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Vela libre Fabio Fiori Idee e storie per veleggiare in libertà Vela libre 12_4_2012:Layout 1 12/04/12 14.22 Pagina 1

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VelalibreFabio Fiori

Idee e storie per veleggiare in libertà

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Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons “Attri-bution-NonCommercial-NoDerivs 2.5”, consultabile all’indirizzohttp://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libero, e può

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Fabio Fiori, narratore delle acque e delle rive. Ha pubblicato Un ma-

re. Orizzonte adriatico (Diabasis, 2005) e Abbecedario Adriatico.

Natura e cultura delle due sponde (Diabasis, 2008). Scrive di pae-saggio, ecologia e cultura del mare su quotidiani, riviste e sul bloghttp://maregratis.blogspot.com/

[email protected]://maregratis.blogspot.com/

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Vela libre

Quattro decimi di vela,

sei decimi di libertà.

Acqua e vento, QB.

Miscelare lentamente.

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Barche amarrate

.............

Le vele le vele le vele

Che schioccano e frustano al vento

Che gonfia di vane sequele

Le vele le vele le vele!

Che tesson e tesson: lamento

Volubil che l’onda che ammorza

Ne l’ombra volubile smorza...

Ne l’ultimo schianto crudele...

Le vele le vele le vele

Dino Campana, 1912

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Alcuni anni fa... avendo pochi

o punti denari in tasca e nulla di particolare

che m’interessava a terra,

pensai di darmi alla navigazione

e vedere la parte acquea del mondo.

Herman Melville, Moby Dick, 1851

Come bambini che scoprono il mondo, con tutta la loro cari-ca di vitalità, cominciamo ad affermarci con tre indispensa-bili no. Le domande ci vengono da un vecchio pedante e og-gi anche consumista, chiamato Luogo Comune. Per l’occa-sione il vegliardo ha un secondo cognome: Nautico.

Per andare a vela è necessario essere dei superuomini?

No, assolutamente, tanto che la vela permette il confronto,anche sportivo, tra uomini e donne, vecchi e bambini. Inmare, l’abilità vale più della prestanza fisica, la conoscenzaè più utile della forza. Addirittura c’è chi fa della vela una

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Prima di mollarele cime

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pratica terapeutica, chi ancora prende il mare per affron-tare una malattia o la vecchiaia. Molteplici sono i progettidi recupero da problemi psichici e fisici legati alla vela.Un’attività sportiva e culturale che meglio di altre si prestaper stimolare interessi e curiosità, per creare relazioni esuperare difficoltà di diverso tipo. In mare, i problemi sonoaffrontabili attraverso una solidale partecipazione del-l’equipaggio. A bordo tutti, dal comandante al mozzo, de-vono fare la loro parte, perché la buona riuscita della navi-gazione dipende da chi traccia la rotta, da chi sta al timo-ne, da chi regola le vele, da chi prepara un caffè caldo. An-che su una piccolissima barca, impegnata in una breve ve-leggiata lungocosta, ognuno deve avere il suo ruolo ed es-sere consapevole delle sue responsabilità. A bordo, non so-no necessari superuomini individualisti, anzi sono perico-losi quando le condizioni diventano impegnative; sono in-vece utili i marinai che hanno ben chiara un’antica regola:“Una mano per sé e una per la barca”. Non a caso la paro-la equipaggio, che deriva dal francese équiper ossia forni-re del necessario, rimanda a equo, equità, equilibrio, cioèall’origine latina, Çequus, uguale. Si è parte di un equipag-gio quando si riconosce l’uguaglianza di tutti, nella diversi-tà dei ruoli.Anni fa, sull’Isola di Lussino in Croazia ho avuto la fortunadi conoscere un tedesco paraplegico che trascorreva tuttele estati da solo, navigando con la sua barca a vela di ottometri tra le isole istriane, dalmate e greche. Negli anni, ilmarinaio e la barca erano diventati un perfetto e coordina-to organismo marino. L’acqua aveva ridato a quell’uomo laleggerezza, il vento gli aveva restituito la forza. Sul mare

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era riuscito a superare tante difficoltà motorie e a realizza-re, in modo ecologico, la sua passione per il viaggio, incompleta autonomia e libertà di movimento. Epica rimane l’esperienza di Francis Chichester che nel1966, a sessantacinque anni, decise di mettersi in mare conil Gipsy Moth IV, una barca a vela di sedici metri, per cir-cumnavigare il Globo in solitario senza alcun scalo. Rag-giungerà i mari australiani in centosette giorni, per ritorna-re al porto inglese di partenza in altri centodiciannove gior-ni, ricevendo una meritata, entusiastica accoglienza. Moltoclamore fece allora l’età avanzata del protagonista, perchél’avventura venne vista anche come una sfida alla vecchia-ia. Ma fu lo stesso Chichester a liquidare questa stortura,scrivendo che era assolutamente consapevole di avere a di-sposizione un tempo misurato. Non voleva contrastare l’in-vecchiamento, ma pretendeva da se stesso il miglior rendi-mento, per poter vivere appieno, con soddisfazione.Visto che la maggior parte di noi non ha certo questo tipodi velleità oceaniche e che la vela è innanzitutto un eserci-zio fisico e mentale nei mari di casa, fino a diventare unapratica zen, si può subito concludere dicendo che tutti, daisei ai cento anni possono veleggiare anche da soli. Bisognascegliere la barca giusta e la rotta adeguata alle proprie pos-sibilità, mai dimenticando che, per quanto atletici, esperti epreparati, il mare rimane per tutti infinitamente più poten-te. È Joseph Conrad, grande marinaio prima che altrettan-to grande scrittore, a ricordare che il mare non è mai statoamico dell’uomo. Qualche volta è complice delle nostre ir-requietezze o ambizioni. Il mare è stato, e sarà sempre, undio severo, capace di dispensare inusitate gioie e terribili

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pene. Forse parte della fascinosa attrazione del mare staproprio in questa ambivalente complicità, perché ci sonogiorni in cui navigare è esperienza dolcissima, altri in cui èprova severa. Per noi, che sul mare non lavoriamo, le primedovrebbero essere le occasioni più frequenti, quelle offerteda un Mediterraneo che è da millenni culla del mestiere delnavigare, riprendendo le parole di Conrad.Quindi, per navigare a vela in sicurezza e con piacere, allaforza è da preferirsi l’abilità, all’audacia la prudenza, al-l’esuberanza la pazienza. Con gli anni e le miglia, a questetre qualità s’intreccerà l’esperienza, dandoci la più robustadelle cime di sicurezza, preziosa quanto l’indispensabile li-fe-line di bordo. Una vela manovrata con abilità, prudenzae pazienza, porterà lontano, oltre qualsiasi nostro immagi-nato orizzonte, geografico ed emozionale.

Per andare a vela è necessario fare un corso?

No, anzi, dispiace dirlo, ma ho conosciuto bambini che do-po un corso di vela non hanno più messo piede in barca.Perché non vincevano, non avendo la miglior barca con lamiglior attrezzatura. O ancora perché la vela era diventatauna pratica militare e la disciplina aveva soffocato la fanta-sia. Attenzione: ciò non significa che non ci voglia impegnoe dedizione per imparare a manovrare vela e timone, maistruzione non significa per forza corso. Anche perché lastessa parola è probabilmente inadatta ad un’iniziazione al-la vela. Corso si ricollega al latino currere, correre, e per ilnostro modo di andare per mare questo verbo non è neces-sario. Per altro, in passato “correre il mare” significavaesercitare la pirateria, mentre al contrario ciò che ci inte-

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ressa è un vagabondare, libero, ecologico e pacifico. La mi-glior iniziazione alla vela passa attraverso un’uscita in bar-ca con un amico o, per chi non ha questa fortuna, in unaprima cima raccolta in banchina, da sempre il preludio auna concreta occasione per lasciare la riva.Giorno dopo giorno, miglia dopo miglia, impareremo a or-zare e poggiare, a cazzare e lascare, ma soprattutto scopri-remo gli infiniti piaceri offerti gratuitamente dall’acqua edal vento. È sempre l’insuperabile scrittore anglo-polaccoa ricordaci che sono necessarie molte lezioni, dell’uomo edel mare, per forgiare un vero marinaio, che non deve pe-rò perdere l’ancestrale richiamo di libertà regalato dalleonde e dal vento.Se poi le curiosità e le ambizioni si fanno impellenti, vale lapena di iscriversi a un corso, con le idee però un po’ piùchiare. Consapevoli che nessun istruttore potrà imporci ilcorrere come fine, che le boe rimarranno prima di tuttogalleggianti per l’ormeggio, che si può, anzi si deve, anda-re a vela senza alcun spirito competitivo. Certi che la rega-ta sia al massimo parte di una più grande avventura, di unpiù duraturo amore.Sempre inseguendo l’arcana rotta delle parole, per descri-vere il primo approccio alla vela, il termine più adeguatopotrebbe essere iniziazione, visto che iniziare, initiare, si-gnifica introdurre ai misteri religiosi, e il mare ha innega-bilmente una dimensione spirituale.Seguendo la lezione orientale, se la vita senza scopo è ar-gomento fondante di tutte le arti zen, allora praticando lavela senza scopo, consciamente o inconsciamente, ognunodi noi si avvicina al vuoto meraviglioso. Ogni volta che al-

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ziamo una vela e lasciamo la riva portati dal vento, senzaalcun fine se non quello di assecondare gli elementi, en-triamo a far parte dell’armonia della Natura. Una Natura acui l’uomo appartiene, senza alcuna velleità di dominio.Una veleggiata nella luce augurale dell’alba o in quella no-stalgica del tramonto, nel buio punteggiato dalle stelle o inquello luminoso della luna, è un haiku, una poesia senzaparola.Ritornando in Occidente, quale parola migliore del latinootium possiamo associare alla vela? Ozio nella sua accezio-ne positiva, inteso quindi non come inerzia, né pigrizia, macome tempo libero ragionevole e dignitoso. Non dimenti-chiamo, poi, che otium nel mondo latino aveva sostituito ilgreco schole, scuola. Perciò l’ozio velico, praticato sulla piùpiccola e semplice delle barche, è tempo libero nell’acce-zione sportiva e culturale, è scuola di manualità ed ecolo-gia. Perché, per andare a gonfie vele bisogna saper asse-condare le nostre esigenze a quelle del mare e del vento;perché ogni volta che issiamo una vela ci rimettiamo all’or-dine naturale. Partendo dalle illuminanti considerazioni fi-losofiche, religiose e letterarie sull’ozio sviluppate da Sene-ca e Petrarca o, in tempi più recenti, da Bertrand Russell eHermann Hesse, potremmo approdare alle nostre più leg-gere riflessioni sull’ozio velico. Un tempo saggiamente sot-tratto agli obblighi, anche a quelli vacanzieri, troppo spes-so altrettanto stringenti. Un viaggiare lento, in cui il temponon deve per forza essere succube dello spazio. Anzi, an-dando a vela dedichiamo ore, giorni e stagioni ai luoghi, vi-cini e lontani, raggiunti nella grazia dei venti.Vela libera, orizzonti aperti, un vento largo.

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Per andare a vela è necessario essere ricchi?

No, perché se il mare è libero e il vento gratuito, non puòcerto essere costoso viaggiare a vela.La considerazione è talmente retorica che non occorrereb-be dilungarsi, se non fosse che il diporto si è sviluppato ne-gli ambienti aristocratici inglesi dell’Ottocento, per esserepoi spesso declinato nel Novecento nella sua dimensioneconsumistica. Scriviamo consumistica e non commerciale,perché chi non riesce a fare a meno di possedere una bar-ca dovrà in qualche modo acquistarne una, preferibilmen-te usata, o comprare i materiali per costruirsela. Quindi, ladimensione commerciale è, nella concretezza dell’oggi, unaparte imprescindibile per chi vuole prendere il largo con lapropria vela. Inutile, anzi deleteria, è invece la frenesiaconsumistica del “metro in più” che infetta tanti appassio-nati, ossia la malattia di una barca sempre più grande, co-moda, tecnologica, luccicante. Eppure, la grandezza non èdetto sia sinonimo di sicurezza, la comodità come insegna-no gli stoici è un vizio, la tecnologia è spesso inaffidabile, lalucentezza è madre di tante inutili fatiche, un tempo cruc-cio di marinai, proprio costretti a “lucidare gli ottoni”.Per andare a vela serve certamente qualche soldo, l’equi-valente del prezzo di una buona bicicletta o di uno scooterusato, ma non è assolutamente necessario essere ricchi. Alcontrario la barca grossa e nuova induce spesso a schiavi-tù lavorativa o pirateria finanziaria. Schiavitù e pirateriache con gli antichi eroismi di alcune storie marinareschenon hanno niente in comune.Veleggiando su una piccola barca, si scopre l’immutato fa-scino di sostantivi oggi desueti, quali sobrietà e frugalità,

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assieme ad altri spesso ridondanti perché vuoti, quali so-stenibilità e serenità. Tutto questo non significa immagina-re e dedicarsi a una pratica di sacrificio ascetico, ma svin-colarsi dalle catene del quotidiano, almeno per un giorno.Magari per un mese o un anno, per riscoprire l’eterna sag-gezza epicurea che invita alla rinuncia del superfluo, per-ché ciò che serve lo si può trovare facilmente, l’inutile piùdifficilmente.In questo caso basta una piccola vela, un mare e un ventopropizio. Con una certa facilità, ancora oggi ci si può im-barcare come semplici marinai. Oppure se si vuole esserecompletamente liberi e magari solitari, è sufficiente unavecchia, minuscola deriva. Quattro metri di barca, settemetri quadrati di tela, un remo che non guasta mai, è tut-to quello che serve per solitarie veleggiate verso infinitiorizzonti o deserte spiagge fortunatamente ancora nonraggiungibili via terra. Ricco non è chi ha un super-yacht,con dieci uomini d’equipaggio, con cui lascia l’ormeggioabituale solo d’agosto per raggiungere affollatissime ban-chine di grido. Ricco è chi, al contrario, può armare sullaspiaggia di fronte casa la sua barchetta tutti i pomeriggi,per andare da solo o in compagnia di un figlio, di un amo-re o di un amico, a godersi il tramonto nel silenzio del ma-re. Certi che i colori, gli odori e i rumori dei crepuscolid’autunno, d’inverno e di primavera sono altrettanto affa-scinanti di quelli d’estate e che una bella giornata vince lastoria, come insegna Raffaele La Capria. Una bella giorna-ta mediterranea, in cui il mare è tutt’uno con il cielo, unitida quel vento che muove le onde e le nuvole, o che gratui-tamente può spingere i nostri sogni. Vivendo lungo le rive,

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quale migliore occasione di quella offerta da una dolcebrezza per cogliere la bella giornata? La felicità è farsi por-tare al largo da un venticello che riesce appena a screziarela superficie del mare, sufficiente a muovere la nostra pic-cola, sobria vela verso un grande, magnifico, orizzonte di li-bertà.

Attraverso i no il giovane velista che è in noi si è liberatodella soggezione nei confronti del vecchio Luogo ComuneNautico.Ora non resta che rispondere a un’ultima domanda, sgan-ciata dallo spirito dei tempi.

Per andare a vela è necessario avere tempo?

Sì. Se il tempo è diventato la vera ricchezza dell’uomo oc-cidentale, allora mi devo subito contraddire per affermareche per andare a vela è necessario essere molto ricchi. Maquesta è ovviamente una contraddizione solo apparente,perché, svincolati dalla retorica di questi anni, stiamo par-lando di un bene immateriale. Ancora una volta viene inaiuto la saggezza greca, attraverso un aforisma di Epicuro:“La ricchezza della natura è delimitata e facile da avere,quella delle vane opinioni si perde nell’infinito”. Del tempo,una fortuna regalataci con la vita dalla natura, dobbiamoriappropriarci, consapevoli che avere tempo è una di quel-le virtù strettamente connaturate con la felicità, perciòinalienabili.A vela, oggi come sempre, si naviga più o meno a quattronodi che, per chi non ha ancora troppa confidenza con l’ac-qua, equivalgono a circa sette chilometri all’ora. Certo, sia

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con una piccola deriva che con un moderno cabinato, incondizioni di mare e vento favorevoli, si possono raggiun-gere velocità più elevate. Ma l’esperienza insegna chequando la rotta si allunga, e come in Mediterraneo le con-dizioni si fanno spesso variabili, alla fine i quattro nodi ri-mangono una buona media. A ciò si aggiunga che, anched’estate, capitano giornate di maltempo o venti contrari.Queste condizioni impongono soste forzate al navigante,spesso occasioni per inaspettati incontri e nuove scoperte.La vela richiede tempo, molto tempo, o forse, come qual-siasi altra forma di viaggio, semplicemente un giusto equi-librio tra spazio e tempo. Diversamente la si confonde conil charter, quell’essere aviotrasportati in luoghi più o menoremoti per salire su un’anonima barca a noleggio che, co-me un povero cane alla catena, ha un limitatissimo orizzon-te, del tutto privo di fascino.La vela ha bisogno di tempo anche nella meticolosa prepa-razione della barca, nella indispensabile attenzione al me-teo, nella scrupolosa pianificazione della rotta. La barca, levele, le attrezzature, devono essere continuamente con-trollate prima e durante il viaggio; dalla loro accurata ma-nutenzione dipende la sicurezza e il piacere della naviga-zione. La sua durata non è solo legata alle nostre capacitàe alle qualità della nave. Perché il vento e il mare dettano iloro tempi, favorevoli o sfavorevoli, capaci di diventare fau-sti o infausti. Tempo va poi dedicato allo studio geograficodel viaggio, breve o lungo che sia, ai caratteri delle coste daraggiungere, delle baie dove gettare l’ancora, dei portid’approdo.Se tutto ciò non pesa, se ogni ora e ogni giorno dedicato al-

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la barca come alla cultura marinaresca è vissuto piacevol-mente, allora siamo pronti ad alzare una vela facendo rot-ta su sconfinati orizzonti. La nostra isola, le nostre terre aldi là del mare, magari vicinissime geograficamente, rimar-ranno sempre luoghi di reconditi misteri, abitate da popolisconosciuti, capaci di rivelare inaspettati segreti. Solo iltempo chiesto dalla vela, quello lungo, comune al remo, alcammino e alla bici, può rivelare ancora oggi paesaggi ine-splorati. Utopia non è lontana, non si trova nel nuovo mon-do, come lo chiamavano i contemporanei di Tommaso Mo-ro. Noi, a differenza loro, non ci vergogniamo a confessaredi non conoscere dove si trovi quell’isola. Siamo invececerti che ognuno, andando a vela, riuscirà ad approdarvi,tempo permettendo.Nel silenzio della riva, una voce odissiaca c’invita ad atten-dere il vento propizio che gonfierà benevolmente la nostravela. La riuscita del viaggio sarà poi soltanto una questionedi tempo, quello necessario non solo a riprendere confi-denza con l’eterna mobilità delle acque, ma anche quelloutile a fantasticare geografie e genti utopiche. E ancora,prima di ogni altra cosa, il tempo ci servirà a ritrovare unasensibilità ambientale pericolosamente perduta. Perché ilmare obbliga le mani a stringere cime e barre, gli occhi avedere cirri e stelle, le orecchie ad ascoltare fruscii e gor-goglii, il naso a fiutare odori di terra e largo, la bocca a sen-tire acque dolci e salate. Quella ecologica è una crescitaculturale che richiede una quotidiana immersione senso-riale, ossia un’imprescindibile materialità del vivere, in ar-monia con la natura.

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Infine, prima di mollare le cime, devo dire qualcosa dei piùtemibili mostri marini, veri e propri incubi di ogni tempo. Si-mili a leviatani, inscrutabili e famelici, a basilischi, invisibili emalefici, possono inaspettatamente attaccare il marinaio digiorno o di notte, al polo o all’equatore, sotto costa o al largo,in bonaccia o in tempesta, alla prima o all’ultima navigazione.

Mal di mare e caduta in mare

Il primo demone, quello più frequente, molto fastidioso,ma meno pericoloso, si chiama naupatia o più comunemen-te mal di mare, un guaio che da sempre affligge chi naviga.Se vi può consolare sappiate che non sarete i primi e nem-meno gli ultimi, e soprattutto che se non sempre si riescea guarire, di certo con le uscite si acquista il “piede mari-no”. Significa che imparerete a conoscervi, abituandovi arollio e beccheggio, i movimenti trasversali e longitudinalidella barca. Concause determinanti sono tensione, stan-chezza, insonnia, freddo, umidità, paura e tutte quelle si-tuazioni anomale imposte da un ambiente difficile. “Loda ilmare e tieni la terra”, si diceva un tempo nei porti. Dopo laprima uscita senza problemi, non pensiate di esserne im-muni, anzi ricordate che i marinai dicono: “c’è un mare pertutti”. Consigli? mangiare e bere con moderazione, evitaredi stare sottocoperta, preferire il centro barca, non legge-re o fare lavori a testa bassa, provare a timonare, guardarel’orizzonte. Distendersi e chiudere gli occhi può essere unbuon rimedio. Se ogni precauzione è inutile, allora è meglioprovare appositi cerotti o braccialetti, caramelle o cicche,anche questi comunque non sempre sufficienti a sconfig-gere il maligno acquatico, subdolo, nauseante, vomitevole.

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Tre giorni di penitenza nel ventre della nave, sballottata

dalle onde, scontò Goethe per poter alla fine raggiungerel’agognata Sicilia. Per il poeta, un sacrificio necessario, unomaggio dovuto al mare, paesaggio immutabile e grandio-so che permette di farsi un’idea del mondo e del rapportocon esso. Ben più rara, ma anche molto più pericolosa, è la caduta inmare. Dalla prima all’ultima uscita della nostra vita, in ognistagione, a tutte le ore, con qualsiasi tempo, non dimenti-chiamo che è il più grave dei pericoli. Ripeto che a bordosi dice: “una mano per sé e una per la barca”, intendendoche bisogna sempre tenersi stretti. Ma ancor meglio è le-garsi, attrezzando una cintura di sicurezza, soprattutto conequipaggio ridotto, e magari inesperto, imprescindibilmen-te di notte o con cattivo tempo. Con la deriva sempre e coni cabinati quando le condizioni si fanno impegnative, anzicon qualche minuto di anticipo, è necessario indossare ilgiubbotto di salvataggio, perché anche il miglior nuotatoredifficilmente resiste per ore. Soprattutto considerando chein acqua il freddo è un nemico sempre in agguato, anched’estate. In coperta è opportuno avere un salvagente o co-munque un galleggiante pronto ad essere buttato in mare,dotato di boetta luminosa per la navigazione notturna. A ri-guardo, oggi sono relativamente economiche le radioboesatellitari e i localizzatori personali d’emergenza, che per-mettono un più rapido ed efficiente intervento di recuperodel naufrago da parte delle forze di vigilanza marittima. Èindispensabile comunque saper affrontare la situazione au-tonomamente, mettendo in pratica le regole di prevenzio-ne, esercitandosi sulle manovre di recupero e conoscendo

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le eventuali cure per il naufrago, non sottovalutando nes-suna di queste tre fondamentali norme di sicurezza.Esemplare la drammatica vicenda di Palinuro, primo fratutti i timonieri della flotta di Enea. In una placida notte incui favorevoli brezze gonfiavano le vele, un colpo di sonnoe la conseguente caduta in mare gli risultarono fatali. “Otroppo fiducioso nel cielo e nel mare tranquillo”, disseEnea piangendo la sventura occorsa all’amico.

Malgrado prudenza e preparazione non siano mai troppe,non temete e confortatevi sapendo che Joshua Slocum, ilpadre della nautica da diporto oceanica, ha fatto il giro delmondo a vela nell’Ottocento in solitario senza saper nuota-re; Bernard Moitessier, una leggenda della vela, durante lasua più impegnativa navigazione non aveva neanche la ra-dio e inviava messaggi cartacei alle navi che incrociava uti-lizzando una fionda; anche Francis Chichester soffriva ilmal di mare.Consapevoli quindi dei pericoli, ma fermamente convinti dipoterli affrontare con tranquillità, apprestiamoci a salpare.

