Verona In 13/2006

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N° 13 - DICEMBRE 2006 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S. P. A.- SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA i n VERONA

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N° 13 - DICEMBRE 2006 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA

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Goffredo Parise ricorda così la fi-gura del padre adottivo: «Era unuomo di poche parole, portavascarpe lucenti, ma alla sera dopocena mi raccontava i romanzi diSalgari; all’ora stabilita io freme-vo; poi lui cominciava: Le tigri diMompracem, Il Corsaro Nero...».Sul rito di questa lettura serale sicostruiva il legame familiare. Loscrittore di Vicenza ricorda conaffetto il Salgari di Verona.A Ponte di Piave in provincia diTreviso, realizzando il testamen-to di Parise, si è aperta da alcunianni la casa della cultura intesta-ta a suo nome. Così le città e ipaesi perdono l’anonimato, di-ventano luoghi di memoria ecentri di proposta culturale. Ri-prendono originali vivacità lestrade, le piazze, le attività uma-ne. Basta solo osservare il per-corso in salita di una città comeMantova, che continua a propor-re idee e iniziative sulla scia dellaspinta del Festivaletteratura.Dunque ci piacerebbe che a Ve-rona nascesse un festival salga-riano, meglio, un Festival del-l’Avventura perché è lì il segretodella scrittura, del successo e del-lo spirito di Salgari. E l’avventu-ra esula dalle pagine scritte percoinvolgere tutto ciò che l’uomofa per uno spirito di ricerca delcuore, dell’animo, della mente,della mano. Perciò Salgari è ama-to. Diventa quindi risorsa. Po-trebbe essere allora una grandeoccasione per Verona, un omag-gio finalmente a un suo grandescrittore e un mettere a frutto inmodo intelligente, strutturato,pianificato e concreto un realepatrimonio di casa.

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In copertina foto di Silvia Andreetto

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gari Nel 1894 Salgari si trasferì a To-

rino ma è nato e vissuto per piùdi trent’anni a Verona e qui inau-gurò i suoi meravigliosi mondiesotici e suoi viaggi letterari dimare e di terra.Il libri di Salgari non hanno fattole antologie d’elezione ma hannofatto l’immaginario avventurosodell’Italia, e non solo. Salgari nonvide gli oceani che raccontava mai suoi libri hanno compiuto lun-ghissimi viaggi oltre il confineitaliano e lui è diventato uno deimaestri del genere avventuroso. Èuno scrittore ritrovato, riscoper-to, letto. Salgari è stato promossoautore “classico” proprio dai suoilettori, numerosissimi. In barbaalle resistenze dei critici. Tra isuoi lettori, e debitori di ispira-zione, non sono mancati o nonmancano nomi illustri: PietroCitati, Giuseppe Pontiggia, Clau-dio Magris, Mario Spagnol, Ser-gio Leone, Giovanni Spadolini,Paolo Conte. E sono solo alcuni.Crediamo che Verona non debbaperdere questa opportunità. Inattesa di raccogliere opinioni ariguardo, e lo si può fare contat-tando la redazione del giornale,ci facciamo promotori di un so-gno e nei prossimi mesi prende-remo contatto con persone che,con diverse competenze, potreb-bero dare il loro valido contribu-to di idee e di mezzi per realizzarea Verona il Festival salgarianodell’Avventura.Idearlo, pensarlo è già operad’avventura perché il più grandeviaggio è l’immaginazione.

Elisabetta [email protected]

Una grande occasioneper Verona, che potrebbefinalmente omaggiareun suo grande scrittore,mettendo a frutto in modo intelligente,strutturato e pianificatoun reale patrimonio di casa

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vita. La racconta non come fannocerti vecchi, con quella nostalgiacarica di tristezza che contagia, macon gli occhi vispi del ragazzinoche sa di averla combinata grossa,ma non gliene importa un ficosecco perché, tanto, ha tutto undomani davanti per rimettersi inpari. In pari con la vita, però, Pol-lari non c’è mai voluto stare, sem-pre ai limiti e spesso oltre, ha ca-valcato gli anni della giovinezzacome «una folle corsa sulle notedegli Stones», come ama dire.Fin dove si spinga la realtà imma-ginata e la fantasia vissuta, non èfacile capire, ma quest’uomo, clas-se 1947, di storie da raccontare ne

ha tante. È un attore, drammatur-go di se stesso, un po’ giramondo eun po’ libertino alla Oscar Wilde, eincarna il detto, troppo spessoabusato ma poco praticato, del«lavorare per vivere e non vivereper lavorare».Figlio della costa genovese, Pollariarriva a Verona inseguendo l’amo-re. Un amore clandestino e proibi-to per una donna sposata con pro-le che, racconta, è scoppiato in unmaso a Tione e si è lentamenteconsumato nella città di Giulietta.In occasione di una delle tante se-lezioni per comparse in Arena hatrovato nella nostra città un puntodi riferimento, un luogo dove si

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IL PERSONAGGIO

«Capitan Dreamer»Maurizio Pollari, artista genovese da anni trapiantato a Verona, racconta la suavita da bohemien e del suo musical in cerca di uno sponsor. Capitan Dreamer

è la storia a lieto fine di un marinaio giramondo dal cuore generoso

di Giorgia Cozzolino

«E poi ci troveremo come le star, abere del wisky al Roxy Bar, oppu-re non ci incontreremo mai,ognuno a rincorrere i suoiguai…». Forse non è la vita speri-colata che canta Vasco Rossi maquella di Maurizio Fabio Pollari di

certo ha il sapore dell’avven-tura e della libertà. Quella li-

bertà che si paga sempretroppo cara e che, come

merce preziosa, non finiscemai in saldo. Ma non importa,

perché «l’importante è ridere».Seduto al Corsini, in cambio di unProsecco, Pollari racconta la sua

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sente a casa ancor più della suaamata Genova e, per uno che sitrova sempre in mezzo alla tempe-sta, non deve essere poca cosa.Ma prima? Prima ci sono stati glianni ruggenti di sesso, droga e rock‘n roll, delle corse pazze su autosportive e delle puntate al casinò.Pollari si racconta senza prendersitroppo sul serio, parla della suamaturità da ragioniere e dei dueanni alla scuola di teatro con l’uni-co obiettivo di diventare il nuovoMarlon Brando.Gli anni passano tra mille mestieridi fortuna che gli danno quel tan-to che serve per coltivare le suegrandi passioni: le donne, la musi-ca, l’arte... insomma, la vita. Comequando prese il treno per gli stabi-limenti della Philips a Rotterdam.I propositi erano eccellenti, matrovò sulla strada Amsterdam. Lacittà gli apparve così diversa e cosìeccitante che uno come lui nonpoteva rimanerne che affascinatoe allo stesso tempo travolto. Nonsappiamo se le cose gli divenneropiù confuse o più chiare, di certonon arrivò mai a Rotterdam e laPhilips perse l’opportunità diaverlo tra i suoi collaboratori.In in ogni lavoro, in ogni esperien-za Maurizio si imbatte in un gro-viglio di incontri fatali e di amici-zie che trasformano l’esistenzapiatta di un forse-ragioniere, nellemontagne russe di un sicuro uo-mo di mondo. È infatti di questaincredibile capacità di intessere re-lazioni con le persone più origina-li, fuori dagli schemi e di successoche sembra nutrirsi la vita di Pol-lari che tuttora vanta, come dicelui, «public relations eccellenti» e«carissimi amici Vip».Non una, ma mille esistenze inuna sola. In lui sembrano vivere

tutte le persone che ha conosciutoe, forse, in tutte loro c’è una partedi lui. Questa è la sensazione che siha leggendo lo script del suo musi-cal. Già, perché, tra una comparsa-ta in Arena e una in un telefilm te-desco, Pollari ha trovato il tempodi scrivere un vero e proprio spet-tacolo musicale, Capitan Dreamer,che vorrebbe realizzare a Las Vegas(ma sta cercando un produttoreanche in Italia e a Verona). Le sueinfluenti amicizie, infatti, varcanoi confini italiani. A New York ci eraandato per conquistare il cuore diuna affascinante e nota cantante dicolore. Negli anni Ottanta ha fattoda runner, o galoppino che dir sivoglia, per i maggiori nomi dellamusica internazionale, da quelBob Dylan «antipatico e sbruffo-ne», al «fantastico e gentile» Santa-na. Da lui Peter Franton «volevasolo droga» mentre, «beh, EltonJohn cercava dell’altro...». Pollariha cucinato piccantissimi spaghet-ti olio, aglio e peperoncino perFrank Zappa e per la sua «enormeguardia del corpo nera, vestita conuna tuta rosa fuxia». Conosce beneZeffirelli, il soprano Gasdia e, tra lemille avventure artistiche, non si èfatto mancare tre imbarchi sullaOceanic, una delle navi da crocierapiù famose di tutti i tempi.Ed è forse tra lo scintillio di ondeesotiche, mescolate ai ricordi ma-rittimi da ragazzo, che è nato ilprotagonista del suo musical auto-biografico. Sognatore di professio-ne, ma anche disincantato osser-vatore della realtà, Pollari dice chela sua «folle corsa» è sempre allaricerca di qualcosa. «Dell’amore?No, banale... di Dio, forse». E cer-cando tra i suoi ricordi aggiunge:«Tutte le cose belle e buone le ho

avute dalla vita, quelle che conta-no veramente, e quindi ora tutto èun deja vu… quel che conta è lacompagnia, che sia buona! In que-sto mondo sempre più nevrotico efolle, l’immagine che più mi piacetenere a mente è quella di EduardoDe Filippo che, alle cinque dellasera, non si fa un tè, ma un caffè,sereno e tranquillo».«Mi piace Gesù, quello che ha det-to, che ha fatto... No, la chiesa no,quella ha stravolto tutto. Ma Gesùsì che era una brava persona».E mentre non ha ancora finito diparlare della trama del suo musi-cal, si tuffa nel racconto di un libroche sta scrivendo.Quando narra, si ha l’impressioneche lo stia inventando lì, su duepiedi, davanti a quel Prosecco, trauna patatina e l’altra. «Si chiama ilTredicesimo apostolo ed è la storiadi Fabius Mauritius, un pescatoreamico di Giuda che capisce le in-tenzioni del traditore e va ad avvi-sare Gesù del complotto per sal-vargli la vita». E mentre sei lì a cer-care di immaginarti un tredicesi-mo apostolo traditore del tradito-re, eccolo che torna a parlare dellacombriccola del Sunshine HeroesBar, una bettola di mare, trasfor-mata in un pub alla moda, da dovepartono le avventure di CapitanDreamer, a metà strada tra CortoMaltese ed Ernest Emingway, chedopo una vita in giro per il mondofa capolino al bar ristrutturato dauna bellissima donna di colore,Clara. Al banco l’uomo di mareincontra l’amico Jack, che ritrovacome l’ha lasciato: con il drink inmano. E tra un Lucas e l’altro (ov-vero un cocktail inventato a Geno-va da un amico di Pollari), i due siraccontano le avventure vissute.

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In ogni lavoro, in ogniesperienza, Pollari si

imbatte in ungroviglio di incontri

fatali e di amicizie chetrasformano

l’esistenza piatta di unforse-ragioniere, nellemontagne russe di un

sicuro uomo di mondo

La notte Pollari scrive.Il Tredicesimo

apostolo è la storia diFabius Mauritius, un

pescatore amico diGiuda che capisce le

intenzioni deltraditore e va ad

avvisare Gesù delcomplotto per

salvargli la vita»

Nella pagina a fianco, in alto:Maurizio Pollari (al centro)durante una pausa di Carmen.In basso: la caricatura di CapitanDreamer. In questa pagina, inalto: Pollari con il famoso tenorecatalano José Carreras (al centro).Nelle altre immagini Pollari conalcune amiche

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Le persone di solito fanno progetti, hanno unlavoro per garantirsi un’esistenza dignitosa,magari una famiglia e così via. La vita tra-scorre tra feste comandate e compleanni, piùo meno serena più o meno felice, ovviamenteciò dipende da una serie di situazioni e an-che da un pizzico di fortuna.Per alcuni la vita è una cosa, diciamo… unpo’ meno organizzata. Ci si sveglia la matti-na, mai alla stessa ora, e inizia un’avventurao meglio un “delirio” come direbbe il nostropersonaggio: Maurizio Pollari.La sua è sempre stata una vita bohemien tragrandi progetti e le bollette del gas che non sisa come pagare. Già da adolescente, senzaun soldo in tasca, vive mille avventure traGenova e Portofino, poi decide di imbarcarsie finisce per fare il cameriere su una nave dacrociera sulla rotta New york-tropici. Ci ri-mane per un po’, soprattutto perché i soldi

appena guadagnati vengono puntualmentespesi al casinò. Così gli tocca reimbarcarsi.Di certo non è un genovese tipico per quelche riguarda il rapporto con il denaro.Qualche anno è passato dai tempi delle pas-seggiate sul lungo mare ma il suo spirito è lostesso, basta che qualcuno abbia un’idea olanci una proposta che è subito pronto a par-tecipare e a partire. A fare le spese di questavita on the road c’è il televisore di casa sua,che probabilmente avrà il tubo catodico sca-rico, visto che nell’ultimo anno sarà stato ac-ceso solo durante la finale del mondiale dicalcio (ma non c’è da metterci la mano sulfuoco).Oggi Maurizio lo troviamo sempre uguale,con quel suo modo distinto, lo sguardo in-tenso, la voce rotonda dal colore vellutato, davero gentleman. Le difficoltà non lo hannoscalfitto e nonostante situazioni difficili o di

disagio non manchino, riesce sempre ad af-frontarle con dignità e correttezza, senza maipiangersi addosso ma sfruttando il suo sarca-smo e la sua vena comica per trovare sempreil lato divertente. Queste capacità di solito sichiamano saper vivere. Episodi divertenti oparadossali riempiono la sua vita, tanto cheservirebbe un’enciclopedia a parte.Qualcuno ha scritto che la vita è ciò che cisuccede mentre pensiamo a qualcosa d’al-tro. Maurizio potrà essere accusato di moltecose, ma non di questo. In una società comela nostra sempre più omologata da rigidischemi di profitto e di efficienza c’è bisognodi personaggi come lui che propongono al-ternative, talvolta o frequentemente noncondivisibili, ma che ci aiutano a prenderele cose con un po’ più di leggerezza e soprat-tutto a sorridere.

Gianni Calafà

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zia una caccia al tesoro per trovarei soldi e far curare l’amico mori-bondo. Dopo alcuni tentativi an-dati a vuoto, i due tornano al barcon i soldi, accolti da eroi. Si sco-pre che quella di Jack non era unavera malattia, ma un avvelena-mento per mano di un compagnodi poker: il sinistro Slim, che am-mette di aver agito per imposses-sarsi del tesoro. Il perfido impo-store tenta quindi di svignarselacon il bottino. Ma è tutto inutile,come in ogni favola che si rispetti,

«Con la sua vita ci insegna a non prenderci troppo sul serio»

Capitan Dreamer, Jim e il fidobarman Clay impediscono con laforza dei muscoli e dell’astuzia ilcolpo di mano: e tutti vissero, fe-lici, ricchi e contenti. Se il tempodelle scorribande sul lungomare eal casinò di Montecarlo è passato,non è finito quello del sentimen-to perché, liberi da ogni impedi-mento, ora Clara e Capitan Drea-mer coronano il loro sogno d’a-more.Ma chi nella realtà interpreteràquesto musical? Pollari-Capitan

Dreamer sogna, per l’appunto,che un giorno saranno JohnnyDeep e Penelope Cruz a far viverela sua storia su un palcoscenicocarico di luci e sfavillanti lustrini,mentre un corpo di ballo di alme-no trenta elementi danzerà sullenote degli intramontabili RollingStones. Perché, come dice Pollari,«La vita è una lotta, ma puoi ren-derla piacevole se non sei un idio-ta». E se lo dice un sognatore cheidiota non è, ma solo innamoratodella vita e di se stesso, allora vuoldire che è vero, che basta poco peressere felici: un buon Lucas, unabella donna e qualche amico dis-posto a muovere le montagne perregalarti un tesoro che ti salvi lavita (e magari, anche l’anima).Insomma, cose di tutti i giorni.Ma, tornando alla realtà, il musi-cal di Pollari è finito anche nelcassetto del sindaco Paolo Zanot-to che, chissà, magari prima delleprossime elezioni deciderà dipromuoverlo e coronare così ilsogno di questo veronese d’ado-zione facendolo rappresentare inarena, accanto a Notre Dame deParis e all’Aida. Intanto CapitanDreamer è di nuovo in partenza.Durante il Natale tornerà a casa, aGenova, ad assistere la madre ma-lata. E poi via, da lì si imbarcheràalla volta di Las Vegas alla ricercadi nuove avventure da vivere, daraccontare.

