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Arte, storia, cinematografia, archeologia, propaganda e testimonianze a cento anni dalla fine della Prima guerra mondiale VAL DI NON. SGUARDI SULLA GRANDE GUERRA

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Arte, storia, cinematografia, archeologia, propaganda e testimonianze a cento anni dalla fine della Prima guerra mondiale

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Arte, storia, cinematografia, archeologia, propaganda e testimonianze a cento anni dalla fine della Prima guerra mondiale

VAL DI NON. SGUARDI SULLA GRANDE GUERRA

COMUNITÀ DELLA VAL DI NONFONDAZIONE MUSEO STORICO DEL TRENTINOCOMUNI DI AMBLAR-DON, LIVO, PREDAIA, REVÓ, SANZENO, SARNONICO

Supervisione scientificaFondazione Museo Storico del Trentino

Ente promotoreComunità della Val di NonAssessorato alla cultura - Servizio istruzione e attività culturali

Comitato scientificoLucia BarisonMichele BellioAlessandro BezziLuca BezziAlessandro de BertoliniMarcello GraiffMarcello NeblNadia Simoncelli

Curatela percorso storicoNadia Simoncelli

Curatela percorso artisticoLucia BarisonMarcello Nebl

Progetto grafico e percorso espositivoLucia Barison, Marcello Nebl

Segreteria organizzativaCentro Culturale d’Anaunia Casa De Gentili

Testi catalogo e pannelli in mostraLucia BarisonMichele BellioAlessandro BezziLuca BezziCamilla NacciMarcello NeblMarco OdorizziNadia Simoncelli

ComunicazioneLucia Barison per il Centro Culturale d’AnauniaFrancesca Rocchetti per la FMST

VideointervisteMarco Rauzi, Ananas Video

Con il patrocinio ed il sostegno diRegione Autonoma Trentino - Alto Adige/Südtirol Provincia autonoma di TrentoComunità della Val di NonConsorzio BIM dell’AdigeComune di Amblar-DonComune di Livo Comune di PredaiaComune di RevòComune di SanzenoComune di SarnonicoCentro Culturale d’Anaunia Casa De GentiliApt Val di NonCasse Rurali Val di Non

Si ringraziano per la preziosa collaborazioneComune di Cles, Ufficio Attività CulturaliIstituto Tecnico C.A. Pilati, ClesLiceo Scientifico B. Russell, ClesMPLC - RomaHermann Rogger - Direttore Museo R. StolzEgarter Fritz - Sindaco di Sesto PusteriaGiovanni Pellegrini – MAG Museo Alto GardaClaudia Gelmi – MAG Museo Alto GardaAndrea Peraro - Cineteca di BolognaGianluca Fondriest - Centro Culturale d’AnauniaCamilla Nacci - Studio d’Arte Raffaelli

Un ringraziamento particolare va ai musei, alle gallerie d’arte, alle associazioni ed ai collezionisti che hanno messo a disposizione competenze, materiali e preziosi prestiti per l’esposizione e per il catalogo

Musei ed entiMuseo Rudolf Stolz, Sesto (Bz)MAG Museo Alto GardaMuseo di Forte Strino, Vermiglio (Tn)Fondazione Museo storico del TrentinoMuseo Storico Italiano della Guerra, RoveretoCineteca di BolognaSoprintendenza ai Beni Culturali di Bolzano, Ufficio Beni Archeologici

Gallerie d’arteStudio d’Arte Raffaelli, TrentoCellar Contemporary, TrentoBuonanno Arte Contemporanea, Trento

Collezioni privateFerruccio Mascotti - Cles Fabrizio Zenoniani - SalterMichele Gasperetti - Ville d’Anaunia Christian Stringari - Ville d’AnauniaAlessandro Branz - SanzenoCostantino Pellegrini - Cavarenodon Fortunato Turrini - ClesGianni Marchesi - RumoMarcello Graiff - ClesFamiglia Nebl - ClesCamillo BezziElio Bugna - ValdaoneTiziano Camagna - ClesAssociazione Ortler-Sammlerverein Erster Weltkrieg, Stelvio (Bz)

Un grazie anche ai prestatori privati che hanno preferito l’anonimato

Per l’aiuto che hanno voluto offrire a vario titolo alla mostra si ringrazianoFausto Garbato, Michele Corradini, Davide Odorizzi, Diego Pilati, Luca Zini, Luigi Marchesi, Caterina Tomasi, Quinto Antonelli, Felice Longhi, Giovanni Damaggio, Michele Scandella, Giulio Mendini

CENTRO CULTURALE

D ’ANAUNIACASA DE GENT I L I

Comune di Amblar - Don

Comune di Predaia

Comune di Livo

Comune di Sarnonico

Comune di Revò

Comune di Sanzeno

3 novembre 2018 - 20 gennaio 2019

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In occasione del Centenario della Grande Guerra, la Comunità della Val di Non, con la collaborazione ed il sostegno dei Comuni interessati, nonché della Provincia Autonoma di Trento, della Regione Trentino Alto Adige/Südtirol, del Consorzio Bim dell’Adige, con la supervisione scientifica della Fondazione Museo Storico del Trentino e la generosità di molti prestatori privati ed istituzionali, propone una mostra diffusa in sei dimore e palazzi storici della Valle (Palazzo Morenberg, Palazzo Endrici, Casa Campia, Casa de Gentili, Casa da Marta, Palazzo Laifenthurn).

La mostra si snoda attraverso un unico percorso espositivo suddiviso in tematiche che spaziano dal cinema, alla propaganda, all’archeologia di guerra con il coinvolgimento anche degli studenti dell’Istituto Tecnico Economico e Tecnologico Carlo Antonio Pilati di Cles, alle testimonianze nonese e trentine, al ruolo del clero durante il conflitto, con particolare attenzione alla figura del Vescovo Endrici.

Visitare la mostra e partecipare agli eventi collaterali della stessa, fermandosi a ricordare e riflettere su un conflitto brutale e sanguinoso che, anche se non ha trascinato la nostra Valle in una guerra sul campo, ha tuttavia determinato forti privazioni economiche con perdite e sofferenze umane che hanno colpito i nostri avi, può aiutare a prendere coscienza di quale fortuna si abbia nel poter continuare a vivere in un periodo di pace e libertà, nonché a formare o rinsaldare una cultura che rigetti con forza le ideologie legate ai totalitarismi e allo scontro fra popoli o nazioni.

L’assessore alla cultura Il Sindaco L’assessore alla cultura della Comunità della Val di Non del Comune di Sarnonico del Comune di PredaiaFabrizio Borzaga Emanuela Abram Elisa Chini L’assessore alla cultura L’assessore alla cultura L’assessore alla culturadel Comune di Sanzeno del Comune di Revò del Comune di Amblar-DonSerena Cicolini Alessandro Rigatti Bruna Pellegrini

L’assessore alla cultura del Comune di LivoLycia Bendetti

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PER UNA MEMORIA EUROPEA

La Grande Guerra fu la prima guerra di massa, un conflitto voluto da pochi e combattuto da molti. Una tragedia immensa, un’immane catastrofe, un momento di cesura a cui tradizionalmente ci si riferisce come al punto di inizio dell’età contemporanea. Su scala nazionale e sovranazionale, gli eventi del passato sono la risultanza di molteplici aspetti legati a ragioni storiche, economiche, politiche e sociali di portata internazionale. Su scala locale, gli stessi eventi si misurano più direttamente con le vicende delle comunità che abitano e hanno abitato il territorio. Per tali motivi, i grandi eventi della storia vanno sempre guardati anche con le lenti della storia locale, se si vuole comprenderne fino in fondo il significato e la portata.Ben venga, allora, un percorso di riflessione sul tema della Grande Guerra, come quello proposto dalla Comunità della Valle di Non assieme a numerose amministrazioni comunali e associazioni culturali del territorio in occasione del centenario del 1918. Momenti come questi servono per tenere viva la memoria di quegli eventi, che concorrono in maniera decisiva alla costruzione dell’identità di un popolo, e per proseguire una riflessione, che non deve mai interrompersi, sulle modalità attraverso cui la popolazione locale ha vissuto, percepito, compreso e ricordato la guerra. Fortunatamente la Valle di Non, a differenza di molte altre aree del Trentino, non ha conosciuto sul proprio territorio l’esperienza sconvolgente del campo di battaglia e quella miserabile della trincea. Ma ha sperimentato il mondo delle retrovie, ha accolto migliaia di profughi e ha patito il dramma e lo sradicamento delle partenze: migliaia di giovani costretti alla leva militare. In quegli anni, in un Trentino già profondamente diviso e segnato da eventi catastrofici, come la prima grande ondata emigratoria, si andò consumando un conflitto di portata internazionale le cui conseguenze si misuravano in ambito locale e nazionale. Quali segni profondi ha lasciato tutto questo sul territorio? E quali cicatrici ha prodotto nella vita della comunità? Nella dialettica tra la “grande storia”, quella degli eventi narrati nel loro quadro più generale su un piano geopolitico globale, e la “storia minore”, quella delle comunità locali, emergono senza dubbio i risultati più efficaci della ricerca e i contributi migliori delle attività volte alla divulgazione e al ricordo.Giunti al termine del Centenario – dopo una lunga stagione di studi sul tema della Grande Guerra, iniziata peraltro molto prima della ricorrenza del 2014/2018 – sappiamo che l’alternativa non è più tra la memoria e l’oblio ma tra diversi tipi di ricostruzione storica, diversi modi di valorizzazione del passato, diversi linguaggi, diverse memorie, diverse forme di divulgazione di quei fatti. In questa prospettiva, per dare un senso forte a questo Centenario dobbiamo sempre riferirci ai fatti della Grande Guerra come a una storia e a una memoria transfrontaliera, internazionale, inter-comunitaria. In una parola, una storia e una memoria europea. Solo così, pensando alla costruzione di un nuovo senso di “cittadinanza europea”, possiamo ricordare, non celebrare, i fatti di cento anni fa, le vittime e protagonisti di quella stagione. Non si dimentichi che il raggiungimento della Pace come bene ultimo e primario fu tra gli scopi principali dei padri fondatori dell’Europa Unita, rappresentandone di fatto il principio ispiratore.Per questi motivi, rivolgo il mio ringraziamento agli organizzatori del percorso espositivo ed editoriale “Val di Non. Sguardi sulla Grande Guerra” e a tutti coloro che hanno collaborato al gruppo di lavoro per ottenere questo importante risultato, un ulteriore tassello nel panorama degli studi sul primo conflitto mondiale.

Il Presidente della Fondazione Museo storico del Trentino Giorgio Postal

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Indice

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La Grande Guerra e il cinema. pag. 8

Illusioni, orizzonti e prati. Il Cinema e la Grande GuerraMichele Bellio pag. 9

Archeologia della Grande Guerra. pag. 14

Archeologia del ConflittoDai principi generali della disciplina al contesto particolare della Valle di NonLuca Bezzi, Alessandro Bezzi, Rupert Gietl, Kathrin Feistmantl, Giuseppe Naponiello (Arc-Team) pag. 15

Le trincee del Monte Peller Istituto Tecnico C.A. Pilati, Cles pag. 38

Il clero e la Grande Guerra: il caso del vescovo Endrici. pag.4 0

Celestino Endrici. Vescovo di Trento nella Grande GuerraMarco Odorizzi pag. 41

La Val di Non nella Grande Guerra. pag. 46

La Val di Non nella Grande Guerra. Esperienze, memorie, immaginiNadia Simoncelli pag. 47

Comunicare la Grande Guerra. pag. 82

Comunicare la Grande Guerra. Stampa, corrispondenza e propagandaNadia Simoncelli pag. 83

Quell’elettrica scossa. Arte e Grande Guerra. pag.102

Theodor Wacyk: un pittore dell’esercito austroungarico in Val di Non durante la Grande Guerra Marcello Nebl pag.104

Albert e Rudolf Stolz: fratelli e pittori al fronteLucia Barison pag.116

Notti d’estate per un concerto di NataleCamilla Nacci pag.132

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La Grande Guerra e il cinema.

A cura di Michele BellioCasa da Marta, Coredo

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Illusioni, orizzonti e pratiIl Cinema e la Grande GuerraMichele Bellio

La Prima Guerra Mondiale è un soggetto storico inevitabilmente affrontato da differenti cinematografie, a partire dagli anni del conflitto (possiamo considerare Maciste alpino di Luigi Maggi e Romano Luigi Borgnetto il primo film a citarne il contesto nel lontano 1916), fino ai giorni nostri.Riassumere in poche righe l’apporto di tutte queste riflessioni è compito ingrato, pertanto si è optato per concentrare il ragionamento su tre pellicole specifiche, le stesse che accompagneranno con proiezioni pubbliche l’esposizione nel cui catalogo questo breve testo è racchiuso.La scelta delle opere è dettata dalla necessità di trovare un filo conduttore comune in film estremamente distanti, sotto il profilo storico e culturale, ma anche e soprattutto visivo e narrativo. Ciò che accomuna i film selezionati è in definitiva l’approccio di condanna del conflitto, un tema che, come vedremo, si delinea in tre modalità distinte e ben definite.La prima tappa del nostro percorso è una pellicola francese, considerata una delle pietre miliari dell’intera storia del cinema mondiale. La Grande Illusion (titolo italiano La grande illusione), capolavoro di Jean Renoir datato 1937, è il film perfetto per iniziare il nostro ragionamento tematico, «un grido pacifista lanciato in un’Europa che ormai sta fatalmente precipitando nella follia bellica»1. Ci troviamo sul fronte franco tedesco, il capitano de Boëldieu (Pierre Fresnay) e il tenente Maréchal (Jean Gabin), il cui aereo è abbattuto in missione, vengono rinchiusi nel campo di detenzione di Hallbach. Qui, insieme a vari commilitoni, conducono una normale vita diurna da prigionieri di guerra, mascherando con perizia lo scavo di un tunnel che prosegue lentamente nel corso delle varie notti. Il trasferimento in un altro luogo impedisce la fuga tanto agognata, ma i due protagonisti non perdono tempo ad organizzare vari altri tentativi in altrettanti campi di prigionia, ottenendo, dopo numerosi fallimenti, di essere condotti all’impenetrabile fortezza di Wintersborn. In questo luogo, antico e isolato, incontrano

1 Bragaglia 1995

nuovamente il Capitano von Rauffenstein (un superbo ed indimenticabile Erich von Stroheim), l’ufficiale tedesco che li aveva abbattuti. Il rapporto tra quest’ultimo ed il Capitano de Boëldieu è qualcosa di incredibile ed inaspettato. Ultimi baluardi di una nobiltà europea in via di estinzione, i due uomini seguono un codice d’onore ed un insieme di regole cavalleresche che permettono loro di trascendere la diversa nazionalità ed il momento di conflitto per giungere ad una sincera e profonda amicizia, che avrà i suoi vertici nell’inevitabile sviluppo drammatico della vicenda:

«[...] il film suggerisce che i legami di classe possano essere più importanti della fedeltà alla propria nazione: l’ufficiale francese protagonista si capisce più con l’aristocratico comandante del campo tedesco che con i suoi stessi uomini [...]»2.

L’amicizia come esempio dei valori umani più nobili; la scelta di descrivere due nemici semplicemente come due grandi uomini, consci e rispettosi dei doveri morali e delle virtù dell’avversario. Basterebbero questi due aspetti a rendere il film meritevole di essere analizzato. Per sua stessa dichiarazione, Renoir cercava di descrivere la realtà umana che faceva parte della quotidianità della guerra, puntando a qualcosa di più grande:

«Ne La grande illusione mi sono sforzato di mostrare che in Francia non si odiano i Tedeschi. [...] Ero ufficiale durante la grande guerra e ho conservato un vivo ricordo dei miei compagni. Nessun odio ci animava nei confronti dei nostri nemici. Erano dei buoni Tedeschi come noi eravamo dei buoni Francesi. Sono convinto che lavoro per un ideale di progresso umano presentando sullo schermo una verità non alterata. Attraverso la rappresentazione di uomini che compiono il loro dovere, secondo le leggi sociali, nel quadro delle istituzioni, credo di aver dato il mio umile contributo alla pace mondiale»3.

2 Bordwell - Thompson 19943 Renoir 1974

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Tale concetto si lega a numerosi altri temi, che forniscono una visione completa ed acuta del particolare momento storico (il cambiamento socioculturale dell’Europa di inizio secolo e la ridefinizione delle classi sociali, la Grande Guerra come spartiacque della Storia), ma al contempo proiettano il film nell’Olimpo delle opere in grado di definire e, se necessario, combattere la propria contemporaneità. Non bisogna dimenticare che il film esce nel 1937. Presentato tra gli applausi a Venezia, dove vince il premio della giuria, scatena le ire della critica fascista ed è proibito dal regime nazista in Germania. Incontra invece un successo straordinario in patria e negli Stati Uniti, dove è citato come modello da molti grandissimi registi, a cominciare da John Ford.Più lontano da questo aspetto nobile e più incentrato sulla critica ad un sistema militare che tende a dimenticare la dignità dell’Uomo, trasformandolo in semplice pedina di cui disporre a piacimento sulla scacchiera del campo di battaglia, è il secondo film di cui ci occupiamo.Paths of Glory (titolo italiano Orizzonti di gloria), capolavoro antimilitarista firmato dal genio britannico di Stanley Kubrick, è un perfetto esempio del massimo livello produttivo raggiunto da Hollywood sul finire del suo periodo d’oro. Siamo nel 1958 e il film è prodotto dalla United Artists, storica casa di produzione, fondata tra gli altri da Charles S. Chaplin.Ambientato nella Francia del 1916, il film, che si apre sobriamente con semplici titoli su sfondo nero accompagnati dalle note della Marsigliese, ci porta da subito a distinguere due piani della narrazione: quello che descrive le alte sfere dell’esercito francese e la loro crudeltà, mista ad ottusità, nel definire da un castello («[...] il cui lusso civilizzato fornisce un contrasto sorprendente con le carneficine della guerra nelle

Erich von Stroheim ne La grande illusion

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trincee [...]»4) le mosse atte ad ottenere la vittoria in guerra, e quello della trincea vera, dove si muovono i soldati, gli uomini, le prime vittime sacrificali di un conflitto enorme ed incomprensibile. Un luogo dove si respirano varie forme di paura (più quella del dolore che quella della morte, come recita uno splendido dialogo del film) e dove la presenza di un ufficiale ed il suo supporto psicologico sono a volte capaci di modificare l’esito di una battaglia.Il fronte è quello francese. Il nemico è ovviamente tedesco, l’invasore, ormai alle porte. Ma nel film lo percepiamo solamente. Escluso il personaggio femminile dello splendido finale, nel film praticamente non compaiono tedeschi, ne sentiamo solamente gli spari.Un’analisi della guerra impietosa e crudele è riassunta in una trama esemplare, tratta dal romanzo parzialmente autobiografico di Humphrey Cobb. Spinto da un collega, un ambizioso generale francese (George Macready) ordina una complessa operazione militare, palesemente suicida. Dopo l’inevitabile fallimento, esige l’esecuzione per codardia di tre dei suoi soldati. All’umano colonnello Dax (un maiuscolo Kirk Douglas), avvocato penalista prima della guerra, va l’ingrato compito di tentare una difesa inutile.Magistralmente girato con un senso dello spazio unico ed una macchina da presa che si muove in maniera incredibile lungo costanti geometrie formali (numerosi carrelli laterali scandiscono i ritmi militari, lunghe carrellate a precedere e a seguire attraversano la trincea con sconvolgente senso della tensione, le inquadrature militari toccano vette di equilibrio e simmetria senza mai scadere nella gratuità della descrizione), è un film che andrebbe analizzato fotogramma per fotogramma per carpirne a fondo la straordinaria costruzione.Sotto il profilo umano il messaggio arriva forte e potente e trascende il contesto storico per diventare un universale grido di rabbia nei confronti della guerra (anche se in Francia, data l’ambientazione, il film fu decisamente poco apprezzato e venne distribuito solamente nel 1975). Indimenticabili molti elementi narrativi sotto questo aspetto: la descrizione del rapporto tra i soldati (piccoli giochi di potere e ripicche, ma anche solidarietà e affetto); gli agghiaccianti dialoghi con cui vengono liquidati i comprensibili comportamenti dei soldati spinti al

4 Ciment 1999

massacro («È l’istinto del gregge!»); la terrificante scena del processo marziale, palese momento in cui il potere non è disposto ad ascoltare le ragioni di chi con la sua morte deve diventare uno strumento militare («Poche cose sono più incoraggianti e stimolanti di vedere morire gli altri»); l’assurda e lunghissima camminata e l’intera cerimonia dell’esecuzione, devastante carnevalata che lede la dignità dell’Uomo, soprattutto se in realtà ligio al suo dovere («Sono morti meravigliosamente»).Nel finale, oltrepassata con nuovi elementi la vicenda dei tre soldati (centrale nel libro, più simbolica nel film), la pellicola trova un superbo volo poetico che la ricollega, per atmosfera, al capolavoro di Renoir. In un momento di svago dopo i drammi degli ultimi giorni, una giovane prigioniera tedesca intona un canto popolare, al quale gradualmente si aggiungono anche le voci dei soldati francesi. Kubrick stringe sui loro primi piani e ci rivela un universo in poche inquadrature: nostalgia di casa, perdita dell’innocenza, incomprensibilità del conflitto, voglia di superare le divisioni e molto altro. Ancora una volta l’elemento umano va oltre le definizioni militari, sfiorando l’infinito ed il sublime, elementi di cui tutti siamo almeno in parte composti.Ed è proprio l’elemento umano, il più scarno e umile, ad essere al centro del terzo film che prendiamo in esame. Stavolta restiamo in Italia e facciamo un salto cronologico importante, arrivando al 2014. Torneranno i prati è l’ultimo lungometraggio diretto da Ermanno Olmi (1931 - 2018), uno dei registi più significativi del nostro cinema, Palma d’oro a Cannes nel 1978 con L’albero degli zoccoli.Brevissimo, intenso ed incredibilmente sintetico, il film supera di poco i 70 minuti di durata ed è interamente ambientato in un avamposto militare italiano sull’Altipiano di Asiago (provincia di Vicenza, al confine tra Veneto e Trentino - Alto Adige) sul finire del 1917.Fotografato da Fabio Olmi (figlio del regista) in un’adeguata tonalità monocromatica, che elimina quasi completamente il colore, finendo per esaltare il terrificante biancore della neve, e musicato con perizia e pudore da Paolo Fresu, il film è liberamente ispirato al racconto La Paura di Federico De Roberto e deriva da tale testo una poetica voce narrante che accompagna saltuariamente l’azione.Riassumere gli eventi non è semplice e renderebbe poca giustizia alla freschezza della scrittura cinematografica. Ciò che Olmi mette in scena,

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come quasi sempre nei suoi film, è la quotidianità degli ultimi, la loro miseria, la loro disperazione di fronte ad un conflitto più grande di loro e ad ordini che non sono in grado di comprendere. Queste parole, scritte per L’albero degli zoccoli, funzionano anche in piccolo per Torneranno i prati:

«Quello che [Olmi] ha cercato di fare [...] è ricostruire il senso di una memoria, di una civiltà e di un mondo, di rappresentarne lo spazio e dentro a questo spazio le modalità di visione, di concezione della vita, di definizione di un sistema di rapporti»5.

Nell’avamposto ormai sommerso da oltre quattro metri di neve, dove il momento più atteso è l’arrivo del rancio e della posta (motivo per cui bisogna scavare un sentiero quasi quotidianamente), inizia a diffondersi il malcontento, insieme ad un’epidemia proveniente dai lontani Balcani. Giunto sul posto, un maggiore (Claudio Santamaria) chiede ai soldati di fornire in tempi brevissimi un nuovo punto di osservazione poco distante. Un’operazione suicida, dati i formidabili cecchini nemici appostati poco distante (un tema che, in piccolo, si ricollega al film di Kubrick), che non è salutata con entusiasmo dai soldati («È impossibile, questo è un ordine criminale!»). La paura e la stanchezza sono ormai la normalità per questi uomini, distrutti da anni di conflitto massacrante e spesso consci di essere solo carne da sacrificare al fronte (nel momento più drammatico, il tenente, contrario alle operazioni imposte, chiederà la conta dei caduti: «Niente numeri, voglio i nomi!»). Alcuni sceglieranno deliberatamente la morte, piuttosto che obbedire ad un comando assurdo, sebbene venga loro offerta una ricompensa («Io non voglio niente al mondo, solo voler bene ai miei figli»). La sconfitta si respira nell’aria ed è raggiunta poi dall’ordine di abbandonare la

5 Brunetta 1982

Jean Gabin e Pierre Fresnay ne La grande Illusion

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posizione, cui fa seguito l’ultimo brutale attacco del nemico.Olmi chiude la sua riflessione con due diverse, ma significative, scelte narrative. Dapprima sigilla il racconto di alcuni personaggi facendoli guardare in camera, sospendendo la narrazione in favore di una confessione diretta allo spettatore. In seguito inserisce nel montaggio una serie di immagini documentaristiche del conflitto, con l’intento di riportare la riflessione sul piano del reale, perché anche lo spettatore smaliziato di oggi possa rendersi davvero conto della drammaticità di quanto mostrato.L’umanesimo del regista raggiunge in questi minuti finali una delle vette della sua carriera artistica e ci dona un necessario sguardo di disgusto nei confronti di ogni conflitto, fonte di abbrutimento e disperazione per l’essere umano.La citazione con cui si chiude il film, concentrato di sapere popolare ed umiltà, ci sembra pertanto perfetta per siglare anche questa nostra breve riflessione sul tema: «La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai». Toni Lunardi, pastore.

Bibliografia

Bragaglia, Cristina1995 Storia del cinema francese. Roma: Tascabili Economici Newton: 38.

Bordwell, David - Thompson, Kristin1994 Film History: An Introduction. (trad. it: Storia del cinema e dei film. Milano: Il Castoro, 1998, vol. primo: 396).

Renoir, Jean1974 Écrits (1926-1971). Paris: Pierre Belfont (trad. it: La vita è cinema. Tutti gli scritti 1926-1971. Milano: Longanesi, 1978: 326-327).

Ciment, Michel1999 Kubrick. Paris: Calmann-Lévy (trad. it: Kubrick. Milano: RCS Libri S.p.A., 4. ed., 1999: 64).

Brunetta, Gian Piero1982 Storia del cinema italiano. Roma: Editori Riuniti: 3. ed., 2001: IV, 206.

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Archeologia della Grande Guerra.

A cura di Alessandro Bezzi e Luca BezziPalazzo Laifenthurn, Livo

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Archeologia del ConflittoDai principi generali della disciplina al contesto particolare della Valle di NonLuca Bezzi, Alessandro Bezzi, Rupert Gietl, Kathrin Feistmantl, Giuseppe Naponiello (Arc-Team)

PREMESSA

Il presente articolo ha per scopo principale quello di analizzare la Grande Guerra da un punto di vista archeologico, introducendo dunque il lettore al concetto fondamentale di Archeologia del Conflitto per poi passare a considerare la realtà della Valle di Non sotto l’aspetto di questa disciplina specialistica. Il primo capitolo sarà dunque dedicato ad una veloce disamina delle varie branche che in ambito archeologico si occupano dello studio degli scontri armati, soffermandosi su quella più generale e allo stesso tempo più speculativa (per l’appunto l’Archeologia del Conflitto), senza tralasciare un veloce accenno a quelle più tecniche e settoriali (come l’Archeologia dei Campi di Battaglia e l’Archeologia Militare). Nei capitoli successivi si illustreranno, invece, alcuni dei principali metodi di cui l’archeologia si serve sul campo per fare fronte alle diverse esigenze che le varie condizioni ambientali possono imporre (come nello studio dei siti della Prima Guerra Mondiale) e che hanno dato vita, nel corso del tempo, a vere e proprie specializzazioni. Si parlerà, dunque, dell’Archeologia Aerea, dell’Archeologia Glaciale, dell’Archeologia di Alta Montagna, dell’Archeologia Subacquea e della Speleoarcheologia. Un ulteriore accenno verrà inoltre fatto sull’Archeologia Orientale, quale esempio di un settore archeologico di stampo geografico in cui cominciano solo ora a definirsi delle linee di indagine legate al primo conflitto mondiale. Infine, come preannunciato, l’ultimo capitolo riguarderà la Valle di Non, con una breve panoramica dei principali siti riferibili alla Grande Guerra, considerando non solo le opere campali o le aree in qualche modo connesse alle esigenze belliche, ma anche i luoghi legati ad avvenimenti di carattere microstorico (che hanno coinvolto piccole comunità o addirittura singoli individui), molto importanti per approfondire gli aspetti sociali e psicologici della guerra, che (come si vedrà) sono parte integrante proprio dell’Archeologia del Conflitto.

L’ARCHEOLOGIA DEL CONFLITTO

Al giorno d’oggi l’archeologia è suddivisa in molte discipline interne che si differenziano soprattutto su base cronologica. Ne sono un esempio, in ambito europeo, l’Archeologia Preistorica e quella Protostorica, l’Archeologia Classica, l’Archeologia Medievale e Postmedievale, fino all’Archeologia Moderna. Oltre a queste suddivisioni temporali esistono, però, anche delle specializzazioni tematiche, che studiano un singolo aspetto della natura dell’uomo, analizzandolo da varie angolazioni. E’ questo il caso dell’Archeologia del Conflitto, il cui interesse principale è la comprensione del complicato tema dello scontro tra diversi gruppi umani, investigato da molteplici punti di vista (compresi quello culturale, sociale e persino psicologico). Questa speciale branca della disciplina è stata teorizzata soprattutto negli ambienti accademici del Regno Unito (in primis Bristol e Galsgow) ed è nota sotto il nome di Conflict Archaeology. Nonostante non la si possa considerare come l’unica specializzazione archeologica sul tema della guerra, è senz’altro quella di respiro più ampio, anche per un approccio che si potrebbe definire olistico (cioè impostato ad analizzare lo scontro nella sua totalità, non riducendolo alla mera sommatoria di singoli aspetti). Per questo motivo, ad esempio, nell’analisi complessiva di un conflitto, soprattutto se cronologicamente moderno, non vengono tralasciate nemmeno le considerazione più strettamente antropologiche, quali le possibili «motivazioni politiche e nazionalistiche» e le «nozioni di etnia e identità» (Saunders 2012). Ciononostante, come si è anticipato, l’Archeologia del Conflitto non è l’unica sottodisciplina archeologica ad occuparsi degli avvenimenti bellici. Esistono infatti ulteriori specializzazioni, caratterizzate da uno stampo più settoriale e da un approccio più tecnico e minimalista. Tra di esse vanno per lo meno citate

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l’Archeologia dei Campi di Battaglia e l’Archeologia Militare. La prima, nota soprattutto nell’accezione inglese di Battlefield Archaeology e «sviluppatasi a seguito delle ricerche dello statunitense Douglas D. Scott presso Little Bighorn (Scott- Fox 1987), si concentra sull’investigazione dei campi di battaglia attraverso la classica metodologia archeologica, ovvero attraverso indagini di survey (ricognizione) e di scavo stratigrafico. La seconda studia in maniera generica i siti militari, a prescindere che siano stati interessati da un conflitto armato o meno» (Bezzi et alii, 2018). In ogni caso, proprio perché oltremodo settoriali, sia la Battlefield Archaeology, sia l’Archeologia Militare possono essere ricondotte all’Archeologia del Conflitto, di cui rappresentano, in ultima analisi, delle estreme specializzazioni. Per comodità del lettore, dunque, all’interno del presente articolo si userà di preferenza il termine generico di Archeologia del Conflitto, dando per scontato che nella totalità dei casi riportati si dovrebbe parlare più propriamente di Archeologia del Conflitto Moderno (in quanto relativi alla Prima Guerra Mondiale). Si tralascerà quindi di specificare se un determinato intervento sia da classificare come Battlefield Archaeology (ad esempio una ricognizione o uno scavo su un campo di battaglia, Fig. 1), oppure come Archeologia Militare (nel caso di rilievi di postazioni fortificate) o, infine, con altri termini tecnici legati ad ulteriori sottodiscipline, cui non giova accennare. Ai fini della comprensione dell’approccio archeologico al tema della Grande Guerra sarà invece più utile illustrare, nei prossimi capitoli, le varie tecniche di cui gli studiosi si servono sul campo, dividendole secondo una classificazione basata sul metodo di indagine che, per necessità di cose, si deve adattare ai vari ambienti coinvolti dalle operazioni belliche. Per quanto possa apparire strana ai non addetti ai lavori, questa divisione interna rispecchia più fedelmente la professione dell’archeologo e, nonostante sia basata solo su semplici criteri logistici, comporta una discreta varietà, soprattutto se applicata alla Prima Guerra Mondiale. Infatti, anche solo considerando il Fronte Italiano, si può facilmente notare come il conflitto abbia interessato ambienti molto diversi tra loro, dagli immensi ghiacciai alpini alle alte vette rocciose, passando per laghi, fiumi e pianure, fino a raggiungere il mare. Tutto ciò si traduce in una serie di specializzazioni che, pur operando nell’ambito dell’Archeologia del Conflitto, hanno affinato le

Fig. 1: scavo archeologico di una postazione di artiglieria presso Col Bechei - BZ

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proprie tecniche alle esigenze ambientali, recuperando quanto già esistente nel panorama delle discipline archeologiche. I prossimi capitoli, dunque, illustreranno velocemente queste discipline, seguendo una prospettiva, per così dire, dall’alto verso il basso, introducendo il lettore ai concetti di Archeologia Aerea, Archeologia Glaciale, Archeologia di Alta Montagna, Archeologia Subacquea e Speleoarcheologia.