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Sempre amerai, uomo libero, il mare!

È il tuo specchio: contempli dalla sponda

in quel volgere infinito dell’onda

la tua anima, abisso anch’esso amaro.

Charles Baudelaire, 1857

Come in ogni geometria, anche di tipo filosofico-culturale,prima di avventurarci nella dimostrazione che vela e liber-tà non possono essere disgiunti, fissiamo tre assiomi: ilvento è gratuito, il mare è libero, la vela è ecologica.Mentre il primo potremmo ancora definirlo un concettoprimitivo, in questa temperie consumista credo sia neces-sario qualche chiarimento sugli altri due.

La libertà dei mari è stata a lungo messa in discussione, permotivi militari e commerciali, spesso coincidenti. È unastoria antica che ha visto protagoniste le grandi potenzemarittime del passato, dalla Venezia medievale all’Inghil-terra moderna.

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1. Vela, ecologiae liberta’

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Merita quindi un breve accenno la plurisecolare diatribatra chi argomentava il principio di mare liberum e chiquello di mare clausum. Concetti che titolano due librigiuridici seicenteschi, scritti il primo dall’olandese HugoGrotius e il secondo dall’inglese John Selden. A riguardo,non dimentichiamo che in origine l’estensione delle acqueterritoriali, di pertinenza nazionale, era legata alla gettatadei cannoni, quindi alla loro difendibilità militare da terra.Se testi e argomentazioni sono lontane per tempi e temati-che da questa nostra riflessione, la contrapposizione traprospettive libertarie e privatistiche del mare rimane co-munque attualissima e riguarda tutti. O almeno quelli chepretendono che il mare sia considerato, tutelato e vissutocome un bene comune. Per altro il primo, perché il piùesteso, paesaggio-bene comune di una Penisola. Perciò,dovremmo essere in tanti a rivendicare e lottare per la gra-tuità e libertà del mare.Gratuità e libertà di affaccio, cammino e nuoto. Gratuità elibertà di navigazione e ormeggio. Perché, va ricordato,che le acque e le coste sono demaniali, quindi destinate al-l’uso di tutti i cittadini. Al contrario, da diversi decenni as-sistiamo ad una indiscriminata privatizzazione delle rive, invirtù di indebite alienazioni o altrettanto discriminatorieconcessioni o di recentissimi diritti di superficie. Tre diver-se modalità di cessione, un unico problema, riguardante lespiagge e le banchine portuali, sempre più spesso recinta-te, precluse a molti, a vantaggio di pochi. Continuamentesi costruiscono barriere per garantire la sicurezza o la pri-vacy, due differenti modi di giustificare una delimitazioneprivatistica. In Italia, il Codice Civile sancisce in maniera

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chiara che il lido pubblico, la spiaggia, le rade e i porti, ap-partengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico,inalienabile.Ma già dall’antichità, la libertà del mare e delle sue rive èstata oggetto giuridico. Nel diritto romano le res commu-

nes omnium, le cose comuni a tutti, cioè i beni comuni,annoveravano il mare e i lidi. Cicerone, in una delle sue di-fese, si chiede: “Cosa vi è di così comune come il mare percoloro che navigano e le coste per quelli che vi vengonogettati dai flutti?”. E anche Virgilio continua a ricordarciche l’aria, il mare e le coste sono, o dovrebbero essere,aperte a tutti.In riva ai laghi, ai fiumi e al mare, devono essere ricordatele parole della dea Latona, riferiteci da Ovidio nelle Meta-

morfosi. La scena si apre con la figlia del Titano, amata daGiove, in fuga da Giunone. Latona scappa con in braccio isuoi due gemelli ed è sola, sfinita, riarsa. Assetata, chiedea rozzi e avidi contadini dell’acqua, ma questi gliela nega-no. Lei chiede ragione di questo divieto, spiegando che lanatura ha fatto per tutti il sole, l’aria e l’acqua. Implorando,parla proprio di beni pubblici, reclamando un sorso d’ac-qua che è la vita, per lei e per i suoi figli. Ma coloro che del-l’acqua pretendono l’esclusiva proprietà sono sordi allesuppliche, anche a quella della madre di Apollo e Diana.Addirittura, anziché prestare aiuto, si divertono a intorbi-dire le acque, a rovinare un prezioso bene comune. Alla fi-ne, esplode l’ira della dea che trasforma i contadini in ranecapaci solo di litigare, imprecare e ingiuriare. Rane nuove,le chiama Ovidio, che continuano a pretendere un’esclusi-vità su beni comuni, per Natura.

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È nostro compito aggiornare e declinare i concetti fonda-mentali del mare liberum. Quello che Grotius chiamal’Elemento del Mare, comune a tutti. Immenso, troppogrande per essere di esclusiva proprietà di qualcuno. Alcontrario, naturalmente predisposto per essere utilizzatoda tutti. All’epoca, per la navigazione e la pesca, oggi ancheper altri svariati utilizzi. Questo diritto del mare, argomen-tato dal giurista seicentesco, si deve applicare anche alleterre limitrofe, a spiagge, falesie e porti.Della libertà del mare, in termini letterari e sociologici, cihanno parlato in anni più recenti Albert Camus e FrancoCassano, accomunati da un pensiero meridiano che comela brezza ha bisogno del mare per alzarsi. Nel tempo, il Me-diterraneo riesce a vincere ogni dottrina. Nel quotidiano, ilMediterraneo insegna a vivere nella misura.La libertà del mare è un dono che va difeso e, al tempostesso, goduto tutti i giorni. Le due cose hanno strettissi-ma attinenza con le pratiche del camminare, del nuotare,del navigare. Azioni che hanno oggi anche una valenza po-litica. Perché camminiamo in riva per manifestare il dirittoall’accesso, nuotiamo nelle acque costiere per pretenderequalità ambientale, navighiamo lungocosta o al largo percontrollare il buon uso di una risorsa comune. Attività checonsentono di vivere appieno il nostro mare quotidiano.

Che la vela sia ecologica lo insegnano fatti storici e riscon-tri scientifici.Per millenni uomini e merci, a bordo di navi mosse dal ven-to, sono andati da una riva all’altra del Mediterraneo e poidegli oceani, senza consumare carbone, petrolio o uranio.

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Sul finire dell’Ottocento, agli albori dell’età del motore, sidiceva che dopo il remo viene la vela, come più antico pro-pulsore economico. Allora si pensava che la vela era stata,e sarà sempre, indispensabile ausilio di qualunque navi-

glio d’alto mare. Motore economico ed ecologico, aggiungodoverosamente. Forza naturale, da riscoprire appieno do-po il delirante Novecento fossile.Vele fenice e greche, onerarie cartaginesi e romane, coc-che bizantine, arabe, genovesi e veneziane, caravelle spa-gnole e portoghesi, galeoni inglesi, olandesi e francesi, finoai velocissimi clipper, sono accomunati da una forza ecolo-gica: il vento. Quello variabile, per direzione e intensità, delMediterraneo o quello costante dell’oceano, ha riempitovele quadre, latine, al terzo e auriche, fatte di lino, canapae cotone. Vele di prua e di poppa, di maestra, trinchetto,mezzana, gabbia, straglio e coltellaccio. Migliaia di tipi di-versi ne hanno issate i marinai per oltre tre millenni, su na-vi di ogni forma e dimensione. Unica è invece la forza chele ha spinte a impatto zero, diciamo noi oggi. È utile ricor-dare che le più grandi onerarie romane, lunghe oltre 50metri per 14 di larghezza, potevano trasportare fino a10.000 anfore, cariche di olio, vino o grano. Nel Medioevo,una media navis veneziana o genovese trasportava circa200 tonnellate. Quantità minime se confrontate con quelledei mercantili odierni, ma che diventano significative separagonate a quelle di un camion di media portata che, apieno carico, non può superare le 7,5 tonnellate. In tempirecenti, fino alla metà del Novecento, un trabaccolo adria-tico o un leudo ligure, barche lunghe 20 metri e larghe 5,avevano una portata di 140 tonnellate. Nello stesso perio-

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do gli oceani erano attraversati dai favolosi clipper, nomederivato dall’inglese to clip, tagliare. I più poderosi e velociscafi mercantili a vela mai costruiti. Nati negli anni Ventidell’Ottocento negli Stati Uniti, si diversificarono a secondadel trasporto di merci o di passeggeri e vennero costruitiprima in legno e poi in ferro. Navi lunghe fino a 100 metri,larghe 12, con 3 o 4 alberi alti anche 70 metri. Il mitico Cut-

ty Sark, mosso da oltre 20 vele governate da 32 abilissimimarinai, carico di 1.400 tonnellate di tè, percorse le 8.000miglia, che separano Sciangai da Londra, in centodieci gior-ni, superando in alcuni tratti i 15 nodi di velocità.Tutti andavano da una riva all’altra senza alcun dispendiodi energie fossili. Nessuno di quei carichi ha ipotecato il fu-turo energetico delle successive generazioni.Lungi da me l’idea di voler idealizzare spietati commercimarittimi, ma altrettanto doverosa è la denuncia delle nuo-ve schiavitù, direttamente perpetrate sulle genti di bordo.In aggiunta, poi, da oltre cent’anni, le navi scaricano costiambientali altissimi su tutti gli uomini di domani. Perché seè vero che il trasporto su acqua è ecologicamente da pre-ferirsi a quello aereo o terrestre, è altrettanto vero che lesole emissioni in atmosfera delle navi sono elevatissime,anche in relazione a tecnologie vetuste e regolamentazioniinsufficienti. Riprendendo il mare sulle nostre piccole barche che porta-no a spasso sogni e piaceri, in un tempo in cui risulta evi-dente l’improrogabile necessità di uscire dalla follia ener-getica dell’ultimo secolo, il vento ritorna ad essere un’im-portante energia disponibile per i lunghi viaggi.Ma il vento, con sempre maggior risalto, sembra ritornare

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interessante anche per la navigazione commerciale. Nonsolo studi e modelli di navi mercantili mosse da tecnologieibride eoliche sono da qualche anno ritornate alla ribalta,ma addirittura una portacontainer di 130 metri di lunghez-za ha attraversato l’Atlantico utilizzando come propulsoreaccessorio una vela-aquilone, un grande kite di 160 metriquadrati, capace di abbattere del 20-30% i consumi di car-burante. Una superficie velica minima se paragonata agli8.000 metri quadrati dei velocissimi clipper. Se al momen-to, l’operazione skysails marine può sembrare una trova-ta eco-pubblicitaria, non è detto però che la crisi energeti-ca non costringa a rivalutare il vento come propulsore di-retto delle navi, magari all’inizio in maniera accessoria, co-munque economicamente vantaggiosa.

Il vento è gratuito, il mare è libero, la vela è ecologica.Fissati in maniera chiara questi tre assiomi, ognuno puòformulare e sperimentare una propria aritmetica del viag-gio e del piacere velico. Rotte personali, diventando collet-tive, fanno scoprire le gioie della condivisione. Rotte attua-li, intersecandosi con quelle storiche, restituiscono una ne-cessaria appartenenza culturale. Rotte reali, faticate nelvento e nel sale, ridanno un senso ai luoghi. Rotte fantasti-che, alimentandosi con racconti e visioni, permettono dimantenere vivo un rapporto con il mare.

Vela e libertà o libertà e vela; come nella più elementaredelle operazioni, il risultato non cambia invertendo l’ordi-ne dei termini.Diverso è invece l’ordine dato dagli uomini nei secoli a que-

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sti due sostantivi. Infatti oggi la vela è una pratica dilettan-tistica, sportiva, filosofica o di viaggio, diventando per al-cuni il mezzo per scoprire e godere della libertà. Per seco-li, al contrario, la libertà era il fine raggiungibile spesso so-lo attraverso la vela.Orizzonti libertari erano quelli agognati dagli eroi omerici,dai coloni greci, da tanti pirati oceanici o mediterranei, se-condo alcune argomentate riletture storiche. Tra gli altri,Markus Rediker ha studiato le numerose esperienze di uto-pie libertarie inseguite e tragicamente combattute da unagente di mare multietnica, indispensabile paradossalmenteper la nascita del capitalismo, anche nella sua spietata ul-tima metamorfosi finanziaria. Una gente di mare storica-mente invisibile, perché fin dall’origine repressa con vio-lenza, schiavizzata, incatenata, anche nel buio della stiva.Nell’immaginario comune, frutto spesso di una storia scrit-ta dai vincitori, la pirateria ha un’accezione esclusivamen-te negativa. Non va dimenticato invece che tanti rinnegati,schiavi e ammutinati, cercarono di ribellarsi alle catene diun feroce capitalismo, costruendo sui ponti di velieri av-venture di emancipazione e comunione.La storia reale e quella fantastica, non meno importante, ècostellata di isole raggiungibili solo a vela: le pelasgicheElettridi, l’odissiaca Itaca, la platonica Atlantide, la rinasci-mentale Utopia, la profetica Taprobana, l’egualitaria Eleu-thera, la leggendaria Libertalia. Un vero e proprio arcipela-go mitologico, le cui sognate coste si disvelano solo a chicon coraggio e audacia si mette in mare, alzando una velae confidando nell’aiuto dei venti.Ciò non significa idealizzare la vela, dimenticandone i san-

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guinari usi militari e commerciali. Perché la vela è stata persecoli asservita alle più spietate vicende umane. Utilizzan-do il titolo di un famoso libro di Carlo Cipolla, vele e can-noni hanno viaggiato sulle rotte di ogni oceano. Nel Cin-quecento, inglesi e olandesi presero il definitivo sopraven-to marittimo perché seppero impiegare in maniera massic-cia ed efficiente micidiali macchine del vento e del fuoco.Quella che Cipolla chiama era marittima dell’energia uma-na, dei rematori delle galee, si è chiusa con il perfeziona-mento della vela, altrettanto pericolosa ma sicuramentepiù efficiente sulle lunghe distanze. In quegli anni le fortu-ne militari e commerciali si costruirono sostituendo i remicon le vele, le balestre con i cannoni, oltre a impiegare nonpiù rozze e numerose risme di rematori, ma ridotti equi-paggi di marinai, abili alle manovre di vascelli sempre piùgrandi e veloci. L’Europa atlantica ideò, realizzò e speri-mentò con tragico successo velieri armati di fuoco, nel cor-so del XIV e XV secolo. Un’invenzione che rese possibilel’espansione europea e le conseguenti terribili nefandezze.L’incredibile ascesa delle nazioni atlantiche è legata anchealle abilità di costruzione e impiego di caravelle, caracche,galeoni, fregate, corvette, brigantini, armati di decine dicannoni bocche di fuoco. Rimangono comunque indiscutibilmente associate a ideelibertarie tante storie di vela, a cominciare appunto dallapiù antica narrazione mediterranea di viaggio: l’Odissea.Sarà una vela, gratuitamente offerta dal re Alcinoo, a ripor-tare Odisseo nell’amata Itaca, a ricondurlo sull’isola dopoaver patito tanti dolori sul mare. Ai giovani Feaci è dato ilcompito di scortare l’eroe sulla rotta del ritorno. Marinai

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ferrati al timone, al remo e alla vela. Bianche vele spiegatea un vento finalmente benevolo, che spinge la flotta versole acque di casa.Ogni volta che riprendiamo il mare sulla nostra piccola bar-ca, possiamo incrociare le vele della storia e del mito. Veleleggendarie, corsare o letterarie, tutte accomunate dal vo-ler portare oltre l’orizzonte un sogno di libertà. Su quellascia mettiamo il nostro quotidiano bisogno di muoverci li-beramente, attenti solo alle onde e ai venti. Rimaniamo an-cora oggi in cerca di un’isola dove gettare gratuitamentel’ancora, nella speranza di incontrare nuovi utopiani e ap-prendere come le loro istituzioni continuino ad essere pru-

dentissime e giustissime, come delle loro qualità, noi abi-tanti di questa bulimica Distopia, continuiamo ad avere undisperato bisogno.

Per concludere con la necessaria ironia questa divagazionevelica, tra filosofia, ecologia e cultura, un invito: “Velisti li-bertari di tutti i Paesi, unitevi”.

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Avevo un bisogno assoluto

di ritrovare il soffio dell’alto mare ...

Non si chiede a un gabbiano addomesticato

perché ogni tanto provi il bisogno di sparire

verso il mare aperto. Ci va, e basta. È una cosa semplice

come un raggio di sole, normale come l’azzurro del cielo.

Bernard Moitessier, 1968

I velisti

Ma chi è la o il velista? a quale particolare varietà di esse-re umano scopriamo di appartenere, giorno dopo giorno,miglia dopo miglia o anche pagina dopo pagina?Prima di rispondere, semplifico la questione di genere, sce-gliendo d’ora in poi la declinazione maschile, certo che nonsarà un articolo a indispettire le tante donne che hannofatto la storia della vela e che vivono questa passione conla determinazione e la sensibilità che le contraddistingue.Non dimenticando che la vela è il femminile che riesce ma-

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2. Un uomo,una barca

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gicamente a tenere insieme dalla notte dei tempi due biz-zosi maschili: il mare e il vento.Tornando alle domande, i dizionari ci liquidano in meno diuna riga. Il velista è colui che pratica lo sport della vela.Un’ingrata semplificazione che tace su tanti altri modi divivere l’andar per mare grazie al vento. Negli anni Settan-ta del Novecento Franco Bechini, pioniere e narratore delcampeggio nautico italiano, utilizza il termine psiconauti-

ca per parlare dell’analisi psicologica applicata alla nauticada diporto. Ma, forse in modo casuale e di certo curioso, lostesso termine descrive anche i volontari viaggi verso statialterati della coscienza. Viaggi orfici, sciamanici, yogici,derviscici, allucinogeni, che probabilmente hanno qualcosain comune con quelli velici.Comunque sia, senza velleità filosofiche, psicologiche o so-ciologiche, voglio provare a descrivere almeno tre diversimorfotipi che ho incontrato in trent’anni di vita in banchi-na, tacendo su un quarto, per la verità il più comune, rico-noscibile a prima vista per l’impeccabile abbigliamentogriffato. Mi permetto solo di esprimere qualche considera-zione sulla sua pericolosità. Perché ostenta un superfluovestiario tecnico, occupa troppi metri di banchina d’or-meggio, alza fastidiose onde anche in placidi giorni d’esta-te e soprattutto continua ad alimentare una deleteria leg-genda. Quella che narra la storia di una piccola principes-sa chiamata Vela, talmente ricca da poter essere avvicina-ta solo da pochissimi eletti, incapaci però di portarla daisuoi amati fratelli, grandi e liberi, chiamati Mare e Vento.Sono tanti invece i velisti che, in modi diversi, si preoccu-pano di tenere vicino Vela, Mare e Vento.

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Sognatore

Chi vive la vela come esperienza innanzitutto onirica, aprescindere dall’ora, dal giorno, dalle stagioni, dell’anno edella vita.La barca ha per lui significati arcadici, è luogo di vita idil-liaca, separato dalla realtà, di certo lavorativa, a volte fami-gliare. Perciò, piccola o grande, in acqua o a secco, prontaalla navigazione o solo progetto ideale, diventa comunqueun rifugio ameno e romito. Mentre non nega a nessuno diguardarla, centellina attentamente l’invito a bordo. Quan-do la barca è in banchina, preferisce l’ormeggio di prua. Te-nendo il pozzetto più lontano dalla riva cerca un distaccodal mondo e un’intimità con i fedeli. In questa visione reli-giosa, il ponte diventa il nartece, il pozzetto la navata, ilboccaporto l’iconostasi che separa dal presbiterio. Scesi gliscalini, si raggiunge un mondo oscuro, immerso in un ru-moroso silenzio acqueo. Lì, preferibilmente disteso su unaascetica panca di legno, il sognatore vive esperienze mari-ne mistiche, di navigazione oceanica, orizzonti infiniti, iso-le lontane. Della vela non importano i ferzi e le bugne, il taglio e i ma-teriali, ma prima di ogni altra cosa l’usura. La vela comesindone eolica, immagine di venti favorevoli e contrari, diburrasche e bonacce, di incaute attraversate o sapienti ap-prodi.Il viaggio concreto sfuma in quello ascoltato dai marinai, lemiglia percorse in quelle narrate dai libri, le onde tagliatein quelle dipinte su tela. La navigazione è dissolvenza, inun infinito mare forse mai solcato, di certo fantasticato.Il velista sognatore nella più elevata incarnazione può arri-

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vare a praticare la rinuncia, alla barca o addirittura alla na-vigazione. L’ascesi velica, al pari di quella religiosa, è unesercizio spirituale e fisico. Attraverso digiuno, isolamento,meditazione, astinenza all’acqua e al vento, sublima la pas-sione per la vela. Ho conosciuto sognatori che non sapeva-no nuotare e non erano mai saliti a bordo, ma conosceva-no tutto di barche, vele e ancore, di onde, venti e porti.

Vagabondo

Chi vive la vela come concreta, ecologica ed economicapossibilità di viaggiare o restare che, come insegnano i piùilluminati antropologi, sono esperienze profondamente in-trecciate. Ciò che accomuna le due opzioni è l’idea del va-gare, la consapevolezza del valore insito nell’andare senzameta o scopo preciso.La barca, di proprietà o d’imbarco, è valutata per le suequalità marinaresche; una sempre perfezionabile sintesi disemplicità ed efficienza. Questo secondo aspetto è svinco-lato dal primato della velocità o della capacità di stringereil vento, dalla possibilità di andare in qualsiasi direzione aprescindere dalle condizioni meteorologiche. Al contrario,la barca del vagabondo tendenzialmente asseconda i ca-pricci delle onde e dei venti, insuperabili dispensatori diinaspettate meraviglie. Consapevole del fascino delle sco-perte legate alla casualità; pronto a vivere il cielo e il marecome luoghi imprevedibili per definizione.Vagabondo, nell’accezione velica, è insieme giramondo enomade. Ossia, colui che ama viaggiare per il mondo, lon-tano e vicino, senza direzione prevista, perché vuole assa-porare appieno significati ed emozioni dell’incontro con

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genti e approdi, barche e coste, culture e tradizioni, arcai-che o contemporanee. Il vagabondo condivide, magari in-consciamente, con il nomade il piacere di non avere fissadimora, di cui la barca anche se eternamente ormeggiatanello stesso porto incarna l’archetipo. Perché quando è nelsuo elemento, anche quando non si sposta di un miglio, go-de dell’eterna mobilità dei flutti. Il vagabondo apprezza della vela le doti utili a portarlo lon-tano, con poca spesa e molta resa, in miglia e avventure.Una barca deve essere molto robusta, facilmente manovra-bile, adatta alle tante condizioni che il mare impone. È piùimportante poter vegliare sonnecchiando, che dover vigila-re sempre con la massima attenzione, magari solo per gua-dagnare qualche nodo di velocità, per raggiungere un’oraprima un approdo, per scegliere uno scalo di qualche mi-glia sopravento. Viaggiare e restare sono due verbi solo apparentementeantitetici. Lo spiega bene l’antropologo Vito Teti che so-stiene, senza enfasi retorica ma con profonda e vissutaconsapevolezza, che restare è la forma estrema del viaggia-re. Soprattutto in un tempo come il nostro, in cui il mondosembra a portata di click e l’esotico è più una faccenda daturisti che da viaggiatori. Solo la vagabonda pratica quoti-diana del restare permette il rivelarsi dei luoghi, terrestri eacquei. Solo il velista vagabondo può ri-scoprire isole lon-tane o vicine, acque placide o tempestose, venti favorevolio contrari, rinnovando il fascino di odissiache narrazioni.Capaci di rivelare i misteri del viaggio, che non è mai esclu-sivamente una questione di miglia percorse.

