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classici del contemporaneo edizioni aab 125 VALERIO ADAMI ED ENRICO BAJ NELLE COLLEZIONI BRESCIANE

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VALERIO ADAMIED ENRICO BAJNELLE COLLEZIONIBRESCIANE

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VALERIO ADAMIED ENRICO BAJNELLE COLLEZIONIBRESCIANE

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COMUNE DI BRESCIAPROVINCIA DI BRESCIAASSOCIAZIONE ARTISTI BRESCIANI

aab - vicolo delle stelle, 4 - Brescia24 settembre - 19 ottobre 2005orario feriale e festivo 15,30 -19,30lunedì chiuso

mostra a cura di Fausto Lorenzi

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OPERE DI ADAMI E BAJDA COLLEZIONI BRESCIANEFausto Lorenzi

La proposta di opere di Valerio Adami (Bologna, 1935) e di Enrico Baj(Milano 1924 – Vergiate 2003) tra quelle presenti in collezioni privatebresciane vuole segnalare una documentazione nient’affatto banale esporadica di questi autori – così radicati nel crogiuolo milanese dellaseconda metà del ’900, ma così in dialogo con la più viva cultura euro-pea, specie francese, e basti ricordare come Adami sia stato uno degliartisti d’elezione della Fondazione Maeght – nella nostra area. Va a que-sto proposito rilevata l’attività di gallerie quali la Multimedia di Roma-na Loda, la San Michele di Gianfranco Majorana, o la Nuova Città di Al-berto Valerio (la mostra nasce anche come omaggio al gallerista appe-na scomparso), per la frequenza con cui hanno proposto lavori di que-sti artisti, ma sono anche da ricordare negli anni ’90 eventi di rilievopubblico, come nel 1993 l’antologica del disegno di Baj in Palazzo Mar-tinengo in città, e nel 1995, a inaugurare l’attività della Fondazione Am-brosetti di Palazzolo, la selezione di opere di Adami nelle collezioni ita-liane proposta all’Abbazia Olivetana di Rodengo (in collaborazione conlo Studio Marconi di Milano). Milano fu soprattutto negli anni ’50 e ’60 al centro del “miracolo ita-liano”, con una formidabile creatività diffusa. Rileggendo a ritroso, si ri-leva che davvero quel periodo, specie nel primo decennio, fu pienod’intelligenza e originalità anche perché incontaminato, perché la furi-bonda ansia di aggiornamento all’Europa non rese Milano una attarda-ta periferia, ma al contrario ne stimolò energie e solidarietà. C’eraqualcosa di romantico, nel buttarsi a capofitto nel nuovo e nel non-co-dificato. Fu il periodo dei gruppi e delle riviste, dei partiti che chiede-vano agli artisti di fiancheggiare le ideologie, ma anche d’una borghesiacolta che sostenne le arti, e di istituzioni come la Triennale che offri-rono edizioni memorabili. Se i problemi formali furono dibattuti nell’asprezza dei contrasti socia-li e politici, oggi si può scoprire tra i fronti contrapposti una contiguitàfatta di costanti confronti e travasi, fermenti e aperture verso Parigi, ilNord Europa, New York: soprattutto risulta già consapevolmente av-viato il superamento delle frontiere tra pittura, scultura, architettura earti applicate, così come l’uscita dagli statuti tradizionali dell’arte.In breve giro d’anni, si assiste all’emergere delle ricerche che miravanoa inglobare lo spazio e la luce nell’opera, e di quelle che recuperavanoarchetipi formativi; poi al predominio della materia, del gesto, del se-gno; quindi alle istanze concretiste estese all’ambiente. Si posero infine

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le istanze di una nuova figurazione, volgendo la riflessione su una for-ma figurale che tenesse conto dell’arbitrarietà del reale.Si era partiti, uscendo dai disastri della guerra, con gli artisti che sidibattevano nella drammatica presa di coscienza della crisi di un’in-tera civiltà, non solo figurativa. Era esploso lo scontro fra realisti so-ciali e astratto-concreti, ma comune era la tensione morale, il biso-gno di adesione alla vita, in una stagione di grandi speranze. Negli an-ni ’50 si era sfociati in una stagione più inquieta e allarmata, dove an-che la dissoluzione dell’arte di figura e di racconto nell’informale fa-ceva spazio ad un’urgente testimonianza esistenziale. Infatti gli anniCinquanta segnarono anzitutto a Milano l’affermazione dell’informa-le, che anche ai figurativi ed agli astratto-concreti pose la questionedi un richiamo alla radicalità esistenziale quale terreno di testimo-nianza all’origine stessa del linguaggio. Il gesto, il segno, il materismocoinvolsero tutti. Sul fronte dell’aggiornamento all’Europa, il Movimento nucleare (che,manco a dirlo, era antinucleare) segnalava una filiazione dal surrealismo,in diretto collegamento coi Lettristi parigini (un puro, incalzante assem-blaggio di segni) e il Cobra (dalle iniziali delle capitali – Copenhagen,Bruxelles, Amsterdam – di artisti, quali Appel, Corneille, Constant,Jorn, che tra il 1948 ed il 1951 investirono l’Europa con un’ondata diespressionismo violento, primordiale e istintivo, nel disperato vitali-smo di chi era scampato alla catastrofe): veniva fondato a Milano nel1951 da Enrico Baj, Sergio Dangelo e Joe C. Colombo, e coinvolsepersonaggi come Gianni Bertini, Piero Manzoni e Asger Jorn che ve-niva proprio dal Cobra. Il nuclearismo muoveva dall’atomo come fungo o vorticosa concen-trazione energetica, tra automatismo materico, macchia e colaturad’inchiostro, dripping e gestualità violenta, uso di smalti industriali. Neltentare di sondare un ritmo profondo delle emozioni, inquietudini eallarmi per la condizione umana frantumata e disintegrata (e la figuraumana era ridotta a uno stato fetale, loro dicevano di “prefigurazione”)si mischiarono a un tipo d’arte che valorizzava anche il gioco, l’ironia,ciò che il potere non può comprendere, e perciò – come ricordavaBaj – «era bello starci dentro». Col gesto, il dripping e le macchie evo-cavano un nucleo atomico creativo e distruttivo assieme, con l’incubodei mutanti, degli ultracorpi (Baj s’ispirò al titolo di un film di fanta-scienza dell’epoca). L’atto della creazione in sé diventava più importante dell’oggettocreato, e i realisti sociali radunati attorno a Guttuso, Pizzinato, Trec-cani accusavano i nucleari di essere pittori della borghesia decaden-te. Ma li esponevano i Gesuiti, alla San Fedele. Ed anche il recuperodella figurazione, nella seconda metà degli anni ’50, – come si accen-

