendo: insomma le opere di narrativa, novelle, romanzi brevi e romanzi che Mann aveva pubblicato entro il 1931. Però, come si è potuto ritenere, candidamente, che Croce abbia dedicato la sua Storia d’Europa al sommo artista senza conoscerne a fondo, oltre che le Betrachtungen, almeno la gran parte della produzione narrativa?

In ogni caso, gli aspetti essenziali della vicenda sono finalmente ben chiari: Croce cita le opere di Mann nelle quali aveva compreso di essere molto intensamente e direttamente implicato. In che modo fa ciò, e perché precisamente?

Nel 1933 Croce pubblicò una nota dal titolo Sentimento e creazione artistica88. È stato affermato che in essa il pensatore napoletano, senza menzionare l’amico di un tempo, polemizzava duramente contro la identificazione dell’arte con il sentimento senz’altro, postulata da Giovanni Gentile, in chiave evidentemente anticrociana, nella propria Filosofia dell’arte e in altri suoi scritti intorno all’arte89. Una siffatta identificazione confutava alla radice la tesi crociana secondo cui il bello artistico è espressione o intuizione del sentimento. Nella nota, a conforto delle proprie idee intorno all’arte, Croce riferiva un ampio stralcio da Tonio Kröger: quello in cui Tonio, nel “monologo”, polemizza duramente contro la primavera, perché essa risveglia sensazioni e sentimenti; afferma che il sentimento vivo e caldo è sempre banale e inadoperabile; sostiene che l’artista deve comporre a freddo, senza lasciare battere il proprio cuore per la materia in quanto tale. Il filosofo e critico letterario faceva notare che un grande scrittore tedesco aveva messo in bocca a un suo personaggio (Tonio appunto) considerazioni in cui un artista dice il suo orrore contro il sentimento immediato, proprio come aveva fatto da antesignano Carducci e proprio come ― ciò resta implicito ma è evidente agli occhi del lettore informato ― da critico esperto e da teorico della poesia aveva fatto Croce medesimo.

Che Croce si avvalga di Tonio Kröger per polemizzare con Gentile è più che probabile. Croce, tuttavia, non era persona da lasciarsi troppo influenzare dalle dichiarazioni teoriche degli artisti. Sapeva bene, questo sì, che nel caso specifico il monologo di Tonio, precisamente nelle parti che egli riferiva, era una convulsa protesta contro la sua Estetica del 1902. Esso respingeva, inizialmente, l’affermazione crociana che l’artista deve prima “sentire” per potere esprimere; e negava che, nel caso in cui manchi la materia puramente passionale e cieca ― la quale afferra e coinvolge direttamente l’artista e deve essere da lui dominata ―, l’espressione non sia possibile. Nel corso dei trent’anni successivi a Est1 Croce aveva sottoposto la sua filosofia a un assiduo, complesso e quasi totale rifacimento, pur mantenendo sempre la pietra angolare costituita dai concetti distinti. Est1, del resto, era stata messa quasi sùbito in crisi dalla fredda arte dannunziana. La successiva, profonda e ininterotta revisione del trattato era stata eseguita sia mediante l’esercizio critico sui testi d’autore sia mediante la riflessione teoretica sulle altre forme, non artistiche, dello spirito umano.

Come s’è diffusamente e ripetutamente messo in luce in queste pagine, il critico e filosofo giunse così al convincimento che il sentimento–materia della sintesi a priori non appartenesse alla sfera del vissuto individuale e personale del soggetto creatore, ancorché affondasse le proprie radici in questo vissuto. Da tale convincimento nacque l’aurea formulazione della differenza tra personalità empirico–biografica e personalità artistica. Croce dette fin dallo studio su Shakespeare forma scientifica chiara e sistematica alla enfatica ripulsa del sentimento immediato; e conferì ivi espressione lucida e semplice anche al veemente, confuso, embrionale distacco, già operato dal personaggio Tonio Kröger, tra l’artista in quanto artista e l’artista in quanto uomo comune. Mediante la nota Sentimento e creazione artistica, il grande studioso italiano inviava a Thomas Mann, con garbo sornione e con la medesima ironia che questi, in modo magistrale, dispiegava nella propria arte, sia il più vivo ringraziamento per aver preso tempestivamente molto sul serio l’Estetica sia il messaggio che le obiezioni a questa mosse da Tonio erano ormai da gran tempo superate, sebbene Tonio avesse avuto in fondo per alcuni aspetti ragione.

Nel 1951 Croce inserì nella seconda edizione delle Conversazioni critiche, serie terza, una lunga citazione dal settimo capitolo di Za, da lui medesimo tradotta in italiano. La si legge

88 Sulla «Critica», XXXI–1933, pp. 478–479.89 A. DI BENEDETTO, Interesse di Croce per Thomas Mann…, cit., p. 363.

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nella sezione IV. del volume, intitolata Pensieri sull’arte, la quale è costituita per lo più da brevi aforismi composti dal filosofo italiano sul bello artistico o sulle critiche mosse da altri al suo pensiero estetico. L’aforisma n. XXVII, Storia della poesia e storia di altre cose, riproduce la distinzione tra persona empirica e personalità artistica come l’aveva rappresentata magistralmente Thomas Mann. Al termine della sua vita, in modo delicato e privo di qualsivoglia autocompiacimento, il pensatore napoletano decise dunque di dare ai posteri la possibilità di comprendere, come da tempo lo aveva compreso lui, che una profonda verità primamente enunciata proprio da lui era stata raffigurata in Za in un episodo splendido (e con implicito consenso) da Thomas Mann:

Come bisogna apprendere e seguire la poesia, staccandola dalle altre cose, tra le quali si trova mescolata? Il modo può essere indicato a un dipresso da questo luogo di un romanzo: «I cantanti e le cantanti, che egli ascoltava, non li vedeva; la loro umanità stava in America, in Milano, in Vienna, in Pietroburgo, e poteva continuare a starsene colà, perché quel che egli aveva di loro era il meglio, la loro voce; ed egli pregiava questa purificazione o astrazione, che rimaneva abbastanza sensuosa da permettergli, con l’eliminazione di tutti gli svantaggi della troppo grande vicinanza personale, un buon controllo umano…» (TH. MANN, Der Zauberberg, p. 842).

È tempo di avviarsi alle conclusioni. Croce volle conoscere di persona Thomas Mann, e avere un colloquio con lui, per sincerarsi che Mann non gli si rivelasse troppo diverso dall’opinione ch’egli si era formato circa l’autore delle Betrachtungen e soprattutto di Za: romanzo in cui sono magistralmente rappresentati, nel contesto della tenace, e perdente, lotta della Vita contro la Morte, sia il conflitto tra l’anima latina e quella germanico–barbarica dell’Europa sia il conflitto tra gli ideali della libertà civile (soggettiva), della tolleranza e della fratellanza da un lato e l’aspirazione a un ordine politico totalitario basato sul terrore dall’altro lato. In Za Mann smascherava, senza reticenze e con acume straordinario, l’autolegittimazione del dominio sulle coscienze esercitato mediante la violenza e lo sterminio dei dissenzienti, autolegittimazione che si appellava all’ugualitarismo puro.

Il desiderio di dedicare a Mann la Storia d’Europa trovava certo parecchie ragioni: Croce voleva rendere omaggio all’autore il quale, nelle proprie opere, aveva mostrato di conoscere la cultura italiana assai più profondamente di quanto ammettesse; il quale, ancóra negli anni della guerra, aveva parlato della corda latina, forse soprattutto italiana, che nella sua anima vibrava in gioventù accanto a quella tedesca; il quale in Za aveva cercato di istituire un dialogo tra l’anima latina e l’anima germanica del continente; il quale attribuiva precipuamente all’anima latina le virtù della tolleranza, del rispetto profondo della dignità umana, dell’aspirazione alla instaurazione di sistemi politici capaci di garantire le libertà civili e di promuovere la giustizia sociale; il quale, in ogni caso, nella creazione del dialogo rispettoso, poi cordiale, poi sempre più intimo ― come lo aveva incarnato Goethe ― tra l’anima latina e quella germanica del continente, vedeva la sola strada maestra per l’instaurazione durevole della convivenza pacifica tra uomini, popoli, nazioni e stati: della pace, che è, insieme alla libertà soggettiva, il supremo bene dell’uomo. Infine, il fatto che il sommo scrittore tedesco si fosse rivelato un attentissimo lettore, occulto, per così dire, della crociana produzione estetica, critico–letteraria, filosofica, e perfino politica rendeva Mann, agli occhi di Croce, quasi un interlocutore antico e familiare, nonostante le diverse apparenze.

Aggiungerei la vivissima sollecitudine di Croce nei confronti del cómpito, proprio, a parer suo, degli uomini di cultura, di promuovere e mantenere strenuamente l’ideale della libertà, fondamento di ogni ordine politico (o etico–politico) buono. Il vero è che Za fu per Croce una sorta di levatrice: nello straordinario tessuto figurativo impregnato di ideali etico–politici e di manicheismo del romanzo, il critico, storico e filosofo trovò la prefigurazione di molti ideali e di molti concetti che egli medesimo andava cercando. Anche Croce scrisse, nella Storia d’Europa, di contrasto tra fedi religiose opposte, raffigurando l’antitesi democrazia liberale/autocrazia (comunista e fascista). Le Betrachtungen eines Unpolitischen del 1919, nei confronti delle quali il pensatore italiano espresse sùbito e pubblicamente vivo consenso, gli fornirono sì esse pure stimoli preziosissimi, ma gli parvero soprattutto il magnifico corrispettivo spirituale tedesco delle sue, coeve, Pagine sulla guerra (lo si riduca a mente:

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pubblicistica patriottica aliena dal fomentare l’odio e la temperie bellicista e proclive a ricucire il dialogo tra i paesi in conflitto).

8. Epilogo: Settembrini, Croce e il mondo greco–latino

Mi sembra giusto terminare il presente capitolo mostrando la ricomparsa di TK in Za e i modo di essa. Dopo che anche Leone Naphta è divenuto uno dei due pedagoghi di Giovanni Castorp, il giovane vive a un certo punto la contrapposizione tra il mondo incarnato da Settembrini e quello incarnato da Naphta; la vive in modo allucinato ed eminentemente visuale, come in un sogno dapprima gentile che si trasforma poi in un incubo tremendamente angoscioso. Da essi, oltre alle immagini eidetiche, gli arrivano dolci mormorii o altissime e spaventose strida. Nei propri pensieri successivi all’allucinazione, Giovanni nega a se stesso che essa rappresentasse una sua presa di posizione in favore del mondo morale di Settembrini, mentre la voce narrante è assolutamente distaccata, non fornisce alcun parere e alcun suggerimento in merito, neppure ambiguo, allusivo, dubbioso. S’è già menzionato l’episodio in cui Castorp, uscito da solo per una passeggiata con gli sci nel bosco, viene sorpreso dalla bufera e si smarrisce; infine, stremato e semiassiderato, egli cade in una sorta di deliquio, nel corso del quale gli si presenta limpida una straordinaria visione. L’episodio, si conclude in modo rassicurante, con il ritrovamento della strada per giungere a “casa”, ed è incastonato tra due momenti intensi e affettuosi della relazione tra il giovane ingegnere e il suo Mentore–Virgilio.

