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“”Prospettiva Persona 99_PP”” — 2017/3/21 — 17:11 — page 66 — #66 ProspettivA persona 99 (2017/1), 66-72 P P gustave thibon — santa teresina secondo thibon Un saggio breve di teologia mistica e agiografia Santa Teresina secondo Thibon Gu sta ve Thi bon Traduzione di Emi lia no Fu ma ne ri È l’amaro * destino degli esseri più grandi e più puri: essere schiacciati e mutilati dalla propria gloria. Il loro nome è celebre tra gli uomini, ma il messaggio profondo e l’autentico grido della loro anima restano incompresi. Il mondo, in genera- le, non li ammira e non li prega se non in forza di un equivoco. La fama approfondisce e ne moltiplica ancora la solitudine. Tale fu la sorte di Gesù Cristo. E tale è quella di tutti coloro che, per il loro genio o per il loro cuore, quaggiù sulla terra sono i più fedeli riflessi della profondità divina. Gli uomini sono così vacui da sapersi ritagliare degli idoli perfino dal legno della vera croce e dal cuore del vero Dio. Oggi non c’è un santo tanto popolare quanto Te- resa del Bambin Gesù. E nemmeno ve ne è uno tanto incompreso. Il suo culto – bisogna davvero confes- sarlo – si muta sovente in sciocca superstizione. La santa delle rose… Non si vedono più che le rose, si dimentica la santa. Così ne viene fatta una caricatura che, per quanto possa essere fiorita, non risulta me- no deforme. Il mondo confonde Teresa di Lisieux col suo sorriso. Non vuole sapere che questo sorri- so è fiorito su un’intera vita di dolore a perfino sulle angosce della morte. Il dolore e la morte… Nessuno più di Teresa del Bambin Gesù è capace di restituire oggi agli uomini il vero senso di queste due grandi realtà, così tanto profanate, che sono al tempo stesso pietra di scanda- lo e pietra angolare del nostro destino. Missione tra- gicamente urgente poiché per l’immensa massa del mondo il dolore e la morte hanno perduto ogni sen- so; sono divenuti letteralmente senza senso. Come le verità di cui parla Chesterton, il dolore e la morte se- parati da Dio hanno preso qualcosa di simile al mar- chio della follia. Non potendo più uscire da se stessi, dolore e follia girano a tondo, non conducono più a nulla. Non si soffre né si muore di meno, al con- trario; ma il dolore e la morte da sentieri divengono vicoli ciechi. L’uomo aggiunge all’inferno tutto quel che sottrae alla croce. Ma ecco che una umile fanciulla viene ad insegna- re al mondo come si debba soffrire e morire. È dal- l’altro versante del dolore e della morte, traversate e vinte, che discende la sua voce. Il suo insegnamento non è quello di un saggio che ha pensato il dolore e la morte, è quello di una santa che li ha vissuti fino in fondo. Teresa ha esplorato la disgrazia non solamen- te con gli occhi, ma con piedi e cuore sanguinanti. Conosce il segreto di questa sfinge che non si rivela se non a chi divora. Per comprendere nella sua originalità e profondi- tà il messaggio della “piccola” Teresa occorre saper ol- trepassare alcune apparenze, superare alcuni riflessi. Una cosa è l’amore che si esprime nella Storia di un’a- nima, altra cosa è la maniera in cui si esprime 1 . Sot- to i pallidi fiori artificiali della retorica devota, sotto l’immaginario e il vocabolario ancora infantili della ragazza allevata in un ambiente chiuso e privo di vera cultura letteraria (santa Teresa viveva nel XIX seco- lo…) qui si nasconde una delle anime più forti e più puramente eroiche di tutti i tempi. Quale intima viri- lità emerge da quell’involucro di formule sentimen- tali! E che retrogusto eternamente tonico lascia nel cuore quella bevanda che al primo contatto pareva sciroppo! Tutti già sanno che santa Teresa è stata l’annuncia- trice di un nuovo stile di santità. Senza dubbio anche nelle epoche più derelitte si sono viste fiorire anime autenticamente sante e la continuità del flusso della spiritualità cattolica non si è mai interrotta. Ma biso- gna pure ammettere che sul declinare del XIX secolo la pietà francese, impregnata dei miasmi del gianse- nismo, aveva qualche cosa di esangue e devitalizzato. Dovunque si incunea l’errore è rapida la decadenza. Il giansenismo degli inizi fu, almeno sul piano uma- no, una grande cosa. Ma impiegò poco tempo a ca- dere nel formalismo più sciocco, trasformandosi in una pietà insulsa e sclerotizzata egualmente svuotata * . Gustave ibon, «La douleur et la mort chez Sainte érèse de Lisieux», in Une sainte parmi no, Plon, Paris 1937, pp. 65- 85. 1. Non do qui un giudizio assoluto. Lo stile di santa Teresa non manca di qualità. C’è della grazia, della chiarezza e della fre- schezza, talora giunge spontaneamente al sublime. In un altro “clima” culturale santa Teresa sarebbe potuta diventare, alla maniera della sua madre Teresa d’Avila, una grande scrittrice. D’altronde non dobbiamo dimenticare che santa Teresa non ha composto la Storia di un’anima in vista della pubblicazione. 66 99 (2017/1)