ARCHEOLOGIA AEREA

Tra le discipline che in tempi recenti hanno rivoluzionato l’approccio archeologico alla Grande Guerra va sicuramente annoverata l’Archeologia Aerea. Questa branca non va confusa con la cosiddetta Archeologia dell’Aria, di recente formazione e dedicata allo studio dei vari aereomobili storici e all’analisi archeologica dei loro crash sites (luoghi interessati da un incidente aereo). L’Archeologia Aerea si occupa, invece, dello studio e dell’interpretazione dei siti dall’alto, utilizzando velivoli di vario tipo e, in anni recenti, ha vissuto un forte sviluppo grazie all’impiego dei droni radiocomandati (Bezzi et alii 2009), alcuni dei quali sviluppati per finalità prettamente archeologiche (una branca nota come Archeorobotica, Bezzi et alii 2018). Nello

specifico dello studio della Prima Guerra Mondiale, l’Archeologia Aerea permette l’esplorazione di ampi territori tramite tecniche di telerilevamento (remote sensing), definendo delle Aree di Interesse (AOI, Areas Of Interest) che in seguito possono essere investigate da terra tramite ricognizioni mirate (survey). In questi casi l’osservazione del territorio da nuove prospettive a volo d’uccello e l’utilizzo di tecnologie laser (di tipo LIDAR, Light Detection And Ranging), in grado di scandagliare anche il terreno interessato da una fitta copertura boschiva, hanno permesso di scoprire le tracce della Prima Guerra Mondiale anche in alcuni zone in cui si era persa la memoria storica di un coinvolgimento diretto negli avvenimenti bellici.

Fig. 2: esempio di elaborato grafico di cartografia militare su base LIDAR riguardante l’area della Val Fiscalina/Fishleintal e del Monte Croce Comelico/Kreuzberg, BZ

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A trarre i maggiori benefici da queste tecnologie, dunque, è l’esplorazione archeologica sul campo che, da una parte, può basarsi su nuovi e più precisi elementi cartografici nel tentare di recuperare siti un tempo noti, ma ormai nascosti dalle mutazioni paesaggistiche causate dallo scorrere del tempo (rimboschimento, smottamenti, frane, ecc...); dall’altra, può usufruire di una vista privilegiata (dall’alto) nel leggere le tracce degli avvenimenti bellici su ampi territori, per pianificare al meglio le missioni a terra. Ad ogni modo, al di là dell’indagine a piccola scala, un ulteriore supporto dell’Archeologia Aerea allo studio generale della Grande Guerra è rappresentato dall’utilizzo di specifici droni radiocomandati al fine di documentare in tre dimensioni (a grande scala) i singoli siti già noti e specialmente le postazioni militari più esposte e difficilmente raggiungibili.Alcuni esempi pratici potranno forse rendere meglio

l’idea dell’apporto fondamentale che l’Archeologia Aerea ha fornito allo studio della Prima Guerra Mondiale. Per quanto riguarda l’utilizzo di dati LIDAR per l’esplorazione archeologica di ampi territori, un caso di studio esemplare è il progetto europeo1 dedicato all’indagine dei siti della Grande Guerra nei comuni di Kartitsch (Ostirol), Comelico Superiore (Veneto) e Sesto/Sexten (Alto Adige/Südtirol). Durante questa ricerca il modello 3D del terreno ricavato dal LIDAR (il cosiddetto DTM, Digital Terrain Model) è stato usato come cartografia di base sulla quale sono state georiferite mappe militari di vario genere (compresi gli schizzi eseguiti a mano), consentendo un’accurata pianificazione dell’esplorazione archeologica del territorio (Fig. 2). Nell’ambito dello stesso studio, ulteriori aree di interesse sono state individuate grazie al sorvolo di

1 Programma INTERREG Italia-Österreich

Fig. 3 (nella pagina a fianco): lettura aerea e successiva interpretazione tramite survey della stessa area interessata da trincee e postazioni di vario tipo, individuata nel comune di Comelico Superiore - BLFig. 4: fotografia aerea della postazione a nido d’aquila presso il forte Prato Piazza/Plätzwiese - BZ

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ampi territori mediante droni radiocomandati, che hanno consentito l’individuazione di tracce ricollegabili alla Grande Guerra, in seguito analizzate più nel dettaglio tramite ricognizioni terrestri mirate (Fig. 3). Infine, un esempio dell’utilizzo di droni radiocomandati nella documentazione di siti militari di difficile accesso è rappresentato dalla mappatura della postazione a nido d’aquila situata presso il forte Prato Piazza/Plätzwiese (Fig. 4), operata durante un progetto di rilievo tridimensionale delle evidenze della Prima Guerra Mondiale presenti nel territorio dell’omonimo passo alpino (Bezzi et alii [s.d.]) .I casi di studio sopra riportati dovrebbero fornire un’idea su come, in definitiva, l’Archeologia Aerea abbia permesso di identificare nuove aree interessate dalle vestigia della Grande Guerra e di ottenere delle documentazioni più dettagliate delle strutture e dei baraccamenti più inaccessibili, migliorando nel complesso la nostra conoscenza del paesaggio bellico. A ben vedere, tutto questo è dovuto soprattutto al fatto, già ricordato, che essa si basa su una visuale privilegiata (dall’alto), in pratica applicabile a quasi tutti gli scenari archeologici, eccezion fatta, ovviamente, per quelli subacquei e per quelli sotterranei.

ARCHEOLOGIA GLACIALE

Nel procedere con la nostra panoramica sulle specializzazioni archeologiche dall’alto verso il basso, il secondo posto è sicuramente occupato dall’Archeologia Glaciale. Il Fronte Italiano, infatti, ha interessato contesti montani fino a raggiungere quote ragguardevoli, come i quasi 4000 metri del gruppo Ortles-Cevedale e gli oltre 3300 metri della Marmolada. Proprio in corrispondenza delle vette più alte il terreno di scontro ha dunque attraversato i grandi ghiacciai alpini, dai quali, ai giorni nostri, tornano ad emergere le testimonianze del conflitto. La peculiarità dell’Archeologia Glaciale consiste soprattutto nel metodo di scavo, che deve giocoforza adattarsi ad un contesto ambientale in cui le strutture ed i reperti risultano sepolti non da strati di terra, bensì da accumuli di ghiaccio e neve. Per questo motivo ci si serve di

Fig. 5: cassetta di munizioni per mitragliatrice da un recupero archeologico presso il Gran Zebrù/Königsspitze - BZ

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strumenti particolari come i generatori di aria calda (soprattutto per liberare le strutture ostruite dal ghiaccio) o le pompe con getti di acqua direzionabili (per gli oggetti più piccoli). Nonostante le difficoltà logistiche imposte da un ambiente di lavoro estremo, per cui spesso è necessario approntare anche un bivacco di emergenza, le ricerche condotte con i metodi dell’Archeologia Glaciale sono in genere coronate da rinvenimenti eccezionali, dovuti soprattutto all’incredibile stato di conservazione dei reperti. Infatti le basse temperature, persistenti durante tutto l’arco dell’anno, favoriscono la preservazione anche dei materiali maggiormente deperibili, come quelli organici. Non sono rari, dunque, i ritrovamenti di oggetti e strumenti in legno (Fig. 5 ), di indumenti di vario genere (mantelli, giacche, calzature e cappelli) e persino di documenti (lettere, fogli di giornale e pagine di libri). Anche alcuni reperti metallici piuttosto comuni, come ad esempio gli elmetti, nei contesti glaciali sono spesso corredati da quelle parti deperibili che in genere non si conservano in altri ambienti, come, nel caso appena citato degli elmetti, i cinghiaggi in cuoio e talvolta le etichette riportanti i nomi dei soldati. Persino i resti antropologici, che altrove si riducono in genere al solo apparato scheletrico (quando non puramente a singoli frammenti ossei), si conservano in condizioni eccezionali, che ricordano quelle della mummificazione (anche se in genere sono da ricondurre più correttamente al fenomeno della saponificazione, ovvero a quel processo chimico

che porta dalla trasformazione dei grassi corporei nella cosiddetta adipocera). Lo scavo archeologico di contesti glaciali risulta dunque fondamentale nello studio della Prima Guerra Mondiale e questo soprattutto perché la grande abbondanza di reperti e la perfetta conservazione delle strutture consentono talvolta di analizzare delle situazioni pressoché intatte, di fatto cristallizzate al momento del loro improvviso seppellimento sotto cumuli di neve o del loro immediato abbandono (Fig. 6). Questa situazione, caratterizzata dall’assenza di fenomeni posteriori che ne abbiano turbato anche

Fig. 6: baracca risalente alla Grande Guerra presso la cima del Gran Zebrù/ Königsspitze

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solo parzialmente l’assetto originario2, è definita in archeologia “capsula del tempo” ed è purtroppo tanto rara quanto potenzialmente informativa (spesso relegata ai soli contesti glaciali o a quelli subacquei di naufragio). C’è però un altro motivo che fa dell’Archeologia Glaciale una miniera di informazioni utili alla comprensione del periodo bellico nel suo complesso ed è sempre legato alle estreme condizioni climatiche: l’alto livello di conservazione di microrganismi (e di materiale biologico di vario genere) all’interno dei ghiacci. Queste informazioni sono di fondamentale importanza per lo sviluppo di analisi di stampo bioarcheologico e paleopatologico, legate dunque a branche archeologiche che si dedicano allo studio dei resti organogeni, nel primo caso, e a quello delle malattie, nel secondo (con particolare interesse per l’Influenza Spagnola, nel periodo della Grande Guerra).Prima di concludere questo veloce excursus sull’Archeologia Glaciale, vanno forse menzionate

2 Se si eccettuano parziali dinamiche di deterioramento e di crollo per le strutture e alcune trasformazioni tafonomiche per i cadaveri.

alcune delle missioni più recenti operate nel territorio regionale, considerando il fatto che le difficili condizioni di lavoro rendono questo genere di operazioni piuttosto costose e dunque rare (anche per il frequente supporto aereo fornito dagli elicotteri per il trasporto di persone, strumenti e reperti). Tra gli interventi effettuati dalla Soprintendenza per i Beni Culturali di Trento vanno ricordati lo scavo e la musealizzazione del sito di Punta Linke nel gruppo Ortles-Cevedale (ad opera dell’Ufficio Beni Archeologici; Bassi et alii 2016) e le operazioni presso il Corno di Cavento nel gruppo Adamello-Presanella (Ufficio Beni Architettonici). La Soprintendenza per i Beni Culturali di Bolzano (Ufficio Beni Archeologici) si è invece occupata della baracca riaffiorata dal ghiacciaio pensile presso la cima del Gran Zebrù/Königsspitze, attraverso un recupero di emergenza del materiale mobile ed il rilievo 3D della struttura.

ARCHEOLOGIA DI ALTA MONTAGNA

Uno degli aspetti che hanno più colpito la fantasia del grande pubblico sulla Prima Guerra Mondiale è stato quello legato ai combattimenti di alta

Fig. 7: operazioni archeologiche presso la Croda dei Rondoi/Schwalbenkofel nelle Dolomiti di Sesto/Sexten - BZ

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montagna, per cui questo tipo di conflitto è stato spesso definito con termini evocativi, come Guerra Verticale, Guerra d’Aquile o Guerra Bianca. In effetti una natura spesso spettacolare ha fatto da scenario a numerosi teatri di scontro in quota, basti pensare ad esempio al Fronte Dolomitico. L’aspra bellezza di questi luoghi ha imposto la costruzione di arditi trinceramenti e di postazioni strategiche (spesso in posizione precaria, ma dominante). I ruderi di questi particolari esempi di ingegneria militare, in guerra riforniti da innovativi sistemi di teleferiche, sono ancora ben visibili, anche se danneggiati dai normali effetti del tempo e, talora, da azioni di spoglio indiscriminato. La disciplina che si occupa dello studio e del recupero di questi siti è l’Archeologia di Alta Montagna, che utilizza tecniche in grado di effettuare ricognizione ad ampio raggio in territori non ancora noti, oppure di ottimizzare gli interventi in aree già individuate. Tra le difficoltà maggiori di questa disciplina vi sono quelle logistiche, talvolta derivanti dalla necessità di allestire un campo base per le missioni più lunghe, oppure dal bisogno di raggiungere postazioni particolarmente esposte a causa del crollo dei sentieri, dei camminamenti e delle scale lignee che le servivano durante il conflitto. Le soluzioni che permettono di effettuare questo tipo di lavoro prevedono le tecniche tipiche dell’alpinismo (con corde, discensori, ecc…), ma un aiuto non indifferente deriva, come si è visto, dall’utilizzo dei droni di nuova generazione e dunque dall’Archeologia Aerea. In ogni caso, nonostante le condizioni di conservazione delle strutture e dei reperti siano sicuramente peggiori rispetto a quelle degli ambienti glaciali, la difficoltà di accedere a determinati siti ha spesso salvaguardato questi luoghi dall’azione dei recuperanti abusivi e di tutte quelle persone, che prive dei necessari permessi, sono soliti frequentare i campi di battaglia alla ricerca di cimeli della Grande Guerra. I danni di una tale attività non riguardano soltanto la sottrazione di reperti da aree archeologiche, con una conseguente decontestualizzazione dell’oggetto in sé e quindi con una drastica riduzione del suo potenziale informativo. Di fatto questo rappresenta il male minore, data anche l’abbondanza di certe classi di reperti nel panorama della Grande Guerra. Il danno peggiore è invece rappresentato dallo sconvolgimento della normale stratigrafia archeologica dovuta ad operazioni di scavo abusivo e, soprattutto, dalla deliberata rimozione o distruzione di strutture, in genere lignee, ancora sostanzialmente integre, al solo fine di recuperare

oggetti mobili metallici. I siti più difficilmente raggiungibili, come quelli di alta montagna, sono stati dunque risparmiati dai danni di un recupero abusivo di reperti (selettivo, ma scientificamente acritico), ma, soprattutto, sono sopravvissuti pressoché indenni anche a quella fase, ben più deleterea, che nell’immediato dopoguerra e per vari anni a venire ha visto lo spoglio di numerose postazioni militari per il recupero di materiali utili in edilizia. Per questo motivo l’Archeologia di Alta Montagna è ancora in grado di offrire nuove informazioni utili alla comprensione delle dinamiche che hanno interessato il fronte alpino della Grande Guerra, soprattutto attraverso l’analisi di quei contesti in cui sono sopravvissuti i sistemi dei trinceramenti, delle postazioni di artiglieria e, almeno in parte, dei baraccamenti, con i relativi collegamenti costituiti da scale, passerelle e passaggi sospesi più o meno aerei, che rappresentano un interessante caso di adattamento dell’ingegneria militare a questo particolare contesto ambientale. In forza di ciò, negli ultimi anni si sono moltiplicate le spedizioni archeologiche volte a documentare lo stato attuale delle evidenze relative alla Grande Guerra nei contesti di alta montagna, prima che l’inevitabile degrado ne cancelli definitivamente le tracce. Un esempio di questo tipo di lavoro è rappresentato dalle recenti iniziative avviate dalla Soprintendenza per i Beni Culturali di Bolzano presso la Croda Rossa/Rotwand di (Ufficio Beni Archeologici) e la Croda dei Rondoi/Schwalbenkofel (Ufficio Beni Architettonici), nelle Dolomiti di Sesto/Sexten (Figg. 7 e 8).

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

La maggior parte degli interventi di Archeologia Subacquea riguardanti la Grande Guerra hanno per oggetto relitti di navi, sommergibili e vascelli di vario genere impiegati durante le operazioni belliche nei principali teatri di scontro navale, individuabili nel Mar Mediterraneo, nel Mare del Nord, nel Mar Baltico e nel Mar Nero (anche se di fatto la guerra interessò pure gli oceani). Ciononostante, ancora al giorno d’oggi, molti interventi si riducono ad una localizzazione del sito di affondamento e ad un mappatura di massima del relitto, senza vere e proprie missioni di scavo subacqueo, visto che spesso sono note la storia del natante e le dinamiche del suo naufragio. A fianco degli interventi in mare aperto, però, l’archeologia subacquea si è specializzata anche in un settore

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Fig. 8: operazioni archeologiche presso la Croda Rossa/Rotwand - BZ

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dedicato alle acque interne, ovvero ai laghi, ai fiumi e alle lagune. Questo settore, nell’ambito del Fronte Italiano della Grande Guerra, coinvolge anche gli specchi d’acqua del Trentino. In particolare, nella nostra provincia, le operazioni militari hanno interessato il Lago di Garda che, recentemente, è stato oggetto di un approfondito studio riguardante il suo fronte orientale. Proprio a questa ricerca (AA. VV. 2018), condotta su iniziativa del Liceo Classico Scipione Maffei di Verona, si rimandano quei lettori interessati ad approfondire gli avvenimenti che hanno coinvolto il più grande lago italiano durante la Prima Guerra Mondiale. In questa sede si vogliono invece ricordare quelle iniziative, tra e le quali spiccano le missioni intraprese dal Liceo Scientifico Bertrand Russell di Cles (TN) sotto la direzione del Professor Tiziano Camagna (Bezzi - Bezzi - Camagna [s.d]), che si sono dedicate all’esplorazione dei laghi di alta montagna. Si tratta, infatti, di un ambiente subacqueo ancora poco conosciuto, ma inaspettatamente ricco di storia legata ai conflitti armati della Grande Guerra. Le acque interne trentine nascondono talvolta delle sorprese, che aiutano a comprendere

meglio, anche da un punto di vista psicologico, il fenomeno della Prima Guerra Mondiale. Ne è un esempio il relitto della cosiddetta Barca dei Diavoli (Fig. 9), attualmente sul fondo del Lago Mandrone. Questa imbarcazione è stata costruita dagli Alpini del battaglione Edolo (i Diavoli dell’Adamello) su iniziativa del Capitano Castelli, probabilmente per tenere occupate le truppe durante i periodi più lunghi di inattività ed evitare così problemi legati all’insubordinazione (Viazzi 2014). Anche quando non celano rinvenimenti particolari, i laghi di alta montagna del Trentino custodiscono comunque innumerevoli reperti bellici, in genere quasi intatti in quanto non ancora violati dai recuperanti abusivi (vista la loro collocazione sotto il pelo dell’acqua) e dunque potenzialmente altamente informativi. Molti di questi, però, si classificano come ordigni inesplosi e dunque non sono stati al momento studiati perché ancora potenzialmente pericolosi. Un esempio di questo genere di reperti sono le svariate granate e proiettili di artiglieria presenti nel Lago del Monticello (Fig. 10), in un’area del resto ancora fortemente interessata da questo tipo di resti, ovvero quella delle montagne attorno al

Fig. 9: la Barca dei Diavoli, fotografata durante i rilievi del 2016

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Passo del Tonale. Sebbene sia solo ai suoi albori, dunque, l’esplorazione delle acque interne interessate dalla Prima Guerra Mondiale ha già dato alcuni frutti interessanti. L’auspicio è che l’archeologia subacquea nella nostra regione continui ad occuparsi anche delle evidenze lasciate da questo conflitto, per quanto le immersioni nelle acque trentine si dimostrino spesso più complessa rispetto alle missioni svolte al livello del mare. Infatti le varietà ambientali che caratterizzano i laghi ed i corsi d’acqua in montagna prevedono scenari che mutano notevolmente, dimostrandosi spesso estremi. Si va infatti dai 346 metri di profondità massima del Lago di Garda agli oltre 2500 metri di altitudine dei numerosi laghi alpini. Questa situazione non solo incrementa il livello di difficoltà delle missioni subacquea, dovuto ad una generica bassa visibilità e alle fredde temperature, ma costringe anche i sub ad un’intera giornata di acclimatazione prima dell’immersione nei laghi montani, a causa dell’elevata altitudine.

SPELEOARCHEOLOGIA

La Speleoarcheologia è una delle discipline più trasversali nell’ambito dello studio della Grande Guerra. Infatti la necessità di ripararsi dal tiro delle artiglierie nemiche ha spinto gli opposti schieramenti a scavare ripari nella roccia e nel sottosuolo, considerati più sicuri rispetto a strutture difensive approntate spesso nei periodi prebellici e dimostratesi talvolta non adeguate alle mutate esigenze di una guerra che si evolveva rapidamente (soprattutto dal punto di vista degli armamenti). Tali ripari si trovano in quasi tutti gli ambiti interessati dal conflitto, da quelli glaciali (con gallerie ricavate nella neve e nel permafrost), a quelli di alta montagna (dove le diverse tipologie di roccia hanno spesso influenzato i lavori di scavo), fino a quelli di pianura (anche con opere in terra). Per questo motivo le tecniche speleoarcheologiche sono spesso usate durante le missioni che hanno per oggetto postazioni militari della Grande Guerra. Durante questo tipo di interventi le operazioni più difficoltose riguardano la mappatura tridimensionale del sottosuolo,

Fig. 10: granata tipo SIPE sul fondo del Lago del Monticello

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Figg. 11 e 12: documentazione tridimensionale della galleria principale del Doss Alto e, nella pagina di destra, relativa mappa

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visto che i soprastanti livelli di roccia o di terreno non consentono la copertura del segnale GPS, ostacolando di fatto la geolocalizzazione dei vari ambienti. Per ovviare a questi problemi viene spesso utilizzata la stazione totale per la penetrazione in ambienti ipogei, talvolta coadiuvata da tecniche mutuate dalla robotica (algoritmi SLAM, Simultaneous Localization And Mapping), che consentono di ottenere modelli tridimensionali in tempo reale e di verificare dunque la correttezza dei dati raccolti già durante la fase di acquisizione. Alternativamente, i classici sistemi fotogrammetrici vengono utilizzate per i rilievi dei tunnel più lunghi e complessi (Gietl - Steiner 2016), sebbene questa scelta imponga tempi di elaborazione notevolmente più lunghi. Una tale tecnica è stato utilizzato, ad esempio, in uno degli interventi più recenti di speleoarcheologia operati in territorio trentino, ovvero la mappatura e la relativa documentazione tridimensionale della galleria principale del Doss Alto, nel comune di Nago-Torbole (Bezzi et alii 2018). Questo sistema di cunicoli scavati nella roccia è un ottimo esempio di come le postazioni in caverna della Grande Guerra vadano studiate nella loro connessione con le strutture belliche dell’ambiente circostante. Nella fattispecie i tunnel del Doss Alto, un’area protagonista di alcune aspre battaglie sia nel 1915 che nel 1918, sono collegati al sovrastante sistema di trincee da un pozzo verticale alto circa 11 metri e fornivano un valido rifugio alle truppe che presidiavano questa altura naturale trasformata in una vera e propria fortezza (Figg. 11 e 12). L’esempio del Doss Alto, dunque, dovrebbe chiarire come la speleoarcheologia sia fondamentale per comprendere appieno le dinamiche belliche di una guerra di trincea, in cui non tutto avveniva alla luce del sole, ma anzi molte attività fondamentali, dal semplice rifornimento di armi, munizioni e vettovaglie, all’osservazione dei movimenti nemici, avvenivano al riparo di anfratti naturali o, più spesso, artificiali, quando non direttamente in tunnel sotterranei. La funzione difensiva non era però l’unica a spingere gli opposti eserciti a scavare nelle viscere delle montagne: un’intensa attività offensiva era infatti affidata allo scavo di gallerie di mina, con l’intento di far saltare in aria le postazioni avversarie. Spesso, per neutralizzare questo genere di attacchi, si intraprendevano ulteriori scavi per intercettare i tunnel nemici, dando così origine a veri e propri paesaggi sotterranei (il monte Pasubio ne è un tipico esempio), che solo le tecniche speleoarcheologiche possono documentare e studiare, secondo i dovuti criteri scientifici e con le necessarie cautele.

ARCHEOLOGIA ORIENTALE

Il nome stesso della Prima Guerra Mondiale ci ricorda l’estensione reale di questo conflitto, che di fatto ha interessato buona parte del globo. Prima di considerare, dunque, le sue tracce nel nostro specifico territorio (la Val di Non) sarà bene accennare brevemente al contesto effettivamente mondiale della guerra, introducendo un’ulteriore differenziazione della disciplina archeologica, questa volta su base geografica. Infatti, nonostante l’attenzione degli studiosi occidentali si concentri spesso sui campi di battaglia del Vecchio Continente, esistono molte altre aree interessate dalle azioni belliche. Tra di queste, alcune sono

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comunque conosciute ai più, essendo legate a personalità di spicco che il cinema e la letteratura hanno saputo trasmettere anche anche al grande pubblico. Ne sono un esempio le aree del Vicino Oriente in cui si è svolta la Rivolta Araba, che vede le rocambolesche azioni del tenente colonnello Thomas Edward Lawrence, agente segreto, militare, archeologo e scrittore britannico, meglio noto come Lawrence d’Arabia. Meno conosciute sono invece le zone del Medio Oriente, tra cui l’odierno Iran, oggetto della cosiddetta Campagna Persiana, che vide contrapposte le forze anglo-russe a quelle dell’Impero Ottomano. In questo ambito si mosse anche il diplomatico Wilhelm Wassmuss (soprannominato Wassmuss di Persia), in un certo senso omologo tedesco di Lawrence d’Arabia. Lo stesso scenario ha anche visto le azioni della cosiddetta Dunsterforce, un distaccamento militare alleato formato da circa un migliaio di soldati delle forze di occupazione della Mesopotamia, provenienti da diversi paesi dell’Impero britannico. Sebbene l’Archeologia del Conflitto stia muovendo solo ora i primi passi nello studio di questi teatri bellici extraeuropei, non di rado le missioni di Archeologia Orientale sono incappate in tracce della Grande Guerra preservatesi nei luoghi più impensabili. Ne è un esempio il graffito inciso nel 1917 dal Sergente Lucas, del 21simo Lanceri (un reggimento inglese di cavalleria) all’interno del Palazzo dell’Apadana, eretto dal re Dario a Persepolis nella prima metà del VI secolo A.C (Figg. 13 e 14). Da rinvenimenti fortuiti di questo tipo, nonché dal crescente interesse per la Grande Guerra dovuto alla ricorrenza del centenario, sono nati, proprio negli ultimi anni, dei progetti di ricerca di Archeologia del Conflitto in seno a territori pertinenti a settori più ampi della disciplina, come appunto l’Archeologia Orientale (che si occupa, con varie specializzazioni, di Vicino e Medio Oriente). Un esempio su tutti può essere considerato il Great Arab Revolt Project, diretto da Neil Faulkner e da Nicholas Saunders, che si occupa proprio di indagare archeologicamente alcuni siti del sud della Giordania, che recano tracce dei conflitti armati legati alla Grande Guerra e, appunto, alla Rivolta Araba. Questo breve accenno all’Archeologia Orientale serve quindi non solo per ricordare che l’estensione della Grande Guerra ha toccato ambiti geografici molto distanti tra loro, soprattutto se si considera la guerra navale operata negli oceani, ma anche per portare all’attenzione del lettore uno dei settori più recenti (e promettenti) dell’Archeologia del Conflitto degli ultimi anni. Ad ogni modo, come si vedrà nel prossimo capitolo, la Prima Guerra Mondiale ha lasciato tracce anche nei territori che non hanno visto direttamente operazioni belliche di prima linea o veri e propri conflitti armati di ampie proporzioni. Ed è questo uno dei motivi principali per cui le sue vestigia sono ravvisabili anche in Val di Non.

LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE DELLA GRANDE GUERRA IN VAL DI NON

Da un punto di vista strettamente militare la Val di Non non può essere considerata come una delle aree di primaria importanza nell’economia generale della Grande Guerra. Infatti la valle distava dalla prime linee effettive, delle quali le più vicine, da un punto di vista logistico, risultavano essere le trincee e le postazioni del Tonale. Vista la sua posizione geografica, dunque, la Val di Non fu interessata da poche opere campali, approntate soprattutto con funzione difensiva in caso di sfondamento del fronte solandro. Tra di queste

Figg. 13 e 14: il palazzo dell’Apadana a Persepoli e il graffito lasciato dal Sergente Lucas

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si segnalano alcune semplici trincee sul Monte Peller e la Tagliata della Rocchetta (Straßensperre Rocchetta; Fig. 15), la cui importanza strategica, almeno prima dello scoppio delle ostilità, non era marginale. La fortificazione, infatti, era stata costruita tra il 1860 ed il 1864 a difesa della città di Trento, con l’intento di arrestare un’eventuale penetrazione italiana dalla Val di Sole, attraverso la Val di Non. Già verso la fine del 1915, però, gli alti comandi austroungarici si resero conto che tale possibilità era remota e la struttura venne disarmata e declassata a magazzino. Al di là delle opere campali propriamente dette e della Tagliata della Rocchetta, la Val di Non preserva ancora i resti di altre strutture in qualche modo connesse con il conflitto, anche se non pianificate per essere direttamente coinvolte negli scenari operativi. Ne sono un esempio le aree adibite all’addestramento delle truppe, tra cui i vari campi per le esercitazioni (übungsplatz), come quelli nei territori di Cles, Romeno e Cavareno (in genere dotati di vere e proprie trincee per istruire i soldati alle tecniche di questo tipo di guerra; Fig. 16). In questo scenario possono essere annoverati anche i casini di tiro al bersaglio (esemplare quello di Cles; Fig. 17), considerando che allo scoppio delle ostilità l’attuale Trentino si trovava di fatto sguarnito dei reggimenti dei Kaiserjäger e dei Landesschützen, spediti sui campi di battaglia della Galizia e dei monti Carpazi. Per questo motivo l’organizzazione di una difesa territoriale fu impostata, almeno inizialmente, sul richiamo degli iscritti ai casini di bersaglio, giovani e anziani, ovvero sugli Standschützen. Ovviamente, come nella maggior parte dei paesi toccati, seppur indirettamente, dal conflitto, oltre a queste evidenze archeologiche concentrate in aree periferiche (in genere campestri o boschive), anche in Val di Non esistono edifici che all’epoca erano sede di caserme o dei comandi locali. Queste vestigia sono in genere riconducibili all’ambito di studio dell’Archeologia Urbana e spesso si preservano quasi intatte fino ai giorni nostri.

Fig. 15: planimetria della Tagliata della Rocchetta - Österreichisches Staatsarchiv

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Il territorio anaune preserva però anche altre tipologie di siti, meno strutturati, ma di un certo interesse scientifico: i luoghi connessi a singoli eventi, in genere collegabili ad un ambito microstorico (legato ad un villaggio, una comunità od un singolo individuo), che spesso conservano la memoria di avvenimenti di piccola portata, ma fondamentali per comprendere al meglio gli anni del conflitto sotto aspetti per così dire più intimi. A questo proposito sono particolarmente interessanti, a titolo d’esempio, i luoghi legati alla vicenda di Narcisio Fondriest, detto “Bora”, nascostosi sul Monte Peller dopo essere stato ferito per ben due volte al fronte (Eccher 2017). Purtroppo ad oggi non si ha ancora certezza sull’esatta ubicazione della grotta in cui trascorse gran parte dei suoi quasi tre anni da imboscato, sebbene se ne conoscano con relativa sicurezza gli spostamenti, dalla frazione di Caltron alla località “dei tre sasi”, fino alla cavità naturale che elesse a suo rifugio, presso il monte Peller. Sempre a titolo d’esempio di un sito dalla connotazione

microstorica, questa volta legata ad una comunità e non ad un singolo individuo, si può citare il luogo in cui sorgeva il cosiddetto “bàit dei Russi”, ovvero la baracca presso Cavareno, che nel 1917 ospitò alcuni prigionieri di guerra russi, serbi e bosniaci, impiegati nella riparazione dell’acquedotto.Da un punto di vista archeologico, dunque, la Val di Non, seppur lontana dai campi di battaglia, conserva una varietà di vestigia della Grande Guerra di un certo interesse, soprattutto perché in grado di fornire informazioni nel campo, ancora poco investigato archeologicamente, delle zone limitrofe alle aree direttamente interessate dagli scontri armati. Qualora studiati in maniera sistematica, infatti, questi territori potrebbero aprire nuovi scenari per approfondire la nostra conoscenza sulle dinamiche interne di un conflitto armato di queste proporzioni, dagli approvigionamenti a lungo raggio di armi, munizioni e viveri, all’addestramento delle truppe (nei vari übungsplätze), fino agli scenari microstorici che, come abbiamo visto, aprono nuove prospettive per approfondire quegli

Fig. 16: le trincee dell’übungsplatz di Cavareno

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aspetti sociali e psicologici della guerra, studiati dall’Archeologia del Conflitto.Al giorno d’oggi, però, il problema principale legato all’Archeologia del Conflitto in Val di Non non è rappresentato solo dalle scarse conoscenze in materia, dovute in gran parte all’assenza di un progetto univoco in grado di coordinare le azioni scientifiche sul campo, ma anche dalla mancanza stessa di interventi archeologici veri e propri. Ad oggi, infatti, non esistono missioni ufficiali di Archeologia del Conflitto nel territorio noneso, ovvero operazioni effettuate sotto la direzione scientifica degli organi competenti (la Soprintendenza per i Beni Culturali della Provincia Autonoma di Trento ed il suo l’Ufficio Beni Archeologici), o almeno condotte con le tecniche proprie del metodo archeologico. Ciononostante è auspicabile che nell’immediato futuro si attuino delle politiche volte ad investigare e salvaguardare i siti della Grande Guerra in questo contesto territoriale. Altrettanto fondamentale è evitare tutti quegli interventi che, pur avviati con le migliori intenzioni, si riducono in definitiva in

un semplice sterro, cioè nella rimozione acritica e simultanea di tutti gli strati archeologici che obliterano una struttura parzialmente o totalmente sepolta, con grande danno per la comprensione dei siti soggetti a questa pratica e per la nostra conoscenza collettiva.

Fig. 17: le poste dietro cui si riparavano i marcatori presso il bersaglio di Cles

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Bibliografia

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Bezzi, Luca, Bezzi, Alessandro, Boscaro, Cristian, Feistmantl, Kathrin, Gietl, Rupert, Naponiello, Giuseppe, Ottati, Fabiana, De Guzman, Margarita[s.d.], Commercial archaeology and 3D web technologies, in Journal of Field Archaeology, London: Taylor & Francis.