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nava sopra – avvenne in chiave esistenziale e fenomenologica, a met-tere in campo le zone inesplorate dentro il “buio” degli uomini e, fuo-ri, i tormenti e i fallimenti.Ma ormai, alle soglie degli anni ’60, si faceva predominante un’inter-pretazione del senso dell’opera d’arte non tanto in se stessa, quantonell’insieme delle relazioni che creava. E sarebbe arrivata la Pop Art aimporre all’arte ed agli artisti di fare i conti con il dominio della mer-ce sulle coscienze.Enrico Baj e il più giovane Valerio Adami, emerso alla fine degli anni ’50,stanno appieno in quel crogiuolo, tra la metà degli anni Cinquanta e lametà dei Sessanta, che portò molti artisti alla ricerca di una “nuova fi-gurazione” che passasse oltre ogni contrapposizione ideologica trarealismo (ormai sfociato nell’accademia) e concretismo. È l’epoca del-la crisi delle ideologie, la realtà si offre in tutta la sua ambigua fram-mentazione e complessità, nella dialettica con l’immaginazione, l’emo-zione, il sentimento. I nuovi dadaisti ed i “nuovi realisti” (il movimentosi articola attorno al critico-guru Pierre Restany tra Parigi, Nizza e Mi-lano) cercano di trasferire nell’opera d’arte frammenti della civiltà deiconsumi, degli oggetti; ci si avvia alla grande simulazione della Pop Art

delle immagini di massa.Ci troviamo così al fondo degli an-ni ’50, ai “realisti esistenziali”, co-me li chiamò il critico Marco Val-secchi, con cui parecchio s’incro-ciò Adami (Guerreschi, Ferroni,Ceretti, Vaglieri, Bodini, Romagno-ni, il primo Tadini), che scoprivanol’essenza della condizione umananell’esilio: l’uomo sradicato pre-sente nei relitti, la confessioned’uno scacco dopo i sogni di fon-dazione d’un uomo e d’una so-cietà più buoni sulle macerie dellaguerra. Nella loro ricerca di unnuovo valore di visione filtrano lamateria e le tensioni dell’informa-le, come le pulsioni inconsce e lescritture automatiche del surreali-smo, attraverso una consapevolez-za tecnica che mira a cogliere le“possibilità di relazione” con la fi-gura. Una consapevolezza che èanche etica, civile, ma fuori dalletraballanti frontiere ideologiche, in

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Valerio Adami, Interno Esterno, 1973pastello su carta, cm 76x57Brescia, collezione privata

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presa diretta invece con la condizione umana o, per usare un’eti-chetta “alta”, con il disagio della civiltà. Sono imbevuti degli umoridell’esistenzialismo, in sintonia con le sperimentazioni linguistiche evisive dell’epoca, guardano alla letteratura e al cinema, tra nouveau ro-man di Butor, Duras e Robbe-Grillet ed école du regard cinematogra-fica di Resnais, di Bergman, di Antonioni. Cioè ai grandi autori dellacrisi, del procedere frammentario, del tempo interiore e dei com-portamenti visti come secrezioni naturali, decostruiti nel puro suc-cedersi ed associarsi in uno spazio inerte.Accanto a loro, artisti come Castellani e Manzoni – incominciando ainterrogarsi sulla “zona dell’immagine” – volevano invece rifondare illinguaggio artistico abolendo policromia e composizione in qualsiasiaccezione. Tensioni concettuali e compromissioni con i limiti della ma-teria e del destino dell’uomo.C’è stata una tendenza a vedere alla soglia degli anni Sessanta unacesura netta, laddove si nota anche un ritmo accelerato delle vicen-de artistiche verso una dinamica di consumo: agirebbe una vera epropria svolta innovativa, di definitiva rottura di un progetto educa-tivo dell’uomo e della società affidato alle arti, mentre gli eventi deidecenni di mezzo del secolo, compresa la deflagrazione dell’infor-male, sarebbero stati l’esaurimento di istanze e filoni delle avan-guardie del primo Novecento. Andavano in crisi gli statuti disciplinari dei media artistici tradiziona-li per far posto a esternazioni concettuali o viceversa alla nuova evi-denza degli oggetti. La svolta innovativa venne confermata sia dall’o-rientamento verso l’oggettività e verso l’oggettualità, sia dalla PopArt, l’arte delle merci e delle comunicazioni di massa.Se è vero che la Pop Art esplose come fenomeno internazionale nel1964 alla Biennale di Venezia, sancendo l’impero americano dei consu-mi anche nell’arte, gli artisti italiani – e fra i precursori proprio Baj, epoi anche Adami – erano già da tempo attenti ai popisti inglesi che era-no stati i primi, fin dalla seconda metà degli anni ’50, a gettare lo sguar-do sulla vita quotidiana, i grandi magazzini, l’arredo domestico e urba-no, cogliendone con anarchia e ironia la febbre vitalistica, il gusto del-l’effimero e del nomadismo che si accompagnava all’eccitazione consu-mistica. Gli italiani ne fecero altrettanto un pastiche linguistico, combi-natorio, col gusto dell’ironia e dell’aneddoto, tra giocoso e sarcastico.Contro il dominio della merce, si sarebbero poi dichiarate le istanze ri-voluzionarie del ’68, dell’arte che scendeva in strada, avanguardia dimassa: il corpo contro l’immagine. In realtà fu su un terreno comunedi arte come esperienza che maturarono istanze che sembrano lonta-ne, nella percezione d’una nuova ambiguità tra realtà e simulazione, og-gi evidente al senso comune.