Settembrini aveva incoraggiato il discepolo a imparare a sciare, lo aveva accompagnato ad acquistare gli sci, aveva assistito agli assidui esercizi di Giovanni per impratichirsi nel non facile sport, lo aveva visto partire per la passeggiata fatale e perdersi nella nebbia, gli aveva allora gridato un ammonimento da Giovanni percepito con la vista (Settembrini aveva fatto con le mani cavità davanti alla bocca) ma non con l’udito. Al suo ritorno dalla inconsueta e pericolosa passeggiata, sano e salvo ma stremato, il giovane fa una lunga sosta nella soffitta del letterato italiano, gli racconta tutto l’accaduto e poi si addormenta serenamente sulla sedia. Al rientro in sanatorio, con cui il capitoletto si chiude, sono dedicate tre laconiche righe. Senza di ciò rendersi conto ― e il narratore si astiene dall’enunciare espressamente la cosa ―, Giovanni si comporta come chi cerca conforto a casa del proprio padre e della propria madre o, quantomeno, nella casa di una persona che appartiene alla cerchia degli affetti più intimi, fidati e consolidati.

Al punto in cui Giovanni, smarrito nella tormenta e semiassiderato, dispera di ritrovare la strada, si spalanca davanti a lui il mondo simbolizzato da Settembrini, latino e anzi greco–latino, conformato in modo prevalentemente eidetico. Castorp gode alla vista del Mediterraneo azzurro, tanto diverso dal «mare aspro, il mare pallido» (Za, p. 672; tr. it., vol. II, p. 163) cui egli «era attaccato con sentimenti infantili e gravi» ( ibidem). Gli appaiono anche gli uomini e le donne che popolano quei litorali e quelle isole, «figli del mare e del sole, si muovevano e riposavano» (ivi, p. 672; tr. it., vol. II, p. 164); dovunque «era una umanità serena e intelligente, bella e giovane, piacevole a vedersi» (ibidem). Non mancano bambini e coppie. Espressamente Giovanni pensa a Napoli, alla Sicilia e alla Grecia, che non ha mai visto. La voce narrante si dilunga in una descrizione idillico–arcadica dei giovani e delle fanciulle, e anche degli anziani che li istruiscono. Essa non si sofferma sul colore dei loro capelli e dei loro occhi né sul disegno di questi. Nondimeno lascia dapprima intendere che si tratta di gente dalle fattezze e dall’aspetto mediterranei in senso stretto («i giovani hanno pelle dal colore bruno dorato» (ibidem). Poi si sbilancia alquanto, chiamando sul proscenio «un giovane pastore» dai «riccioli neri» (ivi, p. 673 e p. 674; tr. it., vol. II, p. 165), alla comparsa del quale Giovanni sùbito pensa: «―È delizioso! […]― È una vista che rallegra ed affascina! Come sono tutti belli, sani, intelligenti, felici! Sì, non sono soltanto ben fatti, ma l’intelligenza e la grazia splendono loro sul volto. Ecco ciò che mi commuove e mi innamora: lo spirito ed il senso, vorrei dire, che è la base del loro essere nel quale l’uno con l’altro esistono e vivono!» (ivi, p. 674; tr. it., vol. II, p. 165).

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Come ognun vede, i segni di valore che in TK marcavano la contrapposizione tra Nord e Sud o tra mondo germanico (fino ai confini dell’area scandinava) e mondo mediterraneo europeo (di origine culturale greco–latina) sono stati ribaltati. In TK si attribuiva valore positivo senz’altro al colore biondo dei capelli e a quello azzurro degli occhi ridenti di Hans Hansen e di Ingeborg Holm. Questi erano i colori che qualificano le persone sane e felici, che non hanno bisogno dello spirito perché hanno la vita, la vita vera in tutta la sua grazia e la sua amabilità. In Za, invece, le persone sane, aggraziate, belle e intelligenti hanno pelle bruno–dorata e, si suggerisce, riccioli neri.

In TK il protagonista (portavoce dell’autore) esclamava, circa i cieli meridionali e mediterranei e circa le fattezze delle stirpi che vivono sotto quei cieli:

L’Italia mi è indifferente fino al disprezzo. È lontano il tempo in cui mi figuravo che il mio posto fosse laggiù. L’arte, non è vero? E cieli di azzurro vellutato, vino generoso e dolce sensualità… In una parola, non mi va, ci rinuncio. Tanta bellezza m’innervosisce. E anche quella gente terribilmente viva, col loro nero sguardo d’animale, non la posso soffrire. Quei latini non hanno coscienza negli occhi… (TK, p. 41, tr. it., p. 98).