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Eccher, Giacomo«“Imboscato” per tre anni in una grotta. L’incredibile vicenda di Narciso Fondriest di Caltron, disertore dell’Impero: ora la Sat di Cles ne cerca il rifugio sul Peller». Il Trentino. Trento, 16 luglio 2017. Saunders, Nicholas2012, Beyond the Dead Horizon: Studies in Modern Conflict Archaeology, Oxford: Oxbow Books.

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Baracca risalente alla Grande Guerra presso la cima del Gran Zebrù/ Königsspitzefoto Arc-Team

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Ricostruzioni 3D del Forte della Rocchetta ad opera di Cicero Moraes (Arc-Team), 2018

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TITOLO: PROGETTO TRINCEE

CLASSE: 4CATA

DESCRIZIONE: Mappa storica TAV: 4

RILIEVO TRINCEA

percorso principale

ingressi secondari

MAPPA STORICA

direzione fuoco

tracciato trincea

punto fiduciale Mt.Peller

LEGENDA

NOME: Dalla Torre Francesco

Moratti Damiano

DATA: 21-03-2018

500 0 500 1000 1500 2000 m

Progetto trincee

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Le trincee del Monte PellerIstituto Tecnico C.A. Pilati, Cles

Nel corso dell’anno scolastico 2017/18 le classi 3CATA e 4CATA dell’Istituto Tecnico C.A. Pilati di Cles, con la supervisione dei professori Giovanni Damaggio e Michele Scandella e la collaborazione di Odorizzi Davide, diplomato in Gestione Ambiente e Territorio presso  la Fondazione Edmund Mach, hanno predisposto un progetto di tutela e valorizzazione dei siti storici della Prima Guerra Mondiale. Il progetto di ripristino, conservazione e valorizzazione dei siti della prima guerra mondiale prevedeva un risanamento a livello territoriale e la realizzazione di un percorso a sfondo storico che portasse il visitatore ad una riflessione sulla vita in trincea e a come i soldati passassero le giornate tramite documenti e testimonianze storiche. Stimolati dall’iniziativa “Conosci le trincee del Monte Peller?”, promossa dal signor Giulio Mendini della Scuola Ciclismo Fuoristrada Val di Non e Sole, gli studenti si sono focalizzati sulle trincee presenti nei pressi del Peller le quali facevano parte, come quelle soprastanti al paese di Bozzana, della terza linea di difesa «Mostizzolo».La posizione del tratto di trincea in questione serviva come postazione di ripiegamento in caso di cedimento del fronte del Tonale e avanzata dell’esercito italiano verso la Val di Non. Uno dei punti critici sotto osservazione era lo scollinamento del Monte Peller che l’esercito regio poteva raggiungere attraverso il «Pian dela Nana» e che li poteva condurre direttamente in territorio austriaco senza dover effettuare l’arduo attraversamento del ponte di Mostizzolo.Il territorio del Trentino-Alto Adige, e perciò anche la zona di difesa esaminata, furono in seguito cedute dall’Impero Austro-Ungarico agli italiani tramite alcuni trattati e quindi la terza linea di difesa che rimase inutilizzata.Gli studenti sono stati impegnati in ricerche storiche e sulla morfologia del territorio, raffronti tra stato attuale del camminamento e quello evidenziato sulla mappa storica, progettazione di pannelli informativi ed esplicativi anche in lingua inglese e tedesca da posizionare lungo il percorso, video del tracciato dall’alto tramite l’utilizzo del software Google Earth con l’obiettivo finale di ottenere un elaborato progettuale del percorso tematico. Il giorno 30/10/2017 gli studenti della classe 4

CATA hanno effettuato un rilievo in località «Dos dela Pizza» nei pressi del monte Peller dove sono stati identificati tratti di trincee risalenti alla Prima Guerra Mondiale. Il rilievo è stato effettuato tramite strumentazione GPS percorrendo i solchi fortificati partendo a monte di essi fino a giungere nel loro punto più a valle. Durante l’attività di lavoro sono stati utilizzati diversi software come QGIS, AutoCAD, e altri di presentazione (Word e PowerPoint). Il software QGIS permette di far confluire dati provenienti da diverse fonti in un unico progetto di analisi territoriale.

Gli studenti hanno progettato inoltre dei pannelli informativi con diversi argomenti e immagini riguardanti la Prima Guerra Mondiale da posizionare lungo il percorso rendendolo così più appetibile. Le informazioni riportate su ogni bacheca sono state tradotte in lingua tedesca e inglese per offrire la stessa possibilità di apprendimento culturale anche a visitatori stranieri.

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Il clero e la Grande Guerra:il caso del vescovo Endrici

A cura di Marco OdorizziPalazzo Endrici, Don

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Celestino EndriciVescovo di Trento nella Grande guerra Marco Odorizzi

La figura del vescovo di Trento Celestino Endrici si staglia sul movimentato panorama trentino del primo Novecento con il vigore e l’imponenza dei personaggi decisamente non ordinari1. Nato Don il 14 marzo 1866, egli fu fin da giovanissimo uno dei principali interpreti e dei più determinati animatori di quella «grande avventura»2 che a cavallo del 1900 porterà il movimento cattolico trentino a mutare radicalmente il volto di questa umile terra di confine, imprimendovi alcuni tratti tanto profondi da divenire parte della sua stessa identità. Assurto alla cattedra episcopale di

1 Sebbene una biografia scientifica di Celestino Endrici attenda ancora di essere scritta, non mancano alcuni utili riferimenti bibliografici: M. Odorizzi, Per una cristianità nuova. Spiritualità e vita di Celestino Endrici vescovo di Trento, in M. Odorizzi e P. Marangon (a cura di), Da Rosmini a De Gasperi. Spiritualità e storia nel Trentino asburgico, Università degli Studi di Trento, Trento, 2017, pp. 223-246; S. Vareschi, L’episcopato trentino di mons. Celestino Endrici (1904-1940). Progetto, realizzazioni, significato storico , in “Studi trentini. Storia”, A. 96 (2017), n. 2, pp. 429-458; M. Odorizzi, Frangar non flectar: la guerra parallela di monsignor Celestino Endrici vescovo di Trento, in F. Bianchi e G. Vecchio (a cura di), Chiese e popoli delle Venezie nella Grande Guerra, Roma, Viella, 2016, pp. 319-342; B. Tomasi, Celestino Endrici, in A. Canavero, A. Leonardi, G. Zorzi (a cura di.), Per il popolo trentino, FMST, Trento 2014, pp. 207-226; M. Garbari, L’età di Celestino Endrici, in “Studi trentini di scienze storiche”, Sezione prima, A. 83 (2004), n. 3, pp. 517-530; S. Benvenuti, I principi vescovi di Trento fra Roma e Vienna 1861-1918, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 275-380; Id., La Chiesa trentina e la questione nazionale 1848-1918, Temi, Trento 1987, pp.177-282; I. Rogger, Endrici, Celestino, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, Roma 1993, vol. 42, pp. 660-663. Restano utili inoltre gli atti del convegno interamente dedicato alla figura del vescovo che si tenne a Trento il 23 maggio 1991: AA. VV., Celestino Endrici (1866-1940) Vescovo di Trento, Centro di cultura Rosmini, Trento 1991.2 S. Vareschi, Il movimento cattolico trentino tra Otto-cento e Novecento, in M. Garbari e A. Leonardi (a cura di), Storia del Trentino, V, L’età contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 817-838.

San Vigilio nel 1904, a soli 37 anni, fu chiamato a guidarla tra le grandi sfide del secolo breve, dispiegando un ambizioso progetto episcopale che seppe muoversi con fermezza e coraggio in un groviglio di problematiche identitarie e politiche, prima ancora che pastorali. Costretto ad assistere per ben due volte con desolante impotenza alla partenza dei suoi diocesani per i lontani teatri di una guerra mondiale, proprio scrutando questi dolorosi scenari, all’età di 76 anni, si spense infine il 29 ottobre 1940, tra le promesse – in gran parte disattese – «che la sua opera lunga, vasta e molteplice […] sarà scritta a caratteri d’oro della storia della nostra arcidiocesi»3.

Se è spesso possibile rintracciare nella personale vicenda biografica del Vescovo i tratti salienti della vita collettiva della sua diocesi, è però in particolare nell’esperienza della prima guerra mondiale che il dramma comunitario dei trentini pare saldarsi a quello individuale del suo Pastore. Ecco perché, in un certo senso, sostare sulle pieghe di una peculiare vicenda biografica sembra oggi una possibile chiave per spalancare le porte dello sguardo su quello che la Grande guerra significò per la gente trentina, andando oltre gli stretti angoli visuali proposti dalla propaganda nazionale. Una potenzialità a lungo disattesa, tanto più che, a fronte di una rapidissima opera di ricostruzione evenemenziale4, la figura del Vescovo in guerra assurse presto a livello di simbolo della presunta lotta dei trentini per la liberazione dal giogo asburgico, cristallizzando un’immagine “eroica” del prelato perseguitato dal governo imperiale perché italiano, se non proprio irredentista. Una lettura che ha dimostrato una capacità di sopravvivenza tale da trovare accoglimento fino oltre le soglie del XXI secolo, impermeabile alla ricerca di approfondimento chiaroscurale e incapace di afferrare la trama densa sottesa agli eventi.

3 Così recitava il necrologio su «Vita Trentina», 31 ottobre 1940.4 V. Zanolini, Il vescovo di Trento e il Governo austriaco durante la guerra europea, Milano, Vita e pensiero, 1919.

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Solo negli ambienti religiosi si coltivò una narrazione differente, che coglieva negli attriti tra Vescovo e governo imperiale una battaglia per la libertas Ecclesiae, dove quindi l’oggetto della contesa non era il diritto all’autodeterminazione nazionale, ma l’autonomia della Chiesa dalle pretese cesaropapiste della Monarchia degli Asburgo. Un filone a cui non manca certo fondamento, ma incapace di entrare in dialogo con la vulgata e destinata a rimanere sostanzialmente parallelo ad essa.

Di fatto, impoverita da queste rimozioni memoriali, la vicenda ha progressivamente perso la sua urgenza iniziale, tanto che in molte delle trattazioni più recenti sulla Grande guerra del Trentino si parla solo transitoriamente del Vescovo. Quasi che la sorte toccatagli durante la guerra, quando egli fu strappato alla sua diocesi e recluso lontano dalla sua gente, torni a manifestarsi in una sorta di esilio memoriale. Ma cosa ha dunque da raccontare oggi la storia dell’esule di Heiligenkreuz?

Muovendosi a cavallo dell’assassinio di Sarajevo sulle abbondanti tracce documentarie lasciateci da Endrici, si nota innanzitutto il dispiegarsi al di sotto del livello epidermico degli eventi di un epocale confronto “di civiltà”, quasi che la guerra funga da acceleratore della crisi di un antico modello di christianitas, aggredito dall’inarrestabile processo di secolarizzazione e dai cosiddetti Kulturkämpfe. Le posizioni prebelliche sviluppate dal vescovo di Trento sono figlie di questa tensione e oscillano tra aperture alle logiche della “moderna” società del pluralismo e una sorta di sindrome d’accerchiamento, che testimonia lo spavento provocato nel clero dalla aggressiva concorrenza di due nuove ideologie – liberalismo e socialismo – e dalla dialettica confessionale. Così, ad esempio, all’istintivo volgersi verso l’autorità imperiale, il brachium saeculare cui le encicliche leonine – testi capitali nella formazione di Endrici - continuano ad assegnare un ruolo di tutore della vera religione, si affianca una timida ma non troppo accettazione della competizione democratica, che fa sì che il 1904, l’anno dell’elevazione vescovile di Endrici, coincida anche con l’istituzione dell’Unione politica popolare del Trentino, il primo esperimento di organizzazione partitica cattolica del mondo italiano. Oltre confine, infatti, la trama politica del Regno d’Italia restava vincolata al famoso non expedit di Pio IX, che fino al dopoguerra precluse ai cattolici la possibilità di prendere parte alla vita politica del paese.

Sospesa tra passato e futuro, questa fase di ambigue coesistenze finì per addensare sulla Chiesa trentina una duplice e contradditoria funzione: da un lato quella di collante sovranazionale della Monarchia, capace di rinsaldare dal pulpito il legame di lealtà dinastica tra gli Asburgo e i “loro popoli”; dall’altro quella di rappresentare le legittime istanze degli “italiani d’Austria”, pur senza mettere in discussione per questo la sopravvivenza del nesso imperiale. Un equilibrio instabile, a maggior ragione mentre il vento dei nazionalismi iniziava a gonfiare il mare della guerra europea.

Lo scoppio del conflitto rapidamente invalidò posizioni che, pur non senza qualche affanno, avevano fino ad allora retto. Mentre i cittadini erano resi dapprima soldati, poi anche profughi e prigionieri, l’ascesa verticale di un potere militare improntato al nazionalismo austrotedesco segnava la fine del Vielvölkerstaat asburgico. La piccola minoranza trentina, per la cui “liberazione” l’Italia consumava il tradimento della Triplice alleanza, perdeva rapidamente la dignità di minoranza da tutelare e, sotto la spinta di una miope semplificazione, diveniva un mero problema da gestire. Di fatto, dopo un anno e mezzo di guerra, il panorama disarmante che Endrici partecipava direttamente a papa Benedetto XV era il seguente:

Narrare l’iliade di dolori, di repressioni inumane, di condanne spaventose a più anni di carcere per un lamento, per un’espressione qualunque magari di una povera donna – narrare il modo crudele ed inumano, col quale migliaia e migliaia di deboli donne, di bambini, di vecchi furono cacciati dai loro paesi e lanciati nelle più lontane regioni dell’interno, ove non comprendono la lingua, in un ambiente alle volte ostile […]– narrare gli insulti sanguinosi, che si lanciano ogni giorno contro i legittimi sentimenti del popolo coll’unico giornale esistente, fregiato dell’aquila austr(iaca) e sotto l’egida dell’autorità, il quale compie un nefasto apostolato di odio di razza e di classe in mezzo al popolo – narrare i maltrattamenti morali e materiali dei poveri soldati trentini, che fino all’età di 50 anni sudano, soffrono e sanguinano da mesi sotto le armi […]– B(eatissi)mo P(adre) è un compito per me troppo doloroso

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e me ne sento impari, perché ho la sicurezza che l’inumanità, la barbarie, l’odio, la vendetta superano ogni umano sentire5.

Le scelte che Endrici assunse nei primi mesi di guerra segnano il prevalere dell’ottica pastorale su ogni definizione politica. Di fatto questo significava evitare di farsi trascinare sul terreno della Schuldfrage, sospendendo il giudizio su chi avesse ragione e chi torto nella guerra che si andava combattendo e risolvendo la questione in sintonia con gli indirizzi della Santa Sede, volti a leggere il conflitto in chiave metastorica come castigo per l’apostasia dell’umanità dalla religione cattolica. Equidistante da pacifismo e da bellicismo, da patriottismo e da irredentismo, la risposta endriciana all’evento restava vincolata a una dimensione religiosa e morale, che affermando il principio del “Reddite quae sunt Caesaris Caesari” avvalorava anche in guerra il principio dell’obbedienza all’autorità, ma non concedeva nulla alla retorica bellicista. Mentre il vicino vescovo di Bressanone, mons. Franz Egger, spingeva i suoi diocesani al fronte ricordando loro che «combattiamo per Dio e con Dio»6, Endrici si attestava sul principio secondo cui «il V(escov)o come tale non è né austriaco né italiano», ma semplicemente «cattolico»7.Su queste posizioni si apriva così un furente braccio di ferro tra le autorità militari ed il Vescovo, con quest’ultimo che si trovò ripetutamente oggetto di pressioni, volte a fargli produrre un documento pastorale che fugasse ogni dubbio circa la sua lealtà e condannasse l’aggressione italiana del confine meridionale della Monarchia. Pressioni che non condussero ai frutti sperati e convinsero i comandi militari a risolvere per altra via una questione che iniziava a divenire pericolosa: in questo contesto gli attriti prebellici di Endrici con settori della popolazione tedesco-tirolese, benché originati da questioni tanto nazionali quanto pastorali e confessionali, bastarono a imbastire una traballante imputazione e, a partire dal giugno 1916, a giustificare il confino del Vescovo nella abbazia di Heiligenkreuz, nella selva viennese.

Lontano dai fragori del fronte, la sua guerra personale proseguiva con l’opposizione strenua ad ogni tentativo di persuaderlo a rinunciare alla cattedra di San Vigilio o, quantomeno, a nominare un nuovo vicario generale gradito ai militari, che potesse governare la diocesi in sua assenza. È ancora al papa che Endrici rimette i suoi sfoghi e insieme la sua determinazione a non piegarsi a pretese che considera indebite, oltre che lesive della sua dignità episcopale:

5 Minuta della lettera di Endrici a papa Benedetto XV, Trento 28 dicembre 1915, Archivio Diocesano Tridentino, Acta Episcopi Endrici, Arresto e prigionia di S.A.Rev.ma Monsignor Endrici, 1915/3. 6 O meglio, «Wir kämpfen für Gott und mit Gott» come si legge nella lettera pastorale pubblicata sul “Brixener Diözesanblatt”, Nr. 2 (gennaio 1915), p. 12.7 Lettera di Endrici al papa, Vienna, 9 giugno 1916, edita in A. Scottà (a cura di), Mons. Celestino Endrici vescovo di Trento, in Id., I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, vol. 3, Roma, Storia e letteratura, 1991, doc. 8, pp. 40-65.

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a questi circoli politici non basta che la chiesa coll’esercizio della sua missione educhi clero e popolo alla fedeltà allo stato coll’osservanza delle leggi e dei doveri, ma si vuole che il clero e seminario siano una lancia spezzata di politica patriottica, senza tener calcolo che con ciò travisano la natura della nostra missione e preparano la rovine dell’intera cura d’anime, aprendo la via a lupi rapaci. A questo postulato la mia coscienza si ribella, perché contrario alla dottrina teologica, ai sacri canoni ed alla pastorale. Questo ministro è preso dal pregiudizio gioseffino ed è inaccessibile a ragioni. Io gli feci comprendere che non posso accedere a quelle massime: frangar non flectar8.

La questione sarebbe stata destinata a protrarsi fino alla fine del conflitto, coinvolgendo le relazioni diplomatiche tra Monarchia e Santa Sede, con quest’ultima divisa tra l’esigenza di preservare le relazioni con l’ultima grande potenza cattolica europea e quella di difendere un suo innocente ministro. Dinnanzi a questo bivio, la diplomazia vaticana cercò di differire la questione a tempi meno difficili, mostrando maggiore disponibilità alla conciliazione rispetto al Vescovo, che all’opposto dal silenzio del suo internamento sviluppava posizioni sempre più critiche su quel connubio di trono e altare che, se da un lato aveva garantito prosperità alla Chiesa entro i confini della Monarchia, dall’altro l’aveva resa, secondo una emblematica definizione di Angelo Gambasin, al contempo «protetta e incatenata»9. La guerra restituiva invece al vescovo di Trento il profumo di un nuovo inizio: infatti, le «bufere, che atterrano e schiantano, […] insieme purificano l’ambiente» e restituendo la comunità ecclesiale alle sue origini evangeliche, permettono una «restaurazione, che favorita dal cielo, ridà alla Chiesa giovinezza, libertà ed indipendenza»10.

8 Ibidem. 9 A. Gambasin, La Chiesa trentina e la visione pastorale di Celestino Endrici nei primi anni del Novecento, in A. Canavero e A. Moioli (a cura di), Degasperi e il Trentino tra la fine dell’800 e il primo dopoguerra, Reverdito, Trento, 1985, p. 378. 10 I brani citati sono tratti dal manoscritto del Vescovo intitolato Il dominio del gioseffinismo in Austria, edito in S. Benvenuti, Il gioseffinismo nel giudizio del vescovo di Trento Celestino Endrici, in “Studi trentini di scienze storiche”, Sezione prima, A. 73 (1994), pp. 37-102.

Sono spunti tratti da Il dominio del gioseffinismo in Austria, un libello redatto da Endrici ad Heiligenkreuz, in cui si completava la chiusura del cerchio: il nazionalismo tedesco che aveva trasfigurato il volto della Monarchia asburgica lasciando i trentini come un popolo senza patria, non aveva solo rotto il patto dinastico che faceva sì che i suoi diocesani potessero dirsi allo stesso tempo trentini, italiani e sudditi imperiali, ma aveva anche smascherato l’attitudine del governo imperiale a fare della Chiesa uno strumento di governo. La difesa della religione e quella della nazione si incrociavano nella figura del vescovo, fedele al suo popolo e al suo magistero. Non sarebbe corretto sostenere che nel tumulto della guerra Endrici subisca una conversione all’irredentismo battistiano: una prospettiva che non sarà mai il suo orizzonte, così come non lo sarà di lì a poco il nazionalismo fascista. Di fatto, quando il 13 novembre 1918 egli faceva infine ritorno a Trento dopo oltre due anni d’assenza, un intreccio di zelo pastorale, di orgoglio ecclesiale, di sentimento nazionale e di umiliazione personale e collettiva lo avevano preparato alla nuova sfida che l’attendeva. Quella di riprendere la sua missione episcopale sotto un cielo ormai definitivamente italiano, ma già velato dalle nubi di una nuova stagione di violenza e intolleranza.

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La Val di Non nellaGrande Guerra.Esperienze, memorie, immagini

A cura di Nadia SimoncelliPalazzo Morenberg, Sarnonico

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La Val di Non nella Grande Guerra.Esperienze, memorie, immaginiNadia Simoncelli

PREMESSA

“La Storia non è fatta soltanto di lunghe descrizioni testuali contenute nei libri, ma è un bacino inesauribile di storie e di immagini”

In occasione della fine del Centenario della Grande Guerra, nell’intento di colmare almeno in parte i vuoti lasciati da una storia ancora carica di silenzi, la Comunità della Val di Non con i Comuni di Sanzeno, Revò, Livo, Amblar-Don, Predaia e di Sarnonico, gli abitanti della Val di Non e la Fondazione Museo storico del Trentino, ha dato vita a un progetto di rete volto al recupero, alla divulgazione e alla valorizzazione di materiali fotografici, audiovisivi, propagandistici e documentari provenienti da archivi pubblici e privati, risalenti al 1914-1918 e legati al tema guerra. Particolare attenzione sarà rivolta alle memorie scritte e alle fotografie di coloro che furono coinvolti e travolti in prima persona dall’esperienza più sconvolgente della storia: la Grande Guerra.

La conclusione del Centenario è il momento giusto per fare un’ampia riflessione sulla portata della Grande Guerra in Val di Non e sugli effetti che il conflitto e la notizia dell’armistizio del 3 novembre 1918 hanno avuto sulla popolazione in armi e sui civili. Questa sezione della mostra servirà innanzitutto a ricordare che i nonesi, pur abitando in un territorio non direttamente coinvolto da interventi di natura specificatamente bellica negli anni del conflitto, hanno comunque partecipato attivamente a una guerra totale e ingiusta, subendone le dirette conseguenze. Su scala regionale e nazionale la Val di Non rappresenta un caso di studio interessante soprattutto per l’impatto specifico che l’evento bellico, solamente a poche decine di chilometri di distanza (il fronte del Tonale distava solo una cinquantina di chilometri) ebbe sulle condizioni materiali, psicofisiche e mentali dei suoi abitanti nonché per il retaggio culturale che la guerra ha lasciato dietro di sé nel 1918, dopo la fine delle ostilità, con il passaggio dall’Austria all’Italia. La metodologia adottata si rifà alla nuova storiografia sulla Grande Guerra che ha cominciato a prender piede nell’ultimo ventennio. Una metodologia che predilige la ricostruzione dell’evento bellico attraverso le storie individuali dei suoi protagonisti. La storia del conflitto verrà letta da più punti di vista e restituita ricorrendo all’utilizzo di linguaggi diversi (scrittura, immagini, testimonianze orali e audio-video). Le storie seguiranno, con andamento cronologico, i percorsi e le esperienze esistenziali dei protagonisti: uomini e donne, combattenti e civili, anziani e bambini coinvolti e travolti dalla guerra mondiale intesa sia come evento che influì profondamente sull’orizzonte sociale, economico e mentale delle masse europee che come spartiacque della modernità; in altre parole, la «cartina tornasole di un’epoca di forte cambiamento»1, la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Scopo finale è restituire, attraverso l’approccio microstorico, condizioni e ambiti di un periodo storico che oggi, a distanza di 100 anni, è impresso nella nostra mente come un ricordo a tratti sfocato ma indelebile.

1914 - L’ELETTRICA SCOSSA

Dopo decenni di pace, che avevano favorito uno straordinario sviluppo economico e tecnologico nei paesi europei, la decisione dell’Austria-Ungheria di punire la Serbia dell’uccisione a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando, sospinta dall’incubo dello sfaldamento del suo impero multinazionale sotto le spinte irredentistiche, diede inizio a un conflitto che portò allo sconvolgimento degli equilibri europei e mondiali. Oggi, a cent’anni dalla Grande Guerra, emergono ancora le storie e i ricordi di quell’epoca solo apparentemente così lontana. I protagonisti di queste storie sono gli abitanti della Val di Non che a partire

1 La citazione è di Don Fortunato Turrini.

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dall’estate 1914 vennero coinvolti e travolti in una guerra che nel giro di pochi mesi assunse i caratteri di totalità: entrò nelle valli, sconvolse interi paesi e impegnò in una prova drammatica e logorante sia militari che civili, provocando enormi lacerazioni nelle famiglie e nella società.

Tutto ebbe inizio il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico alla Serbia in risposta al clamoroso attentato di Sarajevo (28 giugno 1914), nel quale l’erede al trono asburgico Francesco Ferdinando e la moglie Sofia persero la vita per mano di Gavrilo Princip, nazionalista bosniaco di origine serba. Nell’Impero austro-ungarico l’inizio del conflitto fu accolto con manifestazioni di euforia inscenate dalle autorità militari per spingere la popolazione a combattere una guerra che si credeva sarebbe stata veloce e indolore. Nelle valli del Trentino, territorio facente allora parte della Contea austriaca del Tirolo e Voralberg, la notizia della guerra non destò

in realtà particolari manifestazioni di entusiasmo collettivo. Al contrario, nei paesi cominciarono a circolare sentimenti di sconforto, paura e incertezza. Con l’ordine di mobilitazione generale dell’esercito e della leva in massa, diramato il 31 luglio 1914, questi sentimenti si tramutarono subito in dolore e pena per i propri cari costretti a lasciare la patria e la casa per andare a combattere in luoghi sconosciuti2. Ecco cosa scriveva, con spirito quasi manzoniano, Romedio Endrizzi di Don rimembrando le ore precedenti alla sua partenza per la guerra:

«Era l’anno 1914 23 di luglio quando come elettrica scossa la notizia della guerra vibra traverso tutta la valle, penetrando in ogni borgata e paesello, perfino nelle pacifiche malghe affini. Erano quei immemorabili decretti firmati per mano dell’Augusto Sovrano onde approvava la chiamata alle armi della milizia. Non ancora spuntava l’alba del sabato 24 che nel paesello diletto come equamente nelle città tutte della Monarchia penetra[va] il doloroso manifesto di mobilitazione, chiamava alle armi tutti coloro i quali d’anni 21 fino all’età di 42 tenessero documenti militari. Come una lancia trafisse il detto manifesto i cuori di tutta la gente! Tutta una costernazione di dolore si mosse! […] Poi l’ora dell’addio terribile giunse! […] Patria addio! Genitori […] addio! Fratelli addio! Parenti amici addio, le Frontiere nemiche ci attendono, nei campi di Battaglia gli assalti nemici dobbiamo combattere!»3.

Tutti gli uomini dai 21 ai 42 anni (reclute, congedati e riservisti) mobilitati nell’esercito dell’Impero ebbero 24 ore di tempo per affluire alle rispettive caserme, dette allora depositi reggimentali, dove smisero gli abiti civili per essere inquadrati nei reggimenti delle truppe austro-ungariche: quattro reggimenti Kaiserjager dell’esercito comune (K.u.k Heer); tre reggimenti da montagna Landesschützen (dal 1917 ribattezzati con il nome di Kaiserschützen) dell’esercito austriaco (K.k Landwehr) e due reggimenti della milizia territoriale austriaca (Tiroler Landsturm) che raccoglieva i sudditi richiamati con la leva in massa4.

2 Isnenghi - Ceschin 2008: 688-689.3 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp, Fondo Romedio Endrizzi di Don. 4 Heiss 1997: 253-66.

1914. L’attentato di Sarajevo - FMST

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TRA PIÙ DIVISE

Così, in agosto, gli abitanti della Val di Non si trovarono arruolati tra i 55.000 trentini mobilitati nei quattro reggimenti dei Cacciatori Imperiali (Kaiserjäger) e nel 14° reggimento artiglieria da montagna che formavano, assieme alle truppe del Salisburghese e dell’Austria Superiore, il XIV Corpo appartenente alla I° Armata. Ordinati e ubbidienti si unirono ai 27.000 soldati mobilitati negli altri territori dell’Impero, all’interno di un esercito formato da ben 12 popoli con lingua e costumi diversi, tenuti assieme dall’aquila bicipite. Tra i circa mille trentini che invece optarono volontariamente per l’Italia c’erano anche gli irredentisti nonesi, arruolati nel Corpo degli alpini.

VITE IN GUERRA

Il 15 agosto i soldati del 1°Reggimento k.k Landeschützen Trento/Trient e del 1°Reggimento Kaiserjäger, inquadrati nel XIV Corpo d’armata Edelweiss al comando dell’arciduca Giuseppe d’Asburgo, vennero inviati sul fronte orientale a contrastare i reparti dell’esercito russo. Destinazione le fangose e desolate terre della Galizia, della Bucovina e della Volinia.

«Il 20 mattina eravamo in Galizia la sendemmo dal treno facemmo un ora di marcia poi ci hanno fermati in un paesello per vedere quelle galuppe coi tetti di palia io restai stupefatto […] c’era la cucina camera da letto e stalla tutto assieme la gente erano come orsi gente molto ignoranti e senza nessun sviluppo io mi spaventai nel vedere in che paesi ero arrivato. […] Dopo giorni di marcia il 28 agosto […] ci fermarono in una grande prateria davanti ad una grande boscalia la era tutto il giorno che c’era il combattimento venne là il nostro colonnello e portò l’annuncio che nel fianco sinistro la nostra truppa è debile e che dobbiamo andare a rinforzarlo, e a quella maniera dovemmo andare nella linea di fuoco ognuno può immaginarsi che forza e che coraggio che si poteva avere per andare contro al nemico la si vedevano morti di qua e feriti da tutte le parti il mio cuore palpitava dal timore e dalla paura. Le palle nemiche fischiavano attorno alli orecchi un momento si andava avanti poi a terra e in poi ancora un po’ avante e di nuovo buttarsi a terra e in quel modo avvicinarsi sempre più al nemico in quella sera era il primo mio combattimento ma fu terribile […]»5.

5 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp,

Alla fine di agosto le operazioni delle forze austro-ungariche si risolsero in una serie di successi che portarono allo sfondamento della linea di difesa nemica verso la Volinia. Il contrattacco russo e alcuni errori tattici austriaci portarono a un ribaltamento repentino della situazione, costringendo gli austro-ungarici alla ritirata mentre i russi occupavano Leopoli, la capitale della Galizia. Il 7 settembre, a 50 chilometri a nord-ovest dalla città, ebbe inizio la sanguinosa battaglia di Rawa Ruska. La battaglia si concluse dopo quattro giorni di scontri devastanti con una nuova sconfitta austriaca e decine di migliaia di morti:

«Appena fummo scorsi dal nemico pareva la finizione del mondo, cannonate e fucilate, arme a macchina sparavano a fuoco accellerato, le palle fichiavano da tutte le parti, i morti e i feriti erano una vicino all’altro chi senza gamba chi senza braccio chi spaccata la testa chi nel ventre che perdevano perfino le budelle, era una roba che non si può nemmeno descrivere […], nella trincea era tutto sangue e morti non si sapeva nemmeno dove mettere i piedi. Quella giornata la fu tremenda, la mia vita era appesa a un filo […]»6.

Al massacro di Rawa Ruska seguirono una nuova ritirata verso ovest, il fallimento del tentativo di creare una linea difensiva lungo il fiume San e l’assedio della fortezza di Przemysl, a cui partecipò, con le truppe del XIV Corpo d’armata, anche Matteo Sembiati di Vervò:

«Dopo circa tre ore di cammino ci fermarono e ci notificarono che i nostri avevano rotto il primo assedio della città di Przemyśl, che era stata assediata pochi giorni prima. I russi avevano fatto un assalto di sorpresa per conquistare la città, ma, consci della fortificazione che resisteva,dovettero ritirarsi con grandissime perdite di soldati. Si discorreva nientemeno che di settanta mila morti russi. La sera s’intraprese nuovamente la marcia che durò tutta la notte. Il giorno dodici ottobre siamo arrivati sul campo di combattimento come ultima Riserva […]. Quanto sto per descrivere successe il giorno 14 ottobre 1914, giorno che mai dimenticherò. Per quanti dei miei compagni della compagnia il giorno 14 fu l’ultimo di sua vita! Si marciava da appena due ore quando, tutt’a un tratto, nell’entrare in una vasta pianura si udì un attacco

Fondo Angelo Paoli di Denno. 6 Ibidem.

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di fucilate e di mitragliatrici soprattutto, accompagnato con salve di artiglieria. Lascio immaginare la carneficina che ne segui. I russi abbandonarono l’assedio e il mio reggimento rimase a Przemyśl per i giorni seguenti, nella zona dei Carpazi»7.