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La pubblicità – diceva Lichtenstein, antesignano della Pop Art america-na – ha costruito intorno a noi un nuovo paesaggio. L’arte prese dallascena urbana e dalla tv l’estetica della vetrina, che seduceva il pubblicodella società di massa. Visse proprio nella capacità di restituire un ri-specchiamento enfatico, deformante della scena urbana. E la fotografia– con altri mezzi di riproduzione seriale – fu allora definitivamente ac-quisita come arte fra le arti, volgendosi ormai la riflessione al valoredella ripetitività, della riproduzione e diffusione delle immagini in unasocietà che cominciava a triturare tutto nel consumo, nel dominio del-la velocità.Osservò in quei primi anni Sessanta il critico Gillo Dorfles che «l’Italia èforse tra tutti i Paesi europei, e gli stessi italiani non se ne rendono con-to, uno dei più moderni. Cioè uno di quelli che ha saputo sovrapporrealla sua veste antica anche un abito autenticamente moderno». A Mila-no, Baj fu tra i Nuovi realisti che prelevavano gli oggetti dalla realtà e litrasferivano direttamente nell’opera, in un linguaggio della quantità di as-semblaggi e impacchettamenti. Adami invece con Tadini, Pasotti, Del Pez-zo – tutti con galleria di riferimento il giovane Studio Marconi – inco-minciarono a raccontare la frammentazione della condizione umana, dioggetti e di corpi, confusi gli uni negli altri in montaggi fumettistici.Fu una ricerca anche su segni consumati, residui di culture arcaiche eclassiche, confluiti nell’universo industriale e nella società dei consumi.È vero che si era in anni di fiducioso boom consumistico, di società af-fluente, ma le ricerche popiste fecero aprire più di un occhio sulla me-scolanza culturale, tra Alto e Basso, e sugli aspetti allarmanti del domi-nio degli oggetti sulla nostra esistenza di consumatori e sulla congeriedi cose e immagini veicolate dai media. La rivoluzione fu linguistica, piùche di critica sociale, anche se molte erano le chimere politiche. Si pen-si solo all’estetizzazione del quotidiano. Nello scambio di immagini e tecniche con l’industria seriale ed i mas-smedia, gli artisti credettero di poter superare il punto di frattura, do-ve la vita finisce e l’arte incomincia, riscattando l’ambiente quotidianoe l’oggetto di consumo. Erano nutriti anche di jazz, cinema, moda, ca-sual. Era anche un modo per collocare le forme più evidenti e tipichedella società in un universo mitologico. Non era solo l’estetica del su-permercato americana, c’era un passato profondo, il peso e il sensod’una tradizione fatta affiorare anche con autoironia o con allarme.Questa particolare declinazione del pop ha fatto intuire coma la cul-tura di massa non sia fatta tanto dalle macchine quanto da un deposi-to di forme primitive che determina la lunga durata di certe strutturementali e modelli di vita interiore, anche quando sono interpretati conl’immediatezza visiva di segnaletiche pubblicitarie e stradali e di iconetelevisive.

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BAJ, IL PROUST DEL TROVAROBATO

In famiglia desideravano che facesse l’architetto, Enrico Baj invecescelse il gioco come «salvacondotto ludico-combinatorio alla vita»,contro l’eccesso di immagini eterodirette. Assunse anche il titolo di«imperatore analogico per l’Italia e i domìni cisalpini»: il suo imperoera la Patafisica, l’ironica scienza delle soluzioni immaginarie fondataa fine Ottocento da Alfred Jarry, che in Ubu Roi figurò il potere ottu-so, arrogante e ingordo. E Baj faceva parte infatti del Gran Collegio pa-tafisico con personaggi come Arrabal, Octavio Paz, Baudrillard, San-guineti, Dario Fo, Umberto Eco. Dal surrealismo all’informale, Baj fuuno dei pochi artisti italiani che immisero dal primo dopoguerra l’I-talia in un circuito europeo. Frequentò in grande amicizia – oltre aisopraccitati – personaggi come Breton, Duchamp, Man Ray, Queneau,Buzzati, Calvino, Giudici.Rileggendo la sua vita, si rivivono le avventure del dadaismo, del sur-realismo, del nuclearismo e dell’Internazionale situazionista, dellafantasia al potere del Sessantotto. Baj mischiava sghignazzo e sber-leffo, celebrando anche quei valori ornamentali e decorativi che purpartecipano della sorpresa del mondo: un pittore-carpentiere diun’arte parodistica e arcimboldesca, di bricolage anarchico di accu-