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Un saggio breve di teologia mistica e agiografia

Santa Teresina secondo Thibon

Gustave ThibonTraduzione di Emiliano Fumaneri

Èl’amaro* destino degli esseri più grandi e piùpuri: essere schiacciati e mutilati dalla propriagloria. Il loro nome è celebre tra gli uomini,

ma il messaggio profondo e l’autentico grido dellaloro anima restano incompresi. Il mondo, in genera-le, non li ammira e non li prega se non in forza diun equivoco. La fama approfondisce e ne moltiplicaancora la solitudine. Tale fu la sorte di Gesù Cristo.E tale è quella di tutti coloro che, per il loro genio oper il loro cuore, quaggiù sulla terra sono i più fedeliriflessi della profondità divina. Gli uomini sono cosìvacui da sapersi ritagliare degli idoli perfino dal legnodella vera croce e dal cuore del vero Dio.

Oggi non c’è un santo tanto popolare quanto Te-resa del Bambin Gesù. E nemmeno ve ne è uno tantoincompreso. Il suo culto – bisogna davvero confes-sarlo – si muta sovente in sciocca superstizione. Lasanta delle rose… Non si vedono più che le rose, sidimentica la santa. Così ne viene fatta una caricaturache, per quanto possa essere fiorita, non risulta me-no deforme. Il mondo confonde Teresa di Lisieuxcol suo sorriso. Non vuole sapere che questo sorri-so è fiorito su un’intera vita di dolore a perfino sulleangosce della morte.

Il dolore e la morte… Nessuno più di Teresa delBambin Gesù è capace di restituire oggi agli uominiil vero senso di queste due grandi realtà, così tantoprofanate, che sono al tempo stesso pietra di scanda-lo e pietra angolare del nostro destino. Missione tra-gicamente urgente poiché per l’immensa massa delmondo il dolore e la morte hanno perduto ogni sen-so; sono divenuti letteralmente senza senso. Come leverità di cui parla Chesterton, il dolore e la morte se-parati da Dio hanno preso qualcosa di simile al mar-chio della follia. Non potendo più uscire da se stessi,dolore e follia girano a tondo, non conducono piùa nulla. Non si soffre né si muore di meno, al con-trario; ma il dolore e la morte da sentieri divengonovicoli ciechi. L’uomo aggiunge all’inferno tutto quel

che sottrae alla croce.Ma ecco che una umile fanciulla viene ad insegna-

re al mondo come si debba soffrire e morire. È dal-l’altro versante del dolore e della morte, traversate evinte, che discende la sua voce. Il suo insegnamentonon è quello di un saggio che ha pensato il dolore ela morte, è quello di una santa che li ha vissuti fino infondo. Teresa ha esplorato la disgrazia non solamen-te con gli occhi, ma con piedi e cuore sanguinanti.Conosce il segreto di questa sfinge che non si rivelase non a chi divora.

Per comprendere nella sua originalità e profondi-tà il messaggio della “piccola” Teresa occorre saper ol-trepassare alcune apparenze, superare alcuni riflessi.Una cosa è l’amore che si esprime nella Storia di un’a-nima, altra cosa è la maniera in cui si esprime1. Sot-to i pallidi fiori artificiali della retorica devota, sottol’immaginario e il vocabolario ancora infantili dellaragazza allevata in un ambiente chiuso e privo di veracultura letteraria (santa Teresa viveva nel XIX seco-lo…) qui si nasconde una delle anime più forti e piùpuramente eroiche di tutti i tempi. Quale intima viri-lità emerge da quell’involucro di formule sentimen-tali! E che retrogusto eternamente tonico lascia nelcuore quella bevanda che al primo contatto parevasciroppo!

Tutti già sanno che santa Teresa è stata l’annuncia-trice di un nuovo stile di santità. Senza dubbio anchenelle epoche più derelitte si sono viste fiorire animeautenticamente sante e la continuità del flusso dellaspiritualità cattolica non si è mai interrotta. Ma biso-gna pure ammettere che sul declinare del XIX secolola pietà francese, impregnata dei miasmi del gianse-nismo, aveva qualche cosa di esangue e devitalizzato.Dovunque si incunea l’errore è rapida la decadenza.Il giansenismo degli inizi fu, almeno sul piano uma-no, una grande cosa. Ma impiegò poco tempo a ca-dere nel formalismo più sciocco, trasformandosi inuna pietà insulsa e sclerotizzata egualmente svuotata

*. Gustave Thibon, «La douleur et la mort chez Sainte Thérèse de Lisieux», in Une sainte parmi nous, Plon, Paris 1937, pp. 65-85. 1. Non do qui un giudizio assoluto. Lo stile di santa Teresa non manca di qualità. C’è della grazia, della chiarezza e della fre-schezza, talora giunge spontaneamente al sublime. In un altro “clima” culturale santa Teresa sarebbe potuta diventare, alla manieradella sua madre Teresa d’Avila, una grande scrittrice. D’altronde non dobbiamo dimenticare che santa Teresa non ha composto laStoria di un’anima in vista della pubblicazione.

