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SOTTOMESSO GIUGNO 2013, ACCETTATO SETTEMBRE 2014 222 © Giovanni Fioriti Editore s.r.l. Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33, 3, 222-242 RADICI DEL PROCEDERE SEMEIOTICO NELLA CLINICA PSICO(PATO)LOGICA Alberto Stefana, Alessio Gamba Introduzione L’intervento specialistico medico su quanto attiene alla protezione e alla cura della salute, sia a livello organico sia relativamente alla sfera psichica, ha inizio dall’incontro del clinico con il paziente e dall’osservazione delle condizioni del soggetto portatore di una richiesta, di un problema o, talvolta, portato egli stesso “come problema” (a prescindere dalle motivazioni personali dell’individuo). All’interno del contesto culturale di tipo occidentale la formazione del medico e le teorie di riferimento, anche riferite alla metodologia di lavoro e alla teoria della tecnica professionale, hanno prevalentemente visto nella rilevazione di dati oggettivi (segni di tipo fisico) la modalità primaria per far luce e poi intervenire sulla situazione di malattia. Significativamente si parla di “esame obiettivo”, in cui i segni (informazioni rilevate da un’osservazione condivisibile) e i sintomi (dati soggettivi esperiti e comunicati dal paziente) hanno rappresentato la strada maestra per formulare ipotesi diagnostiche (cui eventualmente associare una semeiotica di laboratorio o strumentale) necessarie per un successivo intervento terapeutico. Per quanto il termine originario di “semeiotica” affondi le sue radici nella parola greca semeion (qualcosa che sta per qualcos’altro), ovvero faccia riferimento ai processi di significazione e di comunicazione 1 , già nel Corpus hippocraticum la semeiotica era stata individuata come uno strumento specifico e necessario del procedere scientifico in ambito medico, con la quale (attraverso l’ispezione, la palpazione, la percussione, l’auscultazione ecc.) si prende nota dei dati essenziali alla composizione di quadri, insiemi, costellazioni, sindromi per un approccio razionale e causale alla ricostruzione dell’eziologia e della patogenesi. Spiega Ippocrate: “Il medico deve esaminare dapprima le somiglianze e le dissomiglianze dalle più considerevoli, dalle più facili e da quelle che forniscono tutti i mezzi che si conoscono in tutto. È da ricercare tutto ciò che si può vedere, toccare, udire, tutto ciò che si può percepire con i sensi, con la vista, col tatto, con l’udito, col naso, con la lingua e con l’intelligenza; è da conoscere tutto ciò che può conoscersi mediante l’uso di tutti i nostri mezzi” (400 a.C., p. 273). A ciò sarebbe poi seguito un intervento terapeutico (farmacologico o strumentale): un percorso che vede solitamente il paziente come portatore di un problema, come descrittore preciso dei propri sintomi e, infine, come soggetto tendenzialmente passivo degli interventi diagnostici prima e terapeutici poi. Prima di allora, l’approccio magico-religioso vedeva la malattia come un’aggressione agita da qualcosa o da qualcuno esterno alla persona del malato. Si poteva avere una sottrazione di 1 È interessante sottolineare come questo aspetto di ordine semiotico, intrinseco alla radice di “semeiotica” (in cui significazione e interpretazione si intrecciano) venga poi perso a favore di una significazione “oggettivata”.

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sOTTOMEssO GiUGNO 2013, aCCETTaTO sETTEMBrE 2014

222 © Giovanni Fioriti Editore s.r.l.

Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33, 3, 222-242

RADICI DEL PROCEDERE SEMEIOTICO NELLA CLINICA PSICO(PATO)LOGICA

Alberto Stefana, Alessio Gamba

Introduzione

L’intervento specialistico medico su quanto attiene alla protezione e alla cura della salute, sia a livello organico sia relativamente alla sfera psichica, ha inizio dall’incontro del clinico con il paziente e dall’osservazione delle condizioni del soggetto portatore di una richiesta, di un problema o, talvolta, portato egli stesso “come problema” (a prescindere dalle motivazioni personali dell’individuo).

All’interno del contesto culturale di tipo occidentale la formazione del medico e le teorie di riferimento, anche riferite alla metodologia di lavoro e alla teoria della tecnica professionale, hanno prevalentemente visto nella rilevazione di dati oggettivi (segni di tipo fi sico) la modalità primaria per far luce e poi intervenire sulla situazione di malattia. Signifi cativamente si parla di “esame obiettivo”, in cui i segni (informazioni rilevate da un’osservazione condivisibile) e i sintomi (dati soggettivi esperiti e comunicati dal paziente) hanno rappresentato la strada maestra per formulare ipotesi diagnostiche (cui eventualmente associare una semeiotica di laboratorio o strumentale) necessarie per un successivo intervento terapeutico.

Per quanto il termine originario di “semeiotica” affondi le sue radici nella parola greca semeion (qualcosa che sta per qualcos’altro), ovvero faccia riferimento ai processi di signifi cazione e di comunicazione1, già nel Corpus hippocraticum la semeiotica era stata individuata come uno strumento specifi co e necessario del procedere scientifi co in ambito medico, con la quale (attraverso l’ispezione, la palpazione, la percussione, l’auscultazione ecc.) si prende nota dei dati essenziali alla composizione di quadri, insiemi, costellazioni, sindromi per un approccio razionale e causale alla ricostruzione dell’eziologia e della patogenesi. Spiega Ippocrate: “Il medico deve esaminare dapprima le somiglianze e le dissomiglianze dalle più considerevoli, dalle più facili e da quelle che forniscono tutti i mezzi che si conoscono in tutto. È da ricercare tutto ciò che si può vedere, toccare, udire, tutto ciò che si può percepire con i sensi, con la vista, col tatto, con l’udito, col naso, con la lingua e con l’intelligenza; è da conoscere tutto ciò che può conoscersi mediante l’uso di tutti i nostri mezzi” (400 a.C., p. 273). A ciò sarebbe poi seguito un intervento terapeutico (farmacologico o strumentale): un percorso che vede solitamente il paziente come portatore di un problema, come descrittore preciso dei propri sintomi e, infi ne, come soggetto tendenzialmente passivo degli interventi diagnostici prima e terapeutici poi.

Prima di allora, l’approccio magico-religioso vedeva la malattia come un’aggressione agita da qualcosa o da qualcuno esterno alla persona del malato. Si poteva avere una sottrazione di

1 È interessante sottolineare come questo aspetto di ordine semiotico, intrinseco alla radice di “semeiotica” (in cui signifi cazione e interpretazione si intrecciano) venga poi perso a favore di una signifi cazione “oggettivata”.

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qualcosa (ad esempio l’anima) o un’aggiunta di qualcosa (una penetrazione nel corpo di spiriti maligni o di corpi estranei, questi ultimi talvolta ritenuti contenenti una “essenza malattia”, come schegge di legno, pezzetti d’ossa o piccoli animali). La diagnosi consisteva allora nell’individuazione dell’agente esterno responsabile dell’avvento della malattia (Ellenberger 1970).

Furono poi i filosofi presocratici, circa un secolo prima di Ippocrate (460-370 a.C.), a preparare il terreno per una svolta concettuale propugnando l’abbandono di spiegazioni magico-religiose, per giungere all’idea che la physis (natura) potesse essere conosciuta. Con la scuola ippocratica hanno quindi avuto luogo una rottura epistemologica e un cambiamento di paradigma (Kuhn 1962) nel modo di concepire la malattia, ma senza che la precedente teorizzazione cessasse di essere presente e attiva. La malattia e il suo funzionamento non sono più interpretati in termini magico-religiosi, come esito di eventi, interventi o sanzioni sovrannaturali (spiriti, demoni ecc.) o umani (fattucchiere, stregoni ecc.) che “entrano” nella corporeità (con un concetto quindi ontologico di malattia, vista come un ente, un qualcosa di autonomo ed esogeno rispetto all’organismo), sono invece approcciati come facenti parte della natura, aventi appunto una struttura naturale e cause razionali: un concetto dunque dinamico della malattia, vista come un qualcosa (esito di un processo) appartenente all’uomo. In tal senso, anche la metodologia diagnostica variava, almeno per ciò che era identificato come oggetto di osservazione o come procedura di intervento: dall’esame di interiora di animali o dallo strofinare la pelle di un animale ancora vivo sul corpo del malato si passava a registrare stati e sintomi provenienti dal corpo e dal soggetto umano.

