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1 COLLANA DELLA LIBERA UNIVERSITÀ MEDITERRANEA “JEAN MONNET” Serie Giuridica I MARCELLO MARIA FRACANZANI ANALOGIA E INTERPRETAZIONE ESTENSIVA NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO MILANO 2003

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COLLANA DELLA LIBERA UNIVERSITÀ MEDITERRANEA “JEAN MONNET” Serie Giuridica

I

MARCELLO MARIA FRACANZANI

ANALOGIA E

INTERPRETAZIONE ESTENSIVA

NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO

MILANO 2003

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A Ponfolo ed ai suoi fratelli

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INDICE – SOMMARIO

PREMESSA: IL PROBLEMA

p.1

SEGUE: IL TEMA

p.3

1. INQUADRAMENTO DEL TEMA NEL PROBLEMA

DELL’INTERPRETAZIONE

1.1. Ermeneutica come metodo generale delle scienze dello spirito: spunti e critiche dall’impostazione bettiana utili per l’approccio contemporaneo al tema

1.1.1. Positivismo e dogmatica in tema di interpretazione. Dogmatica come parte

integrante dell’interpretazione giuridica e oggettività fondata sulla dogmatica

nell’impostazione di Betti. Categorie dogmatiche e giuridiche come creazioni dello spirito

p.7

1.1.2. Impostazione ermeneutica come Methodenlehre; l’”astrazione metodica” di

Betti; critica al “circolo del comprendere come circolo metodico, anziché ontologico”.

Analisi della possibilità del superamento della critica mettendo tra parentesi il problema

metodologico-ontologico. Indagine su una concezione al tempo stesso metodica e ultra-

metodica .p.19

1.1.3. Necessità della concretizzazione ermeneutica. L’ermeneutica come teoria

descrittiva o normativa dell’interpretazione. Valutazione soggettiva e razionalizzazione

del processo di decisione p.24

1.1.4. L’ interpres come mediatore (interpretium). C’è una neutralità ermeneutica? Il

confronto con Betti. La verità e l’interpretazione. Esistenza di una verità nella e della

interpretazione. Efficacia storica/esattezza di una interpretazione: valore pedagogico e

anticipatorio della legge p.28

1.1.5. L’interpretazione evolutiva nell’impostazione bettiana: spunti e precisazioni

. p.34

1.2. Interpretazione-ricerca e interpretazione-risultato: sulla bontà della distinzione nella prospettiva dell’esperienza giuridica

1.2.1. Rapporto tra norma e testo. Chi fa l’interpretazione? Qual è la funzione

dell’interpretazione? Teoria normativistica come riduzione all’analisi del linguaggio.

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Interpretazione come conoscenza mediante i concetti e interpretazione come

apprezzamento assiologico. Interpretazione del diritto, interpretazione della legge e

interpretazione dell’interpretazione. Interpretazione in funzione normativa e

interpretazione giuridica. Diritto in potenza e diritto latente: valutazione di queste

categorie p.38

1.3. Contenuti della ricerca interpretativa

1.3.1. Criteri discretivi della ricerca interpretativa: l’individuazione degli interessi in

conflitto; del bene giuridico tutelato. Superamento di queste impostazioni (anche in campo

penalistico) p.45

1.3.2. Circolo di reciprocità tra vigore dell’ordine giuridico e processo interpretativo.

Norma e uso della norma. Interpretazione abrogante come strumento per ricostruire

l’ordine assiologico nel sistema. Comunità dell’interpretazione giuridica/comunità

giuridica. Norma giuridica come pre-giudizio sociale condiviso p.50

1.4. Il conflitto delle interpretazioni: una difficoltà del positivismo non risolubile con l’antipositivismo

1.4.1. Il conflitto delle interpretazioni. Il problema della coerenza ermeneutica: ragioni

del problema. Le norme plurivoche o di significato ambiguo vanno interpretate in modo

conforme al sistema. I significati assurdi: ragioni e modalità dell’esclusione.

L’applicazione retroattiva p.55

1.4.2. Una soluzione giurisprudenziale: la norma giuridica al momento stesso della

sua entrata in vigore si oggettivizza estraniandosi dai fatti contingenti e dalle vicende che

hanno preceduto la sua emanazione (che conservano il valore di ausilio esegetico); va

interpretata facendo riferimento alla situazione esistente al momento della sua

applicazione. La norma, nella sua autonomia comprende tutte quelle situazioni anche non

prevedibili verificatesi successivamente che si inquadrino nella sua ratio e nella lettera

della disposizione. In tale operazione non opera l’analogia né l’interpretazione estensiva

perchè la nuova fattispecie rientra direttamente nella previsione della norma, considerata

nel suo significato letterale e logico p.60

2. LA NECESSITÀ DI UNA DISTINZIONE TRA INTERPRETAZIONE

ESTENSIVA E ANALOGIA COME SOLUZIONE AL PROBLEMA DELLE

LACUNE

2.1. Le lacune dell’ordinamento: sulla fisiologica imprecisione della legge

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2.1.1. Il rapporto tra l’interpretazione e le lacune. Premessa: indagine sulla realtà

normativa. Norma come cornice (Kelsen) e norma come realtà spirituale (Betti). I tipi e i

nomina: tipica come topica giurisprudenziale p.64

2.1.2. Ordinamenti giuridici chiusi e aperti: è ancora attuale questa distinzione? Ogni

sistema è normativamente chiuso e cognitivamente aperto. Completezza e autosufficienza

p.70

2.1.3. Le lacune: esistono o sono create dall’interprete? Le lacune pensabili. Il “diritto

controverso” di Betti: lacune della legge o insufficienza dell’interprete? Lacune:

lacunosità generica e specifica, lacune statiche e dinamiche, lacune originarie ed

evolutive, lacune metodologiche, lacune operative, lacune politiche e ideologiche, lacune

proprie e improprie. Lacune anche dei principi p.75

2.2. In claris non fit interpretatio: (in) attualità di un broccardo

2.2.1. Pretesa chiarezza di un testo. Il “caso deciso” e il “caso dubbio”. Come

stabilire quando non esistono dubbi sul contenuto di una norma? Dubbio diagnostico e

dubbio assiologico (Betti). La chiarezza come risultato e non come presupposto (Betti). In

claris vel non, semper fit interpretatio (Perlingieri) p.83

2.3. Mezzi per colmare le lacune secondo prassi

2.3.1. Ipotesi volontaristica. Volontà presunta del legislatore: velleitarietà

dell’impostazione in termini volontaristici p.90

2.3.2. Ipotesi logicistica; diversità di struttura logica e di natura giuridica

(impostazione del problema e rinvio) p.95

2.3.3. Analogia e ricorso ai principi non valgono a escludere l’incompletezza

dell’ordinamento giuridico. Necessità di soffermarsi sulla funzione, prima che sulla

struttura di interpretazione estensiva e analogia. Funzione dell’analogia è colmare le

lacune? Equivoco: definire l’analogia per la sua funzione e non per la sua essenza p.98

3. TENTATIVI DI DISTINGUERE INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E

ANALOGIA IN BASE ALLA FUNZIONE: IL PROBLEMA DELLA

DICHIARATIVITÀ - CREATIVITÀ

3.1. Interpretazione e linguaggio: continuità e differenze

3.1.1. L’interpretazione estensiva tenderebbe ad allargare l’area di significanza dei

termini senza superare il limite della zona di incertezza.; l’analogia consentirebbe di

applicare una norma a una fattispecie non prevista uscendo dalla norma. (Rinvio).

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Necessità logica dell’interpretazione estensiva, non similitudine di rapporti. Superamento

tramite concezione della struttura aperta del linguaggio e ragionamento di “tipo

analogico” del giudice p.102

3.2. Interpretazione e creazione: fisiologia e patologia ermeneutica

3.2.1. Insostenibilità di una distinzione qualitativa tra integrazione e interpretazione

sulla base dell’antitesi creatività/dichiaratività. Analogia e interpretazione estensiva come

processo sostanzialmente unitario. Impossibilità di stabilire un confine tra integrazione e

interpretazione naturale e fondamentale p.106

3.2.2. Da Carnelutti a Betti sulla distinzione auto-etero integrazione; ricorso ai

principi e auto (o etero?) integrazione. Autopoiesi formale e materiale. L’adeguazione

dell’intendere di Betti. La chiarificazione, l’adattamento. La norma si adegua

automaticamente alle condizioni storiche evolvendosi con esse: si modifica il contenuto

della norma. Inoltre il mutare dei rapporti sociali reagisce sull’originaria ratio iuris

(Betti) p.113

3.2.3. Attualità nella giurisprudenza sulla dichiaratività-creatività. Il problema della

“falsa applicazione” delle norme. La Corte costituzionale e la sua vocazione

paralegislativa nel rapporto integrazione-creazione-interpretazione. La nomofilachia

come diretta espressione del principio di uguaglianza (uniforme interpretazione della

legge). Libera ricerca del diritto. Law in action, law in public action. Tesi: possibilità di

intendere l’interpretazione estensiva e l’analogia come raccordo tra statute law e common

law p.119

3.2.4. L’eccedenza assiologica delle norme e il consenso sociale alla base del rapporto

tra interpretazione estensiva e analogia. Negazione di una neutralità assiologica; rifiuto

dell’applicazione del diritto come pura sussunzione. Norma come rappresentazione e

come valutazione secondo criteri assiologici di plausibilità e ragionevolezza in Betti.

Spazio nelle norme per gli orizzonti di attese collettive e il consenso sociale p.127

4. L’ATTUALE DISCIPLINA DELLA INTERPRETAZIONE DELLA

LEGGE: L’ARTICOLO 12 DELLE PRELEGGI

4.1. I precedenti storici dell’articolo 12: soluzioni giurisprudenziali, legislative ed esperienze straniere

4.1.1. Intensio ed extensio; leges, auctoritates e rationes; argumentum a similibus;

Codice Giustinianeo; Regie Costituzioni piemontesi; Codice estense 1771; Dispaccio di

Ferdinando IV di Napoli 1774; Tribunal de Cassation; Référé législatif; Art. 4 Codice

Napoleone; artt. 14 e 15 Statuto albertino; artt. 6 e 7 cc. austriaco; artt. 3 codice 1865;

art. 22 leggi Città del Vaticano; art. 9 n. 1 Codice civile portoghese; art. 1 cc. svizzero;

art. 2 disposizioni di attuazione c.c. svizzero p.132

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4.2. Analisi dell’attuale articolo 12

4.2.1. Riferibilità dell’art. 12 all’interpretazione della legge ovvero all’applicazione

dei giudici. Richiamo dell’interpretazione in funzione normativa di Betti. Esistenza o meno

di un senso ”proprio” delle parole. L’intenzione del legislatore (rinvio). Significato della

“precisa disposizione di legge”; problema dei combinati disposti. I casi e i tempi

“considerati” dell’art. 14 p.141

4.2.2. Possibilità di concepire il capoverso dell’art. 12, in quanto prescrive l’analogia,

come teoreticamente superfluo e irrilevante; come contenente tutti i criteri ermeneutici

della legge: sia l’interpretazione estensiva che l’interpretazione analogica. L’art. 14 come

non dettante alcun criterio di esegesi legislativa. L’interpretazione assiologica come

superamento dell’interpretazione letterale e criterio base di ogni interpretazione p.149

4.3. La ricerca e la distinzione sulla base della ratio legis

4.3.1. Valore dei lavori preparatori e dei progetti di riforma nell’interpretazione. Il

convincimento interpretativo. Art. 12 e ricorso ai principi costituzionalizzati: possibilità di

una doppia fonte interpretativa. Intenzione del legislatore e ratio legis. Problema della

ratio legis come un doppione della norma. Ratio come scopo e come fondamento.

Differenza tra razionalità della norma e sentimento di giustizia. Ratio legis e ragion

sufficiente della esistenza e della verità della norma. Scopo della norma e ratio legis.

L’elemento della ratio nella giurisprudenza p.153

5. LE SOLUZIONI AL PROBLEMA DELLA DISTINZIONE

5.1. Premessa logica: ragionamento per analogia nella logica in generale e nel diritto in particolare

5.1.1. L’analogia nella riflessione teologica e filosofica. L’analogia nella logica: le

proposizioni. Ragionamento sottinteso: induttivo, deduttivo, sussuntivo. Ragionamento per

analogia come di probabilità (storicamente condizionato), non di certezza. Critica alla

completa equiparazione tra analogia nella logica generale e nella logica giuridica.

Esistenza di un termine medio che non è nella legge ma è nel diritto, come un giudizio di

valore, non logico in senso stretto p.163

5.1.2. Segue. Analogia come argomento a contrario: indeducibilità di una regola a

contrariis da una norma eccezionale. Analogia e paradigma, proiezione e proporzionalità.

Fondamento logico e politico dell’analogia. Ipotizzabilità della eguaglianza e della

giustizia distributiva come fondamento dell’analogia e della interpretazione estensiva

p.179

5.2. L’analogia legis e l’interpretazione estensiva

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5.2.1. Distinzioni tradizionali: qualitativa e quantitativa, particolare e generale

(ragionamento a sineddoche). Distinguibilità in base al presupposto, agli effetti, alla

funzione (Betti e Bobbio). Impossibilità di distinguere una interpretazione ordinaria e una

analogica posto che il criterio di ragionamento è quello analogico p.184

5.2.2. Il senso della norma e la necessità normativa. Relazione tra norma e teleologia,

validità e fini. Norma come Sollen e ammissibilità o meno di un discorso analogico che

prescinda da un atto di posizione. Sollen e Sein: la cd. legge di Hume e le critiche alle

interpretazioni che ne sono discese. Il problema dell’efficacia. Applicabilità o meno dei

principi di non contraddizione e inferenza alla struttura normativa. La ragionevolezza

come condizione del volere normativo p.191

5.3. Sulla necessità di una norma autorizzatrice

5.3.1. Ipotizzabilità della tesi negativa sul condizionamento del legittimo impiego

dell’analogia all’esistenza di una norma che lo prescriva. Posizione di Betti. L’analogia e

il contenuto delle norme. La previsione di norme sull’interpretazione all’interno di altre

norme (gli “altri casi simili”). Consuetudine e analogia. Ipotizzabilità di un ordinamento

giuridico senza norma di autorizzazione al ricorso analogico. Il problema

dell’ordinamento giuridico internazionale. Tra virtualità e realtà p.198

5.4. I limiti dell’analogia legis

5.4.1. Fondamento politico, logico, giuridico del divieto di analogia in rapporto alle

norme penali e eccezionali. Estensibilità e valore del divieto. Posizioni della dottrina sui

limiti della norma penale. Il concetto di norma eccezionale. Fluidità del rapporto storico

tra regola ed eccezione (le eccezioni sono progressivamente diventate regole). Esistenza o

meno di altri limiti oltre quelli dell’art. 14. Norme eccezionali e principio di eguaglianza:

l’articolo 14 disp. prel. in rapporto all’art. 3 Costituzione. Il problema dei privilegi legali

nel credito. p.206

6. L’ANALOGIA IURIS E I PRINCIPI GENERALI

6.1. Analogia legis e analogia iuris

6.1.1. Il problema dell’esistenza o meno di una scala gerarchica tra i criteri di

interpretazione (interpretazione estensiva, analogia legis, analogia iuris). Critica alla

distinzione qualitativa o sulla base dell’esistenza di un rapporto particolare-particolare

(analogia legis) o particolare-generale (analogia iuris). Negazione della distinzione

analogia legis-analogia iuris sulla base del fatto che metterebbero capo a un principio

comune (norma inespressa) di ampiezza diversa. Ipotizzabilità di una coincidenza tra

analogia legis e principi p.222

6.2. I principi generali dell’ordinamento: tra norme e fonti di norme.

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6.2.1. Concetto di principio. Posizione di Betti: i principi generali non si identificano

con norme inespresse, ma sono somme valutazioni normative. Eccedenza assiologica dei

principi generali. Il diritto naturale vigente. Principi comuni e principi fondamentali;

rapporto con i principi costituzionali. Principi di civiltà giuridica e della vita comunitaria.

Analogia e criterio degli interessi. Insostenibilità della distinzione interpretazione

estensiva/analogia sulla base della ricerca e applicazione di un “principio” giuridico

p.229

7. NUOVE PROSPETTIVE SUL RAPPORTO TRA INTERPRETAZIONE

ESTENSIVA E ANALOGIA

7.1. Dalla discrezionalità alla fuzzy logic applicata al pensiero giuridico

7.1.1. Le clausole generali e gli standards valutativi come tentativo di superare la

distinzione. L’uso dei cd. concetti-valvola. Avvicinamento al sistema di common law

tramite la categoria della discrezionalità interpretativa. La core-penumbra theory già

anticipata da Betti. Principi della logica a più valori. Ipotizzabilità di un sistema giuridico

“sfumato”. Sostenibilità dell’intendere analogia e interpretazione estensiva come

applicazioni fuzzy p.240

7.2. Ipotesi ricostruttive e prospettive operative

7.2.1. Lettura usuale e lettura “capovolta” dell’articolo 12 disp. prel. La norma come

risposta ad un problema percepito dal legislatore. La norma come attuazione di un

principio (costituzionale o non) dell’ordinamento. Tèlos o scopo della norma; ratio o

ragion d’essere della norma. Segue: il problema del criterio che rende ragione

dell’ordine. Problema analogo, scopo analogo ed interpretazione analogica della norma.

La norma eccezionale come compressione di un principio dell’ordinamento.

Compressione del principio e costituzionalità della norma eccezionale. L’estensione della

norma eccezionale. Il problema del favor della norma eccezionale. Concorrenza di

principi e concorrenza di norme attuative di principi concorrenti. p.249

Indice della giurisprudenza

p.268

Indice della bibliografia

p.272

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PREMESSA: IL PROBLEMA

“Un altro libro sull’analogia”, dirà con soppesata espressione

di malcelato sospetto il teorico accademico: è un tema obsoleto,

ormai superato dalle nuove frontiere aperte dai recenti studi

sull’ermeneutica….

“Ancora un libro sull’analogia”, esclamerà il pratico del

diritto, con tono di ironico compatimento: già quante eleganti

costruzioni -in stile tedesco o americano- si sono succedute, nessuna

delle quali “spendibile” in tribunale, senza attirarsi gli ilari e salaci

commenti dei colleghi, la noia del giudice, correndo il rischio –

magari- di compromettere addirittura la causa con astrusità sterili e

vanitose….

Critiche forse in parte fondate. Occorre allora rendere ragione

della scelta di questo tema, muovendo dall’esperienza giuridica –

com’è buona norma- rilevando una di quelle aporie di cui è

disseminata la quotidiana vita del diritto, ma alle quali ormai non

prestiamo più caso o, tutt’al più, diventano materia per puntuta

quanto vacua critica al caffè del tribunale.

Due sentenze, relative a due fattispecie identiche nei fatti,

sussunte nella stesso articolo di legge, dalla medesima corte penale

d’appello. Due i ricorsi per cassazione, con due sentenze diverse:

l’una cassa, ritenendo che il giudice abbia operato un’inammissibile

interpretazione analogica in malam partem della norma

incriminatrice speciale, l’altra (successiva!) conferma il giudizio di

secondo grado, peritandosi di confutare le argomentazioni del

ricorrente, motivando trattarsi di un’interpretazione estensiva,

pienamente legittima anche per le norme incriminatici speciali.

Come rispondere a colui che, per aver commesso fatto

identico, vede attraverso le porte della prigione ormai

definitivamente chiuse, l’altro ricorrente che assapora l’aria libera?

È evidente che o analogia ed estensione sono la stessa cosa, ed

allora entrambi dovranno uscire; oppure analogia non equivale ad

estensione ed allora entrambi usciranno (analogia) o entrambi

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resteranno in carcere (estensione); ma sicuramente non sarà

possibile che uno vi resti e l’altro no. Di fronte a tale risultato del

massimo organo giurisdizionale, quindi, è del tutto fuori luogo

l’atteggiamento di sufficienza del teorico come il sarcasmo del

pratico; ed occorre riprendere, con molta umiltà, le fila di un

dibattito che ha prodotto risultati di indiscusso valore scientifico,

seppur sembra essersi arenato nelle secche del disinteresse, in parte

per causa propria, in parte per nuove mode che hanno distratto i

cultori della nostra disciplina.

Secondo uno stile che condividiamo, mosso invero da onestà

intellettuale, conviene anticipare fin d’ora e con la massima

chiarezza, le tesi che ci proponiamo di dimostrare nelle pagine che

seguono. E cioè:

-a) non ostante la maggior parte dei contributi scientifici a

cavaliere dell’ultima guerra si ingegni di dimostrare l’equivalenza

dei due termini, a nostro parere il gius positivista si contrattice

quando equipara l’analogia all’inteprpretazione estensiva,

vanificando il disposto degli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla

legge in generale;

-b) sotto diverso profilo, il teorico generale compie un

inammissbile salto logico quando equipara analogia ed estensione,

tratto in inganno dal procedere della conoscenza per identità e

differenza, che impregna di un vago “sapore analogico” anche

l’interpretazione estensiva.

Infine, si cercherà di non limitarsi alla pars destruens (ché già

molti screditano la disciplina agli occhi dei colleghi con interventi

demolitori senza rischiare la proposta alternativa) proponendo i

criteri di individuazione dei limiti dell’estensione e dei limiti

all’analogia.

E per far questo, si diceva, occorre riprendere le fila di un

dibattito ampio ed articolato, ricercando un punto fermo, un solido

aggancio, la tonalità in chiave da cui dipanare quelle che –si vedrà-

non pretendono di essere altro che variazioni su temi noti. Questo

punto fermo riteniamo di aver individuato nell’opera di Emilio

Betti, sia perché egli stesso ha voluto edificare la sua posizione in

confronto dialettico con chi l’ha preceduto, sia perché è l’ultimo

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autore con cui tutti i successivi abbiano dovuto in qualche modo

misurarsi, vedendo riconosciuta la profondità del suo pensiero

anche dalla tanto blasonata dottrina giuridica tedesca. Nell’opera di

Betti, allora, sia per i risultati, ma soprattutto per il metodo (alla

luce del principio di identità e differenza, non contraddizione e

terzo escluso) si è creduto di trovare un esempio che si collochi fra

teoria e prassi.

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SEGUE: IL TEMA

Il problema della disparità di trattamento tra i due imputati,

rappresentato nelle pagine che precedono, potrebbe essere ritenuto

di facile soluzione affermando che analogia ed interpretazione

estensiva in realtà coincidono: la nostra indagine si fermerebbe qui.

Ed è questa, invero, la conclusione cui è pervenuta la maggior parte

dei contributi in materia,1 come si vedrà in prosieguo. Sennonché la

tesi dell’equiparazione fra i due canoni ermeneutici nasconde una

petizione di principio, sia esaminandola sotto un profilo

squisitamente di diritto positivo, sia sotto un più ampio profilo

logico. Guardiamo il primo.

L’articolo 12 della preleggi, dopo l’indicazione di alcuni

canoni ermeneutici (lettera, contesto, intenzione del legislatore)

tratta della analogia nelle due varianti di analogia legis ed analogia

juris; lasciando ad un momento successivo il giudicare sulla bontà

della partizione, consideriamo come l’articolo ambisca contenere i

criteri ordinari per l’interpretazione della legge: in questo senso,

esso può ben dirsi norma generale, cioè il disposto per

l’interpretazione delle leggi, dei regolamenti e delle altre fonti di

provenienza unilaterale pubblica.2 All’opposto, il successivo

articolo 14 tratta dell’estensione per limitare l’applicazione delle

norme penali e “quelle che fanno eccezione a regole generali o ad

altre leggi” solo ai casi ed ai tempi in esse considerati. Sorvolando

ancora sulle difficoltà di individuare “i casi ed i tempi”, osserviamo

che l’articolo 14 si pone in contrasto con l’articolo 12, limitandolo e

stabilendo il criterio interpretativo per le norme eccezionali, criterio

1 Più che superato, anche accogliendo la più rassicurante tesi

dell’equiparazione tra estensione ed analogia, il problema è solo spostato e

diviene più stridente, dovendosi rendere conto della diversità di interpretazioni

pur in presenza di un procedimento interpretativo identico. 2 Distinguendosi dalla plurilaterale pubblica / privata (contratti collettivi

nel rapporto di impiego ex d.lgs. n. 165/01), dagli atti unilaterali e dagli atti

plurilaterali di diritto privato.

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che potrebbe essere o meno identico a quello dell’articolo 12:

ancora non lo sappiamo. Leggiamo però che esso consente la piena

estensione della norma eccezionale, in tutta la sua portata, ma non

ne autorizza la vigenza per i casi non specificamente considerati: si

estenderà alle diverse specificazioni o specializzazioni dei casi

indicati, ma non potrà essere invocata per casi diversi.3 Si può in

ogni caso dire che l’articolo 14 fa eccezione alle regole generali

sull’interpretazione, dettate dall’articolo 12; ed esso stesso, proprio

per questo, è norma eccezionale. Infatti, l’articolo 14 fa “eccezione

a regole generali” e “ad altre leggi”, cioè alle regole interpretative

dettate dall’articolo 12. Ora, chi professa l’equiparazione tra

analogia ed estensione, deve dedurre che l’art. 14 dove parla di

estensione (per l’equazione posta) intende anche l’analogia.

Tuttavia, ritenere che la norma, ove dice estensione dice anche

analogia, costituisce evidentemente un’interpretazione estensiva

dell’articolo 14, norma eccezionale. Ma, se è interpretazione

estensiva, allora è anche interpretazione analogica dell’articolo 14,

proprio in virtù dell’equiparazione fra i due termini che si è assunta.

In questo modo, però, avremo interpretato estensivamente, ovvero

analogicamente, l’articolo 14, cioè una norma eccezionale, anzi la

norma eccezionale che vieta l’analogia per le norme eccezionali. In

altri termini, se l’articolo 12 vuole disciplinare l’interpretazione in

generale, e contiene tra i suoi canoni l’analogia, e se l’articolo 14 fa

eccezione alla regola generale, trattando dell’estensione, ne

consegue che l’equiparazione di analogia ed estensione comporta

(per il principio di non contraddizione e del terzo escluso) un

interpretazione estensiva dell’articolo 14; ma, poiché analogia ed

estensione sono state identificate, l’interpretazione estensiva

dell’articolo 14 comporta altresì un interpretazione analogica

3 Esempio scolastico è il principio di consunzione o di specialità tanto

utilizzato nel diritto penale: l’articolo 624 c.p. si applicherà in tutte le sue

innumerevoli manifestazioni, caratterizzate da una serie di elementi accidentali,

fino a che la presenza di un elemento qualificato non integri una fattispecie

propria, per esempio la violenza privata che unita al furto integra la rapina. Su

questa base è costruita tutta la dogmatica del reato complesso e del reato

composto.

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dell’articolo 14, cioè l’applicazione dell’articolo 12, norma

generale, all’articolo 14, norma eccezionale, anzi norma eccezionale

(poiché limita la portata dell’articolo 12) che regola

l’interpretazione delle norme eccezionali. Si sarebbe cioè

interpretato l’articolo 14 secondo i canoni dell’articolo 12: una

norma eccezionale con i criteri previsti per le norme generali. In

estrema sintesi, chi propone l’equiparazione, legge nel riferimento

dell’articolo 14 ai “casi e tempi in esse considerati” anche i “casi

analoghi”; in questo modo interpreta (quanto meno) estensivamente

l’articolo 14, ma l’interpretazione estensiva (per la tesi da egli

stesso sostenuta) è anche interpretazione analogica, quindi sta

interpretando analogicamente la norma eccezionale che vieta

l’analogia nelle norme eccezionali.

L’equiparazione di estensione ed analogia passa attraverso la

vanificazione dell’articolo 14, che dovrebbe ritenersi superfluo,

contro lo stesso brocardo che consiglia di leggere i disposti magis ut

valeant quam ut pereant. E contro i criteri di stampo positivista che

impongono la coerenza e l’esaustività del sistema.

Seguendo la procedura della dimostrazione ad absurdum è

così emersa una conseguenza contraddittoria dell’equiparazione tra

i due termini di indagine che ne dimostra l’insostenibilità.

Una seconda ragione di distinzione può essere qui solo

indicata, pervadendo l’intero volume e costituendone –forse- la tesi

fondamentale. Il procedimento ermeneutico dell’estensione (nelle

diverse varianti sviluppate), al pari di ogni procedimento

conoscitivo euristico, sconta quella che possiamo chiamare l’ipoteca

analogica.