Parlano delle scorribande sulla co-sta in Jaguar, delle «bamboline edell’ottimo rock», di quando an-cora erano pivelli «vestiti di setanera, con i capelli sulle spalle, unrotolo di banconote in tasca e la ri-sata ogni tre minuti».Capitain Dreamer spiega di quan-do «tutto era magico e senza limi-ti» e invita l’amico a non piangersiaddosso perché ora è tornato e haun grande progetto: «Raccontareal mondo tutto quello che si ècombinato, e dei casini ne abbia-mo fatti da scrivere un romanzo.Alla gente piacerà, rideranno dellenostre avventure e faremo un belpacco di dollari. Non ti ricordi ilnostro motto? L’importante è ri-dere e noi abbiamo sempre riso ditutti e di tutto, anche quando la vi-ta era più dura dell’acciaio».Jack e Capitan Dreamer ricordanol’avventura che diede forma a quelmotto, quando persero tutti i soldie anche la macchina al casinò diMontecarlo e, senza una centesi-mo in tasca, trovarono il coraggiodi ridere delle proprie bravate.Ma dalle risate si passa alle lacrimequando si scopre che Jack, che nel-la realtà è un caro amico di Pollari,sciupafemmine, pieno di soldi e divita ha perso tutto ed è molto ma-lato. Il supereroe che c’è in Capi-tan Dreamer esce allo scoperto emobilita Jim (altro personaggiopreso dalla realtà) con il quale ini-

Maurizio Pollari nei panni del torero durante una rappresentazione di Carmen

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di Giorgia Cozzolino e Cinzia Inguanta

I TIPI DI VELO, LE ORIGINI E I DOGMI

Sono sette i tipi di velo che le don-ne islamiche possono indossare.Non stiamo parlando dei celebrisette veli delle danzatrici del ven-tre, bensì di un capo di abbiglia-mento prescritto dalla religione is-lamica a tutte le donne che abbia-no superato la pubertà. Il princi-pale è la Hijab, che copre il capo esi chiude sul davanti, intorno alcollo, talvolta anche con un gioiel-lo. Di questo tipo di velo esistonodue varianti di “moda”, che sonoAl Amira e Shayla, usati indipen-dentemente dalle donne, a secon-da del proprio gusto nell’abbi-gliarsi. Il primo è composto dauna bandana che trattiene i capelli

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Il velo a Verona:Le donne parlano

Vorremmo capire bene il suo significato. E come mai molte musulmane,dopo averlo abbandonato, sono tornate a indossarlo con orgoglio?

Velo sì o velo no? Questa domanda è riecheggiata suiprincipali organi di informazione nazionali a seguito delforte diverbio scaturito tra la deputata di Alleanza Na-zionale, Daniela Santanchè e l’Imam di Segrate, AbuShwaima, a proposito dell’obbligo, per le donne musul-mane, di indossare il velo. Un ennesimo punto di scon-tro tra la cultura occidentale e quella islamica che contri-buisce a chiudere la porta del dialogo. Abbiamo in primoluogo cercato di conoscere le origini della cosiddetta Hi-jab (il velo) e di tutte le sue varianti: dal Chador al Bur-qa. Abbiamo cercato di conoscere gli obblighi e le conse-guenze che derivano dal suo uso in una società comequella veronese. Lo abbiamo fatto con l’aiuto della mas-sima autorità islamica cittadina, l’Imam Guerfi, e conuna sua “sorella” musulmana. Italiane convertite all’Is-lam ci hanno spiegato la visione e i valori che supporta-no l’utilizzo del velo. Ad alcune donne veronesi abbiamochiesto un’opinione in merito. Ne è emerso un quadrodalle mille sfaccettature dal quale possiamo trarre pro-fondi motivi di riflessione.

sulla fronte, combinata con unfoulard che si sovrappone e che fi-nisce coprendo il collo, mentre ilsecondo è una sorta di scialle av-volto attorno alla testa e fermatosu una spalla. Vi è poi il Chador, invoga in Iran, che copre la testa etutto il corpo lasciando libero ilvolto. I veli che l’occidente criticafortemente sono il Niquab, tipicodell’area del Golfo, e il Burqa ori-ginario dell’Afganistan. Nel Ni-quab rimangono scoperti solo gliocchi della donna, mentre con ilBurqa anche quelli sono nascostida una retina che permette a chi laindossa di vedere senza essere vi-sti. Un abbigliamento che vieneconsiderato, dal mondo occiden-tale, un simbolo di sottomissione easservimento della donna all’uo-mo. Un obbligo che lede la dignitàe la libertà femminile. Se in talunipaesi e talune culture questo hacorrisposto e corrisponde allarealtà, quando cioè all’obbligo del

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velo segue tutta una serie di di-vieti e comportamenti lesivi neiconfronti della donna, in altrimoltissimi casi il velo è vistocome una libera scelta religiosa,da portare con orgoglio e fie-rezza perché simbolo del pro-prio credo. Così spiega Omos-sama, una giovane madre mu-sulmana che lavora come me-diatrice culturale a Verona efrequenta la moschea di viaBencivegna Biondani: «Quan-do sono arrivata qui era diffici-le per me rispondere a chi michiedeva perché porto il velo.Un po’ perché non riuscivo aspiegarmi bene in italiano e unpo’ perché per me era normaleportarlo, ne andavo fiera per-ché nel mio paese era naturaleaverlo e non mi ero mai chiestaperché. Poi ho capito che qui ilvelo aveva altri significati e cosìho approfondito la mia cono-scenza religiosa e vi ho trovatosemplici e valide spiegazioni dadare a chi me lo chiedeva».Allora perché una bella donnacome Omossama indossa unaHijab? «Perché me lo dice Dio,il Corano, perché una buonamusulmana segue gli insegna-menti e mostra solo a suo mari-to il suo corpo. Per me è un attodi coraggio, oggi come oggi,mostrare agli altri il mio credo,insomma, un atto di fede».Omossama spiega che «il velo èun obbligo che si ritrova nelletre religioni monoteiste. Unadonna ebrea sposata dovevaportare un velo che le coprivainteramente i capelli. Nel cri-stianesimo l’uso del velo si vedeattraverso le immagini sacrema se ne parla anche nel NuovoTestamento». Nelle Lettere aiCorinzi, Paolo (I,11,6) afferma-va: «Se dunque una donna nonvuol mettersi il velo, si tagli an-che i capelli! Ma se è vergognaper una donna tagliarsi i capellio radersi, allora si copra».In una società dove si è semprepiù nudi che vestiti, dove più simostra e più si ha successo edove il pudore non è più consi-derato un valore ma un handi-cap, Omossama rivendica ilsuo diritto di essere libera dicoprirsi. Quasi a dire: una vol-ta arrivati alla fine, bisogna ri-cominciare da capo.

bia molto a che fare con i principireligiosi».Zahya, egiziana, porta il velo per-ché per lei vuole dire sicurezza,protezione. Una barriera tra lei eil male, «uno strumento moraleper discostarsi dagli atti immora-li. È il simbolo della differenza trame e le donne occidentali dellequali non condivido i valori».Il velo diventa un simbolo di dis-tacco da un sistema di valori incui i musulmani non si ricono-scono. Concetto ribadito ancheda Patrizia Khadija Dal Monte«Per me la libertà non è fare quel-lo che mi pare, vestirmi come mipare. Fare il bene è la libertà, la re-ligione dà la libertà. La libertà èvivere nella verità di Dio, non se-guire le mode superficiali. Io vela-ta, sono più libera di una velina».I movimenti femminili dei paesimusulmani pur combattendo perl’eliminazione delle disugua-glianze dovute al genere, da sem-pre dichiarano di non riconosce-re come valido il modello di don-na proposto dalle società occi-dentali.

LA NIPOTE DI MAOMETTO

Il professor Iqbal al Gharbi, del-l’università islamica Zeïtouna, inun suo recente articolo ci ricordache l’uso del velo è stato contesta-to in ogni epoca dall’interno stes-so del mondo musulmano. «A co-minciare dalla nipote di Maomet-to, Sukaïna Bint El Hussein, cherifiutava di portare il velo e affer-mava che se Allah le aveva fattodono della bellezza, sarebbe statostupido nasconderla sotto un ve-lo».

Patrizia Khadija Dal Monte, ve-neta convertita all’Islam, respon-sabile Ucoii per le Pari Opportu-nità, il velo lo porta da 17 anni«perché fa parte dell’Islam», spie-ga. «Le musulmane lo vivono co-me un precetto religioso, non co-me un’imposizione del maschio.La religione islamica si applica al-lo spirito e al corpo, non c’è sepa-razione. L’uomo non deve indos-sare la seta e l’oro, la donna deveindossare il velo. È un obbligomorale».Faridah Emanuela Peruzzi, vero-nese convertita all’Islam Respon-sabile Affari Giuridici Coreis (co-munità Religiosa Islamica) invecesi copre con il velo «solamentedurante i momenti in cui è neces-sario farlo e cioè durante le pre-ghiere. La copertura del capo, sianell’uomo che nella donna, ma-nifesta la predisposizione all’a-scolto e al raccoglimento, il veloquindi esprime lo stato di consa-crazione che la donna assume percomunicare con Dio. Al di fuoridi questi momenti, l’uso non èobbligatorio e io cerco di attener-mi a ciò che è prescritto come ne-cessario».Afida, marocchina sposata conun connazionale e madre di duebambine vive in Italia da 15 annie il velo non lo ha mai indossato,anche se confessa che il marito sa-rebbe contento se lei lo facesse.«Non porto il velo, non avrebbesenso è una cosa che non sento»,dice, «ci sono delle amiche checome me non lo hanno mai por-tato, ma da qualche tempo hannoiniziato a farlo, è un modo di ri-vendicare la loro appartenenzaculturale, non mi sembra che ab-

«Il velo è strumento di segrega-zione e di esclusione della donna»dice Alma, tunisina studentessaprossima alla laurea, «Mira aproibire il corpo della donna,pensato come perverso e minac-cioso per l’ordine sociale islami-co, inteso come ordine maschile.Non potendo rinchiudere com-pletamente la donna, usano il ve-lo per coprirla, per rinchiuderlaalmeno virtualmente. La verità èche non sono pronti», sorride. Econtinua: «Non possiamo trau-matizzare i nostri uomini. Lamentalità che ci portiamo dentroè legata agli schemi tribali dei no-stri paesi d’origine. La democra-zia e la tolleranza del paese, cheora è anche il nostro, sono impor-tanti fattori di cambiamento, maquesto deve maturare nelle co-scienze dei singoli non si può im-porre».

L’ASSESSORE

Il velo diventa una barriera all’e-mancipazione solo quando di-venta un fattore di coercizioneper l’assessore all’istruzione delcomune di Verona, Maria LuisaAlbrigi, che dichiara «per me nonè un problema l’utilizzo del velo,purché non venga imposto».L’assessore esprime il timore chea volte l’utilizzo del velo nascon-da il bisogno di mantenere vivoun legame con la cultura d’origi-ne dettato dalla difficoltà d’inse-rimento nella nuova realtà socia-le.Rispondere alla domanda velo sìo velo no risulta difficile perché cisono molti piani di lettura legatial suo utilizzo, che spesso s’inter-

Espressione di fedeo rivendicazione di un’identità?

Tra le musulmane che vivono a Verona i pareri sull’uso del velo sono diversi e motivati. Ecco cosa ci hanno detto

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Inchiesta

«L’uso del velo è un obbligo religioso, manon una costrizione. Chi si ritiene un buonmusulmano segue i dettami della fede», spie-ga l’Imam Guerfi. «Il Corano invita le donnee gli uomini a coprirsi. Ma come? Qui sorge ilproblema che i sapienti hanno risolto indi-cando per le donne di celare il capo, il petto eil corpo, lasciando scoperte le mani e il viso.L’indicazione è quella di non indossare abitiattillati, sia per uomini che per le donne, etrasparenti. Il colore non è importante», ag-giunge, «Il velo è per una salvaguardia delladonna, non è fatto per sminuirla ma per pro-teggerla. In una donna, come in un uomo, cisono cose che ci attirano, e l’attrazione èsempre la causa di peccato e qualche voltaanche di prevaricazione. La donna è conside-rata come una perla che per conservare la suabellezza viene nascosta da un guscio brutto».Un ideale romantico, quasi cavalleresco,quindi, che l’occidente ha perduto o superatocon l’emancipazione della donna, che a benvedere mette sotto una cattiva luce l’uomo,considerato alla stregua di un animale chenon sa controllare i propri impulsi di fronte auna bella ragazza: «Per noi il peccato comin-cia con l’occhio e finisce con cose ben peg-giori, come i bambini buttati nel cassonetto»,replica Guerfi.Il Corano (33;59) recita: «O Profeta! Dì alletue spose, alle tue figlie e alle donne dei cre-denti di coprirsi dei loro veli: è per loro il mi-glior modo per farsi conoscere e per non es-sere offese. Dio è veramente Perdonatore eMisericordioso», indicando così l’importan-za per l’universo femminile di proteggere lapropria bellezza dagli sguardi indiscreti. Main nessuna sura il Corano impone al credentedi coprirsi, o costringe la donna a celarsi; lainvita semplicemente a comportarsi nel mo-do che Dio considera più appropriato. Tantoche al versetto 2;256 si dice: «Non c’è costri-zione nella religione», essa è una scelta consa-pevole e soprattutto libera.Ed è proprio sul tema della libertà che l’I-mam dirige la conversazione spiegando chela violazione della libertà, compresa quellareligiosa, in nome della libertà stessa, non èaccettabile. «Io sono contrario all’uso delBurqa e della minigonna, ma anche se non

condivido ne ho comunque rispetto. Chi in-vece vuole togliere il velo alle nostre donne innome della libertà, non ha rispetto per la li-bertà delle donne musulmane di seguire idettami della propria religione».Molti problemi nascono nelle nuove genera-zioni di musulmani, quelle cresciute in occi-dente che si trovano nel mezzo di due cultureagli antipodi. «Tutto dipende dalla famiglia»,spiega Guerfi, «fare il genitore è difficile, mafino a un certo punto. Se il padre e la madrevivono seguendo i principi islamici i figli cre-sceranno considerandoli propri. Talvolta i fi-gli possono insegnarci a comprendere quan-do ci sono attacchi all’Islam, perché sono piùaperti e conoscono entrambe le visioni cul-turali». E racconta: «Il profeta dice di giocarecon i tuoi figli per i primi sette anni, di inse-gnare loro per i secondi sette anni e di diven-tare loro amico nei successivi sette.Se io seguo i precetti e li insegno ai miei figlinei secondi sette anni della loro vita, essi po-tranno alla fine essere diventare musulmani,ma non è detto. L’importante è che dopo i 14anni io sia vicino a loro da amico, senza im-porre più nulla». E aggiunge: «Il problemanon è il velo o la minigonna, ma quando nonsi parla. Da qui nascono le incomprensioni ele mancanze di rispetto».Nell’assenza di vero dialogo, Guerfi trova lacausa delle incomprensioni tra le due cultureche sono nate, a dir suo, solo dopo l’11 set-tembre. «Da 35 anni i musulmani sono inItalia, eppure non c’è mai stato nessunoscontro prima dell’attacco alle Torri Gemelle.E il problema molto spesso risiede nel lin-guaggio. I fanatici, quelli che non hanno ca-pito niente della propria fede, ci sono in ognireligione, ma c’è anche chi vorrebbe un Islama proprio uso e consumo chiamandolo “mo-derato”. L’islam è islam e basta e quando unislamico rispetta tutte le leggi del paese che loospita, non si può attaccarlo solo perché pra-tica il suo credo». L’Imam si affretta però aprecisare che Verona, dal punto di vista del-l’integrazione religiosa, è una «isola felice».Qui, afferma, «abbiamo trovato sincerità didialogo e la volontà di seminare insieme ilseme della pace e se non coglieremo noi ifrutti, saranno sicuramente i nostri figli».