Con Ippocrate e la scuola di Cos maturò quindi la possibilità di uno spazio concettuale tra il medico e il paziente, spazio occupato dall’entità “malattia”, divenuta oggetto di uno sguardo e un ascolto clinici2, a partire da una focalizzazione dell’indagine-sulla-patologia al sistema delle sue manifestazioni e abbandonando nel contempo un monismo in chiave magico-animistica o religiosa. In definitiva, possiamo dire che l’interpretazione ippocratica del sintomo perviene all’interpretazione semeiotica di sindromi, ovvero di configurazioni di sintomi stabili e ricorrenti governate da regole (Ponzio e Petrilli 2003). Spiega Ippocrate (citato in Ponzio e Petrilli 2003, p. 16): “Dobbiamo afferrare ciò che sfugge ai nostri occhi con la vista mentale, e il medico, quando non è capace di vedere la natura della malattia o di essere informato al riguardo, deve ricorrere al ragionamento sulla base dei sintomi che gli si presentano”, in un procedere di tipo inferenziale.

Dalla malattia fisica a quella mentale

In questa progressiva maturazione teorica e metodologica del sapere e del procedere medico, inevitabilmente si è venuta a porre la questione della loro pertinenza e applicabilità alla sfera psichica, alla malattia mentale (il cui statuto ontologico ha avuto, per altro, vicende variegate).

Come ci ricorda Paolo Migone (1999), in epoca protostorica non esisteva il concetto di disturbo mentale e le teorie della malattia, unitamente ai conseguenti trattamenti, erano profondamente legate a credenze animistiche, mitico-religiose e magiche. Già nel 1932 Forrest Clements

2 Per quanto riguarda la storia del termine “clinico”, in particolar modo la progressiva divaricazione, foriera di numerosi equivoci, tra i significati a esso attribuiti in medicina e in psicologia vedi Imbasciati (2008).

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propone una ricostruzione storica delle principali teorie della malattia: parte dal Paleolitico, nel quale la teoria più diffusa è quella dell’intrusione di un oggetto-malattia, risale ai giorni nostri individuando via via come causa delle malattie l’assenza dell’anima alla fine del Paleolitico, l’introduzione di uno spirito alla fine del Pleistocene, mentre in tempi relativamente più recenti si trova l’infrazione di un tabù, fino a giungere alla teoria della malattia maggiormente diffusa: la stregoneria, la cui cronologia è di meno facile definizione temporale. Ma, come scrive Michel Foucault (1954), “la malattia ha la propria realtà e il proprio valore di malattia solo all’interno di una cultura che la riconosce come tale” (p. 70).

Similmente a quanto osservato per la malattia fisica, ci si è trovati di fronte al riproporsi della dicotomia (che andrà risolvendosi solamente negli ultimi due secoli, e solo in parte3) in due linee interpretative dei concetti e dei modelli esplicativi degli eventi riferibili ora alla salute/malattia mentale: da un lato, il filone di pensiero che trovava le spiegazioni sul versante magico-religioso; dall’altro, la scuola ippocratica con la sua maturazione entro categorie di stampo naturalistico. Linee remote entrambe presenti da tempi, variamente alternate e prevalenti nella descrizione interpretativamente orientata del mondo.

Nella prospettiva ippocratica la malattia (o disturbo) mentale come tale non esisteva: i sintomi psichici erano riconosciuti e tenuti in debita considerazione, tuttavia considerati espressione di una malattia somatica. Questo perché per Ippocrate “è a causa del cervello stesso se impazziamo, e deliriamo, e ci insorgono incubi e terrori (sia di notte sia di giorno), e insonnia e smarrimenti strani, ed apprensioni senza scopo, e incapacità di comprendere cose consuete, e atti aberranti. E tutto ciò soffriamo per via del cervello, quand’esso non sia sano, bensì divenga più caldo o più freddo o più umido o più secco di quanto la sua natura comporti, o subisca qualche altra affezione che gli sia innaturale e inconsueta” (430-420 a.C., p. 287). I sintomi fisici e quelli psichici non differivano di natura, erano solo due differenti piani di espressione della stessa malattia. Con la naturalizzazione della malattia nel suo complesso aveva implicitamente avuto luogo anche una concettualizzazione nell’ambito della psicopatologia, nel quale la malattia era definita, come sopra richiamato, come espressione di eventi fisico-naturali.

Accanto alla visione laica e naturalistica proposta dall’approccio di matrice ippocratica, si mantenne la visione animistica che inquadrava il funzionamento psichico in categorie magiche, morali e religiose, la cui espressione massima era contenuta nel Malleus maleficarum (Institoris e Sprenger 1486-1487), ovvero nel manuale che codificava le procedure per la caccia alle streghe che durò dal XIV al XVII secolo. La credenza sottostante era che certe persone, soprattutto di sesso femminile (forse perché viste come seduttrici e maggiormente sottomesse alle passioni), fossero in contatto col diavolo e con questi avessero stretto un patto tramite il quale cedevano la propria anima in cambio di poteri soprannaturali.

In questo contesto, come scrive Foucault (1974-75), “la stregoneria è stata al tempo stesso l’effetto, il punto di rovesciamento e il centro di resistenza all’ondata di cristianizzazione per mezzo dell’Inquisizione. (…) Non è dunque nella storia delle malattie che bisogna iscrivere il

3 Si pensi, per rimanere nel contesto culturale italiano, seppur del secolo scorso, agli studi di Ernesto De Martino (1961) sul tarantismo nel Salento. Di De Martino è interessante ricordare l’approccio multidisciplinare dei suoi studi che lo portò a costituire un’équipe che, nell’opera citata, aveva visto al lavoro un medico, uno psichiatra, una psicologa, uno storico delle religioni, un’antropologa culturale, un etnomusicologo e un documentarista cinematografico.

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problema degli indemoniati e delle loro convulsioni” (p. 189). Al contrario sembra essere stata la medicina a svolgere un ruolo politico; prosegue infatti Foucault: “al momento dei grandi processi di stregoneria, si era fatto effettivamente appello alla medicina e ai medici, ma contro il potere ecclesiastico, contro gli abusi dell’Inquisizione. Era stato in genere il potere civile, la magistratura, che aveva cercato di inserire la medicina nelle questioni relative alla stregoneria per moderare dall’esterno il potere della Chiesa” (p. 196).

Prime espressioni di un diverso atteggiamento, che cominciava a manifestarsi a partire dal XVI secolo, sono il De praestigiis daemonum (1563) di Johann Weyer, per il quale venne chiesta la condanna al rogo, e il Discovery of witchcraft (1584) di Reginald Scot, testo che venne messo al rogo; si tratta di due opere che contestando la caccia alle streghe sui piani medico, giuridico e religioso davano il loro contributo a un faticoso avvio, in una cornice religiosamente orientata, del processo di separazione tra i concetti di mente e di anima, in direzione di un’impostazione organicistica dei disturbi mentali.

In questa evoluzione, fondata sulla razionalità della natura e sulla sua descrivibilità in termini logico-matematici e di rapporti causali, si sono quindi mosse anche le discipline dell’area psichica (psichiatria e psicologia clinica), sostenute in questo dai movimenti culturali e sociali legati all’illuminismo, all’empirismo e alla rivoluzione industriale che, attraverso il “fare”, stavano ottenendo conquiste inimmaginabili sino ad allora. In questo procedere anche la medicina sociale trovava uno spazio crescente.

Alfredo Civita (1999) individua due fasi dell’evoluzione storico-concettuale della psicopatologia: la prima la denomina “psicopatologia antica”, mentre quella successiva la denomina “psicopatologia moderna e contemporanea”; esse risultano distinte tra loro sulla base delle diverse modalità di approccio alla malattia mentale. La prima era prettamente descrittiva, lo studio del funzionamento mentale era caratterizzato dallo studio dei sintomi e dei disturbi mentali dall’esterno, ovvero nel loro carattere epifenomenico e pubblico; la seconda mira a individuare le strutture sottostanti al fenomeno osservato. Civita individua altresì uno spartiacque tra queste due fasi nella pubblicazione, avvenuta nel 1800, del Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale e la mania di Philippe Pinel (1745-1826), in quanto tale opera può essere considerata “bifronte”: da un lato conserva l’approccio clinico-descrittivo e nosografico, con le categorie e lo stile generale della psicopatologia che l’aveva preceduto; dall’altro esprime la necessità di andare oltre la pura descrizione per giungere a ciò che “organizza” la psicopatologia.