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Regatante

Chi vive la vela esclusivamente come pratica sportiva, de-clinando sul mare vizi e virtù dello spirito agonistico. Vo-glio sottolineare che regata è una parola marinaresca anti-ca e nasconde i suoi natali in famose acque lagunari, quel-le veneziane. Deriva infatti da regatar, cioè contendere. Il regatante, quando guarda una barca, cerca di capire seappartiene a una classe e se è competitiva. Per classe si in-tende un gruppo di scafi identici, o comunque rispondentia certi requisiti, armati allo stesso modo. Devono quindi es-sere lunghi, larghi e pesanti, nonché avere una superficievelica, entro certi limiti. Antiche, come la storia della velasportiva, sono le ripartizioni e le regate per classi.Lasciando perdere yacht miliardari, basterà ricordaresplendidi dinghy, beccaccini e jole, che numerosissimi ani-mavano le acque costiere nella prima metà del Novecento.Guardando le vecchie foto o i filmati in bianco e nero dellespiagge degli anni Trenta, si scopre che paradossalmentec’erano molte più barche a vela di oggi. La scoperta del ma-re d’inizio Novecento non è stata solo balneare; la vela e ilremo sono stati per decenni esercizio ed esperienza acqua-tica diffusa e importante, forse più di quanto non lo sia inquesti anni. Per il regatante, l’analisi e la conoscenza del mezzo è fina-lizzata alla prestazione, che significa velocità, manovrabili-tà, capacità di stringere il vento, ossia di ridurre l’odiatoangolo morto, quello spazio da sempre precluso alla navi-gazione a vela diretta, ma che richiede un faticoso bordeg-gio. Per il regatante, poter stringere il vento non significaraggiungere uno scalo agognato, ma avvicinarsi il più rapi-

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damente possibile alla boa. Questa perde il suo originalestatus marinaresco di gavitello, per elevarsi a simbolo stes-so della gara, a segnalamento per eccellenza del percorso.Che sia un bastone o un triangolo, la boa ne definisce for-ma e lunghezza, trasformando l’indistinto spazio acqueo incampo di regata. Altri velisti inorridiscono alla sola idea ditrasformare il mare in un campo, il regatante invece nepercepisce solo i significati sportivi. La vela non solo deve essere performante, per taglio e ma-teriali, ma deve avere senza meno anche i filetti segnaven-to, quei leggeri fili accoppiati sui due bordi che permetto-no di regolarla al meglio. Il regatante, più che delle velepreferisce occuparsi del rigging, cioè dell’insieme di vele,drizze, scotte, sartie, albero e boma. Anche il linguaggiodifferenzia il regatante dagli altri velisti perché, nella ne-cessità o nell’ambizione di frequentare campi di regata in-ternazionali, fa ampio uso di termini anglosassoni. Così ilcaricabassi diventano vang o cunningham, la randa,mainsail, il regolatore delle vele, tailer, il segnavento,windex, la prolunga della barra del timone, stick.Per il regatante, il viaggio, lungo o corto che sia, non ha al-cun significato se non è associato alla regata d’altura, quel-la particolare corsa d’alto mare, in cui isole o addiritturacontinenti si trasformano in boe di regata da doppiare.

Avvertenza

Sognatori, vagabondi e velisti di qualsiasi risma, hannomoltissimo da imparare dal regatante, in termini tecnici.Le raffinate conoscenze maturate sui campi di regata sonoutilissime nella quotidiana navigazione. Conoscenze me-

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teorologiche, strategiche e tecniche, hanno semplificato emigliorato incredibilmente anche i piaceri di chi veleggiasenza velleità competitive. Meno condivisibile invece èl’eccesso agonistico, certe storture dello spirito competiti-vo, la frenesia consumistica in chiave nautica. Perché in-concepibile al marinaio è l’idea di trasformare e trasfigura-re la pratica velica, la sua primigenia condizione di viaggioo le altrettanto radicate immagini di lentezza, armonia, se-renità. Tutto questo non significa vivere in maniera nostal-gica l’andar per mare, al contrario, proprio perché rimaneentusiasmante veleggiare, vogliamo farlo ogni giorno,sfruttando al meglio la modernità con l’intramontabile do-no della misura, oggi più che mai ecologicamente indispen-sabile.

Le barche

A questo punto, non solo per il neofita, è altrettanto impor-tante chiedersi: cos’è una barca a vela? cosa cerchiamo osogniamo tutte le volte che sfogliamo una rivista nautica,visualizziamo una pagina web, camminiamo lungo una ban-china portuale?In relazione alla rotta scelta, non scriverò dei modelli perle regate, né tanto meno dei più comuni, in questi tempi diconsumo spinto. Barche lucide e nuovissime, che ho senti-to bonariamente liquidare come plasticoni.Consapevole dell’impossibilità di descrivere in manieraesaustiva l’oggetto del desiderio di tanti velisti, ognuno conun personale orizzonte, mi limiterò ad accennare a tre ide-altipi, raggruppandoli per materiali di costruzione. Tenete

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presente che le barche si sono costruite e si costruiscononei più svariati materiali: pelli, canne, camere d’aria, botti-glie di plastica, ferrocemento e perfino mattoni. Materialiantichi e moderni, leggeri o pesanti, flessibili o rigidi, tutticapaci di galleggiare grazie alle qualità dell’acqua, alla ma-gica spinta di Archimede. Tronchi, zattere e barche di di-verso tipo galleggiavano e navigavano già da millenni,quando lo scienziato siracusano spiegò che un corpo rice-ve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso dell’acquaspostata. Ma da quel giorno lontano, grazie a quel maresplendido in cui Archimede bagnava corpo e idee, l’uomocapì appieno l’incredibile dono di leggerezza regalato dal-l’acqua, le infinite potenzialità della navigazione.Oggi la stragrande maggioranza delle barche è di legno, ve-troresina o metallo. Quindi, pur nelle tante variazioni di di-mensioni, armamenti e linee d’acqua, l’accorpamento in le-gni, resine e metalli, permette un primo orientamento nonsolo strutturale ma, probabilmente, anche ideale.

Legni

“È un violino!”, si dice di una macchina, nell’accezione piùampia, se è riuscita, elegante e armonica. Questa locuzio-ne è particolarmente indicata in riferimento alla macchinadel vento, al veliero di legno. Come strumenti musicali,queste barche suonano nel vento e nell’onda, hanno cordee cassa armonica, da tesare in maniera perfetta e lucidarecon altrettanta cura. Uno scafo è un violino se di legno,massello o multistrato, comunque vivo, rispondente alle at-tenzioni dell’uomo e alle sollecitazioni della natura. Un vio-lino nasce dalle mani esperte di un maestro d’ascia o da

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quelle amorevoli di un autocostruttore, che supplisce ainevitabili deficit di abilità con la passione e il tempo. Ha al-bero alto e leggero, con sartie altrettanto sottili e tese; ar-ma vele ampie, capaci di far librare la barca con brezze leg-gere. Normalmente dà il meglio di sé nelle ore che seguo-no l’alba, con mare piatto, screziato appena da una bava.Un violino risponde subito alle seppur impercettibili varia-zioni di correnti aeree e acquatiche. Solo nelle mani di unabile timoniere, un maestro, e di un altrettanto capace e af-fiatato equipaggio, un’orchestra, può mostrare tutta la suamusicale eleganza. Non è detto che un violino sia un gran-de e costoso vascello.Ho ammirato piccolissimi gioielli in forma di deriva e su al-cuni ho avuto la fortuna di navigare: la mitica classe U, ilpopolare beccaccino, lo storico dinghy, l’acrobatico FD. Misono imbarcato anche su violini d’eccezione, veri e propricapolavori costruiti nei migliori cantieri. Conosco violinipesanti, ma dal suono soave, che hanno più di cent’anni ealtrettante storie alle spalle. Barche da lavoro con fasciamedi quercia, coperta di larice, alberi e pennoni di abete, ti-moni di olmo. Trabaccoli e leudi, battane e gozzi, armaticon vele al terzo o latine di cotonina, issate e mosse da ci-me e scotte di canapa. Barche da trasportato che dopoaver caricato per decenni legnami, sale e minerali, sono og-gi vive testimoni di un’arte marinaresca antica, da custodi-re nella pratica giornaliera. Barche da pesca che dopo avercalato tartane, ostregheri e nasse, vanno oggi da una spon-da all’altra del Mediterraneo, rinnovando tradizioni e ricor-dando antichi racconti di sofferenza e fratellanza.

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Resine

Dalla seconda metà del Novecento, qualità ed economicitàhanno imposto nella nautica questi materiali. La maggiorparte dei velisti nati negli anni successivi, sono cresciuti suscafi di vetroresina, alzando vele di Dacron. Le resine di-ventano vetroresine quando incontrano le fibre di vetro,più o meno finemente tessute. Quelle fibre sono una mira-colosa trasformazione del vetro, rigido e fragile, ridotto inlana sottile, flessibile e modellabile.In generale, la plastica è parte importante della nostra vi-ta, anche di quella trascorsa navigando. Perciò tutti do-vrebbero avere i rudimenti di quest’arte novecentesca che,pur in continua evoluzione, mantiene la sua centralità nel-la costruzione nautica. Per avere piena autonomia su unabarca in vetroresina è necessario conoscere le qualità diuna resina poliestere, epossidica e vinilica, i tempi e i rap-porti dei catalizzatori, le differenze tra mat e stuoia. La ve-troresina è economica e autarchica, consente di costruiree aggiustare in piena libertà, dalle altrui richieste di tempoe denaro. Quella in vetroresina può essere una barca mari-na, aggettivo che non è strettamente correlato alla dimen-sione. Marina perché capace di tenere bene il mare, con-sentendo navigazioni sicure con equipaggio famigliare o ri-dotto, magari in solitario. Può trattarsi di una deriva, utilea brevi uscite giornaliere, o di un cabinato, magari piccolo,ma costruito per poter affrontare venti e mari impegnativi.Le barche, più delle case, assomigliano al padrone, al pa-

ròn direbbero i veneziani, a colui che ci naviga, curandolee personalizzandole. Le barche che navigano si riconosco-no da lontano, dai particolari capaci di renderle uniche. Al-

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l’ormeggio, si notano mille piccoli lavori marinareschi chedenotano attenzione ai dettagli, utili per migliorare la sicu-rezza e il comfort. Sui cabinati le draglie sono solide, nonmancano cappottine, cagnari e paraspruzzi. In pozzetto sivedono tasche di stoffa e di rete. Gli arridatoi sono protet-ti da guaine che limitano la loro involontaria azione usuran-te su cime e vele. L’elenco potrebbe essere lungo e noioso,di certo però appassionante per chi vuole una barca effi-ciente, sicura e poco dispendiosa, in una parola: marina.

Metalli

Acciaio e alluminio. Il primo ottocentesco, impiegato percostruire gli ultimi velocissimi clipper e le sempre più gran-di navi. Acciaio o nel linguaggio comune ferro, in lamiere,prima inchiodate come assi, poi saldate con il fuoco, pro-meteico dono capace di costruire mercantili e traghetti dismisurate dimensioni. Navi di centinaia di metri di lun-ghezza e, nel Novecento, piccoli scafi da diporto, altrettan-to robusti. Non a caso Bernard Moitessier scopre le mera-viglie del ferro a bordo di una petroliera di 16.000 tonnel-late, su cui si era imbarcato dopo un naufragio ai Caraibi.Racconta che oltre a imparare i segreti della navigazioneastronomica, scopre che l’opera morta, cioè la parte emer-sa di una nave in acciaio, può essere curata dal suo peggiormale, la ruggine, con una costante manutenzione. Lavorisemplici, alla portata di tutti, addirittura di uno scimpanzése ben ammaestrato. Mentre per la manutenzione di unabarca in legno sono necessarie tre lauree, strumenti e ma-teriali opportuni, per una in ferro bastano tre umili ogget-ti: raschietta, pittura e pennello. A Moitessier non sfuggiva

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ovviamente che la costruzione di uno scafo in ferro richie-de grandi abilità e adeguate tecnologie. Potremmo quindisintetizzare dicendo che la barca in metallo è difficile dacostruire e facile da mantenere, sempre ammesso che nonsi badi troppo all’estetica e che qualche colatura di ruggi-ne non guasti l’umore dell’armatore.Molti di quelli che sognano, e magari realizzano, navigazio-ni di lungo raggio, ambiscono spesso ad avere una barca inferro o nel più recente e tecnologico alluminio. Non è qui ilcaso di elencare i pro e i contro legati alla realizzazione de-gli scafi in metallo, bisogna però sottolineare come la lorosolidità va in parte a discapito della velocità o per megliodire della possibilità di andare a vela anche con venti debo-li, condizione frequente in Mediterraneo e non solo. Le barche in metallo sono tradizionalmente a spigolo, ossianon hanno la carena tonda. Lo spigolo, che oggi sembra es-sere rivalutato, è stato per decenni sinonimo di barca po-vera, realizzata da autocostruttori o da cantieri a bassa tec-nologia. Al contrario, garantisce due qualità non trascura-bili: robustezza e resistenza allo scarroccio. Se la prima èfacilmente comprensibile, la seconda è la caratteristica chepermette alle barche a vela di limitare lo spostamento late-rale, di mantenere la rotta anche in andature strette, dinon essere semplicemente spinte, a prescindere dalle qua-lità della deriva. Bastano queste poche righe per spiegare come, più di ognialtra, la barca in metallo o la si ama, o la si odia, senza pos-sibilità alcuna di discussione o compromessi. Certo è che chila sceglie, a differenza delle altre, non lo fa mai per caso.

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Le storie

Per meglio restituire le qualità del velista, di colui che, sen-za obbligo esteriore ma con grandissima spinta interiore,decide di prendere il largo, ci saranno d’aiuto tre storieemblematiche. Quelle di uomini e barche che nel Novecen-to, attraversando gli oceani, sono diventate un tutt’uno,compiendo una vera e propria metamorfosi, diventandoforme mutate in corpi acquatici nuovi, parafrasando Ovi-dio. Nel mito, le navi care a Cibele diventano Naiadi mari-ne, con prue che si trasformano in volti, remi in gambe ebraccia, pale in mani e piedi, chiglie in colonne vertebrali,cordami in chiome. Nella storia, i marinai devoti a Nettunodiventano tritoni particolari, per metà uomini e per metàbarche.

Joshua Slocum e Liberdade“Questa mia barca letteraria, di modello e attrezzatura in-digeni, parte carica di fatti strani che sono capitati in unacasa galleggiante”. Con questo incipit, Joshua Slocum, av-via il primo dei suoi reportage marinareschi, Il viaggio del-

la Liberdade, pubblicato nel 1890. Un viaggio, velico e let-terario, che aprirà a Slocum ancor più ampi orizzonti, quel-li del primo navigatore solitario capace di portare a termi-ne un giro del mondo, nel 1898. La barca con cui compìl’impresa era lo Spay, lungo appena undici metri.Qualche anno prima di realizzare questo piccolo, mitico,veliero, ne aveva costruito un altro, ancor più modesto,una canoa come amava chiamarla. Una barca affusolata,lunga dieci metri per due di larghezza, con pescaggio di so-

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li settanta centimetri. La forma era ispirata dai dory e daisampan. Le prime sono barchettine di 5-6 metri di lun-ghezza a fondo piatto e sezione a spigolo, diffuse in diver-si Paesi, anche se le più conosciute sono quelle della costaest degli Stati Uniti. Le seconde sono invece cinesi, altret-tanto piccole e semplici, come testimonia il nome che de-riva dalle parole “tre tavole”. La barca di Slocum aveva trevele trapezoidali con boma, picco e stecche, di bambù. Ilvaro avvenne il 13 maggio 1887, il giorno della liberazionedegli schiavi in Brasile, dove la canoa venne costruita eperciò battezzata Liberdade.Libertario era anche lo spirito di Slocum, che nel raccontodel suo viaggio più famoso dice di non aver scoperto conti-nenti o isole e di non aver navigato per affrontare terribilitempeste. Quando qualcuno gli chiedeva ragione del suoprogetto, rispondeva che l’avrebbe fatto rendere. Come?vivendo, scrivendo e raccontando avventure. Forse, però,prima di ogni altro tesoro, Slocum negli oceani cercava lafelicità che regala il mare, scoperta da bambino nelle acquedella Nuova Scozia.Nacque nel 1844, discendente di una famiglia inglese emi-grata in Canada nel XVII secolo, in cui tutti erano marinai,sia da parte materna che paterna. All’epoca, quelle terreerano posti per balenieri, gli stessi con cui Slocum avevacondiviso le fatiche fin da ragazzo, gli stessi da cui conti-nuava a raccogliere preziose informazioni anche a Fairha-ven, a nord di New York, nei lunghi mesi della costruzionedello Spary. Slocum abbandonò giovanissimo gli studi perimbarcarsi, prima con poca fortuna come cuoco, poi comemarinaio. Sui ponti di navi che girarono tutto il mondo, ma-

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turò esperienze e abilità che gli permisero di raggiungere ilcomando. Traguardo ambito, guadagnato con orgoglio fa-cendo la gavetta, e non attraverso qualche oblò di poppa,riprendendo le sue parole. Ritornando alla Liberdade, la sua prima barca da diporto,la chiameremmo noi oggi, la costruì nella baia di Parana-guà, nel sud del Brasile. Lì era naufragato, al comando diun brigantino a palo. Era un veliero di una trentina di me-tri di lunghezza, che trasportava merci da un porto all’altrodelle Americhe. A bordo, oltre a dieci persone di equipag-gio compreso il figlio maggiore, c’era la moglie e il figlio mi-nore di sei anni. Dopo la sciagura, Slocum rimase solo coni tre famigliari e, malgrado la situazione precaria, non eradisposto ad elemosinare un passaggio per tornare in NordAmerica. Perciò decise di costruirsi una piccola barca, so-lida e marina, capace di navigare in sicurezza, nelle diffici-li condizioni imposte subito dal Pampeiro. Questo ventogli diede il benvenuto dopo il varo, strappando le vele cu-cite con cura dalla moglie. Malgrado la disavventura, la ca-

noa trainata da un postale arrivò a Rio. Già in questo sca-lo, i giornali salutarono l’audace marinaio americano conammirazione, per la perizia e il sangue freddo. Mille furonole successive avventure, venti favorevoli e contrari, ondeplacide e tempestose, finanche un colpo di coda di balena,un mostro che fortunatamente se ne andò, dopo aver veri-ficato che a bordo non c’era nessun Giona, scrisse Slocum.I leviatani furono un incubo ricorrente del capitano, nellelunghe notti passate al timone. Sogni tormentati, popolatianche dai temibili rostri dei pesci spada; armi leggendariee micidiali, usate per assalire e bucare malcapitate barche.

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Non di sole difficoltà si riempirono i giorni della Liberda-

de. Gustosi pesci volanti finirono a bordo e poi in padella,mentre un favorevole aliseo da sudest spinse velocementela canoa verso nord, avvicinando la meta e aumentando lafiducia dell’equipaggio. In alcuni scali incontrarono uominiinfidi, che tentarono di assalirli, in altri indigeni ospitali oaltrettanto disponibili genti di mare. Di porto in porto, daisola a isola, in tappe di diversa lunghezza e difficoltà, la Li-

berdade raggiunse i Caraibi e poi la costa della CarolinaMeridionale, per raggiungere infine Washington, il 27 di-cembre 1888. Lì, fu il figlio minore a dar volta alla cima diormeggio, assicurando in banchina una piccola barca chedimostrò al mondo la possibilità di percorrere migliaia dimiglia con un equipaggio famigliare e neanche cento dolla-ri di spesa. Con questo viaggio, il capitano Joshua Slocumsanciva idealmente la rinascita della vela in forma nuova,non più mercantile ma diportistica, anche a lungo raggio.Lo aveva fatto con una piccola canoa di legno autocostrui-ta. Un’ascia da carpentiere, una trivella con qualche punta,due aghi da vele trasformati in punteruoli, una caviglia dacordaio modificata a scalpello, una preziosissima lima tro-vata in riva al mare. Con pochi strumenti e tanta volontà,con legni recuperati dal relitto e qualche albero della vici-na foresta, Slocum aiutato dai famigliari, da qualche indi-geno e dalla necessità, la madre dell’invenzione, come lachiama lui stesso, costruì una barca che rivoluzionò la sto-ria della navigazione. Per andare da una costa all’altra de-gli oceani o, più modestamente, del Mediterraneo non erapiù necessario imbarcarsi sui grandi velieri ottocenteschi,affidandosi a temerari capitani coraggiosi. Da quel momen-

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to basterà una modesta barchetta a vela, anche di cinque osei metri, purché robusta e marina, ben equipaggiata e por-tata con attenzione e prudenza. Senza mai dimenticarel’incitamento di Masaniello, forse anch’egli libertario, dicerto pescatore, pescivendolo, contrabbandiere e rivolu-zionario napoletano. Lo stesso scelto da Slocum per avvia-re il racconto della costruzione della Liberdade: “Via, vianon cala nube su noi/ora che liberi tagliamo l’onda;/alza, al-za tutte le vele: davanti a noi/splende il faro della speranzaper dare animo coraggioso”.

Bernard Moitessier e Joshua“Una volta che la prua è verso il largo ci si sbroglia sem-pre”. Con queste poche parole Bernard Moitessier sintetiz-za perfettamente migliaia di miglia percorse, centinaia dipagine scritte, decine di anni trascorsi a bordo, invitandotutti quelli che sentono l’attrazione del mare a non tergi-versare, a mollare gli ormeggi al più presto. Moitessier lofece la prima volta a ventisei anni, a bordo dello Snark,trainato da un dragamine verso la foce del fiume Saigon.Nel Golfo del Siam, lui e un amico alzarono le vele su unabarca divorata dalle teredini che, secondo il suo racconto,imbarcava cento litri di acqua al giorno. Malgrado le diffi-coltà e l’inesperienza, di chi era stato capitano solo a bor-do della sua piroga, era partito verso l’Australia. Voleva la-sciarsi alle spalle le terribili violenze dell’Asia e rimanerelontano dalle chiacchiere della vecchia Europa.Moitessier nacque in Indocina nel 1925, primo di cinque fi-gli di genitori francesi affascinati dalle terre lontane. Insof-ferente a scuola, irresistibilmente attratto dalle meraviglio-

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se foreste e dalle misteriose acque di un Paese che, mal-grado terribili sofferenze, rimarrà sempre nel suo cuore.Delle barche e delle loro storie si innamorò nel porto diSaigon, oggi Hô Chí Minh, dove andava ad ammirare legiunche venute da lontano, marinando la scuola. Lì, spintedal monsone di nordest, arrivavano cariche di nuoc mam,un salsa di pesce, per ripartire poi con quello di sudovest,strapiene di riso. Il giovanissimo Bernard preferiva di granlunga ascoltare i racconti avventurosi dei marinai, che nonquelli degli insegnati. Avrebbe dato qualsiasi cosa per im-barcarsi su giunche capaci di affrontare il mare aperto e ri-salire per chilometri i fiumi. Molto meno salgarianamente,scoprì le onde e il vento sul Golfo del Siam, nel villaggio do-ve assieme alla famiglia trascorreva le vacanze estive. La vita di Moitessier fu strettamente legata alle sue barche,ognuna delle quali fu per lui non solo un fine, ma il mezzoideale per raggiungere un eldorado, terra, anzi acqua pro-messa dello spirito. Se con lo Snark l’eldorado si chiama-va Australia, con le successive Marie-Thérèse, scafi sem-pre in legno, prendeva il nome di oceano, Indiano e Atlan-tico. Vennero poi il Joshua e l’ultima, Tamata, entrambein ferro, per le quali gli eldoradi si moltiplicheranno: i gran-di capi del sud, il Pacifico e le sue infinite isole. Di questebarche, di queste amanti e sodali, Joshua se non la prefe-rita è di certo la più duratura, quella che accompagneràMoitessier per vent’anni, in una lunga rotta, citando il tito-lo del suo libro più famoso.L’idea del Joshua gli venne a bordo della petroliera che,dopo il naufragio alle Antille con il Marie-Thérèse II, lo ri-portava in Europa. Come ho già scritto, su quella nave, nel

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quotidiano lavoro di manutenzione, scoprì le virtù del fer-ro, robustissimo e facile da mantenere. Unico inconvenien-te, per un povero marinaio, erano i costi proibitivi di co-struzione. Ma, grazie al successo del suo primo libro, Un

vagabondo dei Mari del Sud, Moitessier troverà un pro-gettista e un cantiere disponibili a dare forma di lamiera alsogno. Uno scafo di dodici metri, a chiglia lunga e carenatonda, con quattro vele armate su due alberi ricavati da pa-li telegrafici. Niente verricelli tecnologici, ma un efficacis-simo paranco; niente radio, ma un’altrettanto funzionalefionda, con cui lanciare messaggi e pellicole, infilate in er-metici tubetti di alluminio, sui ponti delle navi incrociatelungo la rotta. Joshua venne costruito nel 1961 e varato aMarsiglia, dove per due stagioni Moitessier fece scuola ve-la. Piano, piano, mese dopo mese, miglia dopo miglia, labarca venne perfezionata, fino a diventare bella e indistrut-tibile. Nei lunghi mesi di costruzione, di fatiche e incertez-ze, la sognerà fendere il mare, funzionando con una misce-

la di vento e di acqua salata. Elementi gratuiti, che si tro-vano in tutti i mari del mondo; ieri come oggi. Joshua chie-deva in cambio solo una semplice manutenzione, una grat-tata e una verniciata ogni tanto.In quegli anni, le avventure di Moitessier, documentate at-traverso libri e film, sono già note agli appassionati, ma so-lo tra il 1968 e il 1969 la sua popolarità si estense. Fu in oc-casione della partecipazione alla prima regata in solitariointorno al mondo senza scalo, partita dal sud dell’Inghilter-ra nell’agosto del 1968, quando, dopo sei mesi di navigazio-ne, risalendo l’Oceano Atlantico in testa al gruppo, decisedi abbandonare e di rimettere la prua verso il Pacifico.

