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Utilità del concetto di campo

nel lavoro di psichiatria territoriale

Claudio Neri

Kurt Lewin (1951) definisce il campo come una totalità dinamica capace di produrre all’interno di

un gruppo un senso di coesione ed appartenenza, che si manifesta con l’emergere del sentimento del

“noi”, di motivazioni e mete comuni ed implica una sorta di identità di gruppo con cui l’individuo

fa corpo.

Il sentimento del “noi” possono non essere avvertiti chiaramente dai membri di una équipe nelle

condizioni di lavoro day by day. Anzi, è più facile che avvertano divisioni ed anche estraneità.

Questo sentimento però cova sotto le ceneri e si può sentire con forza in alcune occasioni

particolari. Ad esempio, si sente in estate quando le persone in servizio sono poche, oppure alle

feste di pensionamento ed ai compleanni festeggiati nel luogo di lavoro, oppure anche in momenti

personali drammatici condivisi. Il senso del “noi” appare anche con forza quando il gruppo degli

operatori, deve subire cambiamenti di regole istituzionali imposti dall’esterno (Boccara 2011).

La concezione di campo di Kurt Lewin (1948, p. 125) è resa particolarmente interessante dalla

connessa definizione di legame di interdipendenza:

«Gli elementi del campo non sono necessariamente simili tra loro, ma una

volta che si è stabilito un legame di interdipendenza, questa può essere più

forte del legame basato sulla somiglianza».

Il legame di interdipendenza è un legame altrettanto forte o più forte del legame stabilito dall’essere

simili. Un effetto del fatto che si sia stabilito un legame di questo tipo è che quando un

cambiamento interessa uno degli elementi del campo esso influenza necessariamente anche lo stato

di tutti gli altri.

Atmosfera

Dopo questa sintetica definizione, procederò a distinguere la nozione di campo - per come io la

intendo - da concetti analoghi. Accompagnerò ogni distinzione con una breve illustrazione.

I termini campo ed atmosfera sono talora impiegati come sinonimi. Atmosfera e campo, tuttavia,

non coincidono. Il termine campo indica qualcosa di più complesso ed articolato dell’atmosfera. Il

campo non è soltanto un’atmosfera: dal campo dipendono una serie di funzioni tra loro interagenti.

Il campo - più precisamente - è l’insieme delle condizioni che fa sì che alcune funzioni (empatia,

attenzione, ricezione, relazione, interpretazione, ecc.) interagiscano positivamente oppure siano

bloccate o sovvertite.

Per illustrare questo punto impiegherò un’osservazione tratta dall’ambito ospedaliero.

Quando un medico o un infermiere comincia il turno in reparto, solitamente

si informa in modo apparentemente generico: “Come è?!?”. Di fatto sta

domandando: non quale è l’atmosfera del reparto (egli stesso può percepirla

con immediatezza), ma quale è la situazione generale del reparto.

Soltanto dopo avere ricevuto questa informazione, egli propone altre e più

specifiche domande su eventuali emergenze o casi particolari. L’ordine con

cui il medico che entra in turno pone le domande corrisponde a qualcosa che

è stato insegnato dall’esperienza: un’emergenza o un problema clinico

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complicato si affrontano in modo diverso a seconda che il reparto “tenga”

oppure che vi sia tensione, caos, allarme.

Nella risoluzione dei problemi clinici, cioè bisogna tenere conto di variabili

che riguardano non solo i pazienti, ma che corrispondono anche alle

funzioni svolte dai diversi membri dello staff, alla relazione tra loro ed alla

relazione che vi è tra lo staff ed i pazienti. Tutto ciò è raccolto nella sintetica

domanda del medico che entra di guardia: “Come è?!?”.

Relazione

Io ritengo che “relazione” e “campo” siano in rapporto tra loro. Penso più precisamente che

costituiscano un sistema, nel quale le funzioni proprie dell’una e dell’altro variano nel tempo e con

il mutare di un certo numero di condizioni.