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di ricchezza umana e di ricchezza divina. È il castigodei fautori d’eresia: non avere che figli grotteschi. Lamenzogna, per quanto alle origini possa sprizzare vi-ta e magnetismo, a breve giro di posta dà i natali alridicolo. Teresa di Lisieux è riuscita a liquidare defi-nitivamente il giansenismo insegnando agli uominila semplicità vivente dei rapporti tra la creatura e ilsuo Dio; il suo esempio di vita – e di tutti i giornidella sua vita – ci ricorda, in maniera concreta e im-mediata, che Dio non è altro che amore e che solol’amore conduce a Dio. Si può rispondere che tuttii santi non hanno mai fatto altra cosa. È vero. Ma seconsideriamo le formidabili figure dei santi del pas-sato abbiamo facilmente l’impressione che le loro re-lazioni intime con Dio si stabilissero sulle cime di uneroismo sovraumano e che la pietà comune, la vita re-ligiosa delle persone “ordinarie” fossero per così direescluse da questi profondi scambi d’amore. L’origi-nalità del messaggio della piccola Teresa consiste nel-l’aver mostrato che il cuore di Dio è aperto anche aipoveri e ai deboli e che l’esistenza più banale, quellaapparentemente più “quotidiana”, può essere satu-rata di presenza divina, dell’amore dei santi. Non èla santità che fa l’amore, è l’amore che fa la santità.Bisogna cominciare dall’amore… Non inganniamo-ci però: Teresa non ha nulla edulcorato, nulla mini-mizzato; non ha umanizzato la santità, al contrarioha insegnato a santificare l’umano. Il posto occupa-to dalla sofferenza nella sua vita e nella sua dottrinaprova a sufficienza che la sua “piccola via d’amore” siconfonde con la via stretta predicata da Cristo.

Teresa ha lungamente, duramente sofferto. Nataad dolendum… La sua capacità di sopportare il dolo-re è stata immensa. Basandosi su alcuni testi, alcunisuoi interpreti, reagendo eccessivamente contro l’im-magine insipida che si faceva di lei, l’hanno presenta-ta come una natura tragica, ossessionata da conflittiquasi pascaliani. Ritengo che una simile visione la de-formi profondamente. Certo: Teresa ha vissuto, so-prattutto nell’ultimo anno della sua esistenza, delleore terribili. Ma la sua anima di semplice fanciullanon era naturalmente incline alla tragedia. L’elemen-to primario, essenziale, della sofferenza tragica non èl’amore, è l’io. I grandi eroi drammatici sono esseriche divinizzano in sé qualche cosa che non è Dio, e aiquali tocca di vedere il proprio idolo divorato dal De-stino. Alla radice di ogni vera tragedia c’è l’orgoglio.La tragedia di Pascal nasce dalla tensione tra l’appel-lo di Dio e la diffidenza, tra il dubbio e la rivolta diuna terribile natura incentrata su di sé. Quatto annidopo i Pensieri Pascal, che muore nel pieno abban-dono all’amore di Cristo, è più grande che mai. Non

è tragico. Teresa di Lisieux sfugge alla tragedia per-ché la sua sofferenza è sempre comandata dall’amore,asservita all’amore.

Non si può amare senza soffrire. Ma si può soffri-re senza amare. Se è vero che è il dolore dà la provadell’amore, più vero ancora è che l’amore dà la provadel dolore. A seconda che sia inabitato o meno dal-l’amore, il dolore umano discende dalla croce o saledall’inferno. Teresa, vittima d’amore, oppone a tuttii profanatori della sofferenza il suo puro dolore cheama, il suo dolore aperto, fecondo, silenzioso e pienodi pace e di gioia.

Il dolore non ispirato e non dominato dall’amoreè avaro e chiuso. L’uomo soffre in se stesso e per sestesso. Si isola nella propria afflizione, che usurpa inlui il posto di Dio. Ma vedendo soffrire Teresa sen-tiamo, al contrario, che i suoi tormenti sono quellidi un’anima aperta e libera. Teresa soffre atrocemen-te, ma non aderisce alla propria sofferenza. Invecedi trincerarsi nella prova, come fanno la rivolta e ladisperazione, cerca in essa un punto d’appoggio pernuovi sviluppi e per una nuova libertà. Teresa sa chelo scoraggiamento non è altro che una maschera del-l’orgoglio – una presunzione di ritorno. Il disperatoè un uomo che adora il proprio dolore. Teresa nonadora altro che il suo Dio. A ragione un moralistaha potuto scrivere: «Addentrati nella prova. Ma chein te qualcosa domini sempre il dolore!». Per Teresaquesto “qualcosa” è l’amore. Il dolore incatena coluiche non ama: più soffre, più appartiene alla propriasofferenza. Ma il dolore rende libero colui che ama:più soffre, più appartiene a Dio.