Questa analisi delle strutture sottostanti, in una psichiatria ormai più moderna, non si sviluppò però come corpo unico, ma ancora una volta lungo due principali linee di sviluppo: la prima riconosceva una qualche indipendenza degli eventi mentali rispetto a “fattori causali” su base organica, mentre la seconda era legata alla concezione medico-biologica (“oggettiva”) della mente. Nella prima linea è possibile collocare Pinel, che infatti aveva cominciato a delineare tale indipendenza sul piano teorico: adottando una concezione della malattia mentale nella quale la follia era intesa come malattia dell’atteggiamento morale, risultato di un processo che a partire dal verificarsi di un certo episodio nella vita dell’individuo porta all’incapacità di controllare (frenare) le proprie emozioni, Pinel giunge a ritenere esservi la natura immorale delle passioni alla base della follia. In tale linea è inoltre possibile collocarvi Jean Etienne Dominique Esquirol (1772-1840), che l’aveva sviluppata sul piano clinico, e Sigmund Freud (1856-1939). Fu

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primariamente con quest’ultimo che ebbe luogo una maturazione teorica e clinica che portò in primo piano la dimensione soggettiva della sofferenza psichica. Antesignano dell’altra linea di sviluppo fu invece Emil Kraepelin (1856-1926), il quale, tuttavia, pur rifacendosi al paradigma anatomo-clinico, riteneva che le conoscenze sul sistema nervoso centrale non fossero al tempo sufficienti per comprendere i disturbi mentali, e quindi, puntando a facilitare la scoperta degli agenti eziopatogenetici, si era trovato ad adottare un punto di vista strettamente descrittivo e uno studio sistematico fondato sull’analisi longitudinale e statistica dei sintomi dei pazienti, sintomi organizzati per sindromi il più omogenee possibile.

È interessante comunque osservare un certo iato, sin dal 1800, tra le convinzioni della psichiatria medica del tempo, da sempre convinta della dipendenza della malattia mentale da un’alterazione organica, e i limiti della ricerca nel saper documentare l’asserito primato della fisiopatologia e dell’anatomopatologia nell’eziologia dei disturbi mentali. Il paradigma organicistico era presente nei numerosi studiosi4 che partivano dall’assunto secondo il quale il disturbo psichico grave è da considerarsi come assai probabilmente derivante da una disfunzione cerebrale. Di questo orientamento erano coerente espressione alcune teorizzazioni come la frenologia di Franz Gall (1758-1828), le ricerche di Cesare Lombroso (1835-1909) e, in tempi più recenti, quelle avanzate dai sostenitori del neodarwinismo. Secondo Gall ogni tendenza, inclinazione e facoltà psichica aveva sede in una specifica area della corteccia cerebrale; il cervello era un insieme di differenti organi, ognuno specializzato in una determinata funzione; ogni sviluppo di una data area era direttamente collegato a un incremento della funzione mentale corrispondente. La frenologia si basava sull’assunto che la superficie corticale potesse essere rilevata dalla conformazione del cranio. Da parte sua, Lombroso, fondatore dell’antropologia criminale, sulla base di una serie di ricerche di antropometria in relazione a problemi medico-legali, che partivano dall’assunto che la degenerazione morale è spiegabile tramite anomalie fisiche (somatiche), arrivò a formulare la teoria dell’anomalia cranica del criminale. Nondimeno, molti di quegli studiosi ritenevano che le conoscenze e gli strumenti allora disponibili non fossero in grado di fornire risultati sperimentali sicuri. In tempi più recenti sulla stessa linea si è andata collocando la sociobiologia di Edward O. Wilson (1975), definita come “lo studio sistematico delle basi biologiche di ogni forma di comportamento sociale” (p. 4), che partendo da una base biologico-evoluzionistica mirava a ricondurre le scienze sociali umane al paradigma neodarwiniano secondo il quale “ciascun fenomeno è valutato per il suo significato adattativo” (ivi). Per inciso, va detto che già nel fornire la definizione di sociobiologia Wilson si era cautelato rivelando che “Resta da vedere se le scienze sociali possano essere biologizzate” (ivi). L’individuo andrebbe così configurandosi come mediatore di informazioni genetiche che userebbero qualsiasi comportamento o struttura sociale per affermarsi: non sul fenotipo, ma sul genotipo opererebbe la selezione. La prima formulazione della sociobiologia sarà poi temperata dallo stesso Wilson che includerà la cultura nella spiegazione del comportamento; in tale visione l’individuo rimane comunque come un soggetto che subisce più o meno passivamente le influenze culturali, sono i geni a svolgere il ruolo principale nel fare il necessario per assicurarsi la diffusione (riproduzione).

4 Tra questi, alcuni ricercatori, si pensi ai cosiddetti “localizzazionisti”, indagavano sul cervello in quanto le malattie mentali erano viste dipendenti da alterazioni cerebrali, pervenendo a “risultati” che apparivano però più interpretazioni che scoperte, tant’è che Lanteri-Laura e Bouttier (1983) parlano di “localizzazioni immaginarie” (p. 422).

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Oggi, al contrario, le nuove possibilità tecnologiche stanno permettendo nuovi e più ricchi collegamenti tra attività psichica e substrato biologico, ad esempio con le tecniche di neuroimaging o con le teorizzazioni sui neuroni-specchio. Si osserva però, per lo meno in alcuni dei ricercatori direttamente coinvolti (ad esempio Gallese 2007, Vul et al. 2009, Rose 2012), un’apprezzabile prudenza e cura nelle riflessioni sul significato più profondo delle co-occorrenze registrate tra attività neurobiologica ed eventi psicologici, con ipotesi certamente da irrobustire nel loro potere esplicativo (al momento molto circoscritto) nella misura in cui, tra le varie cose, inseriscono il problema mente-corpo, le reciproche dinamiche, i rapporti causali, il determinismo e il libero arbitrio. Così, Vittorio Gallese (2009), neurofisiologo appartenente al team che ha scoperto i neuroni specchio, scrive che “uno degli obiettivi principali della ricerca contemporanea delle neuroscienze cognitive (…) è il progetto di naturalizzazione della cognizione o intelligenza sociale, consistente nella comprensione della natura dei processi neurali che regolano le relazioni interpersonali, l’intersoggettività. Il problema consiste nel capire quali sono i meccanismi nervosi che ci consentono di entrare in comunicazione con i nostri simili, di trasmettere loro i nostri desideri, le nostre credenze, le nostre intenzioni, e, contemporaneamente, comprendere ciò che gli altri fanno e perché lo fanno. Il fine ultimo di questo progetto è quello di chiarire la connessione tra i meccanismi di funzionamento del cervello e le nostre competenze cognitive sociali” (p. 171).

Certamente però una fondazione “scientifica” delle dinamiche psicologiche e psicopatologiche secondo i modelli delle medicina organica continuava a rappresentare un punto di arrivo e una conferma del valore di quanto acquisito, se anche Freud (neurologo) esplicitava nel suo Progetto di una psicologia (1895) l’intenzione di “dare una psicologia che sia una scienza naturale” (p. 201). Non solo l’opera non fu da lui pubblicata, ma nemmeno fu possibile per Freud realizzare la sua iniziale intenzione, senza per altro rinunciare all’idea che un giorno gli sviluppi scientifici avrebbero permesso di fondare la psicoanalisi sulla neurofisiologia. Scriveva infatti nel necrologio di Sándor Ferenczi: “È probabile che assisteremo davvero, in futuro, all’avvento della ‘bioanalisi’” (Freud 1933, p. 321). Nel Compendio del 1938 proseguiva: “può darsi che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali sostanze chimiche, le qualità energetiche e la loro ripartizione nell’apparato psichico” (p. 609). La rinuncia, potremmo dire il rinvio, a questa fondazione sulle “scienze del cervello” permise però, come ha osservato André Green (1992), di collocare la psicoanalisi nel suo campo specifico. Detto ciò, al di fuori di un approccio strettamente riduzionistico, rimane aperta la riflessione sulla portata esplicativa che le risultanze delle neuroscienze possono avere per lo sviluppo della nostra disciplina (Kingdon e Young 2007).

Se l’abbandono di una fondazione strettamente organicistica del funzionamento psichico ebbe come risultato un grande sviluppo dei versanti nosografico e tassonomico, il nascente modello psicologico (l’odierna psicologia clinica) cercò di non rimanere estraneo all’approccio classificatorio ed esplicativo tipico delle scienze fisiche, pur con le proprie caratterizzazioni non del tutto riducibili al modello fisicalista. Fu particolarmente sotto la spinta della psicoanalisi di Freud e della psichiatria fenomenologica di Karl Jaspers (1883-1969) che la clinica psicopatologica iniziò il suo cammino, tentando di darsi una fondazione scientifica, anche se non “oggettiva” nei termini auspicati da Kraepelin.