Più precisamente voglio affermare che: a) gli individui sono la sorgente dell’attività,

dell’organizzazione e dell’intenzionalità che si manifesta in una data situazione; b) la relazione è il

contesto in cui tale attività prende vita; c) il campo è una dimensione di base che rende possibile ed

influenza la relazione.

Altre volte, però, un particolare tipo di campo si manifesta non come dimensione di base di una

relazione, ma piuttosto come qualcosa che è presente al posto di una relazione che è venuta a

mancare o prima che si stabilisca una relazione. Utilizzerò un frammento clinico per illuminare la

situazione in cui l’attivazione di un campo sostituisce una relazione che è venuta a mancare.

Roberto - un uomo di circa quaranta anni - da circa due anni è chiuso in

casa. Racconta al medico ed all’infermiere che lo vanno a visitare di essere

sottoposto ad un campo elettromagnetico provocato da Radio Maria.

Roberto ha chiamato più volte i carabinieri per una disinfestazione della

casa dal “campo Radio Maria”, ma senza alcun risultato.

Gli operatori del Centro di salute mentale, che successivamente lo hanno

seguito abbinando alla psicoterapia un trattamento farmacologico, fanno

l’ipotesi che il campo magnetico possa rappresentare una particolare forma

di unione del paziente con la madre che era morta alcuni anni prima. La

madre ed il rapporto residuo di Roberto con lei si manifesterebbero come

“campo-Radio Maria”.

L’immagine del “campo elettromagnetico provocato da Radio Maria” rappresenterebbe

contemporaneamente uno stato mentale del paziente e la condizione fisica del suo

auto-imprigionamento in casa.i

Spazio comune e condiviso

Kaës parla dello Spazio onirico comune e condiviso, descrivendolo come:

«uno spazio poroso, strano e qualche volta inquietante», «un sistema di

scambio tra gli spazi onirici e gli spazi di veglia di più soggetti» (Kaës,

2002).

Per creare questo spazio è necessario che gli individui che vi partecipano abbiano subito un

processo comune di regressione. Kaës ci avverte, giustamente, che:

«la nozione di regressione comune a due o più soggetti va maneggiata con

una certa sfumatura»

Egli vuole cioè portare la nostra attenzione sul fatto che perché si crei uno Spazio onirico comune e

condiviso la regressione e la depersonalizzazione debbono essere sfumate: leggere e reversibili. Egli

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segnala inoltre che la regressione e la depersonalizzazione da sole non sono sufficienti perché

questo spazio si realizzi:

«La nozione di regressione comune […] indica la partecipazione a qualcosa

che appartiene a più persone. Questa cosa in comune non significa che essa

sia condivisa automaticamente […]» (Kaës, 2002).

Perché vi sia condivisione (diversamente, dallo essere in comune) è necessario che sia avvenuta

l’attivazione di un “apparato inter-individuale e sopra-individuale” che mette in rapporto gli

individui, i loro apparati psichici e spazi onirici. ii

La nozione di Spazio onirico comune e condiviso ha molti punti in comune con quella di Campo. In

particolare, ambedue i concetti fanno riferimento a: 1) la porosità degli spazi psichici tra le persone

che condividono uno stesso campo; 2) la regressione e la depersonalizzazione; 3) la attivazione di

funzioni collettive che prendono parzialmente il posto delle funzioni individuale.

Le due nozioni, però, non coincidono perché, nella mia visione di Campo - come vedremo in

seguito - il concetto ha uno stretto legame con quello di evoluzione in “O” di Bion.

Cambiamenti del campo: spandere, spargere, spruzzare

Le caratteristiche del campo possono mutare per evoluzione spontanea; possono però anche essere

modificate (involontariamente oppure intenzionalmente) dalle persone che lo condividono.