La sofferenza d’amore è feconda. Arricchisce l’ani-ma che tocca, rivela all’uomo le proprie profondità.L’“interno” più misterioso del nostro essere, il segre-to divino che risiede in ciascuno di noi non si mani-festa se non attraverso la prova. «Gesù bucò la suapallina», scrive Teresa, «voleva senza dubbio vede-re cosa c’era dentro». Teresa comprende che la soffe-renza genera la verità e restituisce, per così dire, l’uo-mo alla propria essenza. Pertanto ella non geme suimali patiti dai santi: «I santi che soffrono non mifanno mai pietà». Ciò non vuol dire che la sofferen-za dei santi non la commuova per nulla; significa sol-tanto che la sua emozione è vergine da ogni amarez-za e da ogni angoscia: sa troppo bene quali frutti dieternità siano maturati nell’anima dei santi attraver-so il breve inverno della sofferenza. Chi comprendei santi può piangere sulle loro prove, ma queste lacri-me sono dolci e piene di una santa invidia. Il doloredei santi perfeziona Dio in essi, purifica l’amore daogni alleanza con l’illusione ampliandolo a dismisu-

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ra: la spada che ne trafigge il cuore taglia solo i limitidi quel cuore! È ad altri che Teresa riserva la sua verapietà: «Ma quelli che non sono santi, che non san-no trarre profitto dalle proprie sofferenze, oh! quan-to li compatisco! per costoro provo pietà!». Quelliche non sanno trarre profitto dalle proprie sofferen-ze: Teresa tocca qui una delle principali miserie del-l’umanità. Gli uomini sono prima di tutto degli scia-lacquatori che usano vanamente le cose più feconde.Teresa piange per lo spreco della sofferenza – quellasofferenza che per noi è il bene più necessario e cheDio, nella sua inflessibile tenerezza, ci manda «co-me voltando la testa». Non c’è spettacolo più ama-ro di quello delle masse umane votate alla sofferenzasterile. Ancor più che sterile: sterilizzatrice. Quantiescono dalla prova più vuoti e impuri di prima: ildolore, inviato da Dio sulla terra per nutrire l’amo-re, lo avvelena e lo annienta. L’annientamento dellapurissima intenzione divina possiede qualche cosa disconfortante. Ma come! Sarebbe così facile per gli uo-mini – l’esempio di Teresa lo mostra a sufficienza –restituire alla loro sofferenza la propria fecondità so-prannaturale: basterebbero un sussulto d’amore, unsemplice sguardo verso Dio.

«Tacerà nel suo amore», si dice nella Scrittura. Lasofferenza d’amore, a sua volta, si tace. Non ha bi-sogno di spettatori. A dire il vero non conosco sof-ferenza più antiromantica di quella di santa Teresa.Lo specchio e la maschera, questi due attributi capi-tali dell’anima moderna, in lei difettano radicalmen-te. Il dolore vano e impuro ama parlare di sé, cercasupporto nella vanità. Ma Teresa soffre con troppapurezza per desiderare che la propria sofferenza siaveduta. In un secolo in cui i sentimenti più veri sbia-discono e perdono la propria anima a forza di esseredivulgati, lei immerge ogni suo male nel silenzio. Ilmondo deplora le prove inviategli da Dio; le detestae nello stesso tempo le coltiva, truccandole per me-glio prostituirle. Lei, Teresa, accoglie i mali senza ri-volta e senza ricerca, non li coltiva, lascia che sia Dioa coltivarli in lei; e poi, col suo silenzio, conserva perintera la verità e la profondità dei propri mali. Vuoleoffrire al suo Sposo non soltanto un corpo e un’ani-ma vergini ma anche, cosa ben più rara e preziosa, undolore vergine.

«Ecco là il fiore ignorato che volevo offrire a Ge-sù, quel fiore il cui profumo non si diffonde che nelcampo del cielo». È così che Teresa sottrae il pro-prio dolore agli occhi degli uomini, velandolo colsorriso. Si spinge anche più lontano: reagisce controquel soggettivismo devoto che fa di Dio una sorta dispettatore compiaciuto. «Quando è che, insomma,

saprete nasconderGli le vostre pene?», dice a unanovizia. E ancora:

Se, per impossibile, Dio stesso non vedesse le miebuone azioni, non me ne affliggerei. Lo amo tan-to che vorrei fargli piacere col mio amore e con imiei piccoli sacrifici anche senza che egli sapesseche vengono da me.

Un tale atteggiamento, che può apparire sconcer-tante, è comandato tuttavia dalla pura logica dell’a-more. Per santa Teresa soffrire è donare. Il suo do-lore non le appartiene; la santa lo riversa in Dio, lodona a Dio, goccia a goccia, minuto per minuto. Equesto dono sacro non solamente è ignorato da Te-resa. Lei vorrebbe anche, con quella castità supremadell’amore, che Dio stesso l’ignorasse.

Il suo dolore è perfettamente disinteressato, per-fettamente “irriflesso” perché è perfettamente offer-to: non ha bisogno che Dio lo veda, basta che Dio loriceva.