Edoardo Sanguinetti ed Enrico Baj a Pistoiafoto Mario Dundero, 2001

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muli e assemblaggi, di oggetti e stili, inseguendo tutta la forsennatadispersione dell’immaginario. Qualcuno aveva affibbiato a Baj l’eti-chetta di Premiata ditta scherzi & illusioni, per quel suo dipingere l’im-maginario. Lui diceva che «la pittura è più duratura della tv, consu-ma meno energia e non aumenta il disordine generale».Questo mondo, che Calvino ha definito come un «Mercato delle Pulcidi dopo la fine del mondo» è quello costruito da Baj con intento evi-dentissimo di dissacrare, provocare, distruggere finte certezze: parevaattaccare le strutture fondamentali di quello che, un tempo, alcuni chia-mavano l’ordine costituito; poi dava l’impressione di finire con l’appog-giarvisi, talmente prevedibile da diventare quasi inoffensivo. «Baj si comporta da perfetto illuminista in un mondo che della mito-logia della ragione ha fatto un vessillo (o una coccarda, una medaglia,una passamaneria …): lui, la ragione, la usa fino in fondo – ha osser-vato Flaminio Gualdoni presentando recentemente in una galleriaprivata bresciana una piccola retrospettiva di Baj –, non per farti cre-dere in qualcosa, ma per raccontarti continuamente le tue credenze,facendotene finalmente consapevole». Ma negli ultimi anni andava mugugnando con amarezza che non era piùattuale lo spirito dei tempi moderni, che nel dopoguerra aveva fatto spe-rare nel «non uccidere più bambini». Baj era infatti un fiero, acuto fu-stigatore dei suoi tempi, un sempiterno bastian contrario (lui libertario,anarchico e socialisteggiante, movimentista vicino ai sessantottini,provò per poco a fare l’assessore alla cultura con la Lega della primaora a Varese, ma gettò la spugna trovandosi a fare i conti con un asfit-tico localismo da cortile): la fantasia – disse – è sempre stata temutadal potere, tanto più dall’attuale massmediatico, «il più totalitario eomologante». Dai Funerali dell’anarchico Pinelli del 1972 (suscitarono de-nunce e sequestri) al Berluskaiser del 1994 (l’asservimento al sorrisosardonico del potere televisivo e consumistico), dall’Apocalisse del1978 alla Mitologia del kitsch, fino alle Maschere tribali che incarnano inuovi totem della nostra società e i lustrini che ci irretiscono, non hamai rinunciato a un bizzarro ma feroce impegno d’osservatore del co-stume politico e civile. Negli ultimi anni se la prendeva con i nuovi nomadi che non hanno an-sia di ignoto, ma di visibilità o sovraesposizione, con l’unica legge del«satellite sopra di me e il telefonino in tasca», paradossale esito del-l’imperativo di Kant «le stelle sopra di me, la legge morale dentro dime». André Breton scrisse del suo «costante e coerente impegno con-tro ogni forma di distruttività e di oppressione dell’uomo sull’uomo». In uno dei suoi ultimi lavori, presentato anche a Brescia dalla galle-ria di Alberto Valerio, I Guermantes (la grande famiglia aristocratica,agiata, colta e dissipata, protagonista della saga romanzesca Alla ri-