In Za Giovanni trova deliziosa la vista del cielo, del mare e delle genti mediterranee greco–latine. Alla bellezza della natura e delle persone egli congiunge, quasi organicamente e certo enfaticamente, lo splendore dell’intelligenza che s’irradia da quei volti. Nelle aggraziate e brune persone del Sud azzurro lo spirito e il senso convivono, e in questo connubio risiede la vita vera, amabile, desiderabile. Il narratore evita ad arte di attribuire alla stirpe greco–latina, attraverso i pensieri di Giovanni, la vitalità esuberante (e animalesca, dunque priva di “spirito”) che le aveva attribuito in TK: «un certo che di dignitoso e di severo, ma completamente disciolto in un’atmosfera di serena gaiezza, […] di lieta serietà e di pietà intelligente, determinava le loro azioni» (Za, p. 674; tr. it., vol. II, p. 165). Eppure anche in Za, come in TK la somma compostezza e il riserbo qualificano piuttosto i veri signori tedeschi, mentre il vero signore italiano, Lodovico Settembrini, è un vivacissimo conversatore e ha un’affettività esuberante e spontanea.

Le genti greco–latine e mediterranee che popolano la “visione estatica” di Castorp si comportano in modo «dignitoso» e «severo» in ossequio a «forme di cerimonia» (ibidem). La cerimonia consiste in una sorta di atto di omaggio che sia i giovani sia le ragazze rendono in modo rapido e sorridente, ma intriso di devozione e ben visibile, a una giovane madre 90. Questa, seduta sopra un masso tondeggiante e ricoperto di muschio, allatta pubblicamente, con grande dolcezza, il suo bambino. Si tratta di una classica maternità, appena meno castigata delle raffigurazioni iconiche cristiane della Vergine con il bambin Gesù (la giovane madre «portava un vestito scuro che le pendeva, slacciato, da una spalla»: Za, p. 674; tr. it., vol. II, pp. 165–166). Proprio mentre salutano con devozione la giovane madre e le rendono omaggio le ragazze si mostrano «allegre, affettuose e vivaci» (ivi, p. 674; tr. it., vol. II, p. 166). Dunque il narratore concilia benissimo l’indole di Settembrini con il contegno affettuoso, aperto, estroverso, delle “sue” genti greco–mediterranee.

Rispetto a TK avviene, come s’è già osservato, un ribaltamento completo: al mondo mediterraneo greco–latino è attribuita, ed è nella “visione” esaltata, anche una presunta supremazia della madre sul padre quale centro della famiglia e della società intera (una società a impostazione comunitaria, certo). Il culto della maternità, dalle origini lontanissime e pagane, si sostituisce alla venerazione del padre, di cui TK era impregnato.

Poi, quasi repentinamente, Castorp deve lasciare l’ambiente dolce e seducente per attraversare una sorta di grande e tozzo tempio romano che lo immette in una nuova visione, orrenda e sconvolgente, antitetica rispetto a quella precedente, gentile e rasserenante. La nuova visione simboleggia il mondo di Naphta, soprattutto il mondo da questo scelto, cioè il mondo germanico e nordico, che è anche il mondo di Castorp ed è il mondo selvaggio, estraneo al diritto, alla morale e alla religione, delle streghe antropofaghe:

90 «Chi le passava davanti la salutava in un modo speciale in cui si riuniva tutto ciò che nel contegno generale di quelle persone veniva tanto espressamente taciuto. I giovani, volgendosi verso la donna–madre, portavano rapidamente e leggermente le braccia al petto incrociandole, mentre chinavano il capo con un sorriso; le ragazze accennavano ad una genuflessione, come fa chi entra in chiesa e, passando per l’altare maggiore, si abbassa di sfuggita»: Za, p. 674; tr. it., vol. II, p. 166.

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Due femmine grigie, mezze nude, dai capelli arruffati, coi seni pendenti da streghe e capezzoli lunghi un dito, erano intente, tra recipienti di fiamma, ad una crudele bisogna. Esse straziavano sopra una bacinella il corpo di un bambino, lo squarciavano con le mani, in un silenzio selvaggio (Giovanni Castorp vide tenui fili biondi misti a sangue) e ne inghiottivano i pezzi, così che le ossa scricchiolavano nella loro bocca dalle cui labbra orrende gocciolava il sangue. Un gelido orrore teneva legato Giovanni Castorp. […] Le streghe intanto lo avevano scorto; minacciandolo coi pugni inveivano a lui, inveivano senza voce ma con estrema volgarità, con parole oscene, e precisamente nel dialetto patrio di Giovanni Castorp. (ivi, p. 676; tr. it., vol. II, pp. 167–168; corsivo mio)