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A questi fatti se ne sono aggiunti altri meglio interpretabili alla luce di una sociologia della scienza che tiene conto di quanto è accaduto in territori limitrofi alla medicina e alla psicologia, con le sfide concettuali proposte dalle altre scienze naturali e dalle dinamiche culturali e sociali. Sul piano delle scienze fisiche, ad esempio, emergeva la necessità, tuttora irrisolta, di far coesistere le leggi della macrofisica, espresse dalla meccanica classica newtoniana, con le leggi della fisica subatomica, in cui la teoria della relatività e quella dei quanti mettevano in discussione l’ordine e la certa regolarità (causalistica e deterministica) del “mondo naturale” osservabile con i nostri sensi. O ancora, il contributo di Werner Heisenberg (1927) con il suo “principio di indeterminazione” che ripropone in termini problematici la possibilità di misurare contemporaneamente velocità e posizione di un elettrone, proprio per la presenza “intrusiva” di un osservatore che va ad alterare il valore “oggettivo” del fenomeno in questione. Annotazione questa che rende plausibile chiedersi in termini metodologici e contenutistici quale sia l’impatto che presenza e funzionamento dell’operatore “psi” hanno sul soggetto “osservato”, sulla semeiotica e sulla diagnosi, oltre che sulla terapia. È interessante anche riportare la definizione di Henri Ey (Ey et al. 1978) sulla semeiotica, definizione in cui il termine “essenziale” sembra mettere una gerarchia negli strumenti metodologici utilizzabili ai fini di una diagnosi: “Rilievo preciso dei segni che costituiscono i quadri clinici delle malattie mentali e consentono di porre la diagnosi e la prognosi (…) l’elemento essenziale della conoscenza clinica dei malati mentali è costituito dall’incontro fra medico e malato” (p. 87). Ugualmente interessante è la riflessione su come il modello della macrofisica con le sue certezze e linearità, invece che il modello e la complessità della fisica subatomica, sia stato scelto e ancora rimanga come punto di arrivo anche per le scienze umane.

La messa in discussione di modelli interpretativi che postulano appunto causalità e certezza non può non intrecciarsi e ricomparire nel mondo delle scienze umane e della medicina, in cui, in modo ancor più evidente, tali requisiti rischiano di essere il frutto di opzioni ideologiche5.

A riflessioni via via più articolate sul piano psicologico, sociologico e filosofico (ad esempio sul concetto di salute, malattia, qualità di vita)6, venivano ad aggiungersi le riflessioni

5 È interessante ricordare come la dialettica tra “ordine/certezza/precisione” compaia anche nella metodologia statistica utilizzata nelle scienze umane, statistica assai meno priva di impliciti teorici di quanto non si pensi. Gli strumenti più regolarmente contengono presupposti di tipo aristotelico (il principio di non contraddizione e il principio del terzo escluso) per cui tra le variabili vale una logica dicotomica “A vs non-A”: si/no, favorevole/contrario, presente/assente, ad esempio. Occorre però chiedersi quanto questo approccio dai margini così ben definiti e netti sia in grado di descrivere la complessità, le ambivalenze e anche le incoerenze del funzionamento psicologico. Esiste un altro approccio, basato sulla logica fuzzy (“confusa”, proposta per la prima volta da Lotfi Zadeh nel 1965), in cui non vi è solo la possibilità di A vs non-A, ma è contemplato anche un “gradiente di appartenenza” di un elemento a una certa variabile: ad esempio, quanto è calda la temperatura dell’acqua o quanto benevola/ostile è una persona. Occorre chiedersi se il funzionamento umano sia più affrontabile e descrivibile con metodiche che presuppongo dati “hard” (o tali li rendono) o invece con dati “soft”, in cui la minore precisione si accompagna però a una maggiore rilevanza delle conclusioni e forse anche una maggiore compatibilità con la modellistica psicologica (si pensi al concetto di “ambivalenza”).

6 Georges Canguilhem (1966), ad esempio, a seguito di una profonda riflessione su normale/normativo e patologico in biologia, giunge a ritenere che non si dà patologia oggettiva; nel senso che è l’individuo, in base al proprio vissuto soggettivo, a stabilire la demarcazione tra normale e patologico. Secondo questo autore la salute non è “normalità” (il normale è caratterizzato da una relatività individuale, contestuale e cronologica) se non nella misura in cui è allo stesso tempo normatività. Essere in salute è quindi la capacità di istituire norme

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antropologiche che, strettamente legate ai movimenti migratori frutto della globalizzazione, esplicitavano le connotazioni intrinsecamente culturali di alcuni concetti (la coppia, la famiglia, le modalità educative ecc.)7. In questo senso, in una riflessione più accurata, le varie dicotomie (talvolta anche le scissioni) possibili tra normale/patologico, sano/malato, oggettivo/soggettivo, io/altro, vero/falso hanno trovato modalità di rappresentazione meno schematiche e più articolate.

La semeiotica psicopatologica

Con la progressiva riflessione sulla psicopatologia, dettata dal desiderio di approntare un procedimento diagnostico standardizzato e attendibile (che come tale necessita di un linguaggio condiviso e ratificato che faccia da base per l’interscambio di comunicazioni tra gli operatori; cosa assai ardua nella Babele di linguaggi che da sempre ha caratterizzato i vari approcci teorici allo psichico, come pure i singoli studiosi rifacentesi a orientamenti teorici vicini) si è sempre più sviluppato quell’approccio classificatorio nosografico che partito dal lavoro di Kraepelin ha portato in epoche più recenti alla terza edizione del Diagnostic and Statistical Manual (DSM) of Mental Disorders dell’American Psychiatric Association (APA). Questo sistema, con le varie versioni proposte nel corso di alcuni decenni, è stato identificato come la classificazione “ufficiale” da adottare e a cui uniformarsi, in quanto ritenuta la più “scientifica”. Ne è un esempio la posizione sostenuta da Gerald Klerman et al. (1984), che vedevano nella promozione e diffusione del DSM-III da parte dell’APA “una significativa riaffermazione della sua identità medica e del suo coinvolgimento nella medicina scientifica” (p. 359).

I presupposti epistemologici su cui si fonda il sistema classificatorio del DSM (a partire dalla terza edizione) sono descritti con chiarezza nella prefazione del manuale (APA 1980), dove si legge che “L’approccio adottato dal DSM-III è ateoretico per quanto concerne l’eziologia e i processi fisiopatologici, eccetto per quei disturbi per i quali ciò sia stato compiutamente stabilito (...) Questo approccio può definirsi ‘descrittivo’ nel senso che le definizioni dei disturbi generalmente consistono nella descrizione delle loro caratteristiche cliniche. Queste caratteristiche vengono descritte al livello minimo di inferenza necessario per indicare gli specifici aspetti del disturbo” (p. 9). Nella successiva edizione (APA 2000), i toni vengono leggermente stemperati e gli autori scrivono che “il DSM-IV è basato sui dati empirici più di ogni altra classificazione dei disturbi mentali” (p. 2). Non diverso è il DSM-5 (APA 2013; per una presentazione sintetica vedi Migone 2013), che conserva un approccio descrittivo per la classificazione delle malattie mentali senza porsi il problema di comprenderle in termini eziologici, rimanendo quindi “ateorico”.

Insomma, il DSM dovrebbe, ad esempio, permettere al clinico psicodinamico e a quello

nuove in situazioni nuove, di adattarsi e trasformare l’ambiente (sociale, storico, culturale), che è variante, col quale si è sempre in tensione, senza negarlo o annullarlo. Ne risulta che la salute mentale non è mai definibile una volta per tutte, nemmeno per uno stesso individuo. È altresì evidente che individuo e ambiente non sono normali (o anormali) di per sé, presi separatamente, ma solo se in relazione tra loro. Tra gli altri autori (si pensi semplicemente a Michel Foucault e a Mirko Grmek) risulta utile ricordare anche le riflessioni di Ivan Illich (1976) sulla medicalizzazione del sociale e sulla “nemesi medica”.

7 Si pensi, ad esempio, alle problematiche bioetiche messe in gioco dai progressi della biologia, della genetica e della medicina per le situazioni di madri surrogate o per quelle di diagnosi genetica o legate alla selezione delle caratteristiche del nascituro.