IL PARERE DELL’IMAM

«Noi rispettiamo le leggi, voi rispettate il veloe continuiamo sulla strada del dialogo»

inVERONA 9

«Sono contrario all’uso del Burqa e della

minigonna, ma anche senon condivido

ne ho comunque rispetto.Chi invece vuole togliere ilvelo alle nostre donne in

nome della libertà non harispetto per la libertà delle

donne musulmane diseguire i dettami della

propria religione».

L’Imam Mohamed Abdeslem Guerfi

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secano tra loro. Certo è che, comeafferma Faridah Emanuela Pe-ruzzi, «non si può demonizzare ilvelo a causa dell’uso distorto che ifanatici o gli ignoranti ne fanno.Si cerchi, piuttosto, di fare in mo-do che questo uso distorto nonavvenga, attraverso una maggioreconoscenza della religione, un’in-formazione più onesta e la re-pressione dei violenti e dei preva-ricatori. Usi e costumi legati apaesi stranieri passano per dettatireligiosi e a volte l’Islam nonc’entra affatto. Del resto anchenella cultura occidentale ci sonosuore cristiane che indossano ilvelo come segno di devozione aDio e questo non ha mai suscitatoscandalo. Perseguire la libertàostacolando o negando dirittifondamentali, come quelli reli-giosi, è un controsenso. Privarequalcuno della libertà di espri-mersi attraverso i simboli del suocredo religioso è, a mio avviso,una palese violazione dei diritticostituzionali. E poi di qualeemancipazione si sta parlando?Di quella che impone un modellofemminile di omologazione con-sumistica, in cui non c’è spazioper l’interiorità e per la fede? Cre-do che la religione autentica nonostacoli lo sviluppo armoniosodella persona o l’inserimento atti-vo nella società e nel lavoro, macostituisca un prezioso punto diriferimento a cui ispirare i propriatti quotidiani. Con o senza velo».

Barbara Bibbo, giornalista, dopo anni di collaborazioni al Messag-gero Veneto, ha deciso di sfruttare i suoi studi arabo islamici nelcampo giornalistico e si è trasferita nel Qatar dove da quasi sei annilavora per Gulf News e corrisponde per Ap e Repubblica. È cattolicae, nonostante le difficoltà e un pandoro che le costerà 20 euro, fe-steggerà il Natale banchettando con colleghi, amici e il fratello, a ba-se di agnello in umido perché, dice, «è l’unica carne buona in vendi-ta nella zona e una delle poche che so cucinare». Sul velo ha le ideechiare: «Bisogna distinguere da paese a paese. Ci sono islamisti cheinterpretano un versetto chiave di Maometto, come un invito alledonne a coprirsi per pudicizia. Ma coprirsi cosa: il volto? Le partiintime? O è solo un invito a vestirsi in modo modesto? La questionerimane aperta più che mai, proprio perché il Corano in realtà sipuò interpretare in molti modi». E prosegue: «Se poi guardiamo almondo del costume, il velo nel mondo beduino è sempre esistito,anzitutto per coprirsi dal sole cocente! E poi in fondo, non si velanoanche gli uomini del Golfo con la bianca “gandura”? Non vedraimai per strada un qatarino con braccia, ascelle, capo scoperto. Nes-suno ci riflette mai. Tra l’altro qui il velo per le donne è un segno didistinzione, inteso come superiorità della popolazione indigena ri-spetto alla maggioranza immigrata». Barbara allarga poi gli oriz-zonti geografici e dice: «Nel resto del mondo arabo-islamico, il veloè stato più o meno strumentalizzato per opprimere la donna, senzadubbio. Io credo che siano le donne stesse a poter cambiare questasituazione, però se decidono che il velo fa per loro, bisogna che le ri-spettiamo. Mia nonna (provincia di Benevento) non usciva mai dicasa senza il fazzoletto nero in testa. Indossava solo gonne fino allacaviglia e le calze coprenti, anche durante l’estate. Quindi credo chedobbiamo dare loro tempo, ma anche combattere quel mondo ma-schilista che usa il velo come una scusa per opprimerle». E con-clude: «La domanda da farsi non è velo sì, velo no, ma piuttosto,se le donne sono libere di scegliere di indossarlo o meno. La ri-sposta nella maggior parte dei casi è “no”. Decide per loro il mari-to, la famiglia, l’Imam o la società che la addita se va in giro a ca-po scoperto».

Inchiesta

Dicembre 200610

«Rispondere alladomanda velo sì o velo

no risulta difficileperché ci sono molti

piani di lettura legatial suo utilizzo, che

spesso s’intersecanotra loro. Ma non sipuò demonizzare il

velo a causa dell’usodistorto che i fanatici

o gli ignoranti nefanno»

«Di qualeemancipazione si staparlando? Di quella

che impone unmodello femminile di

omologazioneconsumistica, in cui

non c’è spazio perl’interiorità e per la

fede?»

«Il velo mira aproibire il corpo delladonna, pensato come

perverso e minacciosoper l’ordine sociale

islamico, inteso comeordine maschile. Nonpotendo rinchiudere

completamente ladonna, usano il velo

per coprirla, perrinchiuderla almeno

virtualmente»

L’inviata «speciale»

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inVERONA 11

di Alessandro Norsa

Veronetta, quartiere storico della nostracittà, era abitata fin dal ’700, ’800 da perso-ne nobili (di cui oggi rimangono i palazzi)ed altre non abbienti, come testimonia lapresenza di tanti istituti religiosi che si oc-cupavano dei poveri. Negli anni ’70 del se-colo scorso la maggior parte dei residentiera costituita da anziani. Per spiegare comemai un quartiere popolare abbia finito pertrasformarsi in un “ghetto” si fa strada l’i-potesi dell’affitto/affare.A fine anni ’80, primi ’90 c’era una grandediffidenza nell’affittare gli appartamentiagli extracomunitari; chi lo faceva in alcu-ni casi rincarava l’affitto del triplo per ap-partamenti dove abitavano (ma succedeanche oggi) in dieci in 40 metri quadri. Ilsovraffollamento serve per dividere le spe-se dell’affitto, ma si spiega anche per la na-turale tendenza degli immigrati, che ven-gono da uno stesso Paese, ad aggregarsi persentirsi meno soli.La presenza degli immigrati durante glianni è aumentata in modo direttamenteproporzionale e la stessa cosa è avvenutanei condomìni di Veronetta, con il conse-guente trasloco altrove degli abitanti origi-nari, creando così, come lo vediamo ora, il“ghetto”.Questo spaccato di storia veronese è similea quello di altre città italiane; ogni città hail suo nuovo ghetto. Ricordo – tra le più vi-cine – a Padova l’“Arcella”, a Brescia il “Car-mine”, a Milano “Milano Greco” e “VialeJenner”, dove attualmente si trova anche lamoschea, e nell’interland milanese “Quar-to Oggiaro”; tutti ex quartieri popolari,tutti con una storia analoga a quella vero-nese.Credo che questo sia il prodotto di una po-litica nazionale limitata e miope. Se l’af-flusso di una grande quantità di stranierifosse stato programmato nel numero e nel-la collocazione lavorativa/abitativa, ogginon avremmo nessun ghetto, ma una buo-na integrazione, con i nuovi arrivati in gra-do di assimilare i valori del Paese che liospita e i residenti indigeni messi nellacondizione di conoscere culture diverse, di

aprirsi verso nuovi modi di pensare e di vi-vere. Al contrario l’arrivo è stato disordi-nato, mal gestito, non controllato renden-do possibili sfruttamenti a tutti i livelli (daquello abitativo a quello lavorativo) conproblemi di ordine pubblico (rapine, scip-pi, violenze, droga ecc.). È infatti vero chese un individuo si sposta dalla sua terra perfame e necessità e arriva nel nostro Paesesenza un lavoro, anche se è una brava per-sona dopo qualche giorno che non mangial’istinto di sopravvivenza la porterà a ruba-re o a essere comunque vittima della delin-quenza.Con i dovuti distinguo, posso citare comeesempio di integrazione ben riuscita quellache ho potuto osservare durante il periododi permanenza semestrale presso l’Univer-sità di Coimbra in Portogallo. Lì erano pre-senti studenti che giungevano dalle diverseex-colonie portoghesi ed altri di varie na-zionalità che venivano ad imparare la lin-gua. Durante la giornata si poteva stare in-sieme ed era piacevole condividere le fati-che dello studio e confrontarsi sul diversomodo di stare nel proprio Paese d’origine.Credo che la possibilità iniziale della fre-quentazione di un corso di lingua e culturaportoghese indetto dalla facoltà di Letteredella stessa Università abbia facilitato lacomprensione reciproca. Il numero deglistudenti veniva precedentemente concor-dato con i docenti e teneva conto della loroeffettiva possibilità di seguire nuovi allievidurante i corsi; inoltre per gli studenti eragarantita una soluzione abitativa sicura edignitosa. La situazione era ideale perché lacondizione tra le persone era paritaria e ilrispetto reciproco garantito.Mi rendo perfettamente conto che è im-possibile applicare il modello di una cittàuniversitaria ad una nazione, ma l’esempioserve solo a sottolineare che in presenza diun flusso migratorio più morbido sonomaggiori le possibilità di integrazione.Voglio anche portare la testimonianza diun recente viaggio in Romania. Da questoPaese emigrano in Italia migliaia di perso-ne ogni anno. Le motivazioni che le spin-gono sono legate o a delle certezze (qual-che parente che già si è stabilito qui e che li

può introdurre nel lavoro e nella vita so-ciale); oppure a delle false convinzioni (lavita in Italia è facile e qualche cosa di sicu-ro si trova da fare). Con queste motivazio-ni, o convinzioni, si allontana dalla Roma-nia gran parte della fascia intermedia dellapopolazione. Mi ha fatto una certa impres-sione vedere alcuni paesi del Maramuresulabitati prevalentemente da anziani e bam-bini, che mi raccontavano del loro inelut-tabile stato di abbandono.Coloro che emigrano sono solitamente imigliori (che sono anche quelli che avreb-bero potuto fare qualche cosa per la loronazione) e i peggiori (che dovunque crea-no disordine). Per i peggiori non vale la pe-na spendere una parola di più, ma per i mi-gliori credo di sì. È forse ben utilizzataun’ingeniere ucraina che trova lavoro co-me badante in Italia? Il fatto che questapersona svolga un lavoro diverso dalla suaqualifica in un altro Paese è certamente undanno alla ripresa economica della sua na-zione che in lei aveva investito.Già nell’ ’800 Daniele Comboni diceva«Aiutare l’Africa con l’Africa»: credo chequesto concetto sia più che moderno; è difatto mia convinzione che il modo miglio-re per aiutare tanti potenziali migranti siaquello di evitare lo sradicamento dalla loroterra, con programmi di incentivazione al-la ripresa economica del loro Paese.Riassumendo, ritengo che il nocciolo peruna integrazione ottimale sia: 1)la possibi-lità di avere una larga distribuzione distranieri sul territorio e non concentrati inpochi quartieri; questo per offrire la possi-bilità della reciproca conoscenza e per evi-tare gli stereotipi che infine sono i precur-sori del pregiudizio. 2) L’adeguamento de-gli stranieri alla formazione e allo stile la-vorativo. 3) L’adeguamento alle norme so-ciali e il rispetto per le tradizioni culturalie religiose del Paese ospite. 4) Il rispetto,da parte del Paese ospitante, della diversacultura e sensibilità di chi proviene da ter-re lontane.Con queste premesse credo fermamentesia possibile una buona ed arricchente in-tegrazione; diversamente si creano diffi-denza e paura per la diversità.

IMPARARE A VIVERE MEGLIO

Veronetta, gli errori si pagano

Page 12: Verona In 13/2006

di Elisabetta Zampini e Irene Lucchese

Il cibo è stato forse il primo pro-dotto di importazione. L’Europaimporta cibi stranieri da più ditremila anni, anche se il momentodi maggior novità culinaria è rap-presentato certamente dalla sco-perta dell’America: grazie a Co-lombo per noi oggi sono assoluta-mente comuni caffè, cacao, pata-te, mais, pomodori e così via.Di più recente introduzione sonoil kiwi, il pompelmo, il mandari-no: nessuno pensa che quest’ulti-mo sia arrivato in Europa dallaCina nella prima metà del 1800,mentre kiwi e pompelmo addirit-tura nel 1900.Questi cibi sono pienamente en-trati nella cultura italiana e vero-nese, tant’è che hanno rivoluzio-nato i paesaggi agrari attorno allacittà: basta guardare i numerosicampi di soia o le piantagioni dikiwi che invadono le nostre cam-pagne.Anche nei supermercati si trova-no facilmente alimenti non autoc-

toni, come il riso basmati, il co-uscous, la salsa di soia, tutto il ne-cessario per preparare una cenamessicana, cinese o indiana.«Oggi, però, non c’è ancora unadiffusa cultura della cucina stra-niera nelle case», commenta Clau-dia Robiglio, docente di Geografiaeconomico-politica e presidentedel Master in Geografia, Gover-nance ed Economia alla facoltà diLingue e letterature straniere del-l’ateneo veronese. «I contatti conle nuove pietanze avvengono so-prattutto nei ristoranti, nei chio-schi, nelle gastronomie», aggiun-ge. Come a dire che i veronesihanno voglia di assaggiare manon si fidano sempre delle pro-prie mani: meglio affidarsi agliesperti.«La grande novità di questi ultimianni», prosegue la docente, «sonole serate a tema: tra i giovani (enon solo) si è diffusa l’abitudinedi uscire apposta per cenare cine-se, giapponese, messicano o man-giare assieme una paella, piattounico simbolo di convivialità. Lacucina cinese, ad esempio, è stata

una delle prime a comparire a Ve-rona con grande successo, mentrepiù recente e da sperimentare èquella giapponese».Condividere le abitudini alimen-tari significa anche entrare nellavita e nello stile di altri popoli, èun elemento di conoscenza e inte-grazione che sicuramente rendepiù facile la convivenza tra culturediverse. Il cibo ha intrecciato lega-mi di uomini e geografie da sem-pre.Le Vie delle Spezie erano i tragittisui quali si realizzava una sorta di“globalizzazione dell’antichità”che metteva in comunicazione ilMediterraneo con le terre miste-riose dell’Asia. Dopo aver attra-versato il mare e dopo gli avventu-rosi viaggi dei carovanieri arabiarrivava nei piatti delle più ricchefamiglie romane la più preziosatra le spezie, il pepe.Il viaggiatore, di ritorno dalla fa-volosa Zanzibar, era fiero di por-tare con sé come ricordo o comedono da offrire un piccolo tesorodi spezie: la cannella, la noce mo-scata, lo zenzero, il cardamomo, il

Cultura

Dicembre 200612

CIBI DI ALTRI PAESI

Profumi d’OrienteTanti in città i negozi di alimentari gestiti da immigrati. Sugli scaffali si trovamerce che viene da lontano. Per far sentire a casa chi ha lasciato la terra dove è nato, ma anche per incuriosire chi vuole cimentarsi con una cucina diversa