Saul Bellow (1997) - nel testo che riporterò - impiega termini come “spandere”, “spargere”,

“spruzzare”. Queste parole suggeriscono che la variazione del campo psicologico esistente tra due o

più persone possa venire operata non tanto investendo direttamente un’altra persona, ma piuttosto

modificando il medium condiviso in cui si spande o spruzza qualcosa.

«Madge incrociò le braccia sul petto e si mise a passeggiare avanti e

indietro. Era estremamente irrequieta. Passò tra le porte di vetro, entrando

nel lungo soggiorno come se volesse ispezionare i sofà, le poltrone, i tappeti

persiani, tornando a mettervi qualcosa di lei.

Qualcosa di sessuale? Qualcosa di criminale?

Ribadiva la sua importanza. Non aveva la minima intenzione di lasciartela

dimenticare. La spandeva, la spargeva, la spruzzava qua e là. Non per nulla

era stata in prigione.

Quando la conobbi mi fece pensare a un corso sulla teoria dei campi al

quale mi ero iscritto da studente; la teoria dei campi psicologici, cioè

concernente le proprietà mentali di una regione mentale sotto influenze

mentali che somigliano alle forze gravitazionali.»

Per spiegare il tipo di fenomeno di cui parla Saul Bellow (spandere, spargere, spruzzare), si

potrebbe chiamare in causa l’identificazione proiettiva. Io preferisco, invece, portare l’attenzione

sulla sincronizzazione di funzioni basiche, somatiche e mentali (ad esempio: respiro, tono

muscolare, ansia, rilassamento, attenzione), e sulla rottura e/o alterazione di tali sincronizzazioni

che qualcuno può operare con gesti, grida, manifestazioni somatiche.

Cambiamenti del campo e mutare degli stati mentali

Restringerò ora l’osservazione per considerare il variare delle condizioni del campo, quando si è

stabilita una relazione di lunga durata, come quella psicoterapeutica.

Le caratteristiche del campo presenti in seduta - a mio avviso - cambiano (anche) in funzione degli

stati mentali che si succedono nella mente del paziente.

Tale variare delle caratteristiche del campo - insieme alle comunicazioni verbali e non verbali del

paziente, alle sue associazioni ed ai sogni - fornisce allo psicoterapista una rappresentazione del

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percorso che il paziente sta facendo, durante la seduta e durante l’intera analisi, nell’esplorazione

del suo mondo di relazioni, fantasie e memorie.

Il brano che segue - tratto da un libro di reportages di Ruyard Kapuściński - mostra con

immediatezza come le caratteristiche del campo possano mutare, influenzando i vissuti delle

persone che sono nel suo ambito. In Ebano, Kapuściński (1999) descrive un percorso in taxi

nell’isola e città di Lagos:

«La casa [dove abito e dove adesso sto tornando] si trova nel centro della

città, sull’isola di Lagos. Un tempo l’isola fu base dei mercanti di schiavi e

questa sua origine sinistra e vergognosa ha lasciato un non so che di

inquieto e violento che aleggia ancora nell’aria.

Andando in taxi chiacchiero con l’autista, quando all’improvviso questi si

zittisce e comincia a guardarsi intorno con aria nervosa. “Che c’è?”

domando incuriosito. “Very bad place!” risponde lui a voce bassa.

Proseguiamo.

L’autista, si è appena rilassato riprendendo a chiacchierare, quando in

mezzo alla strada (qui non esistono marciapiedi) ci viene incontro un gruppo

di persone alla cui vista il conducente ammutolisce, si guarda intorno,

accelera. “Che succede?” domando. “Very bad people!” risponde e solo

dopo un chilometro riprende la conversazione interrotta.

Questo autista si porta impressa nella testa una mappa della città come

quelle dei commissariati di polizia, con le luci multicolori che lampeggiano

segnalando i punti pericolosi, le aggressioni e i delitti. I segnali d’allarme

sono particolarmente fitti nel centro della città, dove si trova la mia casa».