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cerca del tempo perduto di Marcel Proust), Baj ribadiva il bisogno diaccendere «piccoli focolai di arte spontanea» contro l’inquinamentodell’immaginario e del pianeta soffocato dai rifiuti della civiltà deiconsumi. Mostrava la sorpresa degli accostamenti fulminei tra bot-toni e frange coi modelli illustri del più grande romanzo psicologicomoderno: ne uscivano mascherine e pupazzetti grotteschi e tragici,tronfi e malinconici. Tornava anche qui lo spirito dei suoi celeberrimi, arroganti e vanitosiGenerali e Nobildonne degli anni Sessanta e Settanta, di cui troviamoesempi in mostra, nel ritratto beffardo, morale e psicologico, di una so-cietà in dissoluzione, ottenuto con l’inimitabile gusto di trovarobatomulticolore e luccicante – da mercato delle pulci – di medaglie, lustri-ni, nappine, chincaglierie, passamanerie, bottoni e ovatte. Dalle opere nucleari dei primi anni ’50, in cui il gesto, il dripping e lemacchie evocavano un nucleo atomico creativo e distruttivo assieme,con l’incubo dei mutanti, degli ultracorpi, all’anarchismo situazionista(per una Bauhaus immaginista), passando attraverso Generali, Mobili di sti-le, Specchi, Scacchi di Ubu, Maschere tribali, Impressioni d’Africa alla Rous-sel, teloni dell’Epopea di Gilgamesh, Personaggi idraulici, Baj è andatocomponendo una sorta di unico ciclo apocalittico, di allarmata mora-lità, ma trasposta in paradossi visivi sempre inediti.Nel 1993, a Palazzo Martinengo, ci fu una mostra di disegni di Baj, e quivenne anche a parlarci di ecologia dell’arte (titolo di un suo libro) conl’idea di fondo che se dobbiamo ripulire i fiumi dobbiamo prima ripu-lire la nostra mente. Il disegno – di cui pure si dà qualche esempio in mostra – lo si avver-te come il controcanto della sua battaglia contro la massificazione for-zata dell’arte e della vita (la folla, diceva, annulla ogni possibilità di per-cezione del fenomeno estetico, l’arte non può essere un costume econsumo di massa come una partita di calcio). Nel disegno Baj sembra immaginare un ordine per non perdere le trac-ce (si vedano i d’après dei quadri) di tutto quel suo bricolage anarchicodi accumuli e assemblaggi, nella combinatoria di oggetti e stili che in-segue tutta la forsennata dispersione dell’immaginario, a salvare dal rul-lo della pianificazione. Se l’opera di Baj si attraversa come una città dei balocchi fitta distrade sghembe e tortuose, che affida alle chiavi del grottesco e del-l’onirico di aprire la porta di accesso a un arricchimento dello slan-cio vitale – come gli ha insegnato il suo maestro Breton a proposi-to del riso – il disegno ci fa capire quanto di quiete, di contempla-zione e anche di risentita moralità prepari quell’esplosione di fuochid’artificio. Baj curava un vero e proprio inventario degli oggetti edelle figure, nel gusto di tutte le enumerazioni e di tutti gli accosta-

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menti possibili, in vista di pastiches e puzzles metamorfici e metafo-rici (a Metamorfosi e metafore era intitolata una mostra di Baj deglianni ’80). È giusto qui evocare anche il gusto di illustratore di libri d’artista, cheBaj ha coltivato costantemente come pochissimi altri autori, a confer-ma di una sua contiguità con la letteratura (dal De rerum natura di Lu-crezio al Paradiso perduto di Milton, passando per Breton, Queneau,Buzzati, Volponi, Calvino, Giudici, Sanguineti e tanti altri) che svela l’im-palcatura di racconto visivo a schidionata, in un’arte moltiplicatoria earcimboldesca dove una sorpresa ne genera un’altra. A schidionata, ma non rettilineo, in un artista che ama i sistemi di co-municazione aperta ma ha una pulsione labirintica, col segno che s’in-volve in arabeschi e ghirigori, e inventa un gioco di maschere, citan-do soprattutto gli amati Matisse (la linea continua e avvolgente), Du-champ (lo stravolgimento e disvelamento delle convenzioni linguisti-che), Picabia (le dissacranti e grottesche trasparenze intellettuali), Pi-casso (l’incessante metamorfosi vitalistica e parodistica), Rousseau ilDoganiere (il segno infantile nello stupore della scoperta fantasticadel mondo). La pittura è gioco e disvelamento, attraverso paradossi visivi inediti; neidisegni, è come se fossimo negli uffici dell’Oulipò, la società enigmisti-co-letteraria cui parteciparono amici di Baj come Queneau o Calvino:non c’è il colore, c’è quel segno vitalistico e gestuale che dà nuova, ta-lora ruvida verve anche al kitsch.Proprio a proposito del suo lavoro sui Guermantes di Proust, Baj dice-va: «Io e Proust siamo entrambi alla ricerca del tempo perduto»: Prou-st (1871-1922), com’è stato detto, non è un “io”, ma un luogo, un interomondo, e anche Baj ha voluto farci il ritratto di una società decadente.Aveva trovato la “sintonia” con Proust nell’ironica e paradossale visio-ne, diceva l’artista stesso, di un mondo cadente eppure vivacementescanzonato «nella scoperta e nell’uso di materiali obsoleti, tristi, con-sunti», che recano l’impronta del disfacimento delle cose umane. È daltrovarobato che scaturisce tutto un mondo perduto. In un pianeta soffocato da scarti e rifiuti della civiltà dei consumi, luiraccoglieva quegli scarti e mostrava la sorpresa degli accostamenti ful-minei tra bottoni e frange con i modelli illustri del grande romanzo psi-cologico moderno, intersecando immaginazione letteraria e figurativa.Nel 2001, a Brescia, in Cattolica, Baj ribadì il suo timore che gli Statitotalitari di altri tempi alla fine possano risultare meno oppressivi deicosiddetti Stati democratici odierni, in realtà di persuasione consumi-stica e massmediatica, che hanno mezzi enormi di ottundimento dellecoscienze: cercava perciò di insegnare a tutti, come a lui aveva inse-gnato Breton, il gran pontefice del surrealismo, che l’unica difesa è nel

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riso: «La patafisica può vantarsi di non essere inclusiva, di non volersiimporre a nessuno». Ecco la spiegazione del doppio binario dell’agire di Baj, tra protesta eironia: «I ragazzi di una volta – spiegava – giocavano a combinare figu-rine, Meccano, Lego: io ho continuato a giocare col Meccano. Qualcu-no dirà che sono rimbambito, ma io ne ho tratto grande gioia controquesta opprimente vita burocratica». Se irrideva le convenzioni banali, egli riconosceva nella libertà poe-tica delle azioni e delle idee una forza sociale da rispettare, come an-tidoto a tutte le forme di prepotenza e d’arroganza. «Antibellicistaper natura – scrisse Dino Buzzati a commento della sua opera – nongli dispiacerebbe scatenare una piccola guerra personale contro gliimbecilli, pur sapendo che sarebbe una causa perduta di fronte a unavversario così sterminato in numero e potenza». Baj ci ha detto cheil kitsch, lo “stile del cattivo gusto”, degli accumuli incongrui, è dav-vero lo stile dell’arte moderna, data l’enorme confusione che abbia-mo in testa e intorno, nella congerie di cose e visioni che fa la no-stra esperienza quotidiana.