Condividere le abitudini

alimentari significaentrare nella vita e

nello stile di altripopoli, è un elemento

di conoscenza eintegrazione che

sicuramente rende piùfacile la convivenza

tra culture diverse

Presanna, titolare di un negozio di alimentariin via Carducci

Page 13: Verona In 13/2006

cumino, la vaniglia e gli straordi-nari chiodi di garofano.Davvero è molto semplice trovarequesti e altri prodotti “lontani”. Eciò invoglia a provare a “mettere lemani in pasta”. Già una buonafortuna l’ha avuta il cous cous: èveloce, facile da cucinare, può es-sere un piatto completo. Si adattaanche alla frenetica vita del Nord-est. Tanti sono a Verona i negozi dialimentari o le macellerie gestiteda stranieri e che propongonoprodotti dei paesi d’origine. Moltihanno iniziato l’attività in questiultimi mesi.Alle Golosine, in via Prina, c’è unagrande macelleria rumena “AlbaJulia”. È sabato pomeriggio. Il ne-gozio è pieno. Specialmente stra-nieri. Ma l’invito a entrare è rivol-to a tutti: sulla tenda sopra la ve-trina accanto alla bandiera rume-na compare quella italiana.La macelleria “Noyel”, in via Saffi(vicino a Porta Palio) ha aperto daun anno. I gestori sono contenti.Sono dello Sry Lanka: «Da noivengono a comprare soprattuttorumeni e africani. Ma anche ita-liani», dicono.A San Zeno c’è l’“Anatolia Ke-bab». Oltre al classico panino diverdure e carne speziata, vengonoofferte specialità turche. Il nomedel locale evoca viaggi in una re-gione d’obbligo per chi si reca daturista in Turchia, l’Anatolia ap-punto. Si fa riferimento cioè a unluogo conosciuto ed invitante,quasi a rassicurare. In effetti l’au-mento dei viaggi all’estero è rite-nuto dagli stessi negozianti unodei principali moventi dei clientiveronesi: «Gli italiani che entranonel mio negozio», spiega Presan-na, proprietario di un negozio dialimentari in via Carducci, «vo-

gliono ritrovare i sapori che han-no provato in viaggio in India o inaltri paesi orientali. Perciò cerca-no le spezie come il pepe o il pe-peroncino dal sapore particolar-mente forte, ma anche il riso. Ilbasmati e il riso rosso soprattut-to». Il negozio si chiama “Probo-da”, il nome della figlia, e ha diver-si prodotti. Le sorprese si concen-trano nel reparto verdure: «Quelleverdure lì non ci sono in Italia»,sorride Presanna, «si cuociono eservono per condire il riso». Emostra una grossa fetta di Jack-fruit. Ma è inutile tentare di farparagoni con la patata o la zucca

ce: «La carne è solitamente fatta dibistecche di pollo, tacchino e vitel-lo aromatizzate di origano, pepenero, sale e ammorbidito con loyogurt, ma c’è la versione greca, sichiama Ghiros e prevede anchel’uso della carne di maiale». Nonmancano le specialità turche comeil bürek, un involtino leggero a ba-se di formaggio e verdura, o il pol-lo con peperoni e cipolla. Il risopoi si sposa con tutte le specialità:«capita spesso che gli italiani michiedano la ricetta di questi piatti.All’inizio passano davanti alla ve-trina, due o tre volte, poi entrano,provano ad assaggiare e infine

Cultura

inVERONA 13

I contatti con le nuovepietanze avvengono

soprattutto neiristoranti, neichioschi, nelle

gastronomie. Come adire che i veronesi

hanno voglia diassaggiare ma non si

fidano sempre delleproprie mani: meglio

affidarsi agli esperti

chiedono la ricetta. Ma i mieiclienti sono internazionali. I tur-chi sono pochi perché qui a Vero-na non ne abitano molti». Nei dol-ci, oltre al budino di riso, trionfa-no il succo di miele, i pistacchi e lenoci come nel baklava turco.Attorno a questi negozi o attività siconcentra non solo la curiosità deinativi ma anche la nostalgia di chiè venuto ad abitare in Italia, la-sciando la propria terra, i legamidi volti e paesaggi. La memoria, sisa, viaggia non solo attraverso ipensieri e le parola, ma ritorna inun’aria musicale, in un’immagine,in un profumo, in un sapore: la fa-mosa pearà della nonna che «co-me lei non la faceva nessuno». I ci-bi, quei cibi, riportano a casa. Ras-sicurano.

per farsi spiegare a quale altro or-taggio possa essere affine: «Ha ilsuo sapore», continua a ripetere eviene voglia di sperimentare.Qualcuno ha la strada spianata:«Molte persone del mio paese, loSry Lanka, lavorano come dome-stici in famiglie italiane. In certigiorni preparano per tutti i nostripiatti tipici e così queste verdure equesti prodotti cominciano ad es-sere conosciuti».Tra i tanti Kebab di via XX settem-bre, c’è il “Günes Kebab”. «Günessignifica Sole, in lingua turca»,spiega Mahmut, nato a Istanbul equi in Italia da 5 anni. Il giovanegestore racconta le varietà del fe-nomeno del momento che con-tende il primato al vecchio ham-burger nel campo del piatto velo-

Mahamut (al centro) con due suoicollaboratori gestisce un Kebab in via XX Settembre

Burim è il titolare di un negozio di alimentari etnici in via XXSettembre

Page 14: Verona In 13/2006

Redazione e impaginazione di libri e giornaliComunicati stampaProgetti editoriali

045.592695 - 320.4209663Lungadige Re Teodorico, 10 - 37129 Verona

STUDIOeDITORIALEGiorgio Montol l i

LA DIFFERENZANEL FARE LE COSE.

Page 15: Verona In 13/2006

Cultura

inVERONA 15

In quest’ottica è stato aperto dadue mesi il negozio “Alimentari et-nici”, sempre in via XX settembre.Burim, di etnia Rom, è l’iniziatoredi questa attività: «Qui si trovanoprodotti della Romania, Albania,Turchia, Kossovo, Bosnia, Croazia.Prodotti originali. Importati. Glistranieri che abitano a Verona licercano. Cercano le marche chetrovavano quando erano a casa,come i biscotti “Moto” o il dado inpolvere Vegeta», dice. E i veronesi?«I veronesi comprano i prodottiche hanno conosciuto quando so-no stati in vacanza in Croazia o in

Turchia: le olive turche piccanti, lapaprika, i cetrioli e peperoni incomposta e l’ajvar, salsa piccantedi pomodori e peperoni». Ma sitrovano anche gli ingredienti percimentarsi nel gulash, anzi ci sonole scatole di gulash già pronto, op-pure i kiseli kupus, foglie di cavoloin composta per fare i sarma, in-voltini di carne e riso. Oppure i cayMevlâna, o Ceylon, le miglioriqualità per fare il tè alla turca dasorseggiare nei bicchieri decorati.Il prezzo è comunque vantaggio-so? «Dipende. Nei supermercati lecose si trovano anche a meno», ri-sponde il figlio di Burim, «ma nonsono uguali a queste che vendia-mo in questo negozio. Non è faci-le portare qui i prodotti originalidall’estero. Ci sono molte spese ditrasporto, imprevisti, e poi tutta lamerce deve superare due controllimedici prima di essere ammessaad entrare in Italia. È questione discelte. Se si cercano i prodotti ori-ginali c’è da tener conto anche diquesto. Comunque sono molti iclienti che si fanno delle vere eproprie scorte di certi prodotti».La via delle spezie veronese si fer-ma qui, davanti al negozio di Bu-rim, in una strada affollata e viva-ce di sabato pomeriggio. Un mo-mento buono per una pausa e as-saggiare il bürek ancora caldo re-galato da Mahmut. Le cose, le per-sone, i sapori fluiscono, si mesco-lano. Al Günes Kebab c’era anchela pizza kebab: un nuovo incontro.

(Ha collaborato Fabio Muzzolon)

«Non è facile portare quii prodotti originalidall’estero. Ci sono

molte spese di trasporto,imprevisti, e poi tutta la merce deve superare

due controlli mediciprima di essere ammessa

ad entrare in Italia.È questione di scelte.

Se si cercano i prodottioriginali c’è da tener

conto anche di questo.Comunque sono molti iclienti che si fanno delle

vere e proprie scorte di certi prodotti»

Un libro per ricordareil Convegno Ecclesia-

280 pagine di grande formato (24x30cm), più di 300 immagini acolori, di cui alcune aeree, scattate da un pool di quattro fotografi.Si presenta così il volume “Testimoni di Gesù risorto speranza delmondo” voluto dalla Curia di Verona, prodotto dallo Studio edi-toriale Giorgio Montolli, edito da Siz Edizioni e finanziato dalGruppo Banco Popolare di Verona e Novara. Un libro illustratoche riporta alla memoria i giorni del IV Convegno Ecclesiale dellaChiesa Italiana, che Verona ha ospitato dal 16 al 20 ottobre 2006.Il volume, corredato da ricche didascalie, è la fotocronaca dell’e-vento: delle processioni, delle fiaccolate, delle veglie in Cattedrale,dell’oratorio sacro Resurrexi al Filarmonico, dei concerti campa-nari, delle mostre e delle iniziative culturali che hanno accompa-gnato il Convegno, dei lavori in Fiera e della visita del Papa. Trepresentazioni aprono il volume. La prima è quella di mons. Giu-seppe Betori, segretario generale della Conferenza Episcopale Ita-liana (CEI), che traccia la storia di questi convegni che la Chiesacattolica tiene ogni dieci anni. Segue la presentazione del vescovodi Verona Padre Flavio Roberto Carraro, che invita i cristiani a se-guire gli spunti emersi durante il convegno. Il terzo intervento èdell’avvocato Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolaredi Verona e Novara: «Abbiamo voluto promuovere una pubblica-zione celebrativa dell’evento, una sorta di fotografia di gruppoche possa nel tempo vivificare la memoria e le emozioni di queigiorni», ha dichiarato Fratta Pasini.Nel libro, che si presenta con una copertina rosso cardinalizio,non mancano i documenti, come la prolusione del cardinale Dio-nigi Tettamanzi in Arena, il discorso del papa ai delegati in Fiera el’omelia durante la celebrazione della Santa Messa allo stadio, leconclusioni del presidente della CEI cardinale Camillo Ruini e lesintesi dei vari lavori di gruppo.Lo Studio editoriale Giorgio Montolli, a cui si deve anche il pro-getto grafico e l’impaginazione, per realizzare l’opera ha coordi-nato un équipe di lavoro formata dai fotografi Moreno Faccioli,Giampaolo Mascalzoni e Federica Melchiori, dello Studio foto-grafico New Deltaprint di Verona, che hanno prodotto circa 10mila scatti, sui quali è stata fatta una difficile selezione. Alle ripre-se aeree ha provveduto Francesco Passerella. I testi sono dellegiornaliste Cinzia Inguanta e Marta Venturi. Ha collaborato PinoAgostini. Il libro si acquista in libreria. (Per ordini sopra le 15 copiecontattare Siz Edizioni, al numero telefonico 045.8730411).

Il volume, con più di 300 immaginia colori, in 280pagine ricordal’evento che ha

visto protagonistala Chiesa italianariunita a Veronadurante il mese di ottobre 2006

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di Elisabetta Zampini

«Il Medioevo inventa tutte le cosecon cui ancora stiamo facendo iconti: le banche e la cambiale, l’or-ganizzazione del latifondo, lastruttura dell’amministrazione edella politica comunale, le lotte diclasse e il pauperismo, la diatribatra Stato e Chiesa, l’università, ilterrorismo mistico, il processo in-diziario, l’ospedale e il vescovado,persino l’organizzazione turistica,e sostituite le Maldive a Gerusa-lemme o a Santiago de Composte-la e avete tutto, compresa la guidaMichelin». Così si esprimeva Um-berto Eco in Dieci modi di sognareil medioevo. Molto dunque accad-de. Novità e contrasti. Il rapportocon “l’altro” messo continuamen-te alla prova. In quel periodo piùvolte la storia di Verona si intrec-ciò ad accadimenti che ebbero unrisvolto europeo e conseguenzemolto più ampie nel tempo e nellospazio. Fra il 1181 e il 1185 il papaLucio III, al secolo Ubaldo degliAllucingoli, pose qui la sua sede,dopo la fuga dalla turbolenta Ro-ma e nel 1184 vi aprì un Concilio.Il 1184 è una data importante. Se-gue la Pace di Costanza che portòa una tregua nelle lotte tra l’Impe-ro e le autonomie locali. FedericoBarbarossa riconobbe ai comuni iloro diritti in ambito amministra-tivo e, in parte, anche politico. Sicreava anche una tregua nei rap-porti tra il papa e l’imperatore.Erano queste, infatti, le due auto-rità su cui si imperniava l’organiz-zazione del mondo europeo cosìcome si presentava dopo la cadutadell’impero romano. Entrambeunite dal comune vincolo dellacristianità. Entrambe ritenute le-gittime e fatte risalire a Dio. Il pro-blema stava nel trovare i limiti trapotere spirituale e temporale.A Verona, nell’autunno del 1184, ilBarbarossa sedeva accanto al papanella basilica di San Zeno all’aper-tura del Concilio, sotto lo sguardosoddisfatto dell’allora vescovo diVerona Ognibene. La vicinanza trapapa e imperatore era segno, al-meno in quell’occasione, di unaritrovata (e studiata) concordia.Basta però cambiare il punto di vi-sta per ritrovarvi l’inizio della lun-ghissima discordia tra la Chiesa e imovimenti religiosi pauperistici,quelli almeno che furono giudicati

eretici. Si noti che il termine ereti-co non è storico ma è il modo incui gli oppositori hanno definito,con valenza negativa, gli altri. Ca-tari, Patarini, Valdesi e altri movi-menti vennero condannati. Neldecretale “Ad abolendam diversa-rum haeresium pravitatem”, si sta-bilirono le premesse dell’inquisi-zione: si decretò la condanna dieresia e quindi la scomunica perchi nei gesti e nelle parole manife-stasse un costume religioso nonconforme alla dottrina cattolica. Ivescovi ricevevano inoltre l’ordinedi ricercare gli eretici. L’ereticopentito e confesso sarebbe stato la-sciato in pace. In realtà si trattavadi movimenti popolari che nonvolevano tanto soffermarsi, alme-no agli inizi, su questioni teologi-che; avevano piuttosto una valen-za spirituale, di rinnovamento del-

lo spirito religioso cristiano e di ri-vendicazioni sociali, rifiutavanol’ostentazione del potere, del lusso,la dimensione temporale di cui siera rivestita la Chiesa. Indaginistoriografiche più raffinate hannopoi sottolineato come dietro que-sto movimento religioso di rifor-ma ci fossero anche moventi eco-nomici, politici e sociali che face-vano leva sul malcontento di unadiffusa povertà. Nel XII secolo lasocietà si apriva. Smessi gli abitidifensivi del castello asserragliatoper controllare i continui arrivi deipopoli del Nord, le città comincia-vano a brulicare di attività artigia-nali. La produzione aumenta e diconseguenza anche il commercio eVerona non è da meno. In questosecolo si consolida una tradizionemanifatturiera che farà diventarela città, nei due secoli successivi, il

centro produttivo laniero più im-portante del Veneto. Ciò favoritodalla sua posizione geografica, vi-cina a due vie d’acqua allora fon-damentali: l’Adige e il Po. Ripren-dono dunque con più frequenza iviaggi delle merci e, insieme, dellepersone.Le idee mutano man mano chenella quotidianità si aprono spira-gli nuovi. Si creano visioni indi-pendenti. Si cerca credito. Ricono-scimento. Autonomie. Si è contro iprivilegi che favoriscono solo al-cuni uomini, alcune famiglie. Ineffetti questi movimenti nasconoun po’ dovunque, ma fiorisconosoprattutto dove si è manifestatoun più rapido sviluppo economi-co e perciò diventa più evidente e«stridente il divario tra le condi-zioni degli sfruttati e quelle deiprivilegiati».Sia Pietro Valdo, a Lione, cheFrancesco ad Assisi appartengonoa due ricche famiglie mercantili edecidono di rinunciare a tutto perun rinnovamento interiore e reli-gioso. Si votano alla povertà, usa-no come lingua il volgare per in-contrare la gente. A Verona si atte-sta soprattutto la presenza di Cata-ri e Patarini ma è probabile chefossero presenti anche dei Valdesi.Per gli inquisitori gli eretici erano«rustici et illetterati, idiotae e sinelitteris» e ciò non diceva solo undato di fatto, e cioè la diffusione diquesti movimenti religiosi special-mente (ma non solo) tra il popolo,che «non sapeva di latino», quantoun timore per l’affiorare di unacultura diversa da quella ufficiale.La paura ha il suo antidoto nellaconoscenza e nell’incontro. L’altrodiventa scoperta, ricchezza, op-portunità. Nell’ambito della Chie-sa cattolica ciò prende il nome dimovimento ecumenico che haavuto un significativo impulso do-po il Concilio Vaticano II, chiusoda Paolo VI, l’8 dicembre 1965(l’anno scorso ricorreva il quaran-tesimo anniversario della chiusuradei lavori conciliari). Iniziarono oebbero maggior riconoscimentoanche movimenti laicali che ave-vano come finalità proprio quelladi favorire il dialogo religioso persuperare le divisioni e aspirare alrecupero dei valori comuni. Ne èun esempio il Sae, Segretariato at-tività ecumeniche, attivo anche aVerona.