L’impatto con l’ambiente galiziano e la sua popolazione fu sconvolgente. Le memorie dei combattenti nonesi in Galizia non risparmiano critiche sugli usi e costumi dei russi. Carlo Busetti di Rallo descrive nel suo diario il grado intollerabile di arretratezza nonché l’ostentazione della miseria dei galiziani8. Lo fa nel suo dialetto, con ironia, quasi a rimarcare con più forza la distanza tra gli abitanti di quelle lande desolate e quelli del suo paese di origine.

«Temp d’invern tuta sta zent indossa vestisi che fa spavent.‘Na volta mesi pu no li cava,pu no li giusta,pu no li lava.Onto e bisonto i ga el gabanLe pel de pegora e de cagnstivai de tromba e bereta‘n testa tant se i laorao se i fa festa […].Ste donne sporche le ‘mpasta il pansenza lavarse neppur le man. Omeni e done for che nei ociI è dappertut pieni de pioci»9.

Non dissimile la descrizione fornita da Giacinto Branz, maestro di Sanzeno:

«Solo quando è oscuro possiamo uscire dalle fosse [trincee], ed allora si presenta al nostro occhio uno spettacolo miserevole e spaventoso. I villaggi circostanti al campo di battaglia, composti tutti di case di legno col tetto di paglia, bruciano mandando nelle tenebre un sinistro baliore. Qui si soffre la fame e la sete. Le tribulazioni, gli stenti, le fatiche e le miserie sono tali che

7 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp, Fondo Matteo Sembiati di Vervò.

8 Antonelli 2014: 55-59. 9 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp, Fondo Carlo Busetti di Rallo.

[…] se non si muore di palla nemica, si dovrà soccombere per malattia»10.

Giacinto e gli altri soldati nonesi inquadrati nel 1°Reggimento Kaiserjäger rimasero a combattere lungo il fiume San fino alla fine di ottobre:

«Ci trovammo in vicinanza del Sann sulla linea di battaglia. Le palle passano fischiando sopra il nostro capo. Passiamo vicino all’artiglieria austriaca che spara sulla riva destra del San occupata dai Russi»11.

Poi la marcia verso Cracovia, incalzata dell’esercito dello Zar. A gennaio, dopo un breve servizio nella riserva delle truppe austro-ungariche impegnate sui Carpazi, cambiarono di nuovo settore e, risalendo verso nord, si attestarono nelle trincee scavate vicino alla città di Tarnow, lungo le rive del fiume Dunajec. Il 1 giugno, nel corso di un conflitto a fuoco con i russi, alcune compagnie alzarono il fazzoletto della resa e si consegnarono volontariamente al nemico. Francesco Gottardi di Vervò fu tra i primi a consegnarsi ai Russi:

«Ho la certezza che i Russi stiano per assalirci […]. La fucileria russa è fitta come il trillo del campanello elettrico, la nostra trincea percossa dalle palle solleva una nube di polvere. Ritirate i fucili dalle feritoie! C’è un po’ di panico; chi getta le munizioni, qualche altri le nasconde sotto la paglia. Si attende che i Russi avanzino prima di esporre loro i segni della resa. Quando un fatto nuovo risolve d’un colpo la situazione. Verso la linea ferroviaria si odono grida di Hurrà! Hurrà!. E spari di fucili. Ci voltiamo indietro e vediamo tutto il bosco pullulare di Russi che avanzano su di noi con le baionette innestate, urlando e sparando in aria. Fuori le pezze! Fuori le camicie! Alcuni gettano le armi e si nascondono nei ripari, altri gettano le armi incontro ai Russi, tutti alzano qualche segno di resa e con il gesto o con la parola fanno capire di non sparare, in una parola si chiedeva la vita in cambio della resa. […] C’è un soldato alto con un berrettone di pelle che viene verso di me [….], giunto a pochi passi gli faccio cenno con le mani di fermarsi […] continuai a guardarlo benevolmente negli occhi […], solo quando non lo vidi più davanti, mi ritenni ancora vivo. […] Al comando [dei Russi] ci mettono per quattro e i soldati Russi si alternano a contarci. […] Ci hanno messi in squadre di 100 uomini, ci danno in scorta i

10 Diario di Giacinto Branz di Sanzeno. Proprietà di Alessandro Branz. Il diario è inedito.

11 Ibidem.

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Cosacchi a cavallo e marsh….verso la Russia»12.

Durante la guerra, su un totale complessivo di 8,5 milioni di prigionieri su tutti i fronti, ben 2,77 milioni di soldati austro-ungarici caddero o si diedero in mani nemiche e vissero il dramma della prigionia13. La Russia fu la prima tra le nazioni belligeranti a sfruttare a proprio vantaggio i prigionieri per incrinare la solidità del nemico e invitare i soldati delle minoranze alla diserzione.

1915 – LA GUERRA DIETRO CASA

Nel 1915 il Trentino e i trentini vennero coinvolti in modo massiccio in un conflitto mondiale che lasciò un segno tragico e profondo nella loro memoria. Nelle Valli del Noce, la mobilitazione di uomini e rifornimenti per la guerra con l’Italia cominciò ancor prima che il cannone iniziasse a rombare:

12 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp, Fondo Francesco Gottardi di Vervò.13 Di Michele 2018: 105.

«[a Cles] passano continui grossi camion carichi di armi e vetovaglie per il Tonale, e lunghe schiere di soldati a piedi e per Tramvia [Trento-Malè]. Si teme la rottura con l’Italia: qualcuno la desidera, ma in generale è deprecata»14.

Il 9 giugno 1915 si ebbe un primo grande scontro sul Tonale, al passo Paradiso, dove gli austriaci catturarono diversi prigionieri. Nei giorni successivi l’attività delle artiglierie si intensificò tanto che la notte tra il 14 e il 15 giugno, da alcuni paesi della Val di Non si riuscirono a scorgere, dietro ai monti rivolti verso la Val di Sole, i bagliori dei colpi e dei riflettori che proiettavano raggi sul fondo della valle.Assieme alle notizie delle battaglie che si combattevano sul vicino fronte dell’alta Val di Sole, nell’estate 1915 arrivarono in Val di Non anche le prime notizie dei caduti sul fronte orientale: nel primo anno di guerra l’Impero austro-ungarico aveva perso ben 1.268.000 uomini in battaglia, tra cui moltissimi Landesschützen e Kaiserjäger morti nel tentativo di contrastare le offensive russe:

14 Turrini 2014: 12.

Galizia. Militari con donne e bambini in un villaggio – FMST

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«Avanzammo per boschi e per strade che non avevamo mai visto sempre con l’arma in caccia e il proiettile in canna […] Un colpo di fucile mi strappò lo zaino dalla schiena ma nella foga della battaglia non me ne curai. Passammo la notte in un campo di segala, incapaci di chiudere gli occhi per l’emozione e lo spavento di cui ancora oggi soggiaciamo»15.

DISERTORI, SOSPETTI, CONFINATI

Il «trauma galiziano», ovvero la traumatica scoperta della realtà della guerra con le sue stragi fu un fattore decisivo nell’accelerare forme di renitenza militare diverse dall’agevolare con la diserzione e la resa volontaria la propria cattura al fronte. L’orrore della guerra combattuta in Galizia e l’istinto di sopravvivenza indussero molti nonesi a disertare in patria. Pietro Sandri di Bresimo si nascose nei boschi sopra casa fino al novembre 1918; lo stesso fece Benvenuto Ruatti di Cles, rifugiato per tre anni in una baita sotto Maso San Vito. Enrico Visintainer rimase per un anno e mezzo nascosto sopra la Vergondola prima di partire per le Americhe. Tra

15 Diario di guerra di Costante Chini. Proprietà della Famiglia Chini di Segno.

i disertori imboscati in Val di Non ci fu anche chi, dopo aver visto la morte in faccia per ben due volte, ritenne che «della guerra ne aveva avuto abbastanza». È questo il caso di Narciso Fondriest di Caltron, frazione di Cles. Il “Bora” partì per la guerra come soldato dell’Impero austro-ungarico nell’agosto del 1914, con i richiamati della classe 1888. Rimase a combattere in Galizia fino a novembre, dove venne ferito. In seguito alle lesioni fu ricoverato negli ospedali militari di Brno e di Trento. Guarito, fu di nuovo arruolato e inviato sui Carpazi. Lì, nel marzo 1915 si ferì una seconda volta e a maggio ottenne trasferimento a Trento. Era il 10 maggio quando, commentando con altri soldati l’ordine di partire immediatamente per la Boemia nel piazzale della Caserma Madruzzo di Trento, sentì due uomini annunciare l’ormai prossima entrata in guerra dell’Austria con l’Italia. Decise subito di disertare pensando che il fronte italiano potesse diventare una delle sue prossime destinazioni. Grazie ad un amico solandro che aveva un’osteria in via del Fersina, si procurò degli abiti civili e un biglietto della tramvia Trento-Malè per tornare in Val di Non. Ma anziché scendere a Cles, scese alla fermata precedente, in località Santa Giustina. Da lì, senza farsi riconoscere, raggiunse

Fronte orientale. Ritratto di soldati – Fondo Famiglia Nebl

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a piedi, camminando di notte tra le campagne, la frazione di Caltron. Due giorni dopo due gendarmi andarono presso la sua abitazione per arrestarlo. Coperto dalla famiglia riuscì a fuggire. Per alcune settimane trovò rifugio alla caverna dei Tre Sassi, a tre quarti d’ora dal paese. Ma nemmeno lì si sentiva al sicuro così alla fine di maggio del 1915 salì sul Peller. Vi rimase stabilmente fino alla metà dell’ottobre 1918, quando scese in paese perché ammalato di spagnola16. Oltre alle motivazioni di tipo individuale e strettamente connesse alla sconvolgente esperienza di guerra, ad innescare in molte circostanze il verificarsi di episodi di tradimento nei confronti della Monarchia erano anche le convinzioni politiche17. Tra le autorità militari austro-ungariche, la paura dei «nemici politici» era esasperata da un’esagerata concezione del pericolo proveniente dai movimenti irredentisti, la quale portò le autorità militari a considerare ogni espressione di sentimento nazionale italiano, seppur garantita dalla Costituzione, come una latente forma di irredentismo. Nel corso del 1915 le

16 Mosca 2016: 29.

17 Di Michele 2018: 93.

autorità militari procedettero all’arresto di circa 400 trentini marchiati con la qualifica di «politicamente inaffidabili» perché sospettati di sentimenti filoitaliani. Anche don Giuseppe Maurina, originario di Maurina (frazione di Spormaggiore), venne giudicato colpevole «di un’azione di vantaggio per il nemico arrecante un importante danno alle forze militari nazionali»:

«Ho sentito sulla bocca di qualcheduno certe espressioni troppo dure contro li italiani e in generale come per esempio se tutti li italiani meriterebbero di essere strangolati. Certo se scoppia la guerra coll’Italia, il nostro dover di sudditi fedeli austriaci è quello di combattere anche contro li italiani, ma certe barbarie sono proibite da ogni legge divina e umana. Anche la guerra va fatta secondo le buone regole di guerra e sarebbe una cattiveria incrudelire contro il nemico ferito o che si arrenda. Del resto gli italiani sono nostri fratelli sotto certi riguardi, cioè nella lingua e nella religione e se verranno contro di noi, i poveri soldati italiani verranno in buona fede coll’idea di venire a liberarci. Invece di arrabbiarvi contro tutti gli italiani in generale, arrabbiatevi piuttosto contro quelli che come il nostro Battisti vanno ad izzare l’Italia contro l’Austria»18.

18 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp,

Passo del Tonale. Soldati del Battaglione Cles

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Don Maurina scontò cinque anni di confino, trascorso a Salisburgo e in Boemia, nella prigione-fortezza di Teresienstadt. Nelle liste di confinati condannati al confino, anche l’ex socialista legatore di libri Enrico Moggio di Cles, il benestante Antonio Conci di Castel Mollaro e lo stesso Mons. Celestino Endrici, vescovo di Trento nativo di Don. Antonio Conci venne arrestato per aver offeso pubblicamente la bandiera austriaca con presunte esternazioni filoitaliane. Rimase internato a Katzenau assieme al fratello Mario fino all’autunno del 1915, quando cominciò il processo che lo vide imputato per reati politici. La stessa sorte la subì anche il padre Silvio (fratello di Enrico Conci deputato trentino al parlamento di Vienna). Anche lui fu arrestato nella sua casa di Mollaro durante una perquisizione di routine. Le autorità di polizia trovarono in un cassetto un fazzoletto su cui era ricamata la scritta “Poiché Verdi contiene le iniziali di Vittorio Emanuele Re Di Italia questo poeta è venerato con amore particolare dagli studenti italiani”. Mons. Celestino Endrici invece fu arrestato dal Comando supremo dell’esercito imperiale con l’accusa di fomentare tra i fedeli l’idea di un Trentino italiano. L’atteggiamento repressivo adottato dalle autorità austro-ungariche tra il 1914 e il 1915 fu certamente controproducente ai fini di arginare le tendenze dissolutrici della monarchia asburgica, dato che finì per

corrodere la fedeltà nell’Imperatore di un gran numero di italiani d’Austria residenti in Trentino e in Val di Non. Guglielmo Bertagnolli, figlio di un militare di Sanzeno in carriera nell’esercito austro-ungarico, è ricordato come uno dei tanti «disillusi» che, di fronte a un Trentino sempre più sfaccettato in differenti realtà identitarie, scelse di espatriare nel Regno d’Italia per arruolarsi nel Regio esercito italiano e combattere per un Trentino “redento”. Traditori per gli austriaci, eroi per gli italiani, così i nomi di questi “nemici” politici furono strumentalizzati – soprattutto nel dopoguerra - per avvalorare l’idea di un sentire nazionale omogeneo tra gli abitanti delle terre “redente”, oscurando totalmente la vicenda dei circa 60.000 compatrioti che

avevano obbedito alla chiamata alle armi senza manifestare particolari desideri di redenzione nazionale. Tra i sudditi che fino alla fine della guerra rimasero fedeli all’Impero c’erano Giuseppe Stringari di Nanno e Celeste Paoli. Giuseppe Stringari partì per il fronte il 18 luglio 1915, arruolato con la leva in massa all’interno di una compagnia di lavoro che venne impiegata in Ungheria nella costruzione di trincee e scambi ferroviari19. Fu poi trasferito in Boemia, dopo un breve e fiero servizio svolto nella costruzione di impianti teleferici austro-ungarici a Fierozzo San Felice, nella valle del Fersina:

« Il 27 dicembre [1915] dalla Serbia siamo tornati in Ungheria […] poi è arrivato l’ordine di partire anche di là […] . Siamo arrivati a Trento verso mezzogiorno del 10 gennaio […] due giorni dopo viene l’ordine di andar via di nuovo di ritorno in un paese […] detto Fierozzo San Francesco. Là avevamo da fare un bel lavoro: un impianto di una funicolare […]. Si lavorava in cima a una montagna, due ore distanti dal quartiere»20.

Fondo Giuseppe Maurina di Spormaggiore.19 Tra i nonesi impiegati in “compagnie di lavoro” nelle retrovie del fronte orientale c’era anche Amedeo Menapace di Rallo, di professione fabbro. Il suo compito era seguire le artiglierie pensanti austro-ungariche, aggiustare i carri militari e ferrare i cavalli. La sua memoria è conservata dal nipote Falvio Berti, assieme alla sua fotografia. 20 Diario di Giuseppe Stringari di Nanno. Proprietà di Christian Stringari. Il diario è inedito.

Katzenau. Francesco Gottardi di Vervò (secondo a sinistra) con altri internati politici – FMST

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Il devoto Celeste Paoli fu invece inviato sulla Marmolada, dove si adoperò con fierezza e valore nella difesa dei confini meridionali dell’Impero:

«I nemici incominciarono a sbarare, non collo schioppo, ma coi canoni e per le sette spararno nella posizione dove eravamo noi altri trecento fra granate e srapsnel, e non vi restò di tutti noi nemmeno un solo ferito, questo caso se lo può notare e dire, che fu proprio una grazia di Dio, e in’oltre un castigo al nemico nostro traditore, che sono quelli che parlano la nostra lingua spero capirete, questi non possono aver fortuna, ce l’han fatta bella questa volta ma fin a questo punto l’han purgata più loro che noi»21.

L’ENTRATA IN GUERRA DELL’ITALIA E L’APERTURA DEL FRONTE TRENTINO

Con l’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915, l’esercito austro-ungarico si trovò improvvisamente a dover presidiare il nuovo fronte difeso da 80 opere fortificate e un campo trincerato lungo ben 300 km. Su questa nuova linea di scontro, in primavera si cominciò a combattere una «guerra d’aquile» in cui la componente personale del singolo soldato diventò determinante nel contrastare non solo il nemico “umano”, costituito dall’artiglieria, ma anche quello “naturale”, la montagna:

«Poco dopo l’ultimo di Settembre partiti la sera da Toblach (Dobbiacco) siamo arrivati al Monte Piana all’una di notte non ci fu dormire, ma subito si dovè andare al servizio. Eravamo bagnati nevicava e tutta la notte di posto fino a giorno sdraiato nella neve dunque fu tutto un tribulare, e paura non ne mancava perché ero fuori dai reticolati circa 30 passi. Ai 12-13-14 di ottobre fu una tempesta di granate ma per grazia di Dio fui salvo. Ai 19 andai di [sentinella] e la mattina per venir giorno spararono alcuni srapsnel e proprio vicini che mi batterono dei sassi addosso ma per grazia di Dio non mi fecero niente»22.

Di conseguenza, tutte le zone interessate dai combattimenti vennero progressivamente evacuate: l’alta Val di Sole, la Valle del Chiese, la

21 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp, Fondo Celeste Paoli, Lettera di Celeste Paoli ai genitori. 27 novembre 1915.22 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp, Fondo Celeste Paoli di Denno.

I bersaglieri!

Il nostro Beppe presidenteBersagliere l’anno fatto, Ed il grado di tenenteGli darà certo il Padre Santo

Là sul ponte di GiustinaA far la guardia con i suoi fidiSe ne stà con carabina Per salvar Trento e i suoi Trentini

Assorto in grave pensieroPerché pensò così fieroA quel giorno di SanzenoOve tutti si cantavaChe la patria è il mondo intiero

Proprio a lui rivoluzionarioQuesto caso dovea toccarDell’Austria il grande StatoCapre e cavoli a salvar!

Presidente socialista Accanito antimilitaristaFu scelto certo dallo StatoPerché dovea essere deputatoCol Battisti che s’è andatoCosì in fretta fuor di stato

Deputati, socialisti, anarchici e leghistiSenza nemmen saper perchéSi son fatti militariD’uno stato clericale e liberaleCombattendo poi i fratelliNell nome d’eguaglianzaSconvolgendo la bilancia

Maledetta questa guerraChe sconvolge questa terraE degli scherzi a tutti quantiGli vuol far proprio coi guanti

Forse però vorrà dir qualche cosaL’arme in man di certa gente, dello stato qual pur sianon sarà certo per niente

Chi si esercita per forzaChi per fare bello sportIl popol poi unitoPer la pace e la libertà».

Nel riquadro a sinistra: 1915. Corrispondenza “proibita” di Enrico Moggio di Cles

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Valle di Ledro, il Basso Sarca, la Valle di Gresta, l’Altopiano di Brentonico, parte della Vallarsa, gli altipiani di Folgaria e Lavarone, la Valsugana, l’alta Val di Fassa e il Primiero. Si dispose inoltre l’evacuazione di Rovereto e di Trento, dichiarata città-fortezza. Nel maggio 1915 il Trentino non si trovava certo impreparato dal punto di vista strategico a difendersi nella guerra contro l’Italia: quello che veramente mancava era materiale umano addestrato per la guerra in alta quota. Nelle terribili battaglie dell’inverno 1914-1915, in Galizia e sui Carpazi l’esercito austro-ungarico aveva perso circa 1 milione e 292 mila effettivi fra caduti, feriti e prigionieri: poco meno della metà quindi dei circa dei circa 3 milioni di uomini mobilitati nel 1914. A fronte di questa mancanza di effettivi, il 18 maggio 1915 venne ordinata anche la mobilitazione totale dei volontari tirolesi, organizzati in 44 battaglioni e 23 compagnie di Standschützen, e 10 Landsturmbattaillon. Con gli Schützen provenienti dagli altri Länder austriaci, nell’agosto 1915 vennero mobilitati – in sette reggimenti – anche i bersaglieri immatricolati nei poligoni di tiro al bersaglio della Val di Non e della vicina Val di Sole:

«Il 21 giugno 1915 […] arrivò l’ordinanza [sulla] nostra destinazione Monte Cles Peller. […] La mattina del 22

giugno alle 5 siamo pronti; […] entriamo alla stazione di Malè, che un Motore stava alla spetata partenza saliamo e lasciamo Malè. […] [A Cles] al Komando Auf Komp. Mars noi diamo principio al canto fino che le nostre voci si sono sentite nella borgata la strada inconosciuta e lunga faceva noia; quando all’altezza dei 2000 metri troviamo una curiosa abitazione e senza alcun altro mezzo questa deve servire per caserma questa portava il nome Malga Cles, che per le massi di neve dell’inverno l’aveva ridotta in uno stato deplorevole. […] La Kompagnia veniva guidata da 3 tenenti et un Ingegnere pure di grado tenente coi seguenti nomi: tenete Zanin di Flavon, Tenent. Lorenzoni pure di Flavon Tent. Zadra di Tres e il capo del lavoro Tnt. Ing Rutt. [Secondo] l’ordine del 24 [era stato comandato che] la compagnia si occupi a costruire questa Malga in modo che ci potesse servire da alloggio […]. Il 25 siamo andati att’accorgere la veduta del monte e fu molto bella; 26 abbiamo fatto comode per la cucina, 27 passeggiando per quei prati scorgiamo le postazioni più elevate [con le cime] dove abbiamo sotto gli occhi tutto il Tirolo Italiano»23.

«Il 18 di mattina […] ritornai alla Kompagnia la quale si trovava alla sudetta Malga Cles, li restai come osservatore di essa […]. In questi giorni si discorre la partenza della

23 Ravanelli 1988: 243-274.

Foto di gruppo con Enrico Moggio e altri internati – FMST

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popolazione di Vermiglio temendo di dover evacuare pure Fucine e Ossana.[…] Dopo pranzo noi andiamo su di una punta più elevata dove di bella vista; scorgiamo le fortezze del Passo del Tonale esse si trovavano sotto il fuoco immenso dell’artiglieria Italiana di 30.5 di calibro noi vediamo l’effetto del suo esplodere, ci faceva intimidire perché a un giorno all’altro mi spetavamo di essere pure noi in quei luoghi. L’altra settimana passo anche abbastanza bene il mercoledì di questa leggiamo il “Risveglio Trentino” questa partecipava i combattenti al Tonale che il nemico occupava la valle di Strino e la punta ai laghetti e Ambiolo. Il venerdì arrivò il nostro capitano Felin, fra noi quando la mattina un ordinanzadel Baon Cles, portò il seguente Ordine!che la Kompagnia ancora nel medesimo giorno doveva essere presso il Komando di Bozzana. Lasciamo il lavoro; noi stiamo pronti alla partenza, alle 9 noi lasciamo il Peller»24.

Alla fine dell’estate l’Austria-Ungheria aveva schier-ato sul fronte trentino-tirolese complessivamente 20.000 Standschützen e altri 15.000 uomini fra truppe regolari e Landsturm. Con l’acuirsi del fuoco nemico nella zona del Tonale, alcuni di loro vennero spostati nella zona di operazione del Rayon II (sulla destra del Vermigliana, a Velon, a malga Pecé, in Presena, sulla Presanella, a Stavel, in località Pozzi Alti, sul rifugio Denza e ai Pozzi Bassi) e in seguito dislocati nella valletta di Pejo:

«Al Monticello Lagher [sopra Pejo], il comandante dei Landesschutzen ordinò di iniziare il fuoco d’armi perché il nemico stava ormai alle spalle. Il comandante diede

24 Ivi: 268

allarmi! alla Fortezza Presanella che questa non mancò ad iniziare a le altre Fortez. Mero, Fort. Zacharana e Strino in modo che in 10 minuti le Fortezze e cannoni […] anno iniziato un vivo fuoco […]. Io mi trovavo in cucina a fare del tè ai Signori Ufficiali nel mentre sentii il fischio dell’artiglieria situata al di fuori composta da 3 cannoni obici […] non ebbi il tempo di voltarmi; che sentii Erste faier! Zweite faier! dritte faier! nel mentre la baracca si muoveva ebbi paura perché fu la prima volta che udii tali cose, in fretta uscii da questa che ormai pareva l’inferno aperto. In questo tempo sentii la voce del nostro Kompagnie Komandante Felin che chiamava la compagnia pure allarm! Ero destinato di rimanere al fianco di questo Komandante: io mi frettai e mi presentai atteso mentre le squadre in un profondo silenzio si inviavano alle Sizengrabe [trincee]. […] La artiglieria italiana aveva iniziato il suo fuoco in modo che diverse venivan presso di noi; io dovetti 3 o 4 volte buttarmi a terra. Tutti tenevano pronti per iniziare il fuoco […] questo durò fino alle ore 4 di mattina il giorno 1° di novembre il giorno di tutti i Santi. Noi però non abbiamo avuto nessun impaccio. È partito che un solo colpo d’arma; nel mentre fu l’ordine […] che il nemico si aveva fatto opposizione alla Cantoniera alla costa suddetta al Monticello solo che poverini ebbero luogo per pochissime ore. Sotto il violento fuoco delle nostre artiglierie dovettero abbandonare tutto lasciando […] 400 morti, feriti non si ebbe modo perché la mattina la croce [rossa] si diede alla sua occupazione. La mattina ancora sull’alba l’ufficiale della croce rossa prese con tutta premurosità la cura dei feriti quando uno dei nostri si avvicinò ad assistere un sotto Ufficiale Italiano estrasse la Rivoltella e fece fuoco su di questo suo infemiere e lo a colpito a morte, allora l’ufficiale si avvicinò e gli troncò il capo a fil di spada. Non andando lungi che l’artiglieria Italiana a inizio di bel nuovo il loro fuoco in modo che questi dovettero ritirarsi. […] La fortezza Zacarana iniziò il fuoco che i Italiani pure dovettero ritornarsene in drio. Il giorno drio cioè il 3 novembre il tempo nevica forte in modo che questi poverini feriti e morti vennero involti e sepolti vivi nella neve»25.

Con l’entrata in guerra dell’Italia e l’apertura del fronte Trentino la Val di Non diventò terra di retrovia. Per tutta la durata del conflitto la popolazione anaune non fu mai interessata direttamente dalle operazioni belliche ma dovette comunque fare i conti con una guerra che si combatteva a pochi chilometri da casa.Nel 1915, il progressivo abbandono dei terreni

25 Ivi: 270.

Giuseppe Stringari di Nanno – Proprietà di Christian Stringari

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agricoli da parte degli uomini partiti per il fronte danneggiò gravemente l’economia e i pochi rimasti dovettero affrontare i problemi legati alla sopravvivenza in tempo di guerra: alle incertezze direttamente connesse al conflitto, come l’obbligo di fornire una certa quantità di viveri26 e materiali per l’esercito, si sommarono anche le calamità naturali e i continui passaggi di truppe e rifornimenti bellici lungo le strade.

1916 - VIVERE IN GUERRA: LA VAL DI NON NELLA “GUERRA TOTALE”

Il terzo anno di guerra iniziò in Val di Non con pubbliche preghiere intese a ottenere la fine delle ostilità. Mentre dai giornali si apprendeva la comparsa sul fronte occidentale dei primi carri armati e dei gas asfissianti, dal Trentino il generale Konrad si preparava a lanciare la sua offensiva contro l’Italia (Strafexpedition) mentre sull’Isonzo decine di migliaia di soldati, tra cui molti nonesi, venivano sacrificati per la conquista di posizioni che lasciavano sostanzialmente immutata la situazione complessiva. A rendere più grave la situazione, le pretese dei governi nei confronti dei civili, ormai giunti al limite della sopportazione.Mentre sull’Adamello e sul Tonale i soldati di entrambi gli schieramenti erano impegnati a combattere la Guerra Bianca a 3000 metri di altezza, il 16 maggio le truppe dell’11ª Armata, forti di 160.000 uomini e 1.200 cannoni, colsero di sorpresa la prima linea italiana sul Monte Zugna, al confine con la Vallarsa e la Vallagarina. Iniziava così la Strafexpedition, a cui prese parte anche Celeste Paoli di Denno:

26 «Il 21 maggio 1915 dietro fulmineo decreto furono trascinati a Nave S.Rcco tutti i bovini del […] raggio da Segno d’Anaunia a Zambana […]. Venivano visitati in piazza dai veterinari e poi ammucchiati sulla verde banchina di San Felice, dove rimasero muggendo fino alla mezza notte, dopo di qe […] le povere bestie furono trascinate verso Trento. Il 23 maggio 1915, festa della Pentecoste, furono consegnate al Forte della Rocchetta tutte le armi da fuoco e le munizioni che stavano nelle mani della popolazione». Cfr. Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp, Fondo Giuseppe Maurina.

Passo del Tonale, 1915. Postazione militare presso la casa cantoniera – FMST

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«La sera ci hanno presi fuori in 30 dalla compagnia […] era le 9 e ½ di sera quando partii e siamo andati sul Col di Zugna e doveti viaggiare fino alle 4 di mattina carico aveva una sette da cane acqua non si trovava, e poi sentiero mulatiero erto e lungo […] Giunto sul posto fra mezzo le nemiche palle che correvano di qua e in la tutto bagnato dal sudore aveva la camicia che si poteva strucarla quando fu un quarto d’ora tremava dal freddo come una foglia, ricevei un poca di zupa senza carne, un quarto di caffè freddo e poi nient’altro fino al giorno dopo. La notte dormì sulla terra era molto freddo ma dalla stanchezza che aveva attorno dormiva lo stesso, alla mezzanotte chiamarono all’armi subito dovei sbalzar su mettere lebisbon (cinturone militare dal tedesco Leibubershwung), il prosaco (zaino) con due cento pezzi di patrone (cartuccia dal tedesco Patrone) entro al fianco sinistro un badeletto […]. Spararono da tutte le parti pareva la finizione del mondo […] ed ero solo di dietro dalla linea di riserva, verso mezzo giorno portavano dal fronte di ritorno i feriti uno dopo l’altro sei, due morti, che al vederli mi tremava il sangue»27.

Il 20 maggio la grande offensiva austro-ungarica investì Asiago dove, al termine di una dura battaglia, fu fermata dalla resistenza italiana. In Vallarsa l’avanzata dell’esercito imperiale venne bloccata sul Pasubio. Rodolfo Calliari di Priò, classe 1887, era mitragliere sul Pasubio quando la sua postazione fu assaltata dagli alpini. Con un atto di grande coraggio riuscì a mantenere la posizione guadagnandosi così la più prestigiosa delle medaglie al valore28. L’offensiva si esaurì quando – a giugno – l’esercito austro-ungarico fu costretto a spostare una parte delle forze sul fronte russo per contrastare un nuovo attacco in Galizia. Le truppe imperiali, ritirate su posizioni difensive, subirono un altro attacco il 16 giugno, culminato con l’assalto al monte Corno di Vallarsa. L’azione di concluse il 10 luglio con la cattura, seguita dal processo e dall’esecuzione, dei volontari trentini Cesare Battisti e Fabio Filzi.Sul fronte dell’Isonzo, il 4 agosto gli italiani sferrarono la sesta offensiva contro le resistenze imperiali. Due giorni dopo i reparti della 12° divisione austro-ungarica entrarono a Gorizia, ma non riuscirono a raggiungere l’obbiettivo di sfondare le linee nemiche e concludere la guerra con l’Italia. I cruenti scontri tra i soldati del regio esercito italiano e gli imperiali si interruppero solo in autunno, con l’arrivo della neve. Per via della neve i soldati impiegati nella difesa delle postazioni sul Tonale si trovarono impreparati ad affrontare un altro inverno di freddo e gelo29; convinto in un’imminente risoluzione del conflitto, il governo di Vienna non aveva fornito alle truppe le dotazioni idonee per combattere all’addiaccio. Le baracche, fatte costruire con assi di legno e altri materiali trasportati fino a 2000 metri di quota dai lavoratori militarizzati, rappresentavano per i combattenti l’unico rifugio dal freddo, ma potevano anche diventare trappole mortali, soprattutto quando lo scarso tiraggio dei camini faceva ristagnare il fumo all’interno rendendo l’aria irrespirabile o quando venivano investite in pieno dalle valanghe. Secondo le stime del dopoguerra, un terzo di combattenti con entrambe le divise dell’Austria e dell’Italia morirono non per la guerra ma a causa di una valanga30. Sul Tonale, nel 1916, ne scesero diverse; la più grande a dicembre, il giorno di S. Lucia. Da quella sciagura Candido Betta di Cis ne uscì vivo per miracolo:

«Il 13 dicembre giorno di S.Lucia […] arrivò un ordine che la Kompagnia si doveva avviarsi in soccorso che alcuni [soldati] una valanga li aveva immersi con essa. Il tempo che io andai in cucina non appena entrato sento la voce del tenente che dice viene la valanga vien! […] mi avviai alla porta per scappare anch’io nel mentre l’aria rovescia le piante che si trovavan sulla baracca per nasconderla alla faccia del nemico, io in quella vista rimango cadavere nel mentre la valanga si fa appresso e rimango in una profonda oscurità un altro strepito di rimanere morto pel lo spavento quando sentii lo scripitio della baracca che la valanga se la prendeva con se. Il destino mio non era ancora scritto di lasciare la terra rimasi fortunatissimo che una piccola asse mi riparò la mia vita in mia compagnia vi era un giovane gattino questo si teneva strettamente colle sue alle mie gambe e di continuo piangeva io per 5 minuti sentii che la valanga correva

27 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp, Fondo Celeste Paoli.28 La medaglia al valore conquistata sul Pasubio da Rodolfo Calliari è conservata nel medagliere dalla famiglia di Fabio Calliari. Sulle vicende di guerra di Rodolfo Calliari e altri abitanti di Vervò si veda Comai 2014.