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Una scelta difficile, presa dopo giorni di tormenti, fisici espirituali. Il navigatore racconta una settimana di esaspe-ranti dubbi e preoccupazioni, di stanchezza fisica e menta-le. Mentre piano piano si fa strada l’idea che l’unica guari-gione possa venire dal sole e dall’aliseo. Così sceglie di ri-nunciare al trionfo e al cospicuo premio messo in palio dal“Sunday Times”, per fare vela verso Tahiti. Dopo aver por-tato la prua verso sud, già nella prima notte, ritrova la for-za e la tranquillità necessaria per affrontare l’oceano. Sonole onde a confidargli di essere scampato a un naufragio,ben più pericoloso di quello del mare.Nel giugno del 1969, Joshua, dopo quasi un anno di navi-gazione ininterrotta, gettò l’ancora a Tahiti. Moitessier ri-trovò però l’amato ormeggio trasformato, trasfigurato dauno sviluppo devastante. Provò un grande dispiacere nelvedere gli alberi abbattuti, testimoni muti, inermi, di unaferoce, dissennata, crescita. Solo un grillo riuscì a quietarele sue nuove ansie, a spiegargli quello che stava accaden-do, a rivelargli le sue future rotte.Forse solo la lunga navigazione, quasi una laica ascesi, per-mise a Moitessier di trasformarsi, da uno dei tanti vagabon-di oceanici, nel primo interprete di un rapporto nuovo conil mare. Non più mercantile o avventuriero, e neanche tu-ristico o sportivo, ma figlio di una rinnovata Alleanza, co-me amava chiamarla. Era stata la madre a insegnargli chenon si può realizzare niente di importante senza un’allean-za tra pensiero, sudore e fede. Tre elementi indispensabiliall’unione di terra e cielo nell’animo dell’uomo. Idee cheMoitessier imbarcò sul Joshua, portandole attraverso glioceani, da un’isola all’altra, da un continente all’altro. La

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stessa che diffuse tra genti lontane dal mare, da quell’ecu-mene pelagico da cui siamo attratti fin dalla notte dei tem-pi. Vento, mare e vela, per lui si fondevano in un unico dif-fuso e avvolgente, in un tutto senza principio né fine, nelsuo universo.

Alex Carozzo e Zentime“Avevo solo un desiderio: costruire per navigare e naviga-re con il minimo di mezzi”, raccontava Alex Carozzo neglianni Novanta, a riguardo della sua ultima traversata in so-litario dell’Atlantico. Un’avventura unica, perché fatta abordo di una scialuppa di salvataggio di sei metri, trasfor-mata in barca a vela con materiali di fortuna, battezzataZentime. Un nome che è già un manifesto d’intenti, sinte-si appropriata delle storie marinaresche di questo nove-centesco Ismaele, mezzo genovese e mezzo veneziano.Carozzo non era nuovo a queste imprese o, per meglio re-stituire il suo spirito, a questi esercizi di semplicità e navi-gazione. Nell’inverno tra il 1965 e il 1966, aveva attraversa-to il Pacifico, dal Giappone a San Francisco, su una barcaautocostruita, il Golden Lion. Non solo era stato il primosolitario a compiere questo viaggio, ma soprattutto lo ave-va fatto a bordo di uno scafo costruito dentro un mercan-tile, con materiali di recupero. Mosso forse da una incon-scia sensibilità ambientale, di certo da una cosciente abili-tà di riciclaggio. Carozzo a suo modo è stato un pionieredel riutilizzo, un avventuroso, ecologico, sperimentatore.Per realizzare il Golden Lion trascorse quattordici mesinella stiva posta sopra le caldaie della sua nave, un ambien-te infernale, una caverna buia e rovente. La barca era il mi-

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glior compromesso possibile tra gli spazi, i tempi e le capa-cità del costruttore. Carozzo era consapevole delle sue li-mitate abilità di carpentiere e del poco tempo a disposizio-ne, quello che gli lasciava libero il mestiere di primo uffi-ciale, nelle lunghe navigazioni a bordo di un vecchio mer-cantile, diretto dalla Germania al Giappone. Perciò costruìuna barca di dieci metri a spigolo, con struttura in massel-lo e fasciame di compensato. Non gli sembrava né bella, némolto yacht, ma di certo era solida. Capace di rimanere inmare con qualsiasi tempo, di resistere alle tempeste ocea-niche, garantendo la sicurezza necessaria. Condizioni cheil Pacifico non gli risparmiò, facendogli incontrare onde diinimmaginabile potenza e venti ininterrottamente urlantiper giorni. Prevedendo tutto ciò, aveva realizzato un pianovelico estremamente semplice, un corto albero di dieci me-tri su cui alzava due vele, grandi al massimo trentasei me-tri quadrati. Una semplicità che, seppur messa a dura pro-va da diverse peripezie, lo premiò, consentendogli di rag-giungere le coste californiane in 135 giorni. Fin da allora, Carozzo aveva ben chiaro che la vela non èsolo sport, hobby o passatempo. Per tanti è un modo di vi-vere, realizzando sogni o almeno stemperando inquietudi-ni. Scevro quindi da velleità agonistiche o mediatiche, mos-so dall’Ulysses factor che alimenta la curiosità, il desideriodi scoprire o riscoprire l’isola oltre l’orizzonte. Perché ilviaggio rimane un’esperienza centrale della formazionedell’uomo, soprattutto quello che richiede impegno, pa-zienza e determinazione. Qualità indispensabili per ogniodissiaca navigazione a vela.Alla fine degli anni Ottanta il navigatore, nato a Genova nel

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1933 e veneziano d’adozione, si appassiona alla storia diCristoforo Colombo. Studia con attenzione le difficoltà in-contrate in quella rivoluzionaria traversata, fatta a bordo dinavi in cui tutto dipendeva da conoscenze e abilità marina-resche. Per meglio comprenderle e sperimentarle, decidedi riprovare a “buscar el Levante por el Poniente”, facen-dolo da solo e con mezzi ancora una volta di fortuna. AlleCanarie trova e recupera un vecchio scafo in vetroresina,rendendolo inaffondabile. Ricava l’alloggio da una scatolad’imballaggio e su un piccolo albero issa una randa auricae un fiocco, entrambi ricavati con tela povera, da fodere.Le sue regole rimangono le stesse: non fare cose facili e da-re fiducia alle mani. Mani da esercitare quotidianamente,che devono conoscere le qualità dei materiali ed essere ca-paci di utilizzare una pialla e un sestante. Mani abili a resi-nare, cucire, pescare e sbrigare le altre mille incombenzedel navigante. Solo con mani di questo tipo Carozzo potépercorrere 3.800 miglia in 40 giorni, senza motore e radio,con bussola e orologio, facendosi spingere da venti favore-voli e onde benigne.Tutte le volte che la nostra barca ci sembra troppo scomo-da o lenta, riprendiamo in mano i libri di Carozzo che, findall’incipit, si dichiarano inutili per chi cerca solo il maree il vento o per chi cerca solo se stesso, ma si rivelano uti-lissimi per spronarci a superare le difficoltà, per capire lestraordinarie potenzialità anche della più piccola delle ve-le, se alzata con determinazione. Scomodità e lentezza siriveleranno allora come qualità, esercizi indispensabili peresplorare orizzonti naturali e interiori. Lo spirito di Zenti-

me è radicalmente minimalista e anticonsumista; la sua

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rotta testimonia concretamente come la realizzazione deipropri sogni dipenda innanzitutto dalla volontà. Sogni informa di barche, di legno, ferro, vetroresina o alluminio,accomunate da un collante indispensabile, chiamato entu-siasmo.Lo stesso che Carozzo a ottant’anni mette in una nuovabarca. Questa volta in compensato marino, sempre rispon-dente ai suoi tre principi: semplicità, robustezza, economi-cità. La rotta è ancora una volta insieme impegnativa e sug-gestiva: dall’arcipelago di Venezia a quello delle Galapagose più precisamente dalla spiaggia adriatica, delimitata dal-le bocche di Lido e Malamocco, a quella pacifica, strettadagli omonimi capi dell’isola di San Cristobal. Chi se nonun navigatore veneziano del passato può aver omaggiato laSerenissima dall’altra parte del globo? Chi se non un esplo-ratore veneziano del XXI secolo può provare a risponderea questo irrisolto quesito? Sempre fedele al motto “qualsia-si oceano va bene”, riprendendo il titolo del suo primo li-bro, Alex Carozzo rinnova la genesi di barche antiche emoderne, fatte di uomini e di idee, di legno e di chiodi, disudore e speranze, utilizzando le sue stesse parole.Zentime diventa così l’archetipo della barca che permettedi navigare con il minimo indispensabile, l’essenziale. Unavela capace di illuminare, di aiutare il nostro satori, il no-stro risveglio marino. Non dimenticando che, se il maestrospiega che lo zen non ha mete certe, il mare insegna che lavela non ha tempi certi. Certezze da barattarsi con scoper-te, non quelle immaginabili dell’arrivo, ma quelle inimma-ginabili della pratica.

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Le navi sono come le fanno gli uomini:

così sentenzia la saggezza marinara,

e, in linea generale, è un’indubbia verità.

Joseph Conrad, 1905

Cercando di soddisfare la curiosità del lettore che, so-gnando una barca tutta per sé, è saltato direttamente aquesto capitolo, provo a quantificare economicamente laspesa necessaria per concretizzare i due sogni: una deri-va e un piccolo cabinato, cioè una barca non pontata dicirca quattro metri e una con cabina di circa sei metri.Con la prima, oltre ad uscite giornaliere, si può fare cam-peggio nautico, indicativamente per una settimana, men-tre con la seconda si possono fare delle crociere costiere,che ipotizzerò di un mese. Bastano 6-700 euro per acquistare una deriva usata, concui veleggiare instancabilmente per ore o per giorni, nelleacque di casa o verso spiagge meno battute, godendosi la

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3. Barca minima,rotta massima

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magia di un’alba, un tramonto o una notte stellata sul ma-re. Con 2-3.000 euro, invece, si può avere un piccolo cabi-nato, una barca di una ventina di anni. Con questo piccolocabinato si potrà navigare lungocosta in piena autonomia emagari, tempo permettendo, avventurarsi anche in brevitraversate di qualche decina di miglia. Ciò significa che tut-to il Mediterraneo, isole comprese, diventa a portata di ve-la, in completa autonomia di rotte e tempi.Con cifre simili si possono anche acquistare i materiali ne-cessari per autocostruirle.Vi assicuro poi che migliaia di piccole barche abbandonateattendono coraggiosi appassionati, capaci di riportarle alloro elemento vitale. Basta solo cercare con pazienza e de-terminazione, sapersi accontentare e lavorare, alla propriabarca, realizzando il proprio sogno. Certi che la fortunaaiuta gli audaci, anche in queste circostanze. Così è statoper un’infinità di navigatori, a cominciare dai giganti deglioceani come testimoniano le storie di Slocum, Moitessier eCarozzo o come ci insegnano i sognatori che continuano apopolare banchine e anfratti portuali, dove in ogni stagio-ne smerigli e pennelli rinnovano vecchi scafi.Tenete presente che, se il campeggio nautico e la crocierasono attività relativamente recenti, diffusesi soprattuttonella seconda metà del Novecento, la navigazione diurnasu brevi rotte costiere è invece antichissima in Mediterra-neo. Andando a vela di spiaggia in spiaggia, o di baia in ba-ia, doppiando capi, circumnavigando promontori, raggiun-gendo isole, ripercorriamo millenarie rotte fenice e greche,spostandoci come hanno fatto per secoli pescatori e mari-nai impegnati nel piccolo cabotaggio. Manterremo viva

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quella micro circolazione di genti e culture che è trattofondante della storia mediterranea.La vela, praticata con derive e piccoli cabinati, è anche unmodo piacevole, economico ed ecologico per visitare lagu-ne e laghi. Ambienti circoscritti ma di grande fascino stori-co e naturalistico, e in qualche caso meno battuti dal turi-smo nautico. Queste navigazioni in acque protette sono ilmiglior modo per fare esperienza in sicurezza, per saggia-re difficoltà e piaceri della vela, entrambi numerosi. A pro-posito, utilizzo spesso la parola passione per parlare diquesta attività, perché nel nostro caso credo sia da prefe-rirsi a sport od hobby. Ma anche perché sono perfettamen-te consapevole dei suoi molteplici, contraddittori significa-ti. La vela è una passione, un insieme di interesse, predile-zione, sentimento, amore, trasporto, ossessione, preoccu-pazione, dolore e tormento. Provare per credere, issareper appassionarsi.

Lasciamo adesso la vela filosofica, per imparare a tagliare iferzi di quella concreta. Abbandoniamo la barca cartacea,per incominciare a sagomare ordinate e madieri di quellareale.Vele sobrie, per barche piccole. Autonomia economica emateriale sono qualità da associare all’indipendenza dipensiero, tutte caratteristiche fondamentali per dare con-cretezza ad avventure ecologiche di libera navigazione. GiàEpicuro suggeriva che il “massimo frutto dell’autosuffi-cienza è la libertà”.Barca minima significa lasciare a terra inutili necessità, de-leterie comodità, superflui agi. “Lontani dall’acqua, lontani

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dal mare”, dice un proverbio marinaresco. Perché più labarca è grande, e di conseguenza più si è lontani dall’ac-qua, maggiore sarà la difficoltà di sentire e apprezzare ilmare. Il marinaio esperto sente il vento e le onde, può far-lo a occhi chiusi, rinunciando al più contemporaneo deisensi. Ma per imparare a sentire il mare bisogna navigaresu piccole barche, incominciando ad affinare una sensibili-tà percettiva che rivela cosa sta accadendo tra scafo e ac-qua, tra vela e vento. Solo in questo modo si entrerà in in-timità con l’elemento acqueo e aereo, apprezzandone i piùsegreti piaceri. Rotta massima significa saper ampliare i propri orizzonti.Consapevoli del fatto che, soprattutto oggi, la lunghezzadel viaggio non la si misura solo quantitativamente, in ter-mini di chilometri o miglia percorse. Al contrario è spessomolto più emozionante un viaggio a piedi, misurato sullabase della fatica fatta per raggiungere la meta, o una navi-gazione a vela, valutata considerando le abilità marinare-sche per approdare a destinazione. Il viaggio è anche diffi-coltà, incertezza, inaspettato, scoperta, meraviglia, soffe-renza, incanto e mille altre variabili che amplificano leemozioni. Una difficile bolina, un incerto approdo, un’ina-spettata brezza o la scoperta di una caletta, la meraviglia diun delfino, la sofferenza di un vento contrario, l’incanto diun’alba, daranno al nostro seppur breve viaggio un fascinoantico. È nella quotidiana immersione nella natura e in noistessi che la rotta si allunga, che l’esperienza diventa signi-ficativa. Un’amata, vissuta e curata barca minima permette di navi-gare in estrema sicurezza e senza particolari ansie una rot-

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ta massima, verso lidi sconosciuti. Soprattutto d’estate èsufficiente veramente poco per poter veleggiare anche sumedie e lunghe distanze.È il grande navigatore solitario Bernard Moitessier a ricor-darci che a bordo tutto ciò che non c’è non si rompe. Unamassima doppiamente valida in mare, dove si è soli, anchedi fronte alla più affollata delle spiagge, anche a poche mi-glia dal più attrezzato dei porti. Moitessier veleggiò sempresu barche minime, capaci però di attraversare tutti glioceani del mondo. Allo stesso modo, noi scegliamo barcheminime per navigare le acque del nostro mare quotidiano.Barche minime per rotte massime, vele che mettono inpratica l’antico adagio epicureo: “Niente basta a chi nonbasta ciò che è sufficiente”.

Due orizzonti: l’usato e l’autocostruzione

Per fedeltà al principio di sobrietà dovrei tralasciare subi-to l’ipotesi di acquistare una barca nuova. Ma preferendo laragione alla fede, accenno alcuni buoni motivi per scartarequesta ipotesi. Le barche nuove, anche piccole, sono trop-po costose e non sempre qualitativamente all’altezza dellacifra richiesta. Una deriva di poco più di quattro metri, co-sta circa 5.000 euro. Per un cabinato di sei metri, sono ne-cessari circa 25.000 euro. Barche usate delle stesse dimen-sioni, di una ventina d’anni ma comunque ben tenute, co-stano molto meno di un terzo. Anche nella nautica spessociò che paghiamo non è solo la qualità dei materiali o la cu-ra della costruzione, ma fronzoli estetici o costi pubblicita-ri. A derive e cabinati, una discreta manutenzione garanti-

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sce una lunga vita, anche perché l’unico motore è la vela,facilmente revisionabile o rinnovabile. Scafi di vetroresina,legno, metallo se ben costruiti, anche dopo trent’anni pos-sono ancora navigare a lungo. Poi, quale miglior scelta eco-logica del riutilizzo? quale miglior strategia sostenibile del-la conservazione?Ecologia ed economia mi portano quindi a scartare subitoil nuovo, lasciando disponibili due opzioni: usato o autoco-struzione, di cui cercherò in breve di mettere a confrontobenefici e malefici. Con l’unica certezza di non poter ren-dere il giusto merito a nessuna delle due categorie di cul-tori. Manutentori e autocostruttori, accomunati dall’amoreper la propria barca, dalla vocazione alla libertà, materialee culturale.

L’acquisto dell’usato è di certo la rotta più semplice, ancheperché uno scafo, per quanto malmesso, difficilmente affon-da. Malgrado probabili mille disavventure, una piccola barcausata garantisce un’immediata navigazione, che è già un ot-timo rimedio alle tante preoccupazioni di un neo-armatore acorto di denari. Appassionante è la ricerca della vela, rispon-dente alle nostre esigenze e possibilità. Una ricerca da farsisu libri, riviste e web in prima battuta, parlando poi con ami-ci e conoscenti, per completarsi infine nei mille porti e ri-messaggi della Penisola. Mantenendo un occhio e un orec-chio aperto oltre confine, soprattutto oggi con la monetaunica e le pratiche commerciali semplificate. Attenzione anon dimenticare che la barca a vela medio-piccola, non im-matricolabile fino a dieci metri di lunghezza, è un bene mo-bile, quindi non richiede particolari documenti di proprietà.

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Comunque, circa le pratiche, è meglio prestare molta atten-zione e, se necessario, ricorrere a un consulente o ai semprepiù efficienti forum. Soprattutto per chi è al primo acquisto,è indispensabile confrontarsi con persone esperte, discuten-do e visionando insieme le varie possibilità, riguardanti co-sti, stato, attrezzature e dimensioni. Il tempo dedicato allaricerca e alla valutazione minuziosa della barca e dell’attrez-zatura, non rappresenta solo un guadagno in termini econo-mici, ma è uno dei momenti più entusiasmanti della nuovaavventura. Se i cataloghi patinati delle novità nautiche sonoabbastanza omologati e concentrati su barche grandi per di-mensioni e portafogli, l’offerta dell’usato è infinitamente piùampia, sia in termini quantitativi che qualitativi. Sul merca-to dell’usato ne troverete di molto diverse, per concezione diprogettazione, scelte di armamento, qualità marine ed este-tiche. Sarà così più facile soddisfare le svariate necessità ostravaganze nautiche, che dir si voglia. Non dimenticandomai che “una barca si sceglie in mare”.

L’autocostruzione, al contrario, è una vera e propria avven-tura, come insegnano centinaia di testimonianze e decinedi libri. Un’avventura forse più grande della navigazioneche, solo nella migliore delle ipotesi, seguirà il varo. Ancheil più entusiasta autocostruttore, un tipo umano che meri-terebbe da solo un libro psico-antropologico, non potrà ne-garvi che la sua rotta è più lunga e difficile di qualsiasi al-tra. Per quanto complicata possa essere la scelta d’acqui-sto di uno scafo usato, nell’autocostruzione si aggiungonoaltre difficoltà, rendendo il tutto abbastanza impegnativo.Altrettanto superiori saranno però alla fine le gratificazio-

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ni e l’amore per la barca, a tutti gli effetti la propria crea-tura. Non è qui il caso di addentrarsi in lunghe disquisizio-ni tecniche e psicologiche. Sì, psicologiche, perché l’auto-costruzione può rivelarsi una terapia o al contrario un sup-plizio. Mi limiterò a ricordare che se all’autocostruttoreprincipiante non sono richieste grandi abilità, ciò di cui do-vrà essere certo di disporre è ancora una volta il tempo, acui associare due imprescindibili qualità: costanza e pa-zienza. Se fieramente armato di questi caratteri, e immuneda assilli famigliari e lavorativi, l’autocostruttore saprà al-zare la sua chiesa, un cantiere autarchico, dotarsi dei suoiparamenti, utensili elettrici e manuali, stabilire il suo cre-do, il miglior materiale, per officiare il suo rito che lo con-durrà a battezzare la sua opera.Per chi è incerto sulle proprie qualità o più pragmatica-mente è conscio di non avere perfette condizioni logistichee temporali, ma rimane convinto di voler conoscere ognisegreto della propria barca e di mettere le mani dappertut-to, rimane l’opzione dell’autocostruzione parziale. Ci si puòinfatti far costruire da un cantiere scafo e coperta ex novo

o in kit, cioè partendo dal progetto o assemblando partipreconfezionate. Rimarrà poi al proprietario l’onere el’onore di completare personalmente il lavoro, che rimanelungo e impegnativo.Alla fine, per tutti, comunque si tratterà di un pezzo unicodi cui andare fieri. Qualunque sia il materiale, massello ocompensato, vinilico o epossidico, alluminio o ferro; la ca-rena, tonda o spigolo; la deriva fissa o mobile; l’armo, a slo-op o a cutter e le mille altre scelte fatte.