Poiché la contrapposizione tra il mondo di Settembrini e quello di Naphta viene rappresentata in larga misura come ribaltamento dei valori propugnati in TK, l’autore, nel capitolo successivo a quello in cui Giovanni si smarrisce con gli sci nella bufera, si compiace di riallacciare espressamente Settembrini a TK nel ruolo di avversario gentile o di contraltare di Tonio; o meglio, il narratore si serve espressamente di Lodovico al fine di raccordare, e sia pure per antitesi, le due opere narrative di Thomas Mann, TK e Za, che sono massicciamente tributarie di Benedetto Croce. In TK Lisaveta Ivanovna aveva confutato le accuse mosse da Tonio all’espressione poetica e all’artista: «Come, dunque? L’efficacia purificante, santificante della letteratura, la distruzione delle passioni grazie alla conoscenza e alla parola, la letteratura come via alla comprensione, al perdono e all’amore, la forza redentrice del linguaggio, lo spirito letterario come purissima fra tutte le manifestazioni dello spirito umano, il letterato come uomo compiuto, come santo: vedere così le cose significa vederle in modo impreciso?» (TK, p. 36; tr. it., p. 91). In Za si legge che lo spirito della letteratura, «che era lo spirito stesso», «risvegliava la comprensione per ogni cosa umana» », «sapeva indebolire e far sparire false valutazioni e convinzioni», «recava civiltà», «nobilitava e migliorava il genere umano» (p. 717, ove si leggono tutte le espressioni riferite tra virgolette basse; tr. it., vol. II, p. 200). Al letterato italiano viene quindi attribuita in discorso indiretto l’esaltazione etico–estetica della parola poetica con espressioni a tratti identiche rispetto a quelle pronunziate da Lisaveta:

L’efficacia purificatrice e santificatrice della parola, la distruzione delle passioni per mezzo del sapere e della parola, la letteratura come via al capire, al perdonare, all’amare, la potenza redentrice della parola, lo spirito letterario come nobilissima manifestazione dello spirito umano, il letterato come uomo perfetto, come santo, ecco la gamma splendente su cui si moveva l’inno apologetico del signor Settembrini. (ivi, pp. 717–718; tr. it., vol. II, pp. 200–201).

In Za, nello stesso giro di pagine in cui Settembrini viene collegato a TK, Castorp diventa una sorta di controfigura debole di Tonio Kröger, con riferimento alla forte (e da Tonio gridata) emotività del personaggio del romanzo breve nel monologo. Quando le condizioni di Gioachino peggiorano, il consigliere Behrens ammonisce Castorp, da lui ritenuto un ipersensibile assai apprensivo, con espressioni intonate a registro serio, anzi serissimo: «In ogni modo le dico, Castorp, che se vuol fare scene qui, se vuol gridare ed abbandonarsi ai suoi sentimenti da borghese, io la mando fuori dai piedi. Perché qui vogliamo essere uomini, ha capito? (Za, p. 725; tr. it., vol. II, pp. 206–207). Il monologo di Tonio, appena punteggiato di interventi di Lisaveta, terminava con alcuni deliziosi interventi del personaggio femminile. Molto spiritoso era in particolare lo scambio di battute tra i due con il quale il monologo si chiudeva: Lisaweta dopo avere ascoltato pazientemente lo sfogo di Tonio gli chiede se egli si attenda da lei una risposta. Al cenno affermativo del giovane la ragazza gli dice che la soluzione al problema che tanto intensamente lo tormenta è che egli è un borgese, anzi un borghese fuorviato, insomma smarrito. Tonio ringrazia e dice che può finalmente ritornare consolato a casa propria: «Sono liquidato» (con riferimento alla liquidazione del sentimento compiuta dal critico)91. Anche Behrens “liquida” il borghese Giovanni Castorp: le parole del

91 Conviene leggere lo scambio di battute secondo il testo originale «“Sind Sie nun fertig Tonio Kröger?” “Nein. Aber ich sage nichts mehr.” “Und es genügt auch. ― Erwarten Sie eine Antwort?”

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consigliere sono molto simili a quelle di TK or ora ricordate; la connotazione di “borghese” è negativa in entrambi i testi, in modo lieve e ironico in TK, in modo serissimo e grave in Za.

Non si può non riferire, a chiusura di questo studio su Croce–Settembrini in Thomas Mann, un grave e molto serio discorso di Settembrini a Castorp circa i cómpiti della Germania e dei Tedeschi al cospetto del progresso e della civiltà. Il discorso in questione nella sua parte finale suggella il rovesciamento di posizioni ideali avvenuto nel percorso da TK a Za: Settembrini, in questo caso portavoce dell’autore, il quale peraltro si tiene a prudente distanza, attribuisce alla parola, dunque al dialogo e in ogni caso alla espressione che tutti vuole raggiungere e che da tutti può essere capita, la virtù di affratellare i popoli. Peraltro Settembrini esprime una volta di più persuasioni che Croce giungerà a fare proprie forse soltanto a partire dalla Storia d’Europa. Mentre l’Italiano afferma dolcemente che le genti germaniche non sanno ancóra fare uso della parola e sono proclivi invece all’azione implicitamente intende dire che esse non sono in grado di attingere l’umanesimo, l’irenismo, la civiltà come sviluppo e come opera e casa comune degli uomini. La prima e più lunga parte del grave discorso è impregnata invece di persuasioni espresse da Croce in particolare nelle Pagine sulla guerra ma anche negli anni antecedenti, sia tra il 1910 e il 1914, sia nel periodo in cui propugnava il neutralismo (o non–interventismo):

Caro! ― disse il signor Settembrini. ― Caro amico! Bisognerà prendere decisioni; decisioni di una portata incalcolabile per la felicità e l’avvenire d’Europa, e il prenderle toccherà al suo Paese; tali decisioni dovranno compiersi nella sua anima. Posto fra l’oriente e l’Occidente, il suo Paese dovrà scegliere, dovrà decidersi definitivamente e con coscienza per una delle due sfere, ognuna delle quali vuol conquistarlo a sé. Lei è giovane e parteciperà a tale decisione, anzi è chiamato ad esercitare la sua influenza su di essa. Perciò lasci che insieme benediciamo il destino che l’ha portato quassù in questa spaventosa contrada, ma che mi dà l’occasione di influire con la mia parola non inesperta, non completamente priva di forza, sulla sua gioventù atta ad essere plasmata; benediciamo il destino che mi concede il destro di farle sentire la responsabilità che lei, che il suo Paese hanno in cospetto della civiltà…[…] (Za, pp. 707–708; tr. it., vol. II, pp. 192–193; i corsivi sono di B. Giachetti Sorteni e marcano le parole in italiano nel romanzo, salvo che anche la prima ricorrenza di «Caro!» nel romanzo è in italiano sebbene nella traduzione non sia riferita in corsivo)

