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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2015-2016 Prof.ssa Silvia Niccolai II Modulo Sezione II La forma di governo della Repubblica italiana Capitolo I – Le componenti di fondo Sommario del capitolo: 1.La forma di governo 2. Il Presidente della Repubblica. 2.1. La controfirma degli atti del Capo dello Stato. 2.2. Il ruolo del Capo dello Stato. 3. I partiti e il sistema elettorale. 3.1. Il sistema elettorale proporzionale. 3.2. Vantaggi del sistema elettorale proporzionale. 3.3. Svantaggi del sistema elettorale proporzionale. 3.4. Il sistema elettorale maggioritario. 3.5. Vantaggi e svantaggi del sistema elettorale maggioritario. 4. Uno strumento di democrazia diretta in un sistema imperniato sulla democrazia rappresentativa: il referendum abrogativo. 4.1. Il procedimento referendario. 4.2. Requisiti di ammissibilità del referendum. 4.3. L’innesto del referendum nella forma di governo. 1.La forma di governo Quella descritta nella nostra Costituzione è una forma di governo parlamentare, in cui il Governo assume la pienezza delle sue funzioni grazie alla fiducia delle Camere, e la perde, dovendo dimettersi, quando questa fiducia viene meno. Va tenuto presente peraltro, che, sebbene la forma di governo in senso stretto riguardi i rapporti tra gli organi di indirizzo politico, nella nostra forma di governo hanno un ruolo importante, accanto al parlamento e al governo, anche due organi “di garanzia”, cioè due organi che non hanno poteri di indirizzo politico, non sono eletti né designati dal popolo né responsabili di fronte a esso, e non perseguono un proprio progetto politico. Questi due organi sono il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Essi sono definiti organi di garanzia perché la finalità delle loro funzioni è quella di assicurare, quindi “garantire”, il regolare svolgimento della vita pubblica secondo le norme della Costituzione . 272

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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2015-2016 Prof.ssa Silvia Niccolai II Modulo

Sezione II

La forma di governo della Repubblica italiana

Capitolo I – Le componenti di fondoSommario del capitolo:

1.La forma di governo 2. Il Presidente della Repubblica. 2.1. La controfirma degli atti del Capo dello Stato. 2.2. Il ruolo del Capo dello Stato. 3. I partiti e il sistema elettorale. 3.1. Il sistema elettorale proporzionale. 3.2. Vantaggi del sistema elettorale proporzionale. 3.3. Svantaggi del sistema elettorale proporzionale. 3.4. Il sistema elettorale maggioritario. 3.5. Vantaggi e svantaggi del sistema elettorale maggioritario. 4. Uno strumento di democrazia diretta in un sistema imperniato sulla democrazia rappresentativa: il referendum abrogativo. 4.1. Il procedimento referendario. 4.2. Requisiti di ammissibilità del referendum. 4.3. L’innesto del referendum nella forma di governo.

1.La forma di governo

Quella descritta nella nostra Costituzione è una forma di governo parlamentare, in cui il Governo assume la pienezza delle sue funzioni grazie alla fiducia delle Camere, e la perde, dovendo dimettersi, quando questa fiducia viene meno. Va tenuto presente peraltro, che, sebbene la forma di governo in senso stretto riguardi i rapporti tra gli organi di indirizzo politico, nella nostra forma di governo hanno un ruolo importante, accanto al parlamento e al governo, anche due organi “di garanzia”, cioè due organi che non hanno poteri di indirizzo politico, non sono eletti né designati dal popolo né responsabili di fronte a esso, e non perseguono un proprio progetto politico.

Questi due organi sono il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale . Essi sono definiti organi di garanzia perché la finalità delle loro funzioni è quella di assicurare, quindi “garantire”, il regolare svolgimento della vita pubblica secondo le norme della Costituzione.

La Corte costituzionale rimane più lontana dal circuito dell’indirizzo politico, ma le sue decisioni (la dichiarazione di incostituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge; la decisione di un conflitto tra i poteri dello stato) possono riverberarsi su di esso; questa influenza della giustizia costituzionale sul circuito della forma di governo ha avuto una dimostrazione eclatante quando, nel dicembre 2013, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della allora vigente legge elettorale. Molto più interno al circuito dell’indirizzo politico è il cioè dei rapporti tra i due organi di indirizzo politico ( il Parlamento e il Governo), è il Presidente della Repubblica, che, come vedremo, è dotato di attribuzioni che lo mettono in contatto con tutte le componenti della forma di governo e in particolare lo collocano in stretto rapporto con l’Esecutivo.

2.Il Presidente della Repubblica

Il Presidente della Repubblica assolve nella nostra forma di governo alla funzione di organo imparziale chiamato a garantire il corretto svolgimento della vita istituzionale.

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Questa importante funzione è il tessuto connettore delle numerose attribuzioni del Capo dello Stato e viene esercitata sia attraverso il compimento di atti formali (come il rinvio di una legge per il nuovo esame alle Camere o lo scioglimento delle Camere), sia attraverso una attività informale fatta di contatti, sollecitazioni, messaggi scritti o anche “esternazioni”, come vengono chiamate le prese di posizione pubblica del Capo dello Stato su questioni di volta in volta rilevanti. Gli atti formali sono quelli previsti e descritti in Costituzione e che devono seguire certe procedure e rispettare certi requisiti (ad es. per sciogliere le Camere il Presidente deve sentire i loro Presidenti: art. 88 Cost.) ; gli atti informali sono quelli cui il Presidente dà vita in assenza di una previsione che li definisca.

Nello svolgimento della sua funzione, il Capo dello stato ha attribuzioni che lo mettono in contatto con i tre poteri dello stato, legislativo, esecutivo e giudiziario.

Rispetto al potere legislativo, spetta al Capo dello Stato, in particolare:

sciogliere le Camere (art. 88); indire nuove elezioni e fissarne la prima riunione (art. 87), in modo che questa delicata scelta non sia rimessa alle valutazioni di opportunità dei due organi che vedono da queste scelte direttamente condizionata la loro esistenza in vita e la propria possibilità di rielezione, il Parlamento e il Governo;

promulgare le leggi (art. 87) svolgendo una valutazione sulla loro correttezza costituzionale che può tradursi nel rinvio della legge per un nuovo esame alle Camere (art. 74) (le quali possono peraltro riapprovare la legge senza tener conto delle osservazioni del Capo dello Stato, che è tenuto in questo caso a promulgarla senza ulteriore indugio);

indirizzare messaggi alle Camere (art. 87). Col potere di ‘messaggio’ il Capo dello Stato può sottoporre alle Camere un problema o una serie di problemi che a suo avviso dovrebbero essere urgentemente considerati dalle Camere stesse nella loro attività legislativa, indicando anche i modi con cui a suo avviso il problema dovrebbe essere affrontato. Per esempio, nel suo unico messaggio alle Camere, dell’8 ottobre 2013, il Presidente Giorgio Napolitano si è occupato della questione del sovraffollamento carcerario, prendendo spunto da decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno condannato il nostro paese per la disumanità delle condizioni delle nostre carceri, e ha indicato una serie di strumenti molto puntuali con cui future leggi avrebbero dovuto a suo avviso affrontare il problema1 . Il potere di messaggio è un potere estremamente delicato, che i Presidenti esercitano molto raramente, anche perché vi è il rischio che il messaggio del Presidente cada per così dire nel vuoto, non abbia seguito da parte delle Camere, il che può nuocere all’immagine istituzionale del Capo dello Stato, indebolendone il prestigio e l’autorevolezza.

1 Li menzioniamo per dare l’idea della precisione e del grado di dettaglio che le indicazioni presidenziali possono raggiungere nel contesto di un messaggio alle Camere. Il Presidente raccomandava: “1). L'introduzione di meccanismi di probation, [cioè] per taluni reati e in caso di assenza di pericolosità sociale, la possibilità per il giudice di applicare direttamente la "messa alla prova" come pena principale. In tal modo il condannato eviterà l'ingresso in carcere venendo, da subito, assegnato a un percorso di reinserimento; 2) la previsione di pene limitative della libertà personale, ma "non carcerarie" ("reclusione presso il domicilio"); 3) la riduzione dell'area applicativa della custodia cautelare in carcere; 4) l'accrescimento dello sforzo diretto a far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena inflitta in Italia nei loro Paesi di origine. 5) l'attenuazione degli effetti della recidiva quale presupposto ostativo per l'ammissione dei condannati alle misure alternative alla detenzione carceraria; modifiche all'istituto della liberazione anticipata [per] detrarre dalla pena da espiare i periodi di "buona condotta" riferibili al tempo trascorso in "custodia cautelare", aumentando così le possibilità di accesso ai benefici penitenziari; 6) infine, una incisiva depenalizzazione dei reati, per i quali la previsione di una sanzione diversa da quella penale può avere una efficacia di prevenzione generale non minore. Il testo completo del messaggio, insieme a una ricca documentazione sugli atti presidenziali, è reperibile nel sito della Presidenza della Repubblica.

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Rispetto al Governo, spetta al Capo dello Stato, in particolare:

ricevere le dimissioni del Governo e nominare il Presidente del consiglio e i ministri (art. 92 e 93 Cost.), svolgendo le delicate valutazioni che a questo riguardo possono essere implicate da una crisi di governo in corso di legislatura;

emanare gli atti del Governo (che assumono la forma di decreti del Presidente della Repubblica) e autorizzare la presentazione da parte del Governo di disegni di legge alle Camere (art. 87). Delicatissima in questo campo è la valutazione che spetta al capo dello stato sulla emanazione di decreti legge e sulla presentazione alle Camere del relativo disegno di legge di conversione.

Strettissimamente confinanti con quelle del Governo sono le attribuzioni che il Presidente ha nel campo della politica estera. Il Presidente accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere, ha il comando delle Forze Armate , presiede il Consiglio Supremo di Difesa e dichiara lo stato di guerra deliberato dalle due Camere (art. 87).

Rispetto alla Magistratura, spetta al Capo dello Stato

esercitare la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno della magistratura ordinaria (art. 104).

Il Presidente inoltre ha il potere di grazia (“può concedere la grazia e commutare le pene”: art. 87) che è un potere confinante con il campo proprio della giurisdizione. Il Presidente della Repubblica indice il referendum popolare (87).Ha importanti poteri di nomina. In particolare, ha il potere di scegliere cinque ‘senatori a vita’ (“Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, art. 59 comma 2 Cost.;) e un terzo dei componenti la Corte costituzionale (art. 134).Il Presidente della Repubblica dopo la scadere del suo mandato è di diritto senatore a vita (art. 59 comma 1).

E’ molto importante tenere presente che, proprio in virtù del ruolo di garanzia che è chiamato a esercitare, il Presidente della Repubblica non è un organo di indirizzo politico. Egli non viene eletto in considerazione delle sue visioni politiche né tanto meno è portatore di un proprio programma, di propri obiettivi politici. Conseguentemente, il Capo dello Stato è un organo privo di responsabilità politica.

La responsabilità politica consiste nel rispondere per l’opportunità delle proprie azioni. La responsabilità politica lega il Governo al Parlamento ed è sancita dal nesso fiduciario: con il voto di fiducia, le Camere autorizzano il Governo a porre in essere il suo programma politico ma qualora il Governo si allontani dal programma che aveva promesso di perseguire o compia azioni che le Camere considerano inopportune, sbagliate, ingiuste – politicamente non condivisibili – esse possono chiamarlo a rispondere fino al punto di farlo cadere con il voto di sfiducia. Un nesso di responsabilità politica lega le Camere all’elettorato, che può far sentire il proprio dissenso verso il modo in cui i rappresentanti eletti in Parlamento hanno svolto le loro funzioni con la critica e non votandoli più.

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Essendo privo di poteri di indirizzo politico, il Capo dello Stato non può essere chiamato a rispondere per il senso politico delle proprie azioni, per la loro opportunità. Non vi sono, del resto, nel suo caso, promesse fatte in sede elettorale o dichiarazioni programmatiche (come avviene per i membri del Parlamento e per il Governo). Secondo l’art. 90 della Costituzione, “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”.

L’unico tipo di responsabilità specifica prevista per il Capo dello Stato è la responsabilità, penale, per il reato di alto tradimento e attentato alla Costituzione, due reati che possono essere compiuti solo dal Capo dello Stato e che implicano l’essere venuto meno agli obblighi costituzionali inerenti la sua funzione (il giudizio su questi reati è, come abbiamo visto, di competenza della Corte costituzionale (cd. Giudizio sulle accuse: art. 90 comma 1 Cost.).

Il reato di alto tradimento e attentato alla Costituzione sono definiti “reati funzionali” cioè reati che solo il presidente della repubblica può compiere in quanto consistenti in attività connesse alla sua funzione. La maggioranza della dottrina ha sempre ritenuto che mentre per questi reati funzionali esiste la speciale procedura appena descritta, per i reati, o per i fatti illeciti, ‘extrafunzionali’ cioè per qualunque reato si renda responsabile, o meglio possa essere imputata o chiamata a rispondere la persona fisica che riveste la carica di presidente della Repubblica, non esiste alcuna speciale immunità, e si applicherebbe il diritto comune. Il Presidente dunque godrebbe di una speciale posizione nell’ordinamento che consiste nell’assenza di responsabilità politica e di responsabilità civile e penale per tutti gli atti connessi alla sua funzione, ma avrebbe una posizione del tutto analoga a ogni altro consociato per gli atti non connessi alla sua funzione.

In questo momento ci preme sottolineare il punto della estraneità del Capo dello Stato dal circuito della responsabilità politica che lega il Governo al Parlamento e quest’ultimo al corpo elettorale. Tale estraneità, ha sottolineato nel corso del tempo la dottrina, è segnalata anche dalle modalità di elezione e durata in carica del Capo dello Stato. La durata in carica è fissata a 7 anni ed eccede perciò la durata di una legislatura (il capo dello stato è eletto da maggioranze politiche che non corrispondono necessariamente a quelle in carica a un dato momento della sua presidenza) e per la sua elezione sono richieste maggioranze superiori alla maggioranza semplice (la maggioranza che sostiene il governo non è sufficiente per eleggere il capo dello stato) e per la precisione i due terzi nella prima e seconda votazione e la maggioranza assoluta a partire dalla terza votazione.

Il Presidente non è dunque l’espressione di una maggioranza, non riceve un ‘mandato’, non viene eletto per un suo programma politico, non è neppure l’espressione di una volontà delle sole forze politiche, ma dell’intera Repubblica: infatti il parlamento in seduta comune, organo competente per la sua elezione, è integrato dalla presenza di tre rappresentanti per ogni regione (uno per la Valle d’Aosta). Questo è il senso che viene attribuito alla espressione della Costituzione che lo definisce come “rappresentante dell’unità nazionale” (art. 87).

2.1.La controfirma degli atti del Presidente della Repubblica

Alla irresponsabilità politica del Capo dello Stato si lega all’istituto della controfirma.

“Nessun atto del Presidente è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che se ne assumono la responsabilità” dice l’art. 89, specificando che gli atti che hanno valore legislativo e altri atti indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

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Gli atti del Presidente devono essere controfirmati dal Ministro proponente, di modo che è il governo ad assumersi la responsabilità di essi. La controfirma significa in primo luogo che il Governo ha preso conoscenza dell’atto presidenziale.

In certi casi, l’atto che il presidente firma e il governo controfirma è in realtà un atto governativo, un atto cioè il cui contenuto è stato voluto dal Governo (si parla in questi casi di atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi). Si pensi all’autorizzazione alla presentazione di disegni di legge o alla emanazione dei decreti legge. In queste ipotesi il soggetto controfirmante, cioè il ministro e per esso il Governo, è in realtà l’autore dell’atto e la firma del Presidente sta a significare che il Presidente ha visto l’atto, e ritiene che non abbia difetti o vizi talmente significativi da precludergli di darvi corso. E’ chiaro che il potere di firmare gli atti del Governo, di autorizzarne l’emanazione o la presentazione, permette al Presidente di mettersi in dialogo con il Governo, di far notare cose che a suo giudizio non vanno, di chiedere modifiche. In questi casi al compimento di un atto formale (l’emanazione del decreto, per esempio), si mescola una attività informale fatta di contatti e scambi di informazioni e di opinione, suggerimenti e consigli più o meno perentori che il Presidente può indirizzare al Governo per condizionare la propria autorizzazione di un atto dell’esecutivo (è una attività informale che viene spesso designata ‘moral suasion’).

Tra gli atti di competenza del Presidente, alcuni sono però considerati veri e propri atti presidenziali, cioè atti il cui contenuto è deciso dal presidente della Repubblica da solo (si parla in questi casi di atti formalmente e sostanzialmente presidenziali). Questo è il caso ad esempio delle nomine dei giudici costituzionali, una competenza che è rimessa al Presidente proprio per la sua posizione di indipendenza ed imparzialità. In queste ipotesi, la firma del presidente equivale a vera e propria sottoscrizione dell’atto da parte del suo autore, e la controfirma esprime la presa d’atto e l’assunzione di responsabilità da parte del Governo, che però non ha il potere di influire sul contenuto dell’atto come lo ha individuato il Presidente.

Vi sono poi atti, che la dottrina ha definito talvolta atti ‘misti’ o ‘duali’ o ‘complessi’, in cui la controfirma esprime un ulteriore e diverso significato. Si tratta di atti che sono ‘codecisi’ dal Presidente e dal Governo, atti nei quali cioè, a differenza che nel caso degli atti “tutti presidenziali” o degli atti “tutti governativi”, è richiesto, per formare il contenuto dell’atto, il concorso delle volontà del Presidente e del Governo. Esempio tipico di questo tipo di atti è lo scioglimento delle Camere, che si ritiene corretto il Presidente decida con il consenso e il concorso del Governo. Decidere di sciogliere le camere e andare ad elezioni contro la volontà del Governo sarebbe infatti, da parte del Presidente, una decisione così carica di politicità da cozzare contro il suo ruolo di garanzia.

In generale, si considera ragionevole ed accettabile che il Presidente esprima una influenza sulle decisioni del Governo, in quanto questa influenza può servire a far valere nei confronti del Governo valutazioni sulla legittimità, correttezza, e financo opportunità dei suoi atti che, data la posizione del Presidente, non dovrebbero rispondere ad altro che a imparziali considerazioni circa ciò che va nell’interesse della nazione e della sua unità, che il Presidente rappresenta. E’ molto meno ragionevole ed accettabile che il Governo, essendo per definizione organo di parte, influenzi gli atti del Presidente, perché questo minerebbe la funzione imparziale e riequilibratrice che le decisioni e gli atti del Presidente dovrebbero svolgere. Per questo è accettata e anzi fisiologica, entro certi limiti, la ‘moral suasion’ del Presidente nei confronti del Governo, e non il contrario (e che cioè sia il Governo a fare ‘moral suasion’ sul Presidente). E’ anche vero, però, che il Presidente non può esercitare le sue funzioni come se fosse una ‘monade’ che non tiene conto di che cosa il Governo fa, della fase politica, ecc., perché questo le renderebbe disfunzionali.

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La controfirma dunque delinea come una sfera mobile e porosa che corre lungo le attribuzioni presidenziali e nella quale avvengono contatti col Governo, contatti continui e di diversa intensità, ed è una sfera che indica il peso rispettivo del Governo – e cioè dei partiti politici - e del Presidente nella dinamica politica e della forma di governo. E’ importante tener presente, infatti, che la Costituzione non stabilisce quali atti del presidente sono ‘presidenziali’, quali ‘governativi’, quali ‘duali’ o ‘misti’. Il ‘giusto peso’ dell’uno o dell’altro organo in ciascun atto viene tracciato dalla giurisprudenza costituzionale e dagli studiosi tenendo conto di molti elementi, e la lista degli atti presidenziali duali o governativi può cambiare, o essere stilata in modo diverso in diversi periodi o a seconda dei punti di vista di studiosi diversi. Per esempio, chi assume in modo molto rigoroso alcuni principi, e cioè che la forma di governo è parlamentare, il governo è responsabile davanti alle Camere, il presidente è un organo privo di responsabilità politica e pertanto non ha poteri di indirizzo, tenderà a considerare più ampia la lista degli atti governativi e duali e più ridotta quella degli atti presidenziali. Nei fatti, il progressivo indebolimento dei partiti politici, il ruolo crescente acquistato dal presidente della repubblica nella forma di governo che si è delineato negli ultimi anni, e su cui torneremo, si è tradotto anche in un significativo allargamento del novero degli atti ‘tutti presidenziali’.

Ci riferiamo, in particolare, al provvedimento di concessione della grazia. La grazia era sempre stata considerata dalla maggior parte degli studiosi un atto squisitamente duale, misto. La grazia è un provvedimento di clemenza che può avere grandi implicazioni e risonanza politica, per questo motivo si riteneva che fosse equilibrato richiedere, nella decisione sulla grazia, il convergere della valutazione imparziale del capo dello stato e della sensibilità politica del Governo. Nei primi anni 2000 l’allora Presidente della Repubblica Ciampi e l’allora Guardasigilli Castelli, esponente del Partito delle Libertà, si trovarono in dissenso in ordine al se dare o meno seguito alla richiesta di grazia presentata da Ovidio Bompressi. In gioventù esponente della formazione politica di estrema sinistra Lotta Continua, Bompressi era in carcere per il suo coinvolgimento nell’assassinio del commissario Calabresi, avvenuto nel 1972, uno degli episodi più tragici degli ‘anni di piombo’; gravemente ammalato, chiedeva la grazia. Mentre Ciampi era orientato per concederla Castelli era contrario, esprimendo anche l’orientamento del Governo. La grazia a Bompressi sarebbe stata una decisione sgradita all’elettorato che sosteneva le forze politiche allora al Governo, e quest’ultimo, pertanto, si opponeva. Ciampi sollevò allora un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale per vedere sancito a chi spetta secondo la Costituzione la decisione della grazia. Con la sentenza n. 200/2006 (emessa quando ormai era Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) la Corte costituzionale sancì che il potere di grazia è un potere squisitamente ed esclusivamente presidenziale, dunque il Ministro di Grazia e Giustizia non può opporsi alla decisione del Capo dello Stato. La Corte costituzionale motivò quella decisione dicendo che la grazia è un atto che risponde solo ed esclusivamente a motivazioni umanitarie, non politiche, e per questo è rimessa al Capo dello Stato. Secondo la Corte Costituzionale:

“deve ritenersi, che l'esercizio del potere di grazia risponda a finalità essenzialmente umanitarie, da apprezzare in rapporto ad una serie di circostanze (non sempre astrattamente tipizzabili), inerenti alla persona del condannato o comunque involgenti apprezzamenti di carattere equitativo, idonee a giustificare l'adozione di un atto di clemenza individuale, il quale incide pur sempre sull'esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie formali e sostanziali offerte dall'ordinamento del processo penale.

La funzione della grazia è, dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, consacrati nel terzo comma dell'art. 27 Cost., garantendo soprattutto il «senso di umanità», cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio desumibile dall'art. 2 Cost., non senza trascurare il profilo di «rieducazione» proprio della pena.

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È evidente, altresì, come – determinando l'esercizio del potere di grazia una deroga al principio di legalità – il suo impiego debba essere contenuto entro ambiti circoscritti destinati a valorizzare soltanto eccezionali esigenze di natura umanitaria. Ciò vale a superare il dubbio – al quale ha sostanzialmente fatto riferimento lo stesso Guardasigilli nella nota 24 novembre 2004, che ha occasionato il conflitto – che il suo esercizio possa dare luogo ad una violazione del principio di eguaglianza consacrato nell'art. 3 della Costituzione.

La stessa disamina della prassi formatasi sulla concessione della grazia dopo l'avvento della Costituzione repubblicana, pone in evidenza, in base a dati statistici ministeriali, l'esistenza di una ulteriore evoluzione dell'istituto, o meglio della funzione assolta con il suo impiego.

Se infatti molto frequente, fino alla metà degli anni '80 del secolo appena concluso, si è presentato il ricorso a tale strumento, tanto da legittimare l'idea di un suo possibile uso a fini di politica penitenziaria, a partire dal 1986 – ed in coincidenza, non casualmente, con l'entrata in vigore della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – si è assistito ad un ridimensionamento nella sua utilizzazione: valga, a titolo esemplificativo, il raffronto tra i 1.003 provvedimenti di clemenza dell'anno 1966 e gli appena 104 adottati nel 1987, ma il dato numerico è ulteriormente diminuito negli anni successivi, riducendosi fino a poche decine.

Un'evenienza, quella appena indicata, da ascrivere – come si notava – all'introduzione di una apposita legislazione in tema di trattamento carcerario ed esecuzione della pena detentiva. Ciò nella convinzione che le ordinarie esigenze di adeguamento delle sanzioni applicate ai condannati alle peculiarità dei casi concreti – esigenze fino a quel momento soddisfatte in via pressoché esclusiva attraverso l'esercizio del potere di grazia – dovessero realizzarsi mediante l'impiego, certamente più appropriato anche per la loro riconduzione alla sfera giurisdizionale, degli strumenti tipici previsti dall'ordinamento penale, processual-penale e penitenziario (ad esempio, liberazione condizionale, detenzione domiciliare, affidamento ai servizi sociali ed altri).

Ciò ha fatto sì, dunque, che l'istituto della grazia sia stato restituito – correggendo la prassi, per certi versi distorsiva, sviluppatasi nel corso dei primi decenni di applicazione della disposizione costituzionale di cui all'art. 87, undicesimo comma, Cost. – alla sua funzione di eccezionale strumento destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria.

Sotto un certo profilo, la sentenza della Corte costituzionale appare certamente ricca di significato e di senso. Se considerazioni di opportunità politica, come per esempio quelle di non scontentare il proprio elettorato, potessero prevalere sulle ragioni umanitarie, quali quelle di alleviare le sofferenze di un detenuto ormai moribondo, questo non significherebbe subordinare la dignità dell’uomo e il valore della vita umana al calcolo di utilità politica? E’ anche sensato attribuire a un organo che secondo la Costituzione è imparziale e non fa una propria politica, come il Capo dello Stato, il compito di dare spazio a quelle valutazioni che l’atto di clemenza racchiude, cioè il perdono, valutazioni che in tanto possono essere tali in quanto sono libere da secondi fini.

E’ un fatto però che il risultato della sentenza n. 200 del 2006 è stato semplicemente che il Presidente concede la grazia autonomamente, per decisione propria, e per valutazioni espressamente politiche e non ‘umanitarie’. Il Presidente Napolitano ha fatto molto discutere quando, nel 2013, ha concesso la grazia al colonnello americano Joseph Romano III, condannato in contumacia (dunque non era neppure detenuto) per avere rapito, su ordine dei servizi segreti americani e nell’ambito della lotta al terrorismo islamico, un religioso musulmano, Abu Omar, nel nostro territorio. In quella occasione i presupposti umanitari mancavano del tutto (come detto il colonello americano non era neppure detenuto), e dichiaratamente l’obiettivo della grazia è stato quello tutto politico di mantenere buone le nostre relazioni con gli Stati Uniti2. 2 Nel provvedimento si legge che “L’esercizio del potere di clemenza ha ovviato a una situazione di evidente delicatezza sotto il profilo delle

relazioni bilaterali con un Paese amico, con il quale intercorrono rapporti di alleanza e dunque di stretta cooperazione in funzione dei comuni obiettivi di promozione della democrazia e di tutela della sicurezza”.

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Il caso del potere di grazia, passato da potere ‘duale’ a potere ‘presidenziale’ è la cartina di tornasole di un aumento dei poteri del Presidente, che, in particolare con la Presidenza Napolitano, ha acquisito un ruolo autonomo di decisione e di indirizzo, forse senza precedenti. Soprattutto, l’esempio del potere di grazia ci avverte che la classificazione degli atti del Capo dello Stato in presidenziali duali e misti non solo non è fissa e sancita una volta per tutte a priori, ma descrive di periodo in periodo lo spazio e il ruolo giocati dal Capo dello Stato nella forma di governo.

2.2.Il ruolo del Capo dello Stato

Le considerazioni fatte sin qui e le nozioni sin qui raccolte ci permettono di cogliere che il Presidente della Repubblica è dunque un organo estremamente complesso: la sua attività è intrisa di politicità, ma egli non è politicamente responsabile. E’ un paradosso, perché un principio dello stato di diritto imporrebbe che dove c’è potere vi sia responsabilità (L. Carlassare).

La dottrina costituzionalistica italiana ha cercato di spiegare questo paradosso seguendo due principali filoni interpretativi sul ruolo del Capo dello Stato.

Secondo una corrente di studi il Presidente della Repubblica non va considerato un organo non-politico, ma un organo portatore di un suo particolare indirizzo politico, il cd. indirizzo politico costituzionale. Questo lo renderebbe interprete delle esigenze profonde e durature della Nazione davanti e in dialettica con le forze politiche di maggioranza. Per esempio, un Presidente convinto che il bene dell’Italia sia rimanere nella Ue, approfondire i legami con questo ordinamento ecc., potrebbe nel corso della sua presidenza muoversi, nella scelta del presidente del consiglio, nelle sue esternazioni, nelle nomine, ecc. sviluppando costantemente questa sua visione, cercando di imporla ai diversi governi. La sfera della sua politicità sarebbe superiore agli indirizzi politici contingenti portati avanti dai vari Governi, e starebbe tutta intorno e al di sopra di essi . Mentre il Governo sarebbe legittimato dal rapporto con le Camere, che lo lega solo a una maggioranza, il Presidente, eletto da una maggioranza più alta, riceverebbe, quale ‘rappresentante dell’unità nazionale’ una sorta di mandato a sviluppare e garantire le scelte che consolidano gli interessi della Nazione, al di là del cambiamento delle maggioranze e dei contingenti indirizzi politici. L’archetipo istituzionale al quale la figura del presidente della Repubblica si ispirerebbe sarebbe dunque quello del Re, immagine vivente di una unità della Nazione che permane nelle diverse fasi politiche, sovrasta la diversità di schieramenti partitici, ne contiene e armonizza le dinamiche, capisce e vede ‘di più’, e più lontano, circa ciò che è bene per la Nazione, di quello che le singole parti, cioè i partiti, il governo, e il parlamento riescono a vedere.

A questa tesi si è tradizionalmente opposta l’altra, che ha spiegato il ruolo del Presidente della Repubblica nei termini di una funzione maieutica. Secondo questa tesi il Presidente è un tramite imparziale che permette la ricerca di soluzioni ai conflitti che agitano la vita politica, un facilitatore di decisioni che mette la sua posizione terza e neutrale al servizio di una elaborazione dialettica e pacifica dei vari e numerosi snodi che la vita politica e istituzionale incontra. Chi ha sostenuto questa tesi ha esaltato il legame tra Presidente e partiti politici: quando si elegge un presidente, i partiti vanno alla ricerca di una figura ben inserita nella vita politica, che può mettersi in rapporto con tutti, perché? Perché chi è in grado di dialogare con tutti, di mediare, di fare in modo che diversi interessi e visioni entrino in relazione, può permettere a quegli interessi e a quelle visioni, di cui sono portatori i partiti, di esprimersi fattivamente senza rimanere paralizzati in conflitti e divisioni. Secondo queste interpretazioni vi è un solo indirizzo politico, quello che si

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sviluppa tra parlamento e governo in funzione delle indicazioni dell’elettorato, e il Capo dello Stato ha il ruolo di facilitare lo svolgimento dell’indirizzo politico mettendo le sue risorse di mediazione e dialogo a disposizione delle parti. L’archetipo della figura presidenziale, nel caso di queste tesi, le quali non a caso si avvalgono, per descrivere il ruolo del Presidente, di espressioni come ‘magistratura di influenza’ o ‘potere terzo e intermediario’, è quello del giudice, che esercita la virtù ‘allotria’ (rivolta al vantaggio di altri, non al vantaggio proprio) della giustizia dando a ciascuno il suo, oppure quella del Re-giudice di medievale memoria, che garantisce il mutuo rispetto tra tutti gli attori.

Le interpretazioni dottrinali sul ruolo di un organo costituzionale, in questo caso del Presidente, non sono vuote esercitazioni intellettuali ma altrettanti tentativi di offrire chiavi per affrontare problemi pratici: come è corretto, opportuno, che il Presidente si comporti in certi casi? Quanto ampia è la sua discrezionalità nel compiere certi atti? E’ ammissibile che nomini ‘governi di sua fiducia’, o deve sempre rimettersi alle scelte dei partiti, anche se non le condivide?

Le capacità ricostruttive (cioè di aderire alla realtà, spiegarne le componenti, offrire indirizzi convincenti ed efficaci per la soluzione di problemi pratici) delle diverse tesi interpretative variano nel tempo, perché nel tempo mutano le circostanze, i contesti, in cui i problemi si presentano, e mutano le sensibilità, cioè i giudizi diffusi su ciò che, in un certo ordinamento, è importante, pregevole e deve essere salvaguardato.

Le capacità ricostruttive della tesi delle funzioni maieutiche sono state molto forti finché è esistito in Italia un sistema dei partiti funzionante sulla base di certe regolarità ed effettivo protagonista della vita politica: una fase che non è andata oltre i primi anni ’90 dello scorso secolo. Da allora i partiti vivendo crisi e trasformazioni molteplici, il Presidente sembra diventato molto spesso più un decisore che un maieuta. La tesi dell’indirizzo politico costituzionale sembrerebbe qualche volta confermata dalle dinamiche più recenti, e tuttavia essa presenta un fianco scoperto molto forte, che è quello della mancanza di responsabilità politica del Capo dello Stato. Un potere politico irresponsabile (‘sacra e inviolabile’ era la persona del Re statutario) cozza secondo molti contro le premesse di una democrazia costituzionale: se la tesi dell’indirizzo politico costituzionale fosse venuta a corrispondere al vero, questo potrebbe implicare, alcuni temono, un cedimento della tenuta delle idee di fondo di quel modello organizzativo.

Coloro che si sono sforzati di interpretare la figura presidenziale in termini armonici con le premesse delle democrazie costituzionali (ricordiamo che: “ad ogni potere corrisponde responsabilità”) hanno infatti non solo rifiutato l’idea del Presidente-Re, ma hanno anche sviluppato la tesi che il Presidente è soggetto a una forma peculiare di responsabilità, la cd responsabilità diffusa, consistente nel, e garantita dal, dibattito delle opinioni, sui giornali, nei mass media, in ordine alle sue azioni e alla opportunità di esse. La differenza tra il Re statutario e il Presidente correrebbe molto su questo: del primo non si poteva parlare criticamente (semmai si potevano criticare i suoi governi), del secondo invece si può parlare criticamente senza incorrere in un delitto di ‘lesa maestà’.

Alla crescita del ruolo del Presidente segnata – come unanimemente rilevato – dalla presidenza di Giorgio Napolitano, ha coinciso però un accentuato restringimento della pubblicità della sua azione e del dibattito intorno ad essa. Un episodio molto rilevante in questo senso è stato quello inerente la utilizzabilità o meno, nel processo penale, di registrazioni telefoniche in cui –casualmente - era rimasta incisa la voce del Presidente della Repubblica. All’interno delle indagini che hanno condotto al processo che indaga su fatti di mafia e terrorismo degli anni ’90 (noto all’opinione pubblica come il processo sulla “Trattativa” perché si ipotizza che cariche dello stato

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siano state indotte ad attenuare le condizioni carcerarie di condannati per mafia dal ricatto, della mafia stessa, di compiere atti stragisti in caso contrario, di cui l’espressione ‘Trattativa’), i pubblici ministeri avevano infatti raccolto anche registrazioni siffatte. Gli stessi pubblici ministeri avevano valutato quelle registrazioni irrilevanti ai fini del processo, e la loro intenzione era distruggerle. La legge però, in omaggio ai principi del processo accusatorio, prevede che tutte le prove in possesso del pubblico ministero siano portate a conoscenza degli imputati e solo dopo questa udienza esse possano essere distrutte. Infatti, può darsi benissimo che il pubblico ministero distruggerebbe altrimenti, definendola ‘irrilevante’, una prova controproducente per l’accusa, ma per lo stesso motivo interessante per gli imputati. La difesa di questi ultimi infatti può avvalersi anche delle prove raccolte dal pubblico ministero. Sicché il problema era: possono i nastri contenenti la voce del presidente essere ascoltati in questa udienza (aperta solo alle parti ossia ai loro avvocati), come tutte le altre prove raccolte dal pm, per essere poi distrutte insieme a tutte le altre prove che pubblica accusa e parti private hanno convenuto di ritenere irrilevanti?

Il Presidente della Repubblica ritenne in questa circostanza di sollevare conflitto di attribuzione, davanti alla Corte costituzionale, contro la procura di Palermo, cui appartenevano i pubblici ministeri che avevano raccolto le prove suddette. Nell’ipotesi che i nastri fossero ascoltati, e in questo senso resi pubblici (per quanto l’udienza per la distruzione delle prove sia aperta non al pubblico, ma solo alle parti), il Presidente ravvisava una lesione della propria sfera di competenza, del proprio ruolo costituzionalmente garantito. La Corte costituzionale, con la sent. n.1 del 2013, ha dato ragione al Presidente, ritenendo che il suo ruolo costituzionale richieda che egli sia assistito, nel compimento di tutti i suoi atti, compresi in modo particolare quelli ‘informali’, di una “sfera particolarmente qualificata di riservatezza”.

Successivamente a questa sentenza, i Presidenti delle Camere in più di una occasione hanno proibito che all’interno delle Camere si svolgessero discussioni sul Presidente della Repubblica, sostenendo che sarebbe ‘vietato’ parlare del Presidente della Repubblica nelle aule parlamentari o addirittura sarebbe proibito nominarlo. Una tesi sicuramente ardita, quanto meno se si considera che il Parlamento ha il potere di mettere in stato d’accusa il Capo dello Stato per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, e non si vede come il Parlamento potrebbe arrivare a votare una simile mozione se prima i parlamentari non ne discutessero.

3. I partiti e il sistema elettorale

Le norme della nostra Costituzione in tema di forma di governo presuppongono tutte l’esistenza dei partiti; il modo in cui i partiti sono strutturati, i loro rapporti, le loro vicende, tutti questi elementi hanno avuto un condizionamento fortissimo nel qualificare il significato, cioè la portata effettiva, delle norme costituzionali sulla forma di governo, e in particolare i poteri del parlamento, il rapporto tra governo e parlamento, il comportamento del Presidente della Repubblica nella soluzione delle crisi.

Un elemento estremamente influente nel funzionamento di una forma di governo è, pertanto, il sistema elettorale, che condiziona la composizione e l’atteggiamento dei partiti politici e il loro rapporto reciproco e così si ripercuote sull’intera forma di governo.

Il sistema elettorale è stato definito come un modo per tradurre i voti in seggi. Infatti, il sistema elettorale serve a stabilire quanti “posti” (seggi) in parlamento avranno i diversi partiti politici che si candidano alle elezioni. Supponendo che gli elettori votanti siano 10 milioni, e i seggi in palio 100, le liste candidate 5 (A, B, C, D, E,) , che ricevono una 4 milioni di voti, una 3 milioni di voti, una un milione e mezzo di voti, una un milione e una mezzo milione di voti, quanti seggi andranno a ciascuna di esse? Questa domanda riceve risposte diverse a seconda del sistema elettorale adottato.

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I sistemi elettorali si dividono in due grandi famiglie, i sistemi proporzionali e i sistemi maggioritari.

3.1.Il sistema elettorale proporzionale

In linea generale, nel sistema proporzionale le liste concorrenti ricevono un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti.

Nell’esempio fatto sopra, la lista A avrà 40 deputati, B 30, C 15, D 10 e E 5.

Il sistema proporzionale si associa al voto per lista e al calcolo proporzionale dei voti. Il territorio nazionale viene diviso in circoscrizioni, e le varie liste (A B C D E) presentano i loro candidati, raggruppati in elenchi (liste), in ciascuna circoscrizione. Per ciascuna circoscrizione si calcola il totale dei voti, si calcola come questo totale si ripartisce tra le singole liste, e si elegge per ciascuna lista il numero di rappresentanti proporzionale ai voti ottenuti (si tiene conto di tutte le liste di candidati che abbiano ottenuto almeno una percentuale minima di voti, detta quoziente elettorale). Può darsi che uno o più dei partiti in lizza in una singola circoscrizione abbia superato il quoziente elettorale, ma non raggiunga il numero di voti sufficiente ad eleggere almeno uno dei suoi. Nel caso del sistema elettorale vigente da noi tra il 1946 e il 1993, questi voti residui (resti) venivano calcolati a livello nazionale (cioè sommando tutti i resti nelle singole circoscrizioni) e dalla loro somma poteva uscire un deputato o due anche per una lista molto minoritaria.

3.2.Vantaggi del sistema elettorale proporzionale

I vantaggi del sistema elettorale proporzionale sono che l’organo che risulterà eletto, il Parlamento, rispecchierà in modo fedele gli orientamenti del corpo elettorale. A meno che non vengano fissate ‘soglie di sbarramento’ (es. ottenere almeno il 4% dei voti per poter partecipare alla ripartizione dei seggi), anche un partito con un piccolo seguito elettorale può sperare di eleggere almeno un deputato o senatore. Di conseguenza, il sistema proporzionale incoraggia i partiti a presentarsi alle elezioni, e dunque favorisce l’esistenza di un numero alto di formazioni partitiche; e incoraggia gli elettori a votare, data l’alta scelta a disposizione.

3.3.Svantaggi del sistema proporzionale

D’altro canto, il sistema proporzionale (e in questo tradizionalmente molti vedono un suo svantaggio), può avere come facile conseguenza che nessun partito ottiene un numero di seggi tale da permettere la formazione di un governo che di quel solo partito sia espressione. Nel nostro esempio, nessun partito potrebbe rappresentare da solo una maggioranza di governo, e occorrerebbe q questo scopo almeno che A e B si associassero. Supponendo che A e B, che raccolgono il più vasto seguito nel corpo elettorale, siano però sue partiti molto distanti tra loro, che non possono sostenere lo stesso governo, la maggioranza potrebbe venire dalla somma di A+C, ma se anche C non va d’accordo con A, la maggioranza richiederebbe almeno tre partiti, A+D+E. Il sistema elettorale proporzionale si associa naturalmente a governi di coalizione, cioè formati da più partiti. Questi governi tenderebbero, si sostiene, ad avere un programma più incerto e “compromissorio” (perché risulta dall’accordo tra i punti di vista diversi dei diversi partiti membri) e una vita più debole (c’è sempre il rischio che un partito che fa parte della maggioranza, al momento del voto in parlamento su una proposta del governo si “dissoci” e voti con la minoranza), che non i governi composti da un solo partito (almeno se questo partito è coeso al suo interno).

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Inoltre, il governo di coalizione può dare un peso sproporzionato a un partito piccolo. Nel nostro esempio è grazie ad E, coi suoi 5 seggi, che il governo ha la maggioranza. Con la minaccia di dissociarsi dal governo E può avere una enorme influenza, non giustificata dal suo ridotto seguito elettorale (cd. legge dell’ago della bilancia). Se investito in modo ricattatorio, il peso del partito piccolo nella coalizione non corrisponde al peso che esso ha in termini elettorali, e questa sproporzione introduce un elemento di alterazione della rappresentanza elettorale.

3.4.Il sistema elettorale maggioritario

Il sistema elettorale maggioritario assegna alle liste concorrenti un numero di seggi più che proporzionale ai voti ottenuti e in genere tale da assicurare alla lista che ha ottenuto più voti degli altri almeno la maggioranza assoluta in Parlamento.

Se 5 liste candidate (A, B, C, D, E,) ricevono una 4 milioni di voti, una 3 milioni di voti, una un milione e mezzo di voti, una un milione e una mezzo milione di voti, che corrispondono al 40%, 30%, 10% e 5% dei voti, col proporzionale, la lista A avrà 40 deputati, B 30, C 15, D 10 e E 5. Con un maggioritario, la lista A avrà almeno 51 deputati, e B C D ed E si ripartiranno i restanti 49 (mentre in precedenza se ne ripartivano 60) con un quadro che potrebbe essere B : 27, C: 13, D: 8, E: 1. Nel maggioritario, chi ha più voti degli altri viene sovra-rappresentato, e chi ha meno voti viene sotto-rappresentato o rischia anche di non venire rappresentato affatto, pur avendo ottenuto voti.

I sistemi maggioritari si associano di solito a un meccanismo di attribuzione dei voti per cui ogni circoscrizione elegge solo il o i candidati (questo varia a seconda del tipo di sistema maggioritario adottato) che hanno ottenuto la maggioranza dei voti, o almeno più voti degli altri. Per esempio, nella circoscrizione Lazio si candidano le nostre cinque liste A B C D E, e A ottiene più voti di tutte: solo il candidato o i candidati di A vengono eletti. In molti casi, e tradizionalmente, il sistema maggioritario è associato a circoscrizioni uninominali (le circoscrizioni elettorali sono molto piccole e in ciascuna di esse ogni forza politica presenta un candidato, viene eletto quello che raggiunge la maggioranza dei voti o che, al ‘ballottaggio’, cioè in una seconda fase del procedimento elettorale destinata a selezionare i due candidati che hanno raggiunto un certo numero di voti ma nessuno dei quali ha avuto la maggioranza, supera l’avversario).

L’effetto maggioritario si ottiene anche quando al sistema proporzionale di calcolo dei voti viene aggiunto il cd. premio di maggioranza. In queste ipotesi, i voti vengono calcolati in modo proporzionale, ma poi si dà un premio alla lista che ha avuto più voti delle altre, di solito in modo da darle almeno la maggioranza assoluta dei seggi (e corrispondentemente, sottraendo seggi alle altre, rispetto a quelli cui col calcolo proporzionale avrebbero avuto titolo). Di solito si stabilisce in questi casi una ‘soglia’ cioè una percentuale dei voti totali che un partito deve raggiungere affinché scatti in suo favore il premio di maggioranza.

I sistemi maggioritari sono selettivi, nel senso che, anziché portare in parlamento i rappresentanti di tendenzialmente tutte le liste che si sono presentate, tende a portarvi solo i rappresentanti delle liste che hanno avuto la maggioranza dei voti, mentre le forze che raggiungono anche tanti voti, ma meno dell’altra, restano fuori.

3.5.Vantaggi e svantaggi del sistema elettorale maggioritario

I sistemi maggioritari tendono a scoraggiare le forze politiche piccole a presentarsi alle elezioni, se non in alleanza con altre forze politiche. Tendono dunque a semplificare il sistema dei partiti

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intorno a due tre grandi forze, oppure, come è accaduto da noi, a spingere i partiti a formare coalizioni, anche ampie, pre-elettorali, cioè a presentarsi alleati alle elezioni in modo da usufruire insieme del premio di maggioranza. I sistemi maggioritari sono anche causa di disaffezione al voto: le persone che non si riconoscono in alcuna delle poche forze politiche che si candidano, preferiscono infatti non votare.

Il vantaggio starebbe nella governabilità. Siccome dal sistema maggioritario esce una forza che in Parlamento ha almeno il 51 per cento dei seggi, esso renderebbe più facile la formazione del governo, più solida la maggioranza, più forte il programma di governo e più stabile, meno litigioso, l’esecutivo.

3.6.I sistemi elettorali in Italia

Sino al 1993 in Italia le Camere sono state elette con un sistema elettorale proporzionale. Anche l’Assemblea Costituente era stata eletta con questo tipo di sistema elettorale. I motivi erano scritti nella nostra storia e nel nostro presente di allora. Il paese era uscito dalla guerra e dalla dittatura con profonde divisioni ideologiche: il corpo elettorale si orientava tra due forze polarizzate, un grande partito di ispirazione cattolica, filoatlantico, come la Democrazia Cristiana (DC) e un grande partito di ispirazione comunista (PCI). Dopo anni di dittatura, la democrazia doveva essere consolidata. Si pensò che un sistema elettorale proporzionale, che garantiva a tutti gli elettori di vedere la forza politica in cui si riconoscevano rappresentata in parlamento, potesse rafforzare il radicamento della democrazia. Nel 1993, per effetto di un referendum abrogativo, e in concomitanza con un momento di profonda sfiducia nei partiti, dovuto all’emergere della conoscenza di gravi e diffusi fatti corruttivi (“Tangentopoli”) la legge elettorale proporzionale fu abrogata. Essa venne sostituita da un sistema di tipo maggioritario misto a elementi di proporzionale (il 75% dei seggi veniva assegnato con metodo maggioritario e il restante 25% con metodo maggioritario). Nel 2005, è stata approvata una nuova legge elettorale che adotta un sistema proporzionale di calcolo dei voti con premio di maggioranza, volta a garantire che comunque la coalizione o la singola lista più votata abbia la maggioranza in Parlamento. La legge è stata molto criticata perché non consente agli elettori l’espressione del voto di preferenza, riservando così interamente ai partiti la scelta sulle possibilità di successo dei candidati, e perché il premio di maggioranza scatta a favore della coalizione che abbia avuto un solo voto più delle altre senza bisogno che abbia raggiunto una soglia minima di voti (se il partito o la coalizione A ottiene il 26% dei voti e B il 25% dei voti, A ottiene il 51% dei seggi).

Dopo avere dichiarato inammissibile una richiesta di referendum abrogativo presentata nel 2010 contro la legge elettorale, la Corte Costituzionale ha invece accolto una questione di legittimità costituzionale sollevata contro di essa, che è stata dichiarata incostituzionale in particolare per il carattere spropositato del premio di maggioranza che altera e distorce gli orientamenti effettivi del corpo elettorale, e per la mancanza della possibilità per gli elettori di esprimere preferenze.

Leggiamo alcuni stralci di questa sentenza, che è interessante anche perché in essa la Corte fa uso di un criterio di giudizio chiamato principio di proporzionalità, che nella sua giurisprudenza più recente sta affiancando il più tradizionale principio di ragionevolezza e quasi ne sta prendendo il posto. Prediletto da Corti straniere (come quella tedesca) e dalle Corti sovranazionali, il principio di proporzionalità appare più ‘oggettivo’ della ragionevolezza perché, come vedremo leggendo la sentenza, si traduce in una specie di test cui vengono sottoposte le misure legislative esaminate (hanno esse compresso un diritto in una misura eccessiva, potendo esistere un modo di regolare la materia che sacrificasse meno il diritto considerato?). Con il principio di proporzionalità si vuole dare l’impressione che la giurisdizione ‘misuri’ e non ‘valuti’, cioè operi secondo i canoni

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della razionalità scientifica. Chi ricorda le considerazioni che abbiamo fatto nel corso delle nostre precedenti lezioni in ordine alle due accezioni, quantitativa e qualitativa, dell’eguaglianza, può forse cogliere che la ‘proporzionalità’ riporta in prima linea una concezione quantitativa dell’uguaglianza. Essa è la spia della larga diffusione che nei tempi attuali, dominati da finalità economicistiche, tornano ad avere visioni ‘razionalistiche’.

La sentenza nasce da un giudizio in via incidentale. Un cittadino aveva sollevato un giudizio affinché fosse “accertato che il suo diritto di voto non aveva potuto e non può essere esercitato in coerenza con i principi costituzionali” dati i caratteri della vigente legge elettorale.

SENTENZA N. 1 ANNO 2014

3.1.– La questione è fondata.

Questa Corte ha da tempo ricordato che l’Assemblea Costituente, «pur manifestando, con l’approvazione di un ordine del giorno, il favore per il sistema proporzionale nell’elezione dei membri della Camera dei deputati, non intese irrigidire questa materia sul piano normativo, costituzionalizzando una scelta proporzionalistica o disponendo formalmente in ordine ai sistemi elettorali, la configurazione dei quali resta affidata alla legge ordinaria» (sentenza n. 429 del 1995). Pertanto, la «determinazione delle formule e dei sistemi elettorali costituisce un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa» (sentenza n. 242 del 2012; ordinanza n. 260 del 2002; sentenza n. 107 del 1996). Il principio costituzionale di eguaglianza del voto – ha inoltre rilevato questa Corte – esige che l’esercizio dell’elettorato attivo avvenga in condizione di parità, in quanto «ciascun voto contribuisce potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi» (sentenza n. 43 del 1961), ma «non si estende […] al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore […] che dipende […] esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari» (sentenza n. 43 del 1961).

Non c’è, in altri termini, un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico.

Il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 242 del 2012 e n. 107 del 1996; ordinanza n. 260 del 2002).

In ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, quale quello in esame, siffatto scrutinio impone a questa Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988). Il test di proporzionalità utilizzato da questa Corte come da molte delle giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme con quello di ragionevolezza, ed essenziale strumento della Corte di giustizia dell’Unione europea per il controllo giurisdizionale di legittimità degli atti dell’Unione e degli Stati membri, richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi.

Nella specie, le suddette condizioni non sono soddisfatte.

Le disposizioni censurate sono dirette ad agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale, ciò che costituisce senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo. Questo obiettivo è perseguito mediante un meccanismo premiale destinato ad essere attivato ogniqualvolta la votazione con il sistema proporzionale non abbia assicurato ad alcuna lista o coalizione di liste un numero di voti tale da tradursi in una maggioranza anche superiore a quella assoluta di seggi (340 su 630). Se dunque si verifica tale eventualità, il meccanismo premiale garantisce l’attribuzione di seggi aggiuntivi (fino alla soglia dei 340 seggi) a quella lista o coalizione di liste che abbia ottenuto anche un solo voto in più delle altre, e ciò pure nel caso che il numero di voti sia in assoluto molto esiguo, in difetto della previsione di una soglia minima di voti e/o di seggi.

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Le disposizioni censurate non si limitano, tuttavia, ad introdurre un correttivo (ulteriore rispetto a quello già costituito dalla previsione di soglie di sbarramento all’accesso, di cui al n. 3 ed al n. 6 del medesimo comma 1 del citato art. 83, qui non censurati) al sistema di trasformazione dei voti in seggi «in ragione proporzionale», stabilito dall’art. 1, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 361 del 1957, in vista del legittimo obiettivo di favorire la formazione di stabili maggioranze parlamentari e quindi di stabili governi, ma rovesciano la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso legislatore del 2005, che è quella di assicurare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare. In tal modo, dette norme producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.

In altri termini, le disposizioni in esame non impongono il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti; e ad essa assegnano automaticamente un numero anche molto elevato di seggi, tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Risulta, pertanto, palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di «una caratterizzazione tipica ed infungibile» (sentenza n. 106 del 2002), fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.): ciò che peraltro distingue il Parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali.

Il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza prefigurato dalle norme censurate, inserite nel sistema proporzionale introdotto con la legge n. 270 del 2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è pertanto tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.). Esso, infatti, pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sentenza n. 43 del 1961) ed assume sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto.

Le norme censurate, pur perseguendo un obiettivo di rilievo costituzionale, qual è quello della stabilità del governo del Paese e dell’efficienza dei processi decisionali nell’ambito parlamentare, dettano una disciplina che non rispetta il vincolo del minor sacrificio possibile degli altri interessi e valori costituzionalmente protetti, ponendosi in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost. In definitiva, detta disciplina non è proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, posto che determina una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente.

Deve, quindi, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957.

4.– Le medesime argomentazioni vanno svolte anche in relazione alle censure sollevate, in relazione agli stessi parametri costituzionali, nei confronti dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993, che disciplina il premio di maggioranza per le elezioni del Senato della Repubblica, prevedendo che l’Ufficio elettorale regionale, qualora la coalizione di liste o la singola lista, che abbiano ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’àmbito della circoscrizione, non abbiano conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, assegni alle medesime un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione.

Anche queste norme, nell’attribuire in siffatto modo il premio della maggioranza assoluta, in ambito regionale, alla lista (o coalizione di liste) che abbia ottenuto semplicemente un numero maggiore di voti rispetto alle altre liste, in difetto del raggiungimento di una soglia minima, contengono una disciplina manifestamente irragionevole, che comprime la rappresentatività dell’assemblea parlamentare, attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (garantire la stabilità di governo e l’efficienza decisionale del sistema), incidendo anche sull’eguaglianza del voto, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.

Nella specie, il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in modo più netto rispetto alla disciplina prevista per l’elezione della Camera dei deputati. Essa, infatti, stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato. In definitiva, rischia di

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vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo. E benché tali profili costituiscano, in larga misura, l’oggetto di scelte politiche riservate al legislatore ordinario, questa Corte ha tuttavia il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente, come nella specie, i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.

Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993.

5.– Occorre, infine, esaminare le censure relative all’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 e, in via consequenziale, all’art. 59, comma 1, del medesimo d.P.R., nonché all’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono: l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, che «Ogni elettore dispone di un voto per la scelta della lista ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale, da esprimere su un’unica scheda recante il contrassegno di ciascuna lista»; l’art. 59 del medesimo d.P.R. n. 361, che «Una scheda valida per la scelta della lista rappresenta un voto di lista»; nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, che «Il voto si esprime tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta».

Secondo il rimettente, tali disposizioni, non consentendo all’elettore di esprimere alcuna preferenza, ma solo di scegliere una lista di partito, cui è rimessa la designazione e la collocazione in lista di tutti i candidati, renderebbero il voto sostanzialmente “indiretto”, posto che i partiti non possono sostituirsi al corpo elettorale e che l’art. 67 Cost. presuppone l’esistenza di un mandato conferito direttamente dagli elettori. Ciò violerebbe gli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, Cost., l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 del protocollo 1 della CEDU, che riconosce al popolo il diritto alla “scelta del corpo legislativo”, e l’art. 49 Cost. Inoltre, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, farebbero sì che il voto non sia né libero, né personale, in violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost.

5.1.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati.

Le norme censurate, concernenti le modalità di espressione del voto per l’elezione dei componenti, rispettivamente, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, si inseriscono in un contesto normativo in base al quale tale voto avviene per liste concorrenti di candidati presentati «secondo un determinato ordine», in numero «non inferiore a un terzo e non superiore ai seggi assegnati alla circoscrizione». Le circoscrizioni elettorali, la cui disciplina non è investita dalle censure qui esaminate, corrispondono sempre, per il Senato, ai territori delle Regioni; per la Camera dei deputati, le circoscrizioni corrispondono ai territori regionali, con l’eccezione delle Regioni di maggiori dimensioni, nelle quali sono presenti due circoscrizioni (Piemonte, Veneto, Lazio, Campania e Sicilia) o tre (Lombardia).

La ripartizione dei seggi tra le liste concorrenti è, inoltre, effettuata in ragione proporzionale, con l’eventuale attribuzione del premio di maggioranza, che è definito, per il Senato, «di coalizione regionale»; e sono proclamati «eletti, nei limiti dei seggi ai quali ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista medesima, secondo l’ordine di presentazione» nella lista.

In questo quadro, le disposizioni censurate, nello stabilire che il voto espresso dall’elettore, destinato a determinare per intero la composizione della Camera e del Senato, è un voto per la scelta della lista, escludono ogni facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei candidati nella stessa, ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti. La scelta dell’elettore, in altri termini, si traduce in un voto di preferenza esclusivamente per la lista, che – in quanto presentata in circoscrizioni elettorali molto ampie, come si è rilevato – contiene un numero assai elevato di candidati, che può corrispondere all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall’elettore stesso.

Una simile disciplina priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti . A tal proposito, questa Corte ha chiarito che «le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee – quali la “presentazione di alternative elettorali” e la “selezione dei candidati alle cariche elettive pubbliche” – non consentono di desumere l’esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell’ambito del procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 Cost.» (ordinanza n. 79 del 2006). Simili funzioni devono, quindi, essere preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini ed alla realizzazione di linee programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al corpo elettorale, al fine di consentire una scelta più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati.

Sulla base di analoghi argomenti, questa Corte si è già espressa, sia pure con riferimento al sistema elettorale vigente nel 1975 per i Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti, contraddistinto anche esso dalla ripartizione dei seggi in ragione proporzionale fra liste concorrenti di candidati. In quella occasione, la Corte ha affermato che la circostanza che il legislatore abbia lasciato ai partiti il compito di indicare l’ordine di presentazione delle candidature non lede in alcun modo la libertà di voto del cittadino: a condizione che quest’ultimo sia «pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che

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concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza» (sentenza n. 203 del 1975).

Nella specie, tale libertà risulta compromessa, posto che il cittadino è chiamato a determinare l’elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell’ordine di presentazione, sì che anche l’aspettativa relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito.

In definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione . Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali).

Le condizioni stabilite dalle norme censurate sono, viceversa, tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Anzi, impedendo che esso si costituisca correttamente e direttamente, coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 Cost. (sentenza n. 16 del 1978).

Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati, al fine di determinarne l’elezione.

Resta, pertanto, assorbita la questione proposta in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 del protocollo 1 della CEDU. Peraltro, nessun rilievo assume la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 13 marzo 2012 (caso Saccomanno e altri contro Italia), resa a seguito di un ricorso proposto da alcuni cittadini italiani che deducevano la pretesa violazione di quel parametro precisamente dalle norme elettorali qui in esame, sentenza che ha dichiarato tutti i motivi di ricorso manifestamente infondati, sul presupposto dell’«ampio margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati in materia» (paragrafo 64). Spetta, in definitiva, a questa Corte di verificare la compatibilità delle norme in questione con la Costituzione.

6.– La normativa che resta in vigore per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione è «complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo», così come richiesto dalla costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 13 del 2012). Le leggi elettorali sono, infatti, “costituzionalmente necessarie”, in quanto «indispensabili per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali» (sentenza n. 13 del 2012; analogamente, sentenze n. 15 e n. 16 del 2008, n. 13 del 1999, n. 26 del 1997, n. 5 del 1995, n. 32 del 1993, n. 47 del 1991, n. 29 del 1987), dovendosi inoltre scongiurare l’eventualità di «paralizzare il potere di scioglimento del Presidente della Repubblica previsto dall’art. 88 Cost.» (sentenza n. 13 del 2012).

7.– È evidente, infine, che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere.

Essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto. Vale appena ricordare che il principio secondo il quale gli effetti delle sentenze di accoglimento di questa Corte, alla stregua dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, risalgono fino al momento di entrata in vigore della norma annullata, principio «che suole essere enunciato con il ricorso alla formula della c.d. “retroattività” di dette sentenze, vale però soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984).

Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti.

Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali.

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Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare. Tanto ciò è vero che, proprio al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione a prevedere, ad esempio, a seguito delle elezioni, la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti «finchè non siano riunite le nuove Camere» (art. 61 Cost.), come anche a prescrivere che le Camere, «anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni» per la conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo (art. 77, secondo comma, Cost.).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica);

3) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2013.

Per effetto di questa decisione, tutte le parti della legge elettorale dichiarate incostituzionali sono state annullate e pertanto la legge elettorale del 2005 è rimasta in vigore ma senza il premio di maggioranza e con il metodo delle preferenze. Siccome un principio fondamentale di ogni democrazia costituzionale, richiamato molte volte dalla stessa Corte costituzionale, e anche nella sentenza che abbiamo appena letto, è che per nessun motivo per nemmeno un’ora un paese può vivere senza una legge elettorale (perché significherebbe che le elezioni non sono possibili, dunque che il principio di sovranità popolare è infranto). In teoria, dunque, già dal giorno successivo la dichiarazione di incostituzionalità elezioni avrebbero potuto essere convocate e si sarebbero potute svolgere, e vi è chi ha considerato questa scelta non solo opportuna, ma anche doverosa, perché i rapporti di forza attualmente presenti in Parlamento, particolarmente il numero di seggi, dunque di voti, di cui dispone il partito che ha goduto del premio di maggioranza sono il frutto di una alterazione della rappresentanza politica. Tuttavia, questa scelta è stata immediatamente esclusa dal capo dello Stato e dal Governo allora in carica e dalle forze politiche, per un motivo tutto sommato intuibile: ogni legge elettorale è il frutto di previsioni su quelli che saranno i risultati elettorali, la si fa, diciamo, in vista dell’ottenimento di certi schemi di governo, e votare con una legge che non è il risultato di quelle previsioni, ma dell’abrogazione di una parte di una legge preesistente sarebbe, per i partiti, esporsi al rischio di risultati ‘a caso’, ‘fuori schema’ che ‘renderebbero difficile la governabilità’. Le forze politiche, un anno dalla dichiarazione di incostituzionalità del ‘Porcellum’, hanno raggiunto un accordo sulla nuova legge elettorale (che va sotto il nome di ‘Italicum’): i nodi che hanno fatto più discutere sono stati se attribuire il premio di coalizione al partito o alla coalizione di partiti che si presenti alleata alle elezioni; dove fissare la soglia per ottenere il premio di maggioranza; come reintrodurre le preferenze. Quest’ultimo è un problema molto grave per le forze politiche, perché le la mancanza di preferenze consente di comporre le liste dei candidati in modo del tutto deciso dal partito, e offre a quest’ultimo un notevole potere ‘di ricatto’ sui suoi eletti, garantendo una maggiore ‘fedeltà’, laddove la reintroduzione delle preferenze confligge con questi obiettivi.

Nei fatti, dunque, dopo la sent. n. 1 del 2014 si è creata una situazione così descrivibile: vi era una legge elettorale formalmente vigente, ma era una legge elettorale con cui ‘non si poteva’ andare a votare perché avrebbe dato risultati imprevedibili, data, quanto meno, l’ impossibilità per i partiti di

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controllare la selezione degli eletti che sarebbe derivata dalla reintroduzione piena delle preferenze. In simili condizioni, avere una legge elettorale o non averla fa poca differenza, di fatto le elezioni non sono ‘politicamente’ possibili, e questo può giustificare qualche preoccupazione in relazione allo ‘stato di salute’ del principio di sovranità popolare in Italia, che appare in qualche modo condizionato o subordinato alle ‘compatibilità’ dei partiti (se i partiti non sono ‘pronti’ per un motivo o per un altro, ad andare ad elezioni, non si vota a meno che non scada la legislatura). Questo dato non costituisce una novità, lo si può per certi versi addirittura considerare fisiologico in una democrazia fondata sulla rappresentanza partitica. Gli scioglimenti anticipati, la decisione di andare ad elezioni prima della scadenza della legislatura, hanno sempre corrisposto, da noi, a momenti di ri-allocazione dei rapporti tra i partiti e di ri-definizione delle alleanze di governo. In altre democrazie parlamentari si concede normalmente al Governo di sciogliere le camere quando al partito che è al governo ciò sembra opportuno per avere una conferma o un rafforzamento della propria maggioranza. Tuttavia non era mai successo, e non succede nelle democrazie, come quella britannica, che spesso vengono portate a esempio di modelli meglio funzionanti del nostro, che il controllo dei partiti sul momento elettorale si traducesse in una incertezza su quale sarà la legge elettorale con cui andremo a votare (la vecchia? Una nuova?). In democrazia, si è sempre detto, le regole devono pre-esistere al gioco, mentre l’incertezza sulla legge elettorale dà icasticamente l’immagine di giocatori (i partiti) che ri-modellano le regole del gioco in funzione della partita che stanno giocando, o meglio, che sono disposti ad andare a giocare solo dopo essersi assicurati un notevole controllo circa quale esito avrà la partita. Una partita, in altri termini, del cui risultato sembra che gli elettori siano quasi apertamente chiamati solo a dare una ratifica a posteriori.

La situazione sin qui descritta è cambiata di poco dopo l’approvazione, nel 2015, della nuova legge elettorale ‘Italicum’. Questa legge è applicabile solo alla Camera dei Deputati perché il suo presupposto è che sarà applicata per la prima volta solo dopo l’entrata in vigore della revisione costituzionale che prevede, tra l’altro, che il Senato non sarà più eletto a suffragio universale. Sulle caratteristiche dell’Italicum e della legge di revisione del Senato e del Titolo V sarà dedicato un approfondimento nella parte integrativa del corso dell’a.a. 2015-2016.

4 . Uno strumento di democrazia diretta in un sistema imperniato sulla democrazia rappresentativa: il referendum abrogativo

Insieme al referendum confermativo previsto nel procedimento di revisione costituzionale il referendum abrogativo è l’unico strumento di democrazia diretta previsto dalla nostra Costituzione ed è uno strumento attraverso il quale il corpo elettorale si esprime, anziché eleggendo i propri rappresentanti, direttamente su una certa questione. Vediamone il funzionamento.

4.1.ll procedimento referendario

Secondo l’art. 75 della nostra Costituzione

“E’ indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali.

“Non è ammesso referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali.

“Hanno diritto a partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati.

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“La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se si è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

La Costituzione istituisce il referendum e ne pone, nelle grandi linee, il procedimento; dice inoltre che certi tipi di legge non sono sottoposti a referendum. La legge costituzionale del 1948 che regola i procedimenti davanti alla Corte costituzionale previde inoltre che il giudizio sulla ammissibilità del referendum spettasse a quest’ultima. Ma per fare funzionare effettivamente l’istituto occorreva una legge che lo regolasse nel dettaglio, e questa legge è stata approvata solo nel 1970 (prima di allora, dunque, il referendum era un istituto esistente solo ‘sulla carta’).

In base al combinato disposto della Costituzione, della legge costituzionale sul funzionamento della Corte costituzionale e della legge ordinaria sul referendum, il procedimento referendario è il seguente:

a dare il via al procedimento è il comitato promotore, un gruppo di persone che individua il quesito referendario, cioè la legge da abrogare e le parti di essa che si intende abrogare e predispone la domanda che si sottoporrà al corpo elettorale. Il comitato procede alla raccolta delle firme;

una volta raccolte le firme, il quesito e le firme vengono depositati presso un organo appositamente istituito, l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione, che esamina la regolarità delle firme, e controlla inoltre che il quesito riguardi disposizioni di legge effettivamente in vigore. (Se il referendum è a iniziativa regionale il procedimento non richiede raccolta di firme e inizia con l’esame del quesito e della sua regolarità da parte dell’Ufficio centrale).

Una volta superato il controllo presso l’Ufficio centrale, il quesito passa alla Corte costituzionale, che esamina l’ammissibilità.

Se il quesito supera l’esame di ammissibilità, che deve concludersi entro il 10 febbraio, la consultazione referendaria viene fissata in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno successivi.

Bisogna tenere presente che durante tutto il corso del procedimento referendario il parlamento rimane in grado di modificare la legge sottoposta a referendum. Originariamente la legge del 1970 prevedeva che qualunque modifica apportata alla legge sottoposta al referendum comportasse l’automatica cessazione del procedimento referendario, anche se il referendum era già stato indetto. In tal modo si faceva salva la possibilità di evitare il referendum approvando una modifica anche solo apparente della legge sulla quale il referendum era stato richiesto. In seguito a una pronuncia della Corte costituzionale è stato chiarito che se la legge sottoposta a referendum viene modificata nell’intervallo tra il giudizio di ammissibilità e la data delle operazioni di voto, l’Ufficio centrale per il referendum deve esaminare la nuova legge e, a meno che quest’ultima non rappresenti una modifica reale della legge previgente, esso trasferisce il quesito sulla nuova legge.

4.2.Requisiti di ammissibilità del referendum

Con una importantissima decisione del 1976, la Corte costituzionale ha anche dettato una serie di principi sulla ammissibilità del referendum, che integrano le previsioni dell’art. 75 Cost. Si è trattato di una sentenza-legge, cioè di una sentenza che ha stabilito che per i casi futuri la Corte avrebbe osservato, nel sindacare la ammissibilità del referendum, tutta una serie di criteri che non stanno scritti nell’art. 75 ma che la Corte, nella sua sentenza, concepisce come logicamente discendenti da quello che nell’art. 75 è detto espressamente.

L’art. 75 stabilisce due criteri: che il referendum deve avere ad oggetto leggi o atti aventi forza di legge (decreti legge e leggi delegate) e che esso non può riguardare leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Il motivo per cui queste

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categorie di leggi non possono essere sottoposte al referendum è che nel primo caso (leggi tributarie) sarebbe fin troppo prevedibile che leggi che prevedono tasse sarebbero abrogate; nell’ultimo (leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali) l’abrogazione potrebbe esporre lo stato, firmatario di un trattato, a una responsabilità internazionale; inoltre, tutte queste leggi hanno a che vedere con le manifestazioni fondamentali della sovranità (la potestà finanziaria e impositiva, la potestà punitiva e di clemenza in materia penale, il potere estero).

Partendo dai due criteri esplicitamente posti dall’art. 75 la Corte ha desunto che devono altresì considerarsi esclusi dal referendum:

a) Le leggi costituzionali e di revisione costituzionale e gli atti regolamentari (in quanto sono ammesse solo le leggi e gli atti aventi forza di legge, dunque devono ritenersi esclusi da referendum tutti gli altri atti normativi);

b) Le leggi costituzionale e di revisione costituzionale e leggi ordinarie che hanno una particolare connessione con la Costituzione, e cioè : b1) le leggi costituzionalmente necessarie, e b2) le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato.

Le leggi costituzionalmente necessarie sono le leggi ordinarie che sono necessarie a permettere il funzionamento di organi o istituti costituzionali. Rientra tra queste la legge elettorale, non potendosi ammettere in una democrazia, ha detto più volte la Corte, che anche per un solo giorno manchi la legge che rende possibile lo svolgimento delle elezioni. Tuttavia, di fronte a richieste di referendum di tale forza politica (come quelle che hanno teso all’abrogazione della legge elettorale proporzionale del 1993) che non sarebbe stato possibile, sensato arginarle dichiarando inammissibile il referendum (ciò che sarebbe suonato come una autoritaria limitazione della possibilità per il popolo di esprimersi su una materia molto importante), la Corte ha in seguito precisato che, in caso di referendum che hanno ad oggetto leggi elettorali, occorre che il quesito sia formulato in modo tale che dall’eventuale abrogazione esca una normativa in grado di funzionare. Perciò, il quesito referendario in caso di referendum su legge elettorale deve essere un quesito ‘manipolativo’: un quesito che toglie varie parti alla legge elettorale vigente e le toglie in modo che quello che resta disegni una legge elettorale funzionante (e diversa da quella vigente).

Le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato sono le leggi ordinarie che contengono alcune scelte così corrispondenti ai principi e ai valori costituzionali che devono essere considerate come loro attuazione e pertanto indisponibili. Per esempio, la Corte costituzionale ha dato applicazione a questo criterio nel 2004 in occasione dei referendum sulla legge sulla fecondazione assistita. Erano stati presentati diversi quesiti, uno dei quali prevedeva l’abrogazione della parte della legge in cui si parla di “interesse dell’embrione”, considerando l’embrione come un essere vivente che ha diritto alla vita. Questo quesito è stato considerato inammissibile perché ‘costituzionalmente vincolato’ nel senso che la protezione dell’interesse dell’embrione è, a giudizio della Corte, una scelta che non riflette le sole preferenze della maggioranza che ha approvato la legge sulla fecondazione assistita, ma il valore costituzionale della protezione della vita.

c) Le leggi ‘connesse’ a quelle espressamente enunciate nell’art. 75 Cost., cioè che hanno caratteristiche, contenuti e finalità analoghe; per esempio la legge finanziaria (ora legge di stabilità) come legge connessa a quella di bilancio.

Altri limiti sono stati dedotti dall’art. 48 che riguarda il diritto di voto e che dice che il voto è ‘personale, uguale, libero e segreto’. Dal principio di libertà del voto la Corte ha dedotto il criterio secondo cui il quesito referendario deve essere univoco, chiaro ed omogeneo. Infatti, se all’elettore viene sottoposto un quesito non chiaro, oppure se gli si sottopone, nello stesso quesito, la domanda se abrogare parti diverse di una legge, la libertà del voto è coartata, in quanto l’elettore potrebbe voler abrogare una parte della legge, ma non l’altra parte, ma, se le due parti sono investite

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da un unico quesito, all’elettore non rimane che dire sì o no all’abrogazione di tutte e due le parti, così vedendo impedita la propria libertà di scelta.

4.3.L’innesto del referendum nella forma di governo

In Italia è stata molto discussa e studiata una tematica che va sotto il nome di ‘innesto’ del referendum nella forma di governo: strumento di democrazia diretta inserito in una democrazia rappresentativa, il referendum esprime funzioni molto complesse dovute al fatto che esso realizza una interazione (o una ‘inteferenza’) del corpo elettorale nell’agenda dei partiti e delle istituzioni rappresentative, e questa interazione può avere vari effetti ed esiti.

Nel suo Manuale di diritto costituzionale, il costituzionalista Francesco Bilancia individua queste diverse possibilità di “innesto”:

a) Il referendum può determinare l’ingresso nell’arena politica di nuovi soggetti, gruppi, partiti, che non erano rappresentati fino a quel momento in Parlamento. Si può pensare all’esempio del Partito radicale, nato di fatto come movimento di opinione ed affermatosi poi nel sistema politico rappresentativo proprio grazie al sistematico ricorso all’istituto del referendum, a partire alla metà degli anni 1970. Oppure, più di recente, primi anni 1990, al movimento per la riforma elettorale in senso maggioritario: il comitato promotore aveva tutte le premesse per dare vita a una nuova forza politica, che però poi si è ‘sciolta’ all’interno di diversi partiti.

b) Il referendum può essere utilizzato dai partiti, da soli o in alleanza con gruppi spontanei della società civile, per ottenere certi effetti all’interno o nei confronti del sistema dei partiti. Il referendum sul divorzio, primo referendum della storia del Paese (1974) si risolse in parte in un attacco alle componenti più conservatrici della Democrazia cristiana, attacco nato anche all’interno della stessa DC, le cui correnti più progressiste e favorevoli a una futura alleanza con il PCI favorirono il referendum, sperando che la vittoria dei no all’abrogazione del divorzio indebolisse le correnti più conservatrici; il referendum sull’aborto (1978) originò da una iniziativa dei Radicali e di forze di estrema sinistra anche come attacco al Partito comunista, che non intendeva affrontare il tema dell’aborto né altri temi che lo avrebbero troppo diviso dalla Democrazia cristiana rallentando o impedendo la strategia del compromesso storico, e che veniva perciò ‘denunciato’ come troppo poco sensibile a temi progressisti; i referendum elettorali del 1993 (che per la loro importanza costituiscono peraltro un caso a sé) hanno determinato una radicale trasformazione dell’intero sistema politico italiano; in altri casi a noi più recenti, il referendum in materia elettorale è stato strumentalizzato, scrive Bilancia, dai partiti di maggioranza relativa allo scopo di sovra-rappresentare se stessi in Parlamento, mediante l’accentuazione dei caratteri maggioritari del sistema elettorale. E' stato il caso dei referendum del 2009 coi quali si intendeva abrogare la parte della legge elettorale che richiede ai partiti di allearsi in coalizioni prima delle elezioni, e pertanto divide tra i partner della coalizione il premio elettorale. Se il referendum fosse passato, questo avrebbe garantito una sovra-rappresentazione al partito che ottenesse più voti, sostanzialmente nullificando il peso di tutti gli altri partiti. In quel caso non si raggiunse il quorum necessario a rendere valido il referendum (come ricordiamo, è necessario infatti che al referendum partecipi la maggioranza degli elettori, altrimenti le operazioni non sono valide).

c) Ci sono però anche i casi in cui il referendum esprime più direttamente quella che in fondo dovrebbe essere la sua funzione più autentica, vale a dire i casi di referendum come strumento che consente a una minoranza di costringere la maggioranza parlamentare a tenere conto, nella propria agenda, “di argomenti, materie che altrimenti non otterrebbero alcuna attenzione o spazio nel dibattito politico. Oppure ancora per costringere gli sviluppi della legislazione futura nel quadro di opzioni politiche determinate”, come è stato il caso dei referendum

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del 2010 su energia nucleare, servizi pubblici locali e legittimo impedimento, che non solo hanno abrogato leggi vigenti ma hanno valso a indicare una volontà piuttosto netta del corpo elettorale verso scelte, come l’esclusione del ricorso all’energia nucleare, che dovrebbero vincolare anche il legislatore futuro.

I tipi di referendum a) e b) sono quelli in cui esso è, in verità, strumento di riorganizzazione del sistema dei partiti e proseguimento di lotte ad esso interne; il caso c) quello in cui esso dà voce all’opinione pubblica aprendo varchi in un dibattito politico qualche volta autoreferenziale.

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Capitolo II Parlamento e GovernoSommario del capitolo

I.Il Parlamento

1.Il Parlamento. 2. Le funzioni del Parlamento. 3. L’organizzazione e il funzionamento delle Camere. Caratteri fondamentali. 3.1. Bicameralismo. 3.2. Dal bicameralismo paritario al bicameralismo perfetto al bicameralismo ineguale. Rinvio. 3.3. Il parlamento in seduta comune. 3.4. La legislatura. 3.5. Lo scioglimento delle Camere. 3.6. Il semestre bianco. 3.7. L’autonomia delle Camere: un valore incompreso e abusato. 3.8. Il regolamento parlamentare. 4. La struttura delle Camere. 4.1. Il Presidente d’Assemblea. 4.2. I singoli parlamentari. Lo status di parlamentare. 4.2.1. Insindacabilità. 4.2.2.Inviolabilità. 5. I gruppi parlamentari. 5.1. Divieto di mandato imperativo e disciplina di gruppo. 5.2. Il gruppo misto. 5.3. Gruppi parlamentari e prassi trasformistiche vecchie e nuove. 6. Le commissioni parlamentari permanenti. 7. Le Giunte parlamentari. 8. Le commissioni bicamerali e le commissioni temporanee. 9. Principi del funzionamento del Parlamento. La programmazione dei lavori. 10. Il lavoro politico delle Camere: l’attività di indirizzo e controllo sul Governo. 11. Il lavoro legislativo delle Camere: il procedimento di approvazione delle leggi ordinarie. 11.1. Il ruolo delle commissioni permanenti nel procedimento legislativo. 11.2. Riserva di assemblea. 11.3.L’ordine del voto. 11.4. Il procedimento legislativo come mera ‘ratifica’ delle decisioni del Governo. 11.5. (continua) La crisi della legge come crisi della procedura parlamentare. 11.6. Procedimento di approvazione della legge con strappo alla Costituzione. Il caso dell’Italicum (Rinvio).

II. Il Governo

1.La composizione del Governo. 2. La formazione del Governo e la crisi di Governo. 2.1. Dimissioni del Governo: obbligatorie e spontanee. 2.2. Prassi recenti in materia di dimissioni del Governo. 2.2.1. Dimissioni ‘sotto condizione’. 2.2.2. La nuova ‘sfiducia dei mercati’ e la vecchia ‘sfiducia del partito’. 2.3. La formazione del nuovo Governo. 3. Le funzioni del Governo. Quadro d’insieme. 3.1. Funzione di indirizzo politico. 3.2. Funzioni normative: decreti legge, decreti delegati, regolamenti. 2.2.Funzioni di direzione della pubblica amministrazione.3.3.1. Il lavoro politico del Ministro. 3.3.2. Il lavoro amministrativo del Ministro. 3.4. Legalità e indirizzo politico: i due poli dell’attività del Governo. 3.5. Svolgimento dei rapporti tra l’Italia e l’Unione europea e con l’estero. 3.6. Svolgimento dei rapporti con le Regioni e le autonomie locali. La Conferenza Stato-Regioni. 4. Il potere normativo del Governo. A. Gli atti del Governo con forza di legge. 1. La delegazione legislativa. 1.1. La legge di delegazione (legge delega). 1.2. I decreti legislativi (o decreti delegati). 2. La decretazione d’urgenza. 2.1. Decreto legge e indirizzo politico. 2.2. Il procedimento di adozione del decreto legge. 2.3. La decadenza del decreto non convertito in legge. 2.4. La regolazione degli effetti del decreto non convertito in legge. B. Gli atti del Governo privi di forza di legge.1. Il potere regolamentare dell’esecutivo. 2. Il legame tra legge e regolamento: le riserve di legge. 3. La delegificazione. 4. Regolamenti indipendenti. 5. I singoli regolamenti governativi nel nostro ordinamento: l’art. 17 della legge n. 400 del 1988. 6. Il procedimento di formazione dei regolamenti. C. I poteri normativi del Governo nell’effettività. 1. Il potere regolamentare. 2. La delegazione legislativa. 3. Il decreto legge. 4. Una nuova “cultura costituzionale”?

I. Il Parlamento

1. Il Parlamento

Unico organo eletto direttamente dal popolo, il Parlamento rappresenta, nel disegno costituzionale, il perno o il centro della vita politica. Condiziona l’esistenza in carica e l’indirizzo politico del Governo, ed approva le leggi, i più importanti atti normativi dopo la Costituzione. Istituzione dedicata alla discussione, al dibattito, al confronto dialettico tra opinioni e interessi diversi, il Parlamento ripropone nella dinamica istituzionale l’archetipo del ‘processo’, del metodo, cioè, di

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giungere a decisioni ponderate mediante leali confronti di opinione. La sua centralità nella vita democratica testimonia l’importanza accordata a che la decisione sia preceduta da discussioni che permettono di illuminare diversi interessi e punti di vista: nel procedimento parlamentare, cioè, riconosciamo la permanenza di una dimensione ‘giurisdizionalistica’ del potere. Al contempo, il nesso di ‘fiducia’ che lega la maggioranza al Governo chiama in causa per il buon funzionamento del Parlamento qualità che richiamano virtù cavalleresche di lealtà e fedeltà alla parola data. Come vedremo, il Parlamento in Italia non conserva però, pur continuando a essere l’unico organo eletto direttamente dal popolo, e dunque quello più legittimato, quasi più nulla di questa sua importanza: ciò può essere l’effetto del prevalere di concezioni ‘decisioniste’ del potere pubblico, e il prezzo pagato a prassi abusive che hanno frainteso e distorto l’importanza e le prerogative dell’organo parlamentare.

2.Le funzioni del Parlamento

Il Parlamento ha due principali funzioni:

1. La funzione legislativa (che denomineremo anche “lavoro legislativo” delle Camere:

In questa funzione rientrano:

l’ approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale l’ approvazione delle leggi ordinarie

2. La funzione di indirizzo e controllo nei confronti del Governo (che denomineremo anche “lavoro politico” delle Camere)

In questa funzione rientrano gli atti in cui si svolge il rapporto fiduciario tra parlamento e governo:

mozione di fiducia mozione di sfiducia interrogazioni, interpellanze, mozioni, ordini del giorno.

3.L’organizzazione e il funzionamento delle Camere. Caratteri fondamentali

3.1. Bicameralismo

Il Parlamento è composto di due Camere, la Camera dei Deputati e la Camera dei senatori. Le due Camere sono diverse per numero di membri (la Camera dei deputati ha 630 membri mentre il Senato ha 315 membri) e per alcuni altri aspetti della loro composizione (in particolare, per votare alle elezioni della Camera – elettorato attivo - basta avere 18 anni mentre per votare per il Senato occorre avere compiuto 25 anni, ciò significa che la base elettorale della Camera e quella del Senato non coincidono pienamente; per essere eletto deputato – elettorato passivo - basta avere compiuto 25 anni mentre per essere eletti al senato occorre avere compiuto 40 anni).

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Per il resto però, Camera e Senato hanno le stesse funzioni, gli stessi poteri. Il nostro sistema è un bicameralismo perfetto: si basa su due Camere che hanno le stesse funzioni. Questo si ripercuote per esempio sul procedimento legislativo: ogni progetto di legge, per diventare legge, deve essere votato nello stesso testo da tutte e due le Camere. Non esistono leggi la cui approvazione è riservata alla Camera o riservata solo al Senato. In particolare, entrambe le camere sono titolari del rapporto fiduciario (la fiducia o sfiducia al Governo può essere votata in ciascuna delle due indifferentemente e così avviene per lo svolgimento delle attività di controllo e indirizzo sul Governo).

Essendo ambedue elette dal corpo elettorale nazionale le due Camere (precisamente: ogni membro di ciascuna di esse) rappresentano la Nazione nella sua interezza. Non avviene come in altri paesi, in cui una delle due camere, detta di solito “la seconda camera” rappresenta gli enti territoriali, perché composta da membri dei governi o dei parlamenti regionali. E’ vero, però, che il Senato è, secondo la Costituzione, “eletto a base regionale”, ma questa prescrizione è stata attuata, sinora, solo nel senso che le circoscrizioni elettorali del Senato corrispondono con le Regioni, non nel senso di dare al Senato il ruolo di rappresentare le Regioni.

Una differenza tra Camera e Senato, che però non incide sulle loro funzioni, che il Senato annovera tra i suoi membri i Senatori a vita, nominati dal capo dello stato. Inoltre, come ricorderemo, è senatore a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica (art. 59 Cost.).

3.2.Dal Bicameralismo paritario al Bicameralismo perfetto al Bicameralismo ineguale. Rinvio.

La scelta dei Costituenti per il bicameralismo si riannodava alla tradizione del Regno d’Italia e prima ancora del Piemonte Statutario, tuttavia non fu una scelta per un bicameralismo ‘perfetto’: il Senato, secondo il testo originario della nostra Costituzione, doveva durare 6 anni (contro i 5 della legislatura della Camera dei deputati) e avere un numero di componenti variabile in funzione della ampiezza del corpo elettorale regionale. E’ vero che si trattava comunque di differenze molto limitate che lasciavano il tratto di fondo del bicameralismo ‘paritario’: le due Camere rappresentano gli stessi interessi, quelli espressi per la via della rappresentanza politica dei partiti. Come ricorda Andrea Pisaneschi nel suo Corso di diritto costituzionale (2014), era stata la recente esperienza del Fascismo (che aveva istituito la Camera dei Fasci e delle Corporazioni) a sconsigliare ai Costituenti di differenziare le due Camere dal punto di vista degli interessi che rappresentavano; è vero inoltre che la Costituzione scelse un modello regionalista, ma tali erano le incertezze sul se e come attivarlo, che, come sappiamo, le Regioni sono state istituite solo a partire dal 1972-1976, con i primi decreti di trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni. E’ noto, inoltre, che, istituendo le Regioni, i Costituenti volevano esprimere una differenziazione tra la nuova Repubblica democratica e il vecchio Regno accentratore, ma è anche vero che i partiti temevano, col dar vita alle elezioni regionali e ai corpi politici delle singole regioni, che i loro equilibri si spaccassero, o si complicassero: si temeva in particolare che a un governo statale guidato dalla Democrazia Cristiana potessero affiancarsi, a livello regionale, rappresentanze più orientate verso la sinistra. Con le Regioni tenute, diciamo così, ‘nel congelatore’, era impossibile pensare a dare una consistenza alla previsione per cui ‘il senato è eletto a base regionale’ che non andasse oltre il disegno delle circoscrizioni elettorali del Senato, che sono sempre state coincidenti con le Regioni. Di fatto, il sistema dei partiti italiano non ha sopportato neppure la differenza di durata tra le due Camere, e la durata del Senato è stata riportata alla durata della Camera prima sciogliendo il Senato anticipatamente quando finiva la legislatura della Camera, o sciogliendo entrambe le Camere anticipatamente, poi con una legge di revisione costituzionale n. 2 del 1963. In altri termini, il bicameralismo paritario scelto dalla Costituzione è stato trasformato in un bicameralismo perfetto dalle prassi e dalle convenienze del sistema dei

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partiti (lo sfasamento elettorale tra Camera e Senato poteva produrre nelle due camere maggioranze diverse, e questo appariva un problema per la stabilità del Governo: se, durante la legislatura della Camera con un partito A con la maggioranza e al Governo, si svolgevano le elezioni per il Senato e il partito A perdeva, ecco pronta la crisi di Governo).

Le ragioni che spinsero il Costituente verso il bicameralismo paritario furono che il dislocarsi del processo legislativo e politico su due Camere poteva favorire una vita politica, e decisioni legislative, più riflettute e condivise. Nel concreto, però, la vita dell’istituzione parlamentare nel suo complesso è stata fortemente condizionata da un tratto, che la aveva già caratterizzata nel periodo liberale: il carattere instabile e fluttuante delle maggioranze, e, precisamente, la difficoltà dei partiti, che compongono il Governo di controllare la propria maggioranza, di ottenere cioè dai parlamentari, che pure appartengono ai partiti che sono al Governo, un sostegno leale al momento del voto. Il bicameralismo perfetto che i partiti hanno costruito per, diciamo così, semplificare la vita a se stessi e al Governo è diventato a sua volta una fonte di problemi, nella misura in cui ha permesso ai partiti e ai parlamentari di enfatizzare quelle possibilità di condizionamento, di ricatto, di ‘mercanteggiamento’ del voto che ha finito per essere sentito come un ostacolo alla capacità del partito che esprime la maggioranza, che sale al Governo, di governare efficacemente. Gli anni recenti della nostra vita istituzionale sono stati tutti segnati da questo sforzo: quello di assicurare al Governo (cioè al partito o ai partiti che lo esprimono) il controllo della dinamica parlamentare. Come già detto, l’abolizione delle preferenze nella legge elettorale è stata una chiara scelta in questa decisione, rendendo gli eletti tutti ‘scelti’ dalla direzione del partito e condizionabili quanto alla loro rielezione.

Nella stessa direzione va, se si vuole più radicalmente, la proposta di riforma del Senato che nel 2015 è all’esame delle due Camere.

I perni di questa riforma sono: a) sottrarre al Senato il rapporto fiduciario, di cui resterebbe titolare la sola Camera; b) escludere il Senato dalla approvazione delle leggi ordinarie, riservando ad esso solo un ruolo nell’approvazione delle leggi costituzionali (il cui procedimento di formazione non cambierebbe rispetto a quello attuale) e di alcune leggi ‘bicamerali’ (che richiederebbero la doppia approvazione di Camera e Senato mentre su tutte le altre leggi il Senato potrebbe solo esprimere un parere, eventuale e non vincolante per l’altra Camera (il parere del Senato sarebbe obbligatorio, per quanto comunque non vincolante, solo per la legge di stabilità. Un parere si dice eventuale o obbligatorio a seconda che ai fini della validità del procedimento esso possa essere chiesto oppure debba esserlo; si dice vincolante o non vincolante a seconda che chi riceve il parere sia tenuto, o meno, a conformarvisi); c) associare il Senato alla Camera nelle attività di controllo sulla attuazione delle leggi dello Stato da parte delle pubbliche amministrazioni (cd valutazione delle politiche pubbliche) e nelle attività di raccordo tra Stato e enti locali.

La premessa di questa drastica riduzione di ruolo è l’eliminazione del carattere elettivo del Senato, che sarebbe composto mediante un meccanismo di elezione di secondo grado (cioè da consiglieri regionali e sindaci eletti dai consigli regionali) analogo a quello che è già stato introdotto per la riforma delle Province con la legge n. 56 del 2014 (continuerebbero, inoltre, a far parte del Senato gli ex presidenti della repubblica e i senatori a vita di nomina presidenziale). La nuova composizione non farebbe dunque del Senato, ridotto a 95 membri, un organo rappresentativo delle Regioni. In questo tipo di organi (come il Bundesrat tedesco, attraverso il quale i Laender, gli organismi territoriali, partecipano al procedimento legislativo), i rappresentanti votano ‘per regione’ cioè esprimendo la volontà che le regioni hanno loro dato mandato di esprimere; mentre nel nuovo Senato italiano i rappresentanti, pur non eletti dal corpo elettorale, e voterebbero secondo orientamenti partitici. La riforma del Senato sembra orientata a diminuire il peso del corpo elettorale e a rafforzare quello dei partiti.(Al tema della riforma del Senato e delle Regioni, insieme

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alla nuova legge elettorale ‘Italicum’ sarà dedicato un approfondimento nel corso integrativo alle lezioni dell’a.a. 2015-2016).

3.3.Il parlamento in seduta comune

Il parlamento in seduta comune è un organo distinto dalle due camere che risulta dalla riunione di esse. Ha alcune rilevanti e specifiche funzioni costituzionali: in particolare: è l’organo che ha la funzione di votare per l’elezione del Capo dello Stato, eleggere i giudici costituzionali, mettere il Capo dello Stato in stato d’accusa.

3.4.La legislatura

Le Camere durano in carica 5 anni, il che significa che normalmente tra una elezione e la successiva devono intercorre 5 anni. Tuttavia le Camere possono essere sciolte anche anticipatamente, cioè prima di questo tempo, quando sia necessario “ricorrere alle urne”, fare una nuova consultazione elettorale, perché dagli schieramenti politici che in un dato momento sono rappresentati in Parlamento non è più possibile ricavare un sostegno stabile a un esecutivo. La durata delle Camere si chiama legislatura.

Art. 60 Cost.: La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sono eletti per cinque anni.

Art. 61: Le elezioni delle nuove camere hanno luogo entro sessanta giorni dalla fine delle precedenti. La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni.

Finché non siano riunite le nuove camere, sono prorogati i poteri delle precedenti.

3.5.Lo scioglimento delle Camere

Lo scioglimento delle Camere è un atto di competenza del Capo dello Stato: secondo l’articolo 88 della Costituzione “il capo dello stato può, sentiti i presidenti delle Camere, sciogliere le Camere o anche una sola di esse”.

Lo scioglimento è un atto dovuto, cioè è un atto costituzionalmente necessario, imposto (non compierlo esporrebbe il capo dello stato alla responsabilità per attentato alla costituzione), quando la legislatura giunge al suo termine.

In una democrazia, è necessario accertare la corrispondenza tra la composizione delle camere e il corpo elettorale, per questo le camere hanno una durata prefissata oltre la quale devono essere sciolte e si deve procedere a nuove elezioni. Ci siamo già soffermati sul motivo per cui la decisione dello scioglimento è stata affidata a un organo imparziale come il capo dello stato (che, cioè, non è espresso dalla maggioranza attualmente al governo e non si riconosce in alcuna delle forze politiche presenti in parlamento), anziché lasciare alle Camere la decisione del proprio scioglimento, o affidarla al governo. In alcuni casi, il parlamento o il governo, quando la legislatura finisce, potrebbero non avere interesse allo scioglimento. Un governo che gode di una salda maggioranza in parlamento, e teme invece alle elezioni di perdere voti, avrebbe tutto l’interesse a non sciogliere, a tenere in vita le Camere che gli sono favorevoli. Camere che “tengono in ostaggio” un governo minoritario e debole, potrebbero anch’esse non volersi sciogliere.

Dunque, la decisione di sciogliere le Camere è un “atto presidenziale”, sia pure del tipo ‘complesso’ (occorre che il Presidente senta i Presidenti delle Camere e anche il Governo) che ha carattere di doverosità quando le Camere sono “scadute” (e cioè quando la legislatura è finita).

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Il Capo dello stato può sciogliere le Camere anche prima della scadenza, e cioè in corso di legislatura, quando si siano determinate circostanze e precisamente: quando vi sia stata una crisi di governo e non sia possibile dare vita a un nuovo governo che abbia una maggioranza in parlamento.

3.6.Il semestre bianco

La decisione dello scioglimento è molto delicata, come si comprende, perché ha grandi conseguenze politiche. E’ necessario che il Capo dello stato sia nelle condizioni di compierla nella massima imparzialità, cioè senza avere il benché minimo interesse proprio al fatto che ci siano o non ci siano nuove elezioni anticipate. Questo ci spiega la previsione dell’art. 88 secondo comma, per il quale il capo dello stato non può sciogliere le camere negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con la fine della legislatura (cd. Semestre bianco). Durante gli ultimi sei mesi del suo mandato, il presidente potrebbe essere tentato di valutare se sciogliere o meno con un occhio buttato al tipo di maggioranza che potrebbe uscire dalle nuove elezioni, e che potrebbe apparire più o meno favorevole a una sua rielezione. Se però durante gli ultimi sei mesi del mandato presidenziale le Camere giungono alla scadenza naturale il Capo dello Stato deve sciogliere.

La previsione del ‘semestre bianco’ non fa parte del tessuto originario della nostra Costituzione ma è stata introdotta con legge di revisione costituzionale n. 1/1991 quando era Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che si era adoperato per sottolineare l’importanza di questa condizione, sotto il profilo della salvaguardia della indipendenza della figura presidenziale.

3.7. L’autonomia delle Camere: un valore incompreso e abusato

Le Camere godono di un elevatissimo tasso di autonomia, che intende proteggere la attività che si svolge al loro interno (il dibattito politico) da ogni possibile rischio di interferenza, che potrebbe comprimere la libertà politica, e così attentare alla democrazia. L’autonomia delle Camere è un fondamentale valore democratico: nel Parlamento si esprime la rappresentanza della Nazione e le prerogative delle Camere proteggono la libertà politica della Nazione. La storia repubblicana ci mette davanti, però, a una triste narrazione: quella dell’abuso, da parte degli eletti, dell’autonomia di cui godono, che ha generato l’incomprensione del senso profondo di essa e dunque la continua diminuzione, in fatto o in diritto, delle prerogative che la proteggono. Per una curiosa, ma significativa coincidenza, gli anni recenti hanno visto molte volte il Presidente della Repubblica impegnato nella difesa delle sue prerogative; e hanno visto invece quelle delle Camere venire erose in maniera clamorosa, non solo nel silenzio, ma anche nella generale approvazione: le Camere a ragione o a torto sono diventate il simbolo dell’eccessivo potere dei partiti che frena l’azione del Governo, mentre il primo è sentito come il disvalore, il secondo (che il Governo possa agire, decidere, ‘fare’) è sentito come un valore, e pertanto viene favorito.

Ma, per andare per ordine nel nostro discorso, dobbiamo cominciare col dire che, tra le manifestazioni di autonomia delle Camere deve essere ricordata la autodichia o giurisdizione domestica, che è il potere di giudicare le controversie con i propri dipendenti, e di essere il solo giudice della esistenza di cause di ineleggibilità, incompatibilità preesistenti o sopravvenute di deputati e senatori (cd. verifica dei poteri). L’autodichia è ‘la più contesta delle prerogative parlamentari, perché priva di fondamento costituzionale. Purtroppo, dopo la seconda metà degli anni ’90 del Novecento, essa è stata ampliata dalle Camere sino ‘al contenzioso sulle gare d’appalto e altri atti amministrativi comunque non riguardanti i dipendenti’, laddove questi atti

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avrebbero a buon diritto dovuto essere considerati conoscibili dal giudice amministrativo” (M. Midiri, Quaderni del Filangieri 2012-2013, p. 248).

La principale manifestazione di autonomia delle Camere è quella regolamentare.

3.8.Il regolamento parlamentare

Autonomia regolamentare vuol dire che le Camere danno a se stesse le norme in base alle quali funzionano. Le norme che le Camere osservano nello svolgimento delle loro attività sono definite nelle grandissime linee in Costituzione (art. 70-82) e poi sono precisate nel regolamento parlamentare, che è l’unica fonte, oltre alla Costituzione, in grado di dettare norme sulla attività e organizzazione delle Camere. Ciascuna camera ha il suo regolamento; il regolamento dispone nel dettaglio in ordine allo svolgimento delle attività delle Camere ( quanto tempo si ha a disposizione per illustrare un emendamento o una interrogazione; in quali casi è ammesso il voto segreto, ecc.). Il regolamento viene approvato a maggioranza assoluta (metà più uno degli aventi diritto al voto) dei membri di ciascuna camera.

Nel prevedere che le norme sul funzionamento delle Camere e il procedimento legislativo possano essere contenute solo nel regolamento parlamentare la Costituzione, dunque, riserva questa materia al regolamento parlamentare. Il regolamento parlamentare è una fonte “riservataria”: titolare di una propria competenza che è definita dalla Costituzione e sulla quale altre fonti non possono intervenire pena la loro illegittimità.

In base al principio degli ‘interna corporis’ (irrilevanza nell’ordinamento giuridico generale degli atti compiuti all’interno di un organo autonomo), la Corte costituzionale ha sempre ritenuto di non poter sindacare una legge per essere stata approvata in modo difforme al regolamento, o altre ipotesi di violazione del regolamento. Si noti che, in altre democrazie parlamentari, le minoranze possono rivolgersi alla Corte costituzionale quando ritengano che i loro diritti siano stati violati nel procedimento parlamentare.

Il motivo per cui per l’approvazione del regolamento parlamentare è richiesta la maggioranza assoluta è sottrarre le norme regolamentari dalla disposizione della sola maggioranza di governo (che potrebbe volerle sempre modificare a proprio favore, e può in ogni momento direttamente derogarvi semplicemente non osservandole). Tuttavia, nel nostro sistema, mentre fino agli anni ’90 del Novecento era molto difficile che una sola forza politica, o una coalizione di forze, disponesse della maggioranza assoluta, questo è avvenuto tipicamente in tutto il periodo successivo. Ciò a portato a modifiche dei regolamenti che hanno reso le regole, in base alle quali le Camere operano, sempre più funzionali alla attuazione dell’indirizzo politico di maggioranza e sempre meno garantiste verso le minoranze.

4.La struttura delle Camere

Le più importanti articolazioni delle Camere sono:

4.1.Il presidente d’assemblea

Il Presidente della Camera e del Senato è l’organo che dirige le sedute, mantiene l’ordine ed ha una funzione preminente nella definizione del calendario dei lavori (cioè nella programmazione dei lavori parlamentari, l’attività che stabilisce l’ordine di tempo in cui le Camere lavorano intorno ai provvedimenti di loro competenza). Il Presidente viene eletto a inizio della legislatura dalla Camera

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di appartenenza. L’aspetto più delicato e importante delle sue funzioni è il suo ruolo di interprete del regolamento. In caso di dubbio, infatti, spetta al Presidente stabilire se una norma regolamentare va o meno applicata, e come, cioè quale significato attribuirle.

Per tutta una prima fase dell’esperienza repubblicana, la prassi voleva che il Presidente d’assemblea fosse un esponente di una forza politica di opposizione. Si intendeva così sottolineare il suo carattere imparziale, abbastanza logicamente corrispondente alle sue delicate funzioni di interpretazione del regolamento. A partire dalla ‘svolta maggioritaria’ della metà degli anni ’90 i presidenti di assemblea sono stati espressi dai partiti di maggioranza e l’opinione dottrinale corrente non manca di sottolineare che essi hanno esercitato il loro ruolo di ‘giudici del regolamento’ in maniera sempre più politicizzata, il che ne ha notevolmente attenuato la capacità di svolgere un ruolo di controllo effettivo sulla regolarità dei lavori, e ha contribuito al complessivo scadimento delle prassi osservate in parlamento.

Il Presidente dell’Assemblea, come torneremo a dire parlando della programmazione dei lavori, è attualmente il titolare della decisione in ordine alla programmazione dei lavori e l’interprete del regolamento (per esempio decide i casi in cui un emendamento è ammissibile o meno): si tratta dunque di una figura chiave negli equilibri tra Governo e Parlamento e negli equilibri interni alla maggioranza di governo. Il Presidente d’assemblea è ormai il garante dell’indirizzo politico di maggioranza.

I regolamenti parlamentari hanno allargato a dismisura i poteri del Presidente di direzione dei lavori d’assemblea e di interpretazione del regolamento. Essi riservano al Presidente decisioni dall’influenza nodale sulla sorte dei provvedimenti in votazione, come la tecnica del ‘canguro’ nella votazione degli emendamenti, che consiste nel votare tutti insieme gli emendamenti che rispondono ‘a uno stesso principio ispiratore’ secondo l’insindacabile decisione del Presidente d’assemblea. Il rischio che la dottrina ravvisa nella crescita in senso politico del ruolo del Presidente d’Assemblea è l’eccessiva contrazione dei diritti dell’opposizione, che, in teoria, il Presidente d’Assemblea dovrebbe garantire. C’è infatti il rischio che i poteri, nella programmazione e nella interpretazione del regolamento, che questa carica detiene ormai in solitudine, siano esercitati squilibratamente nell’interesse del Governo. Si ricordi che le decisioni del presidente d’Assemblea sono insindacabili, non sono sindacabili né dall’Assemblea né, per il principio degli ‘interna corporis’ dalla Corte costituzionale.

Molti concludono dunque che sarebbe importante procedere a una revisione degli attuali poteri del presidente d’Assemblea, per “restituire al Presidente d’Assemblea parlamentare la propria posizione centrale ed equidistante nell’ordinamento parlamentare, questa sì veramente irrinunciabile” (E. Gianfrancesco, op. cit., p. 239).

L’importanza acquisita dalla carica, che ne ha sottolineato la politicità, rende abbastanza insensato, a giudizio di molti studiosi, che ai presidenti delle Camere spesso siano riservati poteri di nomina che dovrebbero invece servire a garantire che in certe cariche siano poste persone indipendenti dall’indirizzo politico. Si pensi in particolare alla nomina dei presidenti e dei membri delle Autorità indipendenti (Antitrust, Garante della Privacy, Consob), tipicamente affidati ai presidenti delle Camere, nomine che questi ultimi hanno effettuato, secondo la dottrina, in un senso ‘politico e politicizzato’ (M. Manetti, in Il Filangieri Quaderno 2012-2013, p. 180).

4.2.I singoli parlamentari. Lo status del parlamentare

La condizione giuridica (status) del singolo parlamentare è circondata da alcune peculiari garanzie, che intendono proteggere l’autonomia e la libertà politica del parlamentare (e, attraverso essa, la libertà del dibattito e del confronto politico intero, la libertà della funzione parlamentare e dunque la pienezza dei processi democratici). I parlamentari infatti, benché eletti nelle liste dei singoli partiti,

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sono qualificati dalla Costituzione come ‘rappresentanti della Nazione’. Le garanzie dei parlamentari sono comuni a ogni democrazia parlamentare; nel nostro Paese però è innegabile che si siano prestate ad abusi e strumentalizzazioni.

Esse consistono prevalentemente nella garanzia della insindacabilità e nella garanzia dell’inviolabilità.

4.2.1.Insindacabilità

Secondo l’art. 68 Cost. primo comma, i parlamentari non sono responsabili per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (e, questo, anche successivamente alla cessazione dalla carica).

Lo scopo della norma è proteggere la libertà del dibattito politico. La protezione si estende anche al periodo in cui il parlamentare sia cessato dalla carica e ricorre nei limiti del “nesso funzionale” (deve trattarsi di voti e opinioni espresse nello svolgimento di attività proprie del parlamentare).

Nel tempo, c’è stata una forte tendenza a attrarre nella sfera dell’immunità anche qualsiasi forma di esercizio dell’attività politica svolta dai componenti delle camere fuori dal momento in cui svolgono le loro tipiche funzioni (momento che coincide con la partecipazione al lavoro legislativo e politico delle Camere). L’argomento è che anche in queste ipotesi ricorre un ‘nesso funzionale’ con le funzioni proprie del parlamentare. Di fronte a casi di parlamentari che, per esempio durante dibattiti televisivi, hanno rilasciato dichiarazioni offensive della reputazione di una terza persona, gli interessati hanno cercato tutela denunciando il parlamentare. Spetta alla Camera di appartenenza stabilire se il comportamento denunciato rientra o non nell’ “esercizio delle funzioni” proprie del parlamentare; e se la Camera ritiene così (l’organo competente è la Giunta per le autorizzazioni, v. sotto), il procedimento giudiziario deve interrompersi. Al giudice rimane però la possibilità di sollevare un conflitto tra poteri dello stato davanti alla Corte costituzionale, se ritiene che la deliberazione della Camera che ha riconosciuto il ricorrere della prerogativa della insindacabilità fosse infondata (e perciò lesiva delle attribuzioni della magistratura). Le Camere hanno ha sempre riconosciuto la sussistenza della insindacabilità anche in casi in cui il nesso funzionale appariva molto dubbio. Chiamata a decidere i conflitti di attribuzione sollevati dai giudici la Corte costituzionale ha precisato che il nesso funzionale sussiste quando le opinioni espresse nella sede ‘esterna’ (es. appunto in televisione) abbiano un contenuto “sostanzialmente identico” a opinioni che il parlamentare ha precedentemente espresso in sede parlamentare (per esempio tramite una interrogazione o una interpellanza). Questo ha portato la Corte costituzionale ad annullare, in più di un caso, la delibera camerale di insindacabilità e a ristabilire una certa possibilità di tutela dei diritti dei terzi offesi dalle “manifestazioni del pensiero” di un parlamentare. (Ma non ha certamente impedito che il parlamentare, sapendosi regolarmente invitato a una trasmissione televisiva, esprimesse certe opinioni in una interpellanza solo allo scopo di ‘coprirsi’ da eventuali azioni giudiziarie promosse da coloro che si sarebbero ritenuti offesi dalle opinioni espresse in sede televisiva.)

4.2.2.Inviolabilità

La garanzia della inviolabilità ha lo scopo di proteggere il parlamentare da interventi dell’autorità giudiziaria che abbiano scopo intimidatorio o persecutorio.

Secondo l’originario testo dell’art. 68 secondo comma, l’autorità giudiziaria che intendesse aprire un procedimento penale nei confronti di un parlamentare doveva chiedere l’autorizzazione

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(autorizzazione a procedere) alla Camera di appartenenza. Nel 1993 questa previsione è stata abrogata e sostituita con una diversa, per cui l’autorità giudiziaria deve chiedere l’autorizzazione alle Camere solo quando intenda procedere, nei confronti del parlamentare inquisito, a particolari tipi di indagini o specifiche misure limitative della libertà personale (perquisizione personale o domiciliare – arresto - intercettazioni in qualsiasi forma di conversazioni e comunicazioni – sequestro di corrispondenza). Per questa sua diversa estensione la prerogativa della inviolabilità, che un tempo era conosciuta come “improcedibilità” oggi è nota come “garanzia dagli arresti”. La garanzia (a differenza della immunità per i voti espressi e le opinioni date nell’esercizio delle funzioni parlamentari) vale solo per il tempo in cui il parlamentare riveste effettivamente la carica.

Lo scopo della riforma del ’93 era quello di ridurre l’ambito della protezione dei parlamentari nei confronti del procedimento penale; paradossalmente, però, essa ha sortito l’effetto di ampliarla. Infatti, “prescrivendo la previa autorizzazione delle Camere in caso di perquisizione o intercettazione, o di sequestro della corrispondenza del parlamentare, la nuova normativa finisce per vanificare l’utilità di questi procedimenti, la cui efficacia è evidentemente e strettamente legata al fatto che essi vengano adottati all’insaputa dell’interessato”3.

5.I gruppi parlamentari

I gruppi parlamentari sono le “proiezioni dei partiti all’interno delle Camere”. Non si tratta di veri e propri organi delle Camere perché i gruppi non svolgono funzioni né adottano atti in nome e per conto delle Camere (non discutono o votano leggi, non votano mozioni ecc.) ; tuttavia, i gruppi sono strutture molto rilevanti nel funzionamento delle Camere; anche la Costituzione li menziona per dire che le commissioni parlamentari deliberanti devono essere composte in modo da rispettare la composizione dei gruppi. Un altro indice dell’importanza dei gruppi nel lavoro parlamentare è che, secondo i regolamenti di Camera e Senato, i presidenti dei gruppi devono essere sentiti dal Presidente d’assemblea per decidere la programmazione dei lavori parlamentari.

L’origine dei gruppi parlamentari è tradizionale: da sempre, dove c’è un parlamento ci sono i gruppi.

I deputati o i senatori eletti sono, ovviamente, stati eletti all’interno di partiti politici che, come singoli o alleati tra loro, si sono presentati alle elezioni. Una volta eletti, dentro la Camera o dentro il Senato, deputati e senatori si raggruppano secondo le loro affinità politiche. I deputati del partito A , che sono poniamo 70, si siedono tutti vicini tra loro e quelli del partito B, che sono poniamo 45, si siedono a loro volta tutti vicini tra loro. Il “gruppo parlamentare” alla Camera del partito A è dato da quei 70 deputati che sono stati eletti nelle liste del partito A e che, dopo la elezione, hanno afferito al gruppo del partito A. L’aula parlamentare è un emiciclo, un semicerchio, e per tradizione si siedono a destra i deputati o senatori di partiti di destra, o conservatori, poi verso il centro quelli più “progressisti” e a sinistra dell’emiciclo le forze di sinistra.

I gruppi servono fondamentalmente a mantenere nell’aula parlamentare la “disciplina di partito”. Ogni gruppo ha capogruppo (Presidente del Gruppo parlamentare) che, in occasione delle votazioni e dei vari lavori parlamentari comunica a tutti gli altri la linea del partito. Il capogruppo convoca tutti i membri del gruppo, e li convince a votare tutti in un modo o tutti in un altro. Fa parte del “pittoresco” o del “folclore” parlamentare la figura del “peone”. I peones sono i deputati o senatori del gruppo, quelli che votano non secondo quello che pensano, ma secondo quello che viene detto loro di votare. D’altra parte, essi sono stati eletti certamente grazie alle loro qualità personali, ma soprattutto col sostegno del partito che li ha candidati, e che mette in moto, e finanzia,

3 V.. in questo senso, tra i molti, P. Carnevale, in F. Modugno (cur.), Lineamenti di diritto pubblico, Torino, 2008.

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tutta l’organizzazione della campagna elettorale e tutte le attività che ogni candidato deve fare se vuol essere eletto. In cambio, il partito si aspetta una certa fedeltà, che d’altronde è ovvio attendersi (se una persona si è fatta eleggere nelle liste di un certo partito, è presumibile che ne condivida le visioni e gli orientamenti rispetto ai singoli problemi). Il “capogruppo” non è un “peone”: è uno che dà la linea, e che ha una posizione importantissima nel partito. E’ stato spesso notato che un effetto molto negativo della abolizione delle preferenze nel sistema elettorale adottato nel 2005 (e dichiarato incostituzionale nel 2014), è che i deputati e i senatori sanno di dovere la loro elezione (e la loro eventuale rielezione) in tutto e per tutto al partito (perché essa dipende dal fatto che sono messi in lista in una certa posizione) e non agli elettori, che votano la lista e non i candidati. Questa situazione rende gli eletti molto più passivi, remissivi e obbedienti nei confronti del gruppo, dunque del partito. Può vedersi, in questo, un utile rafforzamento della disciplina di partito, ma certamente non si è trattato di ottenere quella “obbedienza nella libertà” (l’unica pregevole, ci ha insegnato Tocqueville), cioè una lealtà che convive nel deputato e nel senatore col senso della propria responsabilità verso la Nazione.

5.1.Divieto di mandato imperativo e disciplina di gruppo

Bisogna ricordare che, secondo la Costituzione, “deputati e senatori rappresentano tutta la nazione, senza vincolo di mandato” (Art. 67 Cost.) Questa espressione esprime un principio caratteristico delle democrazie contemporanee: il divieto di mandato imperativo, intende salvaguardare l’autonomia politica del parlamento. Il divieto di mandato imperativo è funzionale all’idea, su cui la democrazia parlamentare si fonda, che il parlamento – e non il corpo elettorale - è il luogo in cui si forma la volontà politica della nazione, in modo libero da ogni condizionamento, nel confronto e nel dibattito tra i parlamentari. Il divieto di mandato imperativo assicura una certa libertà al deputato e senatore rispetto al partito nelle cui liste è stato eletto e al gruppo parlamentare cui appartiene e vuole salvaguardare che l’interesse della Nazione non sia sacrificato all’interesse del partito.

Come si conciliano il divieto di mandato imperativo con la disciplina di gruppo? Con questo criterio: che la sorte di un uomo politico come membro di un partito e come membro del parlamento possono seguire strade diverse. Il deputato o senatore che vota in modo difforme al gruppo di appartenenza può essere invitato a dimettersi e lasciare il gruppo. Risente cioè delle conseguenze della sua “ribellione” per tutto ciò che concerne il rapporto col suo partito, e col suo gruppo parlamentare, ma non ne risente come “eletto”, come deputato o senatore (perché non ha fatto che esercitare la sua “libertà di mandato”) e mentre magari viene radiato dal partito, resta però in parlamento (salvo che non decida di dimettersi). A quel punto, può aderire a un altro gruppo. Oppure può aderire al “gruppo misto.

Nel periodo recente, si è avvertita una decisa tendenza a piegare la organizzazione parlamentare ad una sorta di principio per cui la disciplina di partito dovrebbe pienamente sovrapporsi alla disciplina di gruppo ed esprimersi direttamente come fatto organizzativo e funzionale all’interno del procedimento legislativo. Parlamentari membri di commissioni che avevano all’esame provvedimenti di iniziativa governativa, e che quei parlamentari non condividevano (pur essendo membri dello stesso partito che esprime il Governo), sono stati sostituiti in Commissione da altri, appartenenti allo stesso gruppo, e più in linea con l’indirizzo politico del Governo, sostituzione che è stata temporanea, cioè durata solo il tempo in cui il provvedimento controverso è rimasto all’esame della Commissione. Sarebbe stato più consono con i principi del diritto parlamentare che i deputati ‘dissenzienti’ fossero stati invitati a lasciare il gruppo, e non la Commissione, perché la disciplina di partito si può esprimere nel e attraverso il gruppo parlamentare, che è proiezione del partito nell’organizzazione e funzionamento della Canera, ma non direttamente nella Commissione, che è organo della Camera. Episodi di questa natura si sono presentati sia nel procedimento di approvazione della legge elettorale ‘Italicum’ sia nel procedimento di approvazione della legge di

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revisione costituzionale relativa al Senato e alle Regioni, e vi torneremo nell’Approfondimento a questi temi dedicato.

5.2.Il gruppo misto

Il “gruppo misto” è composto da tutti quei deputati (o senatori) che dopo essere stati eletti, pur essendo ovviamente stati eletti nelle liste di un partito, poi non aderiscono al gruppo di quel partito, ma, appunto, danno vita a un gruppo di “non schierati”. Si tratta in genere di un gruppo piccolo, che si presta anche alle esigenze di coloro che, come è accaduto a certi grandi intellettuali nel nostro paese, scelgono di farsi eleggere, e perciò si candidano nelle liste di un certo partito, però non vogliono identificarsi troppo con quel partito, perché uomini di partito non sono, hanno un’altra formazione, un’altra storia personale. (Al partito, d’altra parte, può sempre convenire di mettere tra i suoi candidati un premio Nobel o un intellettuale di fama che ogni giorno scrive sui giornali, anche sapendo che poi egli afferirà al gruppo degli indipendenti, perché intanto “porta voti”). Oppure il gruppo misto può servire a contenere quei deputati o senatori che si dissociano dal gruppo di riferimento del loro partito per sopravvenuti contrasti o quelli che sono stati eletti nelle file di un partito, che però ha avuto troppo pochi eletti per formare un gruppo autonomo.Secondo il regolamento della Camera, infatti, occorrono almeno venti deputati per formare un gruppo, e secondo il regolamento del senato, almeno dieci senatori.

Riassumendo: i gruppi sono strutture che nel parlamento fanno funzionare la logica politico-partitica degli schieramenti; non hanno direttamente funzioni nel procedimento legislativo o nelle altre funzioni delle Camere, però indirettamente hanno rilievo sotto numerosi aspetti della organizzazione e funzionamento delle camere: come abbiamo detto, le commissioni parlamentari (v. sotto) devono essere composte in modo proporzionale alla consistenza dei gruppi; inoltre, i presidenti dei gruppi hanno un ruolo importante nella programmazione dei lavori parlamentari.

5.3. Gruppi parlamentari e pratiche trasformistiche vecchie e nuove

Numero e consistenza dei gruppi parlamentari tendono caratteristicamente a cambiare, durante ogni legislatura. La formazione di un nuovo gruppo parlamentare originata dall’abbandono di alcuni deputati o senatori del gruppo o dei gruppi corrispondenti al partito o ai partiti in cui erano stati eletti, può annunciare la nascita di una nuova formazione politica che si presenterà alle elezioni successive (questa costante della nostra storia è una interessante testimonianza di come si ripresenti la figura del partito parlamentare, del partito cioè che nasce all’interno del parlamento e come risultato di problemi di riequilibrio tra le forze politiche, e non come riflesso di effettivi movimenti sociali). Non sempre però i parlamentari che fuoriescono dal loro gruppo originario e ne formano uno nuovo intendono veramente staccarsi dal partito cui appartengono, e dare vita a una nuova formazione politica. Al contrario, un nuovo gruppo può nascere anche al solo scopo di permettere a un medesimo partito di assumere due comportamenti contrastanti, ritenuti entrambi tatticamente utili: quello dell’opposizione (che sarà esercitata dal tronco originario del gruppo, e, magari, sbandierata davanti all’opinione pubblica per ottenere consenso elettorale) e quello del sostegno al governo (che sarà esercitata dal nuovo gruppo, e garantirà all’intero partito un rapporto di favore con la maggioranza). In ogni caso, la ‘mappa’ dei gruppi parlamentari a fine legislatura non è mai corrispondente a quella che era all’inizio. Il gruppo parlamentare e le sue dinamiche è l’ambito in cui si manifestano nel modo più diretto le pratiche trasformistiche che, sin dall’epoca statutaria, hanno caratterizzato le prassi politico-parlamentari in Italia.

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6.Le commissioni parlamentari permanenti

La Camera dei deputati è composta da più di 600 deputati e il senato da più di 300. Far lavorare sempre tutte insieme tutte queste persone sarebbe difficile e allungherebbe moltissimo i tempi richiesti per lo svolgimento delle funzioni parlamentari. Perciò, le Camere danno vita a proprie articolazioni interne, dette appunto commissioni (permanenti).

Le commissioni parlamentari permanenti sono articolazioni interne della Camera o del Senato, nelle quali si svolge una parte del lavoro legislativo e una parte del lavoro politico della Camera o del Senato. A differenza dei gruppi, le Commissioni sono veri e propri “organi” della Camera e del Senato perché svolgono funzioni che sono proprie della Camera e del Senato. Ogni membro del Senato o della Camera è anche membro di una commissione.

Le Commissioni si differenziano per competenza, nel senso che sono ciascuna competente per una certa materia: e le “materie” di cui si occupano le Commissioni corrispondono alle ripartizioni delle attività e competenze dello Stato, quali risultano dalla suddivisione dei Ministeri in cui è organizzato il Governo. Così come il Governo ha un Ministro per l’Economia, esiste una Commissione competente sugli Affari Economici; Ministero per la Famiglia, Commissione per la Famiglia, e così via: Affari interni, affari esteri, rapporti con l’Unione europea, Sanità, Lavoro, Istruzione.

Inoltre, esistono commissioni che si occupano di materie trasversali, cioè di risvolti o aspetti che ciascuna materia presenta, e sono Le Commissioni Affari Costituzionali; Bilancio e Rapporti con l’Unione europea. Per tutti i provvedimenti all’esame delle Camere si presentano aspetti costituzionali (si pone cioè il problema della loro conformità a costituzione, se è chiara, se ne può dubitare, che cosa si può fare per migliorare la conformità a costituzione di un certo provvedimento….). Per tutti i provvedimenti all’esame delle Camere si presentano poi aspetti che sono collegati al bilancio. Il bilancio è il conto annuale delle spese e delle entrate dello stato: per ogni provvedimento si pone il problema della sua ricaduta sul bilancio (e precisamente dei suoi costi, dei fondi con cui coprire le spese che ne deriveranno ecc.). Infine, per tutti i provvedimenti all’esame delle Camere si presentano aspetti relativi alla loro conformità al diritto europeo (a tenore dell’art. 117 Cost. infatti la funzione legislativa è esercitata nel rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”).

Le Commissioni Affari Costituzionali, Bilancio e Rapporti con l’Unione europea esaminano tutti i provvedimenti di cui la Camera o il Senato sono investiti, dal punto di vista della loro conformità a Costituzione, regolarità rispetto al bilancio, conformità all’ordinamento comunitario. Esse sono dette perciò anche commissioni “filtro”, perché ogni provvedimento non può procedere se non passa l’esame in queste commissioni.

Le commissioni vengono composte in proporzione alla consistenza dei gruppi parlamentari, in modo che tendenzialmente rispecchino la composizione dell’assemblea di appartenenza (della camera o del senato). Supponiamo che la Camera abbia 100 deputati, di cui 40, cioè il 40% sono il gruppo dei A, 30, il 30% il gruppo B, 20, cioè il 20% il gruppo C e 10, il 10% il gruppo D, per comporre le commissioni, che supponiamo composte da 10 deputati ciascuna, dovranno essere inseriti 4 membri del gruppo A, 3 del gruppo B, 2 del gruppo C e 1 del gruppo D, così la commissione rispecchia, in piccolo, la composizione dell’assemblea. Da notare che questo, in cui rappresentano il punto di riferimento numerico o quantitativo per la composizione delle commissioni, è uno dei momenti in cui i gruppi assumono una certa indiretta rilevanza nella organizzazione e funzionamento delle Camere. E’ grazie al fatto che la commissione riproduce lo stesso rapporto maggioranza-opposizione che c’è in assemblea, che è possibile spostare in commissione, come vedremo, lo svolgimento di compiti dell’assemblea. Bisogna anche dire, però, che questo rispecchiamento è tendenziale, perché i numeri possono, di fatto, renderlo non sempre

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possibile. Nel nostro esempio, siccome le Commissioni sono un numero superiore a 10, il gruppo D non potrà avere un proprio rappresentante in ogni Commissione.

Poiché ogni deputato o senatore è contemporaneamente membro dell’assemblea e membro di una commissione, assemblea e commissioni devono lavorare in giorni diversi. Infatti alla Camera e al Senato ci sono giorni della settimana dedicati al lavoro “in Aula” (cioè in assemblea, tutti riuniti) e altri dedicati al lavoro in Commissione.

Bisogna ricordare che le commissioni svolgono le stesse attività dell’’assemblea: lavoro legislativo e lavoro politico (che descriveremo più avanti).

7. Le Giunte parlamentari

Oltre alle Commissioni permanenti, sono organi delle Camere le Giunte. Le Giunte sono organi collegiali che esercitano funzioni diverse da quelle attinenti al lavoro legislativo e al lavoro politico delle Camere, e precisamente:

a) si occupano della redazione e delle modifiche dei regolamenti parlamentari (Giunta per il regolamento);

b) verificano l’esistenza di cause di ineleggibilità, incompatibilità, e la sussistenza delle condizioni richieste per le garanzie di status dei parlamentari, immunità e improcedibilità (Giunta per le autorizzazioni a procedere).

8.Le Commissioni bicamerali e le commissioni temporanee

Le commissioni permanenti sono organi necessari al lavoro delle Camere ed esistono in ogni legislatura. Le camere possono, però, anche dare vita, con legge o con altro atto, a commissioni temporanee, incaricate di approfondire, studiare un certo problema, anche con audizioni con esperti.

Per esempio, in vista di una riforma importante, si può nominare una commissione di studio che indaghi preliminarmente i vari aspetti, vantaggi e svantaggi della riforma, i suggerimenti di coloro che, per lavoro o per studio, quotidianamente si misurano con quella certa materia.

Ciascuna camera ha le sue commissioni, ma esistono anche commissioni bicamerali, composte cioè da rappresentanti di entrambe le camere, e che possono essere istituite per legge. E’ il caso della Commissione di vigilanza sui servizi radiotelevisivi e del Comitato per i servizi di sicurezza; la prima vigila sul pluralismo dell’informazione nel servizio televisivo pubblico, la seconda conosce l’andamento dei servizi di informazione e sicurezza dello stato.

Come le giunte, le commissioni bicamerali e temporanee non hanno un ruolo nel procedimento legislativo e nel lavoro politico ordinario delle Camere.

9.Principi del funzionamento del Parlamento: La programmazione dei lavori

Come siamo venuti dicendo, ciascuna delle due camere lavora dividendo il proprio carico tra l’assemblea e le commissioni e poi dividendo il tempo di lavoro tra lavoro legislativo e lavoro politico. Il lavoro in assemblea e in commissione e il lavoro politico e quello legislativo – oltre alle

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riunioni delle giunte e delle commissioni temporanee e bicamerali – sono distribuiti nei giorni della settimana e nelle parti della giornata secondo una programmazione, una calendarizzazione. La programmazione divide i giorni di lavoro e i tipi di attività (politica e legislativa) tra assemblea e commissione e, su base annuale, mensile e settimanale, distribuisce in concreto i provvedimenti da esaminare e votare. Su base annuale si sa che certi periodi dell’anno sono dedicati all’esame della legge di bilancio e della legge di stabilità, e di altre leggi che vengono approvate tutti gli anni, come la legge europea, dedicata al recepimento delle direttive comunitarie. Dunque, nel calendario annuale si riservano per ciascuna di queste attività due, tre o quattro settimane; poi, su base mensile e settimanale, si stabilisce quando sarà esaminati i singoli progetti o disegni di legge che vertono su altre e disparate materie (per es. il tale progetto in materia di scuola o il tale progetto in materia di trasporti).

La programmazione dei lavori è un atto di importantissima natura politica perché definisce le priorità: se oggi sono presentati alle camere dieci progetti di legge, cinque del governo e cinque di iniziativa parlamentare, su dieci materie diverse, si deve decidere se mandarli in commissione referente, redigente o deliberante e poi come scadenzare la loro votazione in assemblea; si darà in genere la precedenza ai progetti del governo, e poi si stabilirà quali degli altri sono più o meno urgenti.

La programmazione viene fatta, a determinate scadenze temporali, dal presidente d’Assemblea sentiti i presidenti delle commissioni e i presidenti dei gruppi parlamentari (cd. conferenza dei capigruppo). La presenza dei gruppi in conferenza assicura alle diverse forze politiche, ciascuna interessata in maniera diversa alla sorte dei vari provvedimenti, di pesare sulla loro calendarizzazione. Il presidente del gruppo parlamentare A, di minoranza, insisterà perché i progetti di legge presentati dalla minoranza non siano messi troppo indietro in calendario, altri vorranno invece il contrario, si discute e alla fine si forma il calendario. Alla conferenza dei capigruppo partecipa il Governo (generalmente tramite il Ministro per i rapporti col Parlamento).

La programmazione dei lavori rappresenta un nodo assolutamente cruciale nel complesso equilibrio tra autonomia delle Camere e ruolo del Governo nell’indirizzo politico. E’ il momento del ‘raccordo’ tra attività delle Camere e indirizzo politico del Governo. Già il regolamento della Camera dei deputati del Regno faceva riferimento, agli ‘opportuni concerti’ tra presidente della Camera e Ministri. Il fascismo, nel 1925, introdusse invece il principio del necessario assenso del Governo per poter inserire qualunque argomento all’ordine del giorno delle Camere. Quel momento, che annientò la autonomia parlamentare nel porre nel nulla la capacità del Parlamento di programmare i propri lavori, viene ricordato come ‘il momento dell’impossessamento, da parte del Regime, di uno dei gangli costituzionali vitali dello Stato’ (così E. Gianfrancesco, in Il Filangieri, Quaderno 2012-2013, p. 218). All’estremo opposto si situano i casi in cui il potere di programmazione delle Camere è attribuito in tutto e per tutto alle Camere stesse, e in particolare ai loro Presidenti, in piena ‘autonomia’ dal Governo. Queste ipotesi ricorrono nelle forme di governo dualiste, come quella presidenziale americana, ma non sono ammissibili nelle forme parlamentari, che presumono una collaborazione tra parlamento e governo nell’indirizzo politico. Nel nostro sistema d’epoca repubblicana, il punto di equilibrio è stato trovato, come detto sopra, prevedendo che la programmazione è sì decisa dal presidente, ma in sede di conferenza dei capigruppo e con la partecipazione di un rappresentante del Governo. Fino agli anni ’90, nel caso in cui in conferenza non si raggiungesse l’unanimità sulla programmazione, la decisione veniva rimessa all’Aula, cioè alla Camera, e, questo, per garantire le opposizioni. Con i regolamenti dei primi anni ’90 è stato introdotto un importante cambiamento, ossia che quando in Conferenza non si raggiunge l’unanimità sulla programmazione, il calendario e l’ordine del giorno sono approvati dal solo Presidente senza rimessione all’aula. E’ nata così quella che la dottrina chiama una programmazione puramente presidenziale, che esalta il ruolo del presidente

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d’Assemblea e l’importanza di avere, in quel luogo, un esponente della maggioranza o comunque che esibisca sensibilità alle esigenze della maggioranza.

10.Il lavoro politico delle Camere: l’attività di indirizzo e controllo sul Governo

Le maggioranze in Parlamento

Affinché una votazione in Parlamento sia valida, occorre che sia presente il numero legale, ossia che sia presente la maggioranza assoluta, vale a dire la metà più uno dei componenti di ciascuna Camera. Il numero legale è presunto, ma ciascun deputato o senatore può fare richiesta che venga verificato prima di procedere a una votazione.

Le maggioranze di voto sono: semplice, che corrisponde al 50%+1 dei presenti alla votazione. La maggioranza semplice è quella su cui si svolge la vita politica quotidiana, si votano le leggi, la fiducia al Governo, ecc. (Fatta base 100, presente il numero legale di 51, la maggioranza è 26)

Assoluta: 50%+1 degli aventi diritto al voto (fatta base 100, presente il numero legale di 60, la maggioranza è 51).

Qualificata: ogni maggioranza superiore alla maggioranza assoluta.

Il lavoro politico delle Camere consiste in una continua attività di controllo e indirizzo del Parlamento nei confronti del Governo, attraverso la quale si svolge il ‘rapporto fiduciario’ tra Parlamento e Governo.

Tra Parlamento e Governo esiste un nesso fiduciario per cui il Governo può esercitare le sue funzioni a condizione di avere la fiducia delle Camere e deve dimettersi quando perde questa fiducia. La fiducia iniziale delle Camere sul Governo, le persone che lo compongono e il programma che intende perseguire è espressa in una mozione di fiducia, che è un atto con cui appunto ciascuna delle due camere esprime la propria fiducia al governo, atto che viene approvato dalla maggioranza semplice. La fiducia al governo implica: approvazione del programma di governo e impegno a sostenerlo, approvazione delle persone che compongono il governo, come idonee a rivestire il ministero loro assegnato.

Quando le Camere intendono revocare la propria fiducia al governo devono, secondo la Costituzione, votare una mozione contraria, che si chiama mozione di sfiducia. La mozione di sfiducia deve essere proposta da almeno un decimo dei componenti di ciascuna camera, e deve essere messa ai voti non prima di tre giorni dalla sua presentazione. Questo è per dare un certo tempo al governo in carica di cercare di fare in modo che la mozione venga respinta, cosa che il governo farà cercando di convincere tutti i deputati e senatori che originariamente gli avevano votato la fiducia, a non votare per la sfiducia.

Entrambe queste due mozioni devono essere motivate e votate per appello nominale (art. 94 Cost.).

La necessità di motivazione significa che non si può mettere ai voti la semplice dichiarazione di dare (o revocare) la fiducia al governo, ma anche le ragioni per le quali questo voto viene espresso.

Il voto per appello nominale è una forma di voto palese. Il voto palese può essere espresso o “per alzata di mano” o, appunto, “per appello nominale”. In questo caso ogni deputato e senatore viene

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chiamato per nome e deve dichiarare la sua volontà di voto. I regolamenti prevedono anche ipotesi di voto segreto (in cui non si può risalire all’identità di chi ha votato in un senso o in un altro), ma in un numero molto ristretto di casi, che generalmente corrispondono alle votazioni su materie relative a diritti fondamentali, in cui problemi di coscienza che possono portare un deputato o senatore a dissociarsi dalla linea del suo gruppo e ad avere interesse a vedere coperta da riservatezza la sua scelta sono giustificabili. La limitazione dei casi in cui è possibile ricorrere al voto segreto (un tempo molto numerosi) è stata una importante tappa della lunga partita che, nel corso degli ultimi trent’anni, ha garantito alla maggioranza di Governo il controllo sui lavori parlamentari.

L’appello nominale serve a responsabilizzare i singoli parlamentari nei confronti dei governo e dell’opinione pubblica, che conosce chi ha voluto sostenere il governo e chi no, e può giudicare anche la coerenza dei singoli deputati o senatori, in particolare, con riferimento alla fiducia iniziale, se essi nel prosieguo delle loro attività parlamentari saranno coerenti o meno con il voto espresso al momento della fiducia.

La mozione di fiducia e la mozione di sfiducia sono i due atti fondamentali attraverso i quali si svolge il rapporto fiduciario. Ad essi se ne aggiunge un terzo, che non è un atto preso a iniziativa delle camere, ma un atto preso a iniziativa del governo, non previsto dalla Costituzione, ma nato nella prassi, e che si chiama questione di fiducia. La questione di fiducia ricorre quanto il governo, in vista della votazione di un disegno di legge alla cui approvazione tiene molto, e quando ha però qualche motivo di temere che le camere non lo approvino, dichiara che considererà l’eventuale rigetto del provvedimento come una manifestazione di sfiducia delle camere e si dimetterà. Questa sorta di minaccia tende ad ottenere l’effetto di sollecitare i deputati e i senatori che appartengono ai gruppi parlamentari corrispondenti ai partiti che sostengono il governo di votare nel senso voluto dal governo, perché altrimenti si rischia la crisi di governo e, in prospettiva, lo scioglimento delle camere e nuove elezioni.

La mozione di fiducia, la mozione di sfiducia, e la questione di fiducia possono essere votate solo in Assemblea, dal plenum della camera o del senato, non possono essere votate in Commissione: sono gli atti di indirizzo e controllo riservati all’Assemblea.

Tra il momento iniziale (mozione di fiducia) e il momento finale (mozione di sfiducia) della vita del governo si svolge tra quest’ultimo e le camere un rapporto di indirizzo e controllo continuo che serve a permettere alle camere di conoscere ciò che il governo fa, di chiedergli spiegazioni, di indirizzargli suggerimenti, consigli o indicazioni; attraverso questo rapporto, in altri termini, le Camere, in modo continuativo, indirizzano e controllano il governo.

Gli atti caratteristici di questa funzione delle Camere sono le interrogazioni, le interpellanze, le mozioni e gli ordini del giorno.

Con le interrogazioni e le interpellanze uno o più deputati possono chiedere, oralmente o per iscritto, a un ministro o a tutto il governo informazioni e chiarimenti su un fatto accaduto, sui motivi di quel fatto, sul comportamento che il governo intende tenere al riguardo. Il governo è tenuto a rispondere.

La mozione è una dichiarazione di volontà che le camere votano e nel quale possono esprimere approvazione, disapprovazione, soddisfazione, scontento verso il governo o raccomandargli di fare certe cose. Per esempio, dopo la risposta che il governo ha dato su una interrogazione o interpellanza, può essere votata una mozione che esprime l’insoddisfazione delle camere per la risposta ricevuta.

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L’ordine del giorno è una dichiarazione di volontà che di solito viene votata in accompagnamento a una legge approvata dalle Camere e che serve a raccomandare al governo di, per esempio, procedere rapidamente all’esecuzione di quella legge.

Interpellanze, interrogazioni, mozioni e ordini del giorno possono essere discussi e votati sia in assemblea che in Commissione.

Si noti che si parla di ordine del giorno in due significati distinti: come calendario delle votazioni e delle attività di una singola giornata; come atto di indirizzo e controllo.

11. Il lavoro legislativo delle Camere: il procedimento di approvazione delle leggi ordinarie

Il “lavoro legislativo” delle Camere consiste nell’esame e nella deliberazione dei progetti di legge ordinaria, costituzionale e di revisione costituzionale. Abbiamo già descritto in altro capitolo il procedimento di approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale, ora descriveremo il procedimento di formazione della legge ordinaria.

L’approvazione di una legge segue un iter, un procedimento, che è composto di diverse fasi:

1. Iniziativa: un progetto di legge viene presentato alla Camera o al Senato; Il potere di iniziativa spetta: al Governo e a ciascun deputato o senatore; inoltre, progetti di legge possono essere presentati dai consigli regionali. Il corpo elettorale può esercitare la iniziativa legislativa tramite la presentazione di una proposta sottoscritta da almeno cinquecentomila elettori (v. art. 71 della Costituzione). L’attuale progetto di revisione del Senato intende alzare questa soglia a ottocentomila elettori.

2. Esame: il progetto di legge viene discusso, vengono proposte e votate le proposte di modifica (emendamenti);

3. Votazione o Deliberazione: il testo del progetto di legge viene votato; se raggiunge la maggioranza richiesta (normalmente la maggioranza semplice) lo si considera approvato. Il testo così approvato da una delle Camere viene trasmesso all’altra, che a sua volta lo esamina e lo vota. Il testo passa da una Camera all’altra finché non viene approvato da entrambe nello stesso testo. A questo punto viene trasmesso al Presidente della Repubblica per la

4. Promulgazione, che è l’atto formale con cui il Presidente della Repubblica, preso atto che l’atto è stato votato dalle due Camere, dichiara che esso è una legge dello stato e ne ordina la

5. Pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. La pubblicazione in Gazzetta serve a rendere l’atto noto a tutti; le leggi entrano normalmente in vigore dopo 15 giorni dalla pubblicazione in gazzetta, ma eccezionalmente possono entrare in vigore il giorno stesso della pubblicazione (questo viene detto, in caso, nella legge stessa), ma nessuna legge può entrare in vigore senza pubblicazione, dunque la pubblicazione viene considerata un atto integrativo dell’efficacia della legge, nel senso che è un atto necessario perché la legge acquisti la sua piena efficacia.

La fase dell’esame e della votazione non avvengono necessariamente e per intero in assemblea, nel plenum; normalmente si svolgono in parte in commissione e in parte in assemblea e qualche volta possono avvenire solo in commissione.

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11.1. Il ruolo delle commissioni nel procedimento legislativo

Nel procedimento di formazione della legge le commissioni possono infatti svolgere uno di questi tre ruoli:

- referente (commissione in sede referente). Dopo avere ricevuto il progetto di legge, il presidente della Camera (o del Senato) lo assegna alla commissione competente per materia (per esempio: se il progetto di legge è in materia di salute, alla commissione salute) per l’esame in sede referente e alle tre commissioni “filtro”.

Quando le viene attribuito il ruolo referente, la commissione competente per materia deve solo esaminare il progetto e preparare una relazione nella quale ne illustra le caratteristiche ed esprime un proprio parere; fatto questo, la commissione restituisce il progetto alla Camera (o al Senato) e tutto il resto dell’esame e della votazione avviene in assemblea, alla quale riferiscono anche le tre commissioni filtro, le quali diranno per esempio: questo progetto di legge presenta dei problemi di costituzionalità, che potrebbero essere risolti introducendo questa e questa modifica; non presenta (oppure presenta) problemi con riferimento al bilancio dello stato, e se sì, quali; presenta (oppure non presenta) problemi di conformità con l’ordinamento comunitario. Da questo punto in poi, entra in scena l’assemblea, dove si svolge l’esame e la votazione dei singoli articoli e dell’intero testo. Questa è la procedura normale di approvazione delle leggi.

- Redigente (commissione in sede redigente). Dopo avere ricevuto il progetto di legge, il presidente della Camera (o del Senato) lo assegna prima all’assemblea che lo discute nelle linee generali, dopo il testo viene trasmesso alla commissione competente per materia (per esempio: se il progetto di legge è in materia di salute, alla commissione salute) per l’esame in sede redigente. In questo caso la commissione ha il compito di redigere e approvare i singoli articoli poi il testo torna in assemblea per venire votato nel suo insieme. Nella sua attività di redazione dei singoli articoli la commissione discute, vota sulle varie proposte di modifica presentate dai suoi membri finché perviene alla redazione di un testo redatto in articoli (un “articolato”) che viene approvato dalla maggioranza della commissione. Quando il testo torna in assemblea quest’ultima vota il testo che le viene trasmesso dalla commissione, senza possibilità di introdurre ulteriori emendamenti.

Quando si adotta il procedimento con commissione in sede redigente, le tre commissioni filtro danno il loro parere alla Commissione competente per materia.

- Deliberante (commissione in sede deliberante o “legislativa”). Dopo avere ricevuto il progetto di legge, il presidente della Camera (o del Senato) lo assegna prima all’assemblea che lo discute nelle linee generali, poi il testo viene trasmesso alla commissione competente per materia per l’esame e l’approvazione in sede deliberante. In questa ipotesi tutta la vicenda della proposta di legge (esame, discussione, votazione dei singoli articoli e del testo finale) avviene in commissione, cioè non è l’assemblea che alla fine vota il testo definitivo ma la votazione definitiva avviene in commissione. A certe condizioni (se lo chiedono il Governo, o un decimo dei componenti della Camera o un quinto dei membri della Commissione) si può in ogni momento chiedere il ritorno alla procedura normale, con la restituzione all’assemblea del potere di approvare o meno la proposta.

Anche quando si adotta il procedimento con commissione in sede deliberante, le tre commissioni filtro danno il loro parere alla Commissione competente per materia.

11.2.Riserva di assemblea

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Non è ammesso il procedimento in commissione deliberante e redigente per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionale di approvazione di bilanci e consuntivi. In questi casi, dispone l’art. 72 ult.co. Cost., è necessaria la procedura normale di esame e approvazione, quella che prevede la commissione referente. Si dice pertanto che le leggi nelle materie elencate nell’art. 72 ult.co. sono sottoposte a una riserva di assemblea (devono essere votate articolo per articolo e nel testo finale in assemblea).

Le commissioni permanenti possono anche essere chiamate a svolgere una funzione consultiva, cioè a esprimere pareri, su determinati atti del governo.

11.3.L’ordine del voto

Va ricordato che la regola generale dei lavori parlamentari è che nell’esame di una legge prima si discutono e votano i singoli articoli, poi il testo finale. La discussione e votazione dei singoli articoli include la discussione e votazione degli emendamenti, che si fa partendo dagli emendamenti il cui contenuto è più lontano e contrastante con quello della disposizione cui si riferiscono (si comincia infatti dagli emendamenti ‘soppressivi’) per venire via via a quelli che contengono modifiche meno incisive.

La discussione degli emendamenti avviene normalmente in Commissione, ma può essere riproposta anche in Assemblea.

11.4.Il procedimento legislativo come mera ‘ratifica’ delle decisioni del Governo

In tema di procedimento legislativo, è importante ricordare che, benché secondo la nostra Costituzione l’iniziativa delle leggi spetti (anche) ai singoli parlamentari, gli attuali regolamenti non garantiscono tempi certi per la messa in discussione dei disegni di legge presentati dall’opposizione, li lasciano emendabili a tutto campo dalla maggioranza che può arrivare a stravolgerli e portare in votazione quei provvedimenti in un senso del tutto diverso da come l’opposizione li aveva redatti, e che vede poi l’opposizione, pertanto, non votarli più. Si tratta di un aspetto che può spiegare la ‘crisi della legge’, la sfiducia nel procedimento legislativo che non appare più un ‘bene’ meritevole di difesa neppure da parte delle Opposizioni (E. Gianfrancesco, op. cit., p. 236). Sulla discussione dei disegni di legge di maggioranza è previsto invece il ‘contingentamento’ dei tempi di discussione e una attenta selezione degli emendamenti che possono essere posti in discussione, compresa la tecnica, sopra citata, del ‘canguro’. Sebbene un certo favore per gli atti di iniziativa del Governo sia normale nel procedimento legislativo di una democrazia parlamentare, è difficile considerare fisiologico il completo annullamento dei poteri dell’opposizione.

11.5. (continua) La crisi della legge come crisi della procedura parlamentare

Si deve anche notare che, oggi, il procedimento legislativo viene usato quasi esclusivamente per l’esame di disegni di legge del Governo e in particolare per l’esame di disegni di legge di conversione dei decreti legge e di disegni di legge in materia finanziaria (che sono sempre più spesso, a loro volta, disegni legge di conversione di decreti legge perché, a partire dal 2008, il ricorso da parte del governo a decreti legge in materia finanziaria e di bilancio è divenuto irrefrenabile). Sulla conversione dei decreti legge il Governo pone ritualmente la questione di

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fiducia accompagnata da un maxi-emendamento che riassume il testo del decreto per come il Governo vuol farlo approvare (facendo cadere ogni altro emendamento). L’ammissibilità sia della questione di fiducia che del maxi emendamento è decisa dal Presidente d’Assemblea, e questa decisione “costituisce l’unico e ultimo freno parlamentare rispetto alla approvazione di un testo legislativo la cui formazione è in genere rimessa al presentatore del maxi-emendamento e cioè al Governo” (N. Lupo, in Quaderni del Filangieri 2012-2013, p. 195). In sostanza, nel procedimento legislativo utilizzato per la conversione dei decreti legge, tutto il ruolo giocato dall’Assemblea legislativa si riduce alla decisione del suo presidente di autorizzare il Governo a porre la fiducia su un suo maxi-emendamento. Si noti che la Costituzione, all’art. 72, prevede che le leggi devono essere votate ‘articolo per articolo’, mentre il maxi emendamento è un voto unico su un articolato anche enorme. Secondo molti autori, ‘agevolando, o, almeno non adeguatamente ostacolando, il ricorso alla posizione della questione di fiducia su maxi-emendamenti’ i Presidenti d’assemblea hanno dunque agevolato la costruzione di una prassi in ‘palese violazione dell’art. 72 Cost.” (N. Lupo, op. cit., p. 196).

Nonostante, infatti, nel corso del tempo il Governo abbia ottenuto norme procedimentali sempre più favorevoli (cioè: che danno priorità ai provvedimenti a iniziativa governativa nell’esame delle Camere; che hanno ridotto sino a eliminare il voto segreto, occasione di ‘tradimenti’ e voti incrociati; che hanno ridotto le possibilità per le opposizioni di rallentare o ostacolare l’esame dei provvedimenti della maggioranza) il Governo non ha mai abbandonato, ma anzi ha rafforzato, una sua tendenza a portare avanti il suo indirizzo politico non con le leggi ordinarie, che ne sarebbero lo strumento naturale, ma con i decreti legge. Così, le modifiche al regolamento dell’organo legislativo, cioè del Parlamento, sono andate a favore dell’esercizio del Governo dei suoi poteri normativi. Per questo oggi si dice senza mezzi termini che le Camere hanno ormai solo il ruolo di ‘ratificare’ le decisioni del Governo: questo adotta i decreti, li presenta alle Camere per la conversione, i tempi della discussione sono ‘contingentati’ ed ogni eventuale modifica che le Camere facciano al decreto può essere fatta cadere dal Governo presentando una ‘mozione di fiducia’ che li fa decadere e fa equivalere l’approvazione del decreto a una conferma della fiducia al governo (ovvero fa equivalere una eventuale bocciatura del decreto a una mozione di sfiducia contro il governo). Le Camere hanno favorito recentemente in modo ulteriore questo processo introducendo l’istituto cd. della ‘ghigliottina’, una decisione del presidente dell’Assemblea che impedisce la discussione degli emendamenti che prolungherebbero ‘troppo’ la discussione parlamentare. Nel progetto di revisione del Senato, sono introdotte norme che accentuano questo carattere, come la cd ‘legge a data certa’: quando il Governo presenta una iniziativa di legge ordinaria, può chiedere e ottenere che il parlamento voti entro 60 giorni, il che significa eliminare la possibilità che il Parlamento introduca modifiche. In sostanza, con la legge a data certa la legge ordinaria verrebbe approvata con lo stesso procedimento che oggi si è instaurato per i decreti legge, e che, come abbiamo detto, si riduce a una decisione del presidente d’assemblea di votare sulla proposta del Governo tal quale è stata presentata.

11.6. Approvazione della legge con strappo alla Costituzione. Il caso dell’Italicum (rinvio)

I problemi della procedura parlamentare corrispondono ad altrettanti problemi politici e risalgono al carattere non coeso della maggioranza: il governo non ha una maggioranza solida perché anche all’interno dello stesso partito di maggioranza vi sono visioni molto diverse. Non riuscendo a creare un reale consenso intorno alle sue iniziative, il governo cerca di ottenerne l’approvazione forzando le procedure parlamentari. Recentemente – nel corso del procedimento di approvazione della legge elettorale per la Camera dei Deputati ‘Italicum’ – si è manifestato un nuovo metodo di forzatura della procedura parlamentare per aggirare le difficoltà politiche (del partito di maggioranza e quindi del) Governo. Poiché l’ Italicum non riusciva a trovare in commissione referente un consenso sufficiente, il governo ha ottenuto dal presidente d’Assemblea che fosse portato in Aula senza l’accompagnamento della relazione della Commissione (nonostante l’art. 72 della Costituzione imponga l’adozione della procedura normale, con esame in sede referente, in caso di leggi elettorali). Poi, anziché mettere il testo in votazione secondo l’ordine normale (e costituzionalmente

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prescritto: è la Costituzione che stabilisce che ogni disegno di legge deve essere approvato articolo per articolo e con votazione finale), è stato messo ai voti un ‘emendamento’ presentato dal gruppo parlamentare di maggioranza, che riassumeva il contenuto dell’intera legge (cd. Emendamento Esposito, dal nome del primo presentatore). Come ha osservato il costituzionalista Gaetano Azzariti, la ratio della disposizione costituzionale che impone prima di votare articolo per articolo e poi di votare il testo finale è stata ribaltata: “si è imposta anzitutto una sorta di ‘votazione finale’ per poi obbligare i nostri parlamentari ad adeguarsi nelle successive votazioni articolo per articolo. Contro ogni tecnica di buona legislazione si è fatta premettere alla legge una disposizione (significativamente indicata come articolo 01) che non ha nessun contenuto precettivo, bensì si limita a riassumere per intero i principi che devono essere contenuti nelle successive disposizioni. Si pensa così di avere trovato il modo di impedire ogni possibile ulteriore discussione, votazione ed eventuale approvazione di articoli non conformi (secondo il regolamento del Senato, non sono ammessi emendamenti in contrasto con deliberazioni già adottate sull’argomento nel corso della discussione).” (Se il Parlamento diventa una bisca, in Il Manifesto, 22.1.2015, p. 2).

Ritorneremo su questi problemi nell’approfondimento dedicato alla legge elettorale e alla riforma del Senato e delle Regioni.

II.Il Governo

1.La composizione del Governo

Secondo l’art. 92 della nostra Costituzione, il Governo della Repubblica è composto da

Presidente del Consiglio, che “dirige e coordina l’attività dei ministri e mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo”

Ministri, che sono i vertici delle singole amministrazioni dello stato

Consiglio dei Ministri, che è l’organo che riunisce il Presidente del Consiglio e i Ministri e nel quale vengono prese le decisioni e le scelte che impegnano il Governo come tale, cioè nella sua interezza.

Il governo è, pertanto, un organo collegiale.

2.La formazione del governo, la crisi di governo

Art. 92.2. Cost. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri, e, su proposta di questi, i Ministri.

Art. 93. Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica.

Art. 94. Il Governo deve avere la fiducia delle Camere.

Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale.

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Il voto contrario di una o entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni.

Il Governo, a differenza delle Camere, non ha una durata in carica prefissata: dura fino a quando ha la fiducia delle Camere. Per comprendere i ritmi della vita del Governo, occorre poi tenere distinti due aspetti: l’essere in carica e l’essere nella pienezza delle funzioni.

La condizione per cui il Governo è in carica inizia a decorrere nel momento in cui il Governo è nominato, dal Capo dello Stato, e presta giuramento di fedeltà alla Repubblica nelle sue mani, e cessa nel momento in cui entra in carica il successivo Governo.

La condizione per cui il Governo ha la pienezza delle funzioni inizia nel momento in cui il Governo riceve la fiducia delle Camere, e cessa nel momento in cui il Governo si dimette.

Pertanto, vi sono momenti in cui il Governo è in carica ma non ha la pienezza delle funzioni, e questi momenti sono quelli del Governo in attesa di fiducia e del Governo dimissionario.

Il Governo in attesa di fiducia e il Governo dimissionario possono compiere solo atti di ordinaria amministrazione, cioè atti già previsti, che rappresentano esecuzione di scelte già deliberate o adempimento di impegni già presi, e previsti dalla legge o dalla Costituzione; inoltre, possono adottare atti improcrastinabili, necessari e urgenti (decreti legge). Invece, gli atti di indirizzo politico, (come la presentazione di un disegno di legge attuativo di un aspetto del programma del governo) sono riservati al governo che abbia la fiducia delle camere. Dunque, quando c’è la crisi di governo significa che il governo in carica è dimissionario, e cioè è in carica solo per l’ordinaria amministrazione o “compimento degli affari correnti”. Facciamo l’esempio che per il 18 ottobre sia previsto un Consiglio dei ministri a Bruxelles, e per il 20 ottobre un vertice internazionale in Italia. Il 16 ottobre il governo si dimette. I suoi ministri possono andare a Bruxelles? Il presidente del Consiglio “uscente” può presiedere il vertice? Sì, perché sono gli affari correnti; certo però potrà dire niente di vincolante per il paese, non potrà stipulare accordi nuovi, perché non ha la fiducia.

Una volta chiarite queste due diverse legittimazioni del Governo, che dipendono dall’avere o meno la fiducia, occorre chiedersi quando si forma un nuovo Governo, quali sono le condizioni e le circostanze che conducono all’esigenza di formare un nuovo Governo.

La formazione del nuovo Governo, ovviamente, è necessaria quando il Governo in carica è dimissionario. Bisogna però distinguere i casi in cui il Governo ha l’obbligo di dimettersi da quelli in cui si dimette per una sua spontanea valutazione.

2.1. Dimissioni del Governo: obbligatorie e spontanee

Il governo ha l’obbligo di dimettersi in tutte le situazioni in cui non può esservi dubbio che il rapporto fiduciario è venuto meno. Tra queste situazioni una sola è obiettivamente prescritta in Costituzione e cioè

a. quando, in corso di legislatura, il Governo ha ricevuto un voto di sfiducia delle Camere (crisi parlamentare), situazione che evidenzia in modo inequivocabile che la condizione per la permanenza in carica del Governo, l’esistenza del rapporto fiduciario, è venuta meno;

Tuttavia, si ritiene principio inerente la logica della forma di governo parlamentare che il governo sia obbligato a dimettersi:

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b. in caso di morte o impedimento permanente del Presidente Consiglio. Il Presidente del Consiglio essendo la figura più eminente del Governo, si presume che la sua scomparsa determini il venir meno del rapporto fiduciario.

c. Dopo lo svolgimento delle elezioni, quando si è formata una nuova rappresentanza parlamentare.

I governi italiani si sono tutti dimessi dopo le elezioni, tranne il Governo De Gasperi VII, primo della storia repubblicana (porta il numero VII perché si contano anche i Governi del periodo costituzionale transitorio, precedente l’entrata in vigore della Costituzione), che rimase in carica a cavallo delle elezioni del 18 aprile 1948. Le dimissioni del governo davanti alle nuove camere sono un potente riconoscimento della primarietà della rappresentanza parlamentare nella forma di governo, e della ‘dipendenza’ del governo da essa. (I governi del periodo statutario non si dimettevano mai dopo le elezioni.) Dopo il 1948 l’unico Governo che non ha dato le dimissioni davanti alle Camere neo-elette è stato il Governo ‘tecnico’ Monti (febbraio 2013), che arrivò alle elezioni dimissionario, ma senza che questa sua condizione fosse mai stata accertata con una discussione in Parlamento.

Il Governo può inoltre decidere spontaneamente di dimettersi quando avverte di avere perduto il sostegno della maggioranza in parlamento anche se ciò non è stato formalizzato da un voto di sfiducia. In questi casi si parla di dimissioni spontanee dovute a una crisi extraparlamentare (che cioè non è stata sancita in parlamento da un voto di sfiducia).

Un voto contrario in Parlamento non determina obbligo di dimissioni, dice espressamente la Costituzione. Se il Governo, durante una votazione in Parlamento, va in minoranza, non significa che sia obbligato a dimettersi. Tuttavia una serie di voti contrari possono essere presi dal Governo come indice che la sua maggioranza non è più coesa, è venuta meno, e indurlo a presentare spontaneamente le dimissioni.

La differenza tra il caso in cui il Governo ha l’obbligo di dimettersi e quello in cui esso si dimette spontaneamente è che nel primo caso il Capo dello Stato ha l’obbligo di accettare le dimissioni del Governo (che avranno effetto a partire dalla nomina del nuovo). Nel secondo caso no, e può invitare il Governo a riflettere, e soprattutto lo può invitare a presentarsi in Parlamento per ufficializzare le ragioni delle proprie dimissioni (parlamentarizzazione della crisi), e accettare le dimissioni solo dopo che questo è avvenuto. La parlamentarizzazione della crisi è una prassi che risponde all’esigenza di chiarire in modo pubblico le ragioni politiche e le responsabilità di una crisi di governo avvenuta dietro le quinte.

2.2.Prassi recenti in materia di dimissioni del Governo

La regola costituzionale secondo cui il governo non ha l’obbligo di dimettersi a seguito di voto contrario delle camere significa che il governo non può pretendere dal parlamento che sia sempre d’accordo con lui: non si può arrivare al punto, cioè, che per timore che il governo si dimetta, per timore di provocare una crisi di governo la dialettica parlamentare venga completamente esautorata . Oggi questa componente del nostro disegno costituzionale è oggi in grande sofferenza: l’esigenza di governabilità (cioè che il governo attui il suo indirizzo) e quella di stabilità (cioè che non vi sia crisi di governo) hanno preso il sopravvento rispetto al favore per la dialettica politica che certamente segna la nostra Costituzione. Infatti, la regola appena citata, e il preciso significato ordinamentale che incorpora (che si può, sia pure con un po’ di brutale semplificazione, esprimere dicendo che il parlamento non è agli ordini del governo, o il ratificatore delle sue decisioni) è apertamente contraddetta dalla tendenza degli esecutivi a porre molto frequentemente la questione di fiducia, “minacciando” il parlamento di dare le dimissioni se il provvedimento su cui il governo ha posto la fiducia non viene approvato. Nel dicembre 2012, l’allora presidente del Consiglio Mario Monti è arrivato a motivare le sue dimissioni col fatto che, in parlamento, il segretario del principale tra i

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partiti che sostenevano il governo aveva espresso in parlamento l’intenzione del suo gruppo di non votare alcuni provvedimenti del governo stesso.

Bisogna anche ricordare che nel nostro ordinamento costituzionale non è il governo, ma il capo dello stato, che scioglie le Camere. Di conseguenza le dimissioni del Governo non possono essere date col motivo (e neppure con l’intento, almeno non con intento giuridicamente rilevante, seppure è certo ammissibile che il governo possa politicamente perseguire questo scopo) di provocare lo scioglimento delle Camere e il ricorso a nuove elezioni, poiché questo tipo di valutazioni non spettano al Governo, ma ad altro organo costituzionale, e inoltre, apertasi la crisi di governo, la prima valutazione da fare è comunque se sia possibile ricostituire un altro Governo (e, in caso di dimissioni spontanee, anche se sia possibile per il Governo ritrovare la sfiducia delle Camere). Anche sotto questo profilo rappresentarono il segno di prassi innovative le dimissioni del Governo Monti, che, trovandosi a fine legislatura e in un contesto in cui un eventuale anticipo della data delle elezioni politiche era nei fatti in discussione, furono rese nella consapevolezza di provocare lo scioglimento anticipato delle Camere.

Notevole caratteristica delle dimissioni del Governo Monti, significativa dell’affermarsi di nuove ‘culture’ costituzionali, fu anche la circostanza, resa pubblica dallo stesso Presidente del Consiglio, per cui egli comunicò al Quirinale la sua intenzione di dimettersi ma non la comunicò preventivamente ai suoi Ministri. Oltre a confermare la particolare relazione di fiducia personale che, non in accordo con la configurazione costituzionale dei rapporti tra questi due organi, ha legato il Presidente del Consiglio Monti al Presidente della Repubblica Napolitano, questa circostanza equivale a una decisa interpretazione in senso monistico e gerarchico dell’organo ‘Governo’. Noi proveniamo da una evoluzione lunga ormai almeno vent’anni che vede l’affermarsi nei fatti di una posizione di preminenza del Presidente del Consiglio sulle altre componenti del Governo, non del tutto armonica con il disegno paritario e collegiale che dell’organo la Costituzione disegna, tuttavia una simile completa esautorazione della collegialità dell’esecutivo, se si vuole un simile declassamento del ruolo costituzionale dei singoli ministri e del consiglio dei ministri si fece registrare come un dato notevole. E’ una prassi che va in una con le tendenze alla ‘personalizzazione’ del potere (la riduzione dell’articolazione pluralistica dello Stato alla volontà e personalità o carisma di un singolo), tendenze che erano state contrastate dalla Costituzione (che voleva, con questo, differenziarsi dalle esperienze autoritarie del Regno e del Fascismo).

2.2.1. Dimissioni ‘sotto condizione’

E’ da notare anche che, contrariamente alla prassi consolidata che impone la ‘parlamentarizzazione’ della crisi in caso di dimissioni spontanee, di tanto non si è parlò nel caso delle dimissioni del Governo Monti. E’ vero che la crisi nacque da affermazioni di un deputato in parlamento; ma altro sono le affermazioni di un singolo, altro il dibattito e lo schieramento di punti di vista che può emergere in una discussione dedicata espressamente a valutare se il governo a o meno la fiducia delle camere, con utile approfondimento pubblico sia delle ragioni della crisi, sia delle diverse posizioni e responsabilità delle varie forze politiche.

2.2.2. La nuova ‘sfiducia dei mercati’ e la vecchia ‘sfiducia del partito’

Ultima osservazione da fare sulle recenti dimissioni del Governo Monti è che si tratta del secondo caso di dimissioni ‘annunciate’ o ‘sotto condizione’. Come già aveva fatto il Presidente del Consiglio Berlusconi nel 2011, anche nel caso del Governo Monti il Governo annunciò che si sarebbe dimesso dopo l’approvazione in parlamento della Legge di Stabilità. Le ‘dimissioni del

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governo sotto condizione’ sono una novità che genera ambiguità in quanto, fino a che la condizione sospensiva non si produce, il governo è nella pienezza delle funzioni; ma indubbiamente, nelle cose, è anche un po’ dimissionario, ciò che non facilita la individuazione dei corretti limiti della sua azione, mentre in uno stato di diritto, e in una democrazia, è importante avere chiarezza sulla condizione giuridica di questo o quell’organo, perché è necessario che vi sia la possibilità di controllare la correttezza del suo operato.

Un’altra significativa recente “innovazione” nelle prassi inerenti le dimissioni e la crisi del Governo fu segnata dalle circostanze in cui cadde il governo Berlusconi nel novembre 2011: il motivo di quelle dimissioni fu visto da tutti nella ‘caduta dello spread’ l’indicatore del tasso di fiducia che gli investitori internazionali hanno nei confronti del nostro paese. Si è trattato, insomma, del primo caso conclamato di sfiducia dettata dai mercati, che avverte in modo molto chiaro di come i poteri economici influenzano attualmente le vicende politiche e istituzionali interne. Le dimissioni del Governo Letta (succeduto a Monti) nella primavera 2014 furono dovute a un ‘terremoto’ interno al partito di cui il Presidente del Consiglio era espressione (il PD), e cioè alla affermazione di Matteo Renzi nelle ‘primarie’ del PD ( successo che, in fondo, è ben diverso da una affermazione elettorale). Alcuni hanno notato che è risaltata, in quella circostanza, la confusione tra vicende di un partito e vicende delle istituzioni, che si è presentata spesso, sotto varie forme, nel nostro Paese, ma che convive molto male con lo stato di diritto costituzionale.

In sintesi, il fatto che la costituzione, o una serie di norme convenzionali o di prassi, in chiara opposizione alla prassi statutaria, indichino quando il governo deve o si può dimettere, serve a dire che il governo non può rimanere in carica a piacer suo; il che implica anche che neppure il Governo può dimettersi a piacer suo, ossia dare le dimissioni per motivi futili, per motivi che restano non chiari all’opinione pubblica e al parlamento, o che possono apparire irrilevanti rispetto alla sua missione e mandato specifici (se tecnico), o che dipendono da guerre interne a un partito per la conquista del potere al suo interno. Ma, nelle cose, e del tutto analogamente alla prassi statutaria, le dimissioni del Governo (così come, in parallelo, la nomina del Governo) hanno dimostrato nell’esperienza repubblicana di rispondere a molteplici e variabili criteri, ancorati in modo contingente all’andamento dei rapporti tra i partiti e alla decisione che il Presidente della Repubblica prende circa il modo di rapportarsi ad essi.

2.3. La formazione del nuovo Governo

Una volta che il Governo è dimissionario si deve dunque procedere alla formazione del nuovo. Dal punto di vista formale, cioè degli adempimenti che devono essere effettuati, le tappe sono le seguenti: il Presidente della Repubblica nomina un certo uomo politico “Presidente del Consiglio incaricato”, incaricato cioè di formare il nuovo Governo. Questi “accetta l’incarico con riserva”, con riserva cioè di riuscire davvero nell’intento. Si tratta di stilare il programma di Governo e formare la lista dei ministri (e dei sottosegretari, che sono gli immediati collaboratori dei Ministri e rappresentano cariche molto importanti politicamente, nonché dell’eventuale Vice Presidente del Consiglio, che è una carica non necessaria che talvolta viene affidata, per rispondere a esigenze di equilibrio politico, cioè di rappresentanza nel Governo di esponenti forze politiche che lo sostengono). Ciò fatto, il Presidente del Consiglio incaricato torna al Quirinale (ma negli ultimi anni la scelta dei Ministri è avvenuta sentendo molto da vicino il Capo dello Stato), scioglie la riserva e accetta l’incarico di Presidente del Consiglio, quindi egli, insieme ai Ministri, giura fedeltà alla Repubblica nelle mani del Capo dello Stato. In questo momento il nuovo Governo è formato ed entra in carica (e le dimissioni del vecchio Governo, rimasto sino a questo momento in carica per gli affari correnti, hanno effetto) e iniziano a decorrere i 10 giorni entro i quali il Governo deve presentarsi alle Camere per avere la fiducia. Una volta ricevuta la fiducia, il Governo assume la

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pienezza delle funzioni e può cominciare a porre in essere atti di indirizzo politico, che saranno gli atti volti all’attuazione del suo programma.

La Costituzione è chiara nel dire che il Governo deve avere la fiducia delle Camere (cioè dei partiti politici), e non del Presidente della Repubblica; tuttavia, nel corso del tempo, sono state numerose le esperienze di governi cd ‘tecnici’ sostenuti dalla sola, o preminente, fiducia del Presidente che ne ha scelto o ha contribuito a sceglierne i componenti. Con il Governo Renzi, il principio per cui il Governo deve avere la fiducia delle Camere ha trovato una attuazione invero complessa, posto che il Governo si appoggia espressamente su un accordo (noto all’opinione pubblica come Il Patto del Nazareno) con il maggiore esponente di un partito, Forza Italia, che è all’opposizione. Questo ricorda molto da vicino le prassi ‘consociative’ che caratterizzavano il periodo anteriore alla riforma elettorale del 1993, quando la Democrazia Cristiana, perpetuamente alla guida di governi di coalizione in cui si alleava con piccoli partiti satellite, viveva dell’appoggio che in Parlamento le dava il maggior partito di opposizione, cioè il Partito Comunista Italiano. Allora come ora, il contenuto degli accordi in cui si cementa la alleanza tra le forze politiche, non è noto all’opinione pubblica.

3.Le funzioni del Governo: quadro d’insieme

Il Governo ha molte e importanti funzioni, che possiamo così elencare:

Funzione di indirizzo politico Funzioni normative Funzioni di direzione della pubblica amministrazione Svolgimento dei rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea e con l’estero Svolgimento dei rapporti con le Regioni e le autonomie locali

3.1. Funzione di indirizzo politico

E’ la funzione di individuare e perseguire le finalità e gli obiettivi verso cui indirizzare la vita nazionale, coerenti con la visione politica dell’esecutivo, e di individuare le modalità con cui affrontare problemi o situazioni nuove che si presentino mentre il governo è in carica, anche se si tratta di scelte non previste al momento dell’insediamento. Il Governo impronta tutta la sua attività, tutte le sue diverse funzioni intorno al proprio indirizzo politico, tranne quelle che lo impegnano all’esecuzione del diritto vigente.

Anche se si può dire che, fatta l’eccezione appena detta, e sulla quale torneremo parlando del lavoro dei Ministri, tutta l’attività del Governo è espressione di indirizzo politico, esistono alcuni atti che sono specificamente espressione di questa funzione e questi atti sono due:

- il programma di governo, che contiene gli obiettivi che il Governo si propone di raggiungere e che il Governo sottopone alle Camere quando chiede la fiducia;

- gli atti di attuazione del programma di governo e tra questi, tipicamente e in modo eminente, gli atti di iniziativa legislativa, cioè la presentazione di progetti di legge al parlamento. Es.: Il governo, avendo messo tra i suoi obiettivi di programma una riforma della scuola superiore, per attuare questo obiettivo deve arrivare all’approvazione di una legge che riformi la scuola superiore, perciò presenta un progetto di legge alle Camere contenente questa riforma.

3.2.Funzioni normative. Decreti legge, decreti delegati e regolamenti

Nel nostro sistema la funzione legislativa, la funzione di adottare leggi, è riservata alle Camere, al Parlamento. Tuttavia atti normativi, atti contenenti norme giuridiche obbligatorie, diversi dalla

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legge ordinaria (cioè dalla legge adottata dal parlamento) possono essere adottati da altri soggetti, e in particolare dal Governo. La funzione di adottare atti con contenuto ed efficacia normativa, ma diversi dalla legge (cioè adottati da un organo diverso dal Parlamento e, di conseguenza, con un procedimento diverso da quello legislativo) è appunto la funzione normativa.

La funzione normativa del Governo è molto ampia e molto importante e comprende due tipologie di atti:

a) atti equiparati alla legge (atti “primari”), dotati cioè della forza e del valore di legge, che per brevità sono spesso indicati come atti con forza di legge: decreto delegato e decreto legge;

b) atti privi di forza e valore di legge, chiamati regolamenti (regolamenti governativi, quando emanati dal Consiglio dei Ministri; regolamenti ministeriali, se emanati dal singolo ministro, e regolamenti del Presidente del Consiglio dei Ministri quando emanati da quest’ultimo.

3.3.Funzioni di direzione della pubblica amministrazione

La pubblica amministrazione è il complesso degli apparati che sono preposti alla cura degli interessi pubblici. Il Governo ne ha la direzione e la responsabilità.

La struttura normale, tradizionale, nel senso di storicamente più antica, in cui avviene la gestione dei servizi pubblici è il “ministero”. Il ministero è un apparato al cui vertice è collocato un Ministro, un membro del governo, e che è composto di uffici, personale, risorse attraverso le quali si provvede alla offerta e gestione dell’interesse che è oggetto dell’attività del ministero. Prendiamo per esempio, ancora, il ministero dell’Istruzione: al vertice c’è il Ministro, con la sua sede a Roma dove stanno tutti gli uffici centrali del ministero, e poi nel territorio sono distribuiti uffici periferici (i provveditorati e i singoli istituti) che svolgono una serie di funzioni (per esempio: di gestione del personale: nomina degli insegnanti, formazione delle graduatorie), che sono riferite al funzionamento del servizio scolastico in un comprensorio territoriale determinato (la provincia e il comune). Oppure, pensiamo alle funzioni di ordine pubblico interno, che sono assicurate dal Ministero dell’interno, i cui uffici periferici sono le prefetture. Una delle funzioni più tradizionali e importanti del ministero dell’interno ricorre in concomitanza con lo svolgimento delle elezioni politiche: i dati elettorali sono raccolti dalle prefetture e inviati a Roma al ministero dell’interno, per conteggi e la dichiarazione ufficiale dei risultati. Ai Ministri competono anche funzioni riferite a enti, agenzie, società per azioni in mano pubblica, vale a dire a quelle figure dell’organizzazione amministrativa che sono distinte dai Ministeri, che hanno una organizzazione autonoma rispetto ad essi, ma sono comunque raccordate allo Stato e il cui operato (nomine, atti di indirizzo, atti di organizzazione) ricade nella responsabilità del Governo.

I singoli componenti del Governo, i Ministri, sono dunque ciascuno a capo di un Ministero. Compito di ciascun ministro è dirigere il ministero cui è preposto; questo significa sia assicurare che il ministero svolga correttamente, efficacemente i compiti che ad esso sono già affidati alla legge (e questo è il lavoro amministrativo del ministro), sia proporre eventuali modifiche, innovazioni, aggiornamenti nella legislazione che regola quel ministero e i suoi compiti (e questo è il lavoro politico del ministro).

3.3.1.Il lavoro politico del Ministro

La presentazione di progetti di legge volti a modificare le norme che sono relative alla attività del ministero è il principale lavoro politico del ministro. Del lavoro politico del ministro fa

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anche parte il dovere di interloquire col parlamento, e di rispondere alle interrogazioni e alle interpellanze attraverso le quali il parlamento voglia conoscere dal ministro lo stato di un problema che riguarda o che è di competenza del ministero da questi diretto, le ragioni per cui una certa situazione si è determinata, le iniziative che il ministro intende prendere con riferimento a una certa questione, ecc.

3.3.2.Il lavoro amministrativo del Ministro

Garantire che il ministero assolva i compiti che la legge ad esso attribuisce è il principale compito amministrativo del ministro. Fa parte di questi compiti il rivolgere gli uffici che dipendono dal ministero “istruzioni”, ordini o raccomandazioni, delucidazioni o spiegazioni circa il modo in cui i compiti degli uffici devono essere svolti, alla luce delle leggi vigenti.

Atti caratteristici con cui il Ministro svolge questa funzione sono le circolari e le direttive. Per esempio, supponiamo per esempio che un articolo di una legge che riguarda gli esami di maturità crei dubbi interpretativi: a causa del modo in cui la legge è formulata, non si capisce bene se i membri della commissione devono essere nominati tra insegnanti di scuole diverse, ma tutte della stessa provincia, oppure se li si può scegliere anche fuori provincia, e i vari provveditorati si comportano in modo diverso il che crea vari problemi. In casi del genere il ministro adotta una “circolare”, un provvedimento in cui dà la sua interpretazione del punto controverso e raccomanda ai provveditorati di interpretare quel punto nel modo chiarito dalla circolare.

Il lavoro politico e quello amministrativo di un ministro possono intrecciarsi in vario modo. Per esempio il parlamento può chiedere ragione al ministro del contenuto della circolare che ha adottato, criticarlo e chiedergli di modificarla. Se, per esempio su un problema di questo genere, nasce un contrasto tra parlamento e ministro (quest’ultimo non vuole ritirare la circolare) che rischia di diventare un problema politico grosso, il presidente del consiglio può chiedere al ministro di adeguarsi a quello che il parlamento gli chiede, può consigliargli il contrario, può convocare una riunione del consiglio dei ministri per discutere tutti insieme sulla linea che il ministro deve tenere. I contrasti tra singoli ministri e parlamento possono influire sul generale rapporto fiduciario che lega governo a parlamento, possono incrinarlo o indebolirlo (fino a una questione di sfiducia individuale presentata alle Camere e diretta a ottenere le dimissioni del Ministro), ed è compito del presidente del consiglio fare in modo che il governo proceda in modo unitario, e che i ministri non facciano ciascuno quello che secondo loro è meglio, ma svolgano i loro compiti in coerenza col generale indirizzo del governo.

3.4.Legalità e indirizzo politico: i due poli dell’attività del Governo

I due aspetti del lavoro del ministro che abbiamo illustrato fin qui esemplificano come l’attività del Governo si collochi, caratteristicamente, tra due grandi stelle polari: quella dell’indirizzo politico e quella della legalità (ordinaria e costituzionale).

In quanto organo di indirizzo politico il Governo, per sua natura e posizione istituzionale (è l’organo espressivo di una maggioranza politica, è portatore cioè di certi e non altri orientamenti, interessi, visioni, finalità ed obiettivi), ha il compito, il potere e il dovere di perseguire la realizzazione degli obiettivi conformi alle scelte di cui è portatore e dunque di tendere alla trasformazione dell’ordinamento vigente, delle leggi che già ci sono, degli istituti esistenti.

D’altra parte il Governo, in forza del principio di legalità, per cui tutti i poteri devono essere esercitati nel rispetto del diritto vigente, e in quanto, in particolare, organo direttamente responsabile delle attività dello stato, è tenuto nel suo operare a rispettare e a far rispettare il diritto vigente per come è e nel modo migliore e più efficiente ed efficace. Il Governo può agire per

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il cambiamento dell’ordinamento, delle leggi ecc., ma finché non le cambia, deve farle rispettare, anche se non le condivide, e cioè deve in primo luogo rispettarle esso stesso. Questo è il portato del principio di legalità, che è legalità ordinaria (rispetto del diritto legislativo) e legalità costituzionale, rispetto delle procedure stabilite dalla Costituzione e dei contenuti di essa. Anche nell’esercizio della sua libertà di indirizzo politico infatti il governo deve rispettare i procedimenti fissati dal diritto, costituzionale in particolare: per modificare le leggi è necessario che siano approvate nuove leggi, o atti equiparati: non sono sufficienti, né accettabili, atti diversi.

E’ per proteggere questo delicato e importantissimo equilibrio di libertà politica e soggezione al diritto in cui il Governo si trova, che è previsto che esso, quando viene nominato, giuri fedeltà alla Repubblica, alla Costituzione e alle leggi, perché l’insieme dei poteri di cui il Governo dispone è tale che il rischio è sempre aperto che esso usi la sua libertà politica in danno del rispetto delle leggi e del diritto.

3.5.Svolgimento dei rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea e con l’estero

Tradizionale compito dell’esecutivo è mantenere i rapporti coi paesi esteri (dipende dal ministero degli esteri tutto l’apparato della diplomazia), dai quali dipendono non solo pace e guerra, ma andamento dei commerci, delle importazioni e delle esportazioni, la stipula di accordi internazionali e di trattati il cui contenuto può essere economico, oppure culturale (accordi sulla restituzione di certi beni artistici conservati nel nostro paese ai paesi ai quali sono stati “sottratti” durante per esempio la fase coloniale italiana), ecc.

Da quando il nostro paese appartiene all’Unione europea, a questo tradizionale compito se ne affianca uno più specifico che è quello della partecipazione agli organi dell’Unione. In questi organi il governo è protagonista, perché il consiglio dei ministri dell’unione europea è composto dai ministri dei governi nazionali competenti sulle materie di volta in volta in deliberazione, dunque ogni ministro del nostro governo è anche membro del consiglio dei ministri dell’unione europea; e il consiglio europeo, l’organo che definisce periodicamente gli indirizzi generali della UE, è composto dai capi di stato e di governo dei paesi membri, dunque il presidente del consiglio ne fa parte di diritto.

Il fatto di essere l’unico organo nazionale direttamente parte degli organi comunitari ha contribuito, nel tempo, a rafforzare molto l’importanza del governo e la sua forza nei confronti del parlamento. Spesso il governo, nel presentare un progetto di legge, chiarisce che esso è in linea con gli indirizzi delle politiche comunitarie, è importante per mantenere il nostro paese convergente con gli obiettivi e le politiche dell’Unione, e questo rafforza l’autorevolezza di quel progetto e le sue chances di essere approvato.

3.6.Svolgimento dei rapporti con le Regioni e le autonomie locali. La Conferenza Stato-Regioni

Come abbiamo visto parlando delle Regioni, le competenze normative e amministrative dello stato e quelle delle regioni e degli enti locali si intrecciano molto spesso, a cominciare dai problemi del bilancio e della spesa. Buona parte delle risorse della regione, provincia e comune vengono dal bilancio dello stato, che è predisposto dal governo. Le scelte finanziarie del governo condizionano la possibilità degli enti locali di svolgere le loro funzioni. Perciò, è necessario un “coordinamento”, un momento di incontro in cui le intenzioni, necessità e strategie del governo e le necessità, intenzioni e preferenze delle regioni e degli enti locali si possano confrontare. Non esistendo nel

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nostro ordinamento una camera che rappresenti le autonomie locali, a questa funzione servono organi che sono stati creati sul finire degli anni ’90 (un periodo nel quale, come abbiamo visto a suo tempo, le funzioni degli enti locali sono cresciute moltissimo per quantità e importanza) e che si chiamano Conferenze. Conferenza vuol dire qui “riunione”. La più importante è la Conferenza Stato-Regione, in cui si riuniscono il Governo dello stato (rappresentato dal Presidente del consiglio, dal ministro per gli affari regionali ed eventualmente dal o dai ministri di volta in volta interessati alle materie in discussione, per esempio il ministro delle finanze) e i presidenti delle giunte regionali. Gli indirizzi che vengono concordati in conferenza (per esempio, le regioni riescono a strappare al governo la promessa di un certo stanziamento di fondi per le regioni nella legge finanziaria) sono considerati vincolanti (il governo difenderà in parlamento la norma del progetto di legge finanziaria che assicura certi fondi alle regioni).

La Conferenza Stato-Regioni, istituita con legge ordinaria, è destinata a sopravvivere anche quando dovesse entrare in vigore la riforma del Senato, e nonostante il fatto che quest’ultimo acquisterebbe la definizione di organo rappresentativo delle ‘Istituzioni territoriali’.

4.Il potere normativo del Governo

A.Gli atti del Governo con forza di legge

I due principali atti del Governo con forza di legge previsti nel nostro ordinamento sono: il decreto delegato e il decreto legge.

1.La delegazione legislativa (art. 76 Cost.)

Secondo l’art. 76 della Costituzione:“L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”

Il Parlamento è il titolare della funzione legislativa. A determinate condizioni, indicate nell’art. 76, esso può delegarne l’esercizio al Governo, cioè incaricare il Governo di adottare atti che hanno la stessa forza e valore della legge. Infatti, è un principio generale nel diritto che chi è titolare di una funzione o di una facoltà, possa delegare altri ad esercitarla per suo conto, salvo che non sia previsto espressamente il contrario. La delega è l’atto con cui il titolare di una funzione, diritto o facoltà, ne trasferisce l’esercizio ad altri, conservandone però la titolarità. Esercitando il proprio potere di delega, il parlamento non trasferisce al governo la funzione legislativa, della quale il parlamento resta il solo titolare, ma ne trasferisce solo l’esercizio con riferimento a un oggetto definito, per un tempo determinato e previa indicazione di principi e criteri direttivi. Una volta che il Governo ha esercitato la delega, cioè ha emanato i decreti necessari a regolare l’oggetto che era stato chiamato a regolare, nei tempi stabiliti e secondo i principi e criteri fissati dal Parlamento, la delega si esaurisce e per esercitare nuovamente la funzione legislativa il Governo ha bisogno di una nuova delega. La delega si esaurisce automaticamente anche se, allo spirare del termine, il governo non ha emanato i decreti.

La delegazione legislativa è un istituto molto importante, che si origina nella prassi statutaria quando nacque per consentire al Governo di ‘aggirare’ un parlamento ostile o recalcitrante. Prevedendolo e regolamentandolo come lo ha regolamentato (in particolare con il divieto di ‘delega in bianco’), la Costituzione ha ‘reinterpretato’ la delegazione legislativa facendone uno strumento che risponde a una esigenza di divisione del lavoro tra due organi in posizione collaborativa,

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parlamento e governo, legati tra loro dal rapporto fiduciario. Per affrontare provvedimenti normativi ampi, complessi, la cui stesura richiede lunghi e complessi approfondimenti tecnici, il parlamento può ritenere opportuno, anziché affrontare esso direttamente il lavoro legislativo corrispondente, che potrebbe a lungo sospendere o rallentare l’esame di altri provvedimenti, incaricare (delegare) il governo a adottare esso gli atti necessari. Sono stati approvati come leggi delegate tutti i codici e innumerevoli leggi di grande rilievo e ampiezza. Come vedremo, peraltro, la delegazione legislativa ha ripreso moltissimo, specialmente negli ultimi anni, delle sue antiche e originarie vocazioni.

1.2. La legge di delegazione (legge-delega)

Per procedere alla delegazione legislativa, il parlamento approva una legge, detta legge di delegazione con la quale attribuisce al governo la delega a adottare uno o più decreti su una certa materia (l’ oggetto definito di cui parla l’art. 76), entro un certo termine temporale (il tempo limitato di cui parla l’art. 76) e rispettando/eseguendo una serie di principi e criteri direttivi. Tutti questi requisiti servono a salvaguardare il punto fondamentale e cioè che il titolare della funzione legislativa resta il Parlamento: come dicevamo, non sono ammesse ‘deleghe in bianco’. E’ il parlamento a definire l’oggetto, ossia la materia su cui il Governo acquista l’esercizio della funzione legislativa; questo esercizio, il governo lo detiene solo entro il termine indicato; se entro il termine non adotta i decreti, la delega spira e il governo non può più esercitarla, a meno che non venga ad esso nuovamente conferita; quanto ai contenuti che i decreti dovranno avere, certo li deciderà il governo, ma non con una piena libertà di scelta: esso è tenuto ad attenersi ai principi e criteri direttivi che il parlamento ha dettato, e la cui presenza serve a far sì che le scelte fondamentali in materia siano quelle del parlamento.

L’iniziativa delle legge di delegazione può essere presa dal parlamento, ma anche dal governo, che può presentare, e di fatto presenta spesso, un disegno di legge delega col quale chiede al parlamento di essere delegato a legiferare su una certa materia, dopo è il parlamento a decidere se è il caso, a precisare l’oggetto se necessario, il termine e a definire i contenuti di principio della delega.

La legge di delegazione è dunque una legge con un contenuto necessario che consiste nella attribuzione della delega, indicazione dell’oggetto, del tempo, dei principi e criteri direttivi. La legge di delegazione ha anche un importante requisito formale, che cioè attiene al suo procedimento di formazione: secondo l’art. 72, la legge di delegazione può essere approvata solo con il procedimento ordinario, e cioè con il procedimento in commissione referente, mai in commissione redigente/deliberante, perché si tratta di una legge delicata e importante, in quanto implica l’attribuzione al governo dell’esercizio della funzione legislativa, e perciò deve essere decisa dall’intera assemblea (quando una legge non può essere approvata in commissione deliberante/redigente si dice, lo ricordiamo, che essa è soggetta a una riserva di assemblea).

Si noti che la delega può essere contenuta nel corpo di una legge che ha anche altri contenuti: per esempio, una legge introduce nuove regole in materia di conservatori ed enti musicali; per una certa parte, la nuova disciplina dei conservatori e enti musicali è dettata direttamente nella legge, per una certa altra parte, la legge delega il governo a completare la disciplina. In questo caso, le parti della legge che non contengono la delega possono essere approvate con il procedimento con commissione redigente/deliberante, ma quelle che contengono la delega sono soggette alla riserva di assemblea. Vedremo più avanti che questa risalente prassi di unire nello stesso testo disposizioni sostanziali (che disciplinano direttamente una materia) e disposizioni di delega, ha alcune implicazioni negative.

Nell’approvare la legge di delegazione, il Parlamento può prevedere che il Governo, una volta predisposti i decreti attuativi, prima di emanarli li faccia esaminare alle Commissioni parlamentari

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competenti per materia per ricevere un loro parere. In questi casi le commissioni parlamentari operano in sede consultiva (cioè come organi che danno appunto un parere) e il loro coinvolgimento serve anche ad assicurare una migliore conoscenza, da parte del parlamento, del modo in cui il Governo ha eseguito la delega. La previsione dell’esame dei decreti in commissione consultiva è un contenuto eventuale della legge di delega; eventuale, in questo contesto, significa non necessario, non imposto dalla Costituzione, ma possibile, e una volta che la legge di delega lo preveda esso diventa obbligatorio per il Governo come il rispetto dell’oggetto, del tempo, dei principi e criteri direttivi. Anche sulla implicazioni non del tutto positive di questa prassi torneremo più avanti.

Dopo che la legge di delegazione entra in vigore, il Governo può cominciare il procedimento che porterà alla emanazione dei decreti legislativi.

1.3. I decreti legislativi (o decreti delegati)

Il procedimento di formazione dei decreti delegati è il seguente:

il Ministro competente per materia, o i Ministri competenti, se la materia oggetto della delega rientra tra le competenze di più di un Ministero, preparano lo schema di decreto;

questo viene sottoposto alla approvazione del Consiglio dei Ministri; una volta ottenuta questa approvazione il decreto viene sottoposto all’esame eventuale delle

commissioni parlamentari e ad ogni altro eventuale adempimento procedurale che sia richiesto dalla delega (pareri di organi specializzati, ecc.);

quindi il decreto viene emanato, come tutti gli atti del Governo, da parte del presidente della repubblica ed entrato in vigore acquista forza e valore di legge.

I decreti del Governo in attuazione della delega sono atti con forza di legge, cioè sono subordinati alla Costituzione e pertanto sindacabili da parte della Corte costituzionale per eventuale loro contrarietà a Costituzione. Tuttavia, i decreti sono anche tenuti a rispettare la legge di delegazione, nei suoi contenuti essenziali ed eventuali: i decreti, cioè, devono mantenersi nei limiti dell’oggetto della delega, rispettare i limiti di tempo, attenersi ai principi e criteri direttivi che la legge di delega stabilisce e, se è previsto l’esame dei decreti in commissione, essi devono rispettare anche questa condizione. Se i decreti non rispettano la legge di delegazione questo costituisce un loro vizio peculiare, che si chiama eccesso di delega e consiste nell’avere ecceduto i limiti del potere delegato ricevuto. Così, i decreti, che sono atti con forza di legge, oltre a dover rispettare la Costituzione, che è una fonte superiore, devono anche rispettare la legge di delega, che è una fonte loro equiordinata, e nel caso presentino un vizio di eccesso di delega il giudice componente è sempre la Corte costituzionale. Siccome l’art. 76 impone in generale a tutti i decreti delegati del Governo di rispettare la legge di delegazione, ogni decreto deve essere conforme alla sua corrispondente singola legge di delegazione, e, se non lo fa, esso viola indirettamente l’art. 76 della Costituzione. Perciò la legge di delegazione è considerata, rispetto ai decreti, una norma interposta, cioè collocata tra la Costituzione e loro, perché la legge di delegazione specifica, per ciascun decreto, i limiti che in generale circondano l’esercizio da parte del governo del potere legislativo delegato, e la violazione della delega implica violazione dell’art. 76 Cost.

2.La decretazione d’urgenza

Secondo l’art. 77 della nostra Costituzione:

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Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.

Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la propria responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere, che, anche se sciolte, sono convocate e si riuniscono entro cinque giorni.

I decreti perdono efficacia sin dall’inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.

Possono verificarsi eventi imprevisti e straordinari (un terremoto, una epidemia, un crollo delle borse mondiali), per fronteggiare i quali sia necessario adottare norme dotate della forza di abrogare, sospendere, derogare norme di legge vigenti, ma che richiedono anche un intervento immediato, che né la legge né la delegazione legislativa possono costituire, in quanto questi atti richiedono tempo, per essere emanati. Anche il decreto legge era sorto in via di prassi durante il Regno, per permettere al Governo di adottare norme che non riusciva a far approvare dal parlamento, per affrontare i problemi di ordine pubblico legati alla ‘crisi di fine secolo’ e per governare durante lo stato di guerra. Il decreto legge divenne lo strumento prediletto del Fascismo, che anche finantoché le mantenne formalmente in vita, legiferò senza le Camere. La nostra Costituzione regolamenta il decreto legge allo scopo di circoscrivere le ipotesi di ricorso ad esso, e di sottoporlo a norme procedimentali rigorose, perché lo considera uno strumento eccezionale che deroga al normale equilibrio tra governo e parlamento. Il modo in cui la norma dell’art. 77 è formulata (“Il governo non può…”) rivela chiaramente la volontà di sottolineare l’eccezionalità del ricorso al decreto legge.

2.1.Decreto legge e indirizzo politico

Come le caratteristiche del decreto legge dovrebbero rendere piuttosto evidente, il decreto legge non è un atto pensato per servire alla funzione di indirizzo politico del governo. Per attuare il proprio programma, per compiere scelte politiche, il Governo ha a disposizione l’iniziativa legislativa, o anche la decretazione delegata (può cioè chiedere una delega legislativa), mentre il decreto legge è lo strumento pensato apposta per fronteggiare circostanze che per definizione, in quanto straordinarie ed eccezionali, non possono essere già annoverate tra gli obiettivi e i fini della azione politica del governo. E’ naturale peraltro che ogni singolo governo che si trovi ad affrontare una emergenza, la affronterà con le mentalità i punti di vista e i valori di cui esso è politicamente portatore. Il fatto d’altro canto che il decreto legge sia uno strumento pensato per fronteggiare situazioni eccezionali fa sì che ad esso possa fare ricorso anche il governo dimissionario, cioè il governo che non è più sostenuto dalla fiducia delle Camere e attende di essere sostituito da un nuovo Governo.

Il collocarsi del decreto legge fuori dalla sfera dell’indirizzo politico del Governo è denotata dal fatto che la responsabilità per l’adozione del decreto è sua, propria del Governo. Esso adotta il decreto, dice la Costituzione, “sotto la sua responsabilità”, ossia senza impegnare il rapporto fiduciario, perché è ovvio che quando le Camere hanno dato la fiducia al Governo, non possono averla data anche con riguardo al modo in cui il Governo poi si è improvvisamente trovato ad affrontare una certa circostanza. Dunque la maggioranza che sostiene il governo è libera di votare contro la conversione del decreto (v. però quanto diremo tra breve), perché esso non impegna il rapporto fiduciario.

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Tutto questo è vero nel senso che è con queste caratteristiche che l’istituto è stato concepito, ma, come vedremo, esso ha funzionato in modo del tutto opposto, diventando una sorta di strumento ordinario di legislazione cui il Governo ricorre ben al di là dei presupposti straordinari di necessità e di urgenza e, invece, per attuare proprie scelte programmatiche.

2.2.Il procedimento di adozione del decreto legge

Dunque, di fronte a eventi straordinari che rendano necessario provvedere immediatamente, il Governo (il Consiglio dei Ministri) può deliberare un decreto, il quale viene, come tutti gli atti del Governo, emanato dal Capo dello Stato, viene immediatamente pubblicato ed entra in vigore.

Il giorno stesso della pubblicazione, il decreto, che nel frattempo inizia a produrre i suoi effetti normativi, deve essere presentato alle camere per l’esame in vista della sua eventuale conversione in legge. In sostanza, il Governo presenta alle camere un disegno di legge, composto di un solo articolo, il quale recita: “E’ convertito in legge il decreto tale, emanato in data tale, concernente questo problema” e allega a questo disegno di legge viene fornito il testo del decreto. Inizia così un procedimento legislativo, le camere esaminano il disegno di legge, e hanno 60 giorni di tempo per concludere l’esame, approvarlo, inviarlo al capo dello stato per la promulgazione (che deve anch’essa avvenire entro i 60 giorni). Se il decreto viene convertito, al suo posto esisterà una legge (legge di conversione del decreto legge), che si “salda” al decreto già esistente, altrimenti, esso decade e i suoi effetti vengono meno. Le camere possono non convertire il decreto per due ragioni: o perché non vogliono farlo, ritenendo che il decreto non meriti di essere convertito; o perché non fanno in tempo a farlo, non esauriscono l’esame entro i 60 giorni, pur essendo intenzionate a convertirlo.

2.3.La decadenza del decreto non convertito in legge

Il decreto che non viene convertito in legge decade, cioè vengono meno gli effetti da esso prodotti fin dal momento della sua emanazione. Come dice la Costituzione, esso “perde efficacia sin dall’inizio”, ovverosia: se per 60 giorni di tempo, durante la vigenza del decreto, una norma di legge era stata sospesa, essa rivive, e non rivive solo per il futuro, ma anche per il passato, è come se fosse rimasta pienamente in vigore anche durante i 60 giorni di vigenza provvisoria del decreto. Se il decreto aveva, sempre per esempio, introdotto una tassa straordinaria, che i cittadini avevano pagato, e poi il decreto decade, lo stato deve restituire le somme incassate; se per eseguire il decreto erano stati emanati altri provvedimenti questi vengono meno.

Tutto ciò può avere conseguenze molto complesse. Per esempio, durante la vigenza del decreto viene sospesa una norma di legge che vieta la vendita degli alcolici ai minori; il gestore di un bar, come conseguenza, vende alcolici a minori; poi il decreto decade e il gestore del bar si trova nella condizione di avere tenuto un comportamento illecito, perché la norma che vietava la vendita degli alcolici rivive anche per il passato.

2.4.La regolazione degli effetti del decreto non convertito in legge

In considerazione del fatto che la non conversione del decreto può avere conseguenze complesse e irrazionali, la costituzione autorizza le camere a “regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto non convertito”. Si può per esempio fare una legge di sanatoria, la quale stabilisce che, per i sessanta giorni in cui il decreto è stato in vigore, i suoi effetti restano fermi

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(invece di essere travolti), o individuare altre modalità regolative per fronteggiare i problemi connessi alla decadenza del decreto.

B.Gli atti del governo privi di forza di legge

I regolamenti dell’esecutivo sono atti privi di forza e valore di legge.

Ne esistono tre tipologie:

regolamenti governativi (deliberati dal Consiglio dei Ministri ed emanati dal Presidente della Repubblica)

regolamenti ministeriali (deliberati dal singolo Ministro) regolamenti del presidente del Consiglio (deliberati dal Consiglio dei Ministri).

I regolamenti del Presidente del Consiglio sono una ipotesi residuale che verte su un numero ristretto, per quanto rilevante, di ipotesi (es. l’organizzazione e il funzionamento della presidenza del consiglio). In questa sede ci riferiremo normalmente ai regolamenti governativi, con qualche riferimento anche ai regolamenti ministeriali.

1.Il potere regolamentare dell’esecutivo

A differenza dello statuto albertino, che lasciava al Re una propria sfera di prerogativa, cioè ambiti nei quali esso poteva adottare regolamenti senza bisogno di una autorizzazione legislativa (dalla legislazione araldica ad alcune materie di interesse militare e di ordine pubblico fino alla organizzazione dei ministeri), la nostra Costituzione attuale sembra invece non lasciare al Governo alcuna sfera di competenza normativa propria, esercitabile in assenza di previa norma di legge, dunque dell’antica “prerogativa regia” il Costituente non volle lasciar traccia; in altri paesi l’assetto è ben diverso, per esempio in Francia esistono materie riservate alla competenza regolamentare dell’esecutivo, e che riguardano principalmente l’organizzazione e il funzionamento della pubblica amministrazione, dove l’esecutivo può adottare regolamenti anche in deroga alle leggi e senza bisogno di autorizzazione legislativa. L’organizzazione dei ministeri e degli apparati dipendenti dallo stato è in effetti una delle materie “classicamente proprie” dell’esecutivo.

Il potere regolamentare dell’esecutivo consiste dunque nel potere del governo di adottare norme giuridiche che sono subordinate alla legge in quando necessariamente fondate su una previa norma di legge che al governo attribuisce il relativo potere, e va visto all’interno di un processo storico nel quale i poteri normativi del sovrano sono stati “subordinati” alla legge, cioè anch’essi, in quanto atti dell’esecutivo, devono trovare la propria legittimazione in una previa norma di legge. La legge non è del tutto libera di creare poteri normativi in capo al governo; ossia, ha una ampia facoltà di farlo ma vi sono materie ed ambiti, individuati dalla Costituzione e storicamente, sulle quali la legge non può creare poteri normativi in capo al governo.

La subordinazione dei regolamenti alla legge consiste dunque nel fatto che la legge regola l’esistenza e l’estensione dei poteri normativi del governo nei limiti in cui la Costituzione la autorizza a farlo. La subordinazione dei regolamenti alla legge si traduce nel fatto he essi, siccome nella legge devono trovare la propria autorizzazione e il proprio fondamento, in caso di contrasto con la legge non sono in grado di abrogarla, ma sono invece viziati.

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2.Il legame tra legge e regolamento: le riserve di legge

Ora dobbiamo soffermarci sul tipo di rapporti che può esistere tra la legge e il regolamento, cioè sul senso che dobbiamo dare all’espressione per cui “il potere regolamentare del governo deve trovare nella legge la propria autorizzazione e il proprio fondamento” e alla espressione per cui la legge “non è del tutto libera di creare poteri normativi in capo al governo ma deve rispettare in questo i limiti costituzionali”.

a) Il potere regolamentare del governo deve trovare nella legge la propria autorizzazione e il proprio fondamento.

Il Governo non può autoassumersi poteri normativi. E’ la legge che glieli deve conferire, autorizzandolo a esercitarli. Questa ipotesi può dare vita a situazioni molto diverse, ed in effetti il legame tra legge e regolamento è molto variegato.

Si può andare da un legame molto stretto e individuato, per cui una legge, regolando una certa materia, autorizza il Governo a completare, dettagliare, specificare o integrare i propri contenuti. Questo può rendersi opportuno, e di fatto si rende opportuno, quando la legge dispone su materie tecniche che richiedono approfondimenti specialistici, istruttorie e studi e soprattutto aggiornamento continuo. Non sarebbe conveniente disciplinare questi aspetti con legge, perché per cambiarli occorrerebbe una nuova legge, mentre, una volta incaricato il governo di occuparsi del tema con regolamento, ad ogni occorrenza il governo, con una semplice riunione in consiglio dei ministri, può dettare una nuova e aggiornata disciplina.

Integrare, completare o dettagliare una disciplina di legge nei suoi aspetti tecnici può peraltro significare l’esercizio di valutazioni discrezionali anche molto ampie del governo. Un conto è che la legge dica: è introdotto l’obbligo di effettuare la messa a terra degli impianti elettrici domestici. Il governo con propri regolamenti detterà i requisiti tecnici degli impianti, le modalità di certificazione e le sanzioni amministrative in caso di inosservanza.

Altro conto è che la legge dica: le coppie infertili sono autorizzate a effettuare trattamenti di procreazione medicalmente assistita presso le strutture sanitarie pubbliche. Questi trattamenti devono rispettare il diritto alla vita dell’embrione, la salute della donna, tutti gli interessi coinvolti. Il governo con propri regolamenti definisce, “avvalendosi dell’Istituto superiore di Sanità e previo parere del Consiglio superiore di Sanità, linee guida contenenti l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Dette linee guida sono vincolanti per tutte le strutture autorizzate. Le linee guida sono aggiornate periodicamente, almeno ogni tre anni, in rapporti all’evoluzione tecnico-scientifica, con le medesime procedure “ (così il tenore originario dell’art. 7 della legge n. 40 del 19 febbraio 2004, n. 40. Questa previsione, che peraltro, per la precisione, attribuisce il potere regolamentare al ministro della sanità e non all’intero governo, viene qui portata ad esempio dell’ampiezza di contenuti, dunque di scelte discrezionali, che possono essere rimessi a un regolamento).

b) Nel conferire poteri normativi al Governo la legge deve rispettare limiti costituzionali (che sono anche limiti storici e culturali)

In teoria, la legge può rapportarsi al regolamento anche in altri modi. Essa può semplicemente attribuire al governo il potere di adottare regolamenti in certe materie: possiamo ipotizzare una disposizione di legge che dice “il governo, con propri regolamenti, disciplina il numero la struttura e la forma organizzativa delle direzioni generali dei ministeri “, con il che tutta questa materia (numero la struttura e la forma organizzativa delle direzioni generali dei ministeri) viene attribuita

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alla competenza del governo, il quale potrà emanare non solo i primi regolamenti attuativi, ma anche tutti i successivi che si rendano necessari per adattare la disciplina a nuove esigenze, senza più bisogno di ricevere una nuova autorizzazione, finché una legge non abroghi quella che ha attribuito al governo la competenza, e gliela revochi.

L’ampiezza delle materie che la legge può attribuire alla competenza regolamentare del governo è segnata dalle riserve di legge esistenti in costituzione, cioè dai casi in cui la Costituzione espressamente dice che una certa materia può essere disciplinata solo con legge, e soprattutto da una importante tradizione storica, comune al nostro come ad altri paesi, che tende a riservare alla legge la disciplina delle materie che incidono sulle libertà personali e sugli aspetti della vita collettiva più delicati e pertanto considerati inidonei a essere rilasciati all’esecutivo, che potrebbe avere interesse a manipolarli secondo la propria convenienza politica.

E’ possibile per esempio (meglio sarebbe dire, è legittimo?) che la legge incarichi il governo di definire con regolamento una fattispecie di reato? No, perché secondo gli art. 13 e 25 della nostra costituzione, e secondo una antichissima tradizione, la materia è riservata in modo assoluto alla legge, cioè solo la legge può creare reati e ne deve dettare tutti gli aspetti ( Art. 13: La libertà personale è inviolabile: non è ammessa forma alcuna di detenzione ecc. se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Art. 25 comma 2: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”). Può la legge incaricare il governo di dettare regolamenti sulla organizzazione della magistratura? No, perché secondo l’art. 108: “le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge”. Una legge che ciò facesse sarebbe incostituzionale per avere assunto contenuti (l’autorizzazione al governo di intervenire con regolamento in materia riservata alla legge) che la Costituzione le vieta.

Parliamo di riserve assolute di legge per indicare le materie in cui non è ammesso il ricorso ai regolamenti, e di riserve relative di legge nei casi in cui i regolamenti sono ammessi.

Un “luogo naturale” di esplicazione del potere regolamentare del Governo è l’organizzazione dei ministeri e della pubblica amministrazione, cioè degli apparati che dal governo dipendono. In Francia per esempio, come ho detto, questa materia è attribuita per costituzione alla competenza dell’esecutivo.

La nostra Costituzione ha fatto una scelta diversa: recita infatti l’art. 97 della Costituzione: “I pubblici uffici sono organizzati in base a disposizioni di legge In casi di materie sottoposte a riserva relativa di legge, la legge deve: regolare la materia nelle linee generali, e può rimettere al regolamento il proprio completamento. Questo è un esempio di riserva relativa di legge, mentre l’art. 13 o 25.2 sono esempi di riserve assolute.

3.La delegificazione

Nel rispetto dei principi sin qui esposti, la legge può anche attribuire una materia, che oggi è regolata con legge, alla competenza dei regolamenti.

Come principio generale, i regolamenti non hanno la forza di abrogare le leggi, in caso di contrasto con esse, sono viziati. Per cui se una legge autorizza un regolamento a intervenire in una certa materia, il regolamento potrà disciplinarla solo nei limiti in cui la nuova disciplina introdotta dal governo non costituisca deroga o modifica di previgenti disposizioni di legge. Se una materia è oggi disciplinata in modo compiuto e dettagliato con leggi, l’unico modo di dettare una nuova disciplina è abrogare le leggi preesistenti, e, se si vuole in materia introdurre regolamenti, prima si devono abrogare le leggi preesistenti, poi possono intervenire i regolamenti.

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La delegificazione viene realizzata in questo modo: il legislatore decide che una materia, oggi regolata con legge, dovrà essere da ora in poi attribuita ai regolamenti. Su quella materia ci sono una o più d’una legge oggi vigenti. Il legislatore adotta una legge che disciplina nelle grandi linee la materia, secondo i criteri oggi ritenuti validi. Questa legge contiene una disposizione che autorizza il governo a emanare uno o più regolamenti su quella materia. Questa stessa disposizione stabilisce anche che, alla data di entrata in vigore dei regolamenti, le leggi previgenti in materia sono abrogate, indicando puntualmente quali articoli saranno abrogati. In tal modo, l’effetto abrogativo è prodotto dalla legge, e l’emanazione dei regolamenti è soltanto la condizione al verificarsi della quale è subordinato il prodursi dell’effetto abrogativo. Una volta ‘delegificata’ una materia può essere nuovamente regolata con successivi regolamenti senza più bisogno dell’intervento del legislatore. In teoria esso potrebbe ‘riappropriarsi’ della materia semplicemente emanando una legge su di essa; ma, in pratica, la delegificazione funziona come lo spostamento di intere materie alla ‘libera’ competenza normativa del Governo.

La delegificazione consiste dunque nel cambiare la fonte della disciplina di una materia dalla legge al regolamento. Nell’ultimo quarto di secolo ha avuto una enorme espansione nel nostro ordinamento, specialmente nel campo della organizzazione e funzionamento degli apparati dipendenti dal Governo (ministeri e pubblica amministrazione in generale).

4.Regolamenti indipendenti

Secondo i principi ogni regolamento dovrebbe essere collegato a una legge che ha attribuito al governo il relativo potere, cioè la disciplina di ogni materia dovrebbe essere fatta così: legge, che disciplina in modo più o meno dettagliato la materia+ regolamento che integra la disciplina di legge, limitandosi alla mera esecuzione o anche assumendo contenuti ampi (questo dipende da quanto dettagliatamente la legge disciplina la materia considerata).

In verità, possono esistere anche materia in cui l’unica disciplina è dettata con regolamento, e nessuna legge pone neppure un piccolo scampolo di disciplina. Questa ipotesi è ammissibile e legittima a condizione che vi sia almeno una norma di legge che la prevede e delimita. Cioè, se esiste una norma di legge che dice: il governo può fare regolamenti in materie non regolate con legge, ecco che il potere regolamentare ha la sua base legislativa necessaria. Questo tipo di regolamenti sono tradizionalmente chiamati “indipendenti” e naturalmente non sono ammissibili nelle materie sulle quali la Costituzione pone una riserva assoluta o relativa di legge.

5.I singoli regolamenti governativi nel nostro ordinamento: l’art. 17 della legge n. 400 del 1988

Poiché ormai sappiamo che il potere regolamentare del governo deve trovare la propria autorizzazione nella legge , non ci stupirà l’apprendere che esiste nel nostro ordinamento una disposizione legislativa che definisce i tipi di regolamento che il governo può adottare e fissa i termini in cui ai diversi tipi di regolamento le leggi possono fare ricorso.

Questa disposizione è l’art. 17 della legge n. 400 del 1988, la legge generale che disciplina l’organizzazione e il funzionamento del governo, che ha dato per la prima volta una disciplina generale al potere regolamentare, che in precedenza si basava su spezzoni di leggi anche molto risalenti nel tempo.

Possiamo provare a riconoscere tra le diverse ipotesi di potere regolamentare che la legge individua, le varie ipotesi che abbiamo fatto anche noi.

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Secondo l’art. 17 i regolamenti del governo possono disciplinare:

a) l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi nonché dei regolamenti comunitarib) l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio,

esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale;c) le materie in cui manchi la disciplina di leggi o atti aventi forza di legge, sempre che non si

tratti di materie comunque riservate alla legged) l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni

dettate dalla legge.

Questo elenco è integrato dal secondo comma dello stesso articolo 17 che introduce una ulteriore ipotesi, quella dei

e) Regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari.

I regolamenti indicati nella lettera a) e b) corrispondono ai regolamenti che integrano la disciplina introdotta da una legge: quelli “per l’esecuzione” (lett. a) sono quelli dotati dei contenuti meno creativi, più di dettaglio, mentre quelli “per l’attuazione e l’integrazione” (lett. b) sono quelli con cui il governo esercita valutazioni politiche e discrezionali più ampie, compie scelte di contenuto importanti e caratterizzanti.

I regolamenti indicati nella lettera d) (organizzazione e funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge) sono una forma particolare dei regolamenti per l’attuazione e integrazione, che viene menzionata a parte per via della materia, quella della organizzazione della pubblica amministrazione, di tradizionale importanza nel campo del potere regolamentare del governo.

I regolamenti indicati nella lettera c) sono i regolamenti indipendenti.

I regolamenti indicati nella lettera e) (secondo comma dell’art. 17) sono i regolamenti di delegificazione.

6.Il procedimento di formazione dei regolamenti

I regolamenti del governo seguono questo procedimento di formazione:

deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta di uno o più Ministri (quelli competenti per materia), previo parere del Consiglio di Stato (e il parere di tutti gli altri eventuali organi che la legge prescriva al Governo di ascoltare)

parere delle commissioni parlamentari competenti per materia (se le singole leggi autorizzative lo prevedono)

emanazione con decreto del presidente della repubblica

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controllo di legittimità della Corte dei Conti.

Pubblicazione.

La Corte dei Conti è un organo con numerose e ampie funzioni; oltre al controllo (preventivo) della legittimità degli atti del Governo, merita qui ricordare il controllo sulla gestione del bilancio dello stato. Ogni anno, la legge di bilancio stabilisce, per l’anno a venire, entrate e spese dello stato. A fine anno, la Corte controlla spese e gestioni finanziarie effettuate dallo stato e dalle pubbliche amministrazioni nel corso dell’anno, sotto il profilo della loro corrispondenza alle previsioni di bilancio (e anche della qualità della gestione: efficienza, economicità).

Il Consiglio di Stato, oltre a essere l’organo suprema di giustizia amministrativa, è anche l’organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo. In questa sua funzione consultiva si colloca il ruolo di dare pareri al Governo sugli schemi di decreti, pareri che concernono la legittimità delle previsioni introdotte nei decreti, loro eventuali vizi, modi di migliorarne il drafting, cioè la redazione. Spesso il ruolo del Consiglio di Stato si spinge a predisporre gli schemi dei decreti, cioè in sostanza a scriverli. Il ruolo del Consiglio di Stato nel procedimento di formazione dei regolamenti del Governo solleva dubbi di opportunità dal momento che, come organo supremo di giustizia amministrativa, il Consiglio di Stato può sempre essere chiamato a pronunciarsi, in sede di ricorso, sulla legittimità di un regolamento sul quale aveva già dato il suo parere o che aveva addirittura redatto.

C.I poteri normativi del Governo nell’effettività

1. Il potere regolamentare

Dalla legge n. 400 in poi il ricorso del Governo ai poteri regolamentari è enormemente cresciuto. La legge ha funzionato come una generale autorizzazione del Governo a ricorrere a regolamenti, sebbene sia frequentissimo il caso di regolamenti ‘atipici’ cioè che non rispettano i requisiti di forma e di contenuto previsti dalla legge 400.

Di grande rilievo è stato poi lo strumento della delegificazione. Le leggi che autorizzano il Governo alla delegificazione dovrebbero essere (secondo la legge n. 400 e secondo i principi costituzionali sul rapporto tra Parlamento e Governo) norme che vincolano la discrezionalità dell’esecutivo. Analogamente alle leggi di delegazione, dovrebbero definire oggetto e fini della delegificazione,e, in più elencare analiticamente le norme destinate all’abrogazione (perché solo la legge può abrogare un’altra legge). Viceversa:

“A partire dalla legge n. 537 del 1993 (legge finanziaria per il 1994), le leggi delegificanti hanno iniziato a perdere il carattere di ‘norme generali regolatrici della materia’ previsto dall’art. 17 della legge n. 400. Esse sono caratterizzate da un richiamo a ‘obiettivi generici’ o a non ben definiti ‘ principi e criteri direttivi’ in certi casi omettendo di indicare in maniera espressa le disposizioni legislative oggetto della delegificazione.

“Per effetto di questo modo di operare, il Governo risulta nella sostanza libero di operare scelte non condizionate dalle norme generali regolatrici della materia, addirittura determinando in via autonomo le fonti – primarie – oggetto di abrogazione.

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La delegificazione, a sua volta, è spesso contenuta in decreti legge o in decreti legislativi, con i quali praticamente il Governo autorizza se stesso a modificare o abrogare la disciplina legislativa di un certo settore”. (A. Pisaneschi, 2014).

2.La delegazione legislativa

La Costituzione disegna la legge di delegazione come un atto con il quale le Camere delegano il Governo a emanare decreti su una materia definita, entro un dato termine e all’interno di precisi criteri e principi direttivi: la legge di delegazione da un lato deve limitare la discrezionalità del Governo, dall’altro lato deve spostare sul Governo la definizione dei contenuti normativi, che ricadono nella scelta e nella responsabilità del Governo.

Viceversa, per prassi ormai costante, le leggi delega, da una parte, a) contengono principi genericissimi o del tutto assenti; dall’altra parte, b) contengono norme che disciplinano in parte la materia che delegano al Governo; o prevedono che, fatti gli schemi di decreto, questi siano sottoposti dal Governo all’esame delle competenti commissioni parlamentari. Infine, c) con il metodo della delega rinnovabile, il Governo viene autorizzato a intervenire sulla stessa materia con decreti che correggono, modificano, integrano i primi già emanati.

La delegazione legislativa ha istituito così un procedimento ad alto grado di ‘confusione’ istituzionale tra Parlamento e Governo, uno dei cui effetti è che i principi orientativi della delega, al pari della materia su cui incide e del tempo entro cui la delega deve essere esaurita precipitano nella indistinzione, possono essere rivisti e modificati nel corso del tempo.

Così, la funzione della legge di delegazione di norma interposta che dovrebbe servire a controllare la correttezza dell’esercizio della delega da parte del Governo viene resa inoperante e impossibile.

Nell’ottobre 2014 si è assistito al primo caso dichiarato di delega priva di oggetto o ‘in bianco’, in occasione dell’approvazione del Jobs Act del Governo Renzi. Per molti giorni la discussione, almeno davanti all’opinione pubblica, è stata incentrata sull’art. 18 dello statuto dei lavoratori, la norma sui licenziamenti, che il Governo voleva modificare. Tuttavia, nel disegno di legge di delegazione che, come ormai si usa, il Governo ha predisposto e sottoposto alla Camera, non vi era menzione dell’art. 18. Tuttavia, il Governo ha diramato alle agenzie di stampa queste letterali parole: “l’art. 18 c’è, la delega è su tutto”. Su tutto? Dove va a finire, allora, il senso stesso della delegazione legislativa? Come si fa a sapere se il Governo ha ecceduto nella delega?

3.Il decreto legge

Fin da anni ormai risalentissimi, il Governo ‘abusa’ del decreto legge facendovi ricorso non ‘in casi straordinari di necessità ed urgenza’ ma per perseguire il suo indirizzo politico.

All’epoca dei governi di coalizione, formati da fragili alleanze, il governo si trovava di fronte alla quasi certezza che qualunque atto di iniziativa legislativa avesse presentato esso sarebbe stato insabbiato o stravolto dalla sua stessa maggioranza. Così, invalse la prassi che tutte quelle misure che erano necessarie non per fronteggiare situazioni straordinarie, ma per governare il paese, e che avrebbe richiesto troppo tempo approvare con legge, venivano adottate con decreto legge. Questo era politicamente conveniente per due motivi: intanto, il decreto è immediatamente in vigore e quindi è, di fatto, un modo per “fare qualcosa”, per provvedere; poi, siccome per convertire il decreto legge il parlamento ha un certo tempo a disposizione, ma non moltissimo, durante il

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procedimento di conversione le varie forze politiche presenti in parlamento erano più interessate a “saltare sulla diligenza” (la diligenza è, in questa epressione, il decreto legge che passa in parlamento) e cercare, con modifiche ed emendamenti, di introdurre nel decreto disposizioni gradite a sé, al proprio elettorato, che sarebbero abbastanza rapidamente entrate in vigore. La prassi dell’abuso del decreto legge nasce dunque da una ‘complicità’ tra il Governo e il Parlamento.

Nacquero in quell’epoca e grazie a quella ‘complicità’ i “decreti omnibus” (i decreti fatti di tutto): il governo faceva un decreto legge in materia di edilizia, per dare un sostegno al settore edilizio, e usciva una legge di conversione che conteneva norme in materia di edilizia, e di ogni altra cosa potesse in qualche modo esservi pur lontanamente connessa (parcheggi, svincoli stradali, tariffe, concessioni, sanità).

Si cominciò poi a verificare il caso sempre più frequente che, proprio per la ricchezza di “manipolazioni” di cui i decreti erano oggetto, che i sessanta giorni non bastassero per l’esame, e allora, per non far decadere il decreto, il governo lo ritirava dall’esame delle camere un giorno prima della scadenza e il giorno stesso ne ripresentava un altro con identico contenuto, che ripartiva il suo iter di conversione (che andava a saldarsi a quello già in corso). Con questo sistema (prassi della reiterazione del decreto legge) i decreti restavano “provvisoriamente” in vigore anche per un paio d’anni.

Invalse inoltre la prassi, a noi ormai ben nota, per cui il Governo, vedendo che il decreto in corso di conversione assumeva contenuti troppo lontani da quelli che il governo aveva effettivamente inteso dettare, oppure che i tempi della conversione diventavano imprevedibili, lunghissimi, iniziò a porre la questione di fiducia sulla conversione del decreto (sono sottoposti a fiducia, negli ultimi anni, il 90% dei decreti, e, per quanto riguarda il Governo attualmente in carica, il 100%).

Il fatto singolare, è che il ricorso al decreto legge non solo è rimasto, ma si è accresciuto, dopo che, con il nuovo sistema elettorale maggioritario e i nuovi regolamenti parlamentari, i Governi dispongono di una forte maggioranza e di procedure parlamentari a loro favorevoli.

Negli anni 2000, il ricorso al decreto legge ha assunto carattere sistematico, specialmente per i grandi interventi in materia economico finanziaria. Si calcola che circa il 95% delle decisioni di spesa approvate in Parlamento dal 2006 al 2010 sia passato per disposizioni contenute in un decreto legge. E’ inveterata la prassi delle ‘catene di decreti legge’ (decreti legge con cui si interviene più volte sulla stessa materia) e di decreti legge adottati per prorogare la scadenza di termini previsti dalla legislazione vigente; di decreti che sono tanto poco straordinari e urgenti da contenere disposizioni ad attuazione differita; di decreti legge trasmessi al Presidente della Repubblica per l’emanazione dopo una settimana dalla loro approvazione in Consiglio dei Ministri, che è una approvazione fatta ‘salvo intese’, vale fatta su una mera ‘bozza’ di decreto, dopodiché il contenuto del decreto viene deciso nel dettaglio fuori dal Consiglio dei Ministri, e cioè dal singolo ministro e dai suoi apparati tecnici e nel ‘dialogo’ con i portatori di interessi coinvolti; il genere, antichissimo, dei decreti legge che contengono disposizioni eterogenee (decreti omnibus, oggi chiamati ‘decreti a contenuto plurimo’) si è arricchito nelle ultime due legislature di un nuovo tipo, definito decreto ‘rampino’ con il quale si introducono in un decreto legge disposizioni di contenuto limitato al fine di consentire, in sede di conversione, che ad esse si aggancino intere normative di più ampio rilievo. Per esempio, il decreto-legge 30 dicembre 2005 n. 272, recante misure urgenti per garantire la sicurezza e i finanziamenti per le Olimpiadi di Torino, nel quale fu sin dall’origine inserito un articolo contenente ‘disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi’, il che ha consentito, in sede di conversione, di introdurre una cospicua serie di modifiche al testo unico sugli stupefacenti, modifiche a loro volta già previste in un disegno di legge del Governo, e che si è trovato ‘agganciato’ al rampino della conversione.

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Il carattere multiforme dei contenuti dei decreti legge spiega anche come mai recentemente si usi, da parte del Governo, indicarli con denominazioni sintetiche (Salva Italia,Sblocca Italia, ecc.). Questo non sarebbe dovuto tanto “a una operazione di marketing politico o comunicativo, ma all’oggettiva impossibilità di trovare formule riassuntive di tutte le materie toccate dalle disposizioni del provvedimento’ ricorda in una puntuale analisi del 2014 Roberta Calvano, che porta ad esempio come il decreto ‘Destinazione Italia’ del 2014, recasse la ‘vera’ intitolazione di “Interventi urgenti idi avvio del Piano Destinazione Italia, per il contenimento delle tariffe elettriche e del Gas, per la riduzione dei premi di RC auto, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche e di EXPO 2015”. Il decreto legge n. 93 del 2013, noto come ‘decreto contro il femminicidio’ conteneva ‘norme in materia di sicurezza e e per il contrasto della violenza di genere nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”. Il decreto conteneva, anche e per esempio, norme sulla messa in sicurezza dei cantieri del Tav, sull’emergenza in Nord Africa, sul potenziamento dei vigili del fuoco. Sono coacervi di questo genere che, con la posizione della questione di fiducia, vengono sottoposti in blocco al ‘sì’ o ‘no’ del Parlamento. Il che fa anche un po’ ridere, se si pensa che, in materia di referendum abrogativo, la Corte costituzionale ha sempre ritenuto essenziale l’omogeneità del quesito e dichiarato inammissibili i referendum che vertessero su questioni diverse, perché sarebbe lesivo della libertà di voto dell’elettore, il quale potrebbe poter votare sì a punto del quesito e no a un altro. E’ un esempio di come il nostro ordinamento sia retto da principi contrastanti, contraddittori, ciò che mina profondamente da un lato sia la certezza del diritto sia l’eguaglianza tra governanti e governati.

Sebbene la Corte costituzionale abbia ricordato più volte che ciò non è legittimo, il decreto legge ha ormai conquistato le materie cd ‘ordinamentali’ cioè quelle naturalmente riservate alla legge ordinaria perché la loro natura e l’importanza dei valori costituzionali coinvolti impone una disciplina sistematica alla quale il decreto legge è per definizione inadatto. Negli ultimi anni si sono ripetuti i decreti sulle autonomie territoriali e locali, e si è intervenuti con decreto legge sullo status dei magistrati (materia addirittura coperta in costituzione da una ‘riserva di ordinamento giudiziario’ cioè che dovrebbe non solo essere regolata con legge ma da legge organicamente rivolta a regolamentare lo status dei magistrati).

E’ diventato abituale che con decreto il governo si attribuisca deleghe legislative, autorizzi la ratifica di trattati internazionali, o, cosa veramente singolare, si impegni a emanare futuri decreti legge entro un certo tempo (così l’art. 7 comma 1 del decreto legge 201 del 2011 cd Cresci Italia).

Non è infrequente il caso che, nel procedimento di conversione, il Governo chieda e ottenga di accorpare più decreti, sottoposti così insieme all’ “esame” (meglio sarebbe dire al “voto di ratifica” delle Camere).

Nel corso della storia repubblicana, il ricorso al decreto legge fuori dai casi di necessità e urgenza è sempre stato guardato, dalla dottrina, come un abuso che sia il Governo che il parlamento fanno delle proprie prerogative e doveri costituzionali. E’ vero infatti che il Governo abusa presentando i decreti fuori dai requisiti costituzionali; ma altrettanto abusa il parlamento, che non si è mai rifiutato di convertire un decreto. Si è istituita così una sorta di convenzione, di prassi, che vede il potere legislativo spostarsi sul Governo.

L’abuso del decreto legge è dunque una continuità nella storia repubblicana, ma sarebbe sbagliato pensare che siamo davanti a un fenomeno sempre uguale a se stesso . Se i fragili governi degli anni ’70 e ’80 con la loro (agli occhi di oggi quanto modesta e piccola!) prassi d’abuso del decreto legge cercavano di aggirare maggioranze riottose e contrattare con esse, oggi tutti gli osservatori concordano che sempre più spesso ciò che il Governo scrive nei decreti è

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“eterodeterminato”. I governi portano all’approvazione delle Camere contenuti che non riflettono tanto il loro indirizzo politico, quanto impegni assunti con le organizzazioni sovranazionali, come la Ue, la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario internazionale e dunque con gli interessi che queste istituzioni rappresentano. La crescita del decreto legge, in altri termini, oggi viene messa in relazione con la perdita di sovranità collegata alla globalizzazione e alla integrazione sovranazionale. e viene vista come una incisione non solo sulla forma di governo, ma sulla stessa forma di stato democratica.

A conferma di questo cambiamento di senso che il decreto legge, e il suo abuso, ha assunto sta l’insorgere ormai deciso di un atteggiamento interpretativo, sostenuto dal Presidente della Repubblica, dai Presidenti di Assemblea Parlamentare e dal Governo, che che il Parlamento deve convertire i decreti senza emendarli (nonostante che, nel procedimento di conversione, eserciti in maniera piena la potestà legislativa). La definitiva sanzione di questa torsione interpretativa è venuta dalla sentenza n. 22 del 2012 della Corte costituzionale che ha qualificato la legge di conversione una legge a competenza limitata, ‘funzionalizzata alla stabilizzazione del decreto legge’. Come ha scritto Giuseppe Filippetta in una nota del 2014, questo orientamento della Corte costituzionale “per il suo essere apertamente in contrasto con la lettera della Costituzione, e con la ratio dell’art. 77 Cost. risultante dai lavori preparatori e da oltre mezzo secolo di concordi riflessioni dottrinali, prassi parlamentari e decisioni della stessa Corte costituzionale sembra porsi come una sostanziale riscrittura dell’art. 77, che da disposizione sui limiti del potere governativo di decretazione d’urgenza diviene disposizione sui limiti del potere parlamentare di conversione”.

4.Una nuova “cultura costituzionale”?

Per spiegarsi un simile salto, per spiegarsi come sia possibile che il garante della legalità costituzionale abbia dato alla costituzione una interpretazione ‘contra rationem’ (cioè palesemente in contrasto con quello che la Costituzione intende dire quando parla dei decreti legge), questo Autore pensa che si sia ormai affermata una ‘cultura costituzionale’ talmente diversa da quella che ha presieduto non solo all’elaborazione della Costituzione ma anche alla vita repubblicana fino a pochissimi anni fa “da consegnare al passato, un passato che, nella decisione della Corte, non è neppure ricordato, ma semplicemente ignorato, ciò che i costituenti avevano voluto consegnare al futuro, cioè la esclusiva spettanza alle Camere del potere legislativo”.

Che cosa è riflesso in questa nuova ‘cultura costituzionale’ che vede come normale titolare della funzione legislativa il Governo e come modo normale di legiferare l’urgenza, la mancanza di discussione, la confusione che mette in un unico provvedimento una miriade di disposizioni diverse, che restano sconosciute all’organo che le vota, cioè il parlamento e che porta con sé lo scavalcamento e l’annullamento di ogni procedura, di ogni regola messa alla ‘decisione’?

Secondo Filippetta questa ‘nuova cultura costituzionale’ riflette:

“La definitiva crisi di rappresentatività dei partiti e l’affermarsi, con la globalizzazione e la digitalizzazione, di una nuova, iperaccelerata temporalità dell’esperienza individuale e sociale che spingono con forza irresistibile le istituzioni , le procedure, le mediazioni parlamentari ai margini dello Stato, inteso come machina legislatoria (macchina per produrre leggi). Oggi il tempo necessario per prendere una decisione è un aspetto fondamentale della qualità della decisione stessa. Oggi – come ha sottolineato nel 2011 l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi – le strutture transgovernative nelle quali si discutono le riforme economiche in campo internazionale (dal FMI all’Ocse al G20) prefigurano “nuovi modi con cui esplicare la sovranità, che viene per loro tramite disarticolata funzionalmente, prospettando una forma di politica pubblica globale e determinando lo sviluppo di capacità decisionali sussidiarie su scala internazionale “su cui i Governi nazionali si riservano solo un potere di ratifica ex post”.

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L’abuso del decreto legge un tempo poteva essere letto come la perdita di potere del Parlamento davanti al Governo; oggi, esso segnala la perdita di potere di entrambi, come istituzioni rappresentative, davanti alle istituzioni e alle forze che detengono il potere di governo nella globalizzazione.

Ci siamo detti in partenza, iniziando lo studio della democrazia costituzionale, che l’esperienza della democrazia costituzionale congiunge epoche, culture, situazioni economiche e politiche molto diverse come quella dell’immediato secondo dopoguerra e l’attuale: essa aveva forgiato una idea di stato democratico, limitato da una legalità ‘costituzionale’, intriso di pluralismo, fortemente aperto all’integrazione sovranazionale. Il pluralismo è un bene, ma anche una via per ‘ridurre lo stato a una istituzione tra altre’ e permettere l’affermazione di gruppi di interesse più potenti di altri; l’integrazione sovranazionale uno strumento di pace e sviluppo, ma anche di affermazione di poteri nuovi non sempre armonici con le caratteristiche di un ordinamento fondato sulla sovranità popolare.

Questa è la conclusione del nostro studio: alle soglie di un nuovo ‘diritto pubblico della globalizzazione’ di cui ora come ora non è possibile vedere per ora altre manifestazioni che il caos, il disordine, l’anarchia gettata sulle istituzioni rappresentative e il loro depotenziamento.

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