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Terzo orizzonte: l’imbarco

Oltre questi due orizzonti c’è ne un terzo, ancor più econo-mico e vagabondo. Quello di chi decide di navigare per tut-ta la vita come semplice marinaio. Il suo capostipite idealeè Ismaele di Melville. Nelle prime pagine del leviatanico li-bro, il protagonista rivela ansie e speranze che, seppur incontesti completamente differenti, accomunano ognisquattrinato navigante. Colui che non può permettersi diattraversare il mare come passeggero e non vuole farlo co-me capitano, perché sceglie di respirare l’aria di prua.Quella fresca, libera da responsabilità che sottraggono pia-ceri. Perciò, Ismaele si mette in mare da semplice marina-io, godendo appieno del sano esercizio chiesto dalla vela,della libertà offerta dal vento.Ancora oggi, benché marinai da diporto, sono tanti quelliinnamorati del lavoro sul mare, alla ricerca dei piaceri of-ferti dal mollare o serrare gli ormeggi, dall’issare o ammai-nare le vele, dall’orzare o poggiare. Il tutto senza le respon-sabilità dell’armatore o del comandante. Gente che per tut-ta la vita mette braccia, tenacia, abilità, esperienza, al ser-vizio di altri, per godere in ogni istante solo della infinita li-bertà del mare. Quando si è a prua a cambiare una vela, cisi preoccupa solo di garrocci, bugne e scotte, quando siraggiunge un porto, ci si rallegra solo della buona riuscitadella navigazione, quando si dà fondo all’ancora in una ba-ia, si pregusta solo il tuffo nelle sue limpide e calme acque.È più facile per il marinaio semplice liberare i suoi pensie-ri ai flutti di sottovento o farli portare da delfini inebriatidalle onde di prua, da gabbiani plananti sui refoli della ran-

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da. Libertà concesse a chi è esonerato dagli obblighi del co-mandante, dalle grane dell’armatore. Se questo è il vostro orizzonte, fatto di semplici gioie mari-naresche, allora rinunciate fin da subito ad acquistare o co-struire una barca, piccola o grande che sia, eviterete bre-vissime soddisfazioni e lunghissime sofferenze.Considerazioni perfettamente riassunte dal proverbio ma-rinaresco: “La barca regala due momenti di felicità, all’ac-quisto e alla vendita”. Perciò, è meglio andare in mare fa-cendo a meno di entrambe, anelando libere navigazioni inlibero mare, felicità istantanee da venti e onde, stuporerinnovato da porti e isole. Senza dimenticare che sonosempre molto più numerose le barche ormeggiate, di quel-le che navigano, molto più frequenti le occasioni per im-barcarsi come marinai, di quelle di prendere il largo da co-mandanti, con equipaggi al completo.Se l’imbarco da marinaio semplice è stato per secoli ed è,spesso, una costrizione lavorativa dettata da necessità eco-nomiche e materiali, negli ultimi decenni è diventata unapratica del diporto, significativa anche per aspetti ecologi-ci ed esperienziali. “Imbarco cercasi”, si legge sulle bache-che di circoli, riviste di carta ed elettroniche. Qualcuno,mutuando il termine dagli ambienti stradali, ha coniato iltermine di barcastop o, in inglese, boat hitchhiking, mo-dalità che permette a nullatenenti nautici brevi veleggiategiornaliere o lunghissime navigazioni oceaniche, di cui esi-ste oggi una sufficiente letteratura. C’è chi parte senza al-cun rudimento anche per viaggi impegnativi, confidandonella contestuale preparazione e disponibilità all’insegna-mento del comandante. Ma credo che, soprattutto in mare,

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sia più opportuno procedere un passo alla volta o, per me-glio dire, un miglio alla volta. Chi cerca un equipaggio, nonpretende di trovare un marinaio esperto, ma apprezzerà disicuro un mezzomarinaio che sa qual è la prua e la poppa,la randa e il fiocco, la cima e la scotta, o che fa la gassa e ilparlato o che sa cazzare e lascare. Chi cerca imbarco deveinvece sapere che negli ultimi decenni abbiamo assistito auna crescita esponenziale della dimensione delle barche,non adeguatamente corrisposta con la preparazione di co-mandanti ed equipaggi. Ma soprattutto, prima di trovarsilontanissimo dalla costa, sarebbe meglio aver sprimentatola propria vulnerabilità e resistenza al sempiterno mal dimare, alle ristrettezze delle barche e degli equipaggi. Quin-di è meglio scoprire le difficoltà del mare, e magari le de-bolezze del marinaio, nelle conosciute e vicine acque di ca-sa. Anche saper decidere come e quando sbarcare è partedell’arte marinaresca.

Un tempo, un sogno

Quando la barca c’è, non rimane che pianificare tempi e so-gni. L’ordine non è casuale, perché andando a vela i tempi,cronologici e meteorologici, condizionano fortemente iviaggi. Nelle prime pagine, ho parlato genericamente di co-me il tempo sia uno dei fattori determinanti della naviga-zione. A questo punto, non resta che raccontare con piùprecisione tempi, mezzi e modi della navigazione. Non miriferirò a particolari modelli di barche e non mi dilungheròin minuziosi elenchi di materiali. Cercherò di riassumereprincipi generali, accennando esperienze di ieri e di oggi.

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Un mini breviario per incominciare ad organizzare una ve-leggiata in autonomia, lunga un giorno, una settimana o unmese.Autonomia è parola chiave, che tiene insieme difficoltà egioie. In mare, più che a terra, è necessario essere autono-mi, sapersi dare delle regole, soprattutto quando si navigain solitario o con equipaggio ridottissimo. Esserlo è fatico-so e richiede impegno, ma al contempo dà forza e regalasoddisfazioni. Sforzi e gratificazioni che restituiscono si-gnificato all’atavico desiderio del viaggio.Per tutte e tre le ipotesi di navigazione sono sufficienti pic-cole barche, che genericamente possiamo riunire in duecategorie: deriva e piccolo cabinato. Tecnicamente en-trambe vengono classificate come natanti, perché di lun-ghezza inferiore ai dieci metri.La prima è uno scafo non pontato, lungo tra 3 e 6 metri,con deriva e timone mobili, che riducono il pescaggio a 10-30 centimetri. Ha un albero con una o due vele bianche,quella di poppa si chiama randa, quella di prua fiocco. Og-gi l’armo più diffuso è quello detto Marconi, in relazione al-l’albero che assomiglia a un palo del telegrafo, con veletriangolari. Non mancano però, soprattutto nel mondo del-l’autocostruzione, soluzioni diverse, simili a quelle del pas-sato o innovative. La randa può così essere a chela di gran-chio, aurica, al terzo, latina o cinese. Oltre a randa e fioc-co, nelle andature portanti alcune derive armano anche al-tre vele più ampie, chiamate spinnaker e gennaker.Per piccolo cabinato invece si intende uno scafo pontato,con una parte a prua più alta che consente di avere unospazio coperto. Normalmente si tratta di due o quattro

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panche su cui poter dormire e di uno spazio più alto cen-trale, comunque inferiore ai 1,5 metri. Lunghi da 5 a 7 me-tri, hanno una larghezza inferiore a 2,5 metri. Alcuni han-no la deriva mobile, mentre altri l’hanno fissa, con un pe-scaggio comunque relativamente limitato, inferiore a 1,5metri. Anche la maggior parte di questi hanno un armoMarconi, con due vele bianche più una vela idonea alle an-dature portanti. In assenza di vento, le derive utilizzano iremi, mentre sui piccoli cabinati si montano motori fuori-bordo, utili anche per le manovre di ingresso e uscita dalporto.

Prima di qualsiasi considerazione o pianificazione, bisognaricordare che una deriva o un piccolo cabinato, in condizio-ni ottimali, navigano a una media di quattro nodi, fannocioè circa sette chilometri in un’ora. Poco pensano gli uma-ni che vanno a scoppio, il giusto pensano quelli che vannoa piedi. La stessa velocità accomuna le grandi navi di ieri ainostri piccoli gusci e questo è un altro motivo di suggestio-ne. Perché il mare e il vento continuano ad imporre regoletemporali e spaziali, difficoltà se parametrate secondo ca-noni contemporanei, opportunità se misurate con i sensi.Comunque la pensiate, se andrete a vela con piccole bar-che rassegnatevi o esaltatevi a navigare a quattro nodi. Ve-locità che se commisurata con le ore di luce di una giorna-ta estiva, vi danno subito un’idea delle distanze percorribi-li. Simili per una deriva e per un piccolo cabinato, ancheperché se la prima guadagna qualcosa in velocità, il secon-do recupera per comodità, concedendo tempi più lunghi dinavigazione. In linea di massima è possibile ipotizzare pia-

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cevoli veleggiate di una ventina di miglia che se allungate,nella grazia di Eolo, diventano però impegnative.Le pagine che seguono offrono tre possibili rotte iniziati-che. Queste, come le infinite altre che ognuno di noi puòpianificare e realizzare, sono qui accomunate da un’unicacondizione: barca minima, rotta massima. Non sono certosufficienti poche pagine a descrivere barche, attrezzature,rotte e strategie, ma credo possano essere utili per valuta-re la fattibilità del sogno. Un primo vademecum, un invitoa partire, a vela ovviamente.

Un giorno, un sogno

Per assaporare i piaceri della vela è sufficiente un’uscita dipoche ore, o magari una navigazione dall’alba al tramonto,e il modo migliore è farla con una deriva. Lasciando ai re-gatanti quelle sportive, vediamo molto brevemente comescegliere una barchetta con cui veleggiare in tranquillitàlungo costa. Per prima cosa bisogna capire se si navigheràda soli, in due o con un piccolo equipaggio. Dalla dimensio-ne della barca dipende il costo d’acquisto e quello di man-tenimento, ed entrambi aumentano esponenzialmente conla lunghezza. Inoltre, più la barca è grande, maggiore è lafatica per alarla e vararla, considerando che le derive stan-no normalmente in secco.Pescaggio limitato, peso contenuto e inaffondabilità, sonotre caratteristiche fondamentali. Se i pregi delle prime duesono facilmente intuibili, sulla terza è bene spendere qual-che parola. Va precisato che le derive si ribaltano, anzi èbene fin dalla prima uscita prendere dimestichezza con lemanovre necessarie per raddrizzare la barca quando scuf-

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fia. Anche se si riempie d’acqua, la deriva non deve affon-dare e per questo deve avere idonee riserve di galleggia-mento. Camere stagne o più comunemente dei gonfiabilirobusti, fissati negli spazi vuoti tra scafo e coperta. Semprenell’ottica di evitare pericolosi capovolgimenti completi,anche albero e boma devono essere stagni. Oltre alle dota-zioni obbligatorie, a bordo deve esserci un tendalino, so-prattutto se si è intenzionati a godere qualche ora all’anco-ra, e una scaletta, se le murate non consentono di risalirefacilmente a bordo dopo un bagno.Anche per le uscite giornaliere bisogna essere documenta-ti sulle caratteristiche geografiche e meteorologiche dellazona, informandosi sulle previsioni e stando sempre atten-ti all’evoluzione del tempo. Attenzione va posta anche al-l’acqua e all’alimentazione, considerando che la deriva ri-chiede comunque un certo impegno fisico.Dovrei forse raccontare di sartie, cime, scotte, caricabassio di regolazioni delle manovre fisse e correnti o di andatu-re e governo. Ma è tempo di uscire in mare per sentire ilvento. Vela ventis dare!

Una settimana, un sogno

Anche per sostanziare questo sogno settimanale è suffi-ciente una deriva. Se tutte sono state progettate e costrui-te per brevi uscite, non tutte sono propriamente adatte alcampeggio nautico.Ma prima di descrivere barche e rotte possibili, va chiarito ilsignificato di campeggio nautico, perché è di questo che par-leremo. Per campeggio nautico si intende lo spostarsi a re-

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mi, vela o motore, da una spiaggia a un’altra, prevedendo dipassare la notte in tenda. Questa, nella scelta più radicale ecoerente, è montata sulla barca o, spesso più comodamente,sulla spiaggia dove, quando possibile, sarebbe sempre benealare anche lo scafo. Se già nell’Ottocento in Inghilterra e inaltri Paesi si praticava il campeggio nautico e si pubblicava-no anche specifiche guide, in Italia si è diffuso negli anni Set-tanta del Novecento, in concomitanza con l’ampliarsi dell’of-ferta delle piccole barche in vetroresina. In Inghilterra l’as-sociazione del dinghy cruising è stata fondata nei primi an-ni Cinquanta ed è ancora attivissima. Purtroppo, invece, inItalia gli entusiasmi iniziali, di cui ancora è possibile ascolta-re l’eco dalla viva voce dei protagonisti o leggendo articoli elibri dedicati, si sono andati quasi completamente affievo-lendo. Racconti e guide non sono solo ricchissimi di sugge-rimenti ancora validi ma, soprattutto, restituiscono uno spi-rito libertario, un amore per la vita all’aria aperta, una vogliad’avventura, che è una salutare iniezione di vitalità.Anche nella nautica, gli anni Ottanta e Novanta sono statiterribilmente luccicanti e mortalmente consumistici. L’uni-ca rilevante eccezione culturale è rappresentata dal men-sile Bolina, che al contempo valorizza e diffonde anche lebuone pratiche del piccolo diporto, senza dimenticarel’ecologia, rinnovando la sobria passione per la vela delleorigini. Chissà che la crisi, associata a una riscoperta delviaggiare lento, nel rispetto dell’ambiente, non rilanci an-che questo tipo di esperienza.Oggi, comunque, i principali problemi del campeggiatorenautico vengono dai mille divieti e preclusioni delle spiag-ge. Negli ultimi trent’anni, le spiagge libere sono diventate

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una chimera, un paesaggio in via d’estinzione. La privatiz-zazione delle coste, da nord a sud, a fini edilizi o balneari,è una delle più scottanti emergenze ambientali. Una situa-zione che teoricamente sembra precludere anche ogniesperienza di campeggio nautico o, più in generale, di libe-ra navigazione.Ma, ma... con un po’ di discrezione e un’ancora più attentapianificazione, possiamo trascorrere qualche notte all’ariaaperta e approdare liberamente, senza complicate e costo-se prenotazioni in marina ad uso esclusivo della supernau-tica. Anzi, dovremmo ostinatamente fare campeggio nauti-co anche per contrastare concretamente la deleteria poli-tica di privatizzazione delle coste. Dobbiamo riappropriar-ci dei beni comuni camminando lungo le nostre rive, nuo-tando e navigando nelle nostre acque. Una battaglia di ci-viltà, combattuta passeggiando, pedalando, nuotando, re-mando e veleggiando; pratiche libertarie ed ecologiche, in-dispensabili per riprenderci il nostro mare quotidiano.Ritornando alle necessità del campeggio nautico, sono lon-tani i tempi in cui il Touring Club Italiano lanciava un con-corso per progettare una barca capace di soddisfare le esi-genze del diporto costiero entro le tre miglia dalla costa.Anni in cui diverse riviste nautiche si occupavano di que-sta modalità di viaggio, in cui venivano pubblicati manualie le guide turistiche dedicavano pagine al remo e alla vela.“Una barca, due remi immersi nell’azzurro possono essereprincipio d’ogni meraviglia...”, si legge in Marine d’Italia

del TCI degli anni Cinquanta.I manuali dell’epoca cominciano l’analisi delle imbarcazio-ni partendo addirittura dal materassino pneumatico, utile

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a trasportare il necessario del più spartano dei campeggia-tori nautici: il nuotatore. Una pratica sopravvissuta miraco-losamente, rinnovatasi e ibridatasi con il cammino, chiama-ta acquatrekking. Una possibilità nuova di viaggiare lungole coste, percorrendole via terra quando possibile o altri-menti via mare. È necessario uno zaino impermeabile, mu-ta, maschera e pinne.Per lo yachting camping, come veniva chiamato anche inItalia negli anni Settanta, la barca deve avere basso pescag-gio e peso contenuto, per permettere all’equipaggio di ala-re e varare con facilità. Basteranno dei rulli gonfiabili du-rante la crociera. Per peso contenuto intendo inferiore ai150-200 chilogrammi, considerando albero, boma, vele earmamento di base. Se poi solo lo scafo pesa meno di 70-80 chilogrammi, si può anche valutare la possibilità di cari-carlo sul tetto dell’automobile, ampliando notevolmente gliorizzonti delle esplorazioni nautiche.Indispensabile è almeno un gavone stagno di prua, dovepoter tenere all’asciutto vestiario, tenda e tutto il resto. Inalternativa, si può pensare di ovviare con una cassa stagna,da fissare in pozzetto o a prua dell’albero. Visto che i ventisono divinità bizzarre e mutevoli, per intensità e direzione,i remi sono sempre un indispensabile talismano. Lo eranoper le mitiche navi di Odisseo, Giasone ed Enea, per quel-le antiche di Fenici, Greci e Romani, per quelle medievalidelle repubbliche e lo sono ancora oggi per le nostre picco-le vele che solcano le stesse acque mediterranee. Per tra-sformare, poi, il talismano in uno strumento efficace, loscafo deve essere predisposto per mettere degli scalmi,che facilitano e potenziano la voga. Non dimenticate mai

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che la fatica del remo non è solo necessaria alla prima sco-perta del mare, ma rivela appieno i piaceri del vento, dellelunghe navigazioni che chiedono solo il controllo della ve-la. Considerando che la prudenza suggerisce di navigarecon il tempo buono, non sarà raro trovarsi in bonaccia edover quindi far ricorso ai remi. Comunque, una deriva diquattro metri se ben attrezzata con calma di vento e cor-rente può essere mossa a remi a 2-3 nodi, velocità che per-mette di ritornare a terra in tempi ragionevoli, per buttarel’ancora in attesa di brezze favorevoli.Per il campeggio nautico, lo scafo, seppur piccolo, deveavere un sufficiente bordo libero, ossia fiancate abbastan-za alte da evitare che anche con venti deboli le onde riem-piano il pozzetto. Quest’ultimo deve essere autovuotante,ossia costruito in modo che l’acqua che entra, esca poi dasola. Deriva e timone basculanti, quindi non a baionetta,evitano spiacevoli e pericolosi urti sul fondo, consentendopiù semplici manovre vicino alla riva. Sempre pensando auna barca trasportabile sul tetto dell’automobile, l’alberodeve essere smontabile, cioè suddivisibile in due parti dilunghezza inferiore a 4,5 metri. Non sono tante le derive diquattro metri, con alberi smontabili, ma anche in questocaso non è difficile trovare una soluzione personalizzata.Per evitare di trasformare i possibili ribaltamenti in perico-losi capovolgimenti completi, si attrezza la parte più altadella randa con una tasca riempita di materiale espanso. Laranda dovrebbe avere i terzaroli, cioè la possibilità di esse-re ridotta, mentre sarebbe bene avere almeno due fiocchidi diversa superficie, da armare a prua a seconda dell’in-tensità del vento.

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Per completare questa brevissima panoramica sulle carat-teristiche essenziali di una deriva con cui fare navigazionidi diversi giorni, vanno ricordate alcune dotazioni accesso-rie oltre quelle obbligatorie.Le carte sono un indispensabile ausilio di viaggio, ancorpiù in mare. Senza troppi giri di parole, navigando di gior-no, vicino alla costa e con una barca a pescaggio ridotto,possiamo anche fare a meno di costose carte nautiche edotarci di più economiche carte stradali, magari preferibilianche perché si trovano facilmente a scala ridotta. Infattise la scala ordinaria delle carte nautiche è 1:100.000, doveun miglio corrisponde ad appena 1,8 centimetri, per le no-stre necessità è meglio avere carte 1:50.000 o ancora piùdettagliate. In questo caso deve essere tripla l’attenzionedurante la navigazione a scogli affioranti, semi-affioranti ebassifondi, visto che le carte stradali non danno alcuna in-formazione sulla batimetria, che è la terza dimensione delmondo acqueo. Oggi, utilissima anche per la cartografia èla rete, ma attenzione: la barca, e quella piccola in partico-lare, è per definizione bagnata e quindi la carta, tutto som-mato, resiste meglio dell’elettronica. Ciò non toglie che lenovità informatiche offrano spesso utilissime soluzioni low

cost o semplifichino anche la vita vagabonda, a terra comein mare.Va sottolineato che le tecnologie attuali non garantisconola copertura, telefonica e di rete, a distanze maggiori di unpaio di miglia dalla riva. Quindi, anche per il campeggionautico, soprattutto per la sicurezza non guasta avere abordo un’antica radio VHF, a portata ottica, con cui potereventualmente comunicare con altre barche o con qualcu-

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no a terra, con cui ascoltare i bollettini meteorologici o gliavvisi ai naviganti. Il tutto gratuitamente.Sempre per quanto riguarda la vita in mare, particolare at-tenzione va posta alla scelta dell’abbigliamento. Con le de-rive la soluzione migliore e più economica è una muta, agambe e maniche corte o lunghe, sottile o spessa, a secon-da della stagione e della latitudine. Tenete comunque pre-sente che in mare è sempre freddo, soprattutto di bolina, egli spruzzi dopo qualche ora di navigazione diventano gela-ti anche in piena estate.Non mi dilungo sulla vita di campeggio a terra, se non ri-marcando che oltre alla leggerezza del bagaglio, caratteri-stica obbligatoria che accomuna il viaggiare a piedi, in bici,in canoa e in deriva, queste ultime due modalità richiedo-no una particolare attenzione per l’impermeabilità. Infatti,se è brigoso asciugare indumenti bagnati di acqua dolce,ancor di più lo è per quella salata. Anche per quanto ri-guarda la cucina e l’alimentazione, una volta sbarcati lecondizioni sono simili a quelle di ogni altra forma di cam-peggio. Per le ore passate in mare, invece, bisogna organiz-zarsi con cura, perché, oltre a un’adeguata riserva di acquadi circa tre litri a persona al giorno, vanno cadenzati e de-finiti i pasti. Attenzione al mal di mare, creatura invisibilee malefica, che infesta le acque di oggi come quelle di ieri.La vela, anche in questo simile ad altre pratiche di viaggiolento, insegna a conoscersi, fisicamente e psicologicamen-te. Ancor più del cammino e della bicicletta, però, la barcaimpone un’attenzione preventiva per una corretta alimen-tazione, perché la stanchezza può diventare molto perico-losa.

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Veniamo alle rotte. Non dimenticate che l’acqua e l’aria so-no per loro natura mutevoli e di conseguenza lo sarannoanche i tempi. Considerando una velocità media di 3-4 no-di, in condizioni meteorologiche tranquille, in una veleggia-ta di sette giorni, prevedendo di navigare sei ore al giorno,si può ipotizzare di percorrere al massimo 170 miglia, cioècirca 300 chilometri. Se poi considerate che anche d’esta-te è facile rimanere bloccati per qualche giorno da condi-zioni meteorologiche avverse, che per una deriva possiamoquantificare in un vento contrario superiore ai 10-12 nodi,allora il percorso teorico si riduce alla metà. In sintesi, so-prattutto alle prime esperienze, è meglio pianificare rottesettimanali non superiori a 100-150 chilometri, per evitarespiacevoli ritardi e ben più pericolose complicazioni, se cisi ostina ad affrontare condizioni avverse.Fatta questa prima valutazione non resta che tracciare rot-te sulla carta, valutando distanze e angoli, approdi e peri-coli, incominciando a seguire con attenzione e regolarità leprevisioni del tempo, osservando il cielo e, se possibile, ilmare.Il viaggio a vela, come tutti quelli che richiedono un impe-gno fisico e psicologico, s’avvia molto prima di mollare gliormeggi, dilatandosi ben oltre i giorni di navigazione. Van-no quindi studiate le carte, documentandosi sui regimi diventi, maree e correnti, avendo ben presente la lunghezzadel giorno e l’eventuale presenza della luna, per involonta-ri ritardi serali. Una buona regola generale è quella di par-tire al mattino presto, per sfruttare appieno le brezze co-stiere, e rientrare altrettanto presto, per evitare spiacevolicontrattempi.

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Infine, se l’ordine a bordo è una regola di sicurezza ancheper uscite di poche ore, lo è a maggior ragione quando lapermanenza si allunga e all’equipaggio si aggiunge un pic-colo carico.Tanto altro è possibile dire, poco altro è utile per partire.Alla via così!