Si tratta in realtà di pensieri concordemente espressi da Benedetto Croce e da Thomas Mann sùbito prima della “grande guerra” e poi durante essa, indipendentemente (o quasi) l’uno dall’altro. Settembrini conclude l’alto e affettuoso ammonimento a Castorp facendosi portavoce ancóra più stretto di entrambi i sommi uomini di cultura:

― Lei tace, disse Settembrini commosso. ― Lei e il suo Paese mantengono un silenzio senza riserve e così impenetrabile che non concede agli altri di giudicare, sia pure approssimativamente, la sua profondità. Loro non amano la parola o non la posseggono o la santificano con poco garbo. Il mondo dei suoni non sa e non riesce ad indovinare il loro pensiero. La lingua è la civiltà stessa… La parola, anche la più contraddittoria, accosta sempre l’uno all’altro… Ma il silenzio fa il vuoto intorno. Si suppone che loro vogliano rompere la solitudine in cui vivono mediante azioni. (Za, p. 708; tr. it., vol. II, p. 193).

“Haben Sie eine?” “Ich dächte doch. ― Ich habe Ihnen gut zugehört, Tonio, von Anfang bis zu Ende, und ich will Ihnen die Antwort geben, die auf alles paßt, was Sie heute nachmittag gesagt haben, und die die Lösung ist für das Problem, das Sie so sehr beunruhigt hat. Nun also! Die Lösung ist die, daß Sie, wie Sie da sitzen, ganz einfach ein Bürger sind.” “Bin ich?”» fragte er und sank ein wenig in sich zusammen… “Nicht wahr, das trifft Sie hart, und das muß es ja auch. Und darum will ich den Urteilsspruch um etwas mildern, denn das kann ich. Sie sind ein Bürger auf Irrwegen, Tonio Kröger, ― ein verirrter Bürger.” ― Stillschweigen. Dann stand er entschlossen auf und griff nach Hut und Stock. “Ich danke Ihnen Lisaweta Iwanovna; nun kann ich getrost nach Hause gehn. I c h b i n e r l e d i g t” (pp. 40–41; lo spaziato è dell’autore). In tr. it., p. 97, l’ultima espressione è tradotta, non benissimo: «Sono sistemato».

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9. Appendice: trascrizione della vita di Luigi Settembrini e di Silvio Spaventa dalla Enciclopedia Italiana92

a) Luigi SettembriniPatriota e letterato, nato a Napoli il 17 aprile 1813; morto ivi il 3 novembre 1876.