Cultura

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Il Concilio di Verona

e la condanna degli eretici

Fu indetto nel 1184 da Lucio III.Fu l’inizio della discordia con

i movimenti pauperistici all’interno della Chiesa

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di Nicola Guerini

La Biblioteca Capitolare di Veronanasce dalla Schola SacerdotumSanctae Veronensis Ecclesiae (il Ca-pitolo della Cattedrale), che avevail compito di preparare i nuovi sa-cerdoti oltre a prestare servizio li-turgico in Duomo. Per soddisfarequesto impegno era necessariaun’officina di produzione librariaper la liturgia e per la cultura varia.Si creò quindi lo “Scriptorium”, ri-salente al secolo V d.C. come di-mostra la testimonianza rappre-sentata da un “Lettore” della Catte-drale, Ursicino, del primo agostodell’anno 517, durante la domina-zione degli Ostrogoti.La produzione libraria fu partico-larmente ricca già nel VIII, IX e Xsecolo grazie all’opera dell’Arcidia-cono Pacifico che scrisse 218 codicie del vescovo di Verona Raterio,che definì la città “L’Atene d’Italia”.Successivamente, tra i secoli IX eXIV, la produzione si arricchì di li-bri liturgici con notazione musica-le documentato dal suo principaleautore, Stefano, cantore della Cap-pella musicale. Sono infatti conser-vati antichi codici liturgici conte-nenti i testi con nessun elemento dinotazione o con indicazioni musi-cali già evolute, come quelli di SanIsidoro risalente al V secolo. Altriesempi sono dati da una raccolta dipreghiere, che venivano intonate,dal “Messale cum notis musicis”, eda un Antifonario con chiara nota-zione diastematica, e cioè la capa-

Cultura

inVERONA 17

cità di indicare con le note l’am-piezza degli intervalli melodici. Digrande interesse sono gli “Hiymniet Capitula cum notis musicis” chepresentano il vero sistema musi-cale inventato da Guido d’Arezzo,monaco e musico dell’abbazia diPomposa del secolo XI: sul mano-scritto infatti è tracciato il rigorosso per il suono “fa” e in gialloper il suono “do”. Infine sono pre-senti un gruppo di 17 Corali mi-niati nella scuola di Turone deMaxio da Cammago, che nel 1356abitava a Verona in contrada SanMichele alla Porta. La musica deivari Vesperali, Graduali e Mattuti-nali è l’espressione del canto gre-goriano che viene adottato ormaiufficialmente per tutto il XIV se-colo. Tra i numerosi manoscritti èimportante ricordare il Codice“S.Agostino – De civilitate Dei”(sec. V), il “SacramentariumWolkfangi”(sec. X) proveniente daRatisbona, e il “Mozarabico”.Quest’ultimo fu scritto in Ispana earrivò a Verona nel secolo VIII,dopo essersi fermato a Cagliari e aPavia. A Verona poi fu aggiuntoalla pergamena, come prova dipenna, il famoso indovinello: “Se-pareba boues alba pratalia araba etalbo uersorio teneba et negro se-men seminaba”. Nel XIV secolo laBiblioteca Capitolare ospitò il Pe-trarca, il quale vi trovò le Letteredi Cicerone e Dante Alighieri; nelsuo soggiorno veronese, ebbecontatti con l’ambiente della Cat-tedrale, dove tenne nella loro

chiesa di Sant’Elena la lezione:“Quaestio de aqua et terra”.Nei successivi secoli XV, XVII la Bi-blioteca Capitolare divenne centrodi cultura e visita di personaggi il-lustri che impreziosirono il già ric-co patrimonio librario con dona-zioni di “incunaboli” e cioè libristampati nei primi cinquant’annidall’introduzione della stampa(1450-1500). Nel 1630, in occasio-ne della guerra per la successionedi Mantova, le milizie assoldate daVenezia e accampate intorno a Ve-rona saccheggiavano le campagnee le città, provocando anche losmarrimento di Codici antichi epreziosi. Solo 99 manoscritti furo-no messi in salvo dal Canonico Bi-bliotecario Agostino Renani che linascose senza farne parola connessuno. Quando nel 1630 a Vero-na scoppiò la peste bubbonica,morirono molti ecclesiastici, tra iquali anche il Canonico Bibliote-cario Renani, che si portò nel se-polcro il segreto del nascondigliodei Codici. Solo il marchese Sci-pione Maffei, importante umani-sta veronese, nel 1712 stimolòun’accurata ricerca. Nel 1713 l’ar-chivista Carinelli riuscì trovare,nascosti nel cavo profondo dellacimasa di un armadio molto alto,99 Codici, ricoperti di tavole estracci. Il fortunato ritrovamentoebbe una risonanza in tutta Euro-pa e la Biblioteca Capitolare ritor-nò a essere, grazie al Maffei, uncentro vivace di cultura. Alla suamorte il marchese donò al Capito-

Pagina di uno dei Corali del sec. XIVminiati dal Turone e seguaci per la Cattedrale di Verona(Biblioteca Capitolare)

La produzione librariafu particolarmente

ricca già nel VIII, IX e X secolo grazie

all’operadell’Arcidiacono

Pacifico che scrisse 218codici e del vescovo di

Verona Raterio, chedefinì la città

“L’Atene d’Italia”

BIBLIOTECA CAPITOLARE

Negli antichi librifa capolino la musica

Sono conservati codici liturgici risalenti anche al V secolo contenenti testi senzanotazione o con indicazioni musicali evolute, come quelli di San Isidoro

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lo la propria ricchissima biblioteca.L’aumento del patrimonio librarioportò alla costruzione della nuovasede nel chiostro canonicale sulprogetto dell’architetto veroneseLudovico Perini: utilizzata già nel1728, fu completata definitiva-mente nel 1780. Durante il periododell’occupazione napoleonica laBiblioteca fu depredata di preziosiCodici e solo una parte di essi fu inseguito restituita. Nel secolo XIX lascoperta più importante per la ri-sonanza mondiale, fu quella delle“Istituzioni di Diritto Romano”delGaio, fatta nel 1816 dallo studiosoprussiano GB Niebuhr. Questo vo-lume è l’unico esemplare di quel-l’epoca esistente al mondo. In se-guito furono scoperti la “Moraliain Job” di Gregorio Magno del Co-diceXL che conserva frammenti diVirgilio, di Livio, di Euclide (del se-coloVII). Nel Codice LXII, che recain prima lettura: “Cresconius-Con-cordia Canonum” furono scopertiframmenti del Codice di Giusti-niano del sec. VI. Nel 1898 nel Co-dice LV, che contiene l’opera di Isi-doro “De Summo Bono” trascrittanel secolo VIII.Molti di queste scoperte sono statepossibili attraverso i codici palinse-sto la cui pergamena, scritta e poiraschiata, veniva riscritta con nuo-vo testo. Un contributo importan-te lo diedero tutti i bibliotecari chesi succedettero nell’ultimo secolo:monsignor GB Giuliani (diresse laCapitolare dal 1856 al 1892 quan-do l’alluvione dell’Adige del 1882distrusse l’Archivio), don AntonioSpagnolo dal 1894 al 1916, monsi-gnor Giuseppe Zamboni dal 1916al 1922. Dal 1922 al 1972 fu monsi-

Cultura

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Pagina di Corale miniata da Gerolamo Dai Libri per S. Mariain Organo (Museo di Castelvecchio)

Pagina di Corale miniata da Gerolamo Dai Libri per S. Mariain Organo (Museo di Castelvecchio)

di Nicola Guerini

La musica occidentale nasce conla parola intonata della liturgiaromana ed è tratta dalla SacraScrittura. Alcuni cantici come ilMagnificat, ed alcuni passi dellelettere degli Apostoli sono dellevere e proprie composizioni

strofiche costruite secondo la metrica della poesiareligiosa ebraica, che veniva intonata. La musicacristiana è la liturgia stessa che si fonda su una con-cezione sacrale della parola, che, nel caso delle Sa-cre Scritture è considerata ispirate da Dio. La musi-ca deve quindi celebrare la solennità della Parola.Fondamentale nel canto cristiano e poi gregorianoè il concetto della musica solo come preghiera, dalquale deriva lo strettissimo rapporto fra la parola eil suono. Con il canto cristiano ha inizio la storiadella musica occidentale: infatti le testimonianzepervenuteci non riguardano solo scritti teorici let-terari o fonti iconografiche, come era avvenuto conle culture dell’antichità classica, ma di vere operemusicali tramandate in grande abbondanza. Finoall’età carolingia, la storia della musica europeanon era scritta e sopravviveva solo attraverso latradizione orale. Successivamente nacque l’esigen-za di una notazione che fissasse per sempre la me-moria di quei canti dando origine a un’evoluzioneproiettata in una continuità nel tempo fino a di-ventare la notazione usata tuttora. Dopo l’Editto diMilano del 313, che diede ai cristiani la libertà diculto, si diffusero numerosi riti in tutta Europa conuna grande fioritura di canti liturgici diversi. Alcentro di questo fervido periodo importante è l’in-fluenza di San Gregorio Magno (590-604), il Papadal cui nome deriva, secondo la leggenda, quellodel canto gregoriano. In realtà non si conosce nes-suna relazione storica da cui risulti un’azione delPapa Gregorio I nei confronti del canto cristianomentre va ricordato il suo intervento importantenell’organizzazione della Messa nel rito romano,

presente ancora oggi. È proprio con lui che, insie-me all’opera di Carlo Magno (768-814), si instauròl’unificazione liturgica di tutto l’Impero d’Occi-dente attraverso la fusione tra il rito romano equello gallicano. L’introduzione del nuovo ritocreò tensioni e resistenze del clero locale che, abi-tuato ad un proprio repertorio di canti, dovetteimparare a memoria un repertorio completamen-te nuovo, in un periodo in cui non c’era la scritturamusicale. A causa di queste difficoltà, intorno allametà del secolo IX s’iniziò a corredare i testi litur-gici di segni che, posti al di sopra delle parole deltesto, come accenti, indicavano un embrionalemovimento melodico. Da questa primitiva nota-zione, nata con lo scopo di aiutare la memorizza-zione, si sviluppò la notazione propria del cantogregoriano, chiamata notazione neumatica, cheraggiunse il suo massimo splendore nel sec. X e XI.La scrittura neumatica iniziale era priva di indica-zioni di rapporti fra i suoni ma, attraverso i segnisopra il testo, era possibile seguire il tracciato chi-ronomico (dal greco cheir, mano, e nomos, legge)di questa notazione che riproduceva i riferimentidi un’immaginaria mano di direttore di coro. At-traverso gli studi approfonditi sull’origine dellascrittura è possibile dimostrare che i segni, chia-mati Neumi (dal greco neuo, indicare) hannotratto origine dagli accenti grammaticali del gre-co e del latino e precisamente due: la virga per di-stinguere le sillabe toniche, che si pronunciavanocon intonazione acuta, e il punctum per le sillabeatone, sulle quali vi era un’intonazione più grave.Da qui fioriranno altri segni in grado di fissare lemelodie con sempre maggior precisione di valori,dinamica e agogica. È importante ricordare peròche il ritmo del canto non è misurato esattamentecon rapporti aritmetici poiché il canto gregoria-no è indipendente da qualunque scansione perio-dica del tempo ed è strettamente legato al ritmo ealla dinamica del testo verbale, che è sempre inprosa e con carattere “oratorio” (da oratio, discor-so in latino).

Il cristianesimo e la musica: un legame stretto

MUSICALMENTE

gnor Giuseppe Turrini che cata-logò le 11mila pergamene colpitedall’alluvione del 1882 oltre acreare un catalogo alfabetico deimanoscritti e delle opere musica-li. Ma egli fu soprattutto legato al-le vicende legate alla guerra 1941-45 quando, per timore di incur-sioni aeree, trasferì in rifugi adattiil materiale più prezioso. Il bom-bardamento americano del 4 gen-naio 1945 ridusse però anche l’e-dificio centrale della biblioteca adun cumulo di macerie, seppellen-

do con gli scaffali, i libri che nonsi erano potuti trasferire e che pe-rò furono quasi tutti recuperatisotto le pietre dell’edificio. Il 28settembre 1948 fu inaugurato ilnuovo edificio con un salone piùampio e con l’arredamento piùadatto per la custodia e la conser-vazione dei manoscritti e dellepergamene.

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di Oreste Mario Dall’Argine

Nel corso di una visita alla casa did’Annunzio a Gardone Riviera ciè capitato di leggere un bigliettoautografo di d’Annunzio, con ilquale il poeta concedeva ad HansMardesteig il permesso illimitatodi entrare «in qualunque giorno ein qualunque ora per ragionaremeco intorno ai segreti della bellastampa». Questo in data 29 otto-bre 1927.Sono passati quasi ottant’annidalla data di questo singolarescritto che ci rivela in parte il ca-rattere dell’Immaginifico, ma checi riporta a riflettere su quella cheè stata la figura di Hans (Giovan-ni) Mardesteig nel campo dellacultura e della stampa d’arte ita-liana e, in particolare, di Verona.Qui infatti concentrò la sua vitaprofessionale fondando una pro-pria attività tipografica nota come“Stamperia Valdonega”.Cresciuto nei fermenti culturali diWeimar nel primo dopo guerra(1915-1918), creatore della rivistaGenius, momento di riscatto in-tellettuale della Germania sconfit-ta, Mardesteig segue il suo istintopiù profondo e compiuti gli studiuniversitari di giurisprudenza, co-mincia a gettare i semi della suaarte tipografica. Dopo una breveesperienza a Montagnola di Luga-no, si trasferisce a Verona attornoagli anni Trenta, essendosi aggiu-dicata la stampa dell’opera did’Annunzio: nasce così l’“Offici-

na Bodoni”, nome che voleva ren-dere omaggio al suo maestro.Interessante quello che scriveGiovanni Mardesteig raccontan-do i suoi incontri con lo scrittore:«...le visite al Vittoriale eranosempre molto proficue, soprattut-to quando potevo discutere da so-lo con lui... egli possedeva una fa-coltà d’intuizione di mirabileprontezza... Quando discutevamodi frontespizi... decideva sempreper quelli che piacevano di piùanche a me». Il rapporto con ilpoeta delineò la svolta decisivadella sua maestria, tanto da esserericonosciuto quale “tipografoprincipe”.È quasi vana esibizione parlare ditutto quello creato da GiovanniMardesteig; diciamo soltanto chealcuni grandi pittori come De Pi-sis, De Chirico, Manzù gli devonotanto per le pubblicazioni a lorodestinate. La fatica e la ricerca perla ricostruzione di molte tavole delDürer e la preziosissima Edizionedell’Opera di Terenzio “Andria”nella traduzione del Machiavellirimangono a testimonianza dellasua interpretazione dell’arte tipo-grafica. Mardesteig, come Bodoni,è stato un incisore espertissimo,quasi un giocoliere dei caratteri.Ad un certo punto dell’attività,l’Officina Bodoni si rivela troppopiccola e non in grado di correrecoi tempi. Si arricchisce di nuovemacchine da stampa e si trasferi-sce, ingrandendosi, in un’altra zo-na di Verona, cambiando anche il

Cultura

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Andrea Appiani “Ritratto di GiambattistaBodoni” Parma, GalleriaNazionale

nome della ditta in “StamperiaValdonega”.Hans Mardesteig muore nel 1972e gli succede il figlio Martino. Eglicontinua e accresce l’eredità, ag-giornandosi nello stesso tempocon le nuove tecniche di stampa.Valorizza il nome di Stamperia,usato per definire l’attività dell’a-zienda che conserva una sezione distampa a mano accanto alle mac-chine più moderne. L’attrazioneper i libri rari, per i libri d’arte, perla continuazione dell’arte tipogra-fica sono per Martino come legrandi passioni che prendono l’a-nima e la vita degli uomini neitempi più significativi della loro vi-ta. Dice Martino Mardesteig par-lando dell’editoria odierna: «Noi,anche per i libri stampati con lenuove tecniche, salviamo e ripor-tiamo ciò che mio padre, allievoquasi filiale di Bodoni, mi ha inse-gnato». Ma egli pensa che un futu-ro per il libro d’arte e per un’offici-na tipografica ci sia e possa soprav-vivere difendendo e imponendo laconoscenza del libro “bello”. L’ere-de del grande Hans dice: «Quandopenso di pubblicare un libro o sug-gerisco ad un committente la ri-stampa o la stampa di un libro pre-zioso, ricordo sempre le parole dimio padre: “il libro al quale tu de-cidi di dedicare la tua opera ed iltuo ingegno deve essere primaamato, poi riamato fino alla consu-mazione, come per una bella don-na. Solo allora potrai cominciare,sicuro di finire un’opera d’arte”».