29 Leoni 1998: 101-114. 30 Leoni 2015: 166.

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di sopra la baracca quando fu tutto in silenzio chiamai a tutta voce i miei compagni ma mi fui illuso di sentire una voce»31.

Anche nella zona della Marmolada le valanghe colpirono i baraccamenti di entrambi gli eserciti, mietendo vittime e diffondendo il panico. Una delle più gravi fu quella del marzo 1916, che investì la 18° divisione alpini, uccidendo ben 200 soldati. Alcuni corpi furono restituiti dalla neve solo a giugno32.

PRESTITI DI GUERRA E REQUISIZIONI

Nel corso del 1916 i sentimenti degli abitanti della Val di Non – che all’inizio del conflitto erano stati nella maggior parte dei casi di leale sudditanza nei confronti della corona asburgica – mutarono radicalmente, come del resto avvenne in tutto il Trentino. Non mancarono, in qualche paese, episodi di ribellione non sempre dissimulata contro il governo, reo di aver trasformato in carne da macello parenti e conoscenti partiti per il fronte. Alcuni convogli di soldati austriaci, scesi dalla Mendola e diretti al vicino fronte del Tonale, vennero addirittura presi a sassate. Il peso dei prestiti di guerra e delle requisizioni svuotò le casse comunali, inducendo le rappresentanze comunali ad assumere una posizione di dura critica nei confronti dell’economia di guerra. Con i prestiti il governo mirava a sfruttare il denaro risparmiato dai cittadini in seguito alla limitazione dei consumi per finanziare le sempre più ingenti spese di guerra. Per il quinto prestito di guerra il comune di Dermulo consegnò allo Stato due azioni da 100 corone della ferrovia Trento-Malè perché le casse comunali erano vuote.Alla fine dell’estate la spoliazione delle ricchezze residue delle famiglie nonese divenne pratica quotidiana: quando viveri per le truppe non si riuscì più a raccoglierne vi fu la richiesta di attrezzi, bestiame, lana, stracci, ossa, pelli, paglia e fieno. Per la raccolta coatta del fieno ogni Comune fu obbligato a far sfalciare tutti gli angoli possibili di montagna. Nel solo comune di Brez, dal 1914 al 1916 furono forzosamente requisiti ben 550 quintali di fieno e 30 quintali di paglia33. Per sopperire

31 Ravanelli 1988: 240. 32 Schaumann 1984: 220-224. 33 Ruffini 2015: 161.

alla mancanza di foraggi, si invitarono i Consigli scolastici a organizzare la raccolta di foglie secche, mobilitando gli scolari. In più riprese si raccolsero offerte per la Croce Rossa e per i doni di Natale da distribuire ai soldati. Nelle varie parrocchie i curati diedero avvio alle messe per ottenere la grazia contro la miseria e le devastazioni. Non furono risparmiate nemmeno le campane, che vennero calate dai campanili per sopperire alla carenza di metallo, necessario per la costruzione di cannoni e artiglierie da impiegare nelle battaglie sull’Isonzo, «le più immani battaglie di tutta la guerra»34. Le contingenze dell’economia di guerra portarono anche all’introduzione della tessera alimentare per ogni genere di prima necessità, una carta rilasciata dalla Commissione di sostentamento con la quale in determinate ore ci si poteva presentare al luogo di distribuzione per ricevere la propria razione. Ad aggravare la penuria alimentare si aggiunse l’onere di alloggiare soldati, profughi e prigionieri di guerra.

CIVILI, PROFUGHI E SOLDATI IN VAL DI NON

La presenza di soldati, profughi e prigionieri di guerra in Val di Non contribuì a rendere manifesta la realtà del conflitto in una terra estranea ai campi di battaglia. Gli acquartieramenti delle truppe avvennero principalmente nei centri maggiori della bassa e media valle, in preparazione alla Strafexpedition e alle grandi battaglie dei Monticelli e del Tonale. La presenza di soldati in mobilitazione, in addestramento e in riposo si fece molto forte soprattutto a Cles – sede del Capitanato distrettuale – e in alta valle dove alberghi e abitazioni private furono requisite dal governo per farvi dormire i soldati. Nel solo paese di Cavareno furono requisiti la Casa Comunale, l’oratorio e l’Albergo Roen, dopo che il proprietario Carlo Gasperini, di sentimenti filoitaliani, si era rifugiato in Italia. Il Palazzo de Zinis, come tanti altri edifici dislocati nei vari paesi della Val di Non, fu adibito a deposito di viveri mentre Palazzo de Campi fu utilizzato quale sede del Comando di compagnia. In Val di Non furono requisite anche le ville per le vacanze, in particolare, Villa Fellin venne destinata ad alloggio per i medici. A partire dal 1916 fino agli anni immediatamente successivi alla conclusione del conflitto, al Comando Supremo dell’esercito giunsero numerose lamentele dai capicomune i

34 La citazione è di Luigi Moresco.

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quali lamentavano difficoltà di convivenza con le truppe presenti in valle; numerose furono anche le richieste di risarcimento per il danneggiamento di immobili, l’abbattimento irrazionale e massiccio dei boschi, furti e danni arrecati dai militari alle campagne, come si evince dai documenti conservati presso gli archivi comunali. Per migliorare lo stato delle campagne, private di gran parte della mano d’opera maschile e devastate dalle manovre delle truppe di passaggio e in addestramento, il governo austriaco diede la possibilità, a tutte le famiglie che ne facevano richiesta, di assumere dei prigionieri di guerra come aiuto nel lavoro nei campi, soprattutto nei periodi di impegno più intenso, come la fienagione o la vendemmia. Tra il 1914 e il 1916 arrivarono in Trentino migliaia di prigionieri – soprattutto russi – che vennero impiegati in lavori forzati più disparati e miserabili. Tra quelli giunti in Val di Non nel 1916, c’erano gli artefici del cosiddetto “Bait dei Russi”35,

35 Negli anni Venti, a ricordo del lavoro di questi prigionieri, fu edificato un monumento, poi distrutto dai fascisti. Del progetto di questo monumento, rimane solo un disegno di Rodolfo Endrizzi. Un ringraziamento a Costantino Pellegrini per la preziosa

una baracca costruita tra i paesi di Cavareno e Ruffré adibita, prima, presumibilmente a posto di guardia della vecchia strada che scendeva dal Passo della Mendola e, poi, a deposito di attrezzi e materiali per la costruzione dell’acquedotto fatto realizzare dal Comune di Cavareno per portare l’acqua potabile in paese. Oltre a dover sopportare la convivenza con le guarnigioni di soldati e prigionieri, i nonesi dovettero fare i conti con l’obbligo, imposto da Vienna, di mantenere anche i profughi sfollati dalle valli limitrofe36. Tra i profughi sfollati in Val di Non si ricordano Vittorio Felini, evacuato da Vermiglio il 22 agosto del 1915 e rifugiatosi a Cenigo di Rumo dall’aprile 1916 al novembre 1918, la famiglia di Dominica Daldoss37,

segnalazione. 36 Oggi non si conosce ancora il numero preciso dei trentini evacuati in Val di Non. Si stima invece con una certa sicurezza che furono circa 75.000 in totale gli evacuati sparsi nei villaggi e nei baraccamenti dell’Impero austro-ungarico mentre 35.000 furono i trentini trasferiti in Italia dalle altre zone occupate dall’esercito italiano. 37 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp,

Fronte dolomitico. Baracca in quota – FMST

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profuga vermeana che, rimpatriata da Mitterndorf, passò gli ultimi due anni di guerra ospite da parenti e amici. Nel corso della guerra altri 40 profughi vermeani furono ospitati a Brez, a spese del Comune38. Diverso è il caso di Anna Menestrina, profuga abbiente di Trento che per paura della guerra lasciò la sua abitazione per trasferirsi a Vervò, ancor prima dell’ordine di evacuazione:

«È un fuggi fuggi generale! […]. Arriviamo a Mollaro alle 5 pomeridiane, di dove dobbiamo proseguire a piedi per un paio d’ore di montagna fino a Vervò. Mezz’ora fa abbiamo visto nel treno discendere Augusto che tornava da Rumo [era andato a cercare un quartiere per la sua famiglia]. Da Mollaro in poi la strada è fangosa e molto ripida. […] Il nostro appartamento si compone di una stanzetta d’entrata che da una parte immette in una stanza grande, dall’altra alla cucina. Tutto qui. Per giungervi bisognava passare attraverso un’ara molto ampia che ha l’entrata da una stradetta ripida. […] In Italia ci sono dimostrazioni continue in favore e contro l’intervento […] Come finirà? Qui siamo e saremo all’oscuro di tutto. [..]Attendiamo lettere e giornali, ma la posta non viene. […] A Tres sono state requisite le vacche e le altre bestie. Un gendarme di passaggio da Vervò dice che qui saranno requisite quanto più tardi fra due o tre mesi. Tre mesi! Non suonerà prima l’ora della libertà? ».39

Con i profughi, le truppe e i prigionieri nei paesi, nel 1916 i civili rimasti in valle si videro coinvolti in prima persona in una guerra divenuta ormai “totale”. Ad essere travolto nell’esperienza totalizzante del conflitto fu anche il fronte interno, costituito dai lavoratori sfruttati per la logistica a favore del fronte. Nei mesi successivi allo scoppio della guerra con l’Italia, tutti gli uomini abili al lavoro tra i 17 e i 50 anni vennero

Archivio S, Fondo Dominica Daldoss. 38 Ruffini 2015: 161. 39 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Asp, Fondo Menestrina.

Sanzeno. Momento di svago nella neve – Fondo Costantino Pellegrini

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richiamati a «prestazioni personali servizio per scopi di guerra» da una circolare governativa in cui si avvertivano «tutti i lavoratori nell’età di 17 fino a 50 anni, abili al lavoro, di tenersi pronti e preparati per una eventuale urgente prossima chiamata quali lavoratori militari. Dovranno portar seco una coperta e viveri per alcuni giorni, utensili per mangiare. 1 bottiglia per l’acqua, nonché biancheria per cambiarsi». Con l’ordinanza del 18 gennaio 1916 il limite di età venne innalzato a 55 anni. Questo esercito di militarizzati, accanto ai gruppi di prigionieri, fu utilizzato nei paesi per costruire ponti, strade, acquedotti e scavare trincee. Molti lavoratori vennero impiegati sul Monte Peller e nella zona di Bozzana, a preparare le difese di terza linea del Tonale. Altri furono costretti a scavare trincee lunghe diversi metri, a ridosso dei paesi.

«Nella località ai Larsetti bosco comunale di Cavareno si constata che sono state praticate delle lunghe trincee profonde da 1 metro e 50 cm in media, con una percorrenza di molte centinaia di metri. La massima parte di queste trincee è scavata nel vivo della roccia. Il pietrame che ne risultava venne depositato e trasportato a distanza verso la valle ciò che difficulta il trasporto del materiale a posto per riempire le trincee le quali non solo rappresentano notevole danneggiamento delle culture ma anche un pericolo per persone ed animali. Si constata anche che buona parte della superficie boschiva venne privata delle zolle che vennero asportate e in parte collocate sopra il pietrame levato dalle trincee. Tali lavori fatti dai soldati austriaci durante la guerra recano danno notevolissimo sia per la mancata produzione di erba su vastissimi tratti del bosco sia anche pel fatto che un nuovo impianto è reso in parte impossibile essendo rimasta la roccia nuda. Si nota poi anche che le piante in tutta prossimità delle trincee sono destinate a cadere per mancanza di sostegno sia a causa del vento si in causa delle nevi essendo state tagliate le radici. Nella località ove era stato fatto un bersaglio le piante sono piene di proiettili e pezzi di granate e quindi completamente svalutate. Si fa notare che nelle trincee era stato impiegato molto legname per costruire i ripari, legname che venne poi in gran parte terminata la guerra, asportato e bruciato dai comunisti [russi]»40.

Altre trincee per le esercitazioni vennero realizzate a Romeno e a Salter. Queste trincee erano inserite all’interno di campi trincerati di esercitazione – noti comunemente come übungsplatz – provvisti di postazioni per il tiro e piccole piazze di manovra. Anche a Cles, sede del Capitanato Distrettuale e zona di passaggio e di concentrazione di truppe in transito verso la Val di Sole e la Val d’Adige, ne fu costruito uno. Lì i militari in riposo trascorrevano periodi di svago e di addestramento in cui si esercitavano nel tiro e sperimentavano nuove tecniche di combattimento, in vista di essere trasferiti sui campi di battaglia.

1917 - L’ANNO IN CUI I POPOLI DISSERO “BASTA!”

“L’AN DE LA FAM”

Se il 1916 fu l’anno della scarsità crescente in tutti i rami dell’economia e della società, il 1917 segnò il passaggio dalla scarsità alla penuria. Con la guerra che si prolungava ormai da anni, le scorte erano finite e lo Stato ormai non riusciva più a far fronte alla fame. Nei due ultimi anni di guerra le requisizioni a favore dell’Esercito si fecero ancor più onerose. Nel giugno 1917, la commissione militare requisì alla Mendola ben 4.000 m3 di legna per la costruzione di baraccamenti sul Tonale al prezzo di 9 corone al m3. Nel gennaio successivo venero requisiti nel solo comune di Cavareno 400 kg di grano che, ad aprile, divennero 1.800. A questo si aggiunse l’obbligo di fornire di latte appena munto le mense degli ufficiali. Mentre da una parte la popolazione civile era impegnata in continue proteste per il prolungamento della guerra e la mancanza di cibo, complice anche il freddo inverno del 1916-1917, dall’altra lo stato dei soldati al fronte era tragico: molti militari facevano domanda per essere mandati a casa con permesso, stanchi di combattere un’«inutile strage»41.

40 Archivio del Comune di Cavareno, Atto assunto nella Cancelleria Comunale di Cavareno dalla Commissione giudiziale addì 27 ottobre 1921.41 Cfr. Benedetto XV, Ai Capi delle nazioni belligeranti. 1° agosto 1917.

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IL TENTATIVO DI UNA PACE SEPARATA E IL PASSAGGIO IN VAL DI NON DELL’IMPERATORE CARLO I

Per salvare la Monarchia dall’autodistruzione, tra il gennaio e il marzo 1916 il nuovo Imperatore Carlo I iniziò ad attuare riforme: in gennaio conferì ai Landesschützen il titolo di Kaiserschützen: un alto riconoscimento che si rivelò assai meritato dato che queste truppe avevano combattuto valorosamente sul fronte orientale lottando fino all’ultimo contro il nemico russo e italiano; a marzo licenziò il generale Franz Conrad, Capo del Comando Supremo, giudicato troppo propenso alla guerra a tutti i costi e lo sostituì con il più pacato e fidato Arz von Straussemberg. In seguito, concesse l’amnistia ai carcerati politici e propose alle potenze dell’Intesa una pace separata basata sul ripristino dell’indipendenza del Belgio, della Serbia ed il riconoscimento dell’Alsazia e Lorena alla Francia. Il Primo ministro inglese cercò di trovare una soluzione persuadendo Carlo I a rinunciare perlomeno al Trentino mentre il Ministro degli esteri italiano Sidney Sonnino, informato delle intenzioni austro-ungariche, negò la sua disponibilità a negoziare: il Regno d’Italia non intendeva rinunciare a nessun punto del Patto di Londra. Il tentativo di pace perciò venne definitivamente abbandonato e l’Austria-Ungheria fu costretta a continuare la guerra. Nel gennaio 1917 Carlo I, in veste di nuovo capo supremo dell’esercito, si recò in ispezione sul fronte meridionale con l’intenzione di prendere personalmente provvedimenti nella conduzione della guerra. Dopo aver trascorso un breve periodo a Bolzano dove ebbe un fitto colloquio sulla situazione bellica con l’arciduca Eugenio, nel pomeriggio del 15 gennaio l’Imperatore proseguì il suo viaggio verso Trento dove, sulla Piazza d’armi (oggi Piazza Venezia) passò in rassegna un reggimento. Il giorno seguente si recò sull’Altopiano di Folgaria e in Valsugana, fece poi ritorno a Trento e partì alla volta di Innsbruck facendo tappa in Val di Non, dove ispezionò il nuovo ponte sopra la forra di Santa Giustina. A Cles incontrò gli alti comandi militari e passò in rassegna le truppe in partenza per il fronte del Tonale, schierate alle porte del paese. Il 16 gennaio fu probabilmente un giorno memorabile per gli abitanti della Val di Non42.

42 L’imperatore Carlo I farà ritorno in Val di Non con la

“DIVENTARE ITALIANI” PER TORNARE A CASA: LA MISSIONE ITALIANA PER I PRIGIONIERI DI GUERRA IN RUSSIA E IL CORPO DI SPEDIZIONE ITALIANO IN ESTREMO ORIENTE

Nel 1917 il profondo scompaginamento provocato dall’esperienza di guerra in Galizia continuò per molti ex combattenti negli anni della prigionia in Russia. Quando, nel 1917, il Comando Supremo italiano propose al governo di Vienna la possibilità per gli ex prigionieri di lingua italiana che si dichiaravano volontariamente «irredenti» di essere rimpatriati passando per l’Italia, molti trentini accettarono questa definizione sperando in un rimpatrio veloce e sereno. Per coloro invece che rifiutavano l’opzione di italianità, non restò che rimanere in Russia come prigionieri dell’esercito zarista. Sulla base delle circolari emanate dalla Commissione per i prigionieri di guerra del Ministero della guerra, tutti coloro che si definivano «redenti» potevano fare domanda di libertà condizionata e chiedere il trasferimento in Italia tramite la Missione Italiana per i prigionieri di guerra in Russia. Nell’autunno 1916, un primo convoglio di 4.000 trentini – con molti nonesi a bordo – che avevano fatto domanda di rimpatrio tramite la Missione Italiana, era partito dal campo di raccolta di Kirsanov alla volta del porto di Arcangelo, per essere poi imbarcato per l’Italia43. Dopo quel primo rimpatrio andato a buon fine, ragioni di politica militare e l’inefficienza della Missione ne impedirono altri; lo scoppio della Rivoluzione con la presa di potere da parte dei bolscevichi di Lenin e Trotsky e la pace di Brest-Litovsk resero tutto più complicato, al punto da suggerire ai responsabili militari italiani di trasferire gli ex prigionieri in attesa di rimpatrio a Vladiwostok, in modo da sottrarli alla propaganda bolscevica44.Nonostante i disordini e i cambi di governo, la Missione militare italiana rimase operativa nell’organizzazione dei rimpatri per tutto l’inverno, tanto che alla fine del 1917 altri 2.500 ex prigionieri (di cui 1600 trentini e qualche noneso)

moglie nel giugno 1918 per seguire, dalla Mendola, la mobilitazione dei soldati per le ultime battaglie del Tonale passate alla storia come «le offensive della disperazione». 43 Antonelli 2008: 237-238.

44 Francescotti 1981: 91-96.

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vennero trasferiti in Cina dopo aver attraversato tutta la Siberia in treno. Partiti da Kirsanov il 28 dicembre 1917, gli «irredenti» giunsero a Tien-Tsin, concessione italiana in Cina, dopo oltre due mesi di viaggio a piedi e in treno:

«Della mia venuta in Cina e tutto quello che passo fino un anno fa spero ve lo avranno fatto sapere e detto Arnoldo Arturo e Martin Rizzi da Revo che fummo in compagnia fino che loro partirono da qui lo scorso anno e spero ve lo avranno raccontato. Dopo che loro partirono noi restammo ancora qua fino a alla prima meta di ottobre poi partimo verso la Siberia con corpo di spedizione ed arriva|mo il 21 Novembre a Krasnoiarsck una citta di circa 80 mila abitanti lungo la ferrovia Transiberiana e rimanemmo fino ai 6 agosto giorno in cui partimmo per rimpatriare diretti a Vladivostok, ma quando fummo in Harbin in Man ciuria ci fu l’ordine di venire verso la Cina, a causa si dice del colera che c’e da Harbin-Vladivostock Durante la mia permanenza in | Krasnoiarsck io scrissi molte lettere come i due paesani che sono qua e quelli di Revo ma ebbe solo risposta il Magagna da Revo che

ebbe una lettera da casa | Io ebbi notizie da nostro cugino da Tregiovo dall’America ma ora e piu di un anno che non ne ho | neppure da lui, ma da voi e famiglia mi scriveva che non sapeva niente e nemmeno dei suoi. “La direzione di qui e: soldato G. Pancheri R.R. Truppe Italiane Estremo Oriente sezione artiglieria Tientsin Cina”»45 .

In aprile altri 700 ex prigionieri furono trasportati in Italia da navi americane dirette al porto di Genova. Agli italiani d’Austria che non avevano fatto la scelta identitaria a favore dell’Italia fu suggerito di rimanere in Russia, in attesa del rimpatrio. Molti di costoro vennero inquadrati nei Battaglioni Neri, un contingente composto da truppe di rinforzo alle operazioni di contenimento dei rivoluzionari bolscevichi avviate dall’Italia al fianco delle potenze dell’Intesa46. Altri invece si arruolarono nell’Armata

45 Lettera di Giovanni Pancheri di Romallo. 5 settembre 1919. Cfr. GENTILINI 2009. 46 Ufficio storico del Ministero della Guerra 1934: VII, tomo I, 55.

Übungsplatz a Cavareno, a Romeno e a Cles

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Rossa o nel Battaglione irregolare Savoia. Un ultimo gruppo di «kirsanover» fu invece spinto ad arruolarsi nella Legione Redenta, un corpo armato sempre alle dipendenze del Corpo di spedizione Italiano in Estremo Oriente47. L’opera della Missione Italiana per i prigionieri di guerra si concluderà nel 1918 con la raccolta a Krasnojarsk dei circa 300 prigionieri, in prevalenza trentini arruolati nel Battaglione irregolare Savoia e il concentramento, nella baia di Gornostai di circa 1700 redenti divisi in 8 compagnie. Il rimpatrio degli ex prigionieri avvenne in diversi scaglioni nei tre anni successivi, sempre via Tien-Tsin. Dalla Cina gli ex prigionieri nonesi iniziarono un lungo viaggio di ritorno verso l’Italia con tappa a Krasnaiarsk, ad Harbin, a Vladivostok, ad Hong Kong, a Singapore e nello Sri Lanka. Dopo aver attraversato il Mar Arabico, il viaggio proseguiva nel Mar Rosso. Attraverso il canale di Suez, Carlo Busetti di Rallo e Angelo Paoli di Denno approderanno in Italia quasi due anni dopo rispetto ai convalligiani che erano rimasti in Russia come prigionieri dell’esercito austro-ungarico.

DALL’ISONZO ALL’ORTIGARA. LA NASCITA DEL MITO DEGLI ALPINI

Il 1917 fu un anno di relativa calma per quanto riguarda il fronte dell’Adamello e del Tonale, in quanto l’esercito italiano era impegnato nelle sanguinosissime battaglie dell’Isonzo. Unica eccezione furono i preparativi che portarono ai primi di giugno all’assalto del Corno di Cavento, caposaldo austriaco strategicamente importante per minacciare i rifornimenti delle linee italiane avanzate del tratto di fronte tra la Val Rendena e la Val di Fumo. Combattere in alta quota dopo quarantuno mesi di lotta durissima costituì per i volontari arruolati negli Alpini e per i combattenti nei reparti austro-ungarici una prova di altissimo valore e di indomita resistenza.Aggrappati sulla roccia di enormi pareti verticali, anche i soldati nonesi combatterono una guerra di mine

47 Rossi 1997.

Tassullo, 16 gennaio 1917. Passaggio di Carlo I sul ponte di Santa Giustina.

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e contromine, espugnando posizioni ritenute imprendibili e costruendo con mezzi rudimentali strade e sentieri ancor oggi percorribili. Il mito della Guerra Bianca, accostato al fascino della natura estrema e alimentato abilmente dai propagandisti e dai corrispondenti di guerra negli ultimi anni del conflitto, fu suggellato dalla grande battaglia dell’Ortigara. Tra il 10 giugno e il 29 giugno 1917 si svolse sulla linea difensiva del Monte Ortigara quella che secondo Cadorna avrebbe segnato la riscossa italiana in Trentino dopo la battuta d’arresto della Strafexpedition. L’accanita resistenza dei Kaiserschützen, la nebbia e il tiro impreciso delle artiglierie italiane fecero fallire quasi tutti gli attacchi. La vittoria finale andò agli imperiali che riuscirono a resistere ai ripetuti assalti degli italiani, che pure riuscirono a conquistare la vetta mantenendola per alcuni giorni prima del definitivo contrattacco nemico. Le perdite ammontarono a circa 25.000 caduti tra i soldati italiani e circa 9.000 caduti tra quelli austriaci48. Sebbene l’offensiva italiana contro le formidabili posizioni austro-ungariche non raggiunse i risultati prefissati, nel quadro generale della guerra, la battaglia dell’Ortigara contribuì ad impiegare nel settore trentino una notevole massa di soldati imperiali a tutto vantaggio delle operazioni sugli altri fronti. Su quelle aspre montagne, consacrate dal sangue dei due eserciti in lotta, alpini, fanti, bersaglieri, artiglieri e Kaiserjäger scrissero, assieme, pagine di storia eroica che non possono essere dimenticate49. Per gli abitanti della Val di Non l’autunno 1917 fu il periodo più terribile e nefasto dei quattro anni di guerra: i cannoneggiamenti italiani a Malga Pece, in Val Vermiglio, fecero presagire per la prima volta una minaccia concreta di invasione nemica attraverso la Val di Sole, come conseguenza della rotta di Caporetto50. Il 24 ottobre 1917, a un anno dallo sfondamento delle linee italiane sugli Altipiani, gli austro-tedeschi avevano travolto le linee italiane dilagando fino al Monte Grappa e al Piave, ove erano stati fermati da uno sforzo

48 Pozzato 2014:159-153.

49 Volpato 2006: 75-76. 50 Pozzato 2014: 166-170.

Cles,16 gennaio 1917. Carlo I passa in rassegna le truppe.

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estremo dell’esercito italiano con gli arruolati di rimpiazzo dell’ultima classe di leva, quella del 1899. Dopo la disfatta di Caporetto ci volle ancora un altro anno di guerra prima che l’Italia ritrovasse lo spirito di offensiva e costringesse l’Austria-Ungheria all’armistizio.

1918 - L’ULTIMO ANNO DI GUERRA

Nell’inverno 1917-1918 la guerra si fece meno intensa sul fronte trentino, per poi riprendere con violenza in primavera toccando tutti i campi di battaglia, dall’Adamello alla Vallarsa. Il 10 maggio 1918 una grande offensiva italiana portò alla conquista del Corno di Vallarsa, mentre altre posizioni nemiche vennero occupate dalle truppe italiane nella zona del Tonale. Il 25 maggio le artiglierie italiane bombardarono il Pizzo di Vermiglio e le postazioni del Presena. Lassù i soldati nonesi vissero e morirono tra incendi, rombi di cannone e scoppi di depositi di granate.

LE ULTIME GRANDI BATTAGLIE DEL TONALE: LA LAWINE-EXPEDITION E LA BATTAGLIA DEL SAN MATTEO

Nel mese di giugno fu organizzata l’offensiva con cui l’esercito austro-ungarico, forte del recupero di truppe in seguito alla fine del conflitto con l’Impero zarista, puntava a far breccia nella pianura veneta (Lawine-expedition). Tra le 9 e le 10 del 13 giugno, gli austriaci scesero in campo sul Tonale con tutta la Prima Divisione da Montagna. Le truppe italiane contrattaccarono. Il 14 giugno gli Schützen della 22°Divisione tentarono un ultimo disperato attacco contro le difese del Monte Rosa, ma anche questo venne respinto. Molti soldati austro-ungarici, tra cui anche nonesi, vennero fatti prigionieri dagli alpini, usciti a sorpresa dalle trincee51. Il 13 agosto, una nuova offensiva italiana cercò di completare l’occupazione della Conca Presena, mirata alla conquista di importanti posizioni sul San Matteo (3.684 m.), montagna che consentiva di tenere sotto controllo le Valli del Noce – attraverso le quali sarebbe stata possibile una

51 Magrin 1914: 26-36.

Cartolina illustrata del Battaglione italiano Savoia/Samara-Vladivostok – FMST

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futura penetrazione italiana verso Trento – e dirigere efficacemente i tiri di artiglieria sul Gavia e sull’Albiolo, dominando al contempo alle spalle gli accessi italiani lungo le creste del Vioz e del Cevedale. Sui ghiacciai in cima alla Val di Pejo, dove avvennero gli scontri, i soldati nonesi mobilitati in zona risentirono non solo del freddo, ma anche della carestia che affliggeva da più di un anno l’Impero, già travagliato da una generale crisi economica che aveva determinato la carenza di materie prime complicando la già difficile situazione nutrizionale. Anche sul Piave le linee austro-ungariche cedettero sotto gli attacchi delle truppe italiane. In ottobre, nonostante il tentativo riuscito di riconquista di Punta San Matteo (3 settembre 1918), l’esercito imperiale poteva dirsi praticamente sconfitto:

«Domenica 27 ottobre si legge il comunicato. I movimenti sul Fronte Italiano così si concludevano: le truppe Austro-ungariche sgomberavano le zone occupate». Due dì dopo i militari che in questi paesi vicini alle Borgate cercano alloggi e stalle: ma tanti, che significa? […] Pare che si siano obbligati a ritirarsi dal Fronte Italiano tanti km; forse tutti e due gli eserciti? […] Sarà stato la domenica 27 ottobre che comparve sui muri un appello dell’Imperatore col titolo: “ai miei popoli”. Ma non si dava più retta. Prometteva la fine della guerra, buoni progetti, autonomie; ma più si capiva il sentimento di un ultimo saluto»52.

Il Passo del Tonale fu nuovamente campo di battaglia l’1 novembre, quando gli imperiali – giunti ormai allo stremo delle forze ma fedeli al compito di difesa assegnato – combatterono con le ultime risorse, senza tuttavia fermare l’esercito italiano. Infranti gli sbarramenti alla sella del Tonale, le truppe italiane dilagarono in Val di Sole dalla Val Vermiglio, catturando interi reparti avversari.

DALLA GUERRA ALLA PACE

Nelle Valli del Noce la guerra finì il 3 novembre, con la firma dell’armistizio a Villa Giusti seguito alla vittoria italiana nella battaglia di Vittorio Veneto. Quel giorno, sulle tormentate montagne del Tonale, il fronte più vicino alla Val di Non, scese finalmente il velo silenzioso della pace:

52 Turrini 1998: 211-212.

«Alle 4 di mattina viene stipulato e firmato l’armistizio con l’Austria, Ungheria con l’Italia a questa ora i nostri deponeron le armi [e] gli Italiani subentrarono nella terra Tirolese sulla sera noi udiamo voci di questo armistizio nel mentre si sentiva dire che i Tedeschi vegnivano indietro e gli Italiani perseguitavano questi facendoli retrocedere e rimanere prigionieri di guerra. La mattina del 5 [novembre] alle ore 9 oltrepassarono i primi bersaglieri Italiani a cavallo il ponte di Mostizzolo, nel suo seguito sempre più aumentarono la guarnigione nei paeselli della Val di Non. In questi giorni del mese si sentiva sempre udire che arrivavano dei paesani presso le sue famiglie ciocchè la popolazione rimaneva contenta»53 .

Le caratteristiche della vittoria italiana, con un numero esorbitante di prigionieri e la sostanziale impreparazione dell’apparato logistico italiano ad affrontarne le conseguenze, fecero sì che gli spettri della fame e delle condizioni igieniche al limite della tollerabilità affollassero, più di qualsiasi volontà di rivalsa, le prime ore di vita dei “vinti”, come racconta nel suo diario Giovanni Cavallar, contadino della Val di Rabbi:

«Arriva un rimpatriato dalla Russia che ne aveva da raccontare […] ci dice che lungo l’Adige c’era molto moviemento di truppe verso Nord ed in Val di Non […] che viaggiavano verso la Mendola, ed ha visto un qualche disordine. […] E che si vede? Pieno lo stradone di ciucchi: civili e militari. C’era poco da scherzare. Chi ha potuto comprare un carico e cavalli per 3 o 4 cento corone, chi ha acquistato mezzo metro cubo di sigarette per un simile prezzo. Io arrivai presso la stazione di Malè [della Trento-Malè]: tutto disordine e spreco. […] Più di un magazzino [militare] fu traslocato in casa di parenti e paesani»54 .

Motore di questo clima di disordine generale era la paura della popolazione, già provata dalla fame e segnata dallo stigma della separazione, di perdere la propria identità e la propria terra. In Val di Non, in conseguenza dello spostamento di confine al Brennero, il problema di amministrare una popolazione divenuta improvvisamente italiana fu grandissimo. E l’aggravarsi dell’epidemia influenzale, la famigerata «spagnola», fece precipitare ulteriormente la situazione.