Un mese, un sogno

Se per sopraggiunti limiti di età, o maggiori ambizioni dinavigazione, una deriva non è più sufficiente, allora ci vuo-le un cabinato a vela. Attenzione, sempre piccolo, sobrio emarino.Con un cabinato di 6 metri si ampliano gli orizzonti e dimi-nuisce la dipendenza da terra. Sarà più facile rimanere al-l’asciutto, per quanto lo si possa essere in mare, stivare ilnecessario, che non dovrebbe aumentare troppo, riposarecomodamente, sempre considerando che stiamo comun-que parlando di barche spartane. Di contro, un piccolo ca-binato è più lento di una deriva e non può essere alato sul-la spiaggia con la sola forza delle braccia. Diventa quindinecessario studiare la rotta con attenzione a porti, portic-cioli e ancoraggi sicuri in caso di maltempo. Va detto cheanche questo tipo di navigazione è ormai molto marginale,in una realtà nautica malata di gigantismo. Non sono mol-te le barche a vela inferiori agli 8 metri ormeggiate in por-to, poche quelle che veleggiano nelle acque di casa, raris-sime quelle che si avventurano in crociere costiere. I fran-cesi, che con il mare e la vela hanno un rapporto più inten-so, dicono “petits bateaux, petits soucis”, piccole barche,piccole preoccupazioni, e grandi soddisfazioni aggiungo io.

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Barche piccole, marine e ben equipaggiate sono anchemolto più sicure di improbabili barconi in cui la maggior at-tenzione va alla spaziosità sotto coperta e al design, chenon alle linee d’acqua e all’armamento.Molte delle considerazioni fatte per il campeggio nauticovalgono anche per la crociera costiera e quindi mi soffer-merò solo sulle diverse possibilità e criticità di questo tipodi navigazione. Con la stessa attenzione va attrezzata labarca, va scelto l’abbigliamento, vanno acquistati e stivati igeneri alimentari e l’acqua. Circa quest’ultima, oltre a quel-la da bere, si possono prevedere un paio di taniche da die-ci litri, utili per lavarsi. Tenendo presente che, in mared’estate, si è già abbastanza puliti facendo il bagno e quin-di la sera bastano due o tre litri di acqua dolce per darsiuna sciacquata, togliendosi il sale di dosso senza inutili einquinanti saponi. Su un piccolo cabinato c’è il posto percaricare l’attrezzatura necessaria alla pesca, soprattuttoper pescare alla traina, visto che tempi lunghi e velocità so-no adeguati. Il modo più semplice è pescare con due lenzecalate a poppa, con semplici immergenti che tengono a dueo tre metri di profondità le esche finte. Seguendo i consiglidi qualche amico più esperto, documentandovi e provan-doci con costanza, scoprirete che spesso si può mangiarepesce. Buonissimo e freschissimo, un altro splendido rega-lo del mare e della vela.Ritornando alla barca, vediamo le differenze più significa-tive con quanto detto per la deriva. Innanzitutto il motoreausiliario. Croce e delizia del cabinato, quasi sempre unfuoribordo che per quanto piccolo, e magari vecchio, do-vrebbe però essere sufficiente a far navigare almeno a 2-3

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nodi, anche con vento, corrente e onde contrarie, semprenei limiti imposti dalle dimensioni della barca. Il motore co-sta, sporca, puzza, inquina ed è rumoroso, ma può esseremolto utile per alleviare le fatiche del remo o per districar-si in condizioni pericolose. Per limitarne l’uso, è bene met-tere in atto alcune strategie basilari. Primo, assecondare ilpiù possibile il mare e il vento, modificando di conseguen-za la rotta. Secondo, valutare le proprie possibilità e quel-le della barca, che di solito sono sempre superiori. Terzo, econseguente ai primi due, non avere fretta. La fretta non fagodere la tranquillità delle bonacce o, al contrario, porta adover affrontare burrasche, magari anche previste. Situa-zioni che diventano più frequenti se non si fa un uso ocu-lato del motore. I piccoli cabinati vengono equipaggiati dimotori da 2 a 8 hp a benzina o miscela, a seconda che sia-no più moderni e silenziosi 4 tempi o più vecchi e rumoro-si 2 tempi. In entrambi i casi, è necessario saper pulire ocambiare una candela e, magari, smontare anche un carbu-ratore o altri pezzi. Perché se essere autonomi è un valorea terra, in mare lo è doppiamente. Sembrerà una banalità,ma va ricordato che deve essere chiaro il consumo orariodi carburante, per poterne avere sempre a sufficienza, con-siderando anche che, sulle isole, i distributori sono più ra-ri, rispetto al continente.Connessa al motore è l’autonomia elettrica. Evitando frigo-riferi o altri elettrodomestici inutili a bordo, le necessità siriducono drasticamente alle luci di navigazione, a quelle disottocoperta e di pozzetto, alla eventuale radio. Anchesenza sfoggiare innovative soluzioni tecnologiche, i consu-mi sono molto ridotti e possono essere coperti, per diverse

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settimane, da una batteria di automobile da 12 v e 50 Ah.Per la ricarica, se il motore non è predisposto, sarà suffi-ciente un caricabatterie per fare il pieno in banchina.Motore e batteria, oltre a tutto il resto dell’armamento fis-so o mobile, richiedono una piccola ma attrezzata cassettadi utensili, in grado di permettere manutenzioni e ripara-zioni. Non solo cacciaviti, chiavi e pinze, a bordo servonoaghi, fili e scotch, perché le vele rimangono issate a lungoe il logorio è continuo. Su un piccolo cabinato è indispensabile un’ottima linea diancoraggio e diversi materiali d’ormeggio. Queste sonofondamentali dotazioni di sicurezza, perché in caso di cat-tivo tempo, paradossalmente, la barca rischia di più quan-do è alla fonda o in porto che quando è in navigazione. An-cora è voce arcaica, strumento primordiale, pensiero fissodel marinaio. L’ancora è inizio e fine di ogni viaggio, secon-do l’insegnamento di Joseph Conrad. Una buona ancoranon è sufficiente se non è preceduta da un adeguato calu-mo, cioè cima e catena. Se il diametro di queste dipendo-no dalla dimensione della barca, la loro lunghezza deve es-sere proporzionale alla profondità d’ancoraggio. In lineagenerale, il calumo dovrebbe essere almeno tre volte l’al-tezza del fondo.Servono, poi, cime, molle e parabordi adeguati alla barca,non lesinando in numero e dimensioni. Va ricordato il detto:“se l’ancoraggio sembra troppo pesante all’equipaggio, allo-ra significa che l’equipaggio è troppo leggero per la barca”.Una certa disponibilità di vele, di diverso taglio e dimensio-ne, garantiscono sicurezza e velocità. La randa deve averela possibilità di dare tre mani di terzaroli, di essere quindi

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molto ridotta. A prua, con o senza l’avvolgifiocco, bisognaessere attrezzati ad armare una tormentina, una piccolissi-ma vela di fortuna. Fortuna nell’accezione marinaresca ditempesta, di vento e onde impegnative. Per le brezze, inandature portanti è utilissima una grande vela leggera diprua, o uno spinnaker o un gennaker.Alle dotazioni obbligatorie di bordo, aggiungete senza me-no un riflettore radar, poco costoso e molto utile in tempidi grande traffico marittimo e di controllo elettronico.Per quanto riguarda il posizionamento e la rotta, ormaimolto economici e funzionali sono i GPS portatili, che sitrovano facilmente anche usati. Strumenti potentissimi dastudiare e utilizzare in tutte le loro possibili funzioni, inter-facciandoli magari anche con un computer portatile. Manon dimenticate mai i vecchi strumenti: un orologio, unabussola da rilevamento e un binocolo, che funzionano an-che se bagnati e non esauriscono mai le pile. Aggiungetematite, compasso e squadre, oltre a indispensabili, a mag-gior ragione per questo tipo di navigazione, carte nautichee almeno un portolano aggiornato. Con poche decine di eu-ro, non solo eviterete spiacevoli inconvenienti, ma potreterisparmiare molto di più, passando splendide e tranquillenotti alla fonda, ormeggiando gratuitamente in porti pe-scherecci o commerciali, che sono anche infinitamente piùinteressanti di algidi e costosi marina. Per quanto riguardala valutazione della velocità, con attenzione ed esperienzadiventano inutili strumenti meccanici o elettronici di misu-razione. Si imparerà presto a stimarla con precisione, in re-lazione alle molteplici condizioni che la influenzano. Consi-derate che errori del 10-20% su velocità, in relazione ai

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tempi ridotti di navigazione, non risultano determinanti suiperiodi di percorrenza ipotizzati. Si tratterà di esercitareulteriormente la pazienza o, vedendola diversamente, digodersi qualche ora in più di mare. Ugualmente, la stimadella posizione geografica, seppur richieda attenzione eprecisione, nella realtà ha sempre dei margini di errore ac-cettabile. Il carteggio è un’arte al contempo complessa egratificante, un esercizio indispensabile per potersi diremarinai nel senso pieno del termine e per non ridurre tut-to a una semplice, e talvolta pericolosa, rotta tra il way-

point 1 e il waypoint 2, utilizzando un linguaggio satelli-tare.Se i bollettini meteorologici oggi sono numerosi e affidabi-li, reperibili in giornali, tv, radio FM o VHF, telefono e web,a bordo dovrebbe comunque trovare posto una piccola edeconomica stazione meteorologica. Termometro, barome-tro e igrometro, sono ancora strumenti importanti in navi-gazione. Aiutano a interpretare meglio i bollettini, informa-no puntualmente sull’evolvere delle condizioni locali, ren-dono consapevoli e partecipi delle previsioni. Migliorano imargini di sicurezza e le abilità marinaresche, di cui quellemeteorologiche sono da sempre un tratto essenziale. Circa le rotte, aggiornando i calcoli stimati proposti per ilcampeggio nautico, potete immaginare di percorrere in unmese d’estate comodamente 4-500 miglia. Una navigazionedi tutto rispetto, un’avventura mediterranea indimentica-bile. Diventeranno così famigliari promontori, punte e ca-le, difficilmente raggiungibili da terra, luoghi semideserti,soprattutto evitando di navigare d’agosto.Queste poche pagine non sono certo sufficienti per prepa-

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rarvi alla navigazione, ma potete considerarle come unaprima rotta. Mettetevi in scia, leggendo e parlando, arman-do e navigando; l’orizzonte è vasto, luminoso, affascinante.Buon vento!

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E subito si avventurò col suo ingegno in un campo

della scienza sconosciuto, rivoluzionando la natura.

...Quando ebbe dato all’opera l’ultima mano,

l’artefice provò di persona a librarsi su un paio

di queste ali, e battendole rimase sospeso per aria.

Publio Ovidio Nasone, I sec. d.C.

“Le vele, le vele, le vele”, scriveva Dino Campana, pensan-do agli uomini in bonaccia o in tempesta, spinti o respintidal vento della vita. Di vele che muovono navi ho scritto inqueste pagine; vele di ieri, grandi, maestose, durissime, evele di oggi, piccole, sobrie, piacevoli, quelle che portano lenostre barchette da una spiaggia all’altra, da un porto al-l’altro, su acque dolci, salmastre o salate.Sempre piccole vele vengono issate su velocissimi poli-scafi, inferite su flessibili alberi di altrettanto sfrecciantiwindsurf o su quelli più rudimentali di lenti e meditativiwindkayak. Da qualche anno, vele governate tramitelunghi cavi, filati verso il cielo, trainano a grandi velocitàuomini su piccoli acrobatici kitesurf.

4. Altre vele

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La vela è un potente ed ecologico motore acquatico e, sem-pre più spesso, viene sperimentato anche a terra, su spiag-ge, strade, deserti di sabbia o di ghiaccio. Altre vele solle-vano e portano in volo moderni e audaci discendenti di De-dalo.Alcune di queste vele le ho provate, di altre ho letto, par-lato, fantasticato. Entusiasmi capaci di trasformarsi in pro-getti che, a loro volta, diventano avventure e magari pas-sioni. Oppure semplici racconti di mezzi e storie della piùantica e avveniristica delle macchine, o della “cosa che inmare desidera il vento”, scrive Plinio. Vele per l’acqua, laterra e il cielo, nelle sue tante forme, nelle sue infinite evo-luzioni.Altre vele significa guardare avanti, essere attenti ai cam-biamenti, alimentare la curiosità, sperimentare le ibrida-zioni. Convinti che l’evoluzione culturale, come quella na-turale, dipenda anche da contaminazioni, cooperazioni, si-nergie, su cui poi, volenti o nolenti, agisce implacabile laselezione.

Acquee

I poliscafi, innanzitutto. Barche a vela, con l’unica sostan-ziale differenza che anziché un unico scafo ne hanno due otre, uguali o diversi. Si chiama proa se ha due scafi asim-metrici, catamarano con due uguali, trimarano con unocentrale grande e due laterali piccoli. Oggi, i più noti sonoquelli milionari, costruiti per le regate della Coppa Ameri-

ca o per i record oceanici. Ultimo per onor di cronaca, eprimo per risultati, è Banque Populaire V, che ha fatto il

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giro del mondo senza scalo in meno di 46 giorni. Molto,molto meno, degli 80 giorni narrati con audace fantasia daJules Verne. Il trimarano di 40 metri ha percorso 36.000miglia alla folle velocità media di 26 nodi. Sempre un trima-rano, l’Hydroptère, impegnato da diversi anni a migliorareil record di velocità a vela sull’acqua, ha superato il murodei 50 nodi. L’Hydroptère, per la precisione, è un sailing

hydrofoil, ossia un aliscafo a vela, dotato al di sotto degliscafi di vere e proprie ali idrauliche che gli permettono divolare sull’acqua.Ma non è di queste avveniristiche astronavi che voglio scri-vere, né di mediatiche ed elitarie performance. Voglio rac-contare di poliscafi alla portata di tutti, piccoli, usati o au-tocostruiti, economici e di quelli che da millenni solcano leacque oceaniche e da secoli quelle mediterranee. I polisca-fi più semplici, a due barchette, oggi li chiamiamo catama-rani, neologismo di origine tamil, che significava “tronchilegati”. È lungo le rive degli oceani, Indiano e Pacifico, chequeste barche sono nate e si sono evolute, prima di diffon-dersi in tutto il mondo. Diari e immagini di viaggi nei Maridel Sud testimoniano abilità e audacia di uomini e donnecresciuti in grembo al più vasto degli oceani. Insuperabili lesettecentesche descrizioni di James Cook, accompagnateda altrettanto affascinanti immagini di William Hodges, pit-tore di bordo.Un secolo dopo, grazie alla prosa avventurosa di EmilioSalgari, il praho diventa, nell’immaginario collettivo, la bar-ca per eccellenza dei pirati della Malesia. La perla di La-

buan era il meraviglioso praho di Sandokan, di carenastrettissima e di vele amplissime, che con vento largo fila-

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va come una rondine marinara, superando i più velocivelieri di Asia e Australia.Più modestamente, alla fine dell’Ottocento, due scafi unitida traverse si chiamavano mosconi o pattini, a seconda chesi trovassero sul versante orientale od occidentale dellaPenisola. A remi quelli più diffusi, a vela quelli più veloci.Navigavano lungo le coste italiane, francesi e spagnole, ma,mentre da noi sono ormai rarissimi, migliaia di patin a ve-

la incrociano le acque catalane, valenciane e andaluse.Scrivendo di campeggio nautico e vela sobria, come non ri-cordare il Solitudo, un catamarano di 5,3 metri in compen-sato marino con cui Franco Bechini ha navigato per ven-t’anni lungo tutte le coste del Mediterraneo. Leggendarionavigatore, progettista e sperimentatore è James Whar-ram. Dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, isuoi catamarani a doppia prua solcano tutti gli oceani, ca-tamarani che rinnovano i concetti primordiali di semplici-tà, autocostruzione, elasticità e sicurezza. Il suo interesseera nato seguendo l’esempio di Eric de Bisschop che, nel1938, aveva raggiunto la Francia dalle Hawaii a bordo diKaimiloa, una doppia canoa, come amava chiamarla.Proe, catamarani, trimarani, sono tutti accomunati da sta-bilità di forma, leggerezza, minima immersione. Caratteri-stiche che li rendono molto veloci ma, inevitabilmente, an-che un po’ più bagnati.

Simile a una barca a vela, più piccolo di una deriva e so-prattutto con un albero non sostenuto da sartie è il win-dsurf, chiamato anche sailboat, o tavola a vela. La sua sto-ria comincia nella prima metà del Novecento in California,

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non a caso uno dei luoghi d’elezione del surf. Solo nel do-poguerra però l’idea viene ripresa, con uno spirito a metàtra il pionieristico e il tecnologico. L’evoluzione è rapida eporta i primi prototipi ad entrare nel circuito produttivo in-dustriale già negli anni Settanta. In Europa, il Lago di Gar-da diventa in pochi anni uno dei luoghi più frequentati,grazie alle favorevoli condizioni meteorologiche che garan-tiscono con regolarità venti termici di provenienza e inten-sità costante. Negli anni Ottanta, la tavola a vela è stata pertanti il modo più semplice ed economico per avvicinarsi al-la vela, per sperimentare i piaceri del vento. Tavole lunghee pesanti, con pinnetta corta e deriva basculante, armatedi altrettanto pesanti alberi, boma e vele triangolari. At-trezzature primordiali se paragonate con quelle di oggi,leggere e performanti. Immutato rimane l’entusiasmo cheprecede l’uscita, le gioie della planata e delle manovre, leansie per i buchi di vento o le bonacce improvvise che, avolte, costringono a mesti rientri a nuoto. Lasciando a ter-ra inquietudini consumistiche e assilli modaioli, godendo diuna vecchia tavola e di una usurata vela, il windsurf conti-nua a regalare le semplici ma durature gioie del vento edelle onde, incanti capaci di rinnovarsi ad ogni uscita. Conquesto spirito tutte le spiagge, in tutte le condizioni meteo-rologiche, offrono occasioni per armare e partire.

Piccole vele vengono issate anche sulle canoe. Canoe sai-

ling o kayak sailing lo chiamano gli inglesi, un modo di-verso, ancor più semplice per farsi portare dal vento. Unmodo antico di fare diporto, visto che ci sono libri dell’Ot-tocento che raccontano di lunghi raid per laghi e fiumi

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d’Europa. Molto più antico è poi l’utilizzo di canoe a velapresso le popolazioni del Pacifico, che le usavano per spo-starsi all’interno o addirittura tra gli atolli. Herman Melvil-le intreccia l’uso di queste ancestrali vele con il mito, rin-novandolo. Durante la sua permanenza a Taipi, isola delleMarchesi, fu protagonista di un’inusuale breve veleggiata,a bordo di una canoa. Un giorno era con lui una magnificaragazza che improvvisamente come rapita da un dio, si tol-se la tunica, trasformandola in una vela che fece scivolarevelocemente la canoa. Nella realtà, un kayak a vela non permette le prestazioni diuna deriva, sia in termini di capacità di risalire il vento, chedi velocità, ma è molto più leggero e infinitamente più ra-pido e meno faticoso da portare a remi. Quindi, a suo mo-do, è una vela che permette grandi navigazioni, in ambien-ti marginali dove non si trovano super yacht rumorosi, inacque dolci e salate remote, anche se spesso vicinissime.Un altro esempio di libertà inversamente proporzionale al-la lunghezza della barca. Un mezzo addirittura anfibio, per-ché facilmente trasportabile a terra e che può comoda-mente essere imbarcato su un traghetto, oltre al semplicetrasporto sul tetto dell’auto.Anni fa, ho conosciuto una coppia di tedeschi con una fi-glia di 14 mesi e un cane pastore tedesco, che con due ka-yak biposto di legno e tela cerata, armati anche di vela, an-davano dal Lago Maggiore all’Isola di Creta. Mille miglia dilaghi, fiumi e mari, la maggior parte navigate, con le soleeccezioni delle traversate tra la Puglia e la Grecia, la pun-ta meridionale del Peloponneso e l’isola di Creta, fatte ca-ricando i loro micro vascelli sui traghetti. Indimenticabili le

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due vele controsole che se ne andavano nel luminoso river-bero di un’alba d’estate. Una micro randa aurica e una ci-nese, riempite da una brezza di Maestrale, portavano i loroprogetti e i sogni di tutti quelli che incontravano.

L’ultima novità velica è il kitesurfing, diffusosi solo nell’ul-timo decennio. Kite in inglese significa aquilone e antichis-sime sono le sperimentazioni di utilizzo per il traino. Le ori-gini mitiche non possono che farci volare in Oriente, dasempre terra di aquiloni. L’interesse per questo tipo di ve-la si accese, poi, in Inghilterra nell’Ottocento, dove GeorgePocock progettò, sperimentò e raccontò le sue avventure abordo del charvolant. Carrozze trainate da aquiloni, purtra mille difficoltà, diventarono sperimentali macchine eo-liche.Oggi con kite di forma alare, manovrati da due o quattrolunghi e sottili cavi, chiamati linee, collegate a una barra dicontrollo, a sua volta unita mediante un trapezio al kiter, siraggiungono grandi velocità, paragonabili solo a quelle delwindsurf e dei poliscafi. Le ali, completamente in tessuto,a seconda dell’intensità del vento vanno da 8 a 16 metriquadrati di superficie, le tavole lunghe circa 1,5 metri, pe-sano solo qualche chilogrammo e le linee sono lunghe unatrentina di metri. Possono navigare in un ampio intervallodi intensità del vento, da 8 a 30 nodi. Quindi si possonousare con una brezza sostenuta, fino a condizioni impegna-tive anche per barche più grandi. Ormai non c’è spiaggiadove non sia possibile assistere allo spettacolo di questevele colorate che ondeggiano dolcemente in aria. Trainanoinvisibilmente nuovi equilibristi che corrono veloci sulle

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onde, divertendosi e facendo divertire, sperimentandoconsciamente o inconsciamente nuove soluzioni ecologi-che di trasporto.

Terrestri

Dall’acqua alla terra, sempre cercando di ingraziarsi i biz-zosi figli di Eolo. Ancor più spericolata è la sfida, perchéaumenta a dismisura le velocità, mentre lo spazio scarseg-gia e le scuffie diventano dolorose.Malgrado ciò, lunghissima è la storia del carro a vela o uti-lizzando la dizione inglese del land yachting. Anche inquesto caso, la terra d’origine sembra sia la Cina, mentrein Europa la passione, testimoniata da scritti e dipinti, ri-sale al XVII secolo. Se oggi è abbastanza raro vedere que-sti carri a vela lungo le rive del Mediterraneo, molto dif-fusi sono invece nel nord Europa e in tutti quei posti do-ve ampie escursioni di marea garantiscono grandi, splen-dide, piste in riva al mare, sempre battute dal vento.Quelli moderni sono a tre ruote, due posteriori e una an-teriore sterzante, con telai in lega leggera, affusolati eleggeri, con vele da 2 a 5 metri quadrati. Possono rag-giungere velocità due o tre volte superiori a quelle delvento reale, tanto che è stata superata la barriera dei 200chilometri all’ora. Diversi e fantasiosi sono i prototipi de-gli sperimentatori, sia per quanto riguarda il carro che lavela. Se la più comune è quella triangolare, issata su unalbero messo a prua della seduta del pilota, non mancanoaltre forme e soluzioni, tra cui anche il kite. A riguardo, aterra esiste anche il kite landboarding, l’equivalente del

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kitesurfing, che ha poi un terzo ambiente: la neve, evol-vendo nello snowkiting.Quest’ultima pratica ha una storia brevissima, mentre alcontrario è lunga quella dello ice yachting, carri a velamuniti di pattini, anziché di ruote. Sport praticato già nelSettecento sui laghi ghiacciati di nord Europa e America,dove nell’Ottocento si organizzavano vere e proprie regate.Nel 1886 il “New York Times” pubblicò un articolo che rac-contava la storia dell’ice yachting, e nel 1911 questo sporttrovò spazio nell’Enciclopedia Britannica.Concludo questa breve veleggiata terrestre, con un sognoricorrente di quando ero bambino. Quello di una piccolavela armata su una bicicletta, per potermi muovere senzafatica nelle grazie del vento anche a terra. Per me, quelleimmagini sono rimaste impresse nella fantasia e in scara-bocchi andati perduti, mentre altri ci hanno provato e con-tinuano a farlo. Di certo, se la bici può considerarsi l’alterego terrestre della barca a remi, c’è da sperare che anchesulle strade possano cominciare a correre bici spinte dalvento, sollevando per un po’ il pedalatore dalle sue fatiche.Idealmente il connubio è dei più ecologici, anche se per ilmomento ancora pionieristico. Ma chi avrebbe immaginatosolo vent’anni fa che tanta energia si potesse ottenere dalvento? Così, mentre in Olanda già producono e commer-cializzano la whike, fiducioso continuo a pedalare in stra-da e veleggiare in acqua, aspettando che altri spiriti insie-me libertari e leonardeschi realizzino e rendano popolareun altro eco-connubio.