Ha trovato sempre più corpo nella storia del pensiero

l’intuizione, ormai risalente a ventiquattro secoli, che vuole la

nostra mente procedere per genus proximum et differentiam

specificam, secondo la concisa formula scolastica.4 Semplificando

4 Il procedimento, tramandato nella più compiuta sistemazione aristotelica

(Top., I, 8, 103 b 15), si deve all’intuizione di PLATONE, chiarissima in Soph., 251

B in Tutte le opere, a cura di G. Reale (traduzione di Claudio Mazzarelli),

Milano, 1991, p. 294. Ulteriore riferimento si trova in PLATONE, Resp. VII, 534,

E), in Tutte le opere, a cura di G. Reale (traduzione di Roberto Radice), Milano,

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sommamente si può dire che, come per una sorta di calcolo binario

ante litteram, noi ci avviciniamo all’oggetto da conoscere

ponendolo in rapporto con ciò che di più simile ci è noto,

ricercandone i caratteri “comuni” con il già noto, quindi ne

individuiamo i caratteri “diversi” che ne costituiscono le peculiarità.

Se questo è stato ritenuto il paradigma di ogni forma di conoscenza,

senza dubbio è anche la struttura del procedere dell’analogia.

Chiaramente percepibile è l’assonanza dell’analogia giuridica con il

processo della conoscenza. Anticipando, possiamo già dire che “c’è

un po’ di analogia” anche nell’interpretazione estensiva: questa è

l’ipoteca analogica. Tuttavia, è bene avvisare fin d’ora che non si

deve confondere il procedimento conoscitivo per identità e

differenza5 con il procedimento ermeneutico dell’interpretazione

analogica: in tal modo, se così fosse, “tutto” sarebbe analogia, non

solo l’interpretazione estensiva. Il metodo interpretativo

dell’argomentum a simile porta forte in sé la traccia del

procedimento per identità e differenza, ma non lo esaurisce: si tratta

in fondo di comparare due casi, in base ad un metron previamente

definito, per vedere se sono analoghi. Anche l’interpretazione

estensiva compara la fattispecie descritta dalla legge ed il caso

1991, p. 1256. Tuttavia, se nella Repubblica si giunge al ruolo privilegiato della

dialettica, attraverso l’esame delle altre discipline (ginnastica, musica,

matematica, astronomia) che formano il cittadino ed il reggitore della polis in

particolare, Platone rende nel Politico la più efficace definizione del

procedimento dialettico, ove dichiara “si dovrebbe, non appena si sia avvertita la

comunanza di molte cose fra loro, non distaccarsene, prima che siano viste in essa

tutte le differenze, almeno tutte quelle che si fondano sulle Idee; e, d’altra parte,

quando vi siano diversità di molti tipi in molte cose, non dovrebbe essere

possibile sentirsi sconcertati, e desistere, prima di aver stretto tutte quante le cose

affini all’interno di un’unica uguaglianza, e di averle rinchiuse nell’essenza di un

determinato genere.” Così PLATONE, Pol., 285 A – B) in op. cit., p.344, nella

traduzione di Claudio Mazzarelli. Per il significato “oggettivo”, contro le

“tentazioni soggettive” di questa “buona regola”, cfr. F. GENTILE, Intelligenza

politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, specialmente p. 44 e ss. 5 Utilizzerò nel prosieguo questa dicitura per indicare il procedimento

conoscitivo sommariamente descritto, sia perché ormai largamente diffusa, sia

preferendola all’originaria dicitura di “diverso” e “comune” per le ragioni che

saranno esposte infra al § 5.1.1.

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concreto, ricercando fin dove può giungere la previsione (di lettera,

di ratio, di evoluzione) contenuta nel testo di legge. Credo, però che

l’analogia giuridica non esaurisca il procedimento conoscitivo

fondamentale proprio in forza della preventiva fissazione del

criterio: questa preventiva operazione di limitazione dell’indagine

trasforma la tensione filosofica del “comune” e “diverso” nella

tecnica dell’analogia, nel mezzo per un fine che è il procedimento

interpretativo.

Tuttavia, per quanto la distinzione fin’ora possa essere stata

riconosciuta in negativo, almeno come impossibilità di (o

contraddittorietà della) equiparazione, non si è ancora ben tracciata

la differenza specifica che consenta una definizione in positivo di

analogia ed estensione, Occorre cioè (tentare di) trovare il criterio

per dire dove comincia l’una e dove finisce l’altra.

E per far questo conviene partire dal genere prossimo che

apparenta interpretazione analogica ed interpretazione estensiva,

affrontando subito lo spinosissimo problema se l’ermeneutica sia

questione di metodo o se attenga all’essenza, se appartenga alla

metodologia o all’ontologia, scegliendo come campioni delle

diverse posizioni in lizza rispettivamente Emilio Betti ed Hans

Georg Gadamer, nella loro garbata polemica sulla natura

dell’interpretazione.

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8. INQUADRAMENTO DEL TEMA NEL

PROBLEMA DELL’INTERPRETAZIONE

8.1. Ermeneutica come metodo generale delle scienze dello spirito: spunti e critiche dall’impostazione bettiana utili per l’approccio contemporaneo al tema

8.1.1. Positivismo e dogmatica in tema di interpretazione.

Dogmatica come parte integrante dell’interpretazione giuridica e

oggettività fondata sulla dogmatica nell’impostazione di Betti.

Categorie dogmatiche e giuridiche come creazioni dello spirito

Per poter condurre efficacemente la riflessione sul tema del

rapporto tra l’interpretazione estensiva e l’analogia è

imprescindibile aprire lo sguardo sul terreno entro cui il problema

affonda le sue radici, e quindi collocare il discorso all’interno della

più vasta questione dell’interpretazione. In questo senso può

condividersi l’affermazione che in realtà “ogni scienza include una

componente ermeneutica”6 e ha “molto di illusorio anche il concetto

6 M. BRETONE, Il paradosso di una polemica, in Quaderni fiorentini n. 7,

Milano, 1978, p. 115. Il passo di Bretone trae spunto dalla riflessione a proposito

della cd. polemica Betti-Gadamer - sulla quale vedi infra - in tema di relazione tra

verità e metodo. La “scoperta” che anche in ambito eminentemente scientifico,

che dovrebbe a rigore essere deputato ad espellere, in nome dell’obiettività,

qualunque tensione interpretativa, è presente, al contrario, una componente

ermeneutica gioca a favore dell’intendere l’ermeneutica come “metodica

generale”. Non esiste, dice Bretone, nemmeno una scienza puramente “tecnica”,

perché le implicazioni ontologiche rimandano alla sua componente ermeneutica.

Di qui la necessità di approfondire preliminarmente, ai fini del presente lavoro, la

questione dell’interpretazione.

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“tecnico” di scienza, se non se ne scoprono le implicazioni

ontologiche”.7 Donde una preliminare questione di metodo. Infatti a

partire dalla fine dell’Ottocento, riprendendo distinzioni già di età

classica, accanto a filosofie che consideravano lo “spirito” da un

punto di vista prevalentemente etico, si avvalorò l’idea che dello

spirito fondava un complesso di scienze, dette appunto

Geistwissenschaften. Fu soprattutto Dilthey,8 che pochi sanno

essere stato ispiratore di molte delle teorie di Betti, a diffondere il

concetto di scienze dello spirito come “l’insieme delle scienze

aventi per oggetto la realtà storico-sociale”. Caratteristica delle

scienze dello spirito è, in questa impostazione, il carattere storico

del procedere - sono infatti dette anche scienze storiche - in quanto

l’originalità dello spirito genera “prodotti” irripetibili, e perciò

“storici”. Com’è noto, contrapposte alle scienze dello spirito si sono

sovente catalogate le “scienze della natura”,9presentate,

contrariamente alle prime, come un complesso compatto e

omogeneo, apoditticamente certe.10

La fiducia, di matrice

ottocentesca, nella scienza come sola attività teoretica seria11

ha

7 Scrive JEAN GRONDIN in L’universalité de l’hermenéutique selon Emilio

Betti, in G. BENEDETTI (a cura di) L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti,

Milano, 1994, p.113: “Le titre allemand, “Doctrine générale de l’interprétation

comme méthodologie des sciences humaines”, souligne bien l’intention

diltheyenne”. 8 W. DILTHEY, Einleitung in die Geistwissenschaften, in Schriften, II ed., I,

Leipzig 1921, p. 5. 9 Anche sulla falsariga delle distinzioni tra fisiologia e psicologia. Per

diverse considerazioni su queste classificazioni, cfr. U. SCARPELLI, Semanitica,

morale, diritto, Torino, 1969, nonché, più decisamente, IDEM, Le argomentazioni

dei giudici, in IDEM, L’etica senza verità, Bologna, 1982, cui vuol far eco A.

PINTORE, il diritto senza verità, Torino, 1996. 10

Non interessa in questa sede sollevare la distinzione. Per ulteriori

approfondimenti cfr. A. RAVÀ, La classificazione delle scienze, Roma, 1904; più

recentemente T. SERRA, Il disagio del diritto, Milano, 1995. 11

Cfr. G. MORRA, voce Spirito (Scienze dello) in Enciclopedia filosofica

(1957), vol. VII, Roma, 1979, p. 1030. Programmatico lo scritto di G.

RADBRUCH, Einführung in die Rechtswissenschaft, Leipzig, 1919. Ma è una

tendenza che permane, anzi cui vieppiù si aggrappano i “non scienziati” (come i

giuristi), proprio quando gli scienziati ne prendono le distanze. Cfr. F. MODUGNO,

Appunti dalle lezioni di teoria dell’interpretazione, Padova, 1998. Per un

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spesso così spinto verso la ricerca di “scientificità” anche le scienze

dello spirito, non dissipando, tuttavia, tutti gli equivoci su che cosa

siano, effettivamente, le scienze dello spirito e sulla legittimità di

procedere in esse con metodo scientifico. Ma questo è un problema

più ampio.

La “monumentale”12

opera di Emilio Betti è senza dubbio

paradigma di una necessità sistematica là dove inquadra anche le

istanze più strettamente “tecniche” connesse all’interpretare

giuridico dentro un sistema di Teoria generale dell’interpretazione,

spostando, in certo qual modo, il baricentro delle argomentazioni da

un taglio più strettamente tecnico, o meccanico-giuridico, ad un

amplissimo respiro teoretico.13

“La nostra meta è una teoria

generale ermeneutica che, pur animata dalla fiducia nello spirito,

vuol restare sul terreno fenomenologico della scienza (bei den

Sachen selbst) senza ascriversi a nessun particolare sistema

filosofico”,14

scrive Betti. Non filosofica, dunque, ma forse si deve

ritenere non ideologica.15

Scientifica, poi, non tanto come sinonimo

panorama spagnolo della monarchia restaurata, J.J. MORESO, La indeterminación

del Derecho y la interpretación de la Consitución, Madrid, 1997, ma più

profondamente, J BMS., VALLET DE GOYTISOLO, En torno de las relaciónes

constituciónales, in Annales de la Fundación Francisco Elías de Tejada, VII,

2001, p. 17 e ss. 12

Questa la definizione di N. ABBAGNANO, in Storia della filosofia, IV, La

filosofia contemporanea, Torino, 1991, p.577 e ripresa, tra gli altri, da G.

BENEDETTI, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 19. 13

Cfr. M. GENTILE, Breve trattato di filosofia, Padova, 1974, p. 38. “La

problematicità”, scrive Gentile, “è un atteggiamento teoretico, cioè appartiene al

sapere in quanto tale, e ne costituisce la stessa condizione”. E più oltre “La

problematicità appartiene [...] come carattere costitutivo a tutte le forme del

sapere, sia a quella filosofica sia a quella scientifica[...]”. Ed è questa

consapevolezza critica che consente a Betti di elevarsi dalle angustie del dibattito. 14

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I,

Prefazione p. IX. 15

Laddove l’ideologia simula la filosofia applicando solo una parte del

movimento dialettico, il momento del “comune”, ed orientandosi a mantenere il

potere acquisito, collocandosi specularmene alla struttura dell’utopia, plasmata

sul solo momento del “diverso” e funzionale all’acquisto del potere, come ha

messo elegantemente in evidenza, ricostruendole le radici storiche e le matrici

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di procedimento convenzionale operativo, quanto di procedimento

rigoroso, riproducibile ed insegnabile, secondo la definizione usuale

nei primi decenni del Novecento.16

Certo, si legge un’aspirazione

alla purezza, di stampo kelseniano, ad una inconsapevole ricerca di

avalutatività, propria della tèkne.

Questa teoria, secondo il progetto bettiano, “dovrebbe studiare

il problema epistemologico dell’intendere [...] il processo

interpretativo (come processo gnoseologico), e soprattutto la

metodologia ermeneutica, approfondendo i tratti comuni e quelli

differenziali,17

che il metodo ermeneutico assume nelle scienze

dello spirito”.18

Sarà dunque la categoria dell’interpretazione a

fungere da Leitmotiv di ogni trattazione se, come si è anticipato, si

assume che “ogni scienza include una componente ermeneutica”.

Anche il problema dell’interpretazione estensiva e dell’analogia,

cioè, e di una loro possibile o impossibile differenziazione, non si

potrà risolvere se non partendo da una riflessione su che cosa sia

l’interpretare, su questa “componente ermeneutica”. La scelta di

questa o quella impostazione ermeneutica, poi, varrà a reggere la

costruzione messa a tema, e l’opera bettiana, di cui si è fatta la

scelta preliminare, costituirà l’impalcatura - per proseguire nella

metafora - tramite cui raggiungere la cima.

teoretiche F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984,

p. 187. 16

Cfr. A. RAVÀ, La classificazione delle scienze, Roma, 1904, p.47 e 112.

Cfr. altresì A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. II, cap.

XXXVIII (supplementi al Lib. III, sulla storia), III ed., 1859, nella traduzione

italiana di P. Savi – Lopez e G. De Lorenzo, Vol. II, Bari, 1930, p. 537 e ss. Sul

punto rinvio al ponderoso saggio di P. BELLINAZZI, Conoscenza, morale e diritto:

il futuro della metafisica in Leibniz, Kant e Schopenhauer, Pisa, 1990, p. 440 e ss.

Cfr. altresì, recentemente, C. TOMMASI, Riflessioni sul pensiero etico e politico di

Arthur Schopenhauer, in Il Pensiero Politico, 1996, I, p. 41 e ss. 17

Sarà dunque il procedimento per identità e differenza, e il principio di

non contraddizione a caratterizzare l’indagine. 18

E. BETTI, Teoria generale, cit., p. XVIII. Giova qui solo sottolineare,

per quanto si dirà in prosieguo, l’inconsapevole tralatizia assegnazione dello

studio del fenomeno giuridico alle “scienze dello spirito”, categoria vaga e

mutevole, spesso aggregata solo in quanto contrapposta alle “scienze della

natura”. Cfr. altresì supra nota 16.

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Ermeneutica e scienze dello spirito si rivela, perciò, il

binomio di partenza: binomio che subito si trova quasi travolto dalla

necessità di una scelta, si potrebbe dire sistematica, tra la

collocazione, in ottica positivista oppure eminentemente dogmatica,

del tema cruciale sotteso a tutta la riflessione, e cioè quello

dell’oggettività dell’interpretazione medesima. Rifuggita la

tentazione soggettivista, là dove confina pericolosamente con

l’arbitrio, il problema fondamentale che si pone ogni ermeneuta è

proprio quello della tensione obiettiva, e a maggior ragione il

giurista-interprete, costantemente pressato dall’istanza egalitarista

come conditio sine qua non di ogni costruzione autenticamente e

ordinatamente giuridica.19

“A differenza di Betti che voleva fondare l’oggettività

dell’interpretazione sulla dogmatica, il positivismo voleva

raggiungerla distruggendo la dogmatica”, sostiene Pier Giuseppe

Monateri.20

Emerge subito, tuttavia, la necessità di distinguere tra

due possibili significati del termine “dogmatica”. Da un lato

dogmatica come un’intelaiatura, un insieme di pure convenzioni,

così come emerge nella stessa impostazione positivista. Dall’altro,

al contrario, la dogmatica come la possibilità di una costruzione e

un ordinamento legittimo di concetti, un’impalcatura che si si

edifica di concetto in concetto, ma sui dati raccolti dall’esperienza,

così come nell’impostazione di Betti. Una dogmatica, in questo

secondo senso, che è una “rappresentazione della realtà”, tramite

cui, davvero, si può raggiungere l’obiettività, contrariamente

all’impostazione dogmatica dei positivisti che, ponendosi come

pura convenzionalità, paradossalmente potrebbe diventare

19

Si vuole qui dire che proprio perché la legge deve essere “uguale per

tutti” perché si possa autenticamente collocare in un “sistema” giuridico ordinato,

fuori da ogni arbitrio, almeno, se non da ogni incertezza, è necessario postulare la

necessità quanto meno di una tensione verso l’obiettività, sia questa più o meno

realizzabile. Obiettività che, però, non può essere meramente “tecnica”, avulsa da

un giudizio di valore, ma al contrario potrà realizzarsi solo entro una

impostazione che tenga conto delle istanze assiologiche. 20

Così P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, par.

29. Di diverso avviso, almeno nel rapporto tra sicenza del diritto e positivismo

giuridico, U. SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965.

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soggettivista. Solo con i chiarimenti fatti si può vedere, allora, se e

in che limiti anche Betti sia un dogmatico.

Preliminarmente, si impone la scelta tra fondazione dogmatica

- nel senso di rappresentazione della realtà, di costruzione

concettuale raccolta dall’esperienza, come detto, e non di mera

costruzione a tavolino - o positivista; e non è, questo, mero

esercizio speculativo: la scelta qualifica la genesi, la struttura e le

prospettive concettuali e applicative della materia.

Betti non chiarisce mai fino in fondo che cosa siano queste

“scienze dello spirito”, né ritiene di giustificare esplicitamente la

collocazione del diritto tra le scienze dello spirito. Si può notare,

tuttavia, come la catalogazione del diritto in tale categoria, in ogni

caso, evidenzi una implicita negazione della natura meramente

tecnica del diritto. Le leggi del diritto, cioè, non sono come le leggi

naturali (come potrebbero essere quelle fisiche) essendo leggi che

sottendono a esigenze etiche, prima fra tutte la convivenza. Se ne

deduce fin da subito, perciò, l’impossibilità di collocare il diritto

come si collocherebbe una norma tecnica, e la necessità, al

contrario, di darne un fondamento assiologico, che è quanto si verrà

sostenendo. In limine osserviamo come Betti (al pari di Ravà) sia

prigioniero del dibattito tedesco sulla classificazione.

Fatta con Betti la scelta per l’ermeneutica come “metodica

generale delle scienze dello spirito” ne segue, quasi

spontaneamente, l’adesione ad un’idea di dogmatica - nel senso di

rappresentazione del reale, come detto - quale “parte integrante

dell’interpretazione giuridica”.21

Questa implicazione discende

dall’aderire a un concetto di interpretazione come processo

“dialettico”22

in cui la soggettività dell’interprete convive con

21

Cfr. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria

generale e dogmatica), (1949), II ed. a cura di G. Crifò, Milano, 1971, p.105. 22

Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 602.

Il termine dialettico viene qui usato dall’autore in senso (inconsapevolmente)

idealistico, secondo il movimento triadico comune a Fiche, Schelling ed Hegel,

sviluppato sul sistema del criticismo kantiano, contrapponendo la soggettività

dell’inpterprete all’oggettività del dato. La stessa tematizzazione di una verità

data, necessarimante diversa dalla percezione del soggetto conoscente (noumeno /

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25

l’aspirazione oggettiva della norma. Da questa convivenza e dal

fatto che il diritto è attività pratica, non puramente convenzionale,

in cui è imprescindibile il momento valutativo, consegue che la

soluzione al problema dell’interpretazione giuridica non può essere

né tecnica né meramente logica, ma deve essere, perciò, dogmatica,

nel senso che si preciserà subito.

Si crea, in questo modo, un sistema superiore alle visioni

particolari, una sorta di comunione tra il pensiero dell’interprete e il

pensiero veicolo del contenuto ontologico dell’oggetto

dell’interpretazione, nel nostro caso della norma.23

Dogmatica, dunque, in quanto rappresentazione della realtà,

come reazione al pericolo formalistico (e in quanto tale in certo qual

modo anti-ermeneutico) del positivismo, soprattutto di ispirazione

kelseniana, e come fondamento dell’oggettività quale “canone

ermeneutico”.

Dogmatica sì, ma quale dogmatica?

La dogmatica di Betti si caratterizza per una “compiuta ed

elaborata sistematica di principi, di metodi e di canoni” 24

e per la

scelta della metodica come strumento di verificazione oggettiva.25

La contrapposizione con l’”ontologia ermeneutica”di Gadamer (che

poi dette origine alla famosa polemica Betti-Gadamer) si coglie,

tuttavia, laddove il discorso esclusivamente ontologico va alla

ricerca dell’essenza della volontà del legislatore ma, essendo

fenomeno), pone una seria ipoteca sulla possibilità di risolvere in unità il

problema dell’interpretazione. 23

Addirittura anche la stessa Teoria generale dell’interpretazione viene

concepita come “adatta ad educare nei giovani l’abito della tolleranza e il senso

del rispetto per le opinioni altrui”, così E. BETTI, Le categorie civilistiche

dell’interpretazione,in Riv it. sc. giur., 1948, p.4. 24

Così J. BLEICHER, Contemporary hermeneutics : hermeneutics as

method, philosophy and critique, London, 1980 (nell’ottima tr. it. a cura di

Stefano Sabattini, Bologna, 1986), citato anche da G. BENEDETTI in Una

testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I,

791. 25

Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di

Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 792.

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un’indagine sull’essere “compiuta dal di fuori”,26

questa volontà

risulta, poi, interpretata in innumerevoli modi tutti “scientificamente

legittimi” ma inevitabilmente diversi e quindi sospetti di essere

soggettivi.

Inserendo questa impostazione dentro la problematica

interpretativa in discussione ne viene fuori la necessità di una scelta

ermeneutica per la dogmatica nel senso di rappresentazione della

realtà come precisato sopra - quanto meno in chiave anti-

formalistica, là dove si sottolinea l’affondare dell’impostazione

dogmatica in un discorso teoretico - e in questa di una metodica

generale. Ma anche di non prescindere dal momento assiologico sul

quale, solo, è possibile ricondurre ad unità ciascuna delle

multiformi interpretazioni tutte intente ad accedere ad un unico

significato ontologico. Analogia e interpretazione estensiva,

dunque, come discorso sulle scelte del legislatore e della

giurisprudenza.

Si rifugge, dunque, la strada esclusivamente “ontologica”.

L’intento è quello di conferire all’interpretazione una validità non

meramente soggettiva e la necessità, conseguente, è perciò di

approfondire la riflessione sulle procedure27

attraverso le quali è

possibile sottoporre a controllo le conoscenze raggiunte.28

Ma per

questa impostazione è necessario prendere le distanze da una

ermeneutica ontologica, scegliendo un tipo di avvicinamento alla

realtà completamente diverso dalla “conoscenza oggettiva” cui

l’impostazione rigettata sembra cedere.29

26

Cfr. G. SANTINELLO, voce Ontico in Enciclopedia filosofica (1957), vol.

VI, Roma, 1979, p. 101. 27

Si intravvede la distinzione tra teoria e teoremi, fra speculazione ed il

metodo speculativo. Cfr. U. VOLLI, Manuale di semiotica, Bari – Roma, 2000. 28

Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito

ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,

1994, p. 28. 29

F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito

ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,

1994, p. 28. Cfr. altresì le sempre lucidissime pagine di L. PALADIN, Le fonti del

diritto italiano, Bologna, 1996; nonché F. ANCORA, La corte costituzionale e il

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27

Il tentativo, tuttavia, di rendere possibile all’interprete

l’espressione di preferenze ermeneutiche “oggettivamente” e non

soggettivamente motivate30

passa necessariamente per la

“generalità” di un’ermeneutica e per l’ordine “cognitivo” che la

sostiene. “Le rôle d’une herméneutique générale est d’en éclairer les

fondements et d’en distinguer les types afin de définir les conditions

d’une interprétation qui soit objective. Le dénominateur commun de

toute interprétation est d’ordre cognitif”, scrive Jean Grondin.31

La

cognitività diventa dunque cifra e condizione dell’applicatio nel

senso che si enfatizza, con Betti, la fase “ricognitiva” di ogni

interpretazione; tuttavia, per evitare di scivolare in una applicazione

sottratta a qualsiasi possibilità di controllo, si accetta una

identificazione e definizione preventiva delle grandezze tra cui la

mediazione interpretativa è chiamata ad operare.32

Tutto ciò, trasposto dentro la questione - tecnica ma non solo

tecnica - del difficile rapporto tra l’interpretazione estensiva e

l’analogia, messa a tema, ha un grande rilievo. Significa, infatti,

rifiutare di assumere il testo normativo da interpretare come

qualcosa di plastico, mutevole al mutare dell’applicazione e

soggettivamente estensibile. Significa, pertanto, obiettare, a chi

accusa la coincidenza di interpretazione estensiva e analogia come

fonte di soggettivismo, che ciò che si attua nell’interpretazione - in

quanto tale, estensiva o non estensiva - è proprio, in prima fase, una

“ri-cognizione” della realtà. Su questa base anche l’analogia entra

potere legislativo, in Giur. cost., 1987, I, 3825; infine, preciso nella distinzione,

G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi, Bologna, 1974. 30

F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito

ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,

1994, p. 30. 31

Cfr. J. GRONDIN in L’universalité de l’hermenéutique selon Emilio Betti,

in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 115. 32

Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito

ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,

1994, p. 28 p. 31. Si intende qui sottolineare che solo tramite le categorie

teoretiche di una costruzione generale, è possibile accedere alla interpretazione

come conoscenza, che proprio per questa “predefinizione” si caratterizza per una

ri-conoscenza, una fase, appunto ri-cognitiva.

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28

nel processo interpretativo come rappresentativo del reale e perde di

significato distinguerla dall’interpretazione estensiva. A patto, però,

di attingere a quella “preventiva definizione delle grandezze” cui si

faceva cenno e tramite cui viene ad affacciarsi l’impostazione

dogmatica così come la si è indicata.

A questo punto, però, viene da chiedersi: la scelta tra i metodi

interpretativi avviene sulla base di considerazioni meramente

logiche o tecniche capaci di imporsi universalmente, o deve

avvenire sulla base di giudizi di valore?33

È concepibile uscire dai

limiti del “pregiudizio dell’automatismo logico” e da quello della

“riduzione in termini di rigorosa e soltanto formale coerenza”?34

Con Betti concordo sulla necessità di fondare, tramite una

dogmatica coerente, le valutazioni più adatte a giustificare la

comprensione del reale35

a partire proprio dall’”attualità”

dell’intendere, che discende dall’impostazione di una dogmatica

come “rappresentazione della realtà”. Addirittura Betti parla di

“drammatizzazione”, insita nell’interpretazione, che è un affondare

nella dimensione dell’agire con la consapevolezza e l’obiettivo,

però, di “valutare alla stregua di criteri assiologici il risultato

epistemologico”. Rinviando il discorso eminentemente assiologico36

è imprescindibile, tuttavia, la riflessione sulla connotazione

“spirituale” del processo interpretativo che ne esce, sulla ricerca di

questo “reale” tramite un continuo “rinnovamento ermeneutico”.37

33

Cfr. L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica,

Padova, 1953, p. 13. 34

L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,

1953, p.13. Cfr. per la positiva, recentemente L. J. WINTGENS, Coherence of the

Law, in ARPS, 1993, p. 483 – 519. 35

P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ., 1987, p. 603. 36

Cfr. §. 3.2.4. Per le aspettative che un’ottica incentrata (solo) sui valori

può suscitare (spesso deludendole), cfr. il frizzante contributo di P.A. CAPOTOSTI,

Tanto tuonò …, ma non piovve, in Giur. cost., 1990, p. 2622. 37

“Così come il rinnovamento dell’ermeneutica divenne una questione di

esistenza per la teologia protestante sulla base del principio della prevalenza della

scrittura sul magistero della Chiesa.”, così F. WIEACKER, in Dalla storia del

diritto alla teoria dell’interpretazione. (il pensiero filosofico-giuridico di Emilio

Betti), in Riv. dir. civ., 1970, I, 305. Non si dimentichi che Betti vive e scrive

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29

È l’istanza dell’”interiorità” che qui si viene ad affacciare, e

l’intendere l’interpretazione come attività, appunto, complessa che

non può non fare appello allo spirito. È anche la valorizzazione

dell’interprete, con la sua “spiritualità”, come mediatore e

attualizzatore: questi è dotato di un suo “spirito vivente e

pensante”38

e ha di fronte, nella norma, una “spiritualità che si è

oggettivata in forme rappresentative”.39

Egli deve, allora, fare

proprio la mediazione di quelle forme rappresentative: in esse la

spiritualità che vi si è, diremmo così, oggettivata si contrappone - o

meglio giustappone - al soggetto interpretante come “qualcosa di

altro e indipendente da esso, come una oggettività irremovibile”.40

Acquista un significato, in quest’ottica, parlare di “circolarità dello

spirito con lo Spirito e della interpretazione nello Spirito”.41

Porre l’accento sulle categorie dogmatiche e giuridiche come

creazioni dello spirito può, malgrado ciò, rivelarsi rischiosamente

vicino ad un rincorrere un “paradiso dei concetti” (Begriffshimmel)

alla Jhering e uno scivolone in una sorta di “esoterismo giuridico”

che è davvero, come lo definì Hegel, lo stratagemma del tiranno

immerso nella cultura tedesca, culla del protestantesimo e delle sue istanze

ermeneutiche. 38

E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.

umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 ss, ove leggo un riferimento al magistero di

Gioele Solari, in particolare a G. SOLARI, Filosofia del diritto privato. Storicismo

e diritto privato, Torino, 1940. 39

E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.

umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 ss. Per il simbolo come rappresentanza

dell'assente, il rinvio d’obbligo è ancora una volta alla quasi coeva opera di cfr. E.

CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, trad. it. Firenze, 1967. 40

E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.

umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 ss. È da sottolineare il rischio di spaccatura

scheptica tra soggetto ed oggetto che l’espressione dell’autore camerte può

avanzare. Per quanto diremmo in prosueguo, crediamo emerga forte l’eredità

gentiliana della distinzione tra “pensiero pensante” e “pensiero pensato”,

distinzione idealistica, che (almeno in quella prospettiva) trova sempre dunque

componimento. 41

G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio

Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 797.

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30

Dionigi, che aveva appeso le tavole della legge troppo alte per

essere lette. Da questa critica ci si dovrà ben guardare.

Tuttavia anche rincorrendo l’oggettività attraverso

l’impostazione dogmatica, al di là di ogni connotazione “spirituale”,

si può rischiare di ritrovarsi di fronte a una struttura a contenuto

tautologico. Potrebbe, cioè, obiettarsi che cercare di sostenere

l’oggettività dell’interpretazione appellandosi al fatto che la norma

è rappresentazione della realtà, significherebbe sostenere una

struttura normativa perfettamente adatta alla struttura reale proprio

perché aprioristicamente determinata come combaciante.42

Allo

stesso modo allacciare troppo saldamente le categorie dogmatiche e

giuridiche al gancio dello spirito potrebbe rivelarsi un apriorismo.

“Se avessimo accesso direttamente alla natura in sé, avremmo

accesso anche alla norma in sé”, scrive Monateri.43

A patto,

ovviamente, che la norma appartenga a questa “natura”. “Ma questo

accesso ci è dato? Se la logica diventa natura, e la natura Spirito, lo

Spirito ha ovviamente accesso alla natura [...]. Ma questa visione

delle cose annulla in realtà ogni residuo di una possibile visione

oggettivistica del mondo.[...] Le categorie dogmatiche e giuridiche

sono creazioni dello Spirito, e noi possiamo pretendere che esse

siano oggettive, solo se sosteniamo che il nostro mondo è un

prodotto del nostro spirito. [...] È chiaro che contrabbandiamo,

allora, per oggettive le nostre visioni soggettive e tacciamo di

soggettivista chi non condivida le nostre opinioni”.44

Condividendo e ponendo come premessa le critiche ai limiti

tanto del dogmatismo metodologico quanto dell’esoterismo

ermeneutico preme, prima di procedere, analizzare la categoria

42

Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 603. 43

P.G. MONATERI, ivi. 44

P.G. MONATERI, ivi. È fin troppo evidente la reazione all’anti

relavitismo. La tesi dell’autore, perso prova troppo: egli muove però dalla falsa

alternativa tra soggettività / oggettività, invero incomunicabili se si esclude, come

sembra fare Monateri, la possibilità che il soggetto ri-coinosca l’oggettività,

meglio l’ordine in cui è inserito e che questo riconoscimento in comune con altri

sia il momento giuridico per eccellenza, nella definizione celsina del diritto, come

ars boni et aequi e come suum cuique tribuere.

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31

bettiana dell’”atteggiamento di carattere emotivo”,45

e perciò

metateoretico di cui l’interprete deve appropriarsi per conseguire il

giusto esito interpretativo.

Betti li definirà “atteggiamenti metateoretici preliminari al

processo interpretativo”.46

Atteggiamenti che certo non entrano

nella struttura teoretica del procedimento ermeneutico, come spiega

lo stesso Betti,47

ma semmai servono ad agevolare e predisporre

“l’adeguazione” dell’intendere. È il sich einfühlen

(l’immedesimarsi) che induce l’interprete, in una sorta di empatia o

fusione affettiva eteropatica, a identificarsi con lo spirito che gli

parla attraverso l’oggettivazione.48

Con il rischio, come pure si è

osservato, che questo evocare lo spirito della legge possa diventare

un espediente per salvare, insieme, l’avalutatività e la fecondità

dell’interpretazione. Ma è anche vero che, al di là delle categorie

bettiane un po’ romantiche “dell’interesse ad intendere,

dell’attenzione dell’abnegazione di sè, dell’apertura mentale”49

questi presupposti dell’intendere aprono la strada ad

un’interpretazione che è un “farsi” con l’interprete, non è solo un

descrivere.

Questo credo conferisca una straordinaria “fluidità” al

processo interpretativo, anche e proprio là ove se ne postula il

canone dell’oggettività, e rende sostenibile la teorizzazione di un

45

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 269 e

ss. Si osservi che ne L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p.

100 e ss., Betti indicherà come ”emozionali” anche gli elementi valutativi e

assiologici, immanenti alla norma stessa da interpretare. Su questo si veda infra. 46

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, , p. 269. 47

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 276. 48

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Riv. it. sc.

giur., 1948, p 41 e ss. Ripresa in questo senso anche da G. BENEDETTI, in

L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 778. 49

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 270. Si tratta di

formule che tradiscono l’anelito alla comprensione, alla ricerca dell’equilibrio, se

si vuole, alla ricerca di giustizia. Che richiede, però, quella classica attitudine

all’autonomia (cioè capacità di darsi delle regole e rispettarle) che lo stesso Betti

epidermicamente percepisce impura incrostazione giusnaturalistica, imepedendosi

così il “salto di qualità” per elevare lo studio dell’ermeneutica a filosofia.

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32

interpretare dai confini “sfumati”,50

ma non per questo incerti, dove

anche l’analogia, proprio perché addiviene ad un adattamento della

norma alle situazioni di fatto,51

si inserisce nel pieno dell’attività

interpretativa.

50

Per le nuove prospettive “a logica sfumata” cfr. § 7.1.1. 51

Così E. BETTI,, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici

(Teoria generale e dogmatica), (1949), II ed., a cura di G. Crifò, Milano, 1971,

cap. XI.

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33

8.1.2. Impostazione ermeneutica come Methodenlehre;

l’”astrazione metodica” di Betti; critica al “circolo del

comprendere come circolo metodico, anziché ontologico”. Analisi

della possibilità del superamento della critica mettendo tra

parentesi il problema metodologico-ontologico. Indagine su una

concezione al tempo stesso metodica e ultra-metodica

“Sensus non est inferendus sed efferendus”, ripete ad oltranza

Betti52

rifacendosi ad un antico brocardo. Questo è non solo il

segnale di una scelta a favore di una interpretazione volta a ritrovare

le “valutazioni immanenti e latenti nella legge”,53

ma è anche il

primo dei canoni ermeneutici attinenti all’oggetto: la dichiarazione

programmatica di far fronte alla seduzione soggettiva.54

Emerge in

questo modo come una simile impostazione ermeneutica sia

fortemente caratterizzata dal punto di vista metodologico:

“l’interpretazione si può caratterizzare come l’azione il cui evento

utile è l’intendere”, scrive Betti,55

capovolgendo l’ordine logico

delle tesi56

in merito a un intendere preliminare, che sarebbe

52

Grondin dirà “répeté partout Betti”, cfr. J. GRONDIN in L’universalité de

l’hermenéutique selon Emilio Betti, in G. BENEDETTI (a cura di) L’ermeneutica

giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 123. 53

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 31. Per

questi aspetti vedi infra § 1.2. 54

E. BETTI, op ult. cit. p. 10 ss. 55

E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.

umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319-344. 56

Già di Heidegger, condivisa da Bultmann e Gadamer. Cfr. M.

HEIDEGGER, Sein und Zeit, 14. Auflage, Tübingen, 1977, p. 143; G. GADAMER,

L’art de comprendre, tome I, Paris, tr. franc. 1982, pp. 54 ss; R. BULTMANN, È

possibile un’esegesi priva di presupposti? in Credere e comprendere, trad. it. di

A. Rizzi, Brescia, 1977, p. 803. Come si dice nel testo, qui vediamo la radice

della teoria della precomprensione sviluppata da J. ESSER, Vorverstandnis und

Methodenwahl in der Rechtsfindung: Rationalitatsgrundlagen richterlicher

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34

presupposto dell’attività interpretativa, cioè di quello che troverà

fortuna come “precomprensione”. Il “senso” di cui si tratta, quello

delle norme, non dovrebbe, cioè, essere surrettiziamente e

indebitamente introdotto, ma si dovrebbe, invece, estrapolare,

estrarre, dalla forma rappresentativa.57

Senza dimenticare la “circolarità” del comprendere, se si

volessero applicare le categorie dell’azione e dell’evento, come fa

Betti,58

l’intendere risulterebbe non tanto un’azione, un prius, bensì

un evento.

A prima vista potrebbe sembrare una concezione statica,

invece, al contrario, questa impostazione è sì metodologica, tuttavia

- a maggior ragione per questo - estremamente dinamica, specie là

dove concepisce un “ordine giuridico” non come un fatto fisico,

privo di vitalità e incapace di modificarsi, rinnovarsi, evolversi

bensì, piuttosto, come “una totalità spirituale, che si sviluppa e si fa,

ma proprio per opera assidua di interpretazione e di applicazione.”59

È il dinamismo dato da quella che Betti chiama l’”efficienza

evolutiva” dell’interpretazione.60

Entscheidungspraxis, Kronberg, 1975, i cui lavori sono stati introdotti e divulgati

in Italia soprattutto da Giuseppe Zaccaria. 57

E. BETTI,, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 14. 58

E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.

umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 e ss. 59

E. BETTI, Interpretazione della legge e sua efficienza evolutiva, in Scritti

giuridici in onore di Mario Cavalieri, Milano, 1959, p. 547. 60

E. BETTI, L’efficienza evolutiva dell’interpretazione, in Diritto, metodo,

Ermeneutica, a cura di G. Crifò, Milano, 1991, p. 547. Questo farsi

dell’interpretazione partecipa, ma non esaurisce (almeno così ci sembra)

l’ordinatio, cioè l’operazione di mettere ordine tra le norme, in base ad un

criterio, operazione il cui prodotto è l’ordinatum, il risultato (provvisorio) del

porre ordine tra le norme. I due termini latini che sciolgono l’ambiguità

dell’italiano “ordinamento”, costituiscono le chiavi di lettura proposte da F.

GENTILE, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova,

2001.

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35

A questo punto, però, se il nodo cruciale è quello di

vivificare,61

attualizzare una virtualità del sistema stesso62

a partire

dall’einfühlen dell’interprete, è corretto spostare la teorizzazione da

un piano fenomenologico a un piano meramente metodologico? Su

questa dicotomia, in realtà più apparente che reale, si sono accese le

polemiche non solo tra l’impostazione bettiana e quella

gadameriana, ma proprio su questo filone si è sviluppata molta

dell’anti-metodica capeggiata dalla Freie Rechtsfindung.

Per la verità fin dall’antichità la parola hermeneìa, che

designava l’attività di chi profetizzava e pronunciava i messaggi

sacri, sottolineava un manifestare all’esterno, un dispiegare

linguisticamente, un “esprimere che presuppone un interpretare.”63

Fin dall’origine, dunque, il comprendere interpretando si

caratterizzava per la circolarità dell’impostazione: la realtà

interpella l’ermeneuta che interpreta e fa emergere, esprime, la

realtà. Non deve stupire, pertanto, l’equivoco, smascherato da Betti,

di chi ha preteso capovolgere il rapporto genetico tra interpretare e

comprendere confondendo l’uso ambivalente della parola intendere:

da un lato per indicare la conoscenza, ottenuta mediante attività

interpretativa, del contenuto di una oggettivazione dello spirito

altrui, dall’altro per indicare la conoscenza in sé.64

Il problema

metodologico, di fronte a questo dato fenomenologico, si è posto e

si pone solo se ci si ostina a intendere il problema interpretativo

esclusivamente come un problema connesso ad un procedere, e

quindi a un metodo. Solo così si può spiegare il rifiuto della

Methodenlehre di Betti e l’accusa di avere erroneamente collocato il

“circolo del comprendere” entro un’impostazione metodica anziché

61

C. COSSIO, in El derecho en el derecho judicial, 1945, p. 117, citato da

Betti, dirà: ”Se trata de un conocimiento por comprension, [...] ; el interprete deve

vivenciar esa conducta y elegir la ley aplicable”. 62

E. BETTI, cit, p. 548. Per la pregnanza inabito giuridico del termine

virtualità, cfr. le acute osservazioni di F. GENTILE, Ordinamento giuridico tra

virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001. 63

G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,

in Riv. dir. civ. 1989, I, 326. 64

L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni

fiorentini n. 7, 1978, p. 130.

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36

ontologica.65

Ma là dove ci si rifà ad una “astrazione metodica”66

si

produce un mutamento di prospettiva, capace di subordinare le

preoccupazioni di metodo al momento della ricognizione

interpretativa e normativa.

Tradurre tutto ciò sul piano pratico non è men gravido di

conseguenze. Ammettere o negare un’interpretazione in quanto

estensione della norma può essere inteso, infatti, come un compiere

implicitamente un’operazione interpretativa per stabilire “quanto

significato” vi è nella norma in sè e quanto vi è di estensione.

L’obiezione secondo cui in questo modo si verrebbe ad affacciare

una precomprensione, una pre-interpretazione rimarrebbe, allora,

ineludibile se non staccandola da un piano strettamente

metodologico.

È la norma in sè, ci si chiede, a contenere “ontologicamente”

il significato dato dall’estensione, o questo significato è raggiunto

solo metodologicamente, partendo, per così dire, da un concetto-

base e allargandolo a seconda della “natura delle cose”,

“dell’attualità dell’intendere” o di qualsiasi altro criterio?

A questo punto viene da chiedersi se sia possibile superare

l’ostacolo teoretico dell’ontologia-metodologia ermeneutica

mettendo tra parentesi lo stesso nodo problematico. Probabilmente è

possibile ove la presunta “svolta ontologica o metodologica”67

è,

come si diceva, più apparente che reale, se si ammette, cioè, una

loro possibile coesistenza. A condizione di preservarsi da

quell’errore tipico del metodologismo dato dalla presunzione di

fornire dei canoni e dei criteri direttivi anteriormente e

indipendentemente dal concreto procedimento interpretativo,68

e a

patto di riconoscere il valore, per contro, del metodo, come via

65 Così G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed.,

1972, tr. It. (sulla II ed., 1965) a cura di G. Vattimo, Milano, 1983, p. 439. 66

E. BETTI, L’ermeneutica storica e la storicità dell’intendere, in Annali

della Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari, XVI (1962), p. 27 e ss. 67

F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito

ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,

1994, p. 28. 68

G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,

in Riv. dir. civ. 1989, I, 331.

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37

sicura in grado di rendere ragione di sé69

contro ogni soggettivismo,

sempre che il metodo stesso possa ritenersi fondato, cioè non

falsificabile.70

Non si supera il metodo - forse anche a cagione della

necessità di non rinunciare a una tensione all’oggettività

dell’interpretazione - e quindi difficilmente si può sostenere la

conciliabilità di metodica e ultra-metodica. Tuttavia in quest’ottica

è consentito avvalersi di uno strumentario che - se non si può

definire al tempo stesso metodico e ultra-metodico - si può

azzardare metodologico e ontologico attraverso cui procedere nella

tensione verso una - non più Naiver71

- obiettività.

L’analogia, in questa concezione, non è più solo un problema

logico, ma si inquadra, metodologicamente e ontologicamente,

dentro il problema ermeneutico. Si può, allora, insinuare un

superamento del metodo solo intendendosi sul fatto che si va a

parare contro la spiccata vocazione dell’ermeneutica a risolversi in

etica72

e ci si appella al contenuto assiologico delle norme da

interpretare. Quello etico, in questo modo, si può ipotizzare come il

terreno di incontro ultra-metodico tra un’impostazione metodica e

un’anti-metodica73

o meglio, il Leitmotiv cui ontologica e

metodologia ermeneutica si riconducono.

69

Cfr. G. BENEDETTI, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,

1994, p. 797. 70

Secondo il procedere per identità e differenza, come suggerisce il

principio di non contraddizione e del terzo escluso di cui si è detto al § 5.1.1. 71

Così G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed.,

1972, tr. It. (sulla II ed., 1965) a cura di G. Vattimo, p 439. 72

G. VATTIMO, Etica della comunicazione o etica dell’interpretazione? in

Aut Aut, 225, 1988, p. 1 ss. È tuttavia da sottolineare che nell’impostazione di

Vattimo l’istanza etica è giustificata come un evento di destino di “costituzione

nichilista”, come “pensiero dell’epoca della fine della metafisica”, là dove in

Betti l’istanza etica emerge come catarsi dell’interprete. Per le possibilità,

tutt’altro che crepuscolari, di essere terreno d’incontro che tale riconduzione

all’etica propone mi sento di condividere quest’ultima impostazione. 73

Cfr. G. BENEDETTI, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,

1994, p. 797.

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8.1.3. Necessità della concretizzazione ermeneutica.

L’ermeneutica come teoria descrittiva o normativa

dell’interpretazione. Valutazione soggettiva e razionalizzazione del

processo di decisione.

Definiti i limiti e le possibilità meramente metodologiche,

presa posizione relativamente a una certa impostazione e

concezione dogmatica, rimane davanti all’interprete, ciò nonostante,

la domanda che prende in considerazione le decisioni valutative dei

giudici e cerca una risposta capace di far collimare tutte le ipotesi -

pur sempre astratte - di partenza con i risultati - concreti - derivanti

dall’applicazione normativa.

È sotto gli occhi di chiunque la “insopprimibile distanza”74

tra

l’universalità della norma e la particolarità di ogni caso concreto:

diventa però un problema - dogmatico, metodologico e

fenomenologico al contempo - porre mano alla concretizzazione del

diritto,75

“lavorare” il diritto stesso se lo si vede, con Adolf Merkl,76

come un “semilavorato” che diventa “prodotto finito” solo con la

fase applicativa.

Qual è l’obiettivo del linguaggio giuridico? È un “dire per

operare” o un “dire per comprendere”? Con Esser77

ritengo che

l’obiettivo stia nella trasmissione di modelli decisionali e di

74

G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,

in Riv dir civ., 1989, I, p. 334. 75

Così K. ENGISCH, Die Idee der Konkretisierung im Recht und

Rechtswissenschaft unserer Zeit, Heidelberg, 1968. Per un approfondimento sulle

problematiche che affondano nella Konkretisierung tedesca e al suo rapporto con

la creatività si rinvia al § 3.2. 76

A. ABIGNENTE, Adolf Merkl: la costruzione a gradi dell’ordinamento

giuridico, in Riv. dir. civ. 1987, I, 621-654. 77

Cfr. J. ESSER, Vorverstaendnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung.

Rationalitaetsgrundlagen richtlicher Entscheidungspraxis, Frankfurt a.M., 1972,

p.133.

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indicazioni relative all’azione, ma credo che sia fondamentale

l’obiettivo di trasmissione di valori, pur tenendo presente che

quest’intento viene filtrato attraverso una veste tecnica

dogmatizzata e sistematica dell’ordinamento. Si potrebbe allora dire

che il diritto è strumento di “comunicazione”.78

Si aprono qui, oltre

alle problematiche connesse agli (inevitabili?) conflitti

interpretativi79

e alla frizione tra un modo di intendere

l’ermeneutica come teoria meramente descrittiva oppure normativa

dell’interpretazione,80

anche gli spazi lasciati aperti dalla querelle

positivista-antipositivista già emersa sul terreno della dogmatica.

Il maggiore punto di attrito, da questo punto di vista, lo crea

l’impostazione kelseniana,81

là dove postula l’espulsione dei giudizi

di valore dalla rigorosa e geometrica teoria interpretativa lasciando

tra parentesi ogni vincolo metodologico. “A Kelsen interessa il

soggetto che interpreta, non il modo di interpretare”.82

Se si pone

l’accento sul soggetto interprete glissando il tema delle modalità

interpretative si viene sì operando una “rimozione”83

del ruolo che

l’interprete esplica nello stesso processo di individuazione del

diritto, ma questa esclusione non è certo metodologicamente

irrilevante.

Non è il caso di soffermarsi troppo ampiamente qui sulla

validità o meno dell’assunto di una “precedenza della domanda”

78

Cfr. F. GENTILE, L’ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, II ed.,

integrata da tre codicilli, Padova, 2001. 79

Per i quali si veda infra, § 1.4. 80

Per la quale si veda infra, § 3.2. 81

H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, trad. it. di M.G.Losano, Torino,

1966, pp. 92-110. 82

G. ZACCARIA, L’apportodell’ermeneutica cit., p. 340. 83

G. ZACCARIA, L’apporto cit., p. 340. Per questa via, infatti,

l’interpretazione di chi “rappresenta” l’autorità costituita, cioè di chi ha il potere

giuridico di interpretare, è di per sé sempre corretta. Della costruzione

dell’giusfilosofo di Praga si trova (forse inconsapevole) traccia in E. BINDI, Un

caso di bilanciamento (mascherato) tra esigenze di efficacia della giustizia e

principi costituzionali relativi alle garanzie giurisdizionali in Giur cost., 1998, p.

900 e ss.

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nella struttura speculativa dell’esperienza,84

che trasposto in chiave

normativa conduce all’intima connessione tra la comprensione

giuridica e il contesto dell’azione. Certo è che i rapporti tra

fattispecie concreta e astratta non possono non sollevare la

questione sulla sufficienza o meno dei canoni ermeneutici

tradizionali nel vincolare a precisi criteri di razionalità la prassi

della concretizzazione del diritto.

Il “buco nero”di qualunque impostazione giuridica è dunque

ancora una volta quello dell’oggettività interpretativa, “luogo” in

cui si entra ma non si riesce più ad uscire e che sembra inghiottire

qualsiasi, anche contrastante, tentativo di teorizzazione.85

Arrovellarsi sulla descrittività o normatività di qualunque

ermeneutica, perciò, potrebbe rivelarsi un pericoloso avvicinamento

al “buco nero” dell’oggettività, capace di lasciare un vuoto

concettuale là dove tenta di incasellare nella “fisica giuridica” di un

positivismo esasperato quella che è l’anti-fisica della “circolarità

spirituale” di cui si è discorso.86

Poste queste chiarificazioni si può anche approdare alla

concezione bettiana che individua una tripartizione, a seconda della

funzione, in interpretazione meramente conoscitiva o ricognitiva,

riproduttiva o rappresentativa, o normativa.87

Concezione che, data

84

G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed., 1972,

tr. It. (sulla II ed., ivi, 1965) a cura di G. Vattimo, Milano, 1983, p 283 ss. 85

Secondo i recenti studi di astrofisica sui cd. “buchi neri” questi

sarebbero “luoghi” in cui non si può dimostrare la validità delle leggi fisiche

vigenti. Sarebbero, pertanto, dei luoghi in cui può esistere una anti-fisica, dove i

concetti di materia, tempo, spazio assumono connotazioni anche molto diverse da

quelle fisicamente conosciute. Date queste caratteristiche l’”ingresso” nel “buco

nero” segna un punto di non ritorno all’universo fisico. Cfr. C. LUCCHIN,

Introduzione alla cosmologia, Bologna, 1996, p. 266 ss. 86

È l’antimateria del positivismo di cui parla U. PAGALLO, Alle fonti del

diritto. Mito, scienza, filosofia, Torino, 2002. 87

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 33 ss. Per

quanto verremo a dire, occorre segnalare subito la perplessità di

un’interpretazione cognitiva diversa da quella rappresentativa, anzi di

un’interpetazione che non sia rappresentativa: altro invece è vedere se la

rappresentazione sia “icona”, immagine fedele alla sua natura di immagine,

ovvero “fantasma”, immagine che tradisce la sua funzione, ponendosi come

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la impostazione di dogmatica come rappresentazione della realtà,

come drammatizzazione, assurge a criterio e metodo, è operativa

proprio perché è descrittiva. Aggiungendo subito, però che non si

deve confondere l’interpretazione con la qualificazione giuridica.

“Cade in tale equivoco chi identifica l’interpretazione giuridica con

la valutazione del fatto in termini di astrattezza legislativa e crede

che gli elementi interpretativi consistano negli indici di regolarità

fissati nella previsione legislativa. In realtà l’interpretazione di atti

anche rilevanti per il diritto coglie l’atto nella sua concreta

individualità, nel suo contenuto di spirito e di pensiero e nel senso

che ha nell’ambiente sociale, spoglio ancora di ogni qualificazione

giuridica definitiva”.88

È possibile, allora, su queste basi, sostenere

la razionalizzabilità del processo di decisione dentro le valutazioni

soggettive dell’interprete ma lontano da ogni soggettivismo,

portando anzi proprio dentro la norma il “modo vissuto”89

dell’interprete.

immagine concorrente, ma priva di realtà. Per la coppia “icona” / “fantasma” e

per la sua radice platonica, mi permetto di rinviare al mio Il problema della

rappresentanza nella dottrina dello Stato, Padova, 2000. 88

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 100. Il

problema della qualificazione dell’atto ad un archetipo normativamente previsto

guida le sempre acute osservazioni di F. G. SCOCA, La teoria del provvedimento

dalla sua formazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, p. 1-55. 89

E. BETTI, ibidem. Sarebbe insomma l’esperienza dell’interprete a

vificare la norma, sicché una più maturata sapientia, per applicazione di scientia e

vissuta experientia, porterebbe l’interprete a rendere nuova e diversa

interpretazione dello stesso testo, in ragione di un mutamento “soggettivo”, non

“oggettivo”. Ma vi si legge anche l’anelito all’apertura all’esperienza giuridica, al

farsi del diritto nella controversia, cioè nel momento dialettico del

riconoscimento, su cui rinvio ancora una volta a F. GENTILE , La controversia alla

radice dell’esperienza giuridica, in AA. VV., Soggetti e norme. Individuo e

società, Napoli, 1987, p. 151 e ss.

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8.1.4. L’ interpres come mediatore (interpretium). C’è una

neutralità ermeneutica? Il confronto con Betti. La verità e

l’interpretazione. Esistenza di una verità nella e della

interpretazione. Efficacia storica/esattezza di una interpretazione:

valore pedagogico e anticipatorio della legge.

Si è già accennato alla connotazione “mediatica” che

caratterizzò il ruolo degli ermeneuti all’origine del termine. Anche

il temine interpres, non di meno, rimanda al ruolo dell’interprete

come “mediatore“, riferendosi alla figura dell’inter-pretium. Già

linguisticamente, dunque, l’accento è posto sulla soggettività

dell’interprete e, verrebbe da dire, anche sulla terzietà di questi

rispetto da un lato alla norma, dall’altra alla realtà.