53 Ravanelli 1988: 243-274. 54 Turrini 1998: 212-213.

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L’INFLUENZA SPAGNOLA: LA PANDEMIA CHE CAMBIO’ IL MONDO

Già nel 1917, mentre l’eco dei cannoni risuonava nelle trincee europee e gli ospedali militari rigurgitavano di feriti e di malati, un altrettanto letale catastrofe si abbatteva su ogni angolo del mondo. Conosciuta per essere la prima malattia globale della storia, la febbre spagnola contagiò circa un miliardo di persone, provocando, secondo le stime più recenti, addirittura più morti della Grande Guerra. In Europa il picco dell’epidemia si sviluppò a partire dalla primavera del 1918 ma, dall’autunno dello stesso anno e poi per tutto l’inverno del 1919, si diffuse ovunque e iniziò a mietere sempre più vittime, anche in Val di Non. Il contagio era estremamente facile. La malattia si diffondeva per via aerea, favorita dalla mobilità di enormi masse di persone. Nelle trincee ogni più piccola patologia contagiosa si diffondeva con rapidità e i soldati in licenza o congedati portavano con sé il virus, contribuendo a diffonderlo in zone altrimenti sicure. Mentre le pagine delle riviste mediche registravano i tentativi sempre più disperati di arginare il virus, i quotidiani locali si riempivano dei resoconti di ricoveri e decessi.

RITORNI

Sul campo, la Prima guerra mondiale lasciò approssimativamente 16 milioni di morti tra cui 11.000 soldati trentini e centinaia di nonesi caduti con la divisa imperiale e grigio-verde, ai quali vanno aggiunti tantissimi feriti e mutilati. Nella conferenza di pace del 1919 per la prima volta si parlerà di crimini contro l’umanità e le nazioni sconfitte, colpevoli secondo i vincitori di aver innescato il conflitto, saranno condannate al risarcimento di pesanti danni di guerra. Il rimpatrio dei richiamati nonesi fu lento, in ragione della lontananza in cui i soldati si trovavano il 3 novembre. Nei due giorni successivi tornarono in Val di Non i mobilitati in Val di Sole, nelle settimane seguenti quelli impiegati negli altri settori del fronte dolomitico,

Monte Ortigara. Cadaveri di militari caduti in battaglia – FMST

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dopo mesi tornarono anche i soldati inviati in Polonia e sul fronte occidentale. Una volta arrivati al confine del nuovo Stato, i reduci venivano perquisiti delle milizie dei “vincitori” e spogliati di tutto ciò che avevano. Quei pochi che tornavano dal fronte italiano dicevano di aver continuato a sparare per tutta la mattina del 3 novembre perché non era arrivato subito l’ordine di cessate il fuoco55. Dopo la fine della Grande Guerra il Trentino finì di esistere come entità politica, economica, sociale e culturale inglobata nell’Impero austro-ungarico. Dal conflitto uscì profondamente modificato sia morfologicamente che geograficamente e la sua storia venne inabissata per riemergere, a distanza di anni, non più riconoscibile56. Con l’occasione del Centenario auspichiamo che il reale svolgimento di questa storia venga portato alla luce attraverso il recupero delle testimonianze di quei testimoni resi invisibili dalle ragioni dei vincitori e della grande storia.

55 Turrini 1998: 215. 56 Antonelli-Bettini-Leoni 2003: 23-25.

28 Novembre 1918. Prigionieri italiani liberati in cammino verso Trento - MSIG

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Bibliografia

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AppendicePROFILI BIOGRAFICI DI ALCUNI NONESI PARTITI PER LA GUERRA NEL 1914-1918

Angelo Paoli di DennoAngelo nasce a Denno, il 4 agosto 1890. È il secondo dei quattro figli di Romano Paoli, originario di Nanno, e Maria Berti di Denno. Ha due sorelle Luigia, nata nel 1892, e Giuseppina, nata nel 1894. Suo fratello, Celeste, nato il 18 luglio 1897 combatterà sul fronte dolomitico. Lavora con il padre, facendo il calzolaio. Viene mobilitato fin dai primi giorni del conflitto nel K.k Landeschützen Regiment Trient Nr. I. e inviato in Galizia. Combatte per la prima volta il 28 agosto 1914 in Volinia, a Uhnow-Tarnoszyn, e prende parte alla sanguinosa battaglia di Gròdek-Ravarùska, diventata famosa per l’importante sconfitta subita dagli austro-ungarici. Dopo 5 mesi di guerra in prima linea viene fatto prigioniero dai russi. È dapprima trasferito nel campo di prigionia di Astrakan, poi, a partire dal maggio 1915, viene impiegato in lavori in corso sulle linee ferroviarie a Sizran e a Voejkovo. Nel maggio del 1916 riprenderà il suo mestiere di famiglia, farà il calzolaio a Skopin, al servizio dei prigionieri austriaci. Nel 1917 si arruolerà volontario nel Battaglione irregolare “Savoia”, condividendo la sorte della Legione cecoslovacca nella guerra contro i bolschevichi. Ritornerà a Denno nel 1920, dopo aver passato quasi un anno a Vladivostok con gli ex prigionieri austriaci italofoni radunati dalla Missione militare italiana per i prigionieri di guerra in Russia. Due anni dopo sposerà la compaesana Celestina Dalpiaz. Per tutta la sua vita, egli continuerà a frequentare i suoi ex compagni di prigionia in Russia, tra i quali Emilio Dalpiaz, soprannominato “il Russo”.

Matteo Sembiati di VervòMatteo Sembiati nasce il 13 dicembre 1883 a Vervò, settimo di dieci figli di una famiglia contadina. Si dedica con passione alla conduzione dell’azienda agricola familiare nei suoi primi anni di gioventù. Presta tre anni di servizio militare attivo nel II Reggimento Kaiserjäger a Bolzano. Alle “Grandi Manovre”del 1905 in Val di Non, è addetto alla scorta d’onore dell’Imperatore Francesco Giuseppe in qualità

di trombettiere. Negli anni successivi trascorre altri tre mesi di riserva e nel luglio 1914 parte per la guerra, richiamato con la leva in massa. Passa quattro anni sul fronte di guerra in Galizia e di prigionia in Russia. Tornato alla sua famiglia partecipa attivamente alla vita sociale ed economica del proprio paese: entra nella rappresentanza comunale, diventa componente del locale Corpo dei Vigili del Fuoco, presidente del Caseificio Sociale e membro del Comitato per la gestione dei Beni di Uso Civico.

Giacinto Branz di SanzenoGiacinto Branz nasce a Sanzeno nel 1881 e, conclusi gli studi, esercita per 23 anni la professione di maestro nel proprio paese natale. È un uomo rigoroso e autorevole sul lavoro e severo in casa. Dotato di grande sensibilità e umanità, è ricordato soprattutto per la sua condotta sempre ligia al dovere. Per le sue presunte simpatie filoitaliane, era stato sottoposto a controllo da parte delle autorità austriache già prima dello scoppio della guerra. A guerra iniziata, proprio per questo, viene mandato per alcuni mesi al confino, in Austria. Il 1 agosto 1914 viene arruolato nella 6° Feld Kompagnie del I Reggimento cacciatori imperiali (Kaiserjäger) assieme a Giuseppe Tavonatti di Tavon. Dapprima viene inviato in Val di Fassa, nei pressi di Bellamonte e poi a Predazzo. Successivamente viene inviato in Russia. Destinazione, la Galizia. Dalla Russia torna a casa due volte, la prima ammalato, la seconda gravemente ferito.

Carlo Busetti di Rallo Quella di Carlo Busetti di Rallo, classe 1876, è una storia umana e bellica da romanzo. Prima di partire per la guerra, è emigrato in California, dove dopo un paio di anni trova la morte il fratello, partito con lui. A seguito di quel tragico evento Carlo torna in patria, per fare il contadino. Quando è richiamato alle armi ha 40 anni. Viene mandato sul fronte orientale, tra i riservisti. Rimasto ferito da una pallottola di “fuoco amico” al gluteo, si dà volontariamente prigioniero ai russi. Da prigioniero è tradotto prima a Ekaterinenburg, città dove nel 1918 saranno fucilati l’ultimo zar Nicola e i suoi familiari, e poi in Siberia, dove vive in prigionia per un lungo periodo. Dalla Siberia torna in Trentino circumnavigando l’Asia, con

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scalo a Yokohama, Kyoto, Shangai e transitando lungo le coste dell’India, per poi costeggiare l’Africa e raggiungere la Calabria attraversando il canale di Suez. Ad accompagnarlo nel suo “giro del mondo” durato oltre due mesi, i suoi commilitoni nonesi: “il Dallatorre” di Bresimo, “l’Anselmi” di Brez, “il Larcher” di Cavareno e “il Visintainer” e “il Flaim” di Cles.

Francesco Gottardi di VervòFrancesco Gottardi nasce a Vervò il 20 settembre 1885 da una modesta famiglia soprannominata “Zanco”. Rimane orfano del padre all’età di 1 anno. Nel 1904 perde anche la madre. Nel 1913, conseguito il diploma magistrale, inizia l’attività di maestro elementare nel suo paese natale. La sua esperienza di guerra inizia come quella di decine di migliaia di altri trentini, con l’ordine di mobilitazione generale. Il 1 agosto è a Trento, nella caserma di via Perini dove comincia il suo periodo di addestramento. Dopo alcune settimane di esercitazioni, marce e battaglie simulate, il 1 ottobre viene inquadrato nel III Reggimento dei Kaiserjäger e parte per il fronte galiziano. Assieme a lui partono una ventina di compaesani, tra cui anche il fratello Giuseppe, che non farà più ritorno. Nel giugno 1915 cade volontariamente prigioniero dei russi. Trascorre il periodo di prigionia in diverse località della provincia di Saratow, nella regione del Volga. Rientrato in Italia nell’autunno del 1916, attende la fine della guerra a Varese, dove trova lavoro come insegnante. Solo a guerra finita, nell’agosto del 1919, riesce a tornare a Vervò dove sposa Silvia Zucali. Rirpesa la vita di sempre si dedica attivamente alla vita sociale del paese, quasi a voler colmare gli anni passati altrove. Promuove la realizzazione di una campana in ricordo dei caduti che nel 1925 viene collocata sul campanile della Chiesa di San Martino. Appassionato di storia antica e di archeologia conduce interessantissime ricerche sull’insediamento romano sito in località San Martino (oggi oggetto di interventi di recupero e valorizzazione) e sul Castrum Vervasium.

Davide Vender di Rumo Davide Vender detto “Bèdi” di Corte Inferiore (Rumo), nasce il 7 ottobre 1884 da Giovanni Vender di Rumo e Clementina Gasperetti di Tuenno. Ha 9 fratelli: Serafino (classe 1885),

Maria (classe 1887), Rosa (classe 1889), Caterina (classe 1890), Pietro (classe 1892), Rosa (classe 1894), Sisinio (classe 1895), Viola (classe 1896) e Carletta Carolina nata nel 1898. Si diploma maestro elementare nel novembre 1906 a Rovereto. Oltre che insegnante esercita anche l’attività di dirigente scolastico presso la scuola di Marcena di Rumo. Come esperto di musica e direttore di coro è uno dei collaboratori della ricerca “Das Volksliedin Osterreich” sul canto popolare ladino, portata a compimento nel 1915. Si sposa con Maria Giuseppina Flor di Cloz da cui ha un figlio, Ezio, nato il 1 marzo 1915, che non conoscerà mai. Muore il 10 settembre 1916 durante la sua prigionia in Siberia, ai lavori forzati nei pressi del campo di Tjumen. I mesi precedenti li ha passati prigioniero a Nova Nikolajevski e a Omsk, dove aveva ricevuto il telegramma della nascita di suo figlio. Presso l’Archivio di Stato di Trento è conservato il racconto di un testimone oculare della sua morte, il maestro Enrico Marches, prigioniero anche lui a Tjumen. Durante la prigionia Davide scrive oltre 121 volte alla moglie, informandola sui suoi spostamenti e rassicurandola sul suo stato di salute. Le cartoline su cui annota i suoi pensieri erano quelle fornite dalla Croce Rossa, piccole e con poco spazio per scrivere.

Costante Chini di Segno Costante Chini di Segno, classe 1895 parte ventenne per la Galizia, inquadrato nel II Reggimento Kaiserjäger. Il 28 maggio 1915 arriva a Cracovia e da lì raggiunge con la ferrovia Tarnof e l’8 giugno arriva a Kiemen, grande borgata della Galizia. Il 15 giugno viene trasferito con la sua compagnia in prima linea, dove affronta per la prima volta i russi. A luglio viene inviato nella Polonia russa, dove affronta lunghe marce di 40 e 50 chilometri al giorno. All’alba del 6 luglio viene accerchiato con i suoi commilitoni dai russi che avanzano alla baionetta. Lo scontro è sanguinosissimo, e , malgrado la tenace resistenza, viene fatto prigioniero. Da prigioniero vive lunghi anni in Siberia lavorando nelle fabbriche; come altri trentini, alla fine della guerra raggiunge con la transiberiana Vladivostok e rientra in patria via mare, nell’autunno del 1919, passando per il canale di Suez. Tornato a casa sano e salvo, si adopera molto nel sociale. Negli anni ’20 è delegato in seno all’Unione provinciale

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contadini; poi presidente del caseificio e primo presidente del magazzino locale della frutta. Negli anni ’50, infine, diventa presidente della Famiglia Cooperativa.

Narciso Fondriest di Cles Narciso Fondriest di Caltron, detto “Bora”, classe 1888, è partito per la guerra come soldato dell’Impero austro-ungarico nell’agosto del 1914. Rimane a combattere in Galizia fino al novembre, dove viene ferito. In seguito alla ferita è ricoverato negli ospedali militari di Brno e di Trento. Tornato al fronte sui Carpazi, nel marzo 1915, viene nuovamente ferito e quindi ricoverato di nuovo, presso l’ospedale di Vienna. A maggio ottiene il trasferimento a Trento, con l’ordine di tenersi pronto per partire alla volta della Boemia. Il 10 maggio 1915 quando, commentando con altri soldati l’ordine di partire immediatamente per la Boemia nel piazzale della Caserma Madruzzo a Trento, sente due uomini annunciare l’ormai prossima entrata in guerra dell’Austria con l’Italia, decide di disertare pensando che il fronte italiano potesse diventare una delle sue prossime destinazioni. Grazie ad un amico solandro che aveva un’osteria in via del Fersina, si procura degli abiti civili e un biglietto della tramvia Trento-Malè per tornare in Val di Non. Anziché scendere a Cles, scende alla fermata precedente, in località Santa Giustina. Da lì senza farsi riconoscere raggiunge a piedi, camminando di notte tra le campagne, la frazione di Caltron. Due giorni dopo due gendarmi vanno dalla sua famiglia per arrestarlo. Riesce a fuggire ma decide di non fare più ritorno a casa. Trascorrerà 40 mesi da imboscato in una grotta ai piedi del Monte Peller, a mezz’ora di cammino da Malga Clesera.

Enrico Moggio di ClesEnrico Moggio nasce a Cles nel 1887. Con il padre Celeste esercita la professione legatore di libri ma si interessa anche di politica. Allo scoppio della guerra, in quanto ex socialista, è sottoposto al regime di sorveglianza speciale da parte delle autorità militari austro-ungariche per i suoi contatti con il Regno d’Italia, dove aveva molti amici e amiche. Viene arrestato il 9 marzo 1915 con l’accusa di aver scritto, nel gennaio 1915, componimenti poetici a sfondo irredentista e pacifista con riferimenti di stampo

anarchico, in cui accenna anche alla natura intimamente autoritaria dello stato austriaco. Lascia un ricco epistolario composto da una fitta corrispondenza intrattenuta tra il 1915 e gli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto. L’epistolario conta centinaia di lettere scambiate con la famiglia, corrispondenti nonesi e residenti nel Regno d’Italia e da alcune cartoline Feldpost illustrate dall’amico di penna Romedius Sinn, inquadrato nella 2°Compagnia del II Reggimento Landesschützen. Non mancano fotografie, foglietti e appunti legati alla sua attività di irredentista. Nelle lettere inviate in Italia, esprime con forza la sua ostilità nei confronti della guerra vista come «fatica assurda», «imposizione estranea agli interessi del popolo», «rissa irragionevole di governi e di principi» e auspica, come emerge anche dalle cartoline allegate ai fascicoli processuali, una presa di coscienza del suo popolo, al quale viene demandato il trionfo della giustizia.

Giuseppe Maurina di SpormaggioreGiuseppe Maurina, nato a maso Maurina, nei pressi di Spormaggiore il 1882 diventa prete all’età di ventidue anni e fin da subito prende a cuore il benessere spirituale e materiale dei poveri e degli umili, senza esclusione verso alcuno. Seguendo le orme di don Guetti, si impegna attivamente alla diffusione della cooperazione, fondata sui valori di solidarietà e sulla fratellanza. Esercita la sua missione a Borgo, a Malé, a Cavizzana e a Dardine. Nel 1915 è curato di Nave San Rocco, dove si fa conoscere ed apprezzare come promotore della Cassa Rurale locale. Il 22 maggio 1915, dopo aver invitato dal pulpito della sua chiesa i parrocchiani a considerare gli italiani «Fratelli» di lingua e di religione viene arrestato e portato al carcere del castello del Buonconsiglio per essere processato. Al processo il contadino Fortunato Springhetti, che aveva udito la predica, va a testimoniare contro di lui. Il primo luglio Giuseppe Maurina è giudicato colpevole «di un’azione di vantaggio per il nemico, pur senza un temporaneo accordo con il nemico, arrecante un importante danno alle forze militari nazionali». Viene condannato a cinque anni di confino e a due giorni di digiuno ogni mese. Il periodo di prigionia lo trascorre a Salisburgo e in Boemia, nella prigione-fortezza di Teresienstadt. Nell’agosto 1917, in seguito

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all’amnistia voluta dal nuovo Imperatore Carlo I in favore dei prigionieri politici austro-italiani, viene scarcerato e trasferito prima nel convento agostiniano di Reichersberg e poi nel paese di Riedau, dove passa undici mesi a dar lezione a ragazzi profughi aspiranti al ginnasio. Negli anni dell’esilio inizia la sua opera poetica in endecasillabi che, nella sua autobiografia, definisce “sventurato poema” di 134 canti, 24.000 versi e 400 pagine.

Giuseppe Stringari di NannoGiuseppe Giovanni Albino Stringari nasce a Nanno nel 1870 da Carlo Benedetto Stingari e Carolina Visintin. Ha quattro sorelle: Maria Teresa, Teresa Maria, Maria Virginia Giuditta e Rosa Addolorata Gioseffa. E due fratelli: Virgilio Giovanni Carlo e Angelo Gabriele. Viene arruolato nell’esercito austro-ungarico con la leva in massa. Nel luglio del 1915 viene inquadrato in una compagnia di lavoro e inviato in Ungheria, prima al confine rumeno e poi su quello serbo con l’ordine di costruire trincee. Lasciata la zona di Oscanad, arriva nella cittadina serba di Alibunar, poi passa sul Danubio a Weisschirchen e a Orsava. Il 27 dicembre 1915 lascia la Serbia per tornare in Ungheria. Nel gennaio 1916 torna a Trento e raggiunge con la ferrovia Pergine. Sceso alla stazione si incammina, di notte, verso Mala, destinazione Palù del Fersina, in valle dei Mocheni. Due giorni dopo riceve l’ordine di spostarsi a Fierozzo San Felice per costruire un impianto di teleferica. L’8 febbraio riceve l’ordine dal suo comando del ritiro delle classi 1870,1871 e 1872 da quelle zone. Così riparte con la sua compagnia, ribattezzata simpaticamente “Compagnia avanti e indietro” per Lambach, sede del suo deposito reggimentale. Dodici giorni dopo l’arrivo a Lambach riceve 14 giorni di permesso da passare a casa, in Val di Non. Arriva a Nanno il 23 febbraio 1916 e trova la neve alta 80 cm. Ritornato a Lambach dopo il congedo, riparte subito per l’Ungheria, dove si ammala di una forma grave di reumatismi. Comincia qui il suo calvario fatto di un continuo peregrinare in diversi ospedali militari: prima a Innsbruck, poi a Vermiglio e infine a Praga, in Boemia. Torna a Nanno alla fine della guerra, indebolito da oltre 3 anni di fatiche e patimenti. Il 13 marzo 1919 la sua malattia si aggrava repentinamente. Viene messo su un carro trainato da buoi e trasportato

d’urgenza all’ospedale di Cles dove morirà poche ore dopo per “doia” (broncopolmonite), a soli 49 anni. Celeste Paoli di DennoCeleste nasce a Denno, il 18 luglio 1897 e come il fratello Angelo viene mobilitato fin dai primi giorni del conflitto nel I°Battaglione dei Landesschützen. Con il 3° Reggimento parte da Trento il 20 maggio e svolge un periodo di addestramento a Landech. Nell’agosto 1914 viene inviato a prestare servizio a Toblach (Dobbiacco) e a Innichen (San Candido), in Val Pusteria. Ai primi di settembre viene trasferito sul Monte Piana. Lì sperimenta la guerra combattuta a più di 3000 metri di quota, una “guerra d’aquile” che svolgeva una funzione analoga a quella dei duelli d’aviazione: il suo ruolo strategico valeva molto meno della dimensione “eroica” che veniva sottolineata dalla stampa o dalla propaganda. Presta servizio di guardia nei baraccamenti situati sulle pareti rocciose a 800 m sopra la Valle di Ledro, da poco ampliati. Lì una linea di corrente elettrica vi faceva arrivare l’alta tensione direttamente dalla centrale di Dobbiacco. Una funicolare di collegamento tra la valle e i baraccamenti stava per essere ultimata così come le trincee scavate nella roccia. In occasione della grande offensiva austriaca conosciuta sotto il nome di Strafexpedition, che aveva come obbiettivo lo sfondamento delle linee italiane, Celeste verrà spostato con il suo battaglione in Vallagarina, nella zona di Rovereto. Dopo la cessazione dell’offensiva raggiungerà le postazioni sulla Marmolada e vi resterà fino al novembre del 1916. Muore l’8 gennaio 1918 sul campo di battaglia dell’altopiano di Lavarone.

Candido Betta di CisI bersaglieri inquadrati nel Battaglione Cles, con gli effettivi di 4 squadre chiamate con il nome dalle località sedi dei casini di bersaglio della Val di Non (la I di Taio, la II di Flavon, la III di Fondo, e la IV di Lauregno), furono chiamati a operare per un periodo nelle retrovie del fronte del Tonale, uniti con il battaglione della Val di Sole composto dalle 3 compagnie di bersaglieri di Malè, di Cusiano e di Rabbi, e quello della Val d’Ultimo. Tra il giugno e l’agosto del 1915 alcuni effettivi di questi battaglioni, furono inviati a completare le difese sulla linea trincerata Peller-Mostizzolo-Parolin-Monte Pin. Candido Betta di

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Cis arrivò con la sua compagnia in zona Clesera alla fine del giugno 1915 e lì rimase fino al 18 agosto. Lasciò la montagna sopra Cles subito dopo aver ricordato il genetliaco dell’imperatore Francesco Giuseppe partecipando alla solenne Messa al Campo celebrata in un prato in località Faè.

Giovanni Pancheri di Romallo Giovanni Pancheri nasce a Romallo il 30 dicembre 1893. Figlio di Antonio e Maria Pancheri, è primo di tre sorelle: Maria, Anna e Caterina. Dopo aver frequentato le scuole dell’obbligo con buon profitto, intraprende la professione di carpentiere, pur continuando a seguire anche i lavori agricoliassieme al padre. Nel 1912 viene richiamato alla leva obbligatoria che svolge in Austria nei pressidi Innsbruck. Allo scoppio della guerra è tra i primi ad essere mobilitato il 1 agosto 1914. Viene inquadrato nel K.u.K. 2° Regiment der Tiroler Kaiserjager. Dopo un periodo di addestramentopresso Bressanone, il 26 settembre viene inviato in Galizia, dove combatte nelle trincee di Tarnowe di Cracovia. Il 2 luglio 1915 viene fatto prigioniero dai russi e condotto nel campo di lavoro di Bogucerva, nei pressi di Tula, cittadina a pochi chilometri a sud di Mosca. In seguito ai disordini esplosi in Russia nell’ottobre 1917, viene liberato e al seguito della Missione Militare Italiana per i Prigionieri di Guerra si sposta a Tien-Tsin, in Cina. Lì si arruola come volontario nel 1°Reggimento Artiglieria da Montagna facente parte del Corpo di Spedizione Italiana in Estremo Oriente. Il 21 novembre 1918 Giovanni parte per la Siberia, destinazione Krasnojarsk, città sita sul fiume Jenisej, e lì rimane fino al 6 agosto 1919, data in cui riparte con la sua compagnia verso Vladivostok. Nell’estremo porto orientale della Russia, lui e la sua compagnia avrebbero dovuto imbarcarsi sulla nave che li avrebbe riportati a casa. Ma giunto ad Harbin, in Manciuria, rice l’ordine di deviare verso Tien Tsing, da dove riparte nel novembre del 1919, iniziando un lungo viaggio di ritorno verso l’Italia. Imbarcatosi a Tien Tsing il 25 novembre 1919 alle ore 5 del pomeriggio, arriva a Hong Kong e da qui riparte verso Singapore il 14 dicembre. Il giorno di Natale alle ore 10 di mattina, lascia Singapore in direzione dello Sri Lanka, dove arriva il primo gennaio 1920. Il 3 gennaio è di nuovo in partenza da Colombo (capitale dello Sri Lanka) e dopo

aver attraversato il Mar Arabico arriva ad Aden il 13 gennaio. Da qui risale il Mar Rosso fino a Suez, attraversando l’omonimo canale il 20 gennaio, fermandosi a Porto Said fino al 22 gennaio, data in cui si imbarca per l’ultima volta verso l’Italia. Giunge a Trieste il 27 gennaio 1920.

Luigi Moresco di SpormaggioreLuigi Moresco nasce a Spormaggiore il 20 ottobre 1897. Allo scoppio della guerra è studente seminarista a Trento. Arruolato con il 2°Reggimento Landesschützen nel maggio 1915 viene inviato ad Enns per l’addestramento. Combatte poi sul fronte orientale, in Volinia e in Transilvania. Nel 1916 viene spostato sul fronte italo-austriaco. Combatte in prima linea sul Piave e sull’Isonzo. Dopo aver partecipato all’undicesima battaglia dell’Isonzo, viene trasferito in Romania. Dal fronte rumeno, infine, viene spostato in Ucraina. Rientrato a Bolzano alla fine del 1917, segue un corso di addestramento speciale , e dopo lo sfondamento di Caporetto, è inviato con i corpi speciali di nuovo sul fronte italiano, a San Donà di Piave. Durante i feroci combattimenti del 1918 scappa oltreconfine. Si rifugia a Lubiana e farà ritorno a casa solo dopo la fine della guerra via Marburgo. Nel dopoguerra diventa parroco. Tra il 1946 e il 1958 è parroco a Piedicastello, rione di Trento. Lì si avvicina agli ambienti socialisti. E’ amico dei fratelli Menestrina, anch’essi socialisti e di Enrico Cagol, detto “Ricco”, dipendente del comune di Trento che con lui ristruttura una baracca dismessa del Genio Militare per farne sede di rione dei socialisti e comunisti. Durante il suo servizio in città diventa il parroco della povera gente. Da qui il soprannome “Don Camillo”. Muore il 30 gennaio 1973.

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Cartolina postale per il prigioniero di guerra Giovanni Pancheri di Romallo – Privato

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Comunicare laGrande Guerra.Stampa, corrispondenzae propaganda

A cura di Nadia SimoncelliCasa Campia, Revò Di

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Comunicare la Grande Guerra.Stampa, corrispondenza e propagandaNadia Simoncelli

INTRODUZIONE

La stampa, la corrispondenza e la propaganda costituiscono un tassello fondamentale per lo studio e la comprensione dei processi socio-culturali che hanno caratterizzato la storia della Grande Guerra, un patrimonio fondamentale e un mezzo indispensabile per accedere alla storia delle mentalità e delle culture dei popoli che furono coinvolti nel conflitto. È proprio con la Prima guerra mondiale che, per la prima volta, l’espressione e la manipolazione dell’informazione diventano di massa e piegano i mezzi di comunicazione alle ragioni belliche degli Stati coinvolti. Questa sezione mira a ricostruire la mentalità e la cultura propria dei trentini coinvolti e travolti dal conflitto in patria e nel Regno d’Italia. Fra le nuove armi messe in campo dagli eserciti delle nazioni belligeranti durante la Grande Guerra, la meno convenzionale assunse fin da subito un ruolo determinante: a partire dall’estate 1914 la propaganda divenne un importante strumento per mobilitare con i principali mezzi di comunicazione dell’epoca (dalla stampa ai manifesti, dalle cartoline illustrate al cinematografo) tutte le risorse a scopi bellici, sia al fronte che tra la società civile, segnando in maniera indelebile il modo di vivere e di pensare di milioni di persone.Con la dichiarazione di guerra alla Serbia, seguita al clamoroso attentato di Sarejevo, l’Austria intraprese fin da subito un’acerrima battaglia propagandistica all’estero e attivò al proprio interno ampie strategie di consenso. L’Italia, invece – rimasta neutrale fino al maggio 1915 – si dimostrò a lungo impreparata a svolgere questo tipo di lotta, che affrontò con maturità e larghezza di mezzi solo nel 1917, dopo la disastrosa rotta di Caporetto1.

I DUE VOLTI DELLA CENSURA

La censura militare, con il suo rigidissimo sistema di accreditamento dei corrispondenti, e quella civile, che esigeva la consegna quotidiana delle bozze ai commissariati di polizia, resero impossibile sia per i privati cittadini sia per le testate giornalistiche più note l’espressione di un dissenso al conflitto. In tutti i paesi belligeranti le autorità militari provvidero a emanare leggi e bandi relativi alla censura, in cui venivano specificate tutte le informazioni non previste dalla legge.

1 Porcedda 1991: 95-125.

Cartolina natalizia illustrata - FMST

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1917. Prima pagina del giornale «La Domenica del Corriere»

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LA STAMPA IN TEMPO DI GUERRA

Fra le legislazioni speciali entrate in vigore durante la guerra nei territori asburgici, quella sulla stampa, che prevedeva la sospensione in tutto il Tirolo italiano dei liberi periodici scritti in lingua italiana, pose freno alla relativa libertà d’informazione esistente in tempo di pace. Così, tra l’agosto 1914 e il maggio 1915 cessarono la loro attività alcuni dei principali quotidiani trentini: «Il Popolo» di Cesare Battisti, «Il Trentino» di orientamento cristiano-sociale e «L’Alto Adige» di orientamento nazional-liberale. Anche «Il Risveglio Tridentino», tra i quotidiani più letti dai trentini e dagli abitanti della Val di Non, passò sotto il controllo dell’autorità militare cambiando radicalmente indirizzo. Dal 1915, anno dell’entrata in guerra dell’Italia, il quotidiano cambiò anche il sottotitolo mutandolo in «Giornale della I.R. Fortezza di Trento». In occasione delle festività natalizie e pasquali, il giornale ospitava le lettere d’augurio dei soldati, enfatizzate come segno di patriottismo. Ne è un esempio la lettera collettiva di Celeste Paoli

di Denno e i suoi commilitoni, scritta l’11 aprile e pubblicata dal quotidiano il 13 maggio:

«Trovandoci qui uniti alcuni tirolesi italiani saressimo a pregare questa spett.Redazione onde volesse a mezzo pregiato suo giornale “Risveglio” far partecipe alle nostre famiglie, parenti e amici che noi godiamo di buona salute, e che per le prossime feste pasquali inviamo loro i migliori auguri nonché cordiali saluti! Al Signor Direttore inviamo pure i nostri più distinti saluti e le desideriamo una felice e buona Pasqua. Ringraziando anticipamente ci segnamo. Devotissimi: Luigi Zadra di Dardine, Celeste Paoli di Denno, Urbano Baruchelli di Bosentino, Giuseppe Icapo di Terragnolo, Alfondo Linardi di Cimone, Silvio Valcanover di Castagnè, Ferdinando Nardelli di Lavis, Nicolò Dellantonio di Predazzo, Silvio Bottega di Levico, Alberto Floriani di Tesero, Giuseppe Vadagnini di Moena, Gustavo Rossi di Centa, Luigi Furlani di Bronzolo, Domenico Carlini di Viarago, Giuseppe Marcolla di Zambana, Primo Baldessarini di Nogaredo, Quirino Bruni di Avio, Simonce Defrancesco di Moena, Emilio Corsetti di Turano, Beniamino Valer di Fornace, Vito De Paol di Pera di Fassa». (Tratto da «Il Risveglio Tridentino» del 13 maggio 1915).

Cartolina postale con timbro della censura - FMST

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Postkarte, Fondo Enrico Moggio - FMST

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Dal 20 maggio 1916 al 2 novembre 1918 «Il Risveglio Tridentino» diventò «Risveglio austriaco». Il nuovo giornale, privo di concorrenti e con un notiziario di guerra in lingua tedesca, salì nel giro di pochi mesi da 3.000 a 10.000 copie di tiratura. Al suo interno venivano pubblicati puntualmente gli interventi dei deputati trentini al Parlamento di Vienna, le cronache della Conferenza internazionale Socialista e e vi trovavano spazio ancheanche articoli di critica ai pangermanisti2. Con l’affermarsi in tempo di guerra della stampa d’informazione autorizzata, i pochi giornalisti che in Trentino vollero mantenere la libertà di stampa vennero isolati da quelli che si militarizzarono e credettero nel proprio compito d’indottrinamento. Di conseguenza la popolazione non fu mai correttamente informata dalle notizie che venivano diffuse dai giornali dell’epoca: le masse non conobbero mai la verità della guerra e molti, di questo, ne erano consapevoli. Questo provocò diverse forme di opposizione alla discesa in guerra da parte dei richiamati e non fece che aumentare negli anni episodi di insubordinazione e scioperi anche tra la società civile.Tra i periodici scritti per i fuoriusciti trentini nel Regno d’Italia, il più letto e apprezzato fu invece «La Libertà», settimanale della Commissione dell’emigrazione trentina sorta nell’ambito del Circolo Trentino, fu sicuramente il più letto e apprezzato. Scopo del giornale, infatti, era l’informazione dal Trentino, grazie a un servizio di corrispondenti che scrivevano dall’estero e agivano in conformità degli ideali di Cesare Battisti.