È come se ad un territorio (Lagos, l’isola degli schiavisti) fossero rimasti legati ricordi terribili (che

adesso sono sullo sfondo) ed un palpabile campo di negatività: «un non so che di inquieto e violento

che aleggia nell’aria». Questo “campo di negatività” è composto da un insieme di stati mentali

(corrispondenti a diversi punti del campo-isola-deposito ed al lampeggiare dei segnali di allarme);

ognuno di essi è capace di pervadere la percezione e i vissuti dell’autista e di Kapuściński stesso.

Entri in un certo quartiere della città e sei in pericolo. Non soltanto sei in pericolo; entri in un certo

quartiere e tu stesso ti trasformi, diventi (anche tu) un po’ losco.

Preservare una certa oscurità del campo

Gli psicoanalisti italiani hanno portato l’attenzione in particolare sulla “tolleranza per i limiti della

conoscenza”. Un risultato di tale tolleranza è l’interpretazione insatura.

La tolleranza per il non sapere - esercitata attivamente e tenacemente seduta dopo seduta -

promuove inoltre una specifica configurazione del campo analitico, che consente alle “ombre

dell’essere” di sostarvi mantenendo una certa oscurità. Ciò - a sua volta - rende possibile

l’emergenza di pensieri e sentimenti inediti (Gaburri e Rugi, 1998).

Manfredi - durante il fine settimana - è andato a Milano per fare visita al

fratello. Giuliano - il fratello di Manfredi - ha avuto una recidiva del tumore

di cui era stato operato molti anni prima.

Nel corso della prima delle sue due sedute settimanali di psicoterapia - al

ritorno dal viaggio - Manfredi racconta di essere contento perché ha

avvertito di essere stato di aiuto al fratello. È però molto addolorato, teso ed

anche angosciato.

Il fratello ha voluto leggere insieme con lui, che è medico internista - riga

per riga - la cartella clinica. Manfredi ha pensato che nonostante tutto il

fratello possa farcela ancora una volta. Il suo sentimento profondo è però di

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maggiore pessimismo. Ha visto Giuliano estremamente provato, esausto.

Domenica pomeriggio, quando il fratello riposava, Manfredi, è andato

vedere il nuovo Museo dell'arte italiana del XX secolo al Palazzo

dell’Arengario. Mi descrive le opere che l’hanno colpito maggiormente: un

paesaggio di Morandi, due tele di Boccioni, un Sironi, un opera di Martini e

soprattutto alcune sculture di Fontana.

Ascoltandolo, penso che la visita al museo e la compagnia dei quadri e delle

sculture hanno rappresentato uno spazio a sé nel quale Manfredi ha cercato

di ritemprarsi e raccogliere i pensieri e sentimenti. Non dico nulla.

Manfredi prosegue: «Ho preso il catalogo del museo ed alcune cartoline dei

quadri che mi erano piaciuti di più per Giuliano. Ho comprato anche un

piccolo poster, che ho tenuto per me. Riproduce un quadro di Ianis

Kounellis: “La rosa nera”.»

Rifletto che tra tante cose questo poster è ciò che Manfredi ha riportato a

Roma. Mi limito a ripetere a voce alta le sue parole: “La rosa nera”.

Il discorso tra me e Manfredi si rivolge poi al suo ritorno a casa, all’incontro

con la moglie e le figlie, alla giornata di lavoro.

“La rosa nera” - lasciata nella relativa oscurità del campo - lentamente si è

aperta. Il venerdì successivo, quando viene per la sua seconda seduta,

Manfredi mi dice di avere avvertito il desiderio di fare incorniciare la

locandina che ha portato da Milano per metterla nel suo studio. È andato dal

corniciaio vicino a casa e gli ha chiesto di montarla su un tamburato. Il

corniciaio però gli ha risposto che non era in grado di farlo: “Posso fargliela

soltanto con una cornice e il vetro.” Manfredi gli ha chiesto un consiglio.

L’artigiano gli ha suggerito di andare ad un negozio vicino che lavora per

gli architetti. Lì avrebbero potuto incollare, montare su forex e plastificare il

suo poster.