E questa sofferenza d’amore è una gioia. Per ilmondo qui giace un irriducibile paradosso. Teresa èlieta di soffrire perché immagina le delizie apportatedal dolore ai suoi fianchi straziati; sa con quale mater-na tenerezza Dio, secondo la profezia di Isaia, conso-lerà i propri figli; sente che l’anima delle lacrime è nelbacio che le asciugherà. Ma, ancor più della speran-za, è l’amore nudo che rende il suo dolore gioioso.Il dolore e l’amore non sono fatti per equilibrarsi re-ciprocamente nell’anima degli uomini: bisogna cheil dolore uccida l’amore o che l’amore, in un certosenso, uccida il dolore. Lo sappiamo: per Teresa sof-frire vuol dire donare. E siccome non vi è gioia piùgrande che nel donare, non vi è gioia più grande chenel soffrire. È così che Teresa, avida di donare fin dal-la sua entrata nel Carmelo, trova il «suo cielo nellasofferenza» e dona a Dio le proprie pene:

Egli ci chiede di farGli la carità come la faremmoa un povero; provato dalla sofferenza e della lotta,ci tende la mano per ricevere un poco d’amore.

Teresa le dona agli uomini:

Man mano che guadagno qualche cosa, so che visono anime sul punto di cadere all’inferno, e alloradono loro i miei tesori….

Da questa offerta amorosa del proprio dolore essaattinge “una gioia non sentita al di sopra di ogni gio-ia”; sperimenta, attraverso lo strazio e l’agonia della

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propria natura, quella pace essenziale che il mondonon può dare2, quella specie di felicità senza contor-no creaturale che realizza il suo vero destino e che, secosì posso esprimermi, arricchisce Dio. Per lei la gio-ia di amare e di donare fa a tal punto corpo con la sof-ferenza da renderle di difficile comprensione l’ideadella perfetta beatitudine degli eletti:

Fatico a capire come potrò adattarmi in un paesenel quale la gioia regna senza alcuna mescolanzacon la tristezza. Bisognerà che Gesù trasformi com-pletamente la mia anima, altrimenti non potreisostenere le delizie eterne.

Il mondo, più che mai, si ostina a scacciare il do-lore lontano da sé, separandolo dalla gioia. Così fa-cendo non ottiene altro che di aggravare la propriamiseria, vuotando il proprio dolore di ogni gioia eriempiendo di dolore la stessa gioia. Quando si inse-gue il paradiso terrestre è l’inferno che si raggiunge…Teresa viene ad insegnare al mondo a trovare la gioianel dolore stesso, viene a sposare nell’amore la feli-cità e la sofferenza. Se ci risulta duro pensare che lavera gioia è inseparabile dalla prova, tutta la sua vi-ta ci grida che solo da noi dipende rendere la provainseparabile dalla vera gioia. Il giogo della sofferen-za non è qualche cosa di esteriore alla nostra natura;è incastonato nella nostra carne, è radicato nelle no-stre viscere. Il tentativo di respingerla la rende insop-portabile. Invece accogliendola con amore la rendia-mo soave come Cristo ha promesso. La piccola Tere-sa è venuta a ribadire agli uomini, con sentimenti econ parole adatti alla fiacchezza moderna, il misterogioioso della croce.

Quaggiù sulla terra vi è tuttavia qualcosa di peg-giore del dolore: il nulla. Amare attraverso il doloreè insufficiente: la prova suprema dell’amore consistenell’amare attraverso il vuoto. Ancora giovanissima,Teresa ha conosciuto questa prova patendola fino infondo negli ultimi mesi di vita. Sarebbe abusivo, cre-do, mettere sullo stesso piano le “notti” di san Gio-vanni della Croce e le “notti” di santa Teresa. L’ari-dità, presso Teresa, ha la stessa profondità e la stessafecondità soprannaturali di san Giovanni, ma nonpossiede le stesse colorazioni emotive: è psicologica-mente molto più povera, spenta e ordinaria. L’assen-za di Dio per san Giovanni della Croce ha qualcosa digrandioso e divorante, essendo vissuta come una sor-ta di presenza negativa. Per Teresa è l’assenza pura, il

nudo vuoto. Da una parte la fiamma che consuma,dall’altra la cenere che soffoca. Sopraffatta attraver-so la malattia da quella solitudine oscura e incurabi-le che nasce dalla dissoluzione del misterioso compo-sto umano, incessantemente tentata contro la fede eprivata di ogni contatto affettivo con le cose del cie-lo, Teresa nel mezzo di questa disfatta interiore del-l’amore continua ad amare. Dubbi terribili tentanodi assassinarne la fede, così lei crede perché ama. Inciascuno dei suoi atti di fede arida, Teresa con l’amo-re ricrea in essa il Dio che non sente più. Agonizza,ma non cede alla disperazione. Parlando di Dio e deisanti che acconsentono alle sue prove, Teresa ha que-sta parola sublime: «Vogliono vedere fino a che pun-to spingerò la mia speranza!». Dal fondo di questoabisso di derelizione, ella vive l’amore nella sua nudi-tà crocifissa. Rendendo a Dio l’ultima testimonian-za, subisce il martirio più fondamentale – quel mar-tirio che fu di Gesù nella sua ultima ora e che tantisanti consegnati al carnefice non hanno conosciuto:Teresa è testimone del silenzio di Dio.

Teresa così non soltanto è capace di vivere que-sto silenzio, ma è anche felice di essere una di quelleanime in cui Dio può tacersi:

Ho letto nel Santo Vangelo che il divin Pastore ab-bandona nel deserto tutte le pecore fedeli per cor-riere appresso alla pecorella smarrita… Che io siadegnata di una simile fiducia! Egli confida in lo-ro! In che maniera potrebbero andarsene? Sonoprigioniere dell’amore.