LA CENSURA PREVENTIVA SULLA STAMPA

A partire dal 1914 nel Tirolo italiano la stampa d’informazione fu sottoposta a una censura che durò tutto il periodo della guerra. Al vertice dell’intero apparato c’era l’Ufficio per la sorveglianza della guerra (Kriegsüberwachungsamt), un organismo che si trovava alle dirette dipendenze del Ministero degli interni. I suoi compiti consistevano nel diffondere le direttive generali sulla censura e nel coordinare fra loro censura postale, telegrafica e periodica nonché, dall’autunno 1915, nell’organizzazione di una conferenza stampa ufficiale giornaliera sulla situazione della guerra e sullo stato generale della Monarchia. Nel corso del conflitto tutte le notizie vennero filtrate ed opportunamente dirette ad ottenere il consenso alla politica bellica. Con l’entrata in vigore delle disposizioni d’emergenza del Ministero degli interni, gli editori dell’Impero austro-ungarico furono obbligati a consegnare in via preventiva un esemplare presso le autorità competenti all’esercizio della censura: i Commissariati di polizia (Polizeikommisariat) o gli Uffici dei Capo distretto (Bezirkhauptmannschaft). In questi uffici veniva svolta la censura vera e propria su delega della Procura di Stato per gli affari della stampa (Staatsanwaltschaft für Presseangelegenheiten) a cui la censura spettava per legge. Per evitare il danno economico derivante dalla distruzione delle copie esemplari, si consolidò ben presto l’abitudine di consegnare ai censori (sempre in via preventiva) la bozza del giornale da cui i passaggi proibiti venivano rimossi, lasciando le inconfondibili striscie bianche. Eliminando tutte le idee e le frasi in contrasto con il pensiero ufficiale, la censura svolse non solo in Austria ma anche in Italia una funzione di controllo ma anche un’importante ruolo di propaganda.

CENSURA E AUTOCENSURA NELLA CORRISPONDENZA DAL FRONTE

Negli anni del conflitto la corrispondenza rappresentò l’unica forma di comunicazione aperta a tutti, anche a coloro che non sapevano scrivere o leggere e lo facevano con l’aiuto dei commilitoni. Il battesimo di fuoco, infatti, ha significato per molti anche il battesimo della penna. In questo senso la Grande Guerra fu un eccezionale laboratorio di pratica di scrittura per milioni di soldati, anche quelli scarsamente alfabetizzati. In realtà, in tutto il Trentino, e in particolare in Val di Non, dalla seconda metà del XIX secolo, e con crescente intensità tra la fine dell’Ottocento e il 1914, i fenomeni migratori avevano già favorito l’ingresso nell’universo della scrittura di uomini e donne comuni. Tuttavia lo scoppio del conflitto ha contribuito a imprimere a chi già era stato spinto dalla lontananza a prendere confidenza con la matita o il pennino, una grandissima accelerazione nella diffusione della pratica della scrittura. Nella condizione

2 Giovannini 2003: 419-437.

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1915. Cartolina disegnata da Romedius Sinn, fondo Enrico Moggio - FMST

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di limite imposta dalla guerra, masse di contadini hanno potuto confrontarsi con l’uso scritto e attivo della lingua parlata (quella italiana), in maniera simultanea3. La frequenza con cui i soldati partiti per il fronte scrivevano a casa è la dimostrazione di quanto fosse urgente la necessità di scrivere e riscrivere i propri pensieri. Spesso e volentieri i soldati della Val di Non utilizzavano vocaboli propri della vita rurale per descrivere nelle loro lettere eventi inediti riconducibili in qualche modo alla propria esistenza. La maggioranza di loro era così estranea agli ideali e alle ragioni della guerra che la accettava con rassegnazione, come se si trattasse di un evento voluto da un destino ineluttabile e imperscrutabile, obbedendo a ordini che non si potevano rifiutare. Ricorrono poi in alcune epistole anche parole tratte dalla retorica patriottica, usate come giustificazione, unica e sensata, di fronte alla probabilità della morte e del dolore di non rivedere più la propria terra e la propria famiglia. Il ricorso ad un frasario in stridente contrasto con i codici espressivi comunemente utilizzati si spiega con l’urgente necessità di ricondurre gli aspetti destabilizzati dell’esperienza di guerra all’interno di un quadro di senso, nel tentativo di esorcizzare lo smarrimento e la paura che accompagnavano la dura vita in guerra. L’utilizzo di parole e slogan della retorica nazional-patriottica, conosciuti per via della battente campagna propagandistica introdotta dall’Austria e dall’Italia, specialmente dopo Caporetto, si rivela un formidabile strumento per misurare il coinvolgimento delle masse nella politica bellicista. La scrittura diventa in questo senso anche uno strumento di controllo sociale a favore della classe dirigente, un canale attraverso cui consolidare il consenso passivo che però, nel caso dei nonesi e degli altri italiani d’Austria, non riesce sempre a determinare un’adesione convinta e collettiva agli ideali della guerra. Per questo motivo la censura venne applicata anche alla corrispondenza dei soldati e fu chiamata “censura di trincea”4. Chi non rispettava queste prescrizioni rischiava la condanna al carcere militare.

3 Sul concetto di Grande Guerra tra modernizzazione e scrittura si veda si veda Gibelli 1998.4 Spitzer 1976: 225.

IL CODICE FELDPOST

Durante la guerra, per quanto riguardava i soldati  dell’esercito austro-ungarico, il servizio postale era garantito da militari a questo adibiti in uffici postali “mobili” o “volanti”, che seguivano il reparto cui erano assegnati nei suoi vari spostamenti sul fronte.La Feldpost, ossia la “posta militare”, assegnava a ognuno di questi uffici postali mobili un codice, il Feldpostnummer, che permetteva di tracciare tutta la posta relativa a un dato reparto e alla zona in cui era operativo. Ogni invio di posta K.u.K. dalla madrepatria iniziava il suo viaggio dai punti di raccolta postali, nei quali la posta per il fronte veniva divisa a seconda della destinazione. Di qui, la posta veniva portata agli uffici postali entrali, generalmente localizzati in punti strategici e di passaggio come gli snodi ferroviari. A quel punto le lettere prendevano la via dei vari corpi o divisioni o uffici postali da campo, dai quali venivano consegnati ai comandi e alle truppe. La posta dal fronte seguiva naturalmente la via contraria.Per garantire la consegna e la velocità dello smistamento, esistevano regole precise per compilare le cartoline in franchigia, cioè senza francobollo: a sinistra in alto nome e indirizzo del mittente, in alto a destra la dicitura Feldpost; al centro andava indicato l’indirizzo del destinatario o in basso a destra il numero dell’ufficio postale da campo (Feldpostamt) o di riferimento. Durante le prime fasi del conflitto queste indicazioni vennero pubblicate su diversi quotidiani e vennero stampate anche delle cartoline-modello.La dicitura Feldpost o Feldpost-Korrespondenzkarte o Tabori postai levelezölap (in ungherese) era particolarmente importante per le lettere che partivano da casa, perché permetteva di spedire senza affrancare la corrispondenza fino a un peso di 100g.Il servizio postale militare dell’Impero austro-ung-arico venne usato massicciamente fin dall’inizio del conflitto. Si stima che tra il 1914 e il 1918 ven-nero spedite in ogni giorno di guerra ben 9 milioni di corrispondenze tra i soldati asburgici al fronte e le loro famiglie. Il numero di cartoline in franchigia stampate nella parte austriaca dell’impero fu di 655.696.314 pezzi. In totale, circa 827.318.514, tra le quali 63.681.664 pezzi delle cartoline pres-tampate plurilingue con la scritta “Sono sano e sto bene” (Ich bin gesund und es geht mir gut).

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Ritratto di Cornelio Nebl, pilota del Kommando Feldpost, 1915 – Fondo Famiglia Nebl

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Il codice Feldpost relativo al fronte italo-austriaco era il 221: l’ufficio corrispondente venne creato nel febbraio 1915 e rimase attivo fino al settembre 1918. Ne esistevano anche alcune varianti (221, 221/I, II; 221b nel giugno 1917). Il codice nr. 611 si riferiva invece all’area del Tonale e fu attivo dal gennaio 1915 all’ottobre 1918. Con lo spostarsi del fronte durante il conflitto si rese necessario occuparsi anche dei servizi postali per i civili residenti nei paesi occupati (Italia, Serbia, Montenegro, Romania). La posta civile, a differenza di quella militare necessitava di affrancatura, vennero quindi emessi dei francobolli con dicitura Feldpost, a volte sovrastampati con il valore in moneta locale o indicazioni geografiche, oppure venivano sovrastampati i francobolli standard.

SCRIVERE PER NON MORIRE

Tra il 1914 e il 1918 è stato stimato che in totale transitarono da e per il fronte circa quattro miliardi di corrispondenze, con una media di circa due milioni e settecentomila invii al giorno5. Le autorità, ben consapevoli dell’importanza di mantenere soldati e famiglie in comunicazione per il morale sia delle truppe che del fronte interno, fecero il possibile per facilitare lo scambio, negli anni di guerra, delle missive, senza dimenticare di fornire indicazioni sui contenuti e di esercitarvi la censura. La tenacia con cui i soldati cercavano di rimanere ancorati al loro mondo attraverso la scrittura si riverbera nei riferimenti, precisi e circostanziati, agli affari di famiglia e al lavoro. Al fronte i militari ricevevano da padri, madri, mogli e fratelli notizie sull’andamento dei prezzi, sulle trattative per l’acquisto di vacche, sul raccolto della frutta e del grano, soffermandosi anche sui minimi dettagli. Ma l’aspetto che più frequentemente si ritrova nella corrispondenza dei combattenti, raccontato spesso senza mediazioni, riguarda la quotidianità della vita del soldato. L’attività di scrittura per la corrispondenza svolse una funzione terapeutica per i soldati: diventò uno strumento di sopravvivenza che servì ad allontanarli dagli orrori della guerra, offrendo un rifugio momentaneo negli affetti di casa, nei ritmi della vita di comunità da cui si erano staccati per andare in guerra. Si scriveva per non morire, per sentirsi vivi nel testimoniare ai cari lontani, attraverso l’indicibile, la propria esistenza di vita6.Sofferenze e privazioni erano descritte dai soldati con parole nude e crude che spesso e volentieri erano filtrate dall’autocensura. Non c’erano parole giuste per descrivere la guerra di trincea, ma molti tentarono in ogni modo di trovarle per descrivere il tormento del fango e del freddo, la sporcizia, la difficile convivenza con commilitoni di lingua ed etnia diversa, l’angustia dei pidocchi e dei topi, lo strazio delle marce sotto il sole e con la neve. Per garantire ai soldati un mezzo di comunicazione gratuito con parenti e amici, i Comandi supremi dell’esercito fecero diffondere delle cartoline in franchigia senza propaganda. Su ambo i lati di queste cartoline i soldati ci tramandano un’impressione a caldo di una guerra fatta di progressivo imbruttimento, generato dall’essere costretti a vivere rintanati in stretti e tortuosi cunicoli scavati nella roccia, nel ghiaccio e nel fango. Sofferte, sgrammaticate e dalla grafia incerta, ci conducono brevemente attraverso uno straordinario viaggio nel tempo alla scoperta di una guerra vista come esperienza privata, fatta di tante singole storie di individui uniti nella stessa sorte, provenienti da uno stesso microcosmo fatto di riti, usanze e tradizioni comuni, i cui tempi di vita sono scanditi dalla natura e i cui orizzonti sono contraddistinti dalla cultura dialettale e dalla dottrina cattolica7.

5 Caffarena 2005.6 Croci 1992.7 Sulle testimonianze scritte dei soldati nella Grande Guerra si rimanda alla lettura dei lavori di Q. Antonelli, Storia intima della Grande Guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte, Roma 2014 e A. Gibelli, La guerra grande. Storie di gente comune, Roma-Bari 2015.

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PAROLE E IMMAGINI COME ARMI: GLI STRUMENTI DELLA PROPAGANDA

La propaganda di guerra in Austria-Ungheria e in Italia diventò parte integrante dell’attività bellica negli ultimi anni del primo conflitto mondiale (in particolare nel 1917, quando si determinò il passaggio tra la “guerra del fronte di combattimento” e la “guerra totale”). Essa dapprima si rivolse al fronte interno, al soldato, poi al nemico, ai combattenti, in seguito alla nazione intera per finire con l’estendere il suo raggio d’azione all’opinione pubblica avversaria e internazionale. Quindi si proiettò sui combattenti e sulle popolazioni civili con tutte le tecniche (orali, scritte e visive) e utilizzando tutti gli strumenti allora disponibili. Gli strumenti della propaganda furono i più svariati: manifesti, locandine, cartoline, vignette, opuscoli, volantini e francobolli. Due gli elementi su cui i messaggi di propaganda

facevano maggiormente leva: il patriottismo e la convenienza economica. I soggetti rappresentati e i messaggi che li accompagnavano svelavano quali fossero i destinatari privilegiati della campagna propagandistica: da una parte i soldati chiamati a svolgere il proprio dovere di difesa della Patria, dall’altra le donne, chiamate in causa e “responsabilizzate” sia come custodi dei risparmi familiari che come madri, mogli, figlie dei soldati al fronte. La propaganda di guerra, in questo senso, fu un campo di innovazione e di sperimentazione in grado di fornire il terreno fertile per trasformazioni sociali di grande portata, che non si sarebbero esaurite con il ritorno alla pace.

LE CARTOLINE ILLUSTRATE

Le cartoline illustrate furono uno dei mezzi più utilizzati dalla propaganda di guerra per i seguenti motivi: i bassi costi, la facilità di riproduzione, l’immediatezza della visualizzazione, il passaggio in più mani intermediarie del mittente al destinatario, il flusso enorme che raggiunsero nel corso della guerra, il fatto che erano il mezzo postale preferito dai soldati (scrivere era molto faticoso, il tasso d’istruzione era basso e alta era invece la percentuale di analfabetismo tra le truppe). Allo scoppio del conflitto le cartoline con frasi e illustrazioni propagandistiche furono stampate soprattutto da editori privati. Accanto all’editoria privata, comitati, enti, e industrie stamparono e diffusero o vendettero una notevole produzione di cartoline per devolvere il ricavato a opere assistenziali a favore dei soldati, come la Croce Rossa. Nel Regno d’Italia, dal novembre del 1917 anche le Armate, con il contributo del Comando Supremo, stamparono cartoline in franchigia con numerose immagini di propaganda; ciò suscitò le proteste dei soldati per lo spazio troppo stretto riservato alla corrispondenza. Nel mese di giugno del 1918 fu necessario regolamentare la distribuzione delle cartoline con una circolare: il soldato aveva diritto ogni settimana a tre esemplari in franchigia, che lasciavano più spazio alla scrittura, e a due di propaganda. In genere le raffigurazioni, realizzate da disegnatori esperti delle redazioni delle locandine dei quotidiani, recavano i momenti principali delle battaglie. Tra i tanti temi scandagliati dalle cartoline di guerra, un posto non secondario ebbero quelle di  satira politica che si affidavano – come le vignette delle

Cartolina natalizia illustrata - Fondo Fabio Simoncelli

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1918. «La Tradotta»

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riviste umoristiche – alla caricatura, al disegno grottesco e irriverente per diffondere i loro incisivi messaggi. Negli esemplari di produzione austro-ungarica, raramente oggetto di esposizione in Italia, l’oggetto della satira è molto spesso il Regno d’Italia, doppiamente “traditore” perché uscito dalla Triplice Alleanza che lo legava ad Austria e Germania fin dal 1882 e perché aveva mire territoriali fino al Brennero, su terre tedescofone e italofone8. Ma la vera novità introdotta con la Grande Guerra, in questo ambito, sta nell’aver affiancato alle cartoline in franchigia con illustrazioni e moniti patriottici che incitavano all’arruolamento, demonizzavano il nemico o esortavano le donne a un maggiore impegno nella famiglia e nella società civile, le cartoline edite dagli istituti di credito o altri enti per propagandare i prestiti di guerra. Così accadeva che nelle cartoline, insieme ai saluti, agli abbracci e a brevi pensieri da parte dei famigliari, venissero recapitati messaggi propagandistici più o meno espliciti. Si trattava di un approccio nuovo per raccontare un fenomeno tanto complesso quanto spaventoso come la Prima guerra mondiale.

I MANIFESTI

Nei primi mesi di guerra, i manifesti furono utilizzati soprattutto per diffondere bandi e ordinanze alle truppe e alla popolazione, successivamente vennero impiegati anche per la propaganda pura e in favore della sottoscrizione di prestiti di guerra. Sia in Austria che in Italia i manifesti di pura propaganda fecero ricorso più alle parole che al disegno, in quanto con la coscrizione obbligatoria non c’era nessuna necessità di sollecitare gli uomini con immagini forti e persuasive per indurre agli arruolamenti, a differenza per esempio dell’Inghilterra che invece poteva contare solo sugli arruolamenti volontari e dovette ricorrere  fin da subito alla forza della suggestione pittorica abbinata alla persuasione degli slogans dei cartelloni per spingere i sudditi a prendere le armi.Nei manifesti scritti di propaganda pura, gli autori scoprirono il valore della grafica ed elaborarono caratteri tipografici, forme, colori e segni, combinandoli tra loro in modo da attirare da lontano lo sguardo del lettore. Lo stile linguistico utilizzato era imperativo e conciso, quindi più efficace.

LA PROPAGANDA PER I PRESTITI DI GUERRA

Grazie alle illustrazioni sui manifesti, la propaganda per i prestiti diede una risposta massiccia al richiamo patriottico e alla richiesta di solidarietà invocati nei confronti dei civili. Tale mobilitazione dell’opinione pubblica fruttò alle casse degli Stati belligeranti cifre cospicue se raffrontate con le disagevoli condizioni economiche delle nazioni in guerra. Accantonata l’ipotesi di un pesante inasprimento fiscale, lo Stato italiano e quello austriaco decisero di puntare sul debito pubblico e sulle anticipazioni da parte degli istituti di emissione. Nati come strumento prettamente finanziario, i prestiti si trasformarono ben presto in un vero e proprio strumento di mobilitazione culturale e patriottica. In Italia ciò è vero soprattutto a partire dal terzo prestito, quello del gennaio 1916. E non è un caso che proprio a partire da quel momento iniziasse anche una sistematica e strutturata azione di propaganda a favore della sottoscrizione.L’“operazione patriottica” fu inizialmente affidata ai diversi istituti bancari, enti, associazioni, che spesso non esitarono a rivolgersi ad artisti di fama perché mettessero a disposizione la loro arte per la riuscita della campagna propagandistica. Il primo prestito italiano venne emesso nel gennaio del 1915, e dunque quando l’Italia era ancora neutrale: si trattava di un prestito “nazionale”, non ancora “di guerra”, anche se chiara ed esplicita ne era la destinazione a favore del rafforzamento delle forze armate. Alla fine della guerra i prestiti italiani emessi furono in totale cinque (dal gennaio 1915 al gennaio 1918, con tassi variabili dal 4,50% del primo al 5,50% dell’ultimo), a cui se ne aggiunse uno nell’immediato dopoguerra, per finanziare la ricostruzione. Per finanziare il 60% dei 20 miliardi di corone spesi per lo sforzo bellico (grossomodo corrispondenti all’intero prodotto interno lordo del 1914), lo Stato austriaco ricorse invece a ben 8 prestiti di guerra. I certificati venivano emessi in forma di titoli a interesse fisso da obbligazioni, vietando contemporaneamente la detenzione di qualsiasi altro titolo. Quelli del 1915 furono riconosciuti anche dal Tesoro italiano. Terminata la guerra l’Austria non fu tuttavia più in grado di restituire il denaro

8 Brilli 1985.

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Cartoline illustrate di propaganda austriaca e italiana - FMST

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ai creditori. Per la produzione di manifesti per la propaganda destinata a sostenere i prestiti di guerra (i cui stessi soggetti furono anche sfruttati per realizzare le cartoline dei prestiti), i disegnatori rivolsero la loro attenzione soprattutto sulle illustrazioni che erano sapientemente ricollegate alla situazione del momento: dall’invito al risparmio e alla sottoscrizione dei prestiti per le necessità belliche alla lusinga dei profitti che ne sarebbero derivati, dalla richiesta di aiuti concreti per abbreviare le sofferenze dei combattenti all’intimidazione che la Patria potesse perdere la guerra senza i prestiti, dall’accento lacrimevole di orfani e vedove alla severa accusa del dito puntato del fante o della stampella del mutilato.

I GIORNALI DI TRINCEA

Mentre la stampa d’informazione nazionale aveva il compito di informare quotidianamente il Paese sull’andamento della guerra, rivolgendosi a un vasto pubblico di cittadini, i giornali di trincea ebbero l’unico intento di dialogare con il soldato al fronte. Le redazioni di questi giornali erano composte esclusivamente da militari o giornalisti in uniforme e gli articoli, più che informare, tendevano a svolgere azione di propaganda, talvolta anche in chiave umoristica, avvalendosi di aneddoti, barzellette, rime, racconti e soprattutto illustrazioni. Tra i giornali di trincea italiani si ricordano in particolare il Trentino, con il sottotitolo di Servite patriae in laetitia, Cecco Beppe, redatto da soldati milanesi, La Trincea, La Ghirba, giornale per i soldati della 9° Armata, e La Tradotta. La Tradotta nacque dopo Caporetto, nei primi mesi del 1918 quando il colonnello Ercole Smaniotto, capo dell’Ufficio Propaganda della Terza Armata, incaricò il sottotenente Renato Simoni, critico teatrale del Corriere della Sera, di organizzare l’uscita di un settimanale illustrato per i soldati. Rapidamente divenne il giornale per i soldati più popolare, tant’è che continuò ad essere pubblicato anche dopo l’armistizio e la pace con l’Austria-Ungheria. Nell’impero asburgico, e dunque anche nell’odierno Trentino Alto-Adige, fino al 1918 questo tipo di pubblicazioni circolarono in numero assai limitato e con tiratura circoscritta al reparto militare di cui erano espressione, ad eccezione del bolzanino Soldaten-Zeitung9, il giornale della

9 Presso l’Östa (Österreich Staadtsarchiv di Vienna) è

Prima Armata, letto già all’inizio della guerra anche in Alta Val di Non. Il Soldaten-Zeitung fu il primo giornale destinato sia al pubblico militare che a quello civile. Nato dall’esigenza dei singoli Comandi d’armata austro-ungarici di organizzare iniziative autonome di propaganda per le truppe, aveva l’obbiettivo di dare ai soldati, prima che le pause invernali potessero spingerli e cercarle da soli, il maggior numero di informazioni sulla guerra, accuratamente filtrate e addomesticate in ottica patriottica.Non sono purtroppo reperibili informazioni riguardo a chi materialmente si occupasse della stesura. È molto probabile comunque che nella Prima Armata, come nelle altre, operasse un piccolo gruppo di ufficiali, che nei ritagli di tempo si occupava di spulciare i giornali e i dispacci d’agenzia per tenere il Comando sempre aggiornato sulla situazione militare: una sorta di redazione che curava anche la stampa di un giornale per le truppe.Il giornale era gratuito e destinato esclusivamente ai militari. Oltre all’edizione in tedesco, ne esistevano altre tre in lingua polacca, ungherese e boema. Nella breve ma complessa esistenza di questa testata si possono distinguere tre periodi. Il primo, dalla fondazione (giugno 1915) al Natale dello stesso anno, in cui il giornale fu una semplice riedizione del «Soldaten-Zeitung der k.u.k. Ersten Armee», cioè un giornale pseudo informativo compilato mettendo in sequenza bollettini ufficiali e ritagli di giornale, destinato soprattutto agli ufficiali. Il secondo, dal Natale del 1915 al luglio del 1916, in cui il giornale si trasformò in un supplemento letterario e divenne luogo di espressione relativamente autonomo della società tirolese, sia di quella delle trincee sia di quella delle retrovie. Il terzo, in cui il giornale funzionò come strumento di propaganda irredentista10.

VOLANTINI E MANIFESTINI

La  definizione di “mezzo illecito”, contenuta nella circolare del Reparto Operazioni n. 634 del 19 giugno 1915, denota come al Comando Supremo italiano la guerra dei volantini colse di sorpresa i vertici militari austriaci. I soldati austro-ungarici subivano un continuo bombardamento psicologico attraverso i foglietti nemici; i provvedimenti

conservata una serie quasi completa del foglio.10 Murgia 2008-2009.

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adottati per combattere la propaganda avversaria avevano scarsa efficacia, in quanto si limitavano a disposizioni che miravano a impedire la circolazione  di volantini fra le truppe. Anche i primi manifestini messi in circolazione al fronte dal Comando militare austriaco furono concepiti solo per tenere salda la disciplina con minacce di dure sanzioni.Nel Regno d’Italia nella primavera del 1916 fu avvertita la necessità di produrre adeguatamente manifestini da far circolare tra le truppe, per contrastare la propaganda avversaria che forniva false notizie sugli avvenimenti in Trentino e per far loro conoscere i successi italiani. L’azione dei volantini fu sviluppata in tre direzioni: propaganda combattivo; contropropaganda sulle truppe e sul nemico, per controbattere tempestivamente ed efficacemente l’azione di propaganda avversaria.Fino all’ottobre del 1917 i volantini destinati a essere lanciati sulle linee nemiche in Trentino e nelle altre terre irredente furono molti di più di quelli stampati per il soldato italiano. In media di ogni volantino si stampavano 36.000 copie, distribuite fra le Cinque Armate. Nel 1918 la produzione di manifestini in Italia aumentò fino a 350.000 copie

per tipo e fu ripartita equamente tra i soldati italiani e quelli nemici. Il mezzo più utilizzato per diffondere i volantini fu l’aereo. I piloti furono spesso costretti a voli straordinari per effettuare “bombardamenti senza vittime”. E fu proprio l’aereo a  lanciare i manifestini su Vienna  nell’agosto del 1918. Fu questo l’atto propagandistico  più eclatante di tutta la sulle truppe per informarle e incitarle alla saldezza morale e alla certezza della vittoria; propaganda sul nemico per debilitarne lo spirito.

GLI OPUSCOLI

Gli opuscoli di propaganda furono editi a migliaia, in milioni di esemplari, ed erano diretti a seconda dei contenuti a mobilitare l’opinione pubblica, a sollecitare prestiti, a essere di conforto spirituale e morale per il soldato. In Trentino gli opuscoli comparvero prima del 24 maggio 1915, per promuovere l’intervento in guerra dell’Italia  e continuarono a essere pubblicati anche dopo la guerra, alimentando così le polemiche suscitate dalla pretesa sovranità e italianità di terre irredente non concesse. Gli opuscoli circolanti in Trentino durante la Grande Guerra ebbero sia vesti

Gabriele D’Annunzio si appresta a lanciare i volantini su Vienna, 1918 - FMST

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tipografiche povere che edizioni di lusso; furono composti di poche o centinaia di pagine e furono editi nei formati più svariati (da dimensioni tascabili a  quelle adatte a un giornale); scritti e illustrati con disegni, fotografie e bozzetti a seconda  dell’alfabetizzazione dei lettori cui si rivolgevano; anonimi o di firme famose, furono sovvenzionati da enti pubblici e privati. Nei testi vennero utilizzati tutti i generi letterari per la facile comprensibilità alle masse poco colte  e convincerle sulla bontà e sulla necessità della guerra e dei prestiti.

Bibliografia

Antonelli, Quinto 2014, Storia intima della Grande Guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte, Roma.

Brilli, Aldo 1985, Dalla satira alla caricatura. Storia, tecniche e ideologie della rappresentazione. Bari: Dedalo.

Croci, Federico 1992, Scrivere per non morire. Lettere della Grande Guerra del soldato bresciano Francesco Ferrari, Genova: Marietti.

Gibelli, Antonio1998, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino.

Gibelli, Antonio,2015, La guerra grande. Storie di gente comune, Roma-Bari.

Giovannini, F.2003, Il giornalismo e la diffusione dell’informazione. In: Storia del Trentino. L’età contemporanea, Bologna.

Murgia, Maria RitaSo schlagen wir mit ganzer Wucht/Die Feinde krumm und klein. La costruzione della propaganda nei Supplementi letterari della «Tiroler Soldaten-Zeitung», tesi di laurea a.a 2008-2009.

Porcedda, Donatella 1991, Strategie e tattiche del servizio propaganda al fronte, In: L’arma della persuasione. Parole ed immagini di propaganda nella Grande Guerra Gorizia: Provincia di Gorizia.

Spitzer, Leo 1976, Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918, Boringhieri, Torino.

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Cartolina di propaganda austriaca - FMST

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100Manifesto di propaganda austriaca - FMST

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Quell’elettrica scossa.Arte e Grande Guerra.

A cura di Lucia Barison e Marcello NeblCasa de Gentili, Sanzeno

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Quell’elettrica scossa - Arte e Grande Guerra, a cura di Lucia Barison e Marcello Nebl, è la sezione dedicata alle arti figurative all’interno del vasto progetto espositivo sovracomunale intitolato Val di Non. Sguardi sulla Grande Guerra.

La sezione ospitata a Sanzeno indaga il rapporto tra Grande Guerra e arte, con particolare attenzione al contesto trentino.

Nelle tre sezioni organizzate il visitatore può apprezzare e conoscere espressioni diverse e molteplici che vanno dalle opere drammatiche e sospese dei pittori di guerra al fronte, i fratelli Albert e Rudolf Stolz, passando per le vedute paradossalmente idilliache di un artista “di guerra” operante in Val di Non durante il periodo bellico, il soldato ucraino Theodor Wacyk, fino all’interpretazione contemporanea di grandi artisti del panorama artistico nazionale, europeo e mondiale che da alcuni anni si confrontano sul tema grazie alla sensibilità di galleristi come Giordano Raffaelli e Patrizia Buonanno. Quest’ultima sezione, curata in collaborazione con Camilla Nacci, rappresenta una selezione di opere dall’esperienza decennale di Arte Forte e delle esposizioni di Forte Strino, nate per stimolare gli artisti contemporanei a rapportarsi con il tema tragico della guerra e con i suggestivi ambienti dei forti trentini. In mostra opere e installazioni di materiali e linguaggi differenti, alcune delle quali eseguite appositamente per la mostra.

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Theodor WacykVeduta di Cles (part.)1915 circa tempera su tavola, 24x33 cmCollezione Famiglia Marchesi

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Theodor Wacyk: un pittore dell’esercito austroungarico in Val di Non durante la Grande Guerra Marcello Nebl

Durante la Grande Guerra la Val di Non è stata zona di passaggio di truppe e centro logistico, vista la vicinanza con le zone drammaticamente calde dell’Adamello.L’Anaunia non è stata quindi terreno di scontri diretti e in questo specifico contesto, per così dire ‘risparmiato’, la cosiddetta arte di guerra, ben rappresentata in mostra dall’operato dei fratelli Stolz sul fronte nei pressi del Garda, di fatto non è esistita. In valle, nelle file dell’esercito austroungarico, durante il conflitto sono comunque presenti due valenti artisti professionisti, l’austriaco Karl Friedrich Gsur (Vienna, 1871 - 1939) e l’ucraino Theodor Wacyk (Kolodiivka, 1886 - Platting, 1968) che, a differenza dei loro colleghi attivi al fronte, non raffigurano qui battaglie e trincee ma dipingono vedute di castelli e scorci bucolici della valle (si pensi alla veduta Cles di Gsur, olio su tela datato 8 agosto 1918).1

Karl Friedrich Gsur è artista noto e di notevole successo: su di lui esiste una ricca bibliografia, a partire dalle pagine del Dizionario Biografico Austriaco curato dall’Accademia Austriaca delle Scienze e dal saggio di Liselotte Popelka.2 Sulla figura di Wacyk esistono invece pochi studi approfonditi; risulta quindi particolarmente interessante la pubblicazione del belga Alphonse Bernard3 che ha permesso di ricostruirne il percorso e di mettere in secondo piano, se non addirittura accantonare, testimonianze orali che ricordavano l’artista in valle come prigioniero di guerra.

Theodor Wacyk nasce l’11 aprile 1886 nel villaggio galiziano di Kołodziejówka (Kolodiivka), nell’attuale Ucraina. Frequenta il ginnasio nella città di Tarnopol (Ternopil’) e, viste le notevoli qualità pittoriche, nel 1904 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Cracovia, in Polonia. Diplomato nel 1909, decide di proseguire gli

1 Nebl - Iori 2004 2 Popelka 19813 Bernard 2015

studi artistici recandosi prima a Vienna e a Monaco e infine a Venezia, dove risiede dal 1910 al 1914. Allo scoppio della Prima guerra mondiale l’artista si arruola come volontario nell’esercito austroungarico e viene inviato in Trentino, sul fronte italiano. Le opere dipinte nel periodo bellico delineano la sua permanenza in Val di Non, nelle caserme site a Cles, borgata che ritrae in una tempera su cartone di 24x33 cm databile al 1915 grazie al confronto con fotografie d’epoca. Oltre alla citata veduta di Cles, ritratta con rapide pennellate e colori estremamente vivaci, con piglio espressionista, Wacyk dipinge numerose vedute di castelli. Durante la permanenza a Cles l’artista conosce Luigi Marchesi di Rumo; quest’ultimo, grande appassionato d’arte figurativa e pronipote di Giovanni Marchesi (1804-1835), uno dei massimi pittori dell’Ottocento trentino, commissiona al Wacyk una serie di tempere su tavola, tutte della dimensione di 16x23 cm, con alcuni castelli delle Valli di Non e di Sole (Castel Cles, Castel Thun, Castel Bragher, Castel Sporo-Rovina, Castel Nanno, Castel Valer, Castel Belfort, Rocca di Samoclevo). Non è possibile sapere se l’artista abbia eseguito le immagini pittoriche dei castelli anauni attingendo a fotografie, o se abbia ritratto invece ‘dal vero’.Nel 1916 Theodor Wacyk sposa Maria Battisti di Fondo, dalla quale ha una figlia, Theodora, nata a Bolzano l’11 marzo 1918.