Trascorsa la prima infanzia a Caserta, dove dal padre, vecchio patriota del 1799, fu educato all’ideologismo illuministico–giacobino, compì gli studi di umanista nel collegio di Maddaloni e una parte di quelli giuridici nell’Università di Napoli, recandosi poi nel 1830 a Santa Maria Capua Vetere per esercitarvi la pratica forense. Ma, disgustato ben presto dei tribunali, tornava a Napoli, dove, mentre frequentava la scuola di B. Puoti e approfondiva con grandi letture le sue conoscenze nelle letterature classiche e particolarmente in quella italiana, s’adattava, per vivere, a far da ripetitore a giovinetti di buona famiglia. Nel 1835 ottenne la cattedra di eloquenza nel collegio di Catanzaro, dove non tardò a fondare, con Benedetto Musolino, una società segreta, i «Figliuoli della Giovine Italia», e a ordire, col candore quasi fanciullesco che lo caratterizzava, un’utopistica congiura, ben presto scoperta dalla polizia. Arrestato l’8 maggio 1839, e tradotto a Napoli, dove, dopo lunga attesa in varie carceri cittadine, fu finalmente giudicato, seppe con abile difesa […] strappare ai giudici sentenza assolutoria. Malgrado questa, non fu liberato se non quindici mesi dopo (14 ottobre 1841), senza avere nemmeno la licenza d’aprire uno studio privato: sicché dovette tornare all’antica precaria professione di ripetitore. Al tempo medesimo frequentava, di notte, quanti occulti ritrovi politici erano in Napoli, col risultato, non tanto d’imbeversi d’idee mazziniane, che anzi talora fraintese e che a ogni modo restarono su lui senza efficacia notevole, quanto di rafforzarsi nel suo culto quasi religioso per gli uomini del Novantanove e nel suo odio contro il Borbone. Da che, nell’animo suo, fattivamente entusiastico, un ribollire di sentimenti [che sfociarono nella sua, N.d.A] Protesta del popolo delle due Sicilie, pubblicata alla macchia sul cadere del 1847. La risonanza immensa che quell’opuscolo ebbe anche oltre i confini d’Italia, la grande attività della polizia napoletana per scoprirne l’autore e qualche sospetto cominciato a concepire contro di lui lo inducevano a rifugiarsi a Malta(3 gennaio 1848), salvo a tornare ben presto a Napoli (7 febbraio) qualche giorno dopo la concessione della costituzione. Per meno di due mesi (22 marzo–13 maggio) fu chiamato da Carlo Poerio, capo dipartimento nel Ministero dell’istruzione; indi, non contento di dimettersi con una nobile lettera che i casi del 15 maggio gl’impedirono di pubblicare, ricusò via via così la pensione del terzo del soldo, come un lucroso posto nel Ministero delle finanze, offertogli da F. P. Ruggiero. Nel luglio 1848, insieme con Silvio Spaventa, Cesare Braico, Filippo Agresti e altri, fondò la «Grande Società dell’Unità italiana», della quale dal settembre di quell’anno tenne la presidenza. Nonostante il pertinace coraggio suo e di parecchi compagni, l’efficacia pratica di quella setta fu quasi nulla: anzi, per la facilità con cui egli procedeva a nuove aggregazioni e che faceva «venire i brividi» al consettario F. De Sanctis, vi s’intrufolarono non poche spie, le cui denunzie, già prima e ancora più dopo il definitivo scioglimento delle Camere napoletane (13 marzo 1849), provocarono la carcerazione di quarantadue indiziati, tra i quali lui, arrestato il 23 giugno 1849. […] Molto labili le prove giudiziarie della sua colpevolezza: tuttavia […], lo si volle condannare a morte col terzo grado di pubblico esempio. […; però, N.d.A] la pena [fu, N.d.A.] commutata nell’altra dell’ergastolo, da scontare nel penitenziario di Santo Stefano. Colà, dall’ottobre 1852, ebbe compagno di detenzione Silvio Spaventa […]; il Settembrini lasciò Santo Stefano soltanto il 17 gennaio 1859, allorché, con altri sessantacinque “politici”, tratti da varî ergastoli venne imbarcato sul vapore Stromboli, che li trasportò a Cadice, donde il David Stuart avrebbe dovuto tradurli a New York. Sennonché, nel frattempo, giungeva a Cadice il figlio del S., Raffaele, ufficiale della marina inglese, il quale, imbarcatosi con falso nome e quale sguattero, sul David Stuart, costrinse, attraverso circostanze romanzesche, il capitano a sbarcare i prigionieri a Queenstown. Di là il S. proseguiva per Londra, donde nella primavera del 1860, si trasferiva a Torino, indi a Firenze,

92 Ho consultato l’edizione 1949–1950 della Treccani. La biografia di Luigi Settembrini è stata redatta da M. PELAEZ, e quella di Silvio Spaventa da E. TAGLIACOZZO: entrambe si leggono nella ristampa fotolitica della Enciclopedia pubblicata nel 1936, rispettivamente nel vol. XXXI e nel vol. XXXII. È possibile che le due biografie contengano qualche lieve errore o qualche imprecisione. Poiché però trattasi di imprecisioni probabilmente circolanti fin dal tempo della stesura di Za ho il comodo di non dovermene dare pensiero.

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ove pubblicava (4 e 27 luglio 1860) due manifesti (Di ciò che hanno a fare gl’Italiani e Dell’annessione di Napoli al Regno d’Italia), nei quali, dichiarando di non volere i Borboni «neppure per servitori», esortava gl’Italiani del Mezzogiorno a unirsi alla restante Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele. Un mese prima (giugno 1860) aveva avuto da Terenzio Mamiani la cattedra di letteratura latina e greca nell’università di Bologna, alla quale peraltro rinunziò non appena l’ingresso di Garibaldi a Napoli gli consentì di tornare nella sua città natale, che non lasciò più. Rifiutata la carica di direttore generale dei Lavori pubblici […] accettava invece […] l’altra d’ispettore generale dell’Istruzione pubblica; e […] prendeva possesso nel 1862 della cattedra di storia della letteratura italiana nell’università di Napoli, quasi al tempo stesso ch’entrava nella neonata Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, e fondava, col De Sanctis, l’«Associazione unitaria costituzionale» di cui fu a lungo presidente, collaborando con assiduità a L’Italia, organo di quella, finché il De Sanctis, che lo dirigeva, non lo trasferì a Firenze (1866). Sennonché, tanto bisognoso dell’azione battagliera, pericolosa, rivoluzionaria, quanto aborrente da ogni sorta di compromessi, egli si venne sempre più allontanando dalla politica di rassodamento imposta dai tempi nuovi all’Italia già una; politica, del resto, alla quale, fallita altre due volte la sua candidatura a deputato (1865 e 1867), non avrebbe potuto partecipare se non come giornalista e consigliere comunale e provinciale, e soltanto dal 1873, già malandato in salute e precocemente invecchiato, in qualità di senatore. Per qualche tempo la questione politica e civile di Roma e del papato, una difesa sfortunata degli «studi privati» napoletani contro la legge unificatrice delle università italiane, e tentativi analoghi a favore di tradizioni locali del Mezzogiorno, che con grande dolore vedeva travolte dal livellamento unitario della nazione, gli porsero materia ad appassionate battaglie politiche, che condusse nella forma, connaturata alla sua indole, di predicazione illuministica. Poi, cessati o indeboliti quegli stimoli, non gli restò se non trasferire il suo animo di patriota e i suoi amori e odî politici negli studi letterarî.