Anche quando l’amore ha perduto ogni voce,ogni forma umana, Teresa gli resta fedele. Che le im-porta che si elevi un muro tra il proprio cuore e il cie-lo? Quel che ella ama in Dio è Dio stesso. Via via chedeclina la sua vita terrena, Teresa, privata di ogni dol-cezza e di ogni puntello nelle cose create, condividesempre più la solitudine del suo sposo. E così, sottole ceneri della natura consunta, a bruciare è un fuocosoprannaturale (la parola soprannaturale si pronun-cia con facilità, ma solo chi è stato spossessato del-la propria natura può sondarne la profonda, morta-le trascendenza). Dinanzi a un mondo infestato dalsoggettivismo, affamato di sensazioni e incostantenell’amore come nella sensazione, che tutto comin-cia e nulla realizza facendo della propria vita nientealtro che una serie di tradimenti e di aborti, Teresamette in scena lo spettacolo di un amore eroicamen-

2. «La pace, chi la conosce, sa che gioia e dolore in parti uguali la compongono» scrive Claudel. Per l’uomo saldo nella pace diCristo la gioia e il dolore non sono vissute come due entità opposte, l’uno e l’altra sono integrate nell’unità dell’amore.

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te fedele. Senza mai risparmiarsi, ella si è donata, aimmagine di Dio, senza pentimento. L’amore in leiha parlato a voce più alta della morte. Come Gesù,Teresa ha amato fino alla fine.

Questa fedeltà nella prova e nella debolezza fa diTeresa la messaggera di un eroismo nuovo: l’eroismodei poveri. La santità teresiana è quella che realizzapiù pienamente la sintesi tra la miseria umana e laforza divina predicata da san Paolo.

La miseria umana! Quale tempo più del nostrol’ha mai sperimentata? A forza di volersi elevare, uni-camente coi propri mezzi, al di sopra della natura,l’uomo ha usato e corrotto questa natura. Non è di-venuto un superuomo e, in molto casi, nemmenopiù è capace d’essere un uomo. A questo essere impo-verito la piccola Teresa provvede a ricordare che eglipuò divenire un Dio. L’uomo può cadere al di sot-to di se stesso, ma non al di sotto dell’appello dellagrazia.

L’amore che, nella nostra anima, è incapace di at-tingere forza da tutto e tutto trasmutare in sé non èl’amore vero. È un sogno, un desiderio senza radici.La “fedeltà nelle piccole cose” instancabilmente in-segnata da Teresa ci rivela il segreto del realismo del-l’amore. Un tale realismo non consiste nel segregar-si, con una sorta di rassegnazione “borghese”, all’in-terno delle realtà più povera dell’esistenza, consistepiuttosto nello sposare queste realtà con la speran-za più elevata. Teresa non è “terra terra” se non permeglio saturare la terra del cielo. Seguire “la picco-la via dell’amore” non significa arenarsi in una pialeziosità, significa trovare Dio nelle pieghe più “quo-tidiane” della nostra vita, vuol dire permettergli diincarnare più profondamente in noi la sua grazia. Ipoveri doveri poveramente assolti, la mediocrità e ilvuoto interiori, l’apparente sterilità delle nostre vite:in tutto ciò possiamo cambiare ben poco, ma possia-mo immergerlo in una atmosfera soprannaturale permezzo di un impercettibile e segreto movimento diattenzione e di abbandono a Dio.

Nel corso della sua ultima malattia, Teresa pro-nunciò un giorno quella parola suprema sulla qua-le Bernanos ha incentrato un grande libro: Tutto ègrazia! Non c’è in noi un atto tanto povero e scial-bo da impedire a Dio di esserne l’anima. L’eroismoteresiano è senza sfarzo, senza ebbrezza, senza gran-dezza mondana: sembra prefigurato nel Vangelo nel-l’episodio della vedova che sommando al tesoro deltempio il suo umile obolo fa dono a Dio della pro-pria povertà. Questa offerta solitaria è quella che piùtocca l’Amore infinito perché essa si diparte dalla fe-de più spoglia, dalla fiducia più cieca. Siete poveri,

sembra dire Teresa ai suoi fratelli soverchiati dall’im-potenza, ma la vostra povertà almeno vi appartienee potete donarla. Non rifiutate a Dio il vostro nulla,non siate avari del vostro vuoto.

Come la sentiamo felice, pertanto, di soffriresenza coraggio naturale, di immolarsi con aridità:

Soffriamo, se necessario, con amarezza, senza co-raggio. Gesù ha pur sofferto con tristezza: sen-za tristezza, un’anima soffrirebbe forse? E noivorremmo soffrire generosamente, grandemente.Che illusione!

Già a sedici anni scrive alla sorella Céline: «È unafelicità portare debolmente le nostre croci!». È co-sì che, alla fine della vita, ormai divenuta incapacedi qualsiasi azione esteriore e anche di ogni raccogli-mento sensibile, ella esclamerà, nell’accettazione gio-iosa della povertà totale: «Posso ancora dire al BuonDio che lo amo e trovo che sia abbastanza!».