Al termine del conflitto Wacyk torna per un breve periodo in Ucraina per combattere da volontario per l’indipendenza del paese. Al termine di quell’esperienza disastrosa decide di rientrare a Cles dove vive fino al 1924, lasciando alcune sue opere con ritratti su commissione.Separatosi dalla moglie Maria, lascia definitivamente la valle per trasferirsi prima in Cecoslovacchia e Moravia e poi, nel 1935, nella sua Ucraina dove insegna disegno nelle scuole locali e riscuote successo come frescante di chiese ortodosse. Qui si risposa con Margarethe

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Anna Neubauer.Al termine della Seconda Guerra Mondiale Theodor Wacyk si trasferisce definitivamente in Baviera, a Platting, dove dipinge fino alla morte sopraggiunta il 22 giugno 1968.Come ricorda Alphonse Bernard, sue opere sono conservate nelle collezioni pubbliche del Museo Nazionale di L’viv in Ucraina, dell’Ukrainian Museum di New York (USA) e della KUMF Gallery di Toronto (Canada).

Bibliografia

Bernard, AlphonseForgotten by God and by Man:.The Life and Times of Theodor Wacyk (1886-1968): A Ukrainian Artist Revealed, Paperback 2015

Nebl, Marcello - Iori, WalterUn paesaggio in continua trasformazione, Metamorfosi del paesaggio clesiano, Cles, 2004 (catalogo della mostra, Palazzo Assessorile)

Popelka, Liselotte Vom Hurra zum Leichenfeld. Gemälde aus der Kriegsbildersammlung 1914-1918, Wien 1981, 14.

Gsur Karl Friedrich. In: Österreichisches Biographisches Lexikon 1815–1950 (ÖBL). Volume  2, Österreichischen Akademie der Wissenschaften, Wien 1959, 99.

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Theodor WacykVeduta di Cles1915 circa tempera su tavola, 24x33 cmCollezione Famiglia Marchesi

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Theodor WacykBelfort (castello)1918tempera su tavola, 16x23 cmCollezione Famiglia Marchesi

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Theodor WacykCles (castello)1918tempera su tavola, 16x23 cmCollezione Famiglia Marchesi

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Theodor WacykRovina (castel Sporo)1918tempera su tavola, 16x23 cmCollezione Famiglia Marchesi

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Theodor WacykValer (castello)1918tempera su tavola, 16x23 cmCollezione Famiglia Marchesi

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Theodor WacykBrughiero (castello)1918tempera su tavola, 16x23 cmCollezione Famiglia Marchesi

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Theodor WacykThun (castello)1918tempera su tavola, 16x23 cmCollezione Famiglia Marchesi

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Theodor WacykNanno (castello)1918tempera su tavola, 16x23 cmCollezione Famiglia Marchesi

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Theodor WacykRocca di Samoclevo1918tempera su tavola, 16x23 cmCollezione Famiglia Marchesi

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Rudolf StolzLa posizione sulla Cima d’Oro con razzo illuminante1916guazzo, 36x51 cmCourtesy Museo Rudolf Stolz, Sesto (Bz) © foto Johannes Watschinger

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Albert e Rudolf Stolz: fratelli e pittore al fronteLucia Barison

“Cara Resi,

ho ricevuto il pacco contenente divisa e cintura, alcool, borraccia, sigari e sacchetto di tabacco. Adesso mi serve anche della biancheria; ti prego di mandarmi una camicia, mutande pesanti, qualche fazzoletto di quelli colorati, possibilmente quelli azzurri. Aggiungi al pacchetto anche delle matite Koh-i-Noor, mina 2B, direi 4, e altre 4 con mina 3B, si acquistano da Ammon. Costano 36 centesimi l’una, che non è poco, ma durano molto. Ne dedurrai che ho parecchio da fare con i miei disegni e dipinti di guerra. Durante le nostre traversate dobbiamo essere molto cauti. Anche se saliamo su per la montagna lentamente, stiamo attenti a non prendere freddo; ad alta quota si gela e non si può stare fermi troppo a lungo. Al sole invece si sosta bene; per fare i nostri schizzi abbiamo bisogno del bel tempo e della luce del sole. Siamo sempre Albert ed io, da soli. Figurati se non ci riforniamo di roba pesante. Durante queste traversate i disagi non mancano di certo, e nei rifugi bisogna accontentarsi di tutto, l’importante è avere un riparo contro il freddo.

Gli schizzi fatti li completiamo giù a valle. Passiamo le giornate lavorando, anche piuttosto duramente, per poter avere qualcosa da mostrare.

Saluti da Albert.

Mille saluti e baci!”1

Nella lettera di posta militare inviata da Rudolf Stolz alla moglie Theresia sono contenuti gli elementi peculiari e distintivi dell’attività dei fratelli Albert e Rudolf Stolz quali “pittori di guerra al fronte”, arruolati nel battaglione degli “Stand-schützen” di Bolzano sotto il comando del dottor Viktor Peranthoner sul fronte sopra Riva del Garda. Presenza diretta sulle linee del fronte, cura nel dettaglio di ogni singola opera pittorica e convinzione circa il loro ruolo di “fotoreporter” nell’ambito della Grande Guerra.Rispettivamente di 40 e 41 anni, avevano il compito di dipingere quadri per un diario di guerra, loro che non avevano mai avuto a che fare con il servizio di leva militare ma erano cresciuti a Bolzano dove il padre possedeva e gestiva un laboratorio di pittura e decorazione ben avviato presso il quale, con il fratello maggiore Ignaz, erano stati educati al lavoro pittorico. Mentre il più giovane, Albert, poté seguire una formazione accademica, come il fratello Ignaz, presso la città di Vienna nel periodo dal 1898 al 1904, l’altro, il più vecchio di solo un anno, Rudolf, poté seguire solo dodici mesi di studio e apprendistato in Germania perché “eletto” a condurre e succedere il padre alla conduzione del laboratorio di famiglia presso Bolzano. L’attività artistica dei due fratelli, dietro alla quale è ravvisabile una forte ed evidente ambizione artistica, ha prodotto numerose opere sul tema del gioco, della danza, degli usi e costumi ma anche opere di decorazione su facciate di abitazioni, nelle sale di locande e tiri a segno.Nel 1915 i due fratelli vengono arruolati nella compagnia degli “Stand-schützen”2 con il compito di

1 Hörmann 20112 Nel Tirolo, gli uomini capaci di sparare erano iscritti ai poligoni e pertanto, anche dopo le convocazioni regolare, esisteva ancora un ordine pseudo-militare al quale si poteva fare ricorso in caso di emergenza e che fungeva da bacino di raccolta per tutti coloro che, idonei o meno, volessero dare il proprio contributo alle operazioni di difesa. Tra questi gli Standschützen. Allo scoppio del primo conflitto mondiale gli iscritti ai poligoni di tiro al bersaglio, che venivano chiamati dalla popolazione trentina i bersaglieri (ossia i bersaglieri immatricolati, Standschützen in tedesco), furono pertanto mobilitati ed affiancati ai corpi regolari dell’esercito austriaco con la divisa dei

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dipingere trincee, pattugliamenti, scene di guerra, trasporti di artiglieria, esercitazioni di tiro e scene di vita quotidiana che venivano dai due abbozzati a schizzo prima e completati poi in altra sede, più tranquilla, con precisione certosina ad acquerello, guazzo, matita o pastello. Nacquero così, in quel periodo, 30 opere dal taglio fotografico, documentaristico, ma anche fortemente pittorico ed intimistico destinate a un documento di guerra, il Diario 1915/1916, che doveva poi essere stampato per il battaglione degli Standschützen di Bolzano.Quest’ultimo stazionava sulla cresta che sovrasta Riva e i due artisti fissarono gli eventi del biennio 1915/1916. Le opere di dimensioni e tecnica diverse, furono affidate in custodia alla moglie dell’allora comandante dott. Viktor Perathoner e donate dalla figlia nel 2011 al Museo Stolz di Sesto dove, cinque o sei anni dopo la conclusione della guerra, i due fratelli eseguirono numerosi lavori nelle chiese e presso il cimitero. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, Rudolf vi fece nuovamente ritorno per rimanere definitivamente sino alla morte in seguito alla quale gli venne dedicato un museo come unico artista tirolese.La milizia dei bersaglieri immatricolati tirolesi presidiava le alture a ovest a monte di Riva quale posizione di fondamentale importanza strategica, importante collegamento sulla direttrice nord-sud che apriva, sin già al tempo dei Romani, l’accesso all’area del Lago di Garda a alla Valle dell’Adige. Un attacco da parte degli italiani in questo punto era quindi un’eventualità da tenere fortemente in considerazione.3 Le opere degli Stolz di questo

Kaiserjäger. Insostituibili nell’ambito della precisa conoscenza del proprio territorio e reduci dal duro lavoro nei campi, le lunghe marce e la costruzione delle fortificazioni richiedevano per loro meno fatica che per i soldati di carriera più giovani.3 Magdalena Hörmann contestualizza le opere dei fratelli Stolz descrivendo il seguente sfondo storico militare: “Sopra la cresta di monte che conduce dalla Rocchetta al di sopra del Lago di Garda attraversando la Cima d’oro, il Monte Pari fino ad arrivare a Tofino e al Dosso della Torta e che costituisce il confine orientale della valle Concei, la valle laterale che corre a nord della val di Ledro, esisteva già al tempo dei Romani e soprattutto nel Medioevo un passaggio molto frequentato nel suo punto più basso, la Bocca

periodo vanno ben oltre le semplici illustrazioni documentaristiche. Il paesaggio e le scene raffigurate in composizioni equilibrate e spesse volte di ampio respiro, suggeriscono un dialogo sublime tra natura e artificio, tra uomo e Dio, tra azione e rassegnazione. Lo scenario, che fa da sfondo e talvolta incornicia le intense scene di vita al fronte assume, talvolta, il ruolo principale del racconto. Talvolta inconsuete le inquadrature rese audaci ed accattivanti dal taglio singolare, moderno, fotografico.Le date apposte vicino alla firma svelano il modus operandi dei due pittori che, sistematicamente, rifinivano le opere in luoghi diversi dai quali venivano abbozzate e impresse le scene e la definizione di “pittori al fronte sul campo” mostra che l’esperienza personale nel gruppo dei bersaglieri è stata la conditio sine qua non per la realizzazione delle opere a prescindere

di Tratt. Grazie a questo passaggio era possibile aggirare le pareti di roccia che bloccano la valle di Ledro in direzione del Lago di Garda per tornare a valle attraverso il successivo villaggio di Campi, di poco a nrd sopra Riva. Poiché la valle di Ledro dall’altro lato è facilmente raggiungibile dalle valli Giudicarie e pertanto dalla valle del Chiese fino a Brescia, si tratta di un importante collegamento sulla direttrice nord-sud che apre l’accesso all’area del Garda e alla Valle dell’Adige. […] Il 30 luglio, nel corso di una di queste operazioni di pattugliamento e ricognizione guidata dal capitano dott. Perathoner, i bolzanini furono sottoposti al loro battesimo del fuoco. Dopo che gli italiani avevano occupato la valle di Ledro e la valle di Concei nel settembre del 1915, vi furono continui e diversificati attacchi agli avamposti delle posizioni che non furono comunque mai coronati da successo nonostante la costante supremazia numerica dell’avversario. Il più pericoloso fu probabilmente l’attacco del 5 aprile 1916 al punto di appoggio del Giumella sulla cima d’oro, allora occupato dal reggimento fanteria 29, ma che poté essere sventato grazie alla vigilanza del caposquadra Leiß degli Standschützen bolzanini. Ad azioni di questo tipo si contrapponevano sempre sortite da parte degli austriaci. L’intera sezione fu tuttavia risparmiata da un’effettiva offensiva e fu alla fine della guerra che il battaglione di Bolzano sperimentò in un’altra posizione nella val di Genova, ancora nelle mani dei soldati imperiali e regi, come era stato nel maggio del 1915. Questo è quindi per così dire lo sfondo storico militare della serie di opere uniche nel loro genere con le quali i fratelli Stolz documentarono la permanenza al fronte degli Standschützen bolzanini nel biennio 1915/16 e che vanno oltre alle semplici illustrazioni”. Hörmann 2011

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dalla ricchezza dei particolari, soprattutto paesaggistici, che sarebbe potuta derivare solo da un’osservazione diretta delle scene e del contesto topografico. Il punto riprodotto nel foglio n. 4 è ancora oggi facilmente individuabile. Quasi tutti ripresi di spalle con il volto fisso in avanti a controllo della cengia posta a strapiombo, gli Standschützen ritratti in marcia sono stati dipinti a gouache con una pennellata veloce ed istintiva quasi a suggerire il movimento del gruppo nell’atmosfera serotina e malinconica impressa da Albert nel 1916. L’opera del foglio n. 5 mostra un gruppo di bersaglieri mentre trasportano i pezzi di artiglieria sulla Cima d’oro. I volti e le sagome, quasi deformati dallo sforzo sovraumano, raccontano uno tra i lavori più duri dei soldati e cioè il trasporto dei pezzi di artiglieria dove, nella scena ritratta, al posto delle cinghie, vengono utilizzate sottili corde senza appigli. Dietro di loro, a valle, incombe la nebbia e così anche una sensazione di angoscia e sgomento. Le esercitazioni di tiro sul passo della Giumella nel giugno del 1915 raffigurate nel foglio n. 6 ricordano la teoria della “macchia” secondo cui la visione delle forme è creata dalla luce come macchie di colore, distinte, accostate o sovrapposte ad altre macchie di colore. L’artista è così libero di rendere con immediatezza verista ciò che il suo occhio percepisce nel presente. Il rifiuto dell’uso di linee decise per contornare i soggetti, in modo tale che fossero soltanto il colore e la luce a costruire la realtà e a definire le zone di luce e d’ombra, sembrano i principi secondo i quali fu ritratta anche la scena del foglio n. 7 con un gruppo di Standschützen immortalati durante la celebrazione liturgica sulla Cima d’oro in un guazzo del 1916. Fulcro della scena, posto quasi al centro dell’intera composizione, il sacerdote vestito di bianco, accento cromatico nel panorama estivo di alta montagna con la meravigliosa vista in lontananza dell’Adamello e della Paganella. Nel foglio n. 8, presso la baracca costruita sul pendio della Cima d’oro, gli Standschützen ricevono i “doni di carità” portati dai muli e provenienti dai loro paesi natali. La scena è fortemente soleggiata e le pecore sullo sfondo concorrono a renderla pacata e indisturbata dal rischio di potenziali attacchi del nemico italiano.Con l’occupazione della valle di Ledro e di

Concei, nel settembre 1915, gli italiano erano considerevolmente più vicini ed il bellissimo gouaghe del foglio n. 22 di Rudolf Stolz potrebbe anche risalire allo stesso autunno. Con una tecnica quasi divisionista, la surreale potenza del bagliore diffusosi dal lancio di un razzo illumina una fortificazione posta sulla Cima d’oro. L’immagine è spettacolare. Manca solo il rimbombo. Tutto il resto, paura, affanno, stupore e impotenza, sono qui rappresentate a tratti sottili che ci ricordano l’opera Segantiniana.L’atmosfera autunnale del foglio n. 21 che ritrae gli Schützen accampati in posizione di attesa davanti a un parapetto difensivo in pietra dipinti da Albert, anticipano la stagione invernale ritratta magistralmente dallo stesso nei fogli n. 23 e 24. Il pastello del 1916 che ritrae i Rinforzi nella bufera di neve si distingue dal guazzo della Pattuglia nel tratto di Tratt ritratta in una limpida e cristallina notte di luna sia per soggetto, sia per tecnica. Entrambe le visioni notturne spiccano nella serie per la resa, l’effetto e lo scenario lirico e struggente.Le opere dei fratelli Stolz destinate al diario del Battaglione Standschützen di Bolzano, sono degli splendidi esempi di reportage di guerra realizzato per mezzo della pittura anziché della fotografia. Concorrono a renderle uniche la tecnica e sensibilità pittorica dei due pittori cresciuti nel laboratorio artistico di famiglia ma formatisi, nel biennio 1915/1916, grazie al contatto diretto con la natura, la luce e la condizione umana messa a dura prova dalla Prima Guerra Mondiale.

Bibliografia

Hörmann, MagdalenaI fratelli Stolz, “Kriegsmaler” – pittori al fronte, 15|16 Albert e Rudolf Stolz “Kriegsmaler” – pittori al fronte, Sesto, 2011 (Catalogo della mostra, Museo Rudolf Stolz)

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Albert StolzPartenza degli Standschützen bolzanini da Bolzano al fronte italiano1915guazzo, 85x49 cmCourtesy Museo Rudolf Stolz, Sesto (Bz)© foto Johannes Watschinger

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Albert StolzGli Standschützen del battaglione di Bolzano in marcia per il fronte il 19 maggio 19151916guazzo, 49x36 cmCourtesy Museo Rudolf Stolz, Sesto (Bz)© foto Johannes Watschinger

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Albert Stolz, Trasporto di pezzi d’artiglieria sulla Cima d’Oro (part.), 1915guazzo e carboncino, 48x77 cm, Courtesy Museo Rudolf Stolz, Sesto (Bz)© foto Johannes Watschinger

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Rudolf StolzEsercitazione di tiro alla trincea ‘Einsergraben’ alla Bocca di Giumella1915guazzo, 37x35 cmCourtesy Museo Rudolf Stolz, Sesto (Bz)© foto Johannes Watschinger

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Rudolf StolzGli Standschützen di Bolzano durante la messa sulla Cima d’Oro1916guazzo, 25x40 cmCourtesy Museo Rudolf Stolz, Sesto (Bz)© foto Johannes Watschinger

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Rudolf Stolz, Arrivo dei doni di carità per gli Standschützen di Bolzano, 1916guazzo, 26x41 cm, Courtesy Museo Rudolf Stolz, Sesto (Bz)© foto Johannes Watschinger

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Albert StolzPosto di guardia a Bocca Giumella durante la battaglia dell’8 novembre 19151915guazzo, 34x48 cmCourtesy Museo Rudolf Stolz, Sesto (Bz)© foto Johannes Watschinger

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Albert StolzPattuglia nel tratto di Tratt, notte di luna1916guazzo, 33x52 cmCourtesy Museo Rudolf Stolz, Sesto (Bz)© foto Johannes Watschinger

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Albert StolzRinforzo nella bufera di neve1916pastello, 48x64 cmCourtesy Museo Rudolf Stolz, Sesto (Bz)© foto Johannes Watschinger

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Fulvio di PiazzaL’occhio del gasato2016olio su tela, 77x53 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Notti d’estate per un concerto di NataleCamilla Nacci

C’è un apparente stridore, nei giorni tra Natale e San Silvestro, tra il gelo dell’inverno e l’atmosfera festosa delle strade, le luci, le musiche, e la disposizione degli animi, pronti a ricominciare, a salutare il vecchio, ad accogliere il nuovo. “Les Nuits d’Été” di Berlioz, ascoltate in una chiesa da Gian Marco Montesano in una fredda serata parigina di fine dicembre, diventavano improvvisamente «un sogno ad occhi aperti, un sogno fisico, le notti d’estate». Diventavano anche, nello stesso periodo, una serie di opere che avrebbe accompagnato l’artista per anni. Definite dallo stesso Montesano «matrice evidente» di tutto il suo lavoro, “Les Nuits d’Été” rappresentano un’operazione di dialogo aperto tra la storia e l’arte contemporanea, sono innumerevoli ritagli su tela dell’annata del 1940 del giornale “Tempo”, in cui è scelta dell’artista lasciare tracce più o meno evidenti della Seconda Guerra Mondiale, sottolineare questo o quel dettaglio, ricreare con la pittura ambientazioni evocative di pace o di tumulto. Sono state queste le prime opere a essere esposte in mostra all’interno di un forte austro-ungarico del Trentino utilizzato durante la Grande Guerra, a portare al Forte Strino di Vermiglio lo stridore di una notte d’estate in pieno inverno. Anche in questo caso, il ruolo giocato dall’arte contemporanea in un ambiente di guerra rispondeva a un bisogno di attualizzazione, di comprensione della storia per le nuove generazioni. Era il 2003; dalla lungimirante proposta artistica dei galleristi trentini Patrizia Buonanno e Giordano Raffaelli, nei successivi quindici anni – fino a oggi, e oltre – si sono susseguite ogni estate a Forte Strino prima, fino a estendersi al Circuito dei forti del Trentino, mostre d’arte contemporanea di livello internazionale. In questi contesti, gli artisti sono stati chiamati a interrogarsi e a interrogare sulla guerra e su ciò che la guerra porta con sé: fantasmi, caos, assenza, senso del tempo, bisogno di ricostruzione. La loro ricerca si è spinta a trovare una relazione tra il proprio linguaggio espressivo e una memoria vissuta non direttamente, in alcuni casi narrata da parenti e genitori, in altri semplicemente riportata dai libri di storia e dai repertori museali.

Il riferimento al conflitto assume una valenza universale in quanto è molto spesso frutto di un «mixaggio» tra le suggestioni di guerra e le immagini mutuate dai media contemporanei. Leonida De Filippi antepone ai suoi soggetti un filtro dato dall’ingrandimento e dal taglio fotografico-televisivo dell’immagine; il suo reticolo pittorico fa riferimento al pixel, i suoi colori sgargianti al monitor. Riportando la tecnologia contemporanea sul tradizionale medium della tela, l’artista mira a creare una consapevolezza della commistione di finzione e realtà necessariamente presente in tutti gli eventi bellici passati, presenti e futuri. Nell’ottica di lavorare su piani temporali sfalsati ma tra loro comunicanti si muove anche Stefano Cagol con la sua serie “Atomicwerk”, videostill stampati su marmo di Carrara in cui immagini di esplosioni atomiche si alternano a momenti di svago nei night club giapponesi costituendo un sottile parallelismo con la forzata spensieratezza dei balli di corte viennesi durante il primo conflitto mondiale. Dai mondi immaginati del fumetto, dei B-movies e del video-game trae le sue immagini di guerra Laurina Paperina. L’artista sceglie di esprimersi attraverso icone narrative della propria generazione per rappresentare la realtà, ma anche per interpretarla. L’ironico ammiccamento al cartoon è un potentissimo strumento per colpire un pubblico universale e stimolare una riflessione che si gioca sul contrasto tra la sua freschezza comunicativa, immediata e accessibile, e l’impegno del messaggio trasmesso dalle sue opere. Lo stesso linguaggio pittorico, caratterizzato da immagini ben definite da un contorno nero che fa immediatamente riferimento a una scena illustrata, è utilizzato da Andrew Gilbert, studioso e acuto interprete di episodi storici legati alla guerra e al colonialismo. Sono ricchi di poesia i lavori su carta dedicati alla “guerra bianca”, combattuta tra le montagne del confine italo-austriaco da giovanissimi soldati. Poco più che bambini, che dalle rappresentazioni originali sulle immagini propagandistiche di inizio secolo, armati di fucile e di slogan patriottici, furono realmente inviati a combattere negli ambienti

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più difficili e ostili. Attraverso libri e fonti dell’epoca, cui l’artista attinge instancabilmente, si creano nell’immaginario collettivo alcuni tipi stereotipati legati alla Grande Guerra. Se ne fa interprete Fulvio Di Piazza con le opere su tela “Alpino” e “L’occhio del gasato”, in cui il ritratto del soldato diventa pretesto per rappresentare l’intero conflitto. Nei volti deformati dei personaggi dell’artista appaiono chiari tutti i segni e le tracce lasciati dalla guerra; sguardi infuocati, ma rassegnati, si avviano verso un inquietante destino di incertezze, fisiche e psicologiche. La guerra è dentro di loro. Il dolore si manifesta attraverso molteplici forme. Nicola Samorì ne rappresenta lucidamente la «cognizione» trasfigurandolo in un peso esteriore, un fardello che come la Croce di Cristo accompagna l’uomo, nelle sue cadute e nei suoi tentativi di rialzarsi; anche quando si nasconde dietro l’apparente perfezione di un viso calmo, è inevitabile che riemerga dalle crepe, ferite, fratture che fendono la superficie pittorica, o sotto forma di proiezione mentale ossessiva. I fantasmi della guerra non muoiono mai. Diventano, nella serie di opere di Donald Baechler “Citiziens and Soldiers”, figure totemiche di cui si legge solo la silhouette, la traccia simbolica che rimane dal passato, ponendo su uno stesso piano iconografico soldati e civili. Sono apparizioni, che lasciano tracce tangibili del loro passaggio negli oggetti quotidiani, abbandonati e ritrovati, come negli scatti fotografici di Nicola Eccher. La presenza dell’assenza è lì, nelle scarpe che non camminano più, nelle porte semichiuse sul passato, pronte a lasciare entrare ancora le ombre che le visitano, di cui si avverte ancora la percezione.Ombre che, come nella serie di opere di Pierluigi Pusole dedicate ai “Figli dei monti”, ancora abitano i boschi e le rocce, ne costituiscono lo spirito. Molti di questi figli sono rimasti seppelliti in un meraviglioso teatro paesaggistico, i loro corpi si sono fusi con il più grande corpo della natura, a costituire l’anima della montagna, a costituirne la memoria. È dunque indispensabile che le vicende passate rivivano attraverso il ricordo. La distanza dagli avvenimenti bellici è impressionante: vicine e lontane – tutto è relativo – appaiono le ricorrenze dal primo anno di guerra, dall’anno in cui l’Italia entrò in guerra, dalla fine della guerra. È proprio su quest’ultimo, l’anniversario della pace, di cui nel 2018 ricorre il Centenario, a concentrarsi Albino Rossi, che dieci anni fa dedicò alla sua Val di Sole un ciclo di novanta genziane, corrispondenti alle novanta primavere trascorse dal momento atteso dai due fronti. Contrapposti, eppure, come sempre accade nelle terre di confine, ricchi di commistioni linguistiche, storiche e culturali. Con un’azione anti-retorica, Federico Lanaro ricuce idealmente i due eserciti, fondendo nella serie di opere “IT_A” la bandiera austriaca con quella italiana in sette combinazioni diverse. Nascono così nuove bandiere, nuove possibili contaminazioni tra combattenti che hanno condiviso lo spazio, il dolore e il senso del tempo. Nelle “Uova Nere” di David Aaron Angeli questa condivisione diventa tangibile: per l’artista, che lavora di rimandi simbolici, il luogo-forte è uno spazio angusto, che custodisce la vita e la speranza dei suoi abitanti, ma rischia al contempo di diventarne la dimora eterna, a causa del decorso stesso degli eventi. Il filo che lega e accomuna

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Andrew Gilbert, Difendi l’Italia! (part.), 2014acrilico e acquerello su carta, 40x30 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

chi vive l’esperienza della guerra rimane l’appello alla fede a qualcosa di altro, di più alto, che possa intervenire a interrompere la sofferenza. Lo rappresenta spezzato, Michelangelo Galliani, nella sua “Vergine degli inganni”. In guerra non c’è posto per la preghiera. Artisti di generazioni diverse tra loro, ma tutti lontani dall’esperienza di guerra, hanno saputo dialogare con la memoria dei luoghi, ciascuno con il proprio medium artistico e con le modalità espressive caratteristiche del proprio percorso. Questa mostra ha il merito di riunire, per la prima volta in quindici anni, in una sede, il lavoro svolto da artisti, galleristi e curatori per ridare ai forti del Trentino un’identità culturale aggiungendo al già ampio bagaglio storico di queste costruzioni il valore del nuovo, del contemporaneo. Si aggiunge a questa esperienza la significativa scultura di Pietro Weber, “Silenti alla morte”, in cui ogni apparente stridore è messo a tacere, in un monumentale memento mori dove gli attori della guerra hanno appena terminato la loro danza macabra, e si preparano, sull’attenti, al momento della fine.

Bibliografia

Bertolini, Daniele; Dell’Arti, Giorgio; Montesano, Gian Marco2003 Gian Marco Montesano. Guerra in Vermiglio. Immagini in una terra di confine. Trento: Centro Stampa e Duplicazione della Regione Autonoma Trentino – Alto Adige.

Agrò Andruff, Ombretta; Bertolini, Daniele2005 Stefano Cagol. Atomicwerk. Trento: Stampalith.

Bertolini, Daniele; Foschini, Sabrina2006 Nicola Samorì. Lapsus. Fusignano (RA): Grafiche Morandi.

Bertolini, Daniele; Degasperi, Fiorenzo2007 Donald Baechler. A Farewell to Arms. Trento: Stampalith.

Dehò, Valerio; Serra, Marcello2008 Donald Baechler. A Farewell to Arms. Lavis (TN): Esperia.

De Filippi, Leonida; Manazza, Paolo; Serra, Marcello2010 Leonida De Filippi. History. Lavis (TN): Esperia.

Serra, Marcello; Tomasini, Marco2011 Pierluigi Pusole. Figli dei monti. Trento: Stampalith.

Capra, Daniele; Lorenzoni, Gabriele; Serra, Marcello2013 Federico Lanaro. Un’aquila non ha bandiera. Lavis (TN): Litotipografia Alcione.

Galliani, Michelangeno; Gilbert, Andrew; Panizza, Anna2014 Galliani-Gilbert. Forte comune 1914-2014. Lavis (TN): Litotipografia Alcione.

Nacci, Camilla; Panizza, Anna2015 Laurina Paperina-Nicola Eccher. Da un’opera ritrovata. Lavis (TN): Litotipografia Alcione.

Rossi, Mariella2016 (a cura di) ARTE FORTE. La Babele di linguaggi e di simboli legati ai conflitti. Lavis (TN): Litotipografia Alcione.

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Michelangelo GallianiOrizzonte 20172014marmo statuario di Carrara, piombo e ottone, 52x52 cmCourtesy Buonanno Arte Contemporanea, Trento

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Michelangelo GallianiVergine degli inganni2014marmo Bardiglio di Carrara e marmo nero Marquinnia, 60x130x230 cmCourtesy Buonanno Arte Contemporanea, Trento

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Albino RossiMontagna2008tecnica mista su tela, 200x170 cmCourtesy Buonanno Arte Contemporanea, Trento

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Albino RossiTempo e Memoria2016tecnica mista, 240x160 cmCourtesy Buonanno Arte Contemporanea, Trento

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Nicola Ecchersenza titolo2015stampa su forex, 35x35 cmCourtesy Buonanno Arte Contemporanea, Trento

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Nicola EccherPresenze2013stampa su forex, 35x35 cmCourtesy Buonanno Arte Contemporanea, Trento

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Leonida De Filippi“Keep Shooting”2010stampa digitale su tela, 53x104 cmCourtesy Buonanno Arte Contemporanea, Trento

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Gian Marco MontesanoLes Nuits D’Eté Paris1972olio su carta intelaiata, 37x53,5 cmCollezione privata, Trento

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Gian Marco MontesanoLes Nuits D’Eté Paris1972olio su carta intelaiata, 37x53,5 cmCollezione privata, Trento

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Gian Marco MontesanoLes Nuits D’Eté Paris1972olio su carta intelaiata, 37x53,5 cmCollezione privata, Trento

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David Aaron AngeliUovo nero #32015cera d’api, 20x13x13 cmCourtesy Cellar Contemporary, Trento

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Donald BaechlerSkull2018gesso, Flashe e collage su carta, 101,6x101,6 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Stefano CagolThe Marble Book. Atomicwerk2005stampa Rho su marmo di Carrara, ciascuno 29x21x1,5 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Fulvio Di PiazzaAlpino2016olio su tela, 77x53 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Pierluigi PusolePaesaggio con uomo2011acrilico e acquerello su carta, 70x100 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Pierluigi PusoleScalatore + uomo molto grande2011acrilico e acquerello su carta, 70x100 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Laurina PaperinaWar Game2015tecnica mista su tela, 190x120 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Andrew GilbertGrusse aus Isonzo 19162014acrilico e acquerello su carta, 40x30 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Federico LanaroIT_A #72013studioCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Federico LanaroIT_A #72013bandiere cucite, ciascuna 70x100 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Nicola SamorìSiliqua, 2008olio su carta, 95,5x51,5 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Nicola SamorìAnimula, 2009olio su carta, 45,5x32 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Nicola SamorìII, 2010olio su carta, 54x36 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Nicola SamorìXI, 2010olio su carta, 54x36 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Pietro WeberSilenti alla morte2016ceramica semirè e gesso, 40x30x35 cmCourtesy dell’artista

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Valentino ParmianiArchitetto, designer, docente universitario e artista, Valentino Parmiani nasce nel 1943 a Firenze. Soggetti preferiti della sua attività pittorica sono i paesaggi naturali, vedute colte e osservate nel corso di viaggi e passeggiate e molto spesso affidate ad album da disegno e taccuini. In particolare una tematica a lui cara è la montagna «costruita, abitata, armata», in cui rappresenta la convivenza, talvolta difficile e drammatica, dell’uomo con la natura. Le fortificazioni belliche della Grande Guerra, costruite della stessa materia delle montagne, prendono vita, maestose, dagli scorci inusuali diseg-nati da Parmiani, che ne sottolinea il fascino archiettonico attraverso un ampio sguardo prospettico.Parmiani non trascura le tracce della guerra che si è consumata tra le nevi e i ghiacci: oltre ai forti, tra le sue montagne sono ancora presenti i segni della durezza della vita al fronte. Trincee e filo spi-nato sono riscoperti dall’artista nel punto esatto in cui sono stati abbandonati, testimoni silenziosi dell’estenuante conflitto.

Valentino ParmianiForte Belvedere di Lavarone. Casamatta di controscarpa, 2010, acquerello su carta, 36x26 cmCourtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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