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Aeree

Ed eccoci alle più dedaliche veleggiate, quelle aeree, im-maginate fin dall’antichità, ideate da Leonardo, speri-mentate nell’Ottocento e da qualche decennio abbastan-za diffuse. Leonardo studiò a lungo le caratteristiche fisi-che dell’aria e le ali degli uccelli. Osservazioni che permi-sero al genio rinascimentale di progettare paracadute, vi-te aerea, ali battenti e rigide, tutte riconosciute come leantesignane delle successive macchine volanti. Oggi, pa-rapendii e deltaplani sono ormai alla portata dei discen-denti del mitico padre del volo libero e del suo primo vi-sionario inventore.Il parapendio si è sviluppato a partire dalla metà degli an-ni Sessanta del Novecento, mettendo a frutto le cono-scenze maturate con il paracadute e con il volo. Diffusosinegli anni Ottanta, è oggi il mezzo più semplice per veleg-giare in aria. Pesi ridotti dell’attrezzatura, inferiori a 10chilogrammi, e relativa semplicità, sicurezza ed economi-cità sono alcune delle sue qualità vincenti. Un’unica vela,formata da due parti sovrapposte, tenute insieme da set-ti verticali, chiamati centine, che delimitano i cassoni.Semplificando, una grande ala a forma di paracadute ret-tangolare, collegata con cavi all’imbrago del pilota che,stando seduto, la manovra con altri cavi chiamati freni ocomandi. Si può rimanere in aria per diverse ore, sfrut-tando le correnti ascensionali, termiche o dinamiche, epiù in generale i venti. Le termiche sono il risultato di mo-vimenti verticali dovuti a differenze di temperatura, men-tre le dinamiche sono sempre correnti verticali che si

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creano per effetto di sbarramento delle catene montuosesui venti orizzontali.L’altro mezzo per il volo libero è il deltaplano, più anticoma oggi meno praticato del parapendio. Quelli modernihanno un’ala Rogallo, dal nome dell’inventore americanoche negli anni Cinquanta del Novecento mise a punto ilprimo modello di ala flessibile che, modificata e migliora-ta, è tuttora in uso. Prima di lui, nell’Ottocento l’ingegne-re tedesco Otto Lilienthal progettò, realizzò e sperimentòdiverse ali con cui, tra i primi, riuscì a staccarsi da terra.Le foto che lo immortalano a mezz’aria con enormi, fanta-siose, eleganti ali testimoniano perfettamente determina-zione, genio e follia di questo pioniere del volo che pagòcon la vita la sua indomita passione, accettando lucida-mente il caro prezzo.Il deltaplano ha un’ala flessibile, con struttura di tubi inlega leggera e cavi, su cui è posta la tela. All’ala è fissatal’imbracatura che consente al pilota di volare in posizioneorizzontale. Il comando avviene esclusivamente con ilmovimento del corpo del pilota. Una specie di armoniosadanza aerea che ha consentito voli incredibili per lun-ghezza e altitudine, arrivando a percorrere centinaia dichilometri e a superare le più alte catene montuose. Pic-chiate, cabrate e virate, sono il frutto di opportuni movi-menti dell’uomo dedalico che sposta il suo peso tenendo-si stretto alla barra di controllo.

In un perfetto parallelismo con l’evoluzione della vita sul-la Terra, sembra che i velisti stiano uscendo dall’acquaper colonizzare la terra e l’aria. Come in ogni processo na-

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turale, i tempi saranno lunghissimi e l’evoluzione lentissi-ma. Confido speranzoso che il processo si possa compie-re, in maniera ecologica e libertaria. Già oggi, molti sonoaccomunati dalla passione per i silenzi e i rumori della na-tura, dall’attenzione per le mutevoli condizioni del cielo,dal fascino antico del vento. Il più invisibile e concretodegli elementi naturali, energia libera ed eternamenterinnovabile.

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Composizione: principi attivi, 30 vocaboli marinareschie alcuni loro contrari, di uso comune su velieri piccoli egrandi, di ieri e di oggi; eccipienti: brevi divagazioni etimo-logiche, folkloristiche e letterarie.Indicazioni: trattamento preventivo utile al mozzo perentrare a far parte dell’equipaggio, al marinaio per scopri-re qualche isola sconosciuta.Controindicazioni: al momento, non ne sono state se-gnalate.Posologia: una parola al giorno per un mese.Effetti indesiderati: a bordo dei più recenti glamour-

yacht, la maggior parte di queste parole risultano assoluta-mente inutili, a volte disdicevoli.Avvertenza uno: alcune parole sono proprie del linguag-gio tecnico, altre molto comuni; tutte celano significati ostorie inusuali, anche per i marinai più esperti. Avvertenza due: chi naviga con piacere tra le parole co-me tra le onde, troverà infinite gioie nell’insuperabile Vo-

cabolario marino e militare di Alberto Guglielmotti,pubblicato nel 1889 e ancora ristampato.

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Prontuario velico

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Avvertenza tre: l’antica ricchezza verbale della linguamarinaresca italiana si lega indissolubilmente alle differen-ti lingue mediterranee che in passato contribuirono a com-porre una lingua franca, parlata dal Medioevo all’Ottocen-to a bordo dei velieri, a prescindere dalla loro bandiera, enei porti, da tutte le genti di diversa fede o etnia.

✵ ✵ ✵

Addugliare

Raccogliere correttamente una cima in spire concentriche, inmatasse chiamate duglie. Antico verbo d’ascendenza genove-se, quasi scomparso sulle barche, piccole e grandi. Eppure, dicime ne rimangono tantissime a bordo, e raccoglierle in mo-do corretto è indispensabile per non trasformarle in pericolo-si e inestricabili grovigli, per non incattivirle, usando un altrotermine marinaresco. Si adduglia la cima sempre a partiredall’eventuale dormiente, la parte fissa, togliendo a mano amano le volte al corrente, la parte libera. Canapi e catene chenon si tengono in mano si abbisciano, cioè si dispongono aspirale in modo da poterle poi svolgere senza difficoltà.

Alare

Tirare con forza una cima, il più delle volte riferito a unabarca portata fuori dall’acqua. Così, in un funambolico gio-co di parole, la barca si ala, mette le ali, quando lascia l’ac-qua per l’aria. Il suo contrario, altrettanto magico, è il vara-re. Il varo è un momento topico nella storia della barca chechiede come ogni battesimo un officiante e una liturgia, sa-cra, pagana o profana, comunque altamente simbolica.Tanto che se alare è rimasto verbo d’uso solo marinaresco,varare ha assunto ben più ampi e articolati significati.

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Ancora

Vocabolo antichissimo e mediterraneo per eccellenza. Da-vano fondo all’ancora i Latini e, prima di loro, all’ánkyra iGreci. Emblema di speranza nell’esemplare descrizione diJoseph Conrad e, forse per questo motivo, l’ancora è il sim-bolo più tatuato sui corpi dei marinai. Attenzione: l’ancoranon si getta mai! La si leva o gli si dà fondo. Lungo sareb-be l’elenco delle sue forme, diverse le parti. Quelle comunia tutte sono la cicala, l’anello di collegamento alla catena,il fuso, l’asse principale, e le marre, una o più parti che van-no a infilarsi nel fondo. Imprescindibile avere sempre a di-sposizione un’ancora di salvezza. Per la gente di mare erasemplicemente il ferro.

Armare

A bordo significa attrezzare, di materiali e di uomini, entram-bi utili alla navigazione. Così si arma tutte le volte che si de-cide di prendere il largo e la barca è in armamento quando,completa di attrezzature ed equipaggio, può mollare le cime.Tutte le operazioni di armamento si fanno all’ormeggio, poi inmare le manovre prendono nomi propri. Ad esempio, si bor-da una vela, quando si regola, o si dà mano ai remi, quando ilvento molla. “Compagni, preparate e armate la nera nave eimbarchiamoci per compiere il viaggio”, è l’esortazione di unantico comandante, per stirpe di Itaca, figlio di Odisseo.

Beccheggio

È uno dei due movimenti della barca, quello che va per chi-glia si dice a bordo, ossia il movimento dell’asse longitudi-nale. L’altro è il rollio, quello che va per madiere, cioè del-l’asse trasversale. Ben più noto di entrambi è il loro effet-

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to, quel mal di mare che continua a tenere lontani i terra-gni dalle navi, che rende il viaggio acqueo comunque piùtemibile di quello terrestre. Se le onde impongono a tuttele barche questi due ritmi, solo alcune li sanno ballare coneleganza, anche grazie alla sapiente guida del comandante.

Bolina

In origine, era il nome di una cimetta che regolava la parteanteriore della vela. Con il tempo è diventata il nome diuna andatura, la più faticosa, quella che il velista vagabon-do cerca sempre di evitare. Andar di bolina significa navi-gare a vela con l’angolo di rotta più stretto possibile rispet-to alla direzione del vento. Sui velieri alabolina era il no-mignolo dispregiativo del marinaio inesperto. Di bolina, an-cora oggi, si dice che è sempre inverno. Bolina, traverso,lasco e poppa, sono le quattro andature principali dellabarca a vela, dalla più stretta alla più larga, a seconda del-la provenienza del vento.

Boma

Se tutti sanno cos’è l’albero di una barca, pochissimi sa-prebbero indicare il boma, l’antenna inferiore orizzontaleche permette l’apertura di certe vele. Un tempo, a bordoc’era anche il picco, l’antenna superiore delle vele qua-drangolari. Oggi, quasi tutte le rande hanno le steccheche migliorano le prestazioni. Un altro tipo di boma vo-lante è il tangone, molto in voga fino a qualche anno fa,un’asta orizzontale che tiene aperto sopravento lo spinna-ker o un fiocco. Il boma della randa, secondo alcuni, è unattrezzo poco utile e pericolosissimo nelle strambate,quindi da eliminare.

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Bordeggiare

Risalire controvento facendo bordi opposti di bolina. Verboarcinoto e impegnativo per il marinaio che va a vela. Infat-ti, se la bolina è la più faticosa delle andature, il bordeggioè una fatica doppia, come la distanza che si deve percorre-re, per raggiungere un punto esattamente controvento.Bordeggiando, si zigzaga di bolina nell’angolo morto, ossiain quel malefico spazio che si apre tra le due più strette se-mirette percorribili dalla barca. Per millenni è stato ampio140°, oggi anche con le nostre semplici barchette si è stret-to a 100°. Ciò significa che su entrambi i bordi l’angolo piùstretto disegnato dalla nostra prua rispetto alla direzionedel vento è di 50°.

Bozzelli

Sono quegli ordigni in legno o di ferro entro i quali scorro-no i cavi, si legge su un vocabolario per giovani marinai del-la prima metà del secolo scorso. Oggi possiamo solo ag-giungere che il legno e il ferro sono stati sostituiti da pla-stiche e acciai che, proprio negli ultimissimi anni, possonovenir abbinati al tessile, riscoprendo antiche virtù. I bozzel-li sono semplici, doppi, tripli, quadrupli. Quando accoppia-ti prendono il nome di paranchi, alleviando le fatiche delmarinaio fin dalla notte dei tempi.

Bussola

Ne ha fatte fare di miglia quella buxida, una scatola in bos-so, assemblata nel XIII secolo, forse da un amalfitano cheunì l’ago calamitato cinese alla rosa dei venti mediterranea.Non solo la bussola permise di allargare gli orizzonti acqueioltre le Colonne d’Ercole, ma rimane ancora, in questi tem-

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pi satellitari, il più prezioso strumento di navigazione. Suivelieri era talmente venerata che veniva messa in una chie-suola, dentro la quale rimaneva un lumino sempre acceso.Se delle alchimie dell’ago non è qui il caso di parlare, van-no però ricordati almeno gli otto petali principali della ro-sa dei venti, che sono anche le otto direzioni marinaresche:Tramontana, Greco, Levante, Scirocco, Ostro, Libeccio,Ponente, Maestro.

Cazzare

Tirare una cima; parola derivata dallo spagnolo “cazar lasvelas”, cacciare le vele, tesarle. Per cazzare a ferro, tesareal massimo, spesso non bastano muscoli d’acciaio ma è ne-cessaria rapidità e astuzia. Vanno sfruttati o creati i breviintervalli in cui la vela fileggia, cioè quando il vento mollala presa perché la vela si trova parallela alla sua direzione.I paranchi un tempo, i verricelli o più comunemente winch

oggi, risolvono molti problemi, alleviando molte fatiche.Lascare è il suo contrario, cioè allentare una cima; da nonconfondersi con mollare (pena “un giro di chiglia”) che si-gnifica liberare. Il lasco è una delle andature più veloci epiacevoli, in cui non solo le vele sono allentate, ma anchele preoccupazioni dell’equipaggio. “Di lasco e di poppa èsempre estate”, si dice sulle barche, intendendo che lecondizioni sono favorevoli.

Cima

Questa parola, probabilmente meglio di qualsiasi altra, se-gna la differenza tra il mondo terrestre e quello acqueo. Inquest’ultimo la cima è la corda, parola bandita a bordo, so-stituita da diversi nomi specifici, quali drizze, per le cime

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che lavorano in verticale, scotte, per quelle orizzontali. Neivocabolari marinareschi ottocenteschi sono ben 14 i nomispecifici, per altrettante sezioni e qualità, dal più fine spa-go, alla più grossa gomena, di almeno 20 centimetri di dia-metro. Tutte le cime che muovono le vele, rientrano gene-ricamente nelle manovre correnti.

Deriva

È la lama centrale, fissa o mobile, che consente alla barcadi stringere il vento, di non derivare, cioè di non slittare dilato, o meglio di limitare lo spostamento laterale dovuto al-la corrente o al vento (in questo caso si dovrebbe dire scar-rocciare). Non a caso si va alla deriva, quando impossibili-tati a governare, quando sono i venti, le onde e le correntia decidere la rotta. Situazione negativa a volte funesta, im-magine evocativa che ha reso più diffuso il significato figu-rato di quello marinaresco. Deriva è anche una piccola bar-ca a vela, non pontata, veloce e ballerina, la migliore perimparare e mantenere viva, frizzante, la passione.

Fiocco

Vela triangolare di prua, nell’armo Marconi, oggi il più dif-fuso. I velieri ne armavano almeno tre: trinchetta, fiocco econtroficco. Fino a qualche anno fa se ne armava uno coni garrocci allo strallo, avendone però almeno altri due di ri-spetto sottocoperta, buoni per altre intensità di vento. Ilgenoa, originariamente “vela di Genova”, è il fiocco piùgrande; la tormentina è quello più piccolo e il nome indicaanche la spiacevole occasione d’armamento. Oggi, speciesulle barche grandi, a prua c’è un unico ampio fiocco mon-tato su un avvolgifiocco, che permette di ridurre a neces-

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sità la superficie. Molto comodo e diffuso, poco marinare-sco e sicuro secondo i puristi.

Issare

Far salire o comunque muovere qualcosa, una vela, un’an-cora o un pennone, tramite una cima. Vocabolo di deriva-zione oscura, ci informano i linguisti, forse onomatopeica osemplicemente ottenuto trasformando “in su”. “Oh issa!” èun motto di incitamento e coordinamento, utile a tirare in-sieme, a tonneggiare, se riferito a qualcosa che sta in ac-qua. Ammainare è il suo contrario. “Issate le bianche ve-le,/sulle navi sedemmo: le guidavano il vento e i piloti”, rac-conta Odisseo ai Feaci e a noi tutti da millenni.

Mezzomarinaio

È la gaffa, un’asta che ha ad un’estremità un gancio. Il no-me deriverebbe da quello che di solito lo maneggia, unmezzomarinaio, qualcosa di più del mozzo. Il mezzomarina-io è indispensabile all’ormeggio, soprattutto quando si è dasoli o con equipaggio ridotto. Ci si spinge o aggancia, siprende una cima o una catena, allungando le nostre brac-cia, che a bordo sono sempre troppo corte. Se il mezzoma-rinaio allunga le braccia, la sassola allarga le mani. È que-sto il secondo strumento tradizionalmente in uso al mozzo,che può passare ore a sgottare acqua dalla sentina, cioè atoglierla dalla parte più bassa dello scafo dove si accumu-la, costantemente e pericolosamente.

Miglio

Quello marino è lungo 1.852 metri, pari a un arco di meri-diano di un primo di latitudine. Forse perché caratteristico

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di un ambiente ancora poco frequentato dall’uomo, man-tiene un suo fascino, evocando distanze materiali e spiri-tuali. Il miglio diventa nodo, quando esprime una velocità,cioè un nodo corrisponde a un miglio all’ora. Il suo nomederiva dai nodi che segnavano la sagola del solcometro abarchetta, in uso sui velieri. Per chi va a vela 4 nodi sonogià una buona velocità, sufficiente nell’incedere delle ore araggiungere approdi lontani.

Mura

È l’angolo basso di prua di una vela. Da questa parola deri-va il termine murata, che indica i fianchi della barca soprala linea di galleggiamento. C’è così la murata destra e sini-stra, dette anche dritta e manca, che nel linguaggio mari-naresco antico erano tribordo e babordo. Oltre alla mura,le vele hanno un angolo alto chiamato penna e un terzo,basso di poppa, chiamato scotta.

Nodo

Legatura di corda, che diventa cima a bordo, dove il discor-so acquista grande autorità, perché d’uso antichissimo eancora indispensabile. Sulle barche di ogni forma e dimen-sione, per svariate necessità, i nodi si continuano a fare estudiare, più che in ogni altro ambiente. Da sempre, i ma-rinai ne conoscono vizi e virtù. Quella dei nodi è una verae propria arte, che ha il suo linguaggio, le sue consuetudi-ni, i suoi standard, direbbero i jazzisti. Solo i veri artisti co-noscono centinaia di nodi, suddividendoli in tre categoriea seconda se fatti su una stessa cima, con altre cime o suun altro oggetto. Tutti, fin dal primo imbarco, dovrebberosaper fare almeno la gassa, il savoia e il parlato. Altrettan-

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to utile è saper dar volta correttamente a una castagnola oad una bitta.

Opera

Nel linguaggio marinaresco è sempre accoppiata a un ag-gettivo, facendosi insieme sostantivo: opera viva e operamorta. L’opera viva è la parte dello scafo che sta sotto la li-nea di galleggiamento, quella che consente alla barca digalleggiare e navigare, perciò di vivere. L’opera morta è laparte posta sopra la linea di galleggiamento. L’occhio delvero marinaio prende perciò in esame lo scafo sempre apartire dall’opera viva, quella che per prima regola le sortidella barca. È invece l’occhio di Plimsoll, dal nome dell’in-glese che lo fece introdurre nella seconda metà dell’Otto-cento, a indicare sullo scafo di una nave la linea di galleg-giamento di massimo carico.

Orzare

Verbo fondamentale della vela, che significa portare laprua verso la direzione da cui proviene il vento. Una barcaben equilibrata tende leggermente ad orzare, abitudine in-valsa tra i timonieri. “Orza che a poggiar c’è tempo”, si di-ce ai principianti, ricordando loro che è sempre più facileraggiungere un punto sottovento che uno sopravento. Pog-giare è il suo contrario, significa infatti allontanare la pruadalla direzione da cui spira il vento. Entrambi i verbi deri-vano dai sostantivi corrispondenti: orza, il lato sopraventodella nave, poggia, il lato di sottovento. “Nave infortuna,/vinta da l’onda, or da poggia, or da orza”, si leggenel Purgatorio dantesco.

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Poppa

È la parte posteriore della barca. La parola deriva dal lati-no, probabilmente per tramite veneziano. La poppa è an-che il nome di un’andatura, comoda e veloce, ma molto pe-ricolosa a causa delle strambate, perciò da evitare con ven-to forte e mare grosso. Al contrario, quando le condizionilo permettono, si possono mettere le vele a farfalla, cioèsulle opposte mura, un piccolo capolavoro estetico e mari-naresco. “Avere il vento in poppa” è condizione talmenteideale per il navigante da aver assunto un più generale si-gnificato metaforico. È però un marinaio illustre ed esper-to, l’Ismaele di Melville, a ricordarci che purtroppo in que-sto mondo i venti contrari sono molto più frequenti rispet-to ai venti portanti. Non solo negli spazi acquei.

Portolano

Il libro di bordo per eccellenza, quello che descrive minu-ziosamente, magari con l’ausilio di disegni particolareggia-ti, porti, rade, ancoraggi, pericoli, divieti, prescrizioni e tut-to ciò che caratterizza una costa, agli usi della navigazione,per usare un linguaggio appropriato. Il portolano è comple-mento delle carte nautiche e perciò deve essere in sintoniacon esse e utile a integrarne le informazioni. Ma i portola-ni diventano anche formidabili strumenti di navigazioneonirica. Quelli antichi come quelli moderni, sono fantasticilibri di favole per chi ama sognare mari e isole lontane.

Prua

Detta anche prora, è la parte anteriore della barca; parolagenovese, derivata dal latino. È tradizionalmente a formadi cuneo, più o meno acuto, per fendere l’onda. Mille sono

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comunque le variazioni a seconda delle necessità, come al-trettante le rotte. Fin dall’antichità, le prue portano occhi,stelle, polene e allegorie apotropaiche, capaci di scongiura-re pericoli, di aprire spiritualmente la navigazione. Nel pas-sato, armate di rostri erano quelle militari, di bompressiquelle mercantili. Anche oggi, se il disegno di prua è riusci-to, la barca non fende solo meglio l’onda, ma è benaugu-rante per le miglia a venire.

Randa

È la vela triangolare di poppa, nell’armo Marconi. Il latoverticale si inferisce sull’albero, è perciò l’inferitura, quelloorizzontale sul boma e si chiama base, quello libero è la ba-lumina ed è dotato di stecche che ne migliorano il profilo.La randa è autovirante e autoabbattente, cioè va da sola daun lato all’altro della barca durante i cambi di bordo. Quin-di, attenzione alla testa!

Sartia

Cavo fisso che sostiene l’albero. Se quelle laterali possonoessere alte e basse, a seconda del punto di aggancio supe-riore, quelle di prua prendono il nome di stralli, quelle dipoppa paterazzi. Nelle barche da regata ci sono poi le vo-lanti, da mettere in tensione o mollare a seconda dei bor-di. Sugli antichi velieri, oltre che in testa d’albero, anchelungo le sartie, nelle notti tempestose, si manifestavano itemibili fuochi di Sant’Elmo. Delle fiammelle elettriche cheapparivano quando il tempo era minaccioso e, secondo laleggenda, erano una manifestazione dei Dioscuri, per alcu-ni benevola, per altri malevola.

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Sopravento

È termine marinaresco che indica, in termini relativi, lamaggior vicinanza dal punto in cui spira il vento. In barca,c’è un bordo di sopravento e uno di sottovento, in mare c’èun approdo di sopravento e uno di sottovento. Quando sinaviga a vela è buona norma tenersi sopravento, perché c’èsempre tempo per poggiare. Il sottovento è la parte oppo-sta, indicante, in termini relativi, la maggior distanza dalpunto in cui spira il vento. Sottovento si gode, a terra e inmare, di una maggior tranquillità, anche se non sempre siriesce a controllare la situazione. Andando a vela, sopra-vento e sottovento sono importanti come destra e sinistra,sia per le manovre che per le precedenze. Infatti, se gene-ricamente ha la precedenza chi naviga con le mura a de-stra, ossia con il vento che viene da destra, quando duebarche hanno le stesse mura ha la precedenza chi è sotto-vento.