ARTI GRAFICHE

Hans Mardesteigmaestro nella stampa

Come Bodoni il fondatore della “Stamperia Valdonega”, amico di d’Annunzio,è stato un incisore espertissimo, quasi un giocoliere dei caratteri

È recente la notizia che laStamperia Valdonega e le

Grafiche SIZ, due note realtàimprenditoriali veronesi del

settore grafico-librario, hannosiglato un accordo che prevede

la costituzione di una nuovacompagine societaria.Lo scopo, si legge in un

comunicato congiunto, èquello di rafforzare il

posizionamento di StamperiaValdonega nei mercati di

riferimento e nel contempo disbarcare nei mercati emergenti

dell’Est Europa e dell’Asia,sempre più interessati alla

qualità made in Italy, editoriadi pregio inclusa. La notizia è

l’occasione per ripercorrerela storia della Stamperia

Valdonega

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di Irene Lucchese

Il 16 ottobre 2006, Belluno e Mi-lano hanno festeggiato in questadata il centenario della nascita diun loro famoso cittadino: DinoBuzzati. Il ricordo di uno dei piùgeniali personaggi del Novecentoitaliano è iniziato già nei primimesi dell’anno, con manifesta-zioni, conferenze, mostre in tuttaItalia. Ma non solo: anche l’Euro-pa ha ricordato lo scrittore italia-no, segno della sua fama, dellasua importanza che travalica iconfini nazionali. L’anniversarioha rappresentato la migliore oc-casione per ripercorrere la vita ele opere di un artista poliedrico, atutto tondo, completo. Scrittore,giornalista, pittore e fumettista:questo è stato Buzzati, una dellefigure più affascinanti e comples-se della cultura italiana del Nove-cento.Dino Buzzati Traverso nasce il 16ottobre 1906 a San Pellegrino, neipressi di Belluno. La sua è una fa-miglia benestante, il padre è inse-gnante all’Università di Pavia ealla Bocconi, la madre appartienead un’importante famiglia vene-ziana. Secondogenito di quattrofigli, trascorre la sua infanzia nel-l’ottocentesca villa di famiglia,luogo d’origine dell’universofanta-reale dello scrittore.Frequenta il liceo classico Parinidi Milano e, successivamente, silaurea in Giurisprudenza. Sindalla giovane età si manifestanoin lui quei temi, interessi, passio-ni ai quali resterà fedele tutta lavita: la poesia, la musica, il dise-gno e la montagna, vera compa-gna dell’infanzia: «Penso» dice

Buzzati in un’intervista concessaa Il Giorno il 26 Maggio 1959«che in ogni scrittore i primi ri-cordi dell’infanzia siano una basefondamentale. Le impressionipiù forti che ho avute da bambi-no appartengono alla terra dovesono nato, la valle di Belluno, leselvatiche montagne che la cir-condano e le vicinissime Dolo-miti. Un mondo complessiva-mente nordico, al quale si è ag-giunto il patrimonio delle ri-membranze giovanili e la città diMilano, dove la mia famiglia hasempre abitato d’inverno». Lasua carriera inizia nel luglio1928, quando viene assunto dalCorriere della Sera come cronista;sarà anche inviato di guerra adAddis Abeba e prezioso testimo-ne della Liberazione a Milano il25 aprile 1945. È proprio il lavoroin via Solferino che ispira il suoromanzo più famoso, Il desertodei Tartari, pubblicato nel 1940.Buzzati, infatti, lavora al giornalesoprattutto di notte, tornando acasa verso le tre, quando la città èimmersa nel silenzio più totale. Iltesto nasce per spezzare la «mo-notona routine redazionale not-turna. Molto spesso avevo l’im-pressione che quel tran-tran do-vesse andare avanti senza termi-ne e che mi avrebbe consumatocosì inutilmente la vita. È un sen-timento comune, io penso, allamaggioranza degli uomini, so-prattutto se incasellati nella esi-stenza ad orario delle città». Daquesta angoscia soffocante pren-de forma la visione di un mondomilitare fantastico, quella Fortez-za Bastioni in cui il protagonistaGiovanni Drogo, assieme ai suoi

compagni, consuma la vita nel-l’attesa vana di un evento chenon arriva.Più di cinquanta opere, tra ro-manzi, poesie, testi teatrali, li-bretti per musica: queste la varie-tà della produzione buzzatiana, acui vanno aggiunti i fumetti e va-ri dipinti. La pittura non è unsemplice hobby, ma è lo stessoBuzzati a considerarla un vero la-voro: «Dipingere e scrivere perme sono in fondo la stessa cosa.Che dipinga o scriva, io perseguoil medesimo scopo, che è quellodi raccontare delle storie».Non mancano, nella sua origina-le carriera, nemmeno i riconosci-menti: Buzzati infatti, vince ilPremio Strega nel 1958 con Ses-santa racconti e, nel 1970, gli vie-ne assegnato il premio giornali-stico «Mario Massai» per gli arti-coli pubblicati sul Corriere acommento della discesa dell’uo-mo sulla luna. Dopo una lungacarriera di scrittore e giornalista,Dino Buzzati muore a Milano il28 gennaio 1972.Il ricordo che l’Italia vuole tribu-tare all’artista lombardo-veneto èsignificativo e duraturo; le PosteItaliane hanno, infatti, emessoproprio il 16 ottobre un franco-bollo a lui dedicato, per rendereomaggio al genio poliedrico delgrande autore italiano che con ilsuo stile ha segnato le pagine piùrappresentative del Novecento.

inVERONA 21

IL PERSONAGGIO

Dino BuzzatiScrittore, giornalista, pittore e fumettista: una delle figure

più affascinanti della cultura italiana del Novecento

Nasce il 16 ottobre1906 a San Pellegrino,

vicino a Belluno.Il padre è insegnante

all’Università di Paviae alla Bocconi, la

madre appartiene a un’importante

famiglia veneziana.Secondogenito di

quattro figli, trascorrela sua infanzia

nell’ottocentesca villadi famiglia, luogo

d’origine dell’universofanta-reale dello

scrittore

Dino Buzzati

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di Giuseppe Brugnoli

Nell’ultimo numero di questa rivista, cheaveva fin qui graziosamente raccolto i “Ricor-di di un giovane cronista”, all’autore di questenote è venuta la voglia, “per una volta tanto”,di cambiare il titolo in quello di “Ricordi gio-vani di un vecchio cronista”, e il mutamentoun po’ radicale di rotta ha avuto qualche con-seguenza imprevista: un più ampio interesseper la rubrica, confermato da qualche telefo-nata e da un paio di scritti. Giusta punizioneper chi, pur osando definirsi vecchio croni-sta, aveva dimenticato la prima regola delgiornalismo: scrivere dell’attualità, lasciandoagli storici, ai memorialisti, magari soltantoai nostalgici, di riandare all’indietro, alle ri-evocazioni.Così, per stare sull’oggi, in questo articolo siparla di un personaggio che è sempre di stret-ta attualità, per i suoi puntuali e spesso fic-canti interventi giornalistici e per una serie dilibri che, anche se godono, si fa per dire, di unassordante silenzio nella pubblicistica nazio-nale, quando non di qualche recensione bi-liosa e saccente, quasi sempre soltanto deni-gratoria, corrono per il mondo in successiveedizioni e traduzioni che hanno grande ap-peal presso un pubblico sempre più numero-so e fedele.Parliamo di Vittorio Messori, scrittore e gior-nalista cattolico, per il quale l’aggettivo, chesecondo la grammatica dovrebbe essere qua-lificativo, diventa il più spesso una sorta di di-minutio, e quindi in qualche modo squalifi-cante. Un destino condiviso, ma in minormisura, da quegli scrittori e giornalisti che,appassionati magari di giardinaggio o di voloa vela, trovano modesti spazi in riviste specia-lizzate in tuttologia e scrivono preziosi libret-ti amorosamente collezionati da esili schieredi aficionados. Qui, con una duplice aggra-vante: che Vittorio Messori non si interessa dimodesti hobbies capaci di rallegrare qualchescampolo di vita, ma affronta temi fonda-mentali per la vita di ciascuno, quali la voca-zione e il destino dell’uomo comune e la pre-senza attuale di un uomo che è anche Dio, equindi dovrebbe godere di maggior conside-razione, e che la sua ampia produzione discrittore “impegnato”, anche se non nel senso

oggi usuale e unidirezionale del termine, co-stituisce, se non altro, almeno un interessantefenomeno “di costume”.Chi scrive queste righe conobbe VittorioMessori quando ebbe l’occasione di presen-tarlo in una pubblica riunione a Verona, dovefu sottoposto ad un fuoco di fila di domande,alcune delle quali chiaramente gratulatorie equasi incensatorie, altre che tendevano ametterlo in difficoltà. Rispose a tutti – questoè il ricordo – con una certa secchezza, quasicon un accenno di insofferenza, con afferma-zioni ferme e lapidarie che non lasciavanospazio ad alcuna replica, così che l’impressio-ne fu che egli avesse una sua verità da porge-re, una sua linea da seguire senza tentenna-menti od esitazioni, quasi si fosse creato unpersonaggio da proporre universalmente. Ilpensiero fu che, come molti dei convertiti, eVittorio Messori è un grande convertito, fos-se in qualche modo “più realista del re”, e chein cristiani di scarsa o debole convinzione,come era in generale l’uditorio, egli avessedato l’impressione di un uomo chiuso nellapropria fede, altero e sostanzialmente distan-te. Tale, in fondo, da giustificare, almeno inparte, il generale isolamento e spesso il paten-te ostracismo da cui era colpito nella compo-sita tribù degli scrittori da giornale.Poco tempo fa, c’è stata una seconda occasio-ne di incontro, all’abbazia di Maguzzano oraretta dalla Congregazione di San GiovanniCalabria, dove Vittorio Messori ha un suobuen retiro in un’ala isolata del vasto conven-to, e dove avrebbe avuto piacere che fosse in-stallato un ricordo della Repubblica Veneta,costituito dalla riproduzione in pietra delLeone di San Marco. Auspice, anzi pronubol’amico e collega Stefano Lorenzetto, fattosiinterprete del desiderio presso la FondazioneMasi, in una bella giornata di settembre lascultura fu con breve cerimonia benedettasul muro perimetrale dell’abbazia, a ricorda-re, come disse Messori presentando l’opera,non soltanto i lunghi secoli di pace che furo-no assicurati al territorio gardesano e a tuttoil Veneto-Lombardo dalla Serenissima, maanche la distruzione e la spoliazione che l’oc-cupazione napoleonica provocò in quella re-te di luoghi sacri di cui la secolare abbazia diMaguzzano era uno dei capisaldi, per augu-

rare che, a somiglianza di quanto avevanofatto il Poveri Servi della Divina Provvidenzain quest’angolo del basso Garda, anche neiconfronti di altri luoghi sacri oggi diruti e ab-bandonati si possa fare altrettanto.L’ambiente agreste e la cerimonia conclusacon una familiare refezione alla mensa con-ventuale, erano certamente propizi ad unaconoscenza meno superficiale con l’autore ditanti libri che una volta si sarebbe potutochiamare “apologetici”, ma che sono invecesoltanto precise e accurate analisi storiche eincontri di grande spessore, come le intervi-ste all’attuale Papa quando era ancora cardi-nale e al suo predecessore Giovanni Paolo II,volumi che nel frattempo era venuti ad arric-chire non soltanto la libreria ma anche e piùancora la mente di chi scrive. Così, quelle po-che frasi scambiate nell’incontro conviviale, epiù ancora durante la visita ai luoghi dell’ab-bazia, mentre gli altri visitatori si disperdeva-no qua e là, hanno fatto scoprire al sottoscrit-to non un Messori diverso, ma un Messoripiù completo, e quindi un po’ distante dall’i-conografia tradizionale che ne privilegia unasola dimensione, quella del defensor fidei,quasi imprigionandolo in un cliché che asso-miglia ad un’armatura.In realtà lo scrittore Vittorio Messori è uomocompletamente calato nel suo tempo, che è ilnostro, di cui condivide e soffre le contraddi-zioni, che tenta di risolvere sorretto non sol-tanto dalle fede e dalla saldezza nei principi,ma anche da una profonda umanità, che sipotrebbe chiamare pietas, fatta di compren-sione e condivisione dei problemi. Nessunorgoglio intellettuale in lui, nessun atteggia-mento di superiorità, ma una limpida visionedei problemi di oggi e qualche pacato sugge-rimento per aiutare a superarli. Così che ap-pare assai triste il fatto che egli sia osteggiato evilipeso non solo dai nemici del nome cri-stiano, ma anche da molti che, per il loro uffi-cio o per personale scelta, dovrebbero vederein lui non un fondamentalista a cui mettere ilbavaglio o da escludere in ogni modo, ma unsaggista ed editorialista che, alieno da ognicompromesso con le proprie convinzioni, ri-mane uno dei più autorevoli e affidabili testi-moni del cristianesimo in tempi tanto con-vulsi e controversi.