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organicista di potersi confrontare tra loro, operazione che dovrebbe essere garantita dal modello epistemologico sul quale si fonda il manuale, e dal quale ne derivano alcune importanti caratteristiche formali. Ad esempio, una rilevante caratteristica di questa tassonomia si trova nell’adozione di un modello categoriale e di uno politetico, a sfavore di uno dimensionale e di uno monotetico. La prima dicotomia “categoriale vs dimensionale” rimanda alla possibilità di concettualizzare entità nosografiche tra loro reciprocamente distinte e non sovrapponibili, fondate a partire da una soglia che sancisce un passaggio qualitativo da una “categoria” di salute a una di malattia. A esso si contrappone un modello di funzionamento psichico in cui la differenza per ciò che si intende come “salute” e come “malattia” non è costituita da elementi qualitativi, ma si esprime in termini quantitativi: non sarebbe cioè un diverso modo di funzionare a connotare lo stato di malattia, ma la quantità di elementi incongrui, di per sé sempre presenti nel normale funzionamento psicologico. L’adozione invece di un modello politetico si basa, rispetto a uno monotetico, sulla scelta di criteri diagnostici (una serie di sintomi di inclusione o di esclusione) che, senza una gerarchia interna di peso o rilevanza clinica (tutti i sintomi, quindi, sono importanti nella stessa misura), si raggruppano sino a che raggiunto un certo numero (ad esempio 5 su 9) si possa definire la presenza di uno specifico disturbo. Il DSM-5 presenta delle piccole differenze rispetto ai suoi predecessori, infatti in esso è stato inserito un modello dimensionale per la diagnosi dei disturbi di personalità, il quale però, anziché essere integrato all’interno dei “Disturbi di personalità” della Sezione II, è stato inserito come “Modello alternativo per i disturbi di personalità” nella Sezione III, rendendolo in tal modo più utile per il ricercatore che per il clinico. Inoltre, seppur in misura modesta, sono stati introdotti aspetti monotetici.

Queste opzioni metodologiche (l’ateoreticità, la categorialità e l’organizzazione politetica dei sintomi), al di là della loro apparente semplicità e prudenza, contengono degli impliciti epistemologici che possono essere condivisi o meno, ma che in nessun caso possono essere considerati ovvi e “oggettivi”. Sono al contrario dei criteri che organizzano la conoscenza in funzione delle priorità operative e che possono essere variamente utili a seconda che si vogliano perseguire degli scopi di ricerca o di pratica clinica o, ancora, di formazione. Ciò che qui importa osservare è come il DSM sia un filtro rappresentazionale del funzionamento psicologico, individuato a partire da un approccio fenomenologicamente orientato e operazionalmente descritto, e non una fotografia non discutibile né opinabile sulla quale costruire ricerche o fare clinica, individuare il potere predittivo di una data diagnosi o impostare un programma formativo. Sulla soggettività del DSM, quindi sulla sua “non-ateoricità”, si possono fornire molti spunti di riflessione: a) la variazione e moltiplicazione dei quadri nosografici nel corso delle varie edizioni; b) il dato di elevata attendibilità nelle osservazioni cliniche ma non della altrettanto elevata validità dei dati, il che porta ad avere osservazioni tendenzialmente costanti di dimensioni poco definite e quindi con un certo rischio di irrilevanza o marginalità del dato osservativo; c) il livello di dettaglio con il quale si definiscono entità cliniche considerate differenti tra loro.

Lo sforzo di individuare pattern sintomatici di superficie ha sì portato al miglioramento dell’attendibilità (reliability), ma lo ha fatto a scapito della validità (validity), in quanto quest’ultima dipende anche da fattori esterni al quadro sintomatologico, come ad esempio la comprensione dell’eziologia e il potere predittivo di una data diagnosi (De Girolamo e Magone

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1995). Come sostenuto e ribadito in più occasioni anche da Mario Maj (ad esempio 2005), già presidente della Associazione mondiale di psichiatria (World Psychiatric Association, WPA) dal 2008 al 2011, la validità di costrutto di moltissime categorie diagnostiche descritte nel DSM appare del tutto problematica e bisognosa di elaborazioni assai più approfondite. Accanto a queste note sullo strumento, può essere interessante ripensare anche a quanto il DSM rischia di non descrivere, soprattutto laddove non si vanno a presentare situazioni in termini grossolani o dicotomici (ad esempio: delira o non delira? Evita o non evita?) ma bensì in termini più ricchi di sfumature8, nei passaggi di “transizione” tra una condizione di benessere e una di sofferenza (ad esempio per quanto riguarda il livello di stress in contesti prestazionali) o nei criteri e nelle aspettative che appartengono a un individuo del mondo occidentale rispetto a individui provenienti da culture e società non occidentali attraverso faticose storie migratorie (ad esempio nella percezione del dolore o nei vissuti traumatici). Se poi consideriamo, come fanno notare Freedman et al. (2013), che i trial clinici, in linea con quella che per due-terzi sembra essere la normale pratica psichiatrica clinica, richiedono che la diagnosi del paziente venga posta dopo un solo colloquio nel quale, per di più, le informazioni “collaterali” sono raccolte in misura minima, non possiamo non avere dubbi sull’attendibilità e sulla validità della diagnosi. Così, pur sapendo che la diagnosi psichiatrica non è perfetta (Maj 2011; Frances 2013a), non possiamo non ribadire con forza che “un unico colloquio diagnostico, indipendentemente da quanto attendibile, non cattura l’essenza di ciò che sta accadendo a un paziente. (...) una diagnosi accurata deve essere parte del dialogo clinico in corso con il paziente” (Freedman et al. 2013, pp. 3-4). Ancora, i falsi positivi o i falsi negativi, le doppie diagnosi e le comorbilità rappresentano delle aree di particolare criticità della modellistica del DSM, che certo non può essere criticata per la sfida che si è posta nel tentare di descrivere la realtà psichica (poco agevolmente standardizzabile!), ma che può invece suscitare perplessità nella misura in cui pretende di rappresentare l’unico modo autorevole per descriverla, enfatizzando il dato singolo e relativizzando pesantemente il contesto e la storia in cui questo va a collocarsi (Wakefield 2010). Va ricordato che la quinta edizione del DSM ha portato a un abbassamento della soglia diagnostica di molti disturbi, fatto che comporta il rischio di una medicalizzazione della normalità (Frances 2010, 2013b; Gornall 2013), e, conseguentemente, di un’espansione del mercato degli psicofarmaci (Kirsch 2009, Whitaker 2010, Dowrick e Frances 2013), quest’ultima in gran parte legata alle prescrizioni fatte da medici non psichiatri (Mark et al. 2009). Trend che si andrebbe ad assommare alla più generale trasformazione del normale dolore in disturbo mentale, nel senso di una scomparsa del diritto alla tristezza (Horwitz e Wakefield 2007).

Da una prospettiva vicina alla sociologia della medicina, non si può non sottolineare che lo stesso DSM-5 nella “Introduzione” ha diversi passaggi che esplicitano tutta la fatica di coniugare un impianto possente dal punto di vista strategico, organizzativo, medico-politico e sanitario con dei presupposti teorici che più volte appaiono meno scontati. Infatti, nel DSM-5 (APA 2013) si legge che “abbiamo dovuto riconoscere che i confini tra i vari disturbi sono meno impenetrabili di

8 Un esempio può essere il problema della sovrapposizione delle diagnosi nel DSM-IV, circa il quale Clarkin e Kernberg (1993) sostengono che “Il sovrapporsi dei disturbi di Asse II è talmente esteso nei campioni clinici da risultare una presa in giro del significato del termine ‘sovrapposizione’, che viceversa implicherebbe una certa unità e distinzione tra le entità che si sovrappongono. Tale sovrapposizione, così come determinata empiricamente nei campioni clinici, converge con quella ipotizzata dalla costruzione BPO [organizzazione borderline di personalità]” (p. 187).

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quanto si ritenesse in passato” (p. 6), e che i “i disturbi mentali hanno più livelli di eterogeneità, a partire dai fattori di rischio genetici fino ai sintomi” (p. 14); ciò nondimeno conclude che “la Task Force del DSM-5 ha riconosciuto che è scientificamente prematuro proporre definizioni alternative per la maggior parte dei disturbi” (p. 13). Non a caso c’è stato un significativo movimento di opposizione in termini culturali contro il DSM-5, guidato da Allen Frances (già capo della Task Force del DSM-IV), che ha contribuito all’estromissione di alcune categorie (come ad esempio la “sindrome da rischio psicotico”, sulla cui “oggettività” come sintomo sarebbe stato azzardato avanzare alcuna pretesa).