b) Silvio SpaventaPatriota e uomo politico nato a Bomba (Chieti) il 10 maggio 1822, morto a Roma il 20

giugno 1893. Studiò nel seminario di Chieti e poi a Montecassino. Nel 1843 venne a Napoli e, benché avviato allo studio del diritto si occupò principalmente di filosofia e di politica, seguì le lezioni del Galluppi e del kantiano Colecchi. Nel 1848 aprì col fratello Bertrando una scuola privata di filosofia […] che fu soppressa nel 1847 dalla polizia. Fondò, il 1° marzo 1848, il Nazionale, giornale che intese collegare il moto napoletano a quello di tutta l’Italia, in cui caldeggiò il federalismo come avviamento all’unità e il concorso di Napoli alla guerra d’indipendenza. Eletto deputato il 15 aprile 1848, sedette all’estrema sinistra e fu uno dei quattro «albertisti» del parlamento napoletano. Non prese parte alla sommossa del 15 maggio 1848, e si adoperò anzi con altri deputati a placare gli animi la mattina del 15. Deluso dall’insincerità del costituzionalismo borbonico, fondò, con L. Settembrini, C. Braico e F. Agresti, e presiedette, la società segreta dell’«Unità italiana», allo scopo di cacciare i Borboni e di diffondere l’idea unitaria senza subordinarla alla forma repubblicana. Arrestato il 19 marzo 1849, fu sottoposto a un processo durato quasi tre anni e rimasto quasi famoso per la corruzione dei giudici, la venalità dei testimonî e il contegno impavido degl’imputati. Commutatagli nell’ergastolo il 19 ottobre 1852 la condanna a morte, fu relegato nell’isola di S. Stefano, ove ebbe compagno di cella il Settembrini, e dove rimase per circa sette anni fino al gennaio 1859, attendendo a studi di filosofia, diritto, storia ed economia, perfezionandosi nelle lingue e scrivendo di politica. Nel gennaio 1859, essendogli stata nuovamente commutata la condanna nell’esilio perpetuo dal regno, lo S. venne imbarcato con altri alla volta dell’America, ma gli esuli riuscirono a essere sbarcati in Irlanda. Raggiunse Londra e quindi Torino, dove entrò in contatto con Cavour divenendo uno dei principali fautori della sua politica. A Londra lo S. vide i principali esponenti del liberalismo, Palmerston, Russell, Gladstone, e perorò presso di loro la causa dell’indipendenza italiana. Tornato in Italia scrisse articoli per il Risorgimento e la Nazione e a Napoli, dov’era ritornato nel luglio del 1860, presiedette la Giunta esecutiva del Comitato dell’ordine e si adoperò perché la rivoluzione si compisse nel continente nel nome di Vittorio Emanuele, prima che Garibaldi giungesse. Di ciò indignato, il generale chiamò lo S. a Caserta, e al termine di un burrascoso colloquio lo «pregò» di uscire dal regno. Fu poi uno dei principali esponenti della cosiddetta Destra storica e uno degli uomini politici più in vista nei primi trent’anni successivi all’Unità

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d’Italia. Propugnatore di un bipartitismo di tipo inglese fu al contempo seguace della concezione hegeliana dello stato. […] Nominato nel 1862 sottosegretario generale degl’Interni nel gabinetto Farini–Minghetti, assolse sotto il Peruzzi compiti molto superiori a quelli di un comune sottosegretario. […] Nel 1868 fu nominato consigliere di stato, e nel 1873 ministro dei Lavori pubblici nell’ultimo gabinetto di Destra presieduto dal Minghetti. Come ministro il suo nome resta legato al problema ferroviario, alle convenzioni che per opera sua si fecero nel 1873 e nel 1875 per riscattare le linee delle «Romane» e delle «Meridionali» rendendone proprietario lo Stato, e alla Convenzione di Basilea del 1875 per il riscatto della rete dell’Alta Italia e per la completa separazione dalla rete austriaca […]. Ebbe forma mentis più di giurista che di filosofo, benché i giovanili studî filosofici connaturassero in lui l’abito di ricondurre le questioni particolari ai principî generalissimi. Fu uno dei più autorevoli teorici della Destra. Alcune sue prese di posizione politiche, come la tesi della proprietà e dell’esercizio statale delle ferrovie destinata in seguito a trionfare, e la tesi della netta separazione della politica dall’amministrazione, discendono direttamente dal concetto che egli avea dello stato di cui si professava hegelianamente «adoratore». Secondo lo S. lo Stato deve essere forte, assumendosi compiti di civiltà sempre maggiori, e superiori ai partiti, in modo da assicurare a tutti i cittadini la protezione e la giustizia. [Lo N.d.A] stato deve essere la coscienza direttiva della nazione e deve saperla guidare sulle vie che conducono ai fini più alti dell’umanità. […] Egli vagheggiava l’imitazione in Italia del sistema parlamentare all’inglese, con i due partiti impersonanti uno la conservazione e l’altro il progresso che si avvicendassero al potere e con la critica al partito di governo esercitata legalmente da quello d’opposizione, e censurò il trasformismo inaugurato dal Depretis, che avrebbe trascinato la vita pubblica in un «pantano», nonché gli abusi amministrativi della Sinistra, contro cui reagì iscrivendo sulla bandiera dell’opposizione il motto «giustizia nell’amministrazione». Esercitò notevole influenza sul suo partito, quantunque il suo temperamento intransigente, tendente all’autoritarismo, e la sua passionalità politica lo rendessero impopolare.