inVERONA

I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA

Vittorio Messori, testimonedi un tempo difficile

Dicembre 2006

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di Alice Castellani

A quindici anni dalla sua primaincredibile, spettacolare ed emo-zionante edizione de La tempesta,Tato Russo torna a riproporrel’allestimento shakespeariano cheottenne allora un clamoroso suc-cesso di pubblico ed entusiasticicommenti da parte della criticaTorna quindi a Verona per IlGrande Teatro, al Teatro Nuovodal 30 gennaio al 4 febbraio. Latempesta è un’opera tra le piùbelle e poetiche del Bardo e que-sto spettacolo è un lavoro epico edidattico, austero e monumenta-le, con numerosissime invenzioniregistiche, dal gioco linguisticocon le scene dei comici napoleta-ni alle suggestioni coreografichedi un Ariel androgino, bianco epolimorfo che si moltiplica all’in-finito; dalla doppia recitazionedal vivo e registrata di Tato Russoalle clownerie delle tavole imban-dite per i naufraghi; dai costumielisabettiani al teatrino baroccosospeso in aria, al finale del ritor-no per mare con una quinta chediventa vela e la pedana della rap-presentazione che si alza come ilportellone di una nave.La pièce è solidamente struttura-ta, ma l’approccio risulta decisa-mente non convenzionale, con lagrande nave del teatro a veleggia-re verso un’isola che non c’è, senon nella coscienza del poeta edel pubblico che rende lo spetta-colo una sorta di rito d’espiazio-ne, riflessione sugli strumenti e ipercorsi della vita, viaggio prodi-gioso verso il giudizio finale.Trenta attori sull’isola incantatadi Prospero cedono il passo al-l’uomo, sulla scena di una Tempe-sta metafisica e suprema, deva-stante e ricompositiva, che si sca-tena su un’isola della mente chescuote le onde più inquiete e re-condite della psiche umana.Per Ben Jonson, uno dei primicritici a riconoscere la grandezzadel drammaturgo e poeta inglese,«L’opera di Shakespeare non è diuna sola epoca, ma è del tempo intutta la sua interezza», dunqueanche del nostro. E così l’allesti-mento di Tato Russo diventa tan-gibile testimonianza di inquietu-dini contemporanee, accompa-gnate da un ripiegamento su sestessi e da un tragico abbandono

dell’anima di fronte alle sfrontateprovocazioni della macchina-teatro che si rivela ed espone.Russo si è impegnato a convo-gliare un mare di sensazionitempestose in un ordinato scrit-to, trovando il senso profondo eil segno di questa messinscenanella grande Nave del Teatro cheveleggia verso l’isola della Co-scienza aspirando ad una palin-genesi poetica e teleologica, ac-compagnata da un incommen-surabile desiderio di purezza. Lamessinscena perde il gusto di fa-vola pastorale intrisa d’Arcadia edi Commedia dell’Arte ed evadedal compiacimento elisabettianoe barocco di rappresentare ilgran sentimento del meraviglio-so, staccandosi dalle moralitiestipiche del teatro inglese.È l’aspetto profetico e messianicodell’opera, molte volte tralascia-to, che prende qui il sopravventosull’illusionismo della vicenda,sul gioco del teatro nel teatro,che pur è presente, e nel percorsodella rappresentazione diventa lostile della messinscena. Russo hascelto per lo spettacolo attoriparticolari, di diversa estrazionema tutti individualmente ricon-ducibili al pathos dell’anima e aun lavorio dello spirito. Elimi-nando l’intera scena iniziale delfamoso “prologo a mare”, che dasempre ha stuzzicato la fantasiadei registi, spesso a scapito dellospessore tragico complessivodell’opera, favorisce l’interioriz-zazione della Tempesta che, per-duto il carattere d’evento esternoe reale, prende l’aspetto o il sen-so d’un fatto metafisico, emoti-vo, d’una grande turbativa dellacoscienza, con i vari accadimentiche divengono proiezioni dellospirito interiore. La tempesta èallora l’avvenimento costantedell’opera e misura della co-scienza, evento non naturale maontologico così che azioni e per-sonaggi acquistano vigore dram-matico e divengono esemplifica-zione d’un caso della coscienzasu cui dibattere poeticamente.Tato Russo esplicita a suo modoil ruolo del teatro come indicato-re della coscienza, schermo deiproblemi e moltiplicatore deglieventi, e soprattutto spazio dicoinvolgimento emotivo dellospettatore.

Spettacoli

inVERONA 23

TEATRO NUOVO

La Tempestaè un’opera tra le più

belle e poetiche di Shakespeare

e questo spettacolo diTato Russo, che torna aVerona dopo il successo

di 15 anni fa, è unlavoro epico e didattico,austero e monumentale,

con numeroseinvenzioni registiche

In scena dal 30 gennaio al 4 febbraioTato Russo

Una Tempestametafisicasull’isola

della mente

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È iniziata al Teatro Camploy il 1 di-cembre e continuerà fino al 30marzo, la rassegna L’Altro Teatroorganizzata dall’assessorato alloSpettacolo e che propone un ex-cursus sul teatro d’innovazioneitaliano, all’insegna della speri-mentazione e della contempora-neità. Un’occasione, per quel pub-blico curioso che nel Camploy puòtrovare uno spazio d’elezione, perscoprire nuovi “punti di vista” edesplorare nuovi terreni.Il 21 febbraio la compagnia Lom-bardi-Tiezzi con Emilia RomagnaTeatro propone Gli uccelli di Ari-stofane, nella drammaturgia a curadi Sandro Lombardi e per la regiadi Federico Tiezzi che sanno legge-re magnificamente la Grecia diAristofane alla luce dell’attualità,anche grazie alla traduzione di Da-rio Del Corno secondo cui questa è«la più bella commedia di tutti itempi».Due ateniesi lasciano la loro città,divenuta uggiosa e opprimenteperché divorata dalla corruzione esull’orlo del crollo definitivo, perandare in cerca di un luogo privodi noie e fastidi, dove poter tra-scorrere in santa pace il resto dellavita. Così comincia Gli Uccelli di

Aristofane. Nel mondo degli uccel-li i due ateniesi cercano e trovanoun grande sogno utopico, una pa-tria dolce e materna, senza leggi néviolenza. L’utopia di Aristofane ècertamente nostalgica e rivolta adun vagheggiamento del passato,quando Atene poteva forse davve-ro essere considerata una “cittàideale”. Ma attraverso una comicitàsurreale e lirica, fantastica e libera-toria, Gli Uccelli è anche un’operacolma di spirito di contestazione.Lo spettacolo, ricco d’inventiva egovernato con superbi scatti, me-scola una leggerezza mozartianaall’alta pedagogia brechtiana, rap-presentando nella città di Nubicu-culia, la città fra le nuvole, non tan-to lo spazio della politica, quanto

La pièce ruota attorno al sogno diuna società libera e felice, dove gliuomini siano in simbiosi con lanatura, nel migliore dei mondipossibili.Nel racconto di Aristofane il re-gno di Utopia si riconverte a pocoa poco nel mondo che conoscia-mo, con le sue strutture di poteree le sue figure di potenti; lo spetta-colo allestito da Tiezzi descrive unpassaggio decisivo anche nelmondo contemporaneo: quelloper cui da una situazione nata perrealizzare un sogno di democraziae di tolleranza si passa quasi inevi-tabilmente ad uno di potere, as-surgendo a metafora di tutte le ri-volte libertarie destinate a degene-rare in un ottuso autoritarismo. Iltutto proposto però con unosfrontato impatto comico, sospin-to verso una sorta di leggerezzacabarettistica, senza rinunciare alnecessario rigore intellettuale,piuttosto con una modernadrammaturgia capace di agirenon mediante riscritture ma consapienti sottolineature, suggeren-do più che descrivendo e giocan-do su scale musicali, sussurrandoe fischiettando le ballate di Brecht,Beatles e Mozart. (A.C.)

Spettacoli

Dicembre 200624

TEATRO CAMPLOY

“Gli Uccelli”di AristofaneIn scena fino al 30 marzo

quello del teatro: una nowhere landcapace di dar corpo a tutte le uto-pie. Intrisa di comicità e sarcasmo,questa commedia dissacra tutti imiti di allora come di oggi; e men-tre ridiamo di cuore pensiamo allesue verità e ai suoi significati, al re-gno di Utopia che si realizza sulpalcoscenico, dove sono possibili,allo stesso tempo, la realtà e il so-gno.Pasolini aveva già visto come, non-ostante la sua ideologia aristocrati-ca e conservatrice, Aristofane fossene Gli uccelli “più moderno di ognimoderno”, rivendicando la neces-sità della gioia e della concretezza,e soprattutto dei piaceri del corpo:dal cibo al sesso, al godimento del-la natura.

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credibili e quasi astratte situazio-ni in cui le due coppie di gemellisi vengono a trovare, si innesta inuna Efeso magica e surreale dovele rincorse dei personaggi, chenon trovano mai una logica alleloro azioni, diventano metafori-camente, incomunicabilità ango-sciosa e malinconica. I gemelli,separati dal destino, sono perfet-tamente uguali nell’apparenza,ma agli antipodi nel carattere:Antifolo, il gemello che il destinoha voluto crescesse a Siracusa, èintellettuale, colto, un po’ spoc-chioso, quasi dominato da unaplomb inglese, schivo ma allostesso tempo assetato di nuoveesperienze. Il suo doppio cresciu-to nella città rivale di Efeso, è unsolido mercante con le gambeben piantate per terra, passionalee iracondo. I due servi fanno ilverso ai rispettivi padroni imi-tandone i vezzi e amplificandonegli equivoci. Anche il tempo oc-cupa una parte da protagonistanella vicenda: dall’alba, con lacondanna a morte di Egeone, pa-dre dei due gemelli, quasi un in-cipit tragico, al tramonto, in cuil’agnizione finale vede i due figliconfrontarsi come in un unicospecchio. «Unità di tempo, sì, maanche tempo impazzito», spiegail regista, «una frantumazionetemporale che va di pari passocon l’alienante contrappuntodelle reciproche incomprensio-ni». Uno spettacolo quindi quasionirico, acido, ritmico, scanditoda luci violente e colorate che ac-compagnano, in un clima di so-gno, l’andamento della comme-dia. (G.C.)

Spettacoli

inVERONA 25

elisabettiane, le due coppie di ge-melli protagoniste, erano sempreinterpretati da due attori dall’a-spetto simile. Nella commedia diPambieri, invece, un solo attoreinterpreta i gemelli così da ren-dere ancora più rilevanti, ma so-prattutto comicissimi, i loroscambi di persona.La storia si svolge in una unicagiornata, dall’alba al tramonto,passando da un tragico inizio alpiù classico degli happy end, conricongiungimenti famigliari e unnuovo matrimonio all’orizzonte.Il tutto condito da inganni edequivoci. L’involontaria comicitàdegli scambi di persone, delle in-

In un fitto cartellone, Shakespea-re farà capolino tra il sipario leo-niceno sabato 17 febbraio con “LaCommedia degli errori” adattatada Luca Simonelli con Giuseppe eMicol Pambieri e Nino Bignami-ni. Ispirato al modello plautinodei “Menecmi”, questo spettacoloè uno delle prime commediescritte dal drammaturgo di Strat-ford upon Avon. Pambieri non ri-calca però il plot originale, maamplifica il tema del doppiocreando qualcosa di nuovo.La vicenda originale, dall’intrec-cio spumeggiante e ricco di colpidi scena, prende infatti il viaquando due coppie di gemelliidentici (due giovani padroni coni relativi servi) vengono separateper poi riunirsi, casualmente e in-consapevolmente, nella città diEfeso, dando così luogo a una se-rie di equivoci. Una trama, quin-di, difficilmente narrabile per isuoi complessi capovolgimenti diruolo.«Quale errore disvia i nostri occhi ei nostri orecchi? Finché non abbiafatto luce su questa sicura incertez-za, voglio prestarmi all’illusioneche mi si offre». Recita così il testoshakespeariano evocando unostraordinario gioco linguisticosul quale si basa gran parte dellagenuina comicità dell’opera. Nel-la storia delle rappresentazioni

LONIGO

“La Commediadegli errori”In scena il 17 febbraio

È l’unico teatro storico dell’Otto-cento della provincia di Vicenza,ma si trova, in pratica, al confinecon Verona. È il teatro comunale diLonigo, oggi luogo di interessantirappresentazioni. La sua storia haperò origini ben più antiche e nac-que infatti per sostituire il settecen-tesco teatro dei Concordi, proprietàdi un’élite di cittadini della nobiltàe dell’alta borghesia leonicena, inun luogo di cultura e spettacolo piùaccessibile anche al ceto impiegati-zio e, talvolta, operaio e contadinoche si era affermato nel corso delXIX secolo. Il progetto fu affidatoall’architetto Giovanni Carraro el’inaugurazione avvenne il 23 otto-bre 1892, con il «Ballo in maschera»di Giuseppe Verdi. Sul palcoscenicodel Teatro Comunale si alternaronospettacoli fino al 1977, con la parte-cipazione di importanti nomi delmondo della lirica e della prosa.Purtroppo, con la trasformazione insala cinematografica, il teatro finìnel degrado tanto da renderne ne-cessaria la chiusura per restauro. Ilavori durarono oltre dieci anni e fi-nalmente, il 22 ottobre 1993, il Tea-tro Comunale riaprì i suoi battenticon un concerto lirico.

Giuseppe Pambieri

Uno spettacolo quasionirico, acido, ritmico,

scandito da luciviolente e colorate cheaccompagnano, in un

clima di sogno,l’andamento della

commedia

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di Guido Gonzato

Ci sono luoghi che sembrano be-nedetti dal cielo, e San Giorgio inValpolicella è sicuramente uno diquesti. La sua posizione elevata,nel cuore della Valpolicella e a po-ca distanza dal lago di Garda, do-na a questo antico borgo un pa-norama incantevole; e la sua sto-ria plurimillenaria ha lasciatoun’eredità importante.L’area di Sant’Ambrogio iniziò adessere frequentata già in epocapreistorica. Questa era una zonadi confine tra le popolazioni Ve-nete, che avevano colonizzato lapianura, e le popolazioni Retichedelle zone collinari. A S. Giorgioerano presenti gli Arusnati, ricor-dati da una iscrizione romanascoperta da Scipione Maffei. Se-guirono la conquista romana, lacristianizzazione (piuttosto tardi-va) e l’arrivo dei Longobardi. LaPieve venne costruita nell’ottavosecolo, secondo quanto riportaun’iscrizione su una colonna delciborio; ma conserva elementi as-sai più antichi. Una antica ara, cheun’iscrizione dedica al sole e allaluna, venne riutilizzata come basa-mento per una colonna. Era quasiuna regola, all’epoca, che la co-struzione di edifici sacri cristianiavvenisse al di sopra di preesistentitempli pagani, che venivano in talemodo “riconsacrati”. Ulteriori ri-maneggiamenti avvennero nelMedio Evo, con l’aggiunta di affre-schi tra l’XI e il XIV secolo, e all’i-

nizio del secolo scorso, quandovenne ricostruito il ciborio.Una visita alla Pieve consentirà alvisitatore di ammirarne la splen-dida architettura e il bellissimochiostro, ornato da colonne chegli artigiani scolpirono tutte di-verse una dall’altra. Nel chiostrosono conservate alcune lapidi me-dioevali e romane. A fianco dellachiesa si può visitare un piccoloma interessantissimo museo, affi-dato alla Pro Loco di San Giorgioe alla giovanissima curatrice Giu-lia Perusi. Il museo, costituito daquattro locali e dagli scavi dietrola Pieve, espone reperti archeolo-gici e paleontologici rappresenta-tivi dell’area di Sant’Ambrogio edel Monte Pastello.All’ingresso fanno mostra di se al-cuni frammenti del ciborio longo-bardo, dal caratteristico ornamen-to a nodo intrecciato che ricordaanaloghe decorazioni dell’area cel-tica. Le vetrine espongono unaraccolta di lame di selce e alcunidei reperti rinvenuti negli scaviadiacenti: oggetti in corno e terra-cotta come fusarole e pesi per te-laio, alcune fibule (spille) in bron-zo, statuette votive. Di altri oggettiè stato curato lo studio da partedell’Università di Padova e se neattende la restituzione.La sezione archeologica del museotermina con una raccolta di iscri-zioni lapidee romane, tra cui la ce-lebre lapide che cita gli Arusnates.Degna di nota la magnifica colle-zione di fossili provenienti dal Pa-

stello, tra cui si distinguono rariesemplari di pesci e piante fossili.La campagna di scavi condottatra il 1985 e il 1990 ha portato allaluce, nelle immediate vicinanzedella chiesa, i resti di due capannee di una cisterna risalenti alla tar-da età del ferro (V-IV secolo a.C).Queste abitazioni vennero par-zialmente scavate nella roccia,quindi completate con parti in le-gno che ovviamente non si sonoconservate. Si sono riconosciutiun laboratorio adibito alla fabbri-cazione o riparazione di materialiin metallo (bronzo e ferro), e unoper la costruzione di materiali incorno, pietra e argilla. Quello chesi vede sono i fondi delle capannee della cisterna, oltre che alcunifori per la posa di pali. A Veronaci sono diversi esempi di pavi-mentazione romana, ma nessunoche risalga addirittura alla prei-storia come questo.Un sito quindi molto interessan-te, ma in qualche modo incom-pleto. Un’idea potrebbe esserequella di arricchirlo aggiungendoriproduzioni di oggetti che quivenivano fabbricati. Fondi per-mettendo! La Pieve, il Museo e labellezza del circondario rendonouna visita a San Giorgio pratica-mente obbligatoria.

Contatti: Museo della Pieve,349/3242529. Aperto ogni dome-nica dalle 14.30 alle 18.30, o suprenotazione negli altri giorni. In-gresso 2 Euro.