L’enfasi su una semeiotica nei termini di una descrizione ateorica richiede però una maggiore consapevolezza epistemologica (vedi Agazzi 1974, 2006; Marhaba 1976), almeno nell’uso che di fatto è stato riservato al DSM. Nell’ambito delle discipline applicate ad atteggiamenti, emozioni e pensieri della persona, più accurate riflessioni sono necessarie per due ordini di ragioni: il primo A) si ricollega agli impliciti epistemologici insiti in una concezione della semeiotica come strumento appropriato per raggiungere alcuni obiettivi di conoscenza e intervento (vedi Stefana e Gamba 2013), formalizzati all’interno di uno specifico contesto storico e culturale; il secondo B) è legato alla specificità di ciò che si va a studiare.

Vediamoli ora più nel dettaglio.A) Il voler “prescindere da spiegazioni teoriche” è già di per sé una teoria che poggia su un

implicito strumentalismo: la conoscenza è ciò che il mio strumento rileva e ciò che le mie operazioni fanno emergere (di fatto, l’enfasi sulla definizione operazionale delle sindromi mentali corrisponde a quell’approccio epistemologico denominato operazionismo, originariamente propugnato da Percy Bridgman nel 1927). Occorre però ricordare come la scelta di uno strumento o di un altro, l’auscultazione piuttosto che la divinazione dell’aruspice, delimita il campo dell’osservabile e del rilevante; ciò che è al di fuori del campo osservabile o non è meritevole di registrazione è, per definizione, già stato valutato come non pertinente. In questo senso, l’uso di uno strumento contiene in sé la teoria che dà rilevanza a ciò che lo strumento va a quantificare, con una posizione sostanzialmente autolegittimante e circolare. Più in generale occorre ricordare la lezione di Karl Popper e la consapevolezza che nessuno sguardo parte da una tabula rasa: la tabula plena sta un passo prima di quando noi pensiamo di essere tabula rasa di fronte a un fenomeno; dirigendo lo sguardo in una direzione piuttosto che in un’altra noi esercitiamo un’opzione. La questione acquista una sua consistenza in modo evidente non tanto quando si afferma in generale un principio e se ne conseguono gli strumenti atti a verificarlo, ma quando si possono affiancare princìpi di ordine diverso, la cui non identicità pone il problema di quale strada percorrere.

A questo proposito è molto interessante osservare anche la variabilità di alcuni assunti, ad esempio i livelli di rischio o le fasce precliniche nei dati di laboratorio, chiedendosi cosa li influenzi (talvolta delle variabili di ordine socio-economico) e come cambi il vissuto personale nel momento in cui viene sancito numericamente il superamento di un livello-soglia che fa cambiare lo status di una condizione clinica da “normale” a “patologica”. Ugualmente, occorre ricordare come l’adozione di un simile criterio nasconde l’implicita centralità della visione dello specialista, ovvero che le categorie descrittive e interpretative accettabili sono solo quelle formalmente riconosciute dalla disciplina (generalmente attraverso la formalizzazione e la “consacrazione” sancita dal mondo universitario, procedura questa a sua volta non priva di ombre).

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Difficile allora motivare la bontà intrinseca dell’uno o dell’altro, mentre più facilmente si trovano delle motivazioni a favore di una opzione teorica sulla base di considerazioni storiche legate alla storia personale (appartenenza di cultura, incontri, casualità ecc.) e quindi, di nuovo, sostanzialmente autoreferenziali.

B) Il secondo ordine di motivi rimanda alla natura stessa del dato da rilevare, proveniente da un’autopercezione riferita dal paziente che viene poi rielaborata dallo specialista che cerca di stabilire intensità, caratteristiche, durata ecc. dello stimolo registrato e riferito da un soggetto che non ha le medesime coordinate concettuali dell’operatore stesso. Quindi una metodica che non può non appoggiarsi sull’autovalutazione del soggetto e che nondimeno pretende di essere oggettiva appare molto ambiziosa ma nel contempo assai precaria. In relazione a questo possiamo riflettere su esempi molto chiari, tra gli altri, che evidenziano la fragilità del costrutto teorico e delle misurazioni a partire da questa prospettiva, che sottende un modello ingenuo di salute. Basti pensare qui a due casi: il concetto di “salute” proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS o World Health Organization, WHO), e quello di “qualità di vita” (QdV) elaborato primariamente in ambito oncologico

B.1) L’OMS nel 1946 definisce la salute come uno “stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale”, obiettivo da perseguire per ogni individuo. Se si dettaglia però il concetto di “completo benessere”, non si può non rimanere perplessi: si tratta di un modello idealistico e del tutto irreale di soggettività umana, che si riferisce a uno stato perfetto, che non può quindi prevedere neppure quelle “tristezze” (o minori felicità, per dirla con un eufemismo) che ogni individuo regolarmente sperimenta nel suo crescere, ad esempio nei momenti di separazione e distacco dalle varie figure di riferimento, prima ancora che nei malesseri o problemi di salute.

Il criterio del raggiungimento di una perfezione non corrisponde alla realtà della vita umana, in cui la competizione tra desideri, mancanze, aspirazioni, bisogni e doveri, tutti con i rispettivi pesi, può meglio servire per descrivere ciò che è qualità per uno ma non per l’altro. Dare per scontato che questa gerarchia sia evidente e univoca è possibile solo in termini molto elementari, del tutto lontani da quella che è la complessità della storia e della vita di una persona. Inoltre, non si può ignorare la problematicità di una tale definizione se applicata alla maggior parte della popolazione mondiale, le cui condizioni sono talmente lontane da una tale prospettiva da renderla del tutto fantascientifica, senza per altro poter escludere che, pur in assenza di una tale “totalità” di benessere, non vi siano persone in condizioni di equilibrio e di soddisfazione personale.

Ulteriormente, sul versante storico, non si può non riflettere sulla fragilità e sulla manipolabilità politico-culturale di un concetto di “salute” tanto vasto quanto sostanzialmente irraggiungibile (e che fa trasparire una prospettiva “accumulatoria” non priva di avidità). Al di là del giudizio storico, quello che qui interessa è la vulnerabilità di un concetto, soprattutto se inteso in modo semplificato, che rischia di scivolare in modo assolutamente aleatorio e legato a variabili di tipo fortemente soggettivo, proprio nel momento in cui se ne vorrebbe distaccare per muoversi su un piano “scientifico”. Ulteriore fattore di messa in discussione, come minimo dal punto di vista operativo se non anche concettuale, sono i fenomeni di migrazione che, con le loro varie dinamiche anche traumatiche, mettono a confronto dei codici di tipo occidentale con persone, vicende, contesti e culture del tutto differenti9. Se si pensa alla letteratura psicologica occidentale sulle dinamiche

9 Negli ultimi decenni si è andata sviluppando l’etnoclinica, incorporante anche le dimensioni socio-politica

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familiari, e alla sua applicabilità a modelli familiari del tutto differenti (ad esempio di cultura islamica o del continente africano) non può che venir meno quella dose di certezza autoreferenziale che da sempre connota il mondo occidentale e le sue spiegazioni del mondo.

B.2) Il secondo caso è quello della definizione di “qualità di vita” in ambito oncologico, espressa attraverso i dati ottenuti tramite gli strumenti che i ricercatori e i clinici utilizzano per misurarla. In questo riepilogo, del tutto sintetico, appare chiaro come ciò che veniva inteso come QdV è stato inizialmente descritto in modo “oggettivo” e concreto, per giungere, dopo decenni di approfondimento e di confronto dialettico con la realtà viva della soggettività umana, a essere inteso come modo con cui il singolo individuo definisce la sua esperienza di vita e il bilancio tra attese, elementi positivi, mancanze e sofferenze.

Nel 1949, a partire dalla crescente efficacia delle chemioterapie in ambito oncologico, fu introdotto il Karnofsky Performance Status (KPS; Karnosfky e Burchenal 1949), un indice delle capacità di attività e di autonomia del paziente. Questo strumento fu nel dopoguerra e per molti decenni a seguire il primo e più importante indicatore del livello di benessere del paziente, nonché uno strumento di misurazione del grado di efficacia di una terapia attraverso un indicatore non biologico, ma basato sul comportamento. Di fatto, per molto tempo il KPS è stato usato per misurare la qualità di vita dei pazienti. Andando però a esaminarne la struttura contenutistica ci si accorge che, per quanto chiamato “indice di qualità di vita”, esso descriveva aree della funzionalità fisica che certo possono essere collegate al livello di soddisfazione e di qualità di vita, in un modo tuttavia molto elementare e soprattutto solo se privo di alternative: certamente avere maggiore autonomia nella deambulazione indica una migliore condizione di vita (e quindi di qualità di vita), ma la cosa è meno evidente quando una condizione di sostegno sociale accompagnata a una minore mobilità può essere comparata a un’autosufficienza e un’autonomia motoria in condizioni di solitudine, al fine di determinare il grado di “qualità di vita”.