Terzarolo

È la piegatura che si fa alla vela quando il vento supera unacerta velocità; di fatto, prendere i terzaroli significa ridur-re la velatura. Il terzarolo era in origine una vela minore,quella che saliva al terz’ordine sullo stesso strallo o albero.Nell’età d’oro della vela, su grandi velieri a tre alberi e de-cine di vele, la presa dei terzaroli, la riduzione delle vele,era uno dei momenti più impegnativi, anche per le condi-zioni del mare e del vento che imponevano precisioneestrema e rapidità massima. Oggi, con avvolgifiocco e av-volgiranda, i terzaroli e le manovre conseguenti non hannopiù niente a che fare con l’arte marinaresca.

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Timone

Organo di governo della nave, perciò il più prezioso. Se di-verse sono le forme e i materiali, le alchimie meccaniche eidrauliche, evolutesi nei secoli, immutate rimangono le at-tenzioni, le cure, le abilità che chiede questa parte vitale perla barca e di conseguenza per il carico e l’equipaggio. Unanave senza timone, prima non governa, poi va alla deriva, in-fine, spesso naufraga. Solo nel tardo Medioevo il timone na-

varesco, unico e centrale, ha sostituito quello laterale, costi-tuito da due leve simili a remi, con cui per millenni si sonogovernate le navi mosse dalla forza delle braccia o del ven-to. Palinuro e Tifi erano i più famosi nocchieri dell’antichità,che stavano al timone delle navi di Enea e Giasone, abili neltenere la barra e nel leggere le onde, i venti, le stelle.

Virare

Passare da un’andatura con vento che viene da sinistra aun’altra, in cui viene da destra e viceversa, attraversandol’angolo morto, quello precluso alla vela. Virando, si modi-fica la direzione di navigazione per prendere il vento dallaparte opposta, passando la prua nella direzione da cui spi-ra. La virata è una delle due manovre, quella generalmen-te più sicura, che permette alla barca di cambiare di bordo.L’altra, l’opposta, è l’abbattuta, il cambiare di bordo in pop-pa, chiamata erroneamente anche strambata. Perché que-st’ultima è la manovra involontaria, quindi ancor più peri-colosa. Virare e abbattere con eleganza significa disegnaresinuose scie, effimere sull’acqua come tutte, ma duraturenella memoria.

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Una vela nel vento, una prua nell’onda.

Una rotta sul mare.

Vela e libertà, vela è libertà.

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Come sanno tutti i marinai e come premesso in questo bre-viario, andando a vela il tempo non manca, anzi si guada-gna tempo, utilissimo anche alla lettura. Ancora oggi inbarca, e forse per sempre vista l’incompatibilità tra dimen-sione acquea ed elettrica, il libro di carta è da preferirsi abordo. Non finisce mai le batterie, se si bagna rimane leg-gibile e, in caso di maltempo, per alleggerire la barca puòessere gettato a mare senza rimorsi ecologici. In ultimo,due amici oceanici dicono che negli scali tropicali va moltodi moda il book-crossing portuale, rinnovata forma discambio culturale.Come vedrete, qui il genere perde importanza; del resto,non mi stanco mai di ripetere che nella liquidità del mare igeneri, come i sali, si sciolgono e si mescolano, perdono iloro caratteri particolari per darne di nuovi, magari ina-spettati. Qualunque sia il vostro carattere velico, dopo averconcretamente scoperto i piaceri del vento, potreste inco-minciare ad armarvi leggendo le “dotazioni di sicurezza”,brevemente illustrate, per poi fare un giro d’orizzonte com-

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Scie librarie

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pleto. Non ho certo dimenticato le tre stelle di prima gran-dezza nella volta dei libri di mare, Odissea, Eneide e Ar-

gonautiche; ma sono talmente alte nel cielo che, per reve-renza, mi limito solo a ricordarle. Un ultimo avviso ai naviganti: queste scie librarie, cometutte quelle reali, possono incrociarsi per condurre a feliciisole inesplorate.

Dotazioni di sicurezza

Otto titoli, quelli fondamentali che compongono la princi-pale rosa dei venti letterari. Libri che dovrebbero trovarposto anche nella più piccola delle barche.

AA. VV., Glénans. Corso di navigazione, Mursia, Milano2011 (1ª ed. 1972).Una vera e propria bibbia per la navigazione da diporto.Utilissimo sia per il principiante che per il marinaio esper-to, che troverà risposta ai dubbi e nuovi stimoli per alimen-tare la curiosità. La descrizione della barca e delle mano-vre, la navigazione costiera e d’altura, sono i temi portantidel libro, sviluppati con chiarezza di linguaggio e di imma-gini. Nella parte dedicata alla crociera, vengono trattati inmaniera chiara ed esaustiva gli argomenti brevementeesposti nel capitolo “Barca minima, rotta massima”. Ampiospazio è dedicato alla meteorologia, di cui deve avere i ru-dimenti anche chi esce per la prima volta e di cui dovrà co-noscere i segreti chi ha velleità di navigazioni più lunghe.Un libro nato e aggiornato sull’esperienza di oltre mezzosecolo della più importante scuola di vela europea.

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Braudel Fernand, Civiltà e imperi del Mediterraneo nel-

l’età di Filippo II, Einaudi, Torino 2002 (1a ed. 1949).Un classico della storiografia e più in generale della cultu-ra mediterranea. Migliaia di pagine dedicate al Mare Inter-no, che partendo da un preciso periodo storico, 1550-1600,diventano rivelatrici di un orizzonte storico e umano piùampio, di un mare geografico e materiale più grande. Nonè necessario leggerlo tutto dall’inizio alla fine, anzi convie-ne partire dal paragrafo che interessa o semplicemente daltitolo che affascina, scegliendo in base alla propria sensibi-lità o curiosità del momento. Sarà il modo migliore per co-minciare una lunga avventura marinaresca, per intrapren-dere un millenario viaggio mediterraneo, di guerra e pace,di risorse contese e condivise, di ricchezze e miserie. Si ca-pirà come il Mare Nostrum, benché mutevole, riflette sto-rie antichissime, come la nostra rotta, benché effimera, in-terseca navigazioni mitiche. Senza dimenticare che per co-noscerlo è indispensabile navigarlo.

Conrad Joseph, Lo specchio del mare, Il Nuovo Melango-lo, Genova 1998 (1a ed. 1906).Uno dei più grandi scrittori vissuti tra Ottocento e Nove-cento, in queste pagine, mette a nudo con estrema chiarez-za e precisione i termini della sua relazione lavorativa, let-teraria e amorosa con il mare. Un libro d’arte marinaresca,in cui si scopre come le competenze e anche il linguaggiotecnico siano fondamentali per restituire il fascino dellavela. Il capitano Conrad, con autorevolezza, insegna a na-vigare portandoci a bordo del Tremolino, una tartana co-struita in Liguria, che spiega due enormi vele, simili alle ali

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degli uccelli marini. Quei grandi volatori che, come l’auto-re, trascorrono la maggior parte della loro vita al largo. SulTremolino navigheremo in Mediterraneo, nutrice venera-bile e irascibile dei navigatori. Poi, imbarcati su altri vascel-li, faremo vela verso immensi oceani, d’acqua e arte.

Matvejeviç Predrag, Mediterraneo. Un nuovo breviario,Garzanti, Milano 2006 (1a ed. 1987).Un breviario enciclopedico dei saperi mediterranei, ordina-ti e aggiornati da uno scrittore che prende il largo dalle ri-ve dell’Adriatico, chiamandolo mare dell’intimità. L’oriz-zonte poi si amplia, rivelando l’intero Mediterraneo, stori-camente e culturalmente mare della vicinanza. Matvejeviçpermette di riscoprire le infinite meraviglie delle rive e del-le acque, delle genti e delle culture, ricordandoci che il ma-re non è mai una scoperta individuale. Un’onda, una brez-za, una vela, sapranno rivelarsi solo se saremo capaci diguardarle anche con gli occhi degli altri, quelli di chi ci hapreceduto e quelli di chi vive sulle opposte sponde. Il Me-diterraneo lo si può insieme conoscere e riconoscere. Ilmare lo si deve al contempo abitare e coabitare. Non ci sipuò dire mediterranei senza fare ogni giorno esercizio diascolto, della natura, delle culture.

Melville Herman, Moby Dick o la Balena. Adelphi, Milano1994 (1a ed. 1851).Opera omnia, oceanica, di un mondo acqueo, in cui le for-ze interiori dell’uomo si materializzano in quelle esterioridella natura. Almeno una volta nella vita, sogniamo conIsmaele di darci alla navigazione, per scoprire la parte flui-

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da del globo. Seguiamo la sua rotta, condividendo ansie egioie, slanci e incertezze. Vivremo un’avventura gigantescacome la Balena Bianca che arriva a galla a tutta velocità daipiù lontani abissi, sollevando montagne di onde schiumeg-gianti. Assaporeremo la spaventosa magnificenza deglioceani, sia nei giorni di quiete che in quelli di tempesta.Una cronaca religiosa di miraggi e cetacei, di marinai e ba-leniere, di preghiere e maledizioni. Un inventario mitologi-co di arpioni e lenze, di code e pinne, di cacce e attese. Uninvito a trovare un imbarco sulla propria Pequod, a cono-scere il proprio Achab, alla ricerca del proprio leviatano.

Michelet Jules, Il mare, Il Nuovo Melangolo, Genova 2005(1a ed. 1861).Un libro che nell’Ottocento, per la prima volta, raccontadel mare incanti e conoscenze. Una narrazione insieme ro-mantica e illuminata, che s’avvia dal primo dei sentimentiumani al cospetto del mare: la paura. Sì, dalla paura cheprova anche il più coraggioso dei marinai, consapevole cheper noi, animali terrestri, l’acqua è elemento ostile. Il mareè stato per millenni, e in parte lo è tuttora, un profondoenigma, un terribile orizzonte. Malgrado ciò, ha una insop-primibile forza attrattiva, un eterno fascino. Michelet, uo-mo positivista, comincia il suo racconto con uno sguardosui mari, a partire dalle coste della Normandia e della Bre-tagna, per poi affrontare in successione la genesi, ossia lediverse forme di vita, la conquista, cioè le vicende marina-resche, la rinascita, attraverso le origini dei bagni. Una ri-scoperta necessaria alla salute del singolo e delle nazioni,alla possibile vocazione per il mare.

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Moitessier Bernard, La lunga rotta. Solo tra mari e cie-

li, Mursia, Milano 1991 (1a ed. 1971).Un viaggio iniziatico necessario per chi sogna una rotta,per chi arma una vela. Salite a bordo del Joshua, barcaoceanica e arca fantastica, diretta verso sconfinati orizzon-ti di libertà. Vivete insieme a Bernard, marinaio e sognato-re, per dieci mesi in alto mare, doppiando i grandi capi au-strali, fino ad approdare nelle favolose isole del Pacifico. Ildiario di bordo di un epico navigatore, in cui la narrazionedi onde, venti e astri si intreccia con i suoi tormenti. Quel-li che gli faranno preferire la pace alla vittoria, la libertà alpremio. Infatti, nel 1969, quando si trova a poche migliaiadi miglia dal traguardo della prima regata in solitario intor-no al mondo, decide di abbandonare e di rimettere la pruaverso Oriente. Pagina dopo pagina, onda dopo onda, so-stanzierà un’idea assoluta di vagabondaggio marinaresco.

Slocum Joshua, Solo, intorno al mondo e viaggio della

Libertade, Mursia, Milano 1999 (1a ed. 1900).Due libri in uno, cioè il primo resoconto di un viaggio a ve-la in solitario intorno al mondo e l’avventura di una fami-glia, quasi normale, in navigazione prima su un velierocommerciale e poi su una canoa a vela, nella seconda me-tà dell’Ottocento. Slocum è un esempio per tantissimi altrinavigatori, a cominciare da Bernard Moitessier che dedicòproprio a Joshua la sua barca più famosa. Nella prima par-te del libro, Slocum racconta in modo sobrio e puntuale lasua circumnavigazione del globo su un piccolo veliero diundici metri, che in origine era uno sloop utilizzato per lapesca. Un’avventura, secondo il comandante, alla portata

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di tutti, se armati di esperienza e pazienza. Molta pazienza,quella necessaria ad affrontare trenta ore al timone duran-te una tempesta, a sudare sul remo per uscire contro cor-rente da un porto, ad avanzare di poche miglia al giorno acausa delle maree.

Con altri ventiquattro titoli, completo questa ideale rosa deiventi letterari. Libri che consentono una prima navigazioneculturale, proseguendo una rotta odissiaca, sul vasto mare.

Bertone Giorgio (a cura di), Racconti di vento e di mare,Einaudi, Torino 2010.Biamonti Francesco, Vento largo, Einaudi, Torino 1991.Camus Albert, L’estate e altri saggi solari, Bompiani, Mi-lano 2003.Carozzo Alex, Zentime, Nutrimenti, Roma 2008.Cassano Franco, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari2007.Coleridge Samuel Taylor, La ballata del vecchio marina-

io, Mondadori, Milano 2010.Coles K. Adlard, Navigazione a vela con cattivo tempo,Mursia, Milano1991.

Conrad Joseph, Tifone, Mondadori, Milano 1998.Conti Ugo, Una storia di amore con il mare. Viaggio so-

litario su un gommone a vela attraverso i quaranta

ruggenti, Mursia, Milano 2007.Corbin Alain, L’invenzione del mare, Marsilio, Venezia1990.D’Arrigo Stefano, Horcynus Orca, Rizzoli, Milano 2003.Heyerdahl Thor, Kon-Tiki. 4000 miglia su una zattera

attraverso il Pacifico, Robin, Roma 2002.

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Hugo Victor, I lavoratori del mare, Mondadori, Milano1995.Izzo Jean Claude, Marinai perduti, E/O, Roma 2004.Janichon Gerard, Damien: 55.000 miglia dallo Spitsberg

ai mari australi, Mursia, Milano 1980.Mollat Du Jourdin Michel, L’Europa e il mare dall’anti-

chità ad oggi, Laterza, Bari 2004.Mutis Alvaro, Trittico di mare e di terra, Einaudi, Torino1997.Pessoa Fernando, Il marinaio, Einaudi, Torino 2005.Riedl Rupert, Fauna e Flora del Mediterraneo, FrancoMuzzio, Padova 2010.Savi-Lopez Maria, Leggende del mare, Sellerio, Palermo2008.Schmitt Carl, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.Stevenson Robert Louis, L’isola del tesoro, Einaudi, Tori-no 2006.Valery Paul, Cimitero marino, Mondadori, Milano 2000.Verga Giovanni, I Malavoglia, Mondadori, Milano 2004.

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Il web è oggi il più frequentato degli oceani, capace di farsognare o di restituire utili, concrete esperienze. Siti comee-Utopie o e-Americhe, isole fantastiche o continenti con-creti, per veleggiate libere anche in rete. Se L’Utopia diTommaso Moro è una narrazione fantastica della miglioreforma di repubblica, le e-Utopie sono narrazioni virtualidelle migliori forme di navigazione. Inoltre, come Rodrigodi Triana, il marinaio della caravella Pinta che per primoavvistò la terra dopo la prima lunghissima rotta atlantica,anche noi ogni giorno possiamo scoprire nuove e-Ameri-

che, terre elettroniche altrettanto favolose. Luoghi carichidi suggestione e profumi, che quotidianamente fanno rivi-vere le emozioni di Cristoforo Colombo. Basta un click for-tunato per raggiungere nuovi approdi e farci ripetere:“quando arrivai qui a questo capo, giunse un odore cosìbuono e soave di fiori o alberi di questa terra, che era la co-sa più piacevole del mondo”.Quello che segue è un elenco minimo, non esaustivo, nonragionato, ma frequentato; porti di partenza per smisurati

Web Ocean

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e-orizzonti. Anche in questo caso 32 rombi per altrettan-te direzioni di prima navigazione sul web. La mescolanza digeneri è il secondo tratto che accomuna questa rassegna disiti, con quella precedente di libri. Qui si incrociano auto-costruttori, navigatori, riviste, associazioni, forum, blog etante altre rotte. La rete è anche un’ottima via d’accesso a innovative for-me di vagabondaggio, non solo virtuali. Inutile dilungarsisulle potenzialità del web anche per scambiare pareri,leggere opinioni, incontrare appassionati. Altrettantoinutile è l’elenco delle criticità, ma non dobbiamo dimen-ticare che la vela è prima di tutto una pratica concreta,che le arti marinaresche sono ascrivibili alle culture ma-teriali. La rete è dunque imprescindibile oggi per qualsia-si tipo di approfondimento, per riempire le vele di ognipassione, consapevoli però che la navigazione acquea ri-chiede ancora calli e sudore, dimestichezza con le cime,confidenza con i verricelli. Almeno la libera vela raccon-tata in queste pagine.

http://www.amicidellavela.it/Forum di velisti con diversi orizzonti.

http://www.artenavale.it/Rivista sulle barche tradizionali e sulla cultura del

mare.

http://www.barcapulita.org/Sito di due velisti giramondo di grande esperienza.

http://www.bcademco.it/Piani di costruzione, barche in kit e progettazione.

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http://www.bolina.it/Mensile sull’andar per mare a vela, con passione e

semplicità.

http://www.cantierino.it/Sito degli autocostruttori e degli appassionati di picco-

le barche.

http://www.chasse-maree.com/Rivista francese sulle barche tradizionali e sulla cultu-

ra del mare.

http://www.charts.noaa.gov/NGAViewer/Region_5_NGA_ViewerTable.shtmlCarte nautiche di base consultabili online gratuitamente.

http://www.circuitopiccolanautica.com/Associazione che promuove la piccola nautica.

http://www.cruisersforum.com/Forum internazionale dei velisti giramondo.

http://www.diecipiedi.it/Associazione di appassionati di micro barche autoco-

struite e innovative.

http://dinghycruising.org.uk/ Associazione inglese degli appassionati di dinghy e

delle molteplici opportunità di viaggio.

http://www.federvela.it/Sito della Federazione Italiana Vela, dove si trovano

anche ottimi manuali scaricabili gratuitamente.

http://www.findacrew.net/Sito per la ricerca di imbarco o equipaggio in tutto il

mondo.

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http://home.clara.net/gmatkin/design.htmPiani di costruzione gratuiti per piccole barche.

http://www.hisse-et-oh.com/Sito francese dedicato agli autocostruttori.

http://www.leganavale.it/Sito della Lega Navale Italiana, storico ente pubblico

che promuove la pratica e la cultura del mare.

http://maregratis.blogspot.com/Blog sulla gratuità e cultura del mare.

http://marinaiditerraferma.blogspot.com/Blog sui piccoli cabinati e sulla crociera costiera.

http://www.nautica.it/Mensile sulla nautica da diporto.

http://www.ocsg.org.uk/Sito inglese sulla canoa a vela.

http://www.pbo.co.uk/Mensile inglese sulla nautica da diporto.

http://ruotenelvento.wordpress.comBlog di un appassionato dei carri a vela.

http://www.stw.fr/Sito francese dei grandi viaggi a vela.

http://www.sullacrestadellonda.it/Associazione per la valorizzazione della cultura del

mare.

http://www.trail-sail.org.uk/Associazione inglese dei carri a vela.

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http://www.unionevelasolidale.orgAssociazione delle realtà che operano nel sociale attra-

verso la vela.

http://www.velanet.it/users/veliero/Sito sulle piccole barche carrellabili.

http://www.venticinquemilamiglia.it/Sito di un giramondo in barcastop.

http://www.voilesetvoiliers.com/Mensile francese sulla vela.

http://www.walkabout.it/Sito di due velisti giramondo con la passione per l’in-

novazione.

http://www.woodenboat.com/Mensile americano sulle barche in legno.

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Alla fine di questa navigazione isso il gran pavese, in omag-gio ai preziosi consigli ricevuti da Luigi Divari, Davide Gno-la e Paolo Lodigiani, abili marinai e attenti cultori dell’artemarinaresca. Un sentito grazie anche ai fratelli della co-

sta, con cui ho condiviso veleggiate reali e fantastiche, tut-te accomunate dall’orizzonte ecologico e libertario raccon-tato in queste pagine.Un ringraziamento particolare a Chiara, amorevole, pazien-te e severa Penelope.

Torre Pedrera, prima Luna nuova 2012.

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Gran pavese

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Gaia Onlus, il pianeta che vive e che legge

L’Associazione Gaia Animali & Ambiente nasce nel 1995 per iniziativa di ungruppo di giornalisti, di ambientalisti, di animalisti e di imprenditori nel campodella comunicazione, tra i quali Edgar Meyer (attuale presidente), ricercatore,storico dell’ambiente e giornalista, Stefano Apuzzo, ex-parlamentare, giornali-sta ambientalista e scrittore, Stefano Carnazzi, scrittore e direttore editoriale diLifegate Magazine e Lifegate Radio.L’Associazione promuove, da subito, campagne di forte impatto mediatico. Leiniziative sono prevalentemente per la difesa degli ecosistemi e delle forestepluviali, contro l’abbandono degli animali, per lo sviluppo sostenibile, per la dif-fusione dei prodotti “bio”, per la salute umana. L’Associazione viene ricono-sciuta come Onlus – Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale e collabo-ra con ministeri e istituzioni nazionali e locali. Dal settembre 2004, viene creato Gaia Lex, il centro di azione giuridica del-l’associazione che si occupa di dare informazioni e risposte alla richiesta di as-sistenza legale dei cittadini sui temi dei diritti animali e della salvaguardia am-bientale. La collaborazione con aziende amiche dell’ambiente, e la denuncia di attivitàproduttive devastanti per l’ecosistema, rendono Gaia un’associazione attentaal mondo delle imprese e alla comunicazione. Dal 2006, Gaia è titolare della collana editoriale intitolata “I Libri di Gaia – Eco-alfabeto” con la casa editrice Stampa Alternativa, con la quale sono stati pub-blicati diversi libri sulle tematiche dell’ambiente e della sostenibilità, dei dirittianimali, della salute umana e della sicurezza alimentare. Tra i titoli pubblicati ri-cordiamo: Fido non si fida, Qua la zampa, Bimbo Bio, Homo scemens, Dallaluna alla terra, Quattrosberle in padella, Foglie di fico, Farmakiller, EcoLogo,Cosmesi naturale e pratica, Le ecoconserve di Geltrude, Ecoalfabeto, Unitedbusiness of Benetton, Senza trucco, La città del Sole, Bici ribelle, Quattrozam-pe in tribunale, Urbi et Orti, Ambientiamoci, Nuovo bestiario postmoderno e al-tri scritti, La dieta comica, Ortobimbo, L’orecchio verde di Gianni Rodari.

Gaia Animali & Ambiente Onlus è in Corso Garibaldi 11 a Milano (tel/fax02.86463111 – mail: [email protected]), con sedi decentrate indiverse città italiane, in Congo (R.D.) e in Gabon.

www.gaiaitalia.it

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Indice

Prima di mollare le cime 5

1. Vela, ecologia e libertà 19

2. Un uomo, una barca 29I velisti 29Le barche 36Le storie 42

3. Barca minima, rotta massima 54Due orizzonti: l’usato e l’autocostruzione 58Terzo orizzonte: l’imbarco 62Un tempo, un sogno 64

4. Altre vele 83Acquee 84Terrestri 90Aeree 92

Prontuario velico 95

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EcoalfabetoCollana diretta da Marcello Baraghini e Stefano CarnazziCoordinatore della collana: Edgar Meyer

© 2012 Fabio Fiori

© 2012 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri

ISBN 978-88-6222-290-7

www.stampalternativa.it

email: [email protected]

Finito di stampare nel mese di aprile 2012

presso la tipografia Iacobelli srl – Pavona (Roma)

foto di copertina: © raven - Fotolia.com

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