Territorio

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VALPOLICELLA

San Giorgio e il suo Museo

A fianco della chiesa sipuò visitare un piccolo

ma interessantissimomuseo, affidato alla

Pro Loco di SanGiorgio e alla

giovanissima curatriceGiulia Perusi. Il

museo, costituito daquattro locali e dagliscavi dietro la Pieve,

espone repertiarcheologici epaleontologici

rappresentatividell’area di

Sant’Ambrogio e delMonte Pastello

Una veduta del piccolo chiostroannesso alla chiesa di S. Giorgio,

con i caratteristici capitelliromanico-bizantini

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di Michele Domaschio

L’ultima volta che sono stato aTblisi è scoppiata la rivoluzione.Nel novembre del 2003, nella piaz-za antistante il Parlamento geor-giano, una folla di manifestantiagitava bandiere di colore arancio-ne (tonalità diventata poi di modanelle dimostrazioni dell’est euro-peo, come dimostra il caso dell’U-craina), chiedendo a gran voce al-l’allora primo ministro, Shevard-nadze, di sloggiare dal palazzo. Lasingolarità del tumulto era datadalla presenza di numerose auto-mobili, tranquillamente parcheg-giate nelle vie che conducevano alluogo dell’adunata. L’amico geor-giano che ci faceva da cicerone du-rante quei giorni ci invitò a legger-ne le targhe: composte da una se-rie di lettere e cifre, come tutte lealtre, ma con la particolarità chesu ciascuna di queste i tre numerierano identici. «Ecco, quello signi-fica che sono mafiosi» sentenziò laguida, con la stessa tranquillitàcon cui – poche ore prima – ci ave-va illustrato la maestosa cattedraledi Sioni e le icone custodite nelmuseo della capitale.I mafiosi: in Georgia, ma forse intutte le ex-repubbliche sovietiche,l’idea che esista uno Stato, un po-tere centrale capace di organizzar-si democraticamente per rispon-dere ai bisogni della gente è al-quanto labile. Così, il vuoto è col-mato dai clan, dalle etnie, daigruppi organizzati che deten-gono un predominio basatosulla capacità – effettiva – dicontrollare il territo-rio, grazie ai proventiche derivano da traffi-

vano affluire allegre compagnie dimanifestanti raccolti nelle perife-rie di Tblisi, pronti a dimostraretutto il loro scontento per la politi-ca governativa in cambio di pochedecine di lari.Queste immagini mi tornano allamente mentre i giornali riportanol’esito del referendum appenasvoltosi recentemente nell’Ossetiadel Sud. Il 99% dei votanti ha op-tato per la secessione di questa pic-cola regione, attualmente inseritanel territorio della repubblica diGeorgia, ma che desidera affran-carsi da Tblisi e sta perseguendotale obiettivo – al pari dell’altra re-pubblica autonoma, l’Ajaria – conil fattivo appoggio della Russia.Ancora una volta, la volontà po-polare trionfa, sotto il severosguardo di chi trama per disgrega-re ulteriormente questo mosaicodi etnie.Le frequenti frizioni con Moscatengono con il fiato sospeso tuttigli abitanti della regione del Cau-caso: basti pensare che a nord laGeorgia confina con la Cecenia e

Viaggiare

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GEORGIA

L’ex paradiso dell’UrssIl Paese cerca di uscire dal profondo degrado sociale

che è seguito alla polverizzazione dell’Unione Sovietica

ci quasi sempre illeciti o dalle smi-surate fortune che si sono acca-parrati al momento del crollo delmonolite sovietico. Non a caso,l’odiato despota rimosso dalla ri-voluzione del 2003, Eduard She-vardnadze, era stato sino a pochianni prima il fidato ministro degliesteri di Gorbiaciov, e come il suomentore aveva acquisito larghissi-mi consensi in giro per il mondo,salvo meritarsi la fama d’intrallaz-zatore e cinico oligarca nella suaterra d’origine. In questo contesto,giusto per dare l’idea di come siadifficile applicare le nostre catego-rie ad una realtà completamentediversa, la cosca mafiosa più po-tente, in molte zone del territorioex-sovietico, si chiama Militia: ov-vero, è la stessa Polizia locale.Tornando all’episodio di prima, lapresenza delle vetture era finaliz-zata a controllare gli sviluppi dellamanifestazione, organizzata a ta-volino per rimpiazzare l’ormaiscomodo gerarca. Stavamo assi-stendo, insomma, ad uno spetta-colo allestito nei minimi dettagli,piuttosto che a una vera e propriasommossa popolare: ulterioreconferma si poteva trarre dal con-tinuo viavai di pullman, che si fer-mavano ad alcune centinaia dimetri dal centro cittadino e face-

In Georgia, ma forsein tutte le ex-

repubbliche sovietiche,l’idea che esista uno

Stato, un poterecentrale capace di

organizzarsidemocraticamente per

rispondere ai bisognidella gente è alquantolabile. Così, il vuoto è

colmato dai clan, dalleetnie, dai gruppi

organizzati chedetengono un

predominio basatosulla capacità di

controllare ilterritorio, grazie ai

proventi che derivanoda traffici quasi

sempre illeciti

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sovente i russi accusano il governodi Tblisi di fiancheggiare le milizieindipendentiste. Gli ultimi episodidi questa guerra di nervi hanno vi-sto, dapprima, un’escalation nelboicottaggio economico da partedi Mosca, poi un provvedimentodi sinistra memoria: nelle scuolerusse tutti i bambini di originegeorgiana sono stati censiti, in vi-sta di un’imminente espulsionedal paese delle loro famiglie.Come se non bastasse, con l’ap-prossimarsi dell’inverno (che nelCaucaso significa andare tranquil-lamente ben al di sotto dei 10 gra-di sotto zero) vi è la concreta mi-naccia che l’approvvigionamentodi gas dalla Russia venga ridotto, osia richiesto un esponenziale au-mento dell’esborso economicoper la fornitura. «Ogni anno, d’in-verno, i nostri vecchi muoiono co-me mosche» mi racconta padreWitold, l’energico direttore dellaCaritas locale: con alcuni volonta-ri è riuscito ad allestire una mensa,dove ogni giorno si mettono in co-da decine di persone. «La cosa chefa pena è vedere alcuni ex profes-sori universitari, o musicisti, co-stretti a elemosinare un piatto diminestra, perché da un giorno al-l’altro si sono trovati senza lavoro,senza stipendio, senza il sussidiogarantito dallo Stato», continuaWitold.Constatare il degrado sociale nelquale è sprofondato il Paese dopola polverizzazione dell’Urss è an-cor più stridente se si pensa chequesta regione, un tempo, era laculla della cultura sovietica e illuogo privilegiato per le vacanzedegli alti funzionari di partito, an-che in virtù della varietà e della

bellezze paesaggistiche, tanto sullecoste temperate del Mar Nero co-me ai piedi degli imponenti rilievidel Caucaso. Il potere centrale diMosca garantiva, inoltre, la convi-venza delle varie etnie presenti inquesto territorio: oltre ai georgia-ni, gli armeni, gli osseti, gli azeri, ecome se non bastasse, ognuno conla sua chiesa, ortodossi georgiani eortodossi armeni, armeni aposo-tolici e azeri fedeli all’Islam, oltre auna esigua minoranza di cattolici.Oggi, sul palazzo governativo dovealloggia il nuovo primo ministro,Mikhail Saakhasvili, giovane erampante avvocato formatosi nel-le Business School americane, sven-tola come sempre la bandiera delleCinque Croci e campeggia il mot-to nazionale: Dzala ertobasia, L’u-nità fa la forza. Ma è difficile direse si tratti di un’esortazione o diun’irriverente boutade, carica dicaustica ironica.

Viaggiare

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I Georgiani amano raccontare questa storia: quando Dio distribuì leterre alle varie popolazioni, essi arrivarono in ritardo e così il Crea-tore, contrariato, ne chiese il motivo. Allora i Georgiani risposero chesi erano attardati per fare un grande banchetto in Suo onore, e ilbuon Dio, lusingato da tale attenzione, decise di riservare loro il piùbel luogo del mondo. La leggenda la dice lunga sia sull’affabile rap-porto intrattenuto con le divinità, sia dell’attenzione qui riservata aipiaceri della tavola. Di questo secondo aspetto si può essere diretti te-stimoni se per caso si è invitati ad una cena georgiana: qualora ciòaccadesse, cercate di restare digiuni per i due giorni precedenti (enon prendete impegni per i due giorni successivi). Il motivo è prestodetto: ogni famiglia – anche la più povera – non accetterà mai di la-sciarvi andare prima di avervi rimpinzato con almeno una decinadi piatti tipici.Generalmente, il tamada (maestro di cerimonia, la persona più an-ziana o importante della casa) propone degli antipasti, che possonoessere i khachapuri (schiacciatele calde farcite di pecorino) o alcunispiedini di carne d’agnello (mstvadi). È d’uso, in questa fase delpranzo, non bere vino, ma accompagnare il tutto con acqua o succodi frutta: alla prima esperienza di fronte alle leccornie della tavolageorgiana, con alcuni ignari amici ci siamo invece dedicati da subitoalle delizie dell’acidulo vino Saperavi. Il guaio è stato che, terminatoil primo giro di pietanze (dopo circa due ore), eravamo assoluta-mente convinti che il convivio volgesse al termine: così abbiamocommesso il grave errore di sorseggiare un bicchierino di vodka, tan-to per facilitare la digestione. Solo a quel punto, ammirati per la ro-bustezza del nostro fegato, i padroni di casa hanno iniziato a servirei “piatti forti”: agnello in umido con erbe aromatiche e verdure(chakapuli), frattaglie stufate (djigari), gulasch di carne di agnellocon riso (chikhitma), una densa minestra di carne bovina e verdura(kharcho), ed infine pollo stufato in umido con pomodori e verdura(chakhokhbili). Ovviamente, visto che oramai avevamo abbando-nato il vino per la vodka, abbiamo dovuto proseguire tutto il restodel pasto degustando il nettare dei cosacchi (con le difficoltà che sipossono facilmente immaginare per cercare di mantenere un conte-gno minimamente dignitoso sino al termine del banchetto).

La leggenda che avvicinaDio al piacere dell’ospitalità

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di Francesca Paradiso

Positive Press risiede a Verona invia Sansovino 16, nasce nel 1994dall’idea di Stevie Kim, nata aSeul in Korea nel 1964 e arrivataa Verona 18 anni fa, dopo esserecresciuta nella vivace New York.«In Italia nessuno trattava testidi tipo divulgativo sulla ricercascientifica – spiega Stevie Kim –ho così voluto concentrare l’in-teresse di Positive Press propriosu questo. Nel corso degli annipoi ci siamo specializzati sui testiper i disturbi alimentari, pren-dendo spunto da libri di autoaiuto di tipo anglosassone».Il progetto della casa editrice ècresciuto grazie anche a RiccardoDalle Grave, marito della signoraStevie Kim, che ha avviato il pri-mo centro di ospedalizzazioneper disturbi alimentari.Il catalogo di Positive Press siconcentra in maniera prevalentesui disturbi alimentari, tra cuianoressia, bulimia e obesità; sen-za però tralasciare Psicologia pertutti con titoli come Donna e Au-tostima, Burn-out, mobbing emalattie da stress. Alcune operesono veri strumenti a scopo cli-nico come Terapia CognitivoComportamentale dei disturbidell’Alimentazione.Positive Press ha anche acquisitola qualifica di Provider ECM dalministero della Salute, program-ma di Educazione Continua inMedicina, nato con lo scopo dimantenere elevata e aggiornatala professionalità degli operatoridella Sanità.Tra i tanti servizi offerti da Positi-ve Press (www.positivepress.net),oltre l’editoria, anche corsi di for-mazione, consulenza aziendalesulla salute e sul benessere, orga-nizzazione di convegni, dibattitiscientifici e manifestazioni fieri-stiche.Stevie Kim sottolinea che: «L’Ita-lia è all’ultimo posto come nu-

mero di lettori, noi però offria-mo un lavoro altamente speciali-stico. Per la distribuzione ci affi-diamo a Messaggerie libri, il piùimportante distributore nazio-nale che distribuisce ben il 70per cento dei libri italiani. Oltrea questo ci avvaliamo in manieracomplementare della vendita percorrispondenza attraverso lanewsletter Emozioni e cibo. I no-stri libri, poi sono acquistabilinelle librerie e nei convegni disettore».Nei primi anni della casa editriceera possibile reperire alcuni testianche nelle edicole, tra questi al-cuni instant book con tirature si-gnificative. «Oltre 100 mila le co-pie vendute de Il ContacalorieAIDAP prima di cedere i dirittialla Class che ha fatto una distri-buzione ancora più capillare».

Dicembre 200630

Giornale di attualità e cultura

DirettoreGiorgio [email protected]

RedazioneGiorgia Cozzolino

Cinzia InguantaElisabetta Zampini

Lungadige Re Teodorico, 10 37129 -Verona. Tel. 045.592695

StampaCroma - Verona

Registrazione al Tribunale di Veronan° 1557 del 29 settembre 2003

N° 13/dicembre 2006

Progetto editorialeProporre temi di attualità e cultura,

stili di vita per la crescita della persona

Il giornale è distribuito gratuitamentenelle librerie di Verona.

www.verona-in.it

STUDIOeDITORIALEGiorgio Montol l i

inVERONA

LA CASA EDITRICE

“Positive Press”Le difficoltà stanno nell’incompatibilità

delle diverse nazioni su temi politici di granderilievo, quali l’accoglienza dei flussi migratori,

la gestione delle risorse energetiche e la bioetica

di Francesco Sessa

Oggigiorno capire cosa si intende quando sentiamo parlare dieuropeismo è cosa alquanto utile per la nostra società. Non soloper questioni politiche, ma anche economiche e sociali. Ne ab-biamo discusso col prof. Oreste Dall’Argine, esperto in storia eletteratura moderna e comunicazione contemporanea, e con ilgenerale Giulio Innecco, collaboratore della NATO.Possiamo collocare l’inizio concreto del pensiero europeista nel1942, anno in cui fu creato il Manifesto di Ventotene, redatto daAltiero Spinelli con l’ausilio di Ernesto Rossi. Oggi si può affer-mare che tale manifesto fu uno degli avvenimenti socio-storicipiù importanti del XX secolo, nonostante, come sottolinea ilprof. Dall’Argine, «mostri in certi frangenti un esagerato ideali-smo, quale il suggerimento dell’abbattimento di ogni confinetramite l’uso dell’esperanto come lingua ufficiale, in modo darendere comune l’identità di tutte le nazioni».Alla fine della seconda guerra mondiale l’idea comunitaria go-dette di un favorevole periodo grazie alla presenza di quattrograndi statisti: De Gasperi, Adenauer, Schuman e Spaak, a lorovolta rappresentanti Italia, Germania, Francia ed Olanda, i qualierano uniti nella convinzione che l’integrazione politica ed eco-nomica dell’Europa sarebbe stata la soluzione a molti problemiesistenti in quell’epoca.Vennero perciò costituiti alcuni importanti organi comunitari,specialmente di natura economica.Nel 1957 fu istituita la Comunità Europea di Difesa (CED), conl’obiettivo primario di fronteggiare la crescente minaccia sovie-tica ai confini orientali europei. «Anche se in futuro si riuscirà araggiungere la creazione di un esercito integrato, sarà comun-que difficile poterlo impiegare con tempestività, a causa delledivergenti opinioni che gli stanno alle spalle» afferma il Gene-rale Innecco.Ma il problema principale giace sul piano culturale: l’Europanon è tuttora “sentita”, soprattutto dalla classe medio-bassa, allaquale poco importa delle questioni politico-economiche.Altro esempio poco incoraggiante sta nell’incompatibilità dellediverse Nazioni su temi politici di grande rilievo, quali l’acco-glienza dei flussi migratori, la gestione delle risorse energetiche ela bioetica.La Comunità Europea probabilmente risolverà i propri proble-mi col tempo, ma è improbabile che essa possa ambire al rangodi super-potenza, in quanto mancano mezzi, struttura, coesionee volontà politica. Tuttavia sarebbe auspicabile che si ponga ingrado di ricoprire una posizione, se non protagonista, almenocomprimaria, con un minimo di determinazione.

Per unire l’Europaè ancora molta

la strada da percorrere

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