Nel breve tragitto tra i due negozi, Manfredi il senso luttuoso, poetico ed

affettuoso de “La rosa nera” è emerso spontaneamente nella sua mente. Ha

capito che cosa aveva riportato a casa da Milano. Il suo animo si è un poco

placato. Accettando - in parte - ciò che stava succedendo e quello che stava

vivendo, Manfredi ha pensato “Si può accogliere (anche) una rosa nera.”

La rosa nera si è aperta da sola perché non era stata esposta a troppa luce: né l’analista né Manfredi

l’avevano colta troppo presto, attribuendogli un significato.iii

Aggiungerò qualche parola sulla tolleranza per il non sapere. Questa tolleranza non deve essere

confusa con il fatalismo, la rinuncia o il distacco; si tratta invece di un esercizio attivo della

“capacità negativa”, che tende a contrastare la tendenza automatica ad aderire alle richieste

(esplicite o implicite, provenienti dall’interno o dall’esterno) di dare comunque e rapidamente un

significato a ciò che avviene.

Non è impegno da poco. La spinta a fornire un senso ed una definizione trae forza da istanze

potenti: il Super-io istituzionale ed il “conformismo inconsapevole”. Più in generale tale spinta trae

vigore dalla “valenza”, che è propria di ogni uomo in quanto animale del gregge e che lo porta a

legarsi agli altri secondo un “assunto di base”.

Se il terapista, però, aderisce a questa richiesta - che può diventare a tratti pressante ed imperiosa -

produce conoscenze apparentemente solide e costruisce scenari di prevedibilità superficialmente

rassicuranti, ma spesso porta il paziente e se stesso in vicoli ciechi.

Fantasie collettive e miti

In psicoterapia di gruppo il campo è co-creato dall’analista e da una pluralità di persone e si

manifestano fenomeni propri del gruppo come totalità (mentalità primitiva, assunti di base,

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gruppo di lavoro).

Fantasie collettive messianiche ed apocalittiche ed anche miti (Eden, Torre di Babele, Ur, ecc.) lo

influenzano fortemente.

Si può anche fare riferimento ad un elemento evolutivo che sta a monte di queste fantasie e miti.

Bion lo chiama “O”. La presenza di “O” non è direttamente osservabile. Gli effetti lo sono.

Einstein ha ipotizzato l’esistenza di corpi celesti - ancora sconosciuti e non rilevabili al telescopio -

fondandosi sul loro potere di curvare la luce (Rushdie, 2005). Allo stesso modo è possibile

ipotizzare l’esistenza di “O”, l’esistenza di uno o più nuclei (attrattori o repulsori, attivatori o

assorbenti) attivi nel campo, che non possono essere osservati direttamente, ma che esercitano

un’influenza su ciò che i membri del gruppo dicono, sentono ed agiscono.

“O” non può essere conosciuto direttamente, tuttavia può evolvere secondo quella che Bion (1970)

ha definito “evoluzione in O”, cioè evoluzione di ciò che è ignoto.

Poiché non può essere conosciuto, ma soltanto “divenuto” non è possibile neanche dare precise

definizioni di “O” e della “evoluzione in O”. Se ne possono dare soltanto immagini evocative. Ne

presenterò una che è assolutamente personale. Per me “O” è come avvertire - sul fondo del campo

del gruppo - la presenza del mare, il mare che si muove incessantemente con piccole onde o grandi

nascoste tempeste. Paolo Conte (1988) in una delle sue più belle canzoni, Genova per noi ne parla

con queste parole:

Con quella faccia un po’ così

quell'espressione un po’ così

che abbiamo noi prima di andare a Genova

[….].

Genova per noi

che stiamo in fondo alla campagna

e abbiamo il sole in piazza rare volte

e il resto è pioggia che ci bagna

[….] ma che paura ci fa quel mare scuro

che si muove anche di notte e non sta fermo mai.