Dopo il KPS la definizione di qualità di vita si è mossa verso una più puntuale descrizione delle condizioni del paziente, descrizione che non comprendeva più le sole autonomia e capacità di funzionare operativamente, ma anche altri aspetti, più psicologici e relazionali. Di questa concettualizzazione era espressione il Quality of Life Index (QLI; Spitzer et al. 1981), un indice generale di qualità di vita molto utilizzato in letteratura, che andava a coprire cinque dimensioni legate alla qualità della vita (attività, vita quotidiana, salute, supporto sociale, vissuti), disegnato perché fosse usato dal medico come supporto nella valutazioni di benefici e rischi di vari trattamenti in condizioni serie di malattia.

Nel procedere di questo approccio (non casualmente destinato all’uso da parte dei medici) si sono aggiunti altri approcci quantificatori legati a una matrice econometrica e di trade-off, come

ed economica dei pazienti, che può essere definita come “una pratica dell’ospitalità” (Nathan 2001) nella quale si rende necessario un lavoro di riflessione sul proprio (del clinico) sapere e su quello del paziente; questo perché sintomi e comportamenti simili nella forma possono essere espressione di differenti rappresentazioni culturalmente informate. La prospettiva etnopsicoanalitica (in particolare quella sviluppata in Francia da Tobie Nathan e Marie Rose Moro) si avvale per le consultazioni di un’équipe pluridisciplinare di medici, psicologi, antropologi, assistenti sociali, infermieri, educatori, mediatori di origini culturali e linguistiche diverse; tutti gli operatori sono formati alla clinica e la maggior parte di loro anche alla psicoanalisi e all’antropologia. Nella clinica transculturale “È l’apprendimento e la pratica intima dell’alterità e del métissage che sono ricercate” (Moro 2009).

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gli studi sul Quality-Adjusted Life Year (QALY) e sul Disability-Adjusted Life Year (DALY)10, in cui il vissuto era rappresentato numericamente ed era confrontato in due diverse condizioni tra loro alternative (ad esempio, anni di vita con chemioterapia vs minore numero di anni di vita ma liberi da trattamenti con pesanti effetti collaterali).

Solo più avanti il concetto di qualità di vita ha trovato una sua giusta delimitazione contestuale, venendo cioè definito come “qualità di vita riferita alla salute” (Health-Related Quality of Life, HRQoL). Solo più tardi, e in ultimo, hanno preso piede altri approcci, di matrice antropologica, in cui la narrazione autobiografica è stata considerata uno strumento utile e forse il più appropriato per comprendere (e sostenere) le persone nei loro vissuti, anche nell’esperienza di malattia: come negli studi di Engel (1977), Calman (1984), Kleinman (1988) e successivamente gli studi di Good (1994). Il punto di arrivo, se si accoglie la centralità del paziente, è quindi quello che ritrova nei valori del soggetto, nelle sue aspettative, in ciò che gli è possibile, il concetto di qualità di vita per lui più rappresentativo. Di fatto, i sempre più ampi riferimenti in letteratura al concetto di “narrazione” non possono non implicare una forte valorizzazione della soggettività personale (ognuno ha le proprie narrazioni, pubbliche e private, note e sconosciute), forse più decisiva, in un’ottica pragmatica, che non la coerenza o la stabilità dei costrutti interpretativi formalizzati.

Forse un tale approccio va considerato maggiormente anche nelle valutazioni legate alla salute/malattia psichica di una persona.

Le conseguenze di questo discorso sono che:1. nell’ambito delle discipline che si occupano della psiche i dati non possono essere ritenuti

“oggettivi”, ovvero univocamente interpretabili (e da un osservatore esterno al paziente per giunta), né trattati con disinvoltura rispetto al valore semantico e pragmatico delle comunicazioni che li descrivano. Se al termine “oggettività” si sostituisce quello di “intersoggettività” ci si ritrova invece in un filone di studi che attribuisce maggiore importanza a quanto paziente e operatore possono fare insieme. Il richiamo a radici teoriche come quelle della psicoanalisi interpersonalista (da Harry S. Sullivan in avanti), i contributi di provenienza etologica (a partire da John Bowlby) e l’infant research hanno stimolato autori e teorie, autori che certamente hanno abbandonato una posizione di stampo naturalistico-osservativa, quasi da entomologi, per privilegiare, comunque non senza rischi, il contributo intrecciato delle soggettività in campo11.

2. Lo sforzo di condivisione, pur senza le garanzie che questo accada sempre e comunque, diventa quindi uno strumento metodologico sia per fare diagnosi che per intervenire: senza “accordare” i linguaggi non ci si può né comprendere né modificare in modo cooperativo.

3. Le aree significative, i criteri e gli strumenti di valutazione, le fonti stesse di valutazione (e la definizione di chi ha la titolarità per esprimere giudizi) possono essere considerati ovvi e “scontati” solo in condizioni del tutto generiche e semplificate, sostanzialmente astratte e teoriche. Quando invece si fa riferimento a una vita vissuta in termini reali, la complessità e ricchezza delle sfumature in gioco richiedono che al precedente soggetto normativo venga affiancato anche colui che di questa semeiotica è soggetto, strumento e, in fondo, titolare: il paziente.

10 Ad esempio l’approccio quantificatorio che si basa sul “peso di anni con e senza malattia” contenuto nel report OMS (Prüss-Üstün et al. 2003, in particolare nel cap. 3). Per una introduzione vedi anche Sassi (2006). A questa modellistica è tuttavia opportuno accompagnare un approccio critico, vedi ad esempio Anand e Hanson (1997).

11 Per una sintesi riferita all’ambito psicodinamico vedi Lingiardi et al. (2011).

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Ne consegue che si può passare da una semeiotica delle “deviazioni dalla norma” (norma insita nel modo di pensare dello specialista) a una “semeiotica delle differenze”: le deviazioni rappresentano uno scostamento dal giusto/normale/prevedibile/sano; le differenze possono portare a un incontro di rappresentazioni e possono comunque portare alle stesse terminologie, però non prima di aver fatto un processo di confronto tra la semeiotica del medico e quella del paziente. Ciò è ancor più vero ed essenziale se si vuole passare dal piano epistemico, in cui si cerca di seguire un criterio di verosimiglianza, all’ambito clinico, in cui lo scopo primo e ultimo è curare. Come si può curare una persona che non desidera essere curata o che non riconosce che i suoi propri pensieri o comportamenti possono essere in qualche modo espressione di un disagio? O, ancora, come si può curare una persona i cui comportamenti possono essere considerati “non nella norma”, ma ai quali è possibile attribuire un significato evolutivo (come ad esempio le sperimentazioni negli adolescenti)?

Di nuovo la situazione potrebbe apparire chiara e univoca qualora si andasse a esaminare un solo criterio, magari molto netto (come nel caso della fondatezza di costruzioni deliranti), ma diventa assai più ricca di sfumature e problematica nel momento in cui si utilizzassero i medesimi criteri classificatori elaborati in un contesto europeo-occidentale con persone che invece portano un background più animistico, ma del tutto normale nella loro terra d’origine. Forse che l’emigrazione in un Paese occidentale implica l’abbandono di una identità personale e culturale? In questa linea viene a essere molto meno ovvio e scontato il modo di esaminare il vissuto emotivo di una persona che, alla luce della propria storia, abbia esperienze interne che la rendono più comprensibilmente sospettosa o fragile di fronte alla figura dello specialista che esprime un parere “autorevole”. Ancora, risulta meno ovvia e giustificata la descrizione basata sugli aspetti patologici piuttosto che su quelli legati alle risorse o a quella dose di coraggio e sperimentazione o di difese che permette di rimanere vivi in situazioni di per sé molto difficili (ad esempio, si pensi al concetto di “resilienza”; vedi Roisman 2005). Inoltre, va tenuto presente che i dati di ricerca ricavati da contesti e da comunità non occidentali (Raguram et al. 2002, Halliburton 2004, Seebohm et al. 2005) mostrano che la guarigione da disturbi mentali anche gravi segue strade diverse a seconda delle persone, dando così segno dell’importanza di tenere conto delle differenze. Presto saranno i movimenti migratori e i processi di confronto/integrazione a mettere in crisi modelli normativi troppo autocentrati sulla cultura e stereotipi occidentali.