La santità insegnata da Teresa possiede qualchecosa di incrollabile perché essa riposa non sull’esse-re fragile, ma sul nulla della creatura. Per salire versoDio Teresa non si appoggia che sulla propria debo-lezza: una debolezza forte poiché si sposa costante-mente alla forza divina. E il vincolo di questa unionerisiede in una umiltà assoluta. Affinché un Dio abitiil nulla di una creatura occorre che questo nulla sialeale. Teresa è completamente povera davanti all’A-more. Il segreto del suo eroismo nella sofferenza stanell’attendere tutto da Dio, e da Dio solo (una solainfedeltà d’orgoglio, diceva, sarebbe bastata a rapir-le ogni coraggio precipitandola nella disperazione).Il segreto sta anche nel vivere il dolore ora per ora e,per così dire, goccia per goccia, senza memoria e sen-za previsione. Solo per oggi… Grazie alla sua fedeltàall’ora presente – che è l’ora dell’eternità – Teresa rea-gisce contro quella specie di orgoglio mascherato checonsiste nell’inquietarsi per i mali futuri. «È comeinterferire nella creazione!», dirà su questo punto auna novizia. Vi è effettivamente una maniera di pre-vedere, di usurpare l’avvenire che rassomiglia a unaintromissione sacrilega nel ruolo creatore di Dio…

L’eroismo teresiano è accessibile a tutti. Questouniversalismo si manifesta nell’appello della santa al-le “piccole anime”. Teresa è andata fino al fondo del-l’umana debolezza e dell’umano dolore. Tutto nellasua vita è sovrannaturale, niente è propriamente so-vraumano. Troppe anime – ed è la loro tragedia – ri-cercano la santità in non so quale grandezza, in nonsolo quale ebbrezza sovraumane. E non riuscendo amantenersi a una tale altitudine non tardano a rinun-

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ciare all’intimità divina, trascinando così il sovran-naturale nelle rovine delle loro speranze sovrauma-ne. L’esempio di Teresa vale a ricordare loro che seil sovrannaturale può fiorire sul sovraumano (comevediamo nella vita della maggior parte dei santi piùillustri), questo non significa che il primo sia essen-zialmente legato al secondo. Dio non si trova sem-plicemente in alto, è dappertutto. L’uomo con tuttii suoi sforzi non può aggiungere un cubito all’altezzadel proprio corpo, ma l’anima più piccola è a misuradell’infinito. Passare dall’impura sofferenza umanaalla sofferenza divina dei santi non equivale a passareda una tristezza incolore a una patetica effusione; ilcambiamento è più profondo: vuol dire passare dal-la ricerca di sé alla ricerca di Dio, vuol dire cambia-re non l’intima colorazione, ma il senso, l’anima del-la sofferenza. Non si tratta di soffrire grandemente,ma di soffrire fedelmente; non si tratta di dare moltoa Dio, si tratta di dargli tutto. Con la sua debolezzanell’eroismo e col suo eroismo nella debolezza, Te-resa annuncia la “buona novella” dell’amore ai po-veri e ai più poveri tra i poveri: i poveri di beni del-l’anima. Il suo esempio illustra e conferma la parolacosì piena di consolazione eterna rivolta da Cristo asant’Angela da Foligno: “Chiunque può amare!”.

La morte è il sigillo del destino. Tutto ciò che

una vita umana racchiude di più essenziale attende,per prendere dimora nell’eternità, la conferma dellamorte.

Come aveva vissuto nell’amore, Teresa è mortanell’amore. Nessuna cesura in lei tra la sofferenza ela morte: dopo aver sofferto poveramente, Teresa èmorta poveramente. Come direbbe Péguy, ha patitofino all’estremo la “sua morte umana”. Per via dellanostra abitudine di materializzare le cose divine ci im-maginiamo facilmente la morte dei santi come unasorta di apoteosi interiore dove l’anima per metà di-sincarnata già gusta la beatitudine celeste. Di fattomolti martiri e molti santi sono morti così. Ma Tere-sa non ha mai aspirato a una tale morte per sé. Hadesiderato morire di una morte comune, non ha vo-luto che le fossero risparmiate una sola debolezza ouna sola angoscia del trapasso:

Nostro Signore è morto sulla Croce, nelle ango-sce, ed ecco tuttavia, la più bella morte d’amoreche si sia vista! Morire d’amore non è morire tra itrasporti…

Dio l’ha esaudita: Teresa è morta nella peggioreoscurità interiore dopo la più intensa agonia fisica espirituale.

Immagine 6: Telemaco Signorini, La toeletta del mattino

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g u s t a v e t h i b o n — s a n t a t e r e s i n a s e c o n d o t h i b o n

Teresa, l’abbiamo detto, non era nata per la soffe-renza tragica. E nemmeno aveva una concezione tra-gica della morte. La sua semplicità nativa e la sua to-tale familiarità con le cose del cielo le facevano consi-derare la separazione dell’anima e del corpo come unfatto non soltanto felice ma privo di ogni estraneità.È in qualche modo dal di fuori che l’odore e la vertigi-ne del nulla si sono abbattuti sulla sua anima. Teresaha vissuto tutta la tragedia della creatura invasa dallamorte. Tutta questa tragedia, salvo il peccato: il con-senso alla disperazione. Sembra che, per un destinomisterioso del cielo, tutta l’angoscia umana sia venu-ta a prendere rifugio presso questo cuore di fanciullaper ritrovarvi il bacio di Cristo e la sua redenzione.