[….] ed ogni volta l’annusiamo

e circospetti ci muoviamo

un po’ randagi ci sentiamo noi.

A mio parere, è estremamente importante che i membri di un gruppo o di una comunità riescano ad

entrare in contatto con questo nucleo ancora privo di forma ed a partecipare alla sua evoluzione,

poiché si tratta di un’esperienza altrettanto ricca di potenzialità trasformative e terapeutiche della

comprensione promossa attraverso la ragione e l’interpretazione. iv

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Bibliografia

Testi essenziali

Gaburri E; Rugi G. (1998). (a cura di), Il campo gruppale. L'istituzione, la mente del terapeuta e gli

scenari del gruppo. Roma, Borla.

Lewin K. (1948). I conflitti sociali. Milano, Franco Angeli, 1972.

Lewin K. (1951). Field theory in social science: selected theoretical papers. New York Harper &

Row. [Traduzione italiana: Teoria e sperimentazione in psicologia sociale. Bologna, Il Mulino,

1982].

Rouchy, J.C. (1998). Le groupe espace analytique: clinique e théorie. Ramonville Saint-Agne :

Editions Érès,. [trad. It. Il gruppo spazio analitico: clinica e teoria. Roma : Borla, 2000].

Altri testi di riferimento

Bellow S. (1997). Una domanda di Matrimonio, Milano, Mondadori.

Bion W.R. (1970). Attenzione e interpretazione. Roma, Armando, 1973.

Boccara P. (2011). Comunicazione personale.

Conte P. (1998). Genova per noi. http://www.italianissima.net/testi/genpnoi.htm

Kaës R. (2002). La polifonia del sogno, L’esperienza onirica comune e condivisa. Roma, Borla, 2004.

Kapuściński R. (1998). Ebano. Milano, Feltrinelli, 2000.

Roth J. (1997) American Pastoral. Boston, Houghton Mifflin [Traduzione italiana: Pastorale

americana. Torino, Einaudi, 1998]. Citato secondo Boccara P. (2011). Comunicazione personale.

Viderman S. (1970). La construction de l’espace analytique. Paris, Gallimard, 1982.

Note i Sono grato a Giorgio Campoli ed ai colleghi della ASL “Roma A” di Via Boemondo per avermi

fatto conoscere la vicenda di questo paziente e per avermi autorizzato a riportarla.

ii Lo spazio comune del gruppo, in analogia allo “spazio analitico” (Viderman, 1970), è dunque una

sorta di luogo - immaginario e reale al tempo stesso - in cui si svolge la vita e si sviluppano gli

scambi (Rouchy, 1998). Il modello di Kaës è fondato essenzialmente sulle alleanze ed i contratti

inconsci e trova i suoi riferimenti principali nella metapsicologia di Freud. iii

La rosa nera è un grande smalto su tela (500 per 333 cm.) ed è stata dipinta nel 1964.

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In questo brano di Joseph Roth (1997) – che mi è stato segnalato da Paolo Boccara (2011) - può

essere rintracciata un’efficace descrizione della evoluzione in O. «Lotti contro la tua superficialità,

la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico

eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto

varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d’incontrarla, mentre pregusti il

momento in cui la incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con

qualcun'altro dell'incontro e scopri ancora una volta di aver travisato... Rimane il fatto che, in ogni

modo, capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male e male e poi male e, dopo un attento

riesame ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore

sarebbe dimenticare di avere ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita.»

Evoluzione in O è “godersi semplicemente la gita”, ma anche “cercare di accostarti alla gente senza

aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, …. [e sapere che] capire la gente non è

vivere. Vivere è capirla male e male e poi male.»

Indirizzo dell’autore:

Claudio Neri

Via Cavalier d’Arpino 26, 00197 Rome, Italy

Telefono. and fax: +39.06.3224668

E-mail: [email protected] e [email protected]

Web site: http://www.claudioneri.it/