Conseguenze operative

Il sistema psiche è assai più complesso di ogni altro sistema conosciuto, è perciò inevitabile che le nostre conoscenze sullo stesso e sull’eziopatogenesi dei disturbi che lo affliggono siano ancora sommarie e lacunose. Così, non possiamo limitarci a esaminare la chimica e la fisiologia del cervello (come invece sostiene una parte della psichiatria, ad esempio: Insel e Quiron 2005, Bullmore et al. 2009, Oyebode e Humphreys 2011, White et al. 2012, Cooper et al. 2013), o anche il comportamento osservabile; l’importanza di tali approcci al paziente e alla sua psicopatologia non esaurisce la comprensione dell’essere umano e della sua esperienza soggettiva dentro un contesto. I disturbi psichiatrici vanno inquadrati in una concezione biopsicosociale (Grandi et al. 2011), questo perché gli aspetti biologici e le influenze psicosociali e culturali sono indistricabilmente fusi, confluiscono gli uni nelle altre. Da quanto messo in evidenza deriva, a nostro avviso, la necessità di

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andare al di là dell’attuale paradigma (Bracken et al. 2012), di procedere all’abbandono di modelli forti di conoscenza (frutto di semplificazioni) che poco si adattano a scenari e inquadramenti teorico-clinici sempre più complessi, a favore dell’adozione di una strategia esplorativa dei modelli di conoscenza e rappresentazione del paziente. Tale modo di procedere è tutt’altro che un eccesso di scrupolo o, ancora, una perdita dei propri modelli; esso è un modus operandi dettato dal grado di complessità e dalla multidimensionalità propri di ogni disagio, dal radicamento di quest’ultimo nella storia dell’individuo o del gruppo, e dall’ampiezza degli obiettivi che ci si può porre. Controllare un sintomo è ben diverso dall’incidere su uno stato complessivo di benessere/malattia, ma questo può non essere evidente se non si provvede ad avviare un processo (implicante, come tale, una continuità) di verifica del grado di dissonanza tra i vissuti e le rappresentazioni del paziente e quelli dello specialista. Ogni dissonanza, almeno oltre un certo grado (che varia da paziente a paziente), è una potenziale falla nel percorso cooperativo di diagnosi, cura e/o cambiamento. La psicopatologia stessa articola, nella ricerca di senso e di significato, le esperienze soggettive interne di una persona (il paziente), inafferrabile nella sua totalità, in relazione con un’altra (il clinico). Di fronte a noi non ci sarà mai il soggetto incarnante una certa diagnosi del DSM o dell’ICD, ma una persona unica nella sua storia e nelle sue caratteristiche. Quel che a noi interessa sono le differenze tra la persona che abbiamo davanti a noi e il soggetto che viene inquadrato in una categoria nosografica corrente: ci si deve muovere su due piani diversi, oscillare tra un “esser-con-qualcuno” e un “aver-qualcosa-di-fronte” (Cargnello 1980). Solo lavorando sulle differenze si lavora anche sulla compliance, sull’ambivalenza e sull’ambiguità, riconoscendo all’interlocutore un ruolo più attivo e competente nella conduzione della relazione di cura e dei contenuti legati alla salute/malattia. Occorre effettuare prima di tutto una sorta di fine-tuning, per usare un concetto di Peter Fonagy (vedi Allen et al. 2008, Roth e Fonagy 2013), che ha le sue ragioni d’essere non dissimili da quelle che riguardano la relazione tra genitore e figlio o con il paziente borderline.

Essendo che, come è stato dimostrato (vedi Stern 1985; BCPSG 2007; Siegel 1999; Schore 2003a, 2003b; Imbasciati 2006a, 2006b; Nahum 2008), la regolazione degli stati emozionali scaturisce dal rispecchiamento affettivo di un caregiver primario, e che la realtà psichica è un continuo apprendimento esperienziale, inteso come una serie di acquisizione evolutive, si può supporre che i modi di relazione con il clinico influiscano grandemente sulle capacità di comprensione di se stessi e dell’altro (concetti aventi una stretta relazione di interdipendenza reciproca). Ciò porta a chiedersi se i concetti legati alla funzione riflessiva, al fine-tuning, alla mentalizzazione non debbano essere maggiormente richiamati anche nella situazione del processo semeiotico e non solo in quella tra madre-bambino o con il paziente borderline.

Come detto, una delle acquisizioni cui ci hanno portati la semeiotica, la psicopatologia e le riflessioni epistemologiche che le hanno accompagnate, è che non è possibile porre una distinzione netta tra ciò che colleghiamo a "salute" e a "malattia"; come invece è possibile in altre aree della medicina. Le differenze individuali in ordine alle modalità di funzionamento psichico sono di tipo quantitativo (con variazioni in eccesso o in difetto) e non qualitativo (ognuno di noi utilizza meccanismi sia nevrotici che psicotici); salute e malattia non si configurano in termini dicotomici bensì in termini di gradiente e di pesi. Ciò implica l’impossibilità di raggiungere uno “stato di completa salute” e sposta il compito, nostro e del paziente, sulla ricerca di un differente bilanciamento tra salute e malattia. Un esempio tra i tanti potrebbe essere ravvisato nel passaggio dalla “eliminazione del

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conflitto” all’“utilizzo creativo del conflitto” avvenuto all’interno del pensiero psicoanalitico. Allo stesso modo occorre ricercare un bilanciamento tra il risultato inteso come scomparsa del sintomo e la modificazione in senso migliorativo sul piano strutturale, tenendo presente che alla base degli aspetti funzionali e dei sintomi psichiatrici vi sono i meccanismi di difesa (Perry e Bond 2012). Qui gioca un ruolo chiave la valutazione del rapporto costi-benefici.

Ci si può chiedere allora se l’intervento del clinico diventi non più solo quello di fornire soluzioni o terapie o situazione riparative, ma prima di tutto quello di lavorare su una semeiotica che possa essere condivisa, così che quel “non sapere” ingenuo possa diventare oggetto di una più consapevole riflessione sul proprio modo di funzionare. In definitiva, la soggettività dell’esperienza vissuta del paziente non può e non deve essere annullata dall’“oggettività” del sapere medico, il malato è molto più di un terreno nel quale si radica la malattia (o il disturbo). Solo in un passaggio successivo le terapie potranno essere condivise, mentre l’empowerment ha ragione di essere più efficace.

In questo modo non si nega il valore di una semeiotica epistemologicamente consapevole e nient’affatto neutra o descrittiva, così anche da non cadere in un relativismo esasperato. Si riconosce però che solo l’incontro di semeiotiche porta a condividere ciò che può essere inteso come stato di benessere o di sofferenza, dimensioni sulle quali gli aspetti relazionali sono fondamentali, e, occorre ricordarlo, da cui lo specialista non si può sottrarre nel rapporto col paziente. Star bene (con gli altri) trova un contesto di nuova sperimentazione anche nel rapporto con lo specialista.

Riassunto

Parole chiave: semeiotica, diagnosi, epistemologia, storia della medicina, malattia

L’intervento specialistico medico su quanto attiene la protezione e la cura della salute (sia a livello organico che psichico) ha inizio dall’incontro del clinico con il paziente e dall’osservazione delle condizioni del soggetto portatore di un problema o, talvolta, portato egli stesso come “problema”. Dopo aver brevemente tracciato l’evoluzione (teorica e metodologica) dei concetti, strettamente interconnessi, di malattia e semeiotica, dall’epoca protostorica ai giorni nostri, viene portata l’attenzione sui motivi che rendono necessaria una maggiore consapevolezza epistemologica nell’uso che il clinico spesso fa della semeiotica. Viene altresì argomentata l’utilità dell’abbandono di una “semeiotica delle deviazioni” a favore di una “semeiotica delle differenze”; quest’ultima implica un processo di confronto tra la semeiotica del medico e quella del paziente.

FOUNDATIONS OF THE SEMEIOTIC PROCESS IN CLINICAL PSyCHO(PATHO)LOGy

Abstract

Key words: semeiotics, diagnosis, epistemology, medicine history, illness

The medical intervention concerning protection and care of both physical and mental health begins with the meeting between the clinician and the patient and with the observation of the personal conditions of the individual with the problem, or put forward himself/herself as a problem. After having shortly outlined the theoretical and methodological evolution of the strictly connected concepts of “illness” and “semeiotics”, from the protohistoric age to nowadays, focus is placed on the reasons triggering the need of a greater epistemological awareness in the use of the semeiotics by the specialist. The usefulness of replacing

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a “semeiotic of deviation” with a “semeiotic of differences” is also explained, which entails a process of comparison between the semeiotic of the doctor and the patient’s one.

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