ADAMI, LE REGOLE DI MONTAGGIO

Un nonno che s’era chiuso in una sua sordità, forse più d’elezione chedi menomazione, insegnò a Valerio Adami bambino a comunicare dise-gnando. «Se volevo un’aranciata, dovevo disegnare un bicchiere e colo-rarlo d’arancione. Sono rimasto fedele a quest’idea dell’immagine co-me linguaggio». Adami ha anche detto che l’autore della sua pittura, piùche lui, è «la tradizione italiana». C’è un suo quadro del 1984, Ascensione (non è in mostra), che è em-blematico dello stile di quest’artista: un viandante intraprende la scala-ta reggendo sulle spalle un tempietto antico. Lo sforzo di dominio su-blime della forma sulle passioni, dell’assoluta rifinitura lineare su una vi-ta spaesata e immersa nell’assurdo. Un neoclassico ridestatosi nell’etàdell’estetica della vetrina. Adami vive a Parigi ed a Meina, in una villa apicco sul lago Maggiore chiamata I diòsperi (cachi in greco): lo specchiodel lago chiuso in una cornice di classicità, come un’acqua senza incre-spature. Qualcosa di spinto ad essere già accaduto. L’evidenza freddadel catalogo, in opere che pur tengono conto di tutte le nuove nozio-ni e ibridazioni visive indotte dai mass-media. Ma, sotteso, filtra un va-go allarme metafisico.Il segno netto e duro, definitorio, incastona stesure piatte di coloripastello: è l’Adami proverbiale. Il suo cammino si è mosso tra due po-li: il disagio della civiltà massificata e il tempo interiore, ponendo la ri-

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flessione sulla forma come ultimoargine etico al vuoto d’orienta-mento. Da qui la ritualità pubblicadell’opera, l’oggettivazione nel lin-guaggio della grande comunicazio-ne: una progressiva coonquista diforme chiare, evidenti, universali,come lineare e nitido, schietto einfallibile s’era proposto d’essereil razionalismo illuminista del neo-classico. Ma la forma rigorosamen-te calibrata fa slittare verso unospiazzamento onirico.Oggi Adami chiama classicità e mi-to a mischiarsi nella vita quotidiana,in un’ambiguità lucida e favolosa. Èla tradizione italiana «che dipingeper me»: il mondo esatto, solido eprimitivo, il culto dell’opera porta-trice in sé, nella sua forma, d’un sa-pere assoluto. Il novecentista Achil-le Funi – il più grande affreschistadell’epoca, dopo Sironi – fu mae-stro di Adami a Brera: chiaro e so-lenne autore di mitografie, in un’at-

mosfera di stupore lucido, di racconto composto e pacato. Ma il paesaggio statico di sei secoli di tradizione italiana a cui guardaAdami ha la modernità d’una presa diretta con la condizione umanacontemporanea: il suo sguardo si è educato a ridosso degli anni Ses-santa filtrando le tensioni dell’informale e le scritture automatiche diderivazione surrealista nel procedere frammentario di possibilità di re-lazione con la figura. Partiva dalle istanze di partecipazione e commentodel realismo espressionista molto rivisitato all’epoca dagli antesignanidella Nuova Figurazione, ma ora si trattava di raccontare anche l’irra-zionale, l’inconscio, il biologico come parti della realtà (da ricordare fraquegli antesignani anche Giannetto Fieschi, rimeditato un anno fa pro-prio qui all’Aab, con opere in collezione bresciana). E, soprattutto, sitrattava di cogliere il cambiamento, la vitalità organica di un processodi formazione delle immagini fatto di continui aggiustamenti – di con-tinue messe a fuoco – tra esperienza diretta e vissuto interiore, tra for-ma e senso.Ecco allora l’avvio di Adami, alle soglie dei Sessanta, trattando le figu-re talora persino come pezzi informali, apparizioni tra grovigli di segni,ora forme sinuose e medusiache ora tralicci scheletrici, procedendo

Valerio Adami, Senza titolo, 1973acrilico su carta, cm 76x57Brescia, collezione privata