Teresa, nel corso della lunga malattia che l’ha con-dotta alla morte, ha conosciuto quella prova supre-ma rappresentata dal silenzio simultaneo della terrae del cielo. La malattia innalza un muro tra la sua ani-ma e il mondo sensibile; una prova soprannaturalela priva di ogni gioia spirituale: ella è come immura-ta nella nudità eroica della propria fede e del proprioamore.

Per comprendere un simile martirio occorre legge-re, nella Storia di un’anima e soprattutto nei Novis-sima verba raccolti con devozione da Madre Agnesedi Gesù, il racconto degli ultimi giorni della santa:

O Madre mia, è proprio facile scrivere delle bel-le cose sulla sofferenza, ma scrivere è nulla, nulla!Bisogna esserci per sapere!…

A quest’ora nell’amore di Teresa non resta un so-lo atomo di sogno e di presunzione: non è più l’im-magine, è la realtà, la sostanza della morte che rin-serra nel suo cuore. «È l’agonia pura senza alcunaaggiunta di consolazione», dice al mattino del suoultimo giorno. È questo grido a riassumere tutto:«Non credo più alla morte, non credo più che allasofferenza!».

Questo dramma interiore è vissuto tuttavia da Te-resa con una semplicità e con una pace profonde.Non c’è in lei accettazione tragica della tragedia. L’a-gonia le si attacca addosso, ma lei è distaccata dallapropria agonia. Per chi ama la morte è il dono ulti-mo. Teresa morendo non guarda a ciò che dona disuo, i suoi occhi sono fissi su Colui che prende. In leila morte si perde nell’amore. Ella perde tutto, ma èDio che riceve, è Dio che lei preferisce! «Divengo giàscheletro. Questo mi piace!». Teresa è felice, mentresi spoglia della propria carne, di sentire la volontà del-lo Sposo incarnarsi più profondamente in lei. Quan-to più si abbandona a Dio, tanto più ciò che non èDio la abbandona. Sa che si sta realizzando il suo più

grande sogno: morire d’amore.Dio può domandare ciò che vuole, anche l’ango-

scia della carne in cui il corpo diventa per l’anima unmostruoso estraneo che la tortura, anche la mortesoggettiva dell’amore: Teresa ha troppo amato, Tere-sa vive troppo fuori di se stessa per poter essere infe-dele. È per la speranza che accetta tutto lo sconfortodella disperazione:

Tutto è compiuto! È solo l’amore che conta… Sì,mio Dio, sì mio Dio, voglio proprio tutto! Diomio, sì, tutto quello che vuoi. Ma abbi pietà dime… Non mi pento di essermi offerta all’Amore…Mio Dio, vi amo…

Non è possibile leggere queste umili esclamazionisenza vedere nella passione e nell’agonia di Teresa ilriflesso a un tempo soave e straziante dell’agonia diGesù.

Nel momento in cui apre a tutti la porta della san-tità, Teresa apre a tutti anche la porta del martirio.L’uomo moderno per vivere e morire da martire nonha bisogno di persecutori e di carnefici. Gli basta es-sere il testimone di Dio contro lo sconforto e il nullache porta nel proprio cuore.

Teresa è la grande sorella dell’umanità di oggi, cherispecchia e contraddice al tempo stesso. Ne ha con-diviso la debolezza e l’angoscia, ma non le mascheree le rivolte. Teresa insegna alla povertà l’innocenza ela santità; rivela ai poveri un Dio spoglio dei fasti delsovraumano, a un tempo più accessibile e più puro.

Il dolore e la morte non sono entità autosufficien-ti: nel momento in cui le isoliamo ne facciamo deimostri assurdi e rivoltanti. Il mondo antico, privo diDio, ma interiormente agitato dalla sorda attesa diDio, ha conosciuto il dolore e la morte informi. Lavenuta di Cristo ha posto termine a questa tragedia:il suo amore ha conferito una forma, un’anima allasofferenza e al trapasso. Il mondo moderno, rifiutan-do Cristo, è caduto più in basso della cecità antica: hareso la morte e il dolore deformi.

Come tutti i santi, ma chinandosi forse più pro-fondamente fra tutti loro sull’insufficienza umana,Teresa è passata sulla terra per restituire all’Amoretutto il volto negativo del destino. La sofferenza ela morte non sono l’amore, ma lo nutrono: l’amo-re attinge la propria forza e la propria purezza dal-la sofferenza e ricava la propria eternità dalla morte.Dinanzi al suo amore ogni uomo può dire come Gio-vanni Battista: «Bisogna che io diminuisca affinchéegli cresca». Chi non vuole patire né morire non è ingrado di amare.

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P RO S P E T T I VA• c i v i t a s •

• Il capitalismo a 500 anni dalla Riforma

• L’esecutivo come corporate governance

• La Fondazione Tercas e l’inclusione sociale