Lo stesso Betti spinge molto in senso kantiano sottolineando

la necessità di mantenere la consapevolezza della parte che ha il

soggetto nel processo conoscitivo delle scienze dello spirito.90

Tra i

canoni ermeneutici che l’autore individua c’è, in primissimo piano,

quello dell’”attualità dell’intendere”, con una costante attenzione a

quella “vivificazione“ del diritto91

che non può che essere

sviluppata tramite l’interprete (tramite il tramite, pertanto).92

90

E. BETTI, Diritto romano e dogmatica odierna, in Arch. giur., 1928,

p.129 ss. 91

Scrive Luis RECASENS SICHES, riprodotto da Betti, in N. filos. de la

interpret. del derecho, 1956, p. 138, 219: “La norma general al proyectarse sobre

una conducta singular, pasa por el proceso de ser individualizada, de ser

concretada respecto de ese comportamiento singular, de ser interpretada en

cuanto al sentido e al alcance que deba tener para eso caso singular. El risultado

de ese proceso es lo que constituye el revivir actual de la norma, el cumplimiento

de esta en un caso particular.” 92

Cfr. L. RECASENS SICHES, cit., p. 219: “Por lo tanto el cumplimiento de

una norma general en cada caso particular no consiste en un reproducir la norma

general, sino en un adaptar la pauta general por ella señalada a cada caso singular,

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La mediazione avviene non solo tra il tempo dell’interprete e

quello del legislatore (e da cui discendono tutte le discussioni

intorno alla ricerca della ratio, del “senso della legge”, della “natura

delle cose”, della mens auctoris, e così via), ma anche tra la

soggettività dell’interprete e l’oggettività della norma, tra l’esigenza

di certezza e l’efficienza evolutiva dell’atto normativo. L’interprete,

cioè, si trova di fronte alla norma con tutta la sua soggettività,

quindi con tutte le sue categorie, i suoi condizionamenti, di cui non

può, tuttavia, sbarazzarsi per fare posto a una vagheggiata

neutralità. Dacchè sarebbe “spogliarsi della propria soggettività”,

aspirazione del tutto assurda dato che, come dice Betti, egli

“perderebbe gli occhi per vedere”.93

Si trova anche, però, di fronte

alla necessità di non fare della propria soggettività un soggettivismo

che sfocerebbe nell’arbitrio e quindi, in nome della certezza, viene a

dover conciliare l’oggettività interpretativa con la soggettività

connessa all’essere l’operazione ermeneutica cosa altra da una mera

operazione aritmetica o contabile. È il canone dell’adeguazione

dell’intendere o della corrispondenza o consonanza ermeneutica,

per cui l’interprete deve “sforzarsi di mettere la propria vivente

attualità in intima adesione e armonia con l’incitamento che gli

perviene dall’oggetto”.94

Per la verità è stato sottolineato come l’applicazione, nei fatti,

prevalga di gran lunga sulla mediazione95

e la strumentalità

dell’interpretazione in funzione normativa -che va oltre, in certo

qual modo, il semplice interpretare per conoscere- ne esce alquanto

consiste en cumplir de modo concreto en la conducta singular el sentido

formulado en términos genéricos y abstractos por la norma general”. 93

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 25. È il

tema su cui ci si è congedati dal capitolo che precede e che, come si vede,

costituisce preoccupazione ricorrente in tutta l’opera del nosto, in reazione agli

scritti coevi, p. es,. quello di R. SACCO, Il concetto di interpretazione del diritto,

Torino, 1947. 94

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 25. 95

Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito

ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,

1994, p. 28.

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subordinata, al di là dei meritori intenti, all’efficacia strettamente

applicativa.

Servirebbe un’interpretazione “aderente al vero” se poi non

avesse alcuna efficacia applicativa?

Il diritto, non di meno, comprende una natura applicativa,

altrimenti diritto non sarebbe, riducendosi a pura speculazione.

Secondo l’insegnamento della tripartizione aristotelica, lo studio del

diritto e dello Stato non è né scienza, né tecnica, ma un arte (come

la strategia, l’arte militare), partecipando della teoresi, ma non

riducendosi a questa in un librarsi estetizzante, appartenendo alla

creta del produrre, senza retarne invischiato, sospeso cioè tra cielo e

terra, come la linea dell’orizzonte dell’Alighieri. Credo, però, che

per uscire dall’alternativa tra oggettività e soggettività

dell’interpretazione e nell’interpretazione ricorrere al criterio degli

interessi in gioco, alla ricerca - di natura applicativa - del senso

della norma come tutela di questo o quell’interesse non tolga né dal

soggettivismo - dato che chi riuscisse a far prevalere il proprio

interesse potrebbe ottenere un’interpretazione favorevole - né da

un’inguaribile conflittualità interpretativa data dalla necessità di

stabilire, comunque, un criterio per dare la prevalenza a questo o

quell’interesse.

È il criterio del télos, è la necessità di fondare

l’interpretazione sui valori96

che può far uscire dall’alternativa e

può costituire terreno di confronto fuori da ogni soggettivismo.

Tuttavia il problema della verità della interpretazione e della

ricerca della verità nella interpretazione, cruciale e lacerante, si

scontra pur sempre, proprio in virtù di questa sua natura

“meccanica” con l’efficacia, per l’interprete, di porsi la domanda

sulla efficacia applicativa. Ossia, quando l’interprete si accinge ad

interpretare una norma deve interrogarsi sull’interpretazione più

rispondente al vero in termini di risultato, o in termini di metodo, o

ancora deve rinunciare a questo ennesimo “buco nero” e badare solo

all’efficienza evolutiva della sua interpretazione?

96

L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,

1953, p.14 ss.

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Il problema di una neutralità ermeneutica, capace di accedere

alla verità (normativa) come dis-velamento di ciò che già in sé è

dato è un modo scorretto di porsi di fronte all’impasse della

certezza dell’interpretazione. Collegare con tanta sicurezza certezza

e verità, a parte l’inevitabile irraggiungibilità di una conoscenza

piena di tutta la verità a causa della inguaribile parzialità

dell’approccio conoscitivo,97

può far perdere di vista l’impostazione

ermeneutica prescelta di un “farsi” dell’oggetto d’interpretazione -

la norma - tramite l’interpretare medesimo.

È da condividersi allora l’opinione di Cavalla che sostiene

come “il problema della logica (conoscere quali siano le condizioni

che rendono un discorso rigoroso)” non si risolva “esibendo una

logica (sistema di criteri per connettere in modo necessario una

serie di proposizioni) che, in se stessa, è sempre e solo strumento

per accertare, e non per produrre la verità”. 98

Rincorrere la verità

per amore di certezza taglia, però, fuori quei fatti giuridicamente

rilevanti ma inevitabilmente sottoposti a “senescenza assiologica”, o

quanto meno metamorfosi evolutiva: si pensi, ad esempio, al

concetto di “buon costume”. Non solo: rende pure stridente

l’applicazione di criteri interpretativi logici, quale il modello

analogico, a quegli stessi fatti attinenti la vita giuridica difficilmente

comprimibili entro strutture fermamente logiche.

È chiara, dunque, la necessità di ricorrere a tutta la “potenza

assiologica del diritto”99

e di instaurare giudizi di valore come

testata d’angolo di qualunque costruzione interpretativa.

Nell’analisi di Betti è costante la preoccupazione relativa alla

“questione della verità”, che rimanda al problema del comprendere

nell’interpretare. Tuttavia vi è in Betti una sorta di sfasatura tra la

97 Sembra sottintendersi infatti che oggetto di conoscenza non sia mai la

totalità dei fenomeni, ma solo una parte. Anche per il tradimento filosofico che

muta l’anelito alla verità con la ricerca della certezza, individuato nell’opera

sistematizzante dell’Aquinate, cfr. il denso saggio di Francesco Cavalla di cui alla

nota seguente. 98

F. CAVALLA, La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la

secolarizzazione, Padova, 1996, p. 110. 99

L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,

1953, p.17.

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posizione critica, sostenitrice di una interpretazione mirata ad

attingere nelle forme rappresentative i valori,100

e quella

strettamente metodologica che, postulando il canone dell’astrazione

metodica, implica una certa indifferenza alla verità dei testi con cui

si ha a che fare.101

È lo stesso Betti che scrive come si debba

cominciare a tenere distinta dal positivismo giuridico l’esigenza di

“neutralità ermeneutica” che vieta all’interprete, giudice o giurista

teorico, di risalire ad istanze metagiuridiche, etiche, religiose,

sociali o economiche, secondo preferenze sue personali, e

gl’impone di attenersi alle valutazioni normative che determinano la

disciplina positiva dei rapporti e sono immanenti all’ordine

giuridico di cui si tratta”.102

Tuttavia poco oltre aggiunge che

“l’esigenza di neutralità non significa che qui sia richiesta

all’interprete una supina rassegnazione o una sorta di cecità morale,

ma essa è in tanto affermata in quanto si presuppone che proprio

negli organi dell’interpretazione, siccome esponenti della coscienza

sociale, sia viva e vivace la consapevolezza della tradizione e con

essa la sensibilità delle sue basi morali”.103

Le teorie positivistiche del diritto vorrebbero, dunque,

espellere le istanze etiche dal diritto e ridurre l’interpretazione

giuridica a una mera analisi del linguaggio legislativo. Al più la

“verità” sarebbe ritrovata nella pura conformità delle regole a “certi

principi etici accolti come criteri di valutazione di una società

storicamente determinata”.104

Questo, tuttavia, oltre a ridurre

fortemente le potenzialità e la creatività dell’interpretazione

condurrebbe a una insopprimibile staticità del sistema.

Ma le norme, come sottolinea Betti, non sono ”pure

enunciazioni di giudizi tendenti a comunicare un sapere circa la

sintesi di un soggetto e di un predicato, ma sono strumenti ad un

100

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p.291

ss. 101

L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni

fiorentini n. 7, 1978, p. 128. 102

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 795. 103

E. BETTI, op.ult. cit. p. 796. 104

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 796.

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fine di convivenza sociale”. Inserire i giudizi di valore

nell’interpretazione giuridica, dunque, significa fare del giurista un

uomo che si pone fondamenti etici e li immette nel sistema con

l’attualità della sua interpretazione, o, meglio, li emette dal sistema

con il suo intendere.

L’impostazione di Betti in merito alla esattezza

dell’interpretazione procede sicura dentro il canone dell’oggettività:

”I caratteri che contraddistinguono l’interpretazione anche in

funzione integrativa e ne fanno risaltare l’antitesi con la

discrezionalità sono: l’univocità, che conduce a riconoscere esatta,

almeno teoricamente, una sola soluzione (in quel dato momento

storico e in quella data situazione di fatto); quindi la prevedibilità e

la rigorosa controllabilità del risultato, assicurate, almeno in teoria,

dal fatto che in essa sono escluse valutazioni di mera

opportunità”.105

Avvicinare così tanto l’efficacia storica con

l’esattezza di un’interpretazione può, tuttavia, rivelarsi pericoloso là

dove ci si aggroviglia nel trasporre questa concezione dentro la

necessaria imperatività delle norme. Si rischierebbe di essere

fraintesi passando per sostenitori di una legalità solo se

storicamente efficiente. Non solo. Si rischia di passare sotto silenzio

la problematica connessa al cosiddetto valore “profetico e

pedagogico” della legge, là dove accade che le proposizioni

normative siano più evolute del sentire sociale o che il sistema di

legalità faccia insorgere nuovi bisogni o nuovi conflitti di interesse

cui la norma inconsapevolmente risponde. È la critica del brocardo

“quod non est in lege nec in iure”, caro all’impostazione

tradizionale, che tuttavia riceve dalle considerazioni fatte, anche con

Betti, un profondo scossone.

105 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, (Teoria

generale e dogmatica), (1949) II ed. a cura di Giuliano Crifò, Milano, 1971, p.

68. La prudenza nell’escludere con sicurezza le valutazioni di opportunità

dall’interpretazione salva l’autore camerte da un astrazione che porterebbe la sua

argomentazione fuori dalla realtà. Che poi ogni interpretazione abbia in sé

componenti di opportunità riteniamo sia momento fisiologico del carattere

politico che pervade anche il momento giuridico (costituendone anzi la genesi),

necessaria anche per scegliere tra più possibili interpretazioni, tutte

scientificamente legittime.

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8.1.5. L’interpretazione evolutiva nell’impostazione

bettiana: spunti e precisazioni.

Prima di procedere oltre sul tema sarà opportuno approfondire

un aspetto del problema dell’interpretazione messo in luce dalla

maggior parte degli autori, ma alla cui soluzione raramente si è

giunti con sicurezza e uniformità. Si tratta dell’interpretazione

evolutiva che spesso è ritenuta confinare con l’analogia, sicché la

definizione di quella è preliminare alla corretta individuazione di

questa.

Sovente dottrina e giurisprudenza si sono prodotte in una

pletora di partizioni a riguardo dell’interpretazione e, in particolare,

si è da tempo delineato il concetto di interpretazione evolutiva, per

evidenziare il carattere di attualità e di attualizzazione della norma

cui l’opera dell’interprete dà luogo. Ci si è, cioè, rifugiati nell’idea

dell’”evolutività” dell’interpretazione per sottolineare la vitalità

delle stesse norme grazie proprio all’apporto ermeneutico, la loro

capacità di adattamento al mutare delle situazioni sociali e anche

dell’ethos, e per fuggire alla critica di ancorare il significato dei

precetti ad una ormai desueta letteralità.

Perciò, senza rinunciare all’idea di certezza che sempre ha

assillato dottrina e giurisprudenza, individuare nella capacità

evolutiva dell’interpretazione la possibilità - sottoposta ad un rigido

controllo di disciplina - di adeguare ad un presente in continuo

mutamento anche norme poste in un passato non recentissimo ha

dato, quanto meno, l’illusione che l’ermeneuta potesse soccorrere

“l’impossibile Sisifo”106

del legislatore, costretto, altrimenti, ad una

106

L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,

1975, p. 240 e ss.

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frenetica attività di produzione legislativa nella rincorsa costante per

rimettersi al passo con i tempi.107

Può esservi una nuova valutazione degli interessi in conflitto?

Betti parla108

di nomogenesi per riferirsi al modo in cui in

origine la norma fu pensata e alla valutazione e coordinazione degli

interessi in gioco attuata dal legislatore ai tempi della emanazione

normativa e, per contro, di eterogenesi degli scopi per sottolineare

proprio il ruolo - da questo punto di vita innovatore, e quindi

evolutivo - dell’interprete di ricercare sì, nell’interpretare la norma,

la valutazione originaria e immanente ad essa, ma anche di

analizzare se questa abbia maturato un esito ulteriore, rinvenibile

anche attraverso il coordinamento con altre norme del sistema e

anche da dati extragiuridici.

Sarebbe, in questo modo attuata la nuova valutazione,

evolutiva, degli interessi in conflitto. Tuttavia l’autore camerte si

sofferma ad analizzare un aspetto a questo consequenziale: è

legittima questa interpretazione evolutiva?

Rispondendo alla critica di Romano,109

Betti sottolinea come

l’interpretazione evolutiva non sia, come sovente la dottrina aveva

affermato, un particolare metodo o criterio ermeneutico, ma un

carattere della stessa interpretazione giuridica che necessita di

essere integrata e arricchita quanto più la formula si allontana nel

tempo dalla presente attualità, come del resto sottolinea avvenire

per ogni linguaggio.

107

Cfr. §. 2.1.3. 108

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, (Teoria

generale e dogmatica), (1949) II ed. a cura di Giuliano Crifò, Milano, 1971, p.

112 e ss. 109

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 125 e

ss; E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 833 e ss. La

posizione di Santi Romano rispecchia il momento dell’evoluzione del diritto

pubblico ed è conseguenza della teoria istituzionalistica, come recupero di quel

fattore storico che – paradossalmente- proprio la Germania dell’Ottocento, patria

dello storicismo, aveva finito col tradire. Cfr. S. ROMANO, Interpretazione

evolutiva, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947 (rist. 1983), p.

120 – 125.

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D’altro canto il fatto che l’ordinamento sia visto come

qualcosa non di prestabilito ma di dinamicamente in costruzione,

una “comunione di vivente spiritualità”110

fa sì che si renda

necessaria questa opera di “assidua interpretazione”, cosicché

l’efficienza evolutiva si dia come semplicemente un risultato

consequenziale, magari inconsapevole, del processo ermeneutica.111

Ciò che, tuttavia, in tutta questa impostazione non può non

lasciare perplessi è il fatto che lo stesso Betti, nonostante la

teutonica meticolosità delle argomentazioni, sembra riporre una

fiducia fin troppo marcata nell’interprete e nella sue capacità di

raggiungere un’oggettività non scientifica, ma per riconoscimento

del significato -del ruolo- della norma in ragione del posto che

occupa all’interno dell’ordinamento.

Come si raggiunge, per Betti, la congruenza tra la realtà

mutevole e la certezza del diritto?

Mediante una “efficiente collaborazione dell’interprete”,112

precisa nella sua Teoria. Ma questa collaborazione efficiente mi

sembra, senza cadere in una sorta di pessimismo giuridico, dimostri

una punta di ingenuità, se non altro per questo costante confidare

nella ragionevolezza dell’interprete: il che non può non lasciare

qualche dubbio, a prescindere dal carattere soggettivo della

“ragionevolezza”.

Del resto l’opera dell’interprete, che giustifica

un’interpretazione “di comodo” con l’aderenza alle mutate esigenze

sociali, o meglio che fa un uso “politico” del concetto di evoluzione

normativa e che, lungi dal dare una nuova interpretazione ad una

norma vecchia apre la via alla creazione, per via ermeneutica, di una

norma nuova113

non è poi così lontana dall’esperienza giuridica

contemporanea.

110

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 836. 111

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 125 e

ss. 112

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 834. 113

Cfr. D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione

della legge, in Foro it. 1949, IV, p. 12.

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Ma allora tanto vale porre già come rischio immanente ad

ogni interpretazione quello di un certo grado di arbitrarietà, specie

se introdotta per via di analogia o di estensione, e chiarire che

postulare un legislatore e un ermeneuta “ragionevoli”114

null’altro

significa che autorizzare la legittimità delle loro valutazioni.

Premesso ciò, dunque, assume un significato più netto il

compito che Betti affida alla giurisprudenza: quello di organo della

coscienza sociale che, senza per questo cadere nella confusione tra i

poteri giudiziario e legislativo, è il termometro, con le sue decisioni,

di una “sensibilità per l’etica del diritto e per le esigenze sociali”.115

Dichiarare che la forza di espansione assiologica, e quindi

evolutiva, sia attribuita alle norme, e in particolare ai principi

immanenti ai vari ordinamenti,116

più che ad una attività in senso

stretto dell’interprete sembra, in realtà, nascondere una sorta di

fiducia nelle capacità “intuitive” dell’interprete che vale la pena di

mettere in luce, se non altro per evidenziare i pericoli cui

l’impostazione bettiana può dare adito.

Allo stesso modo, se pur si nega il ritorno al diritto naturale

come elemento sussidiario e finale di interpretazione in grado di

assicurare l’aderenza delle norme al sentire sociale, pare che

l’insistenza sulle “valutazioni immanenti e latenti nella legge” e

sull’opera di “rinvenimento” del diritto fra il coacervo della legge,

da parte dell’interprete, presenti gli stessi motivi di perplessità che

fecero respingere l’idea di diritto naturale tout court.

Solo l’idea di una legalità costituzionale, con dei valori

codificati e condivisi, a cui riferire un giudizio ultimo di legittimità

può, allora, forse salvare dall’impasse e sollevare dall’impressione

dell’arbitrarietà di qualunque interpretazione: resta comunque

sottolineato, e converrà tenerlo presente nei prossimi capitoli, che la

libertà dell’interprete non potrebbe essere soppressa né arginata

nemmeno se vigesse il più stretto formalismo e si rincorresse la

lettera della legge. Libertà dell’interprete in cui, del resto, si gioca, a

114

Cfr. anche L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto

giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 314. 115

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 864. 116

E. BETTI, op. loc. ult. cit.

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ben guardare, la stessa libertà del diritto. Ma di tutte queste

tematiche si avrà modo di condurre, nel prosieguo del lavoro una

più approfondita analisi.

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8.2. Interpretazione-ricerca e interpretazione-risultato: sulla bontà della distinzione nella prospettiva dell’esperienza giuridica

8.2.1. Rapporto tra norma e testo. Chi fa l’interpretazione?

Qual è la funzione dell’interpretazione? Teoria normativistica come

riduzione all’analisi del linguaggio. Interpretazione come

conoscenza mediante i concetti e interpretazione come

apprezzamento assiologico. Interpretazione del diritto,

interpretazione della legge e interpretazione dell’interpretazione.

Interpretazione in funzione normativa e interpretazione giuridica.

Diritto in potenza e diritto latente: valutazione di queste categorie.

Se lo strumento interpretante è il milieu dell’interprete, come

postula il canone dell’attualità dell’intendere, e non il linguaggio o

il lessico del testo stesso, ci si chiede117

se il processo volto alla

comprensione possa, tuttavia, essere semplificato, sulla scorta del

canone dell’autonomia ermeneutica dell’oggetto, a una mera

riproduzione del testo, a una “rinascita” del testo stesso

ricostruendone la genesi, a un procedimento che porta l’interprete a

“penetrare e trasferirsi nello spirito che gli parla”.118

È il problema

del rapporto tra la norma e il testo, che riproduce, in forma

moderna, la relazione cui il brocardo “quod non est in lege nec in

iure” tentava di dare una risposta.

Il canone dell’autonomia ermeneutica, o dell’immanenza del

criterio ermeneutico, tuttavia, non deve essere frainteso. Esso,

117

L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni

fiorentini n. 7, 1978, p. 138. 118

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p 24.

Felicissima immagine, feconda di implicazioni, sui cui rinvio, per l’assonanza a

V. CRISAFULLI, Questione in tema di interpretazione della Corte costituzionale

nei rapporti con l’interpretazione giudiziaria, in Giur cost., 1956, p. 929 e ss.

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infatti, postula che la norma deve essere intesa secondo “una sua

interiore necessità, coerenza e razionalità”119

e quindi non secondo

la sua idoneità a “servire a questo o a quello scopo estrinseco” e in

quanto tale “eteronomo”.120

Al di là delle tradizionali considerazioni sulla validità e

opportunità, nonché verità, di una interpretazione con i caratteri

della letteralità, in prospettiva realistica si osserva come sia difficile

postulare l’esistenza “dietro” le leggi di una volontà univoca e

determinata delle norme giuridiche.121

La non coincidenza della

norma e del testo non solo pone la questione, dunque, della

letteralità, ma pone in seria crisi anche la concezione

dell’applicazione giudiziale come di un sillogismo. Dato, infatti,

che il giudice non è più, in questa impostazione, chiamato a ricavare

una conclusione logica da premesse già precostituite, ma si trova

alle prese con la stessa predisposizione delle “premesse”, a

“creare”122

lo iure proprio nel momento in cui si accinge a

ricostruire la lege, l’interprete stesso si troverà ad essere

“costitutivamente incluso in questo processo di integrazione del

significato normativo del dato giuridico”.123

La constatata distanza tra la norma e il testo interroga su chi,

effettivamente, faccia l’interpretazione, su chi, cioè, concretamente

si trovi a gestire questa sorta di “discrasia giuridica”. Chi fa

l’interpretazione? Nonostante la manualistica richiami

costantemente le partizioni tradizionali che vedono giustapposte

l’interpretazione dottrinale, giudiziale, autentica,124

ritengo che il

119

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 14. 120

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 14. Qui

vale la pena di segnalare come il termine “eteronomo” intenda l’uso della norma

per fini diversi da quelli per i quali era stato posto, in sostanza “l’abuso del

diritto”. 121

G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,

cit., p. 337. 122

Per la dialettica integrazione-creazione dell’interpretazione si veda

infra al § 3. 123

G. ZACCARIA, L’apporto cit., p. 346. 124

Tra gli altri A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 32 ed., Padova,

1991, p. 36; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, Padova, 1993, p. 79 e ss.;

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problema sia dato in primo luogo dal modo di intendere la stessa

interpretazione, come risultato oppure come ricerca. È l’obiettivo

che qualifica l’interprete? L’approdo alla “verità”

dell’interpretazione, con questa impostazione, si fa più rarefatto,

anche perché nuovamente si vedono contrapposte una concezione

dell’oggetto interpretando - la norma - o come contenuto da dis-

velare, come risultato da raggiungere, già prestabilito, oppure come

un “farsi” tramite l’interprete della norma medesima, come ricerca

da condurre.

Anche nella configurazione di Betti l’interpretazione presenta

un doppio aspetto, quello di “apprezzamento” e quello ricognitivo,

tuttavia è fuorviante mettere in relazione queste categorie con le

figure di interpretazione-ricerca e interpretazione-risultato.125

Il

canone della autonomia ermeneutica, o della immanenza del criterio

ermeneutico impone che la norma debba essere “apprezzata alla

stregua immanente dell’esigenza cui [essa] doveva rispondere”126

all’atto della creazione. Non solo; altrimenti, infatti, si rischierebbe

di ricadere nella staticità o nella mera ricostruzione storica. Vi può

essere, nell’interpretazione, anche una nuova valutazione degli

interessi in conflitto tanto che la ricognizione interpretativa viene a

mutarsi gradualmente man mano che la norma assicura, accanto al

suo “scopo” primigenio, il raggiungimento di esiti ulteriori.

È quella che Betti definisce, con linguaggio ricavato dalla

psicologia, l’eterogenesi degli scopi. Questo non solo implica una

ricognizione e un apprezzamento assiologico tramite la soggettività

(non il soggettivismo) dell’interprete, ma anche il superamento

della distinzione tra ricerca e risultato nell’interpretazione. E in

particolare si legittima anche il procedimento analogico, che

rinviene aliunde, mediante, appunto, eterogenesi, scopi immanenti

ad altre norme, come procedimento normalmente - o, meglio,

teleologicamente - interpretativo.

F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989,

p. 75 ss. 125

R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv. trim. dir.

proc. civ., 1951, p. 758. 126

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 11 ss.

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Credo, a questo punto, che per rispondere alla questione sulla

soggettività interpretativa non si possa che affondare la riflessione

sulla funzione - in termini di télos o di convenzione -

dell’interpretazione.127

“L’interpretazione non ha, in sé, nessuna funzione”, sostiene

Sacco,128

“semmai alcuni atti del processo interpretativo hanno,

come funzione, (o meglio, come normale, logica conseguenza)

ulteriori atti del processo interpretativo [...]. Tutt’al più si può

parlare di funzione dell’interpretazione per indicarne, invece, il

contenuto”.129

Betti avrebbe glissato sull’equivoco solo perché,

almeno secondo Sacco,130

avrebbe parlato di interpretazione

attribuendole caratteri propri della sola applicazione.131

L’affermazione è forte, laddove risuonano ancora come convincenti

le partizioni, a volte fin troppo geometriche, rese da Betti, quasi

pedante nell’insistere per delineare i caratteri di quella che cataloga

come interpretazione in funzione normativa. La confusione tra

questa funzione dell’”intendere per agire” e la concretizzazione, tra

interpretazione e applicazione può sussistere solo ove si confondano

l’efficacia vincolante, normativa, appunto, della legge con l’oggetto

- la norma, appunto.132

La condotta pratica da informare al criterio

che si desume dalla norma non coincide con l’attività interpretativa.

Se così fosse, infatti, non vi sarebbe interpretazione al di fuori di

quella che desse luogo ad un comportamento da parte degli

interessati, escludendo in questo modo qualunque interpretazione,

come quella scientifica, diversa da quella giudiziale.133

127

Per un approfondimento della possibilità di ricostruire di volta in volta

una diversa struttura di un istituto a seconda delle funzioni che si intende

affidargli cfr., si vis, M. M. FRACANZANI, Il problema della rappresentanza nella

dottrina dello Stato, Padova, 2000. 128

R. SACCO, cit., p. 760. 129

R. SACCO, ibidem. Per questa distinzione e sulla sua bontà, cfr. S.

PUGLIATTI, Grammatica e diritto, Milano, 1978. 130

R. SACCO, cit., p. 761 131

Malgrado le dichiarazioni d’intenti nettamente contrarie. Cfr. E. BETTI,

Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 11. 132

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 809. 133

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 99.

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Chiarito l’equivoco dato dalla negazione di ogni funzione

all’interpretazione, da quella forma di “nichilismo funzionale

interpretativo” di Sacco, è possibile recuperare nella sua

impostazione l’idea che, mettendo per un attimo tra parentesi la

funzione dell’interpretazione, pone l’accento su quell’”in sé”

dell’interpretazione, e in esso riconosce un dato di ricerca e

significato assiologico. Anche a prescindere dalla funzione,

pertanto, si può recuperare l’apprezzamento assiologico come

dimensione del processo interpretativo, senza rifugiarsi nel

“paradiso dei concetti” ma senza, nemmeno, perdere di vista il fatto

che la norma non esiste per esistere, ma sempre in funzione

strumentale a un qualche scopo.

Respinta con Betti la tesi normativistica, che “riduce

l’interpretazione giuridica ad un’analisi del linguaggio legislativo”

perché dimentica, come detto, che “le norme non sono pure

enunciazioni di giudizi tendenti a comunicare un sapere circa la

sintesi di un soggetto e un predicato, ma sono strumenti ad un fine

di convivenza sociale”,134

è importante, dunque, recuperare la

conoscenza mediante i concetti e i giudizi di valore come cifra del

processo interpretativo.

È possibile la convivenza, entro la medesima costruzione, di

una teorizzazione dell’interpretazione come conoscenza mediante i

concetti e allo stesso tempo come apprezzamento assiologico?135

Sostenere questo significa avvalorare la ricerca, nella norma, di

quello “spirito” - l’esprit des lois, verrebbe da dire - ad essa

immanente, significa riconoscere che il concetto normativo non è

neutro, ma ha in sè una forte connotazione di valore e aprire la

ricerca interpretativa alla ricerca dei fini normativi.

Credo che riconoscere la soggettività dell’interprete come

mediatore, ma non per questo come passivo esecutore, accettarne

134

E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 797.

Convivenza intesa non come mera coesistenza degli arbitri al modo di Kant, bensì

come comunicazione, riconoscimento delle ragioni di ciascuno, espressione della

capacità di darsi delle regole e rispettarle. 135

R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p. 748-766.

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concettualmente questa natura “anfibia”, sia implicitamente un

ammettere la realizzabilità di questa convivenza.

Alla luce di quanto detto la distinzione tra interpretazione del

diritto e interpretazione della legge sembra venirsi ad insinuare tra

le maglie di un’antitesi giuspositivismo-giusnaturalismo latente, e

rimane pur sempre scoperto il fianco della scelta di fondo sottesa

alla “interpretazione dell’interpretazione”.136

Come interpretare l’interpretazione “ottenuta” o il processo di

“ricerca” interpretativa? Alla luce di quali valori e in quale chiave

metodologica?

Il processo potrebbe andare all’infinito se non si facesse, con

Betti, la scelta137

per l’”eccedenza assiologica”138

delle norme. Al di

là della lettera, infatti, vi è una sovrabbondanza di valore, un

giudizio che va al di là del testo, immanente alla norma, una

valutazione, che non è mero giudizio logico, illuminante la norma

medesima. Senza, tuttavia, abbandonare la concezione evolutiva e

dinamica di un “diritto in fieri” che “si fa” - con procedimento non

avalutativo - con l’interprete e per il tramite di questi.

Se si ragiona in termini meramente “riproduttivi” si cade

nell’”appiattimento di prospettiva” delineato da Betti: “Questa

concezione [anti-evoluzionistica] implica il presupposto che nelle

norme di un ordinamento sia cristallizzata una volontà espressa dal

“legislatore” una volta per sempre, che l’interprete sia chiamato non

già a sviluppare, ma a riprodurre. La volontà del giudice viene

collocata sul medesimo piano della volontà dell’amministratore”.139

Al contrario gli “apprezzamenti interpretativi”, sul cui reale

significato, peraltro, non tutti sono concordi,140

mirano a ritrovare

“valutazioni normative della legge anche colà dove esse siano

136

G. AMENTA, Interpretazione e fonti del diritto nell’ottica

dell’ermeneutica antropologica, in Giur. it., 1987, IV, 520. 137

Sulla quale si veda infra § 3.2.4. 138

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 822. 139

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., §. 11. 140

Vedi contra R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit.,

p. 760.

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rimaste latenti o meno appariscenti, senza manifestarsi in modo

esplicito in “precise disposizioni””.141

Si apre qui la categoria del “diritto latente” che è vista come

paradigmatica della ricerca interpretativa. Addirittura si parla di

“immanenza” nella legge di valutazioni che, mentre formano la

ratio iuris di norme già formulate, possano servire di “base o di

addentellato” da cui ricavare e rendere esplicite le pluricitate

“massime di decisione”.142

Riemerge, dunque, surrettiziamente, la tentazione

dell’oggettività dell’interpretazione e la soluzione data dal brocardo

“sensus non est inferendus sed efferendus”. La fase “ricognitiva”

che Betti143

enfatizza molto come primo momento

dell’interpretazione non nega, ma rappresenta la condizione della

fase applicativa144

e trova qui la sua giustificazione a patto, però, di

rimanere solo una partizione funzionale ad un processo che è

unitario e che, comunque, non può essere avulso da un giudizio.

La categoria del “diritto latente” è efficace anche perché pone

in rilievo che la legge di uno Stato non raccoglie tutto il diritto,

poiché questo in “massima parte rimane latente nel seno della

società”.145

Tuttavia, pur nel suo rigore metodologico, essa richiama

tutte le ambiguità di un concetto di interpretazione più vicino al dis-

velamento che al dinamismo interpretativo. Per questa via, ad ogni

modo, Betti arriva anche a superare questa storica dicotomia e

allargando gli spunti offerti dalla sua teoria può essere utile, oggi,

assumere la categoria del “diritto in potenza” che meglio si accorda,

tra l’altro, alla moderna idea della struttura aperta del linguaggio e

sottolinea, allo stesso tempo, - bettianamente - che è l’ambiente

interpretativo a determinare abbondantemente gli esiti

141 E. BETTI, op. ult. loc. cit.

142 Tra gli altri E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit.,

p. 31. 143

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 343-389. 144

Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito

ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,

1994, p. 31. 145

D. SIMONCELLI, Le presenti difficoltà della scienza del diritto civile, p

423, citato da P. GROSSI, Interpretazione ed esegesi, Riv. dir. civ., 1989, p. 211.

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dell’interpretazione, fornendone i principali elementi di quella

“potenzialità” che la definizione fornisce. È il contesto che fa il

testo146

(o i contesti i testi)?147

O si deve concludere che sia la cena

del giudice Holmes?148

146

N. IRTI, Testo e contesto : una lettura dell'art. 1362 Codice civile,

Padova, 1996. 147

U. PAGALLO, Testi e contesti dell'ordinamento giuridico : sei studi di

teoria generale del diritto, (1998) III ed., Padova, 2001. 148

Com’è noto, il giudice Holmes, esponente del realismo giuridico

americano (detto anche realismo giuridico ingenuo), affermava con piena serietà

ed altrettale intenzione dissacrante, che la decisione della sentenza dipende in

larga parte da che cosa il giudice ha avuto per cena la sera prima. Sostanzialmente

a questa posizione si rifanno le posizioni scettiche di chi ritiene che

l’interpretazione della legge sia puro arbitrio, paragonabile alla teoria dei giochi.

Per una documentata ricostruzione, cfr. E. DICIOTTI, Interpretazione della legge e

discorso razionale, Torino, 1999; IDEM, Verità e certezza nell’interpretazione

della legge,ivi, 1999.

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8.3. Contenuti della ricerca interpretativa

8.3.1. Criteri discretivi della ricerca interpretativa:

l’individuazione degli interessi in conflitto; del bene giuridico

tutelato. Superamento di queste impostazioni (anche in campo

penalistico).

“Betti subisce inizialmente il fascino delle geometriche

teorizzazioni kelseniane ma se ne allontana ben presto nella

convinzione - che diverrà l’asse portante del suo pensiero - della

centralità della nozione di interesse per tutta la vita del diritto”.149

In effetti la manualistica giuridica150

si è sempre soffermata

sulla centralità e propedeuticità di ogni riflessione del concetto di

interesse, come individuazione di quel quid capace di giustificare le

stesse proposizioni normative e la loro positività alla luce di un

qualche “oggetto” da tutelare.

È nota la contrapposizione tra la scuola della “giurisprudenza

degli interessi” e quella della “giurisprudenza dei concetti” che ha

animato il dibattito giuridico tedesco ed internazionale: un

approfondimento porterebbe troppo lontani dal tema, tuttavia è

interessante notare come alla radice di queste divergenti prese di

posizione ci fosse ancora una volta l’interrogativo sul nucleo

centrale del fenomeno normativo e quindi, di conseguenza, di

quello interpretativo.

Che cosa si ha di mira quando si interpreta? La risposta al

quesito ha notevoli implicazioni pratiche per i fini che ci siamo

proposti. Se si cerca una distinzione tra interpretazione estensiva e

149

F. RICCOBONO, Emilio Betti e la “malattia kelseniana”, in

L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., p. 160. 150

L’elenco potrebbe riguardare la maggior parte delle trattazioni

istituzionali soprattutto in ambito penalistico. Per tutte, F. ANTOLISEI, Manuale di

diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989, p.145 e ss.; G. FIANDACA-

E. MUSCO, Diritto penale, Bologna, 1993, capitolo I.

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analogia, come si è tradizionalmente fatto, sulla base degli obiettivi

che nell’applicazione dell’una e dell’altra l’interprete si propone -

nell’una la ricerca del senso proprio della norma, nell’altra il risalire

ad una ratio comune con il caso simile - ci si deve previamente

interrogare su quale sia l’obiettivo di ogni interpretazione, sia

questa estensiva o analogica.

Com’è noto, la dottrina e la giurisprudenza penale si sono

cimentate nella estrapolazione, dal coacervo concettuale, del criterio

del “bene giuridico tutelato” visto, addirittura, come il luogo

d’incontro tra politica criminale e dogmatica penalistica,151

e come

contrassegno del limite152

alle funzioni del diritto in campo penale.

Non sono mancate, tuttavia, le critiche ad un’eccessiva fiducia in

questo criterio interpretativo: bastino le considerazioni sulla

oggettiva difficoltà ad individuare i confini e la concretezza di

codesto “bene giuridico”, la rischiosa tracimazione del concetto,

puranche individuato, entro il télos della norma, con relativa

confusione tra bene tutelato e scopo, o ratio, della norma.153

Difficilmente superabile appare, in questa impostazione, anche

quella critica che oppone e contesta la viziosità di un ragionamento

volto a cercare il quid normativo per stabilire un qualunque criterio

d’interpretazione: questo procedimento richiederebbe - si contesta -

una interpretazione preliminare alla stessa interpretazione per

individuare, in un circolo vizioso, appunto, il criterio interpretativo

medesimo.154

Giustapposta alla teoria del “bene giuridico” sta, anche fuori

dalla teorizzazione penalistica, il pensiero di chi individua nel

nucleo normativo una “valutazione degli interessi in conflitto”.155

151

Così D. PULITANÒ, Politica criminale, in Diritto penale in

trasformazione, Milano, 1985, p. 32. 152

C. ROXIN, Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin, 1973, p. 43. 153

F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, XI ed,

Milano, p. 159. 154

F. ANTOLISEI, Manuale cit., p. 81. 155

D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione della

legge, in Foro it., 1949, IV, p. 4 ss.

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63

Contrariamente al metodo totalizzante della “giurisprudenza

degli interessi” e alla presunta autosufficienza interpretativa di

questo criterio propugnata da tale scuola di pensiero, Rubino indica

la valutazione degli interessi in conflitto come criterio integrativo

per l’interpretazione della legge cui ricorrere solo in caso di dubbi

sul contenuto di una norma o di lacune anche nei principi generali

cui normalmente si dovrebbe far ricorso.156

A parte le insidie

connesse al concetto di dubbio157

e le considerazioni sulla

prospettabilità di lacune nei principi,158

Rubino inserisce il suo

criterio degli interessi entro l’interpretazione sistematica,

raccomandando nell’opera di interpretazione, la considerazione di

tutto il sistema e delle esigenze che esso comporta. Addirittura

rende l’immagine plastica di un interprete “ostetrico del diritto”159

che recupera le categorie del diritto latente160

da “trovare” nel

sistema.

La critica di Betti a questa impostazione è puntuale. “La

presenza e l’importanza del momento teleologico o si ammette o si

nega; ma se si ammette, non si può senza incoerenza riconoscere

legittimo secundum eventum il criterio della valutazione

comparativa degli interessi: legittimo, quando il suo controllo porti

a correggere il risultato del c.d. “criterio logico”; non più legittimo,

o comunque inopportuno, quando viceversa porti a confermarlo”.161

156

D. RUBINO, cit., p. 6. 157

Insidie pericolosissime, specialmente in prospettiva giuridica ed ancora

più secondo protocolli giuspositivisti, che fanno della chiarezza, esaustività e non

eterointegrabilità i propri alfieri. Per questi aspetti, cfr. § 2.1., ma fin da subito P.

PERLINGIERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il

broccardo “in claris non fit interpretatio”, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la

nuova scuola dell’esegesi” in Rass. dir. civ., 1985, p. 990 – 1017. 158

Sulla quale cfr. § 2.1.3. 159

D. RUBINO, op. ult. cit., p.6. L’immgine efficace, non deve trarre in

inganno per l’assonanza socratica dell’arte maieutica. Qui, ci sembra di

intravedere un operazione costitutiva contrabbandata per attività puramente

dichiarativa, un momento assertorio anziché il responsabile procedimento di

crescita ed apprendimento nella consapevolezza della provvisorietà problematica

del risultato. 160

Vedi supra § 1.2.1. 161

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 284.

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64

Si rifiuta, cioè, l’accoglimento del criterio degli interessi solo colà

dove la legge non è “chiara”, per recuperare, quindi, solo

sussidiariamente il criterio teleologico. L’interpretazione teleologica

potrebbe sembrare adatta a fare luce su eccessi non coglibili col

solo criterio logico. Tuttavia per verificare quando il risultato debba

essere aggiustato, corretto e quando la logica basti a se stessa è

indispensabile il vaglio critico e il controllo del criterio teleologico

in ogni caso.162

Ma il momento teleologico è, per Betti, “immanente al

sistema”,163

tanto che anche lo stesso argomentare per analogia ha

per l’autore carattere essenzialmente teleologico.164

Allora già da

qui si potrebbe dire come, ameno in apparenza, le categorie

dell’interpretazione estensiva e dell’analogia non trovino ragione di

distinzione, facendo entrambe riferimento ad un unico processo -

teleologico - ermeneutico. È l’ipoteca del procedimento per identità

e differenza che pervede sia il procedimento analogico, sia il

procedimento estensivo e che rischia, con una perdita di

consapevolezza, di farli confondere. Ma si tratta di un profilo

epistemico su cui si dovrà tornare.

Poste queste premesse il criterio che Betti adotta è quello di

“razionalità teleologica”,165

che vede come protagonista un

apprezzamento rispondente alle esigenze assiologiche di una

valutazione normativa, e postula il raffronto tra la norma e il

162 E. BETTI, ibidem. Per questa prospettiva di metodo, rinvio a H. M.

PAWLOWSKI, Einfürung in die juristische Methodenlehre, II ed., Heidelberg,

2000, specialmente p. 197 (della prima ed., 1986, segnalo la tr. it. Milano, 1993 a

cura di S. Mazzamuto e L. Navarra). 163

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 285. 164

E. BETTI, op. cit., p. 285. Vi è dunque quella primogenitura del criterio

teleologico che sosterremo alla fine di questo lavoro, unita però, e guidata,

dall’attenzione al contesto, in un movimento sincretistico che troverà fortuna e

che ancora oggi sembra tenere la posizione dominate in diverse forme di

equilibrio tra la pretesa oggettività autoevidente del testo e le correnti

irrazionalistiche del “gioco” del/nel diritto. Rinvio allo scritto di B. PASTORE,

Identità del testo, interpretazione letterale e contestualismo nella prospettiva

ermeneutical, in V. Velluzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del

diritto, Torino, 2000, p. 137 – 166. 165

E. BETTI, op. cit., p. 287.

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65

problema pratico, ma anche tra il mezzo prescelto e l’adeguatezza

allo scopo.

Nella critica di Heck166

il giudice si troverebbe dinanzi alla

totalità degli interessi protetti dalla legge e ne sarebbe vincolato.

Tuttavia se si discostasse dalla valutazione degli interessi alla cui

integrale ricostruzione è tenuto giungerebbe a frustrare il “senso

della legge”. Come far combaciare questa “totalità valutativa” con il

mutare degli interessi via via insorgenti? Lo stesso interesse alla

composizione degli interessi in conflitto si presenta, come ben

sottolinea Betti,167

come un interesse pubblico, “del tutto sociale”.

Si aprirebbero, qui, le indagini sul fondamento etico, o meno, dello

Stato. Chi stabilisce, infatti, la priorità di questo medesimo

interesse?

Il ragionamento rischia di diventare asfittico se ci si ostina

nelle categorie fin qui enunciate.

Già Hans Welzel168

ha sostenuto da tempo, in contrasto con la

dottrina dominante, che il compito primario del diritto (penale)

consiste nel formare gli atteggiamenti etico-sociali dei cittadini, al

fine di favorirne la disponibilità psicologica a rispettare le leggi.169

Lo stesso Betti, poi, più volte ha enunciato l’eccedenza assiologica

delle norme170

e la valutatività - non di interessi, ma di valori171

-

dell’interpretazione ad esse connessa.

Credo pertanto che non ci sia via d’uscita al problema se non

recuperando, questa dimensione teleologica e assiologia,172

fuori da

166

P. HECK, Gesetzesauslegung und Interessenjurisprudenz, Tübingen,

1914, parr. 19-20. 167

E. BETTI, cit., p. 290. 168

H. WELZEL, Strafrecht, 1969, Berlin, p. 4 ss., cui si deve aggiungere C.

ROXIN C., Grundlagen, der Aufbau der Verbrechenslehre, München, 1997. 169

G. FIANDACA- E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 38. 170

E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 822. 171

Sottolinea L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in

Quaderni fiorentini n. 7, 1978, p.127, che Betti pensa di fornire alla sua “teoria

generale dell’interpretazione” una base filosofica più aggiornata radicandola nella

filosofia dei valori. 172

Cfr. la felice intuizione L. CAIANI, I giudizi di valore

nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953.

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66

ogni finzione giustificativa e superando, così, le impostazioni

precedentemente delineate in merito a possibili criteri discretivi

della ricerca interpretativa.

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67

8.3.2. Circolo di reciprocità tra vigore dell’ordine giuridico

e processo interpretativo. Norma e uso della norma. Interpretazione

abrogante come strumento per ricostruire l’ordine assiologico nel

sistema. Comunità dell’interpretazione giuridica/comunità

giuridica. Norma giuridica come pre-giudizio sociale condiviso.

Sovente Betti torna sul “circolo di reciprocità”, sulla continua

correlazione che intercorre tra il vigore dell’ordine giuridico, ma

anche morale, ecc., da cui si desume la “massima dell’azione”, e il

processo interpretativo “che se ne fa in senso integrativo e

complementare”.173

Interpretare, dunque, significa “tornare a conoscere” - ri-

conoscere - la norma non tanto come una “oggettivazione di

pensiero in sè conchiusa”,174

ma per “integrarla e realizzarla nella

vita di relazione”.175

È interessante notare come Betti sottolinei che

la funzione di tale interpretazione normativa sia di sviluppare

direttive per un’azione pratica o un’”opzione”176

- sempre offerta a

chi è chiamato ad agire - tra più possibilità. In questo modo

l’interpretazione viene a mantenere continuamente vivo il diritto, e

in perenne efficienza nella vita di una società. È quello che già

Bobbio177

aveva delineato come compito dell’interpretazione

normativa: l’intendere nella formula di legge la continuità dello

173

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 802. Per

pressoché analoghe considerazioni come termine di un cammino affatto diverso,

cfr. gli scritti raccolti da J. RAZ, Ethics in the Public Domain, Oxford, 1994. 174

E. BETTI, op. cit., p. 803. 175

E. BETTI, ibidem. 176

E. BETTI, op. cit., p. 803 nota I-a. 177

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., Torino, 1938, p.

136.

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spirito, il risvegliare l’atto spirituale che era in essa sopito,

l’immetterlo un’altra volta rinnovato nella vita dello spirito”.178

La circolarità, pertanto, deriva dalla continua osmosi tra

società e legge attraverso l’interpretazione, tra attualità e

intelligenza della formula, in una continua opera di vivificazione e

reciproca influenza.

Da tutto ciò, a parte le considerazioni sull’”operante

concatenazione produttiva” di matrice diltheyana,179

si evince la

sottolineatura su un interpretare che non è più soltanto un tornare a

conoscere una proposizione normativa, ma è anche un integrarla e

soprattutto realizzarla nel vivere sociale.180

Se, tuttavia, la costruzione e la proposta di un modello di

diritto nasce da una considerazione dell’attualità del comportamento

di tutti i consociati, non tanto di coloro che l’hanno posto, si delinea

una relazione stretta tra l’”uso” della norma nella prassi

comportamentale e lo stesso concetto di norma.181

È citato da molti

autori, compreso lo stesso Betti, l’esempio del codice civile tedesco

immesso nel sistema giuridico giapponese,182

con tutti gli

adattamenti e le difficoltà derivanti non solo dalla recezione di

norme e di principi “nuovi”, ma anche dal rendere “conformi allo

spirito del sistema” le nuove regole. A quali norme implicite fare

riferimento? A quelle tedesche, immanenti nella ”legge” o a quelle

giapponesi, immanenti nel “diritto”?

178 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 136 Questo, per

Bobbio, differenzia l’interprete dal legislatore. 179

Sulla quale si veda §. 3. 180

G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio

Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 786. 181

A. CATANIA, Ermeneutica e definizione del diritto, in Riv. dir. civ.,

1990, II, 122. 182

Non va sottaciuto che già nel 1873 l’imperatore Mutsuhito chiamò il

professor Boissonade in qualità di esperto presso il Ministero di giustizia per

fargli elaborare un progetto di codice civile sul modello napoleonico. Nonostante

la bocciatura parlamentare esso esercitò un notevole influsso sulla più diffusa

prassi arbitrale nipponica. Successivamente, nel 1898, fu adottato un codice

fortemente influenzato dai progetti preliminari del BGB tedesco, con indiretta

vicinanza, pertanto al modello francese. Cfr. altresì, A. GARCÌA FIGUEROA,

Principios y positivismo jurìdico, Madrid, 1998.

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“Un procedere ermeneutico non è più caratterizzato dal

linguaggio culto e metaforico della tradizione, ma si scioglie nel

linguaggio comune e ordinario dei consociati che si imbattono o, da

un altro punto di vista, combattono con la comprensione, recezione,

riformulazione delle regole e quindi del mondo normativo, ove

naturalmente la tradizione si miscela e diremmo quasi annega nella

quotidianità”.183

Ma che cosa distingue, allora, l’esistenza - imperativa - di una

norma? Questo emergere di una quotidianità diremmo così

”normativa”, capace se non di dettar legge almeno di dettare diritto

è anche un implicito colpire alle fondamenta le costruzioni del

positivismo.

Distinguere le norme giuridiche dalle abitudini e norme

sociali può essere utile per uscire dalla “sfera rarefatta del

formalismo dei concetti verso il mondo empirico degli

atteggiamenti normativi”184

e questo sia per valorizzare una certa

esigenza di kelseniana “effettività” della norma, sia per sottolineare

un certo elemento “deontico” immanente alla norma.

Prima di procedere oltre è interessante accennare al valore

della interpretazione cd. abrogante.185

È consentita una abrogazione

per via d’interpretazione? Non ci si riferisce, qui, alle sentenze,

evidentemente legittime, della Corte costituzionale. Ci si riferisce,

al contrario, alla ordinaria interpretazione che, mediante un

processo di progressiva espulsione dal sistema degli elementi

normativi contrastanti con un “sentire sociale” interpretato come

diffuso, di fatto espunge, abrogandoli, norme se non principi.

Verrebbe da dire che questo genere di interpretazione

potrebbe essere considerato uno strumento per ricostruire l’ordine

assiologico nel sistema. Non mi soffermerò sulla presunta

183

A. CATANIA, Ermeneutica e definizione del diritto, cit., p. 122. 184

L.A. HART, Il concetto di diritto, tr. it. e cura di M.A. Cattaneo, Torino,

1965, p. 67. 185

P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed

assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp.

prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rassegna dir. civile, 1985, p. 1005.

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70

vocazione paralegislativa di questo o quell’organo giudicante.186

Tuttavia non può non fare riflettere come parte della creatività

interpretativa si giochi non solo sul piano positivo

dell’interpretazione, ma anche su quello “negativo”

dell’abrogazione interpretativa.

L’insieme di tutte queste “interpretazioni”, o meglio

possibilità interpretative, può dare origine a quella che è stata

definita “comunità dell’interpretazione giuridica”187

in cui vengono

a raccogliersi e unificarsi i modi di pensare tramandati dalla cultura

giuridica e in cui lo stesso giudice-interprete è parte attiva. Questa

comunità sarebbe il superamento della stessa “comunità giuridica” o

legal community poiché lo stesso testo giuridico verrebbe inserito

non solo nell’ordinamento, ma anche nel processo interpretativo;

significativa, per tutte, l’esperienza della recezione in Giappone del

BGB tedesco.

Questa impostazione, per la verità molto più vicina al sistema

anglosassone di common law che non alla nostra tradizione

giuridica, o meglio alla nostra consapevolezza ermeneutica, lascia

intuire almeno due ordini di problemi. Da un lato l’oscillazione tra

la tentazione di una totale desoggettivizzazione della prassi

interpretativa e l’inglobamento della soggettività dell’interprete

entro la categoria ermeneutica. Dall’altro l’apertura alla

concettualizzazione delle norme giuridiche come pre-giudizi sociali

condivisi,188

come (pre-)giudizi di valore sulla vita sociale

formalizzati nei testi normativi e sostenuti dall’imperatività ma

anche - almeno fino all’interpretazione abrogante - da un’abitudine

sociale appunto “condivisa”.

186

Cfr. §. 3.2.3. 187

G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,

in Riv. dir. civ. 1989, I, p. 347. Più recentemente ha ricostruito la genesi di questo

concetto, analizzando l’opera della più attenta dottrina nord americana, E.

PARIOTTI, Individuo, comunità, diritti: tra liberalismo, comunitarismo ed

ermeneutica, Torino, 1997, poi riprese in IDEM, La comunità interpretativa

nell'applicazione del diritto, Torino, 2000. 188

A. CATANIA, Ermeneutica e definizione del diritto, cit., p. 126.

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Su questa linea alcuni autori, come McIntyre,189

hanno

addirittura sviluppato teorie volte a sostenere una concezione

comunitaria dell’etica, secondo cui non solo i criteri delle scelte

morali individuali ma anche la stessa legittimità dell’ordine politico

e sociale troverebbero fondamento nella cultura morale di una

comunità. Addirittura, sostiene lo scozzese, i fondamenti delle leggi

vanno ricercati nell’ethos, nelle tradizioni e nelle relazioni

interindividuali che costituiscono una comunità, poiché solo così

sarà possibile restituire razionalità e intelligibilità ai vincoli che la

vita comunitaria impone. Ed è verso tali fondamenti che

l’interpretazione si deve dirigere.

Come ognuno può vedere, tuttavia, nonostante il fascino di

questa impostazione dell’ermeneutica giuridica, è in agguato lo

scivolone non solo in un “paradiso giuridico”, per parafrasare

Jhering, ma anche un allontanamento dalla possibilità di giustificare

- se non con un fallimento della cd. comunità interpretativa? - il

dato empirico di un’altissima conflittualità interpretativa.

Ed è in questa direzione che dobbiamo ora rivolgerci.

189 A. McINTYRE, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, 1981, II ed. riv.,

1984. L’autore scozzese trova le sue radici teoretiche in un più ampio movimento

di rinascita della filosofia pratica, in reazione agli esiti totalitari della prima metà

del secolo passato, che annovera nella scuola anche Leo Strauss e Hannah Arendt,

come poi Hans Georg Gadamer, Joakim Ritter, Alasdair MacIntyre, appunto,

Hans Jonas e, con tendenze kantiane, Martin Riedel e Karl Heinz Ilting. Un

aspetto particolare della filosofia pratica aristotelica costituisce la linea portante

della speculazione di Hannah Arendt, che fa del comunicare il fondamento di

tutta la propria opera: il giudicare nel conoscere ed il comunicare nel giudicare

saranno le coordinate del suo agire politicamente. Per questi aspetti, rinviamo T.

SERRA, L’autonomia del politico, Teramo, 1984, fra i primi saggi italiani

sull’argomento. Altresì, L. BOELLA, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare

politicamente, Milano, 1995, p. 136; nonché, L. BAZZICALUPO, Hannah Arendt.

La storia per la politica, Napoli, 1996, p. 254. L’osservazione risulta interessante

per il prosieguo della nostra ricerca, giacché riconoscendo nel comunicare

l’essenza dell’arte della pòlis (anzi la caratteristica stessa dell’uomo), fonda

necessariamente il diritto (anche) sull’alterità, profilo peculiare della struttura

emeneutica. Per questi aspetti cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992,

specialmente p. 194 e ss. Cfr. anche P.J. OPITZ, Politische Wissenschaft als

Ordnungswissenschaft. Anmerkungen zum Problem der Normativität im Werke

Eric Voegelins, in Der Staat, 1991, p. 349 e ss.

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8.4. Il conflitto delle interpretazioni: una difficoltà del positivismo non risolubile con l’antipositivismo

8.4.1. Il conflitto delle interpretazioni. Il problema della

coerenza ermeneutica: ragioni dell’esistenza della problematica. Le

norme plurivoche o di significato ambiguo vanno interpretate in

modo conforme al sistema. I significati assurdi: ragioni e modalità

dell’esclusione. L’applicazione retroattiva.

Se i canoni interpretativi sono correttamente applicati da che

cosa deriva il “conflitto delle interpretazioni”? E se quello stesso

“ambiente” che influenza l’interprete rende, con il suo “spirito”,

l’univocità della norma, come spiegare tutte le interpretazioni

empiricamente divergenti?

Si pone la domanda Sacco190

che prosegue, poi, negando la

rilevanza di uno “spirito” della legge correlativo all’ambiente come

oggetto di interpretazione, e ammettendolo, semmai, come parte

dell’interprete e facente parte di questi.

Nell’analisi di Betti,191

al contrario, si distingue tra possibili

conflitti di norme -dove si segnala il prevalere dei criteri tradizionali

come “lex posterior derogat legi priori”- e incongruenze che

rendono necessario un adattamento per via d’interpretazione in base

al punto di vista della società contemporanea.

È evidente come il terreno su cui ci si muove sia costituito

dalle pericolose sabbie mobili del soggettivismo interpretativo che

dà adito ad una potenzialmente altissima “conflittualità

interpretativa”.

190

R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv. trim. dir.

proc. civ. 1951, p. 754. 191

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 120

ss.

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73

Il problema affonda le sue radici da un lato in quello della

verità dell’interpretazione e nell’interpretazione,192

dall’altro in

quello della coerenza ermeneutica. Infatti la problematicità della

coesistenza di interpretazioni divergenti della stessa norma deriva

dall’avere postulato la necessaria coerenza del “sistema”, in ordine

al raggiungimento del “mito” dell’oggettività e della certezza

ermeneutica e all’interno di quella tradizionale partizione

dell’interpretazione detta, appunto, sistematica. Sono numerose le

pronunce giurisprudenziali che postulano la necessità di riferirsi al

“sistema” e, in nome del mantenimento alla “conformità” a questo,

ispirano criteri interpretativi. Interessante, a questo proposito, è una

sentenza del T.A.R. Sicilia del 1994 che stabilisce come compito

fondamentale del giudice “consista [...] nell’individuare di volta in

volta il significato che la norma viene ad assumere nell’attuale

contesto storico, tenendo conto dell’evoluzione complessiva del

sistema quale risulta dalla successione normativa, delle

interpretazioni date dalla norma stessa, nonché delle eventuali

mutate esigenze cui quella norma debba necessariamente essere

adeguata nell’intento della conservazione di una sua utilità

ordinamentale, in relazione ad istanze socio-economiche la cui

rilevanza si sia manifestata nell’ordinamento e che in esso abbia

trovato adeguato compimento”. 193

La sentenza si ispira, chiaramente, ad un ampio concetto di

interpretazione evolutiva e, potremmo dire, di law in contest,

soprattutto laddove parla di attualità di contesto storico e di

significato dinamicamente in movimento con il mutare delle

situazioni. È di rilievo la partizione che la sentenza fa rispetto agli

elementi capaci di determinare il modificarsi del significato

normativo e che l’interprete è tenuto a ricercare. Da un lato la

successione normativa, cioè l’interpretazione sistematica deve

andare di pari passo con quella evolutiva, costituendone, anzi,

192

Per cui si rinvia a quanto detto supra § 1.1.4., oltre all’icastico studio di

A. M. POGGI, “A ciascuno il suo”, in Giur. cost., 1987, 1731 e ss. 193

T.A.R. Sicilia sez. II, 4.10.1994 n. 888 in Repertorio Giustizia civile,

1995, con sottolineature nostre. Cfr. altresì, F. GENTILE, Ordinamento giuridico.

Tra virtualità e realtà, III ed. ampliata, Padova, 2000.

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alimento; dall’altro le interpretazioni date della norma stessa. Si

apre qui uno spazio di notevole avvicinamento ai sistemi di common

law poiché si riconosce che, tramite l’interpretazione, si viene a

creare una sfera - significante, oltre che significativa - di diritto

giurisprudenziale.

Peculiare è l’osservazione che la sentenza fa, poi, di un terzo

elemento capace di influire sul modificarsi del significato delle

norme: si tratta delle mutate esigenze cui la norma deve

necessariamente essere adeguata. Questa ammissione, per la verità,

potrebbe dare adito a un soggettivismo esasperato delle

interpretazioni, quando non ad un arbitrio, perché rischierebbe di

avallare una interpretazione strumentale a questo o quell’obiettivo

operativo dell’interprete, decisamente fuori da ogni possibilità, non

solo di oggettività, ma anche di giustizia. Così non è se si tiene

presente la precisazione in merito alla “conservazione dell’utilità

ordinamentale” che la norma interpretata deve mantenere, il che

significa che non sono autorizzate interpretazioni che facciano

uscire la norma dal sistema di utilità per cui era stata posta. Non

solo. Se si tengono presenti le osservazioni fatte sull’oggettività

della norma e la soggettività dell’interprete e sull’attualità

dell’intendere si evita il rischio annunciato.

Anche il Consiglio di Stato si pronuncia a favore di

un’interpretazione conforme ad un significato “il più possibile

coerente con le disposizioni risultanti dal complesso normativo

globale in cui la norma da interpretare si trova collocata”. 194

È

questa una conferma del carattere sistematico che l’interpretazione

deve assumere, anche se l’incertezza che quell’ “il più possibile

coerente” denota non può non lasciare perplessi. È chiaro, infatti,

che questa regola può rivelarsi utile nel confronto tra più

194

Cons. Stato, VI sez. 89/717. Sul punto, cfr. F. DELFINO, Omissioni

legislative e Corte costituzionale (delle sentenze costituzionali c.d. creative), in

AA. VV. Studi in onore di G. Chiarelli, II, Milano, 1974, p. 911 e ss., nonché M.

LUCIANI, Lo spazio della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, in AA. VV.,

Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

Riferimenti comparatistici, Atti del sminario di studi tenuto a Palazzo della

Consulta il 13 e 14 ottobre 1992, Milano, 1994, p. 245 e ss.

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interpretazioni possibili, tuttavia sarà ben difficile stabilire solo con

questo parametro la maggiore o minore vicinanza alla coerenza del

sistema.

È sempre il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, poi, a

stabilire che “norme plurivoche o di significato ambiguo vanno

interpretate in modo conforme al sistema”.195

In che cosa consista questa coerenza del sistema, tuttavia, è

ben lungi dall’essere un dato acquisito, poiché è empiricamente

molto facile riscontrare non solo contrasti giurisprudenziali, ma

anche legislativi. Credo però che se non si rincorre il fantasma della

geometria giuridica e si tengono presenti le considerazioni fatte in

merito al “farsi” dell’interpretazione anche attraverso, e non solo

mediante, l’interprete, le incongruenze sistematiche si rivelino non

più che apparenti entro una concezione dinamica - non per questo

caotica - dell’ordinamento. Come si vedrà meglio al capitolo 7,

concependo un sistema a logica “sfumata” anche le contraddizioni

sono accettate, purché la probabilità del loro accadimento si possa

ricondurre alle logiche del sistema. Di più, il problema della

coerenza del sistema è dovuto dalla difficoltà di ordinare l’insieme

di norme, elevandole a “sistema”, operazione che richiede un

criterio ordinatore, in forza del quale “disporre” ogni norma “al suo

posto”; ma questo criterio ordinatore, il mètron dei classici, non può

essere trovato nel diritto positivo, anzi –come diremo- richiede

quell’attitudine all’ordine che è caratteristica propria dell’uomo.

L’interprete alle prese con la coerenza sistemica non può non

trovarsi di fronte al problema dei cosiddetti “significati assurdi”:

con quali criteri li escluderà, e perchè deciderà di escluderli?

L’assurdità di un significato, o di una interpretazione potrebbe

essere individuata nella contrarietà al senso “usuale”: sarebbe

immediata, tuttavia, non solo la reazione al soggettivismo implicito

in questa impostazione, ma anche la constatazione che la

coincidenza della verità - posto che la si individui -

dell’interpretazione con il suo essere conforme all’”usuale” può

195

Cons. Stato, ad. plenaria, 16.12.1983, n. 27 in Riv. amm. R.. I., 1984,

262.

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venire stabilito in termini di probabilità, non già di necessità

logica.196

Credo, allora, che sia corretto ricondurre l’assurdità o meno di

un significato e di una interpretazione nell’ambito della ratio

giuridica e rinviare al paragrafo 4.3 la trattazione.

Prima di analizzare la soluzione giurisprudenziale in materia

di coerenza sistemica è bene soffermarsi, tuttavia, sul problema

della cosiddetta “applicazione retroattiva”.

Chi, come Betti, asserisce la presenza di un momento logico

della norma, consistente nell’enunciazione di un “apprezzamento

interpretativo”197

si trova poi a dover fare i conti con l’applicazione

retroattiva -là dove consentito, ovviamente - delle norme e a dover

giustificare la singolarità delle norme interpretative nell’ottica di

coerenza e autosufficienza ermeneutica del sistema. Come far

convivere questi opposti?

Probabilmente questo è un falso problema, essendo sì una

questione interpretativa,198

ma più fittizia che reale. La norma

196

R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p. 755. Più

ampiamente, sul problema temporale degli effetti, tra interpretazione e

declaratoria di incostituzionalità, l’ottima monografia di M. E. D’AMICO,

Giudizio sulle legge ed efficacia temporale delle decisioni di incostituzionalità,

Milano, 1993. 197

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 95.

Peraltro si veda anche: M. CARTABIA, Portata e limiti della retroattività delle

sentenze della Corte costituzionale che incidono sugli status giuridici della

persona. In margine ad alcune recenti sentenze della Corte di cassazione in

materia di cittadinanza, in Giur. cost., 1996, p. 3260 e ss. Per un profilo

comparatistico, cfr. A. A. CERVATI, Incostituzionalità delle leggi ed efficacia

delle sentenze delle Corti costituzionali austriaca, tedesca ed italiana, in AA.

VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con

firerimento alle esperienze straniere, Atti del seminario di studi tenuto al Palazzo

della Consulta il 23 e 24 novembre 1988, Milano, 1989, p. 125 e ss. 198

“La retroattività è una questione interpretativa”, asserisce E. CROSA in I

diritti di libertà e la Costituzione, Giur. it., 1948, II, 131. Quarant’anni dopo, ed a

Corte costituzionale pienamente operante (anche con fantasia), può essere

interessante comparare la posizione dell’illustra costituzionalista con il salace

scritto di P. CARNEVALE, La pronuncia di incostituzionalità “ad

effettoparzialmente retroattivo” del regime della perequazione automatica per le

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interpretativa, che si sovrappone a quella interpretanda, riceve,

infatti, un orientamento retroattivo - anche se sarà comunque valida

per l’avvenire - tale per cui l’intento interpretativo non viene altro

che a camuffare quello creativo così che quella che doveva essere

una “interpretazione”, una ricognizione retroattiva non è altro che

una positiva nuova creazione normativa.

pensioni dei magistrati: ancora una declaratoria di illegittimità costituzionale

con efficacia “temporalmente circoscritta”, in Giur. it, 1989, I, 1, 761 e ss.

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8.4.2. Una soluzione giurisprudenziale: la norma giuridica

al momento stesso della sua entrata in vigore si oggettivizza

estraniandosi dai fatti contingenti e dalle vicende che hanno

preceduto la sua emanazione (che conservano il valore di ausilio

esegetico); va interpretata facendo riferimento alla situazione

esistente al momento della sua applicazione. La norma, nella sua

autonomia comprende tutte quelle situazioni anche non prevedibili

verificatesi successivamente che si inquadrino nella sua ratio e

nella lettera della disposizione. In tale operazione non opera

l’analogia né l’interpretazione estensiva perchè la nuova fattispecie

rientra direttamente nella previsione della norma, considerata nel

suo significato letterale e logico.

Contrariamente all’opinione di Kelsen, Gorla e Sacco, nel suo

“manifesto ermeneutico” del 1948 Betti enuncia il carattere

specificativo e integrativo del precetto da interpretare che

costituisce l’interpretazione medesima.199

Essa crea una

“complementarietà concorrente, un circolo di continua e reciproca

rispondenza fra il vigore della legge e il processo interpretativo”.

Lo stesso processo conoscitivo è visto assumere carattere

triadico: “in primo luogo lo spirito vivente e pensante

dell’interprete; quindi una spiritualità che si è oggettivata in forme

rappresentative; infine la mediazione di quelle forme

199 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 39.

Leggiamo nel manifesto il momento della frattura con la “tradizione” fiorita

nell’Ottocento francese e ben rappresentata dall’espresisone di Demante: “C’est

la volonté du législateur, qui constitue la loi. L’esprit du législateur est, pour

nous, une guide si sûr, que nous souvent le faire prevaloir sur ses termes...”

spirito che deve consistere “dans l’ensemble de disposition qui composent la

même loi, ou même dans la comparaison d’une loi avec une autre, ou egard à la

plus ou moins grande analogie des matières”. A. DEMANTE, Cour anlytique de

Code Civil, Paris, 1849, p. 13-14, cit. da M. A. CATTANEO, Illuminismo e

codificazione, Milano, 1966, p. 148

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rappresentative nelle quali la spiritualità, che si è oggettivata, sta di

contro al soggetto interpretante come qualcosa di altro e

indipendente da esso, come una oggettività irremovibile”.200

Di vago sapore bettiano, allora, parrebbe definirsi la sentenza

della Cassazione penale del 1982201

in materia di radiotelevisione.

La questione oggetto della pronuncia riguardava la estensibilità o

meno della legislazione - penale - sull’obbligo di registrazione e

indicazione del direttore responsabile anche alle trasmissioni

televisive private, così come esplicitamente previsto per quelle

pubbliche, non ancora esistenti al tempo dell’emanazione della

legge.

La sentenza si rivela interessante perché, in motivazione, fa

riferimento esplicito a un “fondamentale principio ermeneutico”,

quello che vede la norma giuridica, al momento stesso della sua

200

E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.

umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319-344. Facilmente riconoscibili, per assonanza, i

debiti hegeliani di Betti, non disgiunti –ad onor del vero- da una rimeditazione

personale dell’attualismo gentialiano nella contrapposizione tra pensiero pensante

e pensiero pensato, inteso come spirito obbiettivato, derivatagli tramite Adolfo

Ravà, maestro anche di Carlo Esposito: Orbene, su queste basi lo studioso italiano

può sostenere “che si ha un fenomeno sociale tutte le volte che due o più psichi

umane entrano in relazione tra loro. È evidente che questa relazione non si può

porre che per mezzo di fenomeni fisici, ma questi sono in tal caso espressione di

un fatto psichico: sono azioni, cioè movimenti (fatto fisico) determinati da

volontà (fatto psichico). Le azioni sono dunque i fatti sociali per eccellenza. E i

prodotti di queste azioni (linguaggio, leggi, istituzioni), se anche distaccati da

ogni psiche e viventi per sé, pure conservano l’impronta dello spirito umano che

li ha prodotti, e in tanto noi ce ne possiamo servire, in quanto sentiamo risonare in

noi la stessa vibrazione psichica che ha dato loro la vita. Qui è profonda la veduta

di Hegel, che li chiamò spirito obiettivato. Così A. RAVÀ, La classificazione delle

scienze e le discipline sociali, Roma, 1904, p. 131. 201

Cassazione penale, sez. V, 12.10.1982 in Giust. penale 1983, II, 633.

Peraltro, su quello che si dira in conclusione di questo lavoro, in ordine ai

“doveri” del legislatore ed ai suoi limiti come ausilio all’interpretazione, cfr. I.

MASSA PINTO, La discrezionalità politica del legislatore tra tutela costituzionale

del contenuto essenziale e tutela ordinaria caso per caso dei diritti nella più

recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1998, p. 1309 e

ss.

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entrata in vigore, oggettivizzarsi, “estraniandosi dai fatti contingenti

e dalle vicende che hanno preceduto la sua emanazione”.

Questo significa che, aderendo a tale canone, è la norma

stessa a rendersi oggettiva, senza bisogno che sia l’interpretazione a

farlo. Non può non rimbalzare, qui, l’eco di quella “spiritualità

oggettivata” di Betti alla quale si faceva cenno sopra.

C’è anche una presa di posizione forte là dove quasi si nega

all’interprete di risalire alla genesi normativa per vincolarlo

all’attualità, probabilmente la stessa “attualità dell’intendere”

bettiana, anche se questa cesura tra il tempo dell’emanazione e

quello dell’applicazione, segnata dalla sentenza, sembra rinnegare

quel “farsi” dell’interpretazione di cui si è parlato.

Interessante è l’analisi nella quale prosegue la sentenza: “in

tale operazione [l’oggettivizzarsi della norma] non opera l’analogia,

né la (pur legittima) interpretazione estensiva perché la nuova

fattispecie rientra direttamente nella previsione della norma,

considerata nel suo significato letterale e logico”. Così, nel caso di

specie, l’obbligo di registrazione viene “esteso”, dalle emittenti

pubbliche a quelle - allora inesistenti - private, non per via di

interpretazione analogica e nemmeno estensiva, ma proprio perché

l’attualità, cioè la compresenza di entrambi i tipi di proprietà delle

emittenti, è entrata nell’imperativo stesso della norma, addirittura

nella sua letteralità e logicità.

Le condizioni di emanazione di questa pronuncia giudiziale

del 1982, “l’attualità” del giudicare, si potrebbe parafrasare,

evidenziano l’esigenza di un certo controllo politico in un settore

come quello radiotelevisivo privato allora agli albori. Sorge quanto

meno il sospetto che si sia azzardata una teorizzazione funzionale

agli scopi della sentenza, superando, tra l’altro, con essa il

catenaccio della non estensibilità analogica delle norme penali.

Tuttavia il principio che ne scaturisce non può che rivelarsi di

estremo interesse a chi con la sentenza si viene a confrontare.

Significativo è il fatto che l’approdo in Cassazione fosse stato

generato da un ricorso del Procuratore generale (di Palermo) contro

una precedente sentenza, evidentemente contraria, che aveva

ritenuto “non equivalenti le finalità delle informazioni di Stato

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istituzionalmente obiettive a quelle delle emittenti private”,

affermando che l’interpretazione letterale e logico-sistematica della

legge regolatrice in questione conducevano ad opposte conclusioni.

Già nel ricorso del Procuratore generale, dunque, vi è

un’argomentazione agganciata alla necessità di inserire

l’interpretazione entro la costruzione logico-sistematica.

Per dirimere il conflitto la Cassazione si appella alla ratio

della normativa - ed è lì che ogni conflitto dovrà andare a parare -

con un’accezione, però, nuova data, come detto, da una sorta di

“inglobamento” entro l’area di significanza della stessa norma dei

nuovi significati scaturenti dall’attualità applicativa.

Al di là della strumentalità della soluzione, e del rischio di uso

strumentale cui questa teorizzazione può dar luogo è di notevole

rilievo questa annunciata espulsione dal problema interpretativo sia

del discorso sull’estensione, sia di quello sull’analogia. Non serve

più parlarne, e nemmeno, quindi, cercarne una distinzione, sembra

dire la sentenza, perché i significati cui si vorrebbe accedere per

estensione o per analogia stanno già nella norma.

I fatti contingenti, che non sono meri accessori ma, al

contrario, potrebbero, secondo un’altra impostazione, essere

elementi essenziali per la ricostruzione del senso della norma, sono

schiacciati dall’oggettivizzarsi della norma. Il che sembra voler dire

che la norma sopravvive e si cristallizza come impianto, ma il suo

spirito si evolve e adatta via via che la norma viene applicata.

Paradossalmente, perciò, a ben guardare proprio nel culmine

dell’oggettività, come è questo “oggettivizzarsi” della norma,

sembra rivelarsi e dischiudersi all’interprete la massima estensione

della creatività.

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9. LA NECESSITÀ DI UNA DISTINZIONE TRA

INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA COME

SOLUZIONE AL PROBLEMA DELLE LACUNE

9.1. Le lacune dell’ordinamento: sulla fisiologica imprecisione della legge

9.1.1. Il rapporto tra l’interpretazione e le lacune.

Premessa: indagine sulla realtà normativa. Norma come cornice

(Kelsen) e norma come realtà spirituale (Betti). I tipi e i nomina:

tipica come topica giurisprudenziale.

Prima di addentrarsi nell’analisi di quelle teorie che vedono

contrapposte -per distinguere tra analogia ed estensione- la funzione

integrativa ovvero dichiarativa dell’interpretazione, è opportuno

chiarire la matrice profonda delle questioni che stanno alla base di

tali specificazioni.

I fenomeni dell’estensione o dell’analogia interpretativa,

nascono da un lato dall’intrinseca necessità interpretativa, contro

ogni letteralità -come detto- delle proposizioni normative.

Dall’altro, tuttavia, essi trovano ragione di sé nella incapacità delle

regole previste di coprire tutte le necessità di disciplina che la vita

giuridica comporta. Può essere efficace, allora, affermare che la

teoria dell’interpretazione è il rovescio della teoria delle lacune, o

meglio, parafrasando, che la teoria delle lacune - e con essa quella

che involve l’analogia e l’interpretazione estensiva - non si può che

intendere come l’altra faccia della teoria dell’interpretazione.

A questo punto, tuttavia, prima di procedere oltre nell’analisi

del fenomeno, occorre richiamare la natura degli strumenti che si è

deciso di utilizzare per accostarsi ad esso andando ad indagare sulla

scelta di campo operata in merito all’evento normativo.

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Il problema delle lacune, e quindi anche quello interpretativo,

si collocano come risposta - problematica - a quello che è stato

definito come il “duplice postulato del legalismo”202

e che si

202 L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981,

p. 29, che così distilla l’insegnamento soprattutto della Scuola dell’esegesi. A ben

vedere, però all’esaustività (“tutto il diritto è nella legge e non v’è non-diritto

nella legge”), tiene necessariamente seguito il principio di non eterointegrabilità,

cioè l’impossibilità di “completare” il diritto legale con materiale extralegale:

“non vi è diritto se non attraverso la legge”. Intendo con il termine tradizione, qui,

come in seguito, riferirmi alla “tradizione codicistica”, che si afferma a partire

dalla promulgazione del codice Napoleone e il conseguente affermarsi dell’école

de l’exégèse. È qust’ultima una dottrina fortemente giuspositivistica, che crea

quasi un culto legalistico del codice, portando alla sopravvalutazione del testo:

come se tutto il diritto coincidesse con il dettato normativo del codice, e la

perfetta conoscenza di quest’ultimo fosse la condizione necessaria e sufficiente di

una sua esatta applicazione. Il credo di questo indirizzo scientifico -che produce

giuristi del calibro di P. Merlin, A. Duranton, C. Demolombe, A. Demante- si

riassume nella “boutade” dell’esegeta J. Bugnet: “Io non conosco il diritto civile,

io insegno il codice Napoleone”. La Scuola dell’Esegesi fa emergere una

concezione volontaristica della legge come diretto comando del legislatore ai

cittadini eguali tra di loro e segna altresì la nascita del giuspositivismo moderno,

basato sul dogma della completezza dell’ordinamento giuridico. Questo viene

infatti ora concepito come sistema chiuso, provvisto della capacità interna di

produrre la soluzione di qualsiasi caso concreto, senza necessità di far riferimento

ad altre fonti di produzione normativa, cui il codice stesso non faccia

espressamente rinvio. E’ questo il caso, tra l’altro, del diritto naturale: mancando

infatti un espresso rinvio nel codice, gli esegeti tralasciano del tutto ogni

riferimento al diritto naturale e sostengono il principio della pura dichiaratività

dell’interpretazione, la quale ha dunque soltanto il compito di spiegare il

significato del testo senza spingersi ad esaminare alcun elemento ulteriore.

L’attività interpretativa viene così concepita come un sistema di operazioni

logiche basate su tre presupposti: l’interprete non deve far riferimento ad alcun

elemento extra-testuale; non deve creare, ma soltanto ritrovare la norma entro i

confini di un sistema non eterointegrabile; il sistema contiene tutti gli elementi

necessari per condurre tramite deduzioni logiche alla soluzione di qualsiasi caso.

Il principio secondo il quale, in mancanza di una norma espressa, esiste

comunque una norma implicita, produce quindi la notevole conseguenza di

privare in pratica il giudice della possibilità di rifarsi al diritto naturale; possibilità

che invece J.E.M. PORTALIS, nel Discours préliminaire sur le projet de Code civil

(in IDEM, Discours, rapports et travaux inedits sur le code civil / par Jean-

Etienne-Marie Portalis, Paris, 1844) aveva ritenuto necessaria in ragione della

fatale incompletezza normativa anche di un codice sistematicamente completo.

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sostanzia nelle due massime “la legge è tutto diritto” e “la legge è

tutta diritto”, ossia “non c’è diritto al di fuori della legge” e “non c’è

non-diritto all’interno della legge”. Legalismo che nasce, appunto,

dall’aver considerato in modo eccessivamente “geometrico” il

fenomeno normativo.

Del resto, infatti, prevedere e predisporre all’interno del

sistema giuridico una serie di rimedi - come l’interpretazione

estensiva o l’analogia - al problema delle lacune può essere inteso

come un’implicita ammissione del fatto che le lacune esistono,

contro uno dei postulati del positivismo. Prevedere già

nell’ordinamento giuridico dei rimedi alle lacune, cioè, è anche

negare uno dei pilastri dell’ordinamento stesso dato dalla

completezza del medesimo.

Se però si apre uno “spazio vuoto” tra diritto e legge perché,

contrariamente ai due postulati appena enunciati, si teorizza

l’insufficienza delle leggi, delle fattispecie astratte, a coprire tutte le

fattispecie concrete, allora il problema della completezza o meno

dell’ordinamento giuridico, e delle eventuali lacune, si può anche

ridurre a quello dell’astrattezza della norma.203

La scoperta di questo “spazio vuoto” dato dall’intrinseca

impossibilità delle proposizioni normative di regolamentare

dettagliatamente tutte le possibili situazioni concrete significa,

pertanto, spostare il problema. Da un’impostazione che privilegia

l’analisi della completezza dell’ordinamento, e quindi si interroga

sulla “quantità” (sufficiente o insufficiente) si potrebbe dire, di leggi

atte a disciplinare la realtà ci si rivolge verso un’impostazione che

Secondo gli esegeti, dunque, il sistema delle fonti presupposto dall’art. 4 del

codice Napoleone impone che il giudice -qualora la norma che regola la

fattispecie su cui è chiamato a giudicare non gli appaia chiara e sufficiente- faccia

ricorso anzitutto all’interpretazione letterale; quindi all’analogia; infine ai principi

generali dell’ordinamento. Cfr. S. GASPARINI, Illuminismo e codificazione,

Padova, 1991, p. 92. Si veda altresì sull’argomento la lucida ricostruzione di G.

TARELLO, voce Scuola dell’Esegesi, in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1969,

p. 819 ss. 203

Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art. 3. disp. prel. nel

diritto privato. (Appunto critico), Estratto da Archivio Giuridico, vol XCIV, Fasc.

2, p. 12.

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guarda alla norma in sé e, constatandone l’astrattezza, si interroga

sulla capacità di qualunque norma, anche la più dettagliata, di

regolare, proprio perché necessariamente astratta, tutte le

multiformi fattispecie concrete.

Il problema è, dunque, dell’ordinamento che è incompleto o

della norma giuridica che per sua natura è astratta?204

“Non può dirsi che è logicamente pensabile un diritto senza

lacune, appunto perché è nella natura stessa della legge di essere

astratta (cioè lacunosa)”, scrive Ascarelli,205

e aggiunge che le

lacune della legge risultano colmate dall’interpretazione “del caso

concreto attraverso la sentenza” la quale ”si risolve in una

valutazione giuridica del caso singolo e non di una classe di casi

(come la legge) sì che attraverso di essa ogni possibile lacuna riesce

eliminata”.206

È l’interpretazione, pertanto, in questa impostazione, che

colma, nell’applicazione concreta, lo spazio vuoto tra la legge e il

diritto.

Interpretazione sì, ma quale? Quella estensiva o quella

analogica?

Il fatto che si sia constatata la necessità interpretativa sempre

e comunque della norma e che sia l’interpretazione estensiva che

quella analogica si pongano come strumenti per colmare proprio

questo “vuoto” tra legge e diritto può già far abbozzare l’idea che,

di fatto, non abbia senso la distinzione tra questi due meccanismi

interpretativi. Il che, però, non deve affrettare la conclusione che

sarà più avanti affrontata: l’identità di scopo non deve far

superficialmente concludere per l’identità di oggetto.207

204

Imposta così il problema T. ASCARELLI, cit., p. 12. Sulla prospettiva

autenticamente filosofica di questo autore, che mai ebbe a dirsi tale, cfr. lo

stimolante volume di F. CASA, Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione giuridica tra

positivismo e idealismo, Napoli, 1999. 205

T. ASCARELLI, cit., p. 15. 206

T. ASCARELLI, cit., p. 20. Indicativa sul punto la posizione dei

contemporanei, per cui ex multis, rinviamo infra alla nota 559. 207

L’identità di scopo non equivale ad identità di oggetto: essenza e

funzione restano ben distinte. Cfr. W. P. ALSTON, Filosofia del linguaggio,

(1964), tr. it. Bologna, 1971.

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Tutto sembrerebbe logico se a turbare l’ordine così teorizzato

non facessero capolino i “buchi neri” della generalità,

dell’imperatività e della necessaria certezza delle norme. La

completezza ritrovata attraverso l’interpretazione giudiziale è

sufficiente a colmare anche il vuoto di generalità, di imperatività e

di certezza che l’aver “trovato” la “legge del caso singolo” può

generare? Come conciliare le diverse concretizzazioni, capaci di

colmare la medesima lacuna in modi tanto differenti quante sono le

applicazioni giudiziali?

Non si ritornerà sui problemi affrontati al capitolo 1. È il caso,

invece, di accennare a due diversi modi di intendere la norma che

illustrino non solo un diverso oggetto d’interpretazione, ma anche

una diversa impostazione ermeneutica.

“Fra la parola e il significato della legge vi è sempre una

distanza che dev’essere colmata con la viva attività del nostro

spirito.[...] La legge può parlare solo mediante concetti generali e

astratti, i quali non sono altro che imperfetti tentativi di

rappresentare una massa di fenomeni non delimitata né delimitabile

con precisione. [...] insomma, la parola della legge è sempre

soltanto una cornice, spesso assai manchevole, nell’ambito della

quale il giurista deve cercare liberamente la decisione: la scienza del

diritto deve contribuire per l’appunto a che tale cornice sia

rettamente riempita”.208

Sono parole di Ernst Zitelmann riportate da

Betti nel suo discorso di commemorazione del giurista tedesco.209

Riecheggiano le parole di Kelsen, la sua concezione geometrica cui

l’immagine della norma-cornice non può non rinviare, seppure

l’assonanza non comporti identità di impostazione.

La giustapposizione dell’idea di norma come “realtà

spirituale”,210

alla maniera di Betti, che ne fanno Burdese e Gallo211

208

E. ZITELMANN, Die Gefahren des bürgerlichen Gesetzbuches für die

Rechtswissenschaft, discorso tenuto a Bonn il 27 gennaio 1896 citato in E. BETTI,

Metodica e didattica del diritto secondo Ernst Zitelmann, in Riv. int. fil. dir.

(RIFD), 1925, p. 5, ora in Diritto, Metodo, Ermeneutica, Milano, 1991, p. 14. 209

E. BETTI, op. ult. cit., p. 14. 210

Così R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv.

trim. dir. proc. civ., 1951, p. 753.

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può apparire, tuttavia come una contrapposizione, dato che vengono

a trovarsi contigue due concezioni differenti. Se, cioè, come fanno

gli autori citati, si cerca la convivenza, o il compromesso tra la

norma come cornice alla Kelsen e la norma come realtà spirituale, si

rischia di franare nella contraddizione della convivenza tra

concezioni antitetiche.

Da un lato vi è la serie di possibili interpretazioni, e di

possibili significati equivoci, cui si trova di fronte l’interprete che

riduce l’oggetto interpretativo alla dichiarazione legislativa.212

Dall’altro la “dotazione spirituale” affidata al documento segna il

ritorno a quella - univoca? - spiritualità di cui si è parlato al capitolo

1.

Di fronte alla comprensione di un “contenuto spirituale

obbiettivato”,213

pertanto, si trova la volizione astratta e tipica

espressa nella norma. Astratta oggettività e oggettiva

spiritualizzazione l’un contro l’altra armate, verrebbe da dire.

Per tentare qualunque conciliazione tra questi due elementi,

quindi, non si può che rivolgere la riflessione preliminare sulla

tipica, nei cui confronti, più che in quelli delle leggi, sembra, alla

fine, porsi il problema della completezza dell’ordinamento. La

tipica, cioè, come vera topica214

giurisprudenziale215

che significa,

contrariamente all’immaginabile, rifiuto del concettualismo estremo

211

A. BURDESE M. GALLO, Ipotesi normativa ed interpretazione del

diritto, in Riv. it. sc. giur., 1949, p. 356 e ss. 212

Così R. SACCO, cit., p. 752. 213

L. CAIANI, voce Analogia. b) Teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, Giuffré, p. 354. 214

Perspicua la definizione di F. CAVALLA nella voce Topica giuridica per

l’Enciclopedia del diritto, vol. XLIV, Milano, 1992, p. 720, che delinea la topica

come “l’attività diretta a rinvenire - quando non si disponga di un principio

scientifico - l’affermazione con cui cominciare una procedura discorsiva, idonea a

organizzare una serie di proposizioni verso una conclusione [...] Il modo e

l’oggetto del rinvenimento ricevono una configurazione diversa a seconda della

concezione che si assuma nel metodo di sviluppo delle premesse ritrovate”. 215

L’espressione è di L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto

giurisprudenziale, Milano, 1975, p 31.

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e, anzi, un continuo “spezzarsi” di questo, attraverso la metodica dei

tipi, nella concretezza dei casi.216

Da qui, dalla tipica, su queste basi può partire allora anche la

riflessione sull’analogia e l’interpretazione estensiva, se è vero che

nel procedimento analogico da questa si dipana il ragionamento. Se

è vero, cioè, che nel procedimento analogico si applica una norma

particolare sostituendo i “nomina strettamente dipendenti dalla

collocazione sistematica all’interno di un codice” con i “nomina

propri del conflitto o della situazione sociale non contemplati” sulla

base della loro “reciproca fungibilità” in ordine al tipo di problemi e

principi di soluzione che la norma prospetta.217

È già in nuce qui, da quanto si può vedere, l’apertura alle

varie forme di applicazioni analogiche, su cui ci si soffermerà ai

capitoli seguenti; la eventuale presenza di ulteriori conflitti e

situazioni sociali, non riconducibili ai termini della descrizione

normativa porterà, alla fine, ad esse.

216

L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto cit., p. 32. 217

M. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come autoriproduzione

del sistema giuridico, in Riv. critica del dir. priv., 1991, p. 53.

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9.1.2. Ordinamenti giuridici chiusi e aperti: è ancora attuale

questa distinzione? Ogni sistema è normativamente chiuso e

cognitivamente aperto. Completezza e autosufficienza

L’analisi condotta da Bobbio sui rapporti tra lacune e analogia

ne pone in luce una non piena coincidenza sulla base del concetto di

completezza dell’ordinamento giuridico. “Il problema delle lacune e

quello dell’analogia non combaciano perfettamente”, scrive Bobbio.

“O la completezza si valuta dal punto di vista formale, e allora un

ordinamento è sempre completo anche senza l’analogia; o dal punto

di vista reale, e allora l’ordinamento è sempre incompleto

nonostante l’analogia. L’analogia è un problema logico, le lacune

sono un problema politico”. 218

Del resto, il filosofo torinese aveva

detto poco sopra che “l’incompletezza di un ordinamento non è un

problema da dialettici o da sofisti ma è prima di tutto un problema

politico ed etico”. 219

Nell’impostazione di Bobbio la categoria del

“politico”, tuttavia, sembra afferire più ad un’idea di

“discrezionale”, di “sovrano”, a-logico, verrebbe da dire, così che il

problema delle lacune sembra presentarsi come l’altra faccia della

discrezionalità del legislatore. Se, invece, si assume la categoria

“politica” come legata ad un discorso sui valori - qui sì, allora,

“etico” - che la norma prende in considerazione ma, anche, che il

sistema si pone, al di là e oltre le norme, allora anche l’analogia può

diventare un problema “politico”. Non, però, questa volta, nel senso

di “discrezionale”, ma nel senso più pienamente logico. Logico

perché politico, si potrebbe dire. Posto che si abbia di fronte un

legislatore ragionevole e coerente, pertanto, nel momento in cui le

norme sorgono già vi è inclusa un’intrinseca ragionevolezza, già vi

è un valore protetto. E allora la stessa interpretazione teleologica,

218

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. II, cap. 3. 219

N. BOBBIO, op. ult. cit., p. II, cap. 2.

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potendo avvicinare la “volontà del legislatore” con il bene protetto

dalla norma, potrà accedere con maggiore successo alla “certezza”

ermeneutica. Ma se sia l’analogia che l’interpretazione approdano

alla questione politica, o meglio, a quella assiologica, allora già se

ne può trarre argomento per un avvicinamento concettuale.

Da quanto si è detto emerge, dunque, la connessione stretta

che esiste tra il problema dell’analogia, quello delle lacune, e le

diverse concezioni in merito all’ordinamento giuridico. Affiora

subito, però, anche l’idea che a dare scaturigine a queste

implicazioni sia fondamentalmente l’impostazione eletta in merito

agli ordinamenti giuridici, elemento da cui discendono tutte le altre

teorizzazioni. Si impone, cioè, una scelta di campo sul modo di

intendere l’ordinamento giuridico e, secondo l’impostazione

tradizionale, sul modo di comporlo come un sistema “chiuso”

ovvero un sistema “aperto”. Chiusura determinata dalla pretesa di

completezza data, soprattutto, dalla fiducia nella capacità delle

norme, e soprattutto dei codici, di coprire tutta la realtà da regolare.

Apertura data, al contrario, dal concepire l’ordinamento come un

sistema incapace di esaurire le necessità normative e allo stesso

tempo recettivo alle integrazioni provenienti da fonti extra-

sistematiche.

A quale completezza, cioè, si fa riferimento? A quella

assoluta di un sistema “chiuso”, in sé esaustivo, oppure a quella

relativa di un sistema “aperto”?

La storia delle codificazioni220

è anche la storia della pretesa,

protrattasi fino alla metà del ventesimo secolo, di completezza e

“chiusura” degli ordinamenti proprio grazie ad una fiducia illimitata

nella onnicomprensività dei codici; fiducia che traeva alimento da

una impostazione fondata sul concetto di Stato come unica fonte del

diritto, “aggravata dall’idea dello Stato nazionale o nazionalista”.221

Il pensiero giuridico recente, al contrario, soprattutto a seguito

220

Cfr. F. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa, Milano, 1982,

pp. 253 e ss. 221

Così G. GORLA, I principi generali comuni alle nazioni civili e l’art. 12

delle disposizioni preliminari del codice civile italiano del 1942, in Foro it.,

1992, V, p. 92.

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dell’inserimento dei sistemi normativi nazionali entro sempre più

ampi sistemi internazionali, si è portato via via verso una

concezione “aperta” dell’idea di ordinamento giuridico. Senza

rinunciare, per questo, all’idea di completezza, ma anzi, spesso,

ricorrendo proprio alle fonti “eteronome” per integrare,

completandolo, un vuoto normativo.

Queste differenziazioni concettuali sembrerebbero non avere

effettività applicativa se non ci si accorgesse, con Bobbio, che esse

mascherano da un lato un problema politico, dall’altro che le istanze

ermeneutiche non possono trovare soluzione se non qualificando

l’ambito entro cui si fa operare lo stesso processo interpretativo.

Ha senso parlare ancora oggi di scelta di campo tra

ordinamenti chiusi o aperti?

Con Luhmann222

è possibile ritenere che ogni sistema

giuridico sia insieme normativamente chiuso e cognitivamente

aperto e che, quindi, la chiusura normativa del sistema non escluda

affatto una sua apertura cognitiva. Non escluda, cioè, la

“disponibilità del sistema stesso ad apprendere i mutamenti della

realtà sociale ed a misurare su di essi le sue risposte normative”.223

A patto, però, di intendersi sul fatto che comunque ciò a cui si fa

riferimento è la completezza della legge, non del diritto.224

Quale spazio rimane, con questa impostazione, al discorso

sulla completezza dell’ordinamento?

“La compiutezza dell’ordinamento non significa inesistenza

di lacune ma esigenza di eliminarle per mezzo di un dispositivo”,

scriveva Carnelutti,225

insinuando il dubbio se, comunque, la

completezza esista o non sia, invece, che una tensione verso un

obiettivo mai totalmente raggiunto o addirittura mai raggiungibile

222

Ripreso anche da P. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come

autoriproduzione del sistema giuridico, cit., p. 61. 223

P. BARCELLONA, L’interpretazione cit., p. 60. 224

Cfr. N. BOBBIO, voce Lacune del diritto in Novissimo Digesto italiano,

IX, 1963, p. 420. 225

F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951.

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data, come afferma Ascarelli,226

l’incapacità del diritto di “afferrare

la vita e la storia che, nella loro concretezza, sfuggono

continuamente”.

Si è autorevolmente sostenuto che, storicamente, il discorso

sulla completezza, intesa come dogma, postulata dai grandi

codificatori, si accompagnò sempre alla teoria della separazione dei

poteri227

e alla ricerca di attuazione del principio di legalità. Si

osservi, tuttavia, che in alcuni ordinamenti, come quello inglese, la

separazione dei poteri fu postulata al di fuori di ogni pretesa di

completezza. Si è sostenuta, dunque, la necessità “storica” della

legalità come corollario della certezza; certezza derivante da una

forma di pan-normativismo conseguente all’intendere

l’ordinamento come completo e in grado di completarsi.

Separazione dei poteri come distinzione netta tra l’opera degli

“applicatori” del diritto e quella dei creatori. Ma già l’esempio

storico è in grado di smentire questa impostazione.

Sorpassata chiaramente questa teorizzazione anche a livello

concettuale, ne è rimasto tuttavia un residuo nelle impostazioni

ermeneutiche che, pur distinguendo, sottendono e ricercano ancora

il postulato della completezza.

Le critiche sono almeno due. In primo luogo più che alla

completezza queste impostazioni sembrano rivolgersi

all’autosufficienza dell’ordinamento giuridico inteso come “un

insieme di norme le cui lacune possono sempre essere colmate

mediante interpretazione o integrazione, e quindi senza bisogno di

ricorrere al potere creativo del giudice”.228

Da questo punto di vista

sarà proprio l’opera creativa del giudice a essere sottoposta a

revisione concettuale.229

Autosufficienza, si è detto, che se si contrappone alla

completezza proprio in forza del fatto che l’ordinamento completo è

226

T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art. 3 disp. prel. nel diritto

privato, cit., p. 13. 227

N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, cit., p. 420. 228

Cfr. N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, cit., p. 423. 229

Cfr. § 3.2.

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“un insieme di norme che non ha lacune”,230

laddove l’ordinamento

autosufficiente è quello che riesce a colmarle, si contrappone anche

all’ ”autonomia”. Questa, infatti, come noto è la capacità di darsi da

sé delle regole e, nel caso specifico, si concreterebbe nella

caratteristica dell’ordinamento di esaurire in sé la fonte della

normazione. Resterebbe comunque da chiedersi: se l’ordinamento e

mezzo e non fine, come fa a darsi da sé le regole? La risposta esula

dell’economia di questo studio, ma la stessa domanda, anostro

avviso, fa emergere il carattere non meramente tecnico, quanto

squisitamente politico dell’ordinamento giuridico, non riducibile

alla sola tékne, quanto partecipe della pràxsis, per utilizzare

categorie aristoteliche che hanno ritrovato fortuna nel secolo

passato.

In secondo luogo chiamare in causa l’interpretazione a fronte

del problema della completezza significa non sfuggire alla critica di

Lombardi Vallauri laddove sostiene che “l’interpretazione, quando

opera col postulato della legge completa, non può essere logica,

dato che esistono comunque le contraddizioni”.231

Contraddizioni

che però sono anche lacune, e lacune che sono contraddizioni.

Postulare la completezza significa, cioè, rimanere invischiati nel

circolo vizioso.

È noto, infatti, che, anche dal punto di vista logico, nessuna

teoria formale è abbastanza forte da poter esibire da sola la sua non

contraddittorietà, ossia che la coerenza di una teoria non può essere

verificata a partire dai teoremi della teoria stessa.232

Pertanto

postulare la completezza dell’ordinamento ponendo in

dimostrazione le regole - supposte come complete -

230

N. BOBBIO, op. cit., p. 423. 231

L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,

1975, p. 270 ss. 232

La teorizzazione della relatività di ogni assiomatica applicata ai sistemi

logici fu dimostrata dal matematico austriaco Kurt Gödel nel 1931, sulla scorta

delle osservazioni di Bertrand Russel; di quest’ultimo è rimasta celebre

l’antinomia, e perciò la non verificabile verità, dell’affermazione del “mentitore

che asserisce di mentire”. Cfr. In matematica non esiste la certezza su “vero e

falso” in Il Sole-24 Ore del 25.4.1997.

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dell’ordinamento stesso finisce per essere una costruzione

tautologica che non riesce a dimostrare quanto aveva postulato.

Conviene, a questo punto, rinunciare a queste categorie e

rimettersi, piuttosto, all’apertura cognitiva del sistema, come detto,

rimandando, al massimo, la categoria dell’incompletezza a quella di

una “inadeguatezza rispetto agli scopi di giustizia”, come si vede

costretto a fare lo stesso Bobbio.233

Per questa via, allora, ha un

senso proporre l’analogia come soluzione alle inadeguatezze

normative e allo iato tra diritto e legge, e assumere quello

dell’adeguatezza come criterio interpretativo - ma non nuovo

“dogma”- fondamentale.

È questa la giustificazione logica della necessità dell’analogia

ma anche, assunto quello dell’adeguatezza come criterio

interpretativo, dell’interpretazione estensiva. Appurato che esistono,

resta da porsi, il problema della distinzione tra questi due strumenti

ermeneutici. Problema che per essere affrontato richiede ancora

alcune precisazioni in tema di lacune.

233

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p.II, cap. 2.

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9.1.3. Le lacune: esistono o sono create dall’interprete? Le

lacune pensabili. Il “diritto controverso” di Betti: lacune della

legge o insufficienza dell’interprete? Lacune: lacunosità generica e

specifica, lacune statiche e dinamiche, lacune originarie ed

evolutive, lacune metodologiche, lacune operative, lacune politiche

e ideologiche, lacune proprie e improprie. Lacune anche dei

principi.

Come si è detto non si può negare empiricamente l’esistenza

di lacune legislative: di fatto, cioè, l’interprete si trova davanti ai

“casi non regolati” e alla necessità di reperire la norma per regolarli.

Questo, però, solo ad un approccio superficiale. Scavando alle

fondamenta delle costruzioni giuridiche in tema di lacune non è

difficile imbattersi nell’obiezione che l’esistenza delle lacune possa

essere, in realtà, una specie di fata morgana dell’interprete, che

creerebbe da se stesso l’idea della lacuna là dove, al contrario,

questa non esiste. Già Bobbio aveva messo in guardia contro questa

illusione dell’interprete commentando con un’immagine efficace le

posizioni, in materia, dei positivisti. “Sin dove giunge la

regolamentazione giuridica non ci sono lacune, dove non giunge c’è

l’attività indifferente al diritto, che non può chiamarsi “lacuna” del

diritto così come la riva di un fiume non si può chiamare “lacuna”

del fiume”.234

“La lacuna non è nella norma in sé, ma è sempre il risultato

dell’applicazione di una procedura interpretativa: la lacuna è una

creazione dell’interprete”.235

Questo, però presupporrebbe

l’esistenza di una sorta di “diritto perfetto” prima dell’applicazione

interpretativa, di un diritto, cioè, non lacunoso e che, al contrario,

234

N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, cit., p. 421. 235

P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 595.

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diverrebbe tale solo a seguito dell’interpretazione. Non può non

sorgere il dubbio, tuttavia, che questa impostazione, che in realtà si

muove dentro il dogma della completezza, non sia che un artificio

logico per eludere la dimostrazione e la scelta sull’esistenza o meno

delle lacune e per aprire arbitrariamente la via, per mezzo

d’interpretazione, ai rimedi.

Nell’impostazione di Monateri, poi, le lacune si paleserebbero

solo di fronte al sorgere di una contraddizione tra un certo risultato

interpretativo e le aspettative - la “precomprensione”236

- o le

esigenze che l’interprete ha di condurre detto risultato ad un dato

indirizzo.

Non si tratterebbe più, pertanto, nemmeno di superare le

lacune mediante l’interpretazione, ma di contrapporre

rispettivamente più risultati interpretativi.

Questo modo d’intendere se può convincere per il

superamento del binomio lacune-interpretazione lascia però

scoperto il fianco alla critica di indifferentismo razionalistico cui

sarebbe portato chi pensa che le soluzioni giuridiche entro cui

scegliere siano tutte dotate di pari giuridicità: la critica, cioè, di fare

dell’interpretazione così intesa un novello “metodo di Bridoie”.237

L’obiezione logico-formale al problema delle lacune sarebbe,

poi, comunque, quella - già accennata - della loro “non pensabilità”

per il fatto stesso di essere lacune.

Spunta, a questo punto, un problema di costruzione perché si

giunge ad un bivio, oltre il quale le lacune non possono più essere

colmate attraverso “procedimenti riconducibili ad un concetto, sia

pur lato, di interpretazione”,238

ma debbono necessariamente

richiamare l’applicazione dell’analogia, o comunque di costruzioni

di “giurisprudenza superiore”, secondo la definizione di Jehring.

Non pensabili, cioè, solo entro la visione dogmatica della

completezza, tuttavia metodologicamente esistenti e non negabili.

236

Cfr. § 1.1.2. 237

Il giudice Bridoie, di cui ci parla Rabelais, pare usasse risolvere coi

dadi le cause più difficili, ottenendo, non a caso, il generale consenso. 238

L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,

1975, p. 270.

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Risolvibili, nonostante tutto, solo entro un sistema di valori e al

riparo da ogni indifferentismo ermeneutico.

Anche lo stesso Betti, teorizzatore dell’inquadramento entro

un sistema giuridico di valori, ha occasione di pronunciarsi sul

problema delle lacune contrapponendo le due concezioni - quella

che le nega e quella possibilista - per metterne in luce gli

equivoci.239

Da un lato egli evidenzia l’equivoco in cui incorre chi,

per inseguire la completezza e negare le lacune, scambia la totalità

dell’ordinamento con la sua universalità, la coerenza, cioè, con la

onnicomprensività. Dall’altro smaschera gli assertori della

possibilità di lacune laddove attuano una impropria inversione del

rapporto presupposto-risultato dello stesso canone della

completezza. La completezza, cioè, nella spiegazione di Betti, non è

il presupposto da cui partire con l’interpretazione, ma il risultato,

l’obiettivo che la stessa interpretazione deve avere, se mai, di mira.

Pertanto asserire l’esistenza di lacune partendo dal presupposto

della completezza può significare un ritorno alla concezione, più

sopra criticata, di un ordinamento perfetto prima dell’applicazione.

Ma già si è messa in luce l’artificiosità della posizione.

Alla fine, comunque, tolti gli equivoci, anche Betti conviene

sul fatto che quello del difficile rapporto lacune-completezza rimane

un problema di “coerenza non solo logica, ma organica e

teleologica”.240

Nonostante lo sforzo concettuale per l’esaltazione di questo

télos come soluzione ultima, di taglio assiologico, alla problematica

non si riesce, però, comunque, a risolvere un dubbio. Quello se la

categoria del “diritto controverso”, di quel diritto che esce, cioè,

dalla portata delle norme, sia da far risalire a una lacuna della legge

o semplicemente ad una insufficienza dell’interprete.241

Ma è vero

diritto? Per un positivista di sicuro non lo è, forte dei postulati del

legalismo che si sono evidenziati, poiché “non c’è diritto al di fuori

della legge”. Tuttavia non può non constatarsi empiricamente lo iato

239

E. BETTI, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 136

ss. 240

E. BETTI, cit., p. 140. 241

R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p. 752.

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che esiste tra la fattispecie astratta, prevista dalla legge, e l’infinità

di fattispecie generiche che si possono presentare.

Non rimangono, allora, fuori dalle giustificazioni causali, che

le constatazioni empiriche: pensabili o non, nel diritto positivo si

opera come se le lacune esistessero.

Esaminato, quindi, il problema della colmabilità delle lacune

si può passare ad analizzarne l’essenza, tenendo conto che chi ha

riconosciuto l’esistenza - al di là della pensabilità - delle lacune non

ha potuto fare a meno di individuare, all’interno di questa famiglia,

numerose categorie concettuali.

Una prima distinzione si è fatta tra lacunosità generica e

specifica.242

Quella generica, dipendente dalla tipicità e astrattezza

della norma giuridica, sarebbe una “integrazione o innovazione

dello schema o cornice astratta della norma ‘come testo’”. Sarebbe,

cioè, proprio l’astrattezza della norma giuridica a determinare lo

scollamento rispetto al caso storicamente determinato. La lacunosità

specifica, invece, cui comunemente ci si riferisce, dipenderebbe

dalla necessaria “staticità e chiusura dell’ordinamento”,

impossibilitato per natura a coprire la “continua novità ed apertura

dell’esperienza”.243

Secondo questa distinzione, dunque, il

problema delle lacune si fa risalire da un lato al rapporto “statico”

tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, dall’altro a quello

“dinamico” tra ordinamento chiuso e realtà sociale mutevole.

Già questa distinzione apre la via a quella che classifica le

lacune in “statiche” e “dinamiche”.244

La staticità sarebbe appunto

data dall’astrazione normativa rispetto alla necessità di doversi

applicare ai casi concreti e rispetto all’evoluzione della vita sociale.

La stessa plurivocità del linguaggio sarebbe una fonte di queste

lacune statiche. Statiche, dunque, in quanto intrinseche allo stesso

fenomeno normativo.

242

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 352. 243

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia, cit. p. 352. 244

L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,

1975, p. 240 ss.

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La dinamicità, al contrario, sarebbe determinata dal fatto che

la norma è destinata ad attuarsi “nel concreto divenire”. Tanto che

questa illusione dinamica dell’attualità normativa fa apparire lo

stesso giudice-legislatore teso nell’inane sforzo di stare al passo e

avvinto da intrinseche Anschauungslücken, dall’impossibilità di

cogliere l’intera esperienza che si vorrebbe regolare.

A ben guardare, tuttavia, già da qui si avverte una certa

artificiosità delle partizioni essendo queste solo rappresentazioni di

quella che è il fenomeno normativo all’interno di un sistema

giuridico. Rendersi consci di queste partizioni può, tuttavia,

rivelarsi utile al fine di individuare il tipo di approccio che i

“rimedi” al problema delle lacune, così come tradizionalmente si

sono identificati l’analogia e l’interpretazione estensiva, possono

attuare. Se si punta l’accento sulla plurivocità del linguaggio e sulla

staticità delle lacune si sarà probabilmente portati a individuare

quello dell’interpretazione estensiva come il rimedio per eccellenza,

laddove si prediligerà, invece, l’analogia di fronte alla constatazione

della molteplicità delle esperienze e all’insufficienza della legge a

regolarle tutte. Questo, ovviamente, solo ad un primo approccio alla

problematica, sintomatico, tuttavia, del rischio cui può portare la

mancanza di consapevolezza della mera funzionalità di queste

partizioni e la necessità, al contrario, di condurre l’analisi entro una

prospettiva globale.

Dalla delineata visione “cinetica” del problema delle lacune

trae fondamento anche la distinzione tra lacune originarie e lacune

evolutive. Le prime, infatti, sarebbero già presenti al momento della

determinazione normativa, le seconde si creerebbero in seguito al

necessario evolversi del sostrato sociale e dei bisogni sottesi alle

necessità normative. È come se si contrapponessero, qui, due

fotografie dell’ordinamento - una relativa al momento della

determinazione normativa e una relativa al momento applicativo -

temporalmente distanziate ma dinamicamente connesse.

L’aporia di questa impostazione, tuttavia, sta nel fatto che non

tiene conto che sia lo strumento interpretativo sia la realtà

normativa sono in continua evoluzione per cui, per riprendere la

metafora, ci si trova nella stessa situazione di chi “fotografa” con un

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apparecchio in trasformazione una realtà in movimento. Postulare

lacune originarie in antitesi a lacune evolutive, quindi, può rivelarsi

indice di una impostazione che vede un diritto “originario” perfetto,

corrotto dall’interpretazione o dall’esperienza; concezione, come

detto, rigettata anche perchè snaturerebbe il fenomeno

dell’interpretazione. Non solo. Porre l’accento sulla evolutività

delle lacune può, in realtà, rivelarsi un nascondere la stessa natura

evolutiva dell’interpretazione secondo l’impostazione che si è

delineata nel capitolo precedente. Perciò invocare l’analogia per

risolvere quelle lacune che nemmeno la legge è riuscita, nella sua

formulazione, a colmare e, al contrario, l’interpretazione estensiva

per colmare quelle lacune date dall’inevitabile evolversi della realtà

non è altro che disconoscere il fenomeno normativo in sé e

l’interpretazione, in ottica bettiana, come “rappresentazione”. Si

vede quindi come, evidenziato l’equivoco insito nella partizione, se

ne possa trarre argomento utile per negare una effettiva differenza

tra interpretazione estensiva e analogia.

Per non rimanere schiacciati dalla generale cinesi che queste

impostazioni “evolutive” accentuano urge, come si può

immaginare, una scelta, che è politica, prima che logica, tra gli

stessi metodi interpretativi per evitare di aprire il fianco a quelle che

sono state definite lacune metodologiche. “A rigore si può

addirittura affermare che ci sono sotto la stessa legge tanti

ordinamenti giuridici quanti sono i metodi d’interpretazione”,

scriveva Adolf Merkl nel 1916.245

Lacune metodologiche da non confondersi con le lacune

applicative, o di ordine operativo come le definisce una sentenza del

1986.246

Le prime sono, infatti, determinate dalla molteplicità dei

metodi di interpretazione nel momento in cui si distoglie

quest’ultima dal riferimento assiologico. Paradossalmente sono

“vuoti” dati da un eccesso di tentativi di colmare i “vuoti” stessi. Il

“buco nero”, di nuovo, dell’indifferentismo interpretativo.

245

Cfr. A. MERKL, Allgemeines Verwaltungsrecht (1916), Darmstadt,

1969, p. 181. 246

Cons. giust. amm. Sicilia 28.8.1986 n. 129, Comune Augusta c. Società

Esso Italiana e altro, in Riv. Amm. R.I., 1986, 779.

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Totalmente diverse, al contrario, le lacune operative. Queste

ultime sarebbero, infatti, quelle situazioni non fronteggiate in modo

“adeguato” dalla legge. La definizione, di origine giudiziale,247

trae

spunto da un caso di ordinanze di necessità non tipicizzate od

ordinarie, cioè extra ordinem che, si stabilisce, non debbono servire

a colmare situazioni impreviste ma a far fronte a situazioni - nella

fattispecie si trattava di situazioni di pericolo - che non siano state

affrontate in modo adeguato. Lumeggia, qui, come si può vedere,

una quanto meno ambigua interpretazione strumentale agli scopi

dell’interprete, e in ogni caso la necessità di fissare -

ermeneuticamente? - i confini e i canoni di questa adeguatezza.

Se la scelta tra i metodi interpretativi deve essere fatta e, come

detto, si tratta di una scelta politica, la contiguità con la politicità

che l’”adeguatezza” normativa nasconde è, tuttavia, palese e

comprensibile l’ulteriore distinzione delle lacune in proprie e

improprie.

Già Zitelmann248

aveva adottato questa distinzione; Betti, la

riprende249

e sottolinea come le lacune proprie evidenzino una

“inavvertita insufficienza della disciplina legale”, quelle improprie

una “inadeguatezza e deficienza teleologica”. È chiaro che si apre

qui la categoria delle lacune politiche e ideologiche (o

extrasistematiche250

) e l’interrogativo se l’assenza di norme giuste

valga a costituire una lacuna.251

Interrogativi e aperture che si

giustificano e si spiegano solo entro una concezione assiologica

della stessa interpretazione252

e che involgono tutta la dimensione

equitativa della normazione.

Un’ultima categoria forse merita di essere menzionata: la

possibilità di individuare lacune non soltanto nella legge come testo

247Cons. giust. amm. Sicilia 28.8.1986 n. 129, cit.

248 E. ZITELMANN, Lücken im Recht, Leipzig, 1903, su cui amplius infra.

249 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 146

ss. 250

Così L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova,

1981, p. 31. 251

L. PERFETTI, Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei valori

nell’interpretazione, in Jus 1993. 252

Cfr. § 3.2.4.

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- la Wortlaut tedesca - ma anche nel Wertsystem sovrastante, in quel

livello superiore del diritto che è costituito dall’insieme dei giudizi

di valore e dal mare magno dei principi.253

Esistono lacune nei principi? Senz’altro ne esistono

contraddizioni. Occorrerebbe, però, chiedersi, a questo punto, se la

natura dei principi stessi è quella di norma ovvero di fonti di norme.

Perchè se si conviene sulla normatività dei principi allora si può

anche riconoscere che laddove la norma è generale essa è anche più

esposta al rischio di lacune, per tutte le osservazioni che si sono

precedentemente fatte. Anzi, si potrebbe sostenere che tanto più la

norma è generale, tanto meno è specifica e vicina al caso concreto,

tanto più essa si può rivelare lacunosa. Non bisogna dimenticare,

però, che ciò può essere vero fino ad un certo punto, perchè anche

la norma più specifica può essere lacunosa e, anzi, proprio perchè

eccessivamente specifica è più soggetta sia ad obsolescenza che ad

inadeguatezza.

D’altro canto accordando ai principi la natura di fonti di

norme, e non come norme, si potrebbe eludere il problema delle

lacune nell’ambito dei principi stessi se si assumono le categorie

della lacunosità come costruzioni adatte esclusivamente al

fenomeno normativo.

Se, tuttavia, si guarda all’ordinamento in chiave storico-

evolutiva non si può fare a meno di notare un dinamismo - più lento

ma presente - anche nei principi. Pertanto, a considerare le lacune

come a qualcosa di inserito in un continuo divenire, non si può non

abbozzarne l’esistenza anche entro la sfera dei principi non scritti.

Siano cioè norme o fonti di norme è il fenomeno delle lacune ad

attagliarsi ad un oggetto in evoluzione e, quindi, ad essere

comunque ammissibile e riscontrabile anche nella sfera dei principi.

Interessante, a questo proposito, sarà allora valutare l’interazione di

tale fenomeno con i rimedi dell’analogia e dell’interpretazione

estensiva, tenuto conto del fatto che tradizionalmente per

giustificare l’analogia e distinguerla dall’interpretazione estensiva si

253

L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,

1975, p. 240 ss.

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è fatto ricorso al criterio del “principio ispiratore”. Ammettendo la

prospettabilità di lacune anche nei principi si vede come pure le

delineate distinzioni si vadano affievolendo.

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9.2. In claris non fit interpretatio: (in) attualità di un broccardo

9.2.1. Pretesa chiarezza di un testo. Il “caso deciso” e il

“caso dubbio”. Come stabilire quando non esistono dubbi sul

contenuto di una norma? Dubbio diagnostico e dubbio assiologico

(Betti). La chiarezza come risultato e non come presupposto (Betti).

In claris o non, semper fit interpretatio (Perlingieri).

La necessità dell’interpretazione estensiva e dell’analogia,

oltre che per un problema “sistematico” relativo alle lacune

dell’ordinamento, entra in gioco anche di fronte alle questioni

relative alla chiarezza o meno del medesimo testo di legge,

supposto esistente. Interpretazione estensiva e analogia, dunque,

come risposte alle istanze evidenziate dalla presenza di lacune nel

significato, lacune di ordine, diremmo così, semantico. Anche di

fronte ad un testo poco chiaro, cioè, e proprio perché proprio chiaro,

entrerebbe in gioco il procedimento ermeneutico estensivo o

analogico.

La critica contro il noto brocardo “in claris non fit

interpretatio” si è, tuttavia, ben presto avviata proprio a partire dalle

indagini sulla presunta chiarezza del testo normativo.

Esiste una chiarezza normativa?

Da un punto di vista logico nessun linguaggio è in grado di

sviluppare autonomamente la propria semantica, necessitando,

semmai, di una sorta, di giustificazione logica di quelle regole di

linguaggio, di riflessione teoretica che “abbia ad oggetto quel

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linguaggio e i fatti a cui esso si riferisce”.254

Si rivela, pertanto,

solamente naive la pretesa di individuare un testo normativo

veramente “chiaro”.

L’ellitticità del linguaggio, anche di quello precettivo, risulta

essere, dunque, l’omologo sul fronte oggettivo di quella che Betti

definiva, sul piano soggettivo, “l’angustia della coscienza”255

da cui

partivano e trovavano spiegazione il mutare delle prospettive e la

“costante ulteriorità dell’appercezione”.256

Data questa intrinseca plurivocità del linguaggio anche

legislativo, allora, più che di problema di “lacune” si dovrebbe

parlare di casi dubbi257

e assumere la categoria del dubbio, più che

quella di una “mancanza”, come elemento propulsore di ogni

interpretazione.

Com’è noto sembra seguire parzialmente questo filone del

“dubbio” anche la più recente teoria giuridica nord americana, in

particolare con gli scritti di Dworkin,258

ove si sostiene essere i

principi (ma non è una novità) l’elemento capace di giocare un

254

P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 588.

Scrive l’autore che “appare sicuramente naive la credenza che le parole stesse

possano dirci qual è il loro significato, anche se ovviamente noi non ci

accorgiamo solitamente di questa difficoltà perché abbiamo da sempre appreso ad

accoppiare certe parole a certi fatti”. 255

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 16. 256

T. GRIFFERO, Elogio dell’incompiutezza. L’eccedenza simbolica

nell’ermeneutica di Emilio Betti, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti,

Milano, 1994, p. 95, che però sembra declinare il simbolismo oltre le intenzioni

di Betti e, comunque, oltre l’usuale: "Solo in questa rappresentazione e mediante

essa diventa possibile anche ciò che noi chiamiamo l'esser dato e la presenza del

contenuto. Tutto ciò risulta subito e chiaramente se prendiamo in considerazione

anche soltanto il caso più semplice di questa «presenza»: la relazione temporale e

il «presente» temporale. Nulla sembra essere più sicuro del fatto che tutto ciò che

è dato in maniera veramente immediata alla coscienza si riferisce ad un singolo

istante, o a un determinato «ora», ed è in esso racchiuso." Così E. CASSIRER,

Filosofia delle forme simboliche, vol I, trad. it., Firenze, 1961, p.37 ss. Sul

medesimo punto, cfr. G. GADAMER, Verità e Metodo, trad. it., Milano, 1983, p.

152. 257

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 352. 258

R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982.

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ruolo determinante nelle controversie di dubbia soluzione, detti

anche hard cases. Addirittura Dworkin, almeno nell’interpretazione

che ne fa Guastini,259

individua le situazioni di dubbio in tre diverse

ipotesi: quella delle lacune, quella delle antinomie e, infine, quella

della sussistenza di ambiguità intorno all’interpretazione di una

disposizione normativa.

Storicamente l’interpretazione attinse sempre come fonte ai

casi omessi o dubbi: si parlava delle categorie del casus omissus o

novus o dubius come situazioni che chiamavano in causa

l’interpretatio in mancanza di testi espressi o precisi di legge.260

Il caso dubbio, tuttavia, non si contrapponeva concettualmente

al caso “certo”, bensì alla categoria del caso “deciso”, tanto che

proprio per risolvere i dubbi nell’interpretazione si ricorreva ai casi

decisi, ossia alla categoria del casus legis. Naturale se si pensa che,

a causa del divieto imposto al giudice del non liquet, del “giogo del

giudicare” cui si trova sottoposto, anche nel dubbio è necessario

trovare una soluzione e proporla come “decisa”, più che come

“certa”. Paradossale, tuttavia, se si condivide la moderna

concezione della legge che è vista non più come posta a “decidere

dei casi”, ma piuttosto come diretta a dettare norme che servono,

semmai, a decidere dei casi. Porre il caso dubbio come contrapposto

al caso deciso - come fa il nostro articolo 12 delle disposizioni

preliminari - è retaggio dell’impostazione romanistica che aveva,

come noto, carattere prevalentemente casistico. Se è vero, infatti,

che il giudice è il legislatore del caso particolare, per cui il caso

“deciso” diventa anche, nel momento in cui è deciso, “certo”, non si

può non rilevare l’ambiguità della lettera del nostro articolo 12 disp.

prel. il quale, appunto, come si vedrà, contrappone la controversia,

impossibile ad essere “decisa” con una precisa disposizione, ai

rimedi dei “casi simili e delle materie analoghe”, proponendo poi la

soluzione dei principi se “il caso rimane ancora dubbio”. Non dice,

cioè, esplicitamente “se il caso non è certo”, puntando l’attenzione

259

R. GUASTINI, Dalle fonti alle norme, Torino, 1990, p. 132. 260

G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del

codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969,

II, p. 123.

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sull’interpretazione, bensì “se la controversia non può essere

decisa”, dimostrando così di avvalersi ancora delle categorie

casistiche classiche.261

Stabilire che non esistono dubbi sul contenuto di una norma,

allora, che cosa significa? Che esiste un caso simile già deciso o che

la norma presenta un “testo chiaro”?

La dicotomia deriva dalla concezione, ormai sorpassata, di un

linguaggio - anche normativo - chiaro o chiarificabile secondo

precisi canoni, e che vedrebbe l’interpretazione entrare in gioco solo

nell’area dell’”ambiguità o oscurità dei significati”.262

Concezione

superata, come detto, dall’empirica constatazione dell’ellitticità del

linguaggio, prima ancora che delle situazioni oggetto di

normazione.

Ancora qualche autore,263

tuttavia, indugia nel mito della

chiarezza a priori della legge ed afferma che si possa considerare

chiara “anche una disposizione formulata con parole improprie

quando il discorso non faccia sorgere dubbi”.

È ancora una volta Betti264

a porre ordine nella materia

facendo luce sulle pieghe entro cui rischiava di incepparsi il

ragionamento laddove non chiariva quando, effettivamente, si

potesse dire che il discorso era in grado di “non far sorgere dubbi”.

L’autore spiega, dunque, come l’interprete che “avverta la

insufficienza o deficienza della disciplina legislativa rispetto al caso

non previsto testualmente, sottoposto a decisione”, sia per ciò stesso

condotto a ravvisare in esso un “caso dubbio” ai sensi dell’art. 12

capv. disp. prel.

Tuttavia chiarisce subito come non si tratti di un dubbio

logico, dato che l’apprezzamento che si richiede all’interprete è la

impossibilità di decidere il caso con una “precisa disposizione”,

261

Per approfondimenti in merito alle radici di queste distinzioni è

interessante l’analisi dei precedenti storici dell’art. 12. Cfr. § 4.1. 262

R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, in Comm. del

cod. civ. Scialoja e Branca, 1974, p. 241. 263

Cfr. R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, cit., p. 244

ss. 264

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione , cit., p. 841.

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bensì di un dubbio “diagnostico”, “attinente all’incertezza della

diagnosi e valutazione giuridica del caso”.265

Un dubbio, come egli

lo definisce, “in questo senso non logico ma assiologico”.

Betti mette in guardia, dunque, contro quello che definisce

“equivoco indotto dal pregiudizio logicistico”,266

quello di

scambiare la logica del diritto con la logica formale e di “ridurre il

compito dell’interpretazione a un’operazione di sussunzione

logicistica somigliante nel suo rigido automatismo alle operazioni

aritmetiche”. Abbiamo qui la dichiarazione per tabulas che per

l’autore camerte il diritto non può essere ridotto a scienza esatta,

partecipando piuttosto della natura “artistica” propria della prassi di

tradizione aristotelica. Preme cioè porre l’attenzione su quel prosilo

di prudentia che caratterizza l’approccio al diritto, particolarmente

sentito nel momento dell’abbeverarsi alle sue fonti, intese come

luogo in cui tradizione (dello jus receptum) e novità (del caso

concreto) si incontrano.267

Perciò è la stessa varietà di funzioni dell’interpretazione a far

variare la consistenza e la valenza dell’interpretato; il fatto che

l’interprete sia chiamato non già ad un’operazione di tipo aritmetico

ma ad un apprezzamento rispondente ad esigenze assiologiche268

fa

cadere in toto la categoria della chiarezza a priori e fa approdare alla

265

E. BETTI, cit., p. 842. 266

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 283.

Tale sembra ancora l’orintamento della Cassazione, ove afferma che “All'uopo va

ricordato che è fondamentale canone di ermeneutica, sancito dall'art. 12 delle

preleggi, che la norma giuridica dev'essere interpretata innanzi tutto e

principalmente dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro

senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la

connessione di esse"; di poi, sempre che tale significato non sia già tanto chiaro

ed univoco da rifiutare una diversa e contrastante interpretazione, si deve

ricorrere al criterio logico: ciò al fine di individuare, attraverso una congrua

valutazione del fondamento della norma, la precisa "intenzione del legislatore",

avendo però cura di individuarla quale risulta dal singolo testo che è oggetto di

specifico esame (Cass. 16 ottobre 1975 n. 3359; 13 novembre 1979 n. 5901).”

Così Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 7279 del 03/07/91. 267

Per le definizioni diacroniche e sincroniche, rinvio alla felice

raffigurazione resa da U. PAGALLO, Alle fonti del diritto, cit., p. 1 e 252. 268

E. BETTI, Interpretazione della legge, cit., p. 287.

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concezione per cui, di fatto, esistono sempre dubbi

sull’interpretazione di una norma.

Compito dell’interprete non può concepirsi alla stregua di un

mero ruolo di amministratore, che incasella la realtà entro le

categorie della legge, anche se è ben lontano dall’eccesso opposto,

di assoluto sovrano nel determinare, arbitrariamente, la legge del

caso singolo. La ricerca che deve condurre non è, perciò, limitata ad

un discorso aritmetico - o geometrico - di rinvenimento della norma

che regola il caso così come potrebbe avvenire per una legge fisica

o dell’aritmetica. La ricerca dell’interprete deve essere rivolta al

dato assiologico, unico elemento in grado di assicurare ad un tempo

l’aderenza dell’interpretazione alla realtà - l’adeguatezza -, la

possibilità di evoluzione normativa e al tempo stesso una sorta di

koiné giuridica e, di conseguenza, sociale.

Questa necessità assiologica si manifesta, tuttavia, non solo

come principio sussidiario ai criteri di interpretazione da adottare

nell’ipotesi di un caso ambiguo: la ricerca assiologica non è il

rimedio degli hard cases ma, al contrario, è un apprezzamento

insito nel concetto stesso di interpretazione. Ciò significa, però,

anche che se cade il “mito” della chiarezza a priori cade anche la

distinzione tra gli strumenti interpretativi che proprio su questa base

cercava di trovare piede. L’analogia e l’interpretazione estensiva

non trovano più ragione della loro differenziazione nell’essere la

prima, contrariamente alla seconda, un procedimento che faceva

ricorso ad un’ ”ulteriorità” ermeneutica data, forse, da tale

apprezzamento assiologico. Stabilito che questo fa parte integrante

di ogni interpretazione viene, giocoforza, a cadere anche la

possibilità di distinguere gli indicati strumenti interpretativi su tale

base.

L’uniformità interpretativa che si può riscontrare non si deve

confondere con la intrinseca dubbiosità del precetto normativo:

essa, semmai, è solo un sintomo di un comune sostrato assiologico,

di un “ritrovarsi attorno ai principi”, un indice di maggiore

probabilità di avvicinamento ad un ideale “spazio di intesa

comune”, ma nulla più.

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Pertanto è da rigettare come superato e non condivisibile

l’antico brocardo in claris non fit interpretatio. In primo luogo

perché l’operazione con cui, eventualmente, si determinasse la

chiarezza di un testo legislativo per escluderne la necessità

interpretativa sarebbe già di per sé un’operazione interpretativa.

Come determinare, cioè, che un testo non necessita

d’interpretazione se non interpretandolo?

In secondo luogo, poi, la chiarezza, come detto,269

non è un

presupposto ma, se mai, un risultato del processo interpretativo.

Non è la chiarezza, cioè, che determina se un testo va interpretato

oppure no, ma è l’interpretazione che tende il più possibile a

produrre chiarezza.270

Alcuni orientamenti giurisprudenziali si presentano, tuttavia,

come contrari all’impostazione delineata. In particolare si può

considerare significativa la pronuncia emessa dalla Pretura di

Bologna271

nel 1994 in materia di criteri legali di interpretazione dei

contratti. La sentenza esclude l’applicabilità di tali criteri, a partire

da quello dell’interpretazione secondo buona fede fino a quello

dell’equo contemperamento degli interessi delle parti, qualora il

testo da interpretare - nella fattispecie si trattava di un contratto

collettivo di lavoro - non presenti “margini di dubbio o di lacune o

di incertezza”. Malgrado la sentenza si occupi di interpretazione dei

contratti e non strettamente di interpretazione della legge (seppure il

C.C.N.L. ha valenza di atto regolamentare, ancorché da interpretarsi

secondo i canoni di cui agli articoli 1362 e seguenti del codice civile

e non secondo l’articolo 12 delle disposizioni sulla legge in

generale) è significativo il criterio che la ispira, cioè l’esclusione

della necessità di interpretare laddove il testo - del contratto, nel

caso di specie - non si qualifichi per l’incertezza dell’interpretazione

medesima. Significativo è anche il fatto che la sentenza, con questa

pronuncia, mirasse ad escludere l’applicabilità, in contrasto con la

lettera del contratto scritto da interpretare, di accordi “politici”,

collaterali all’accordo formalizzato, che, al contrario, avrebbero

269 Cfr. § 2.1.2 a proposito della completezza.

270 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 286.

271 Pretura Bologna, 6.9.1994, in Orient. giur. lav. 1994, 469.

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potuto permettere un’interpretazione del contratto collettivo

totalmente aderente alla reale volontà delle parti. La ragione

dell’esclusione è, tuttavia, indicata non nella prevalenza del criterio

della letteralità, come di fatto è, ma nell’incapacità degli accordi

politici di influire sul contenuto dell’accordo formalizzato e quindi

sull’irrilevanza delle circostanze, che pure determinarono l’accordo

scritto, ad influire nell’interpretazione del medesimo. Se tali

circostanze non sono in grado di incidere sull’interpretazione il

testo si presenta, secondo la sentenza, come “chiaro” e, perciò,

come autosufficiente rispetto a qualunque necessità interpretativa.

Ma, come si può vedere, questa non è che la giustificazione della

validità del criterio letterale, presunto come, in sé, capace di

escludere qualunque interpretazione.

Rigettata questa impostazione per i motivi che si sono

evidenziati e, al contrario, ribadita la necessità interpretativa sempre

e comunque, non si può, per quanto detto, che concordare con

Perlingeri272

concludendo con lui che, dunque, in claris vel non,

semper fit interpretatio.

272

P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed

assiologica. Il brocardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp.

prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1017.

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112

9.3. Mezzi per colmare le lacune secondo prassi

9.3.1. Ipotesi volontaristica. Volontà presunta del

legislatore: velleitarietà dell’impostazione in termini volontaristici.

La necessità di distinguere tra interpretazione estensiva e

analogia come soluzione al problema delle lacune fa seguito, come

visto, a quella, precedente, che vede a confronto le lacune, e financo

gli stessi testi legislativi, con il processo e la necessità interpretativa

medesima.

Una volta stabilita la diuturna esigenza di ricorrere, sempre e

comunque, all’interpretazione può rimanere spazio per le categorie

del dubbio e del “caso deciso” proprio nel tentativo di dipanare il

problema di una distinzione tra interpretazione estensiva e

analogica. Si è, cioè, talvolta indicata l’interpretazione estensiva

come lo strumento in grado di risolvere i casi dubbi lavorando, si

potrebbe dire, proprio a partire dalla loro intrinseca “dubbiosità”,

ossia ricercando gli strumenti per la loro soluzione all’interno della

stessa attività interpretativa. Al contrario si è cercato di delineare il

ricorso all’analogia come ricerca di altri “casi decisi” da affiancare

e utilizzare per risolvere gli stessi “casi dubbi”, come ricorso non

all’interpretazione ma all’applicazione che dell’interpretazione si è

fatta.

Alla base di questi tentativi e della possibilità di accoglierli o

meno, sta, come si può vedere, una scelta d’impostazione che

concerne il processo interpretativo in sé, e raffigura l’interprete alle

prese con il testo normativo in una mano e la realtà nell’altra.

Per stabilire come l’interprete debba muoversi in questa

condizione, se debba - per restare nella metafora - allargare la mano

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del testo fino a farla coincidere il più possibile con quella della

realtà ovvero ricorrere a una terza mano, contenente un altro testo, è

necessario comprendere non solo perché le due “mani” non

coincidano, il che si è cercato di spiegare finora, ma anche con

quale mezzo avvicinare una “mano” all’altra.273

L’ipotesi tradizionale più remota, in materia, è quella

cosiddetta “volontaristica”. Ciò che l’interprete deve fare, per

tentare il più possibile la coincidenza tra la realtà e il testo, è

ricorrere alla ricerca della volontà del legislatore, è, anzi, tentare di

immedesimarsi egli stesso nell’ipotetico “legislatore” operando,

appunto, nell’interpretare “come se” fosse il legislatore. È la famosa

immagine del giudice come la “bouche de la loi”274

e del giudice

“come se fosse il legislatore” di tante disposizioni normative

sull’interpretazione, la più famosa delle quali forse resta l’art. 1 del

codice civile svizzero.275

Carnelutti sembra indugiare in questa impostazione quando si

sofferma, analizzando il problema dell’ ”intenzione del legislatore”

sul rapporto tra questa intenzione e la dichiarazione normativa. “In

quanto attraverso l’indagine dell’intenzione del dichiarante il

pensato, anche se non dichiarato, vale come dichiarato, la legge

risolve il problema della divergenza tra il fine e l’evento nella

dichiarazione facendo prevalere il fine sull’evento”276

scrive

l’autore, facendo riferimento alla necessità di ricercare la volontà

normativa al di là della lettera della legge.

Si tenga, poi, presente che tutti i criteri ermeneutici

tradizionali, tranne il criterio teleologico che si propone di indagare

quale sarebbe dovuta essere la volontà del legislatore tenendone

presenti gli obiettivi, fanno riferimento a tale “volontà del

273 Cfr. anche S. ARMELLINI, Le due due mani della Giustizia, Torino,

1996. 274

L’espressione risale al barone di La Brède, CH. L. DE SECONDAT DE

MONTESQUIEU, L’Esprit des lois, Paris, 1748,. “I giudici della nazione sono

soltanto [...] la bocca che pronuncia le parole della legge: esseri inanimati, che

non possono regolarne né la forza né la severità”. 275

Sul quale si veda infra §. 4.1. 276

F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, p. 86

ss.

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legislatore” in ossequio ai principi cardine del positivismo. Il

richiamo, però, ad un “pensato” rimanda all’idea di un legislatore

che lo pensi, e quindi avvicina il rischio di rincorrere la finzione

della volontà presunta anche su questo fronte.

Distinguere l’interpretazione estensiva dall’analogia sulla

base di un’ipotesi volontaristica significa ricorrere a questa finzione

e ritenere che nell’analogia si tratti di disciplinare il caso non

previsto “come se” fosse stato previsto dal legislatore, mentre

nell’interpretazione estensiva il caso sia stato, seppure

implicitamente, previsto.277

Tuttavia la dottrina, primo fra tutti Bobbio,278

individua le

aporie insite nella costruzione volontaristica, segnalandone

l’artificiosità. La volontà presunta, infatti, sarebbe, in realtà,

un’interpretazione correttiva dato che trasformerebbe la volontà del

legislatore in volontà razionale. Questo, almeno, con l’utilizzo del

criterio teleologico, volto a ricercare non tanto una volontà in

quanto tale ma una volontà, appunto, secondo i criteri della

razionalità. Peraltro, così facendo si finirebbe per esautorare la

stessa volontà sovrana del legislatore e con essa lo stesso principio

di sovranità (il che potrebbe non essere un male). Se dunque

l’interprete ricerca legittimazione all’estensione analogica attraverso

il ricorso alla volontà presunta cade in errore perché “non è dalla

presunzione della volontà favorevole che si deduce la possibilità

dell’estensione analogica”, ma è, viceversa, “dalla constatazione

della possibilità dell’estensione che si presume una volontà

favorevole”.279

Un colpo deciso alla teoria volontaristica è sferrato da Betti

che, premettendo come compito dell’interprete sia di “rendere

esplicito il senso della legge” mette in guardia contro il pregiudizio

psicologistico che induce a raffigurare il legislatore come un uomo

reale e contro una distorta concezione del dogma dell’oggettività.

Se, infatti, si spersonalizza la volontà presunta di legge, riducendola

277

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353. 278

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 113. 279

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit.

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a cristallizzazione vagheggiante l’oggettivo, la si impoverisce ad

una “ipostasi o finzione di una “volontà collettiva” che, ove si

concepisca come qualcosa di parallelo alla volontà individuale [...]

non trova riscontro nella realtà sociale più di quanto vi trovi

riscontro una “coscienza collettiva””.280

Betti non nega l’esistenza di una “volontà del legislatore”, ma

sotto questa categoria egli individua, così come nella volonté

générale di Rousseau,281

una espressione di comodo che

ricomprende “l’insieme di quegli interessi della comunità, che nella

legge hanno trovato protezione e quindi vanno dall’interprete tenuti

presenti”.282

Betti ricorda come Rousseau postuli una volonté

générale contrapposta alla volonté de tous, intendendo con quella

espressione un orientamento normativo di carattere deontologico

che “est toujours droite et tend toujours à l’utilité publique” e tale

che “ne regarde qu’à l’interêt commun”.283

Il fatto che, poi, rende

generale la volontà non è tanto il numero dei voti ottenuti dalla

“consultazione del popolo” ma “l’interesse che li unisce”.284

È la

categoria dell’ ”interesse comune” a caratterizzare tanto la volontà

generale quanto la sedicente “volontà del legislatore”, ed è proprio

verso questa “tensione virtuale al bene comune”285

che si dovrà

dirigere la stessa interpretazione.

Dal punto di vista della giurisprudenza alcune sentenze

“storiche”, come quella della Cassazione del 1949286

commentata

dallo stesso Bobbio, hanno negato alla presunzione della volontà del

280

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 263. 281

Cfr. J.J. ROUSSEAU, Contrat social, II, cap. 3; E. BETTI, Interpretazione