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anche a cancellature, o a macchie e grumi. Avrebbe dovuto essere untracciato sismografico sensibile alla fluidità del vissuto: non restò inveceche testimoniare della merce che entrava nell’intimo, inchiodando ininterni squallidi e luoghi urbani figure assenti, in uno spessore violentoe inquieto. Un gioco di esasperata spazialità – sarcastica, nevrotica, as-surda – in una sorta di montaggio tra tracce visive del suo tempo e l’e-sperienza vissuta, tra l’artificialità della visione e l’autenticità delle lace-razioni della coscienza. La linea segnala da allora lo sforzo di rassettare, di celare la polvere deltumulto, di far convivere linguaggi alti e bassi, come il fumetto che hafatto associare Adami a Lichtenstein (con Warhol grande profeta dellaPop Art americana): ma l’italiano faceva di quel gergo popolare una me-tafora d’una vita priva di memoria. Camere d’albergo, stanze da bagno,lavelli, latrine, piscine, tavoli, oggetti banali, in tonalità inacidite sotto lu-ci livide: luoghi e cose destituiti di storia e di futuro (sintomatico quiIncidente all’angolo, 1965). Una frammentazione violenta di oggetti e dicorpi umani, confusi gli uni negli altri, in interni anonimi.Ma arriva anche l’epoca, a metà anni ’60, degli omaggi agli artisti: Ma-tisse, cioè il ritmo perfetto del segno, parola sola «sonante comeun’onomatopea»; Gris, cioè la geometria cubista schiacciata, svilup-pata in incastro di piani. Ed è l’epoca, sul finire del decennio, dei luo-ghi di New York, avviliti, angoscianti: c’è sintonia col cinema della cri-si, l’école du regard francese.I primi anni ’70 segnano la critica politico-sociale, la progressiva en-trata in scena della figura umana (prima di spalle e di profilo), ma siribaltano negli anni successivi in un ritratto di individualismo eccen-trico: le immagini continuano a sedimentare la vita quotidiana sullatradizione visiva, ma è come se l’artista – dopo la serie dei ritratti deigrandi esploratori del flusso di coscienza, Freud, Joyce, Benjamin – sivolgesse a riflettere sul proprio destino, in un mondo che va semprepiù al disfacimento, al consumo esasperato delle immagini nella me-moria collettiva.Guardare diventa già un modo di giudicare entro le regole di montag-gio: come prima spersonalizzava i luoghi umani, ora decanta la psico-logia, racconta un’altra assenza, del nutrimento dei miti, della lettera-tura, del sogno. Conserva una narratività sempre disarticolata, ma oraè la struttura d’un custode dello sguardo desiderante, d’un sottile de-lirio: lo sguardo si stende all’orizzonte, la figura s’accampa al centrodella scena, ma sempre le forme si fanno prossime a uno slittamen-to, le linee a perdersi nel vuoto, nell’attesa. Come una sinopia chetraccia il progetto dell’affresco, ma non si sa se mai accoglierà l’ope-ra definitiva, compiuta. L’impianto ribadisce un disagio latente, nellasua trama delinea l’ordine perduto del mondo.

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Nell’allegorico Studio per una biografia raccontata in una clinica (1970-71), Adami ha ritratto una figura chiusa in un ordine contemplativod’una forma suturata: l’esercizio d’anatomia che spezza la prospetti-va, ecco la figura rituale della presente condizione umana.Iconosofo l’hanno chiamato; Calvino scrisse per lui, per quattro suoidipinti, Quattro favole d’Esopo: la sentenza morale affidata all’ordine di-segnativo, il colore come commento. Favole, mitologie, metafore sto-riche affidate a una maggior flessibilità del ductus, che nei decenni piùrecenti sembra fluire organicamente. Anche il colore, pur semprefreddo, si è fatto più melanconico, meno stridente. Racconta le oredel giorno, la natura, il lago, il cielo, l’artista reggitore d’armonia e l’uo-mo in viaggio. Dirime inesorabilmente spazi concavi e convessi. Valerio Adami è approdato all’allegoria, a quelle che lui chiama ap-punto figure rituali: pone il problema del disegno come cosa mentalee come sforzo di dominio assoluto sugli enigmi del presente. Adamiè un artista senza ombre (usa tinte piatte, perfettamente campite),che, dopo aver raccontato la frammentazione della condizione uma-na, si propone di portare al massimo grado di evidenza, di chiarezzaconcettuale, il ritratto delle passioni, collocandole sullo sfondo dei mo-di e dei luoghi della mitologia occidentale. La linea racconta una sto-ria, i colori danno a questa storia corpo e voce chiara e precisa, sen-za patetismo.Se negli anni ’60 questa storia fu la catastrofe dell’umanesimo perdu-to, detta nel modo più semplice e schematico, in disilluso sgomento,fondendo scienza classica del disegno e tecniche della comunicazio-ne di massa, dal fumetto alla Pop Art, negli anni ’70 questa storia sifece anche critica civile e sociale, tradotta sempre in problema di sti-le; poi negli anni ’80 e ’90 la ritrovata unità del corpo umano, comesimbolo di ogni evidenza figurale, e la comparsa del paesaggio e delmito raccontano della nostalgia d’una misura classica, d’una pienezzaumana, nell’essenzialità comunicativa.Adami dice: «Quando dipingo non sono altro che un cartografo sul-le tracce lasciate dai percorsi dell’immaginazione». È lo straordinariodel lavoro di pittore: «Vi si possono nascondere i propri segreti».L’aspirazione a un’arte che si nutre delle ragioni del presente, ma am-bisce a vivere in un enigma fuori del tempo, iscritta nella regola e nelmetodo dello stile.Aiuta ancora un’annotazione a taccuino dell’autore, quant’altri maiteorico del proprio fare: «Nel mezzo di un disegno, i vuoti d’orienta-mento, memorie infantili e immaginazione, cambiano linee serene inansia, in lupi, in forme deformi».Un artista nella stanza. La stanza del disegno. La stanza della poesia.La stanza dei colori. E quelle della memoria, dell’allegoria, del viag-

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gio, del notturno, eccetera: «Stanze, intrighi di stagione fra natura eimmaginazione, evocazioni e attese. È mattina presto e osservo il la-go, in ombre e squarci di luce, con il blu al limitare (l’estate sta perfinire). Nuovamente mi aggrappo al disegno, e nel pomeriggio saròallo scandaglio dei colori. Così l’idea debutta nella linea e la pitturasegue». Adami traccia disegni densi d’emozione, ma la pittura è perlui fino in fondo esercizio di razionalità, di costruzione di teoremivisivi.

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Valerio Adami(1935)

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Senza titolo, 1964tecnica mista, cm 52,5x70

Brescia, collezione dottor Vittorio Rosa

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Incidente all’angolo, 1965acrilico su tela, cm 73x90,5

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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La stanza da bagno, 1967pastelli su cartoncino, cm 55x42

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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La vetrina, 1969serigrafia a colori su carta, cm 50x60

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Concerto, 1970tempera, pastello e matite colorate su carta applicata su compensato, cm 76x54

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Senza titolo (Piscina), 1970litografia a colori, cm 61,5x76,5

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Pattinatrice, 1970/71acrilico su tela, cm 60x50Brescia, collezione privata

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Studio per una biografia raccontata in una clinica, 1970/71acrilico su tela, cm 130x97

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Buffalo Bill, 1971acrilico su tela, cm 73,5x60,5

Lumezzane, collezione commendatore Sergio Saleri

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Playback, 1971acrilico su tela, cm 67,5x55

Lumezzane, collezione commendatore Sergio Saleri

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Sauna, 1971litografia a colori, cm 69x79

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Diario coloniale, 1971/72acrilico su tela, cm 64x79Brescia, collezione A. P.

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Ritratto, 1972acrilico su tela, cm 116x89

Brescia, collezione A. P.

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Avec Anne dans les Dolomites, 1973tecnica mista su carta, cm 50,5x70

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Chi è la vittima? (Assassinio), 1973/74acrilico su tela, cm 129x97

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Pelouse (Interdite), 1974pastello e carboncino su carta, cm 57x77

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Studio per “Le peintre”, 1974acrilico su tela, cm 73x60Brescia, collezione privata

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Enrico Baj(1924-2003)

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Ritratto femminile, 1948 e 1954china su carta, cm 50x35Brescia, collezione privata

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Eroina, anni ’60collage, cm 75x60

Brescia, collezione Gianguido Scarampella

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Folla con generali e femmine, anni ’60disegno a penna su carta, cm 29x40

Brescia, collezione Gianguido Scarampella

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Omaggio a Manet, anni ’60collage, cm 60x65

Brescia, collezione Gianguido Scarampella

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Aussedaran II, 1965legni, acrilico, collage, cm 37x22x9

Brescia, collezione privata

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Epidemia di varicella, 1973acrilico e collage su tavola, cm 54x65

Brescia, collezione privata

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Il generale, 1975stampa con interventi manuali, cm 94x70

Brescia, collezione privata

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Gruppo di famiglia, 1976acrilico e collage su tavola, cm 46x56

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Senza titolo, 1977sanguigna e collage su carta telata, cm 50x70Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Cathérine Henriette de Balzac d’Entragues marquise de Verneuil,maîtresse de Henri IV, 1978

materiali diversi, cm 80x70Brescia, collezione privata

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Senza titolo, fine anni ’70acquaforte, acquatinta, rilievi a colori, cm 29,5x35

Brescia, collezione Bertelli-Rivadossi

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Senza titolo, fine anni ’70acquaforte e acquatinta a colori, cm 39x57,5Brescia, collezione architetto Luca Venturini

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L’archeologo, 1984bronzo e marmo, cm 85x60x40

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Service télépatique, 1989acrilico e collage, cm 50x65Brescia, collezione privata

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Nergal, 1995legni, acrilico e collage, cm 64x26x12

Brescia, collezione privata

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Personaggi, s.d.grafica su carta con collage di feltro, porporina e materiali vari, cm 70x100

Moniga del Garda, collezione Alberto Valerio

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Classici del contemporaneo - 7Valerio Adami ed Enrico Baj nelle collezioni bresciane

Mostra organizzata dall’Associazione Artisti Bresciani24 settembre - 19 ottobre 2005

Cura della mostraFausto Lorenzi con la collaborazione di Luciano Salodini ed Ermete Botticini

Comitato organizzativoErmete Botticini, Vasco Frati, Martino Gerevini,Giuseppina Ragusini, Luciano Salodini

Cura del catalogoVasco Frati e Giuseppina Ragusini

Progetto graficoMartino Gerevini

AllestimentoErmete Botticini

Referenze fotograficheOdeon di Taglietti e Tosato s.n.c.

AssicurazioneSocietà Cattolica di Assicurazione, Agenzia di Brescia

TrasportiCortesi s.r.l.

Segreteria dell’AABSimona Di Cio ed Erika Ruggeri con la collaborazione di Federica Galesi

L’AAB ringrazia per la preziosa e generosa disponibilitài collezionisti prestatori, le signore Catterina Rovizzi Valerioe Carla Pedersoli; il signor Gigetto Paci.

La mostra è dedicata alla memoria del gallerista Alberto Valerio.

Fotocomposizione e stampaArti Grafiche Apollonio – Brescia

Finito di stampare nel mese di settembre 2005.Di questo catalogo sono state tirate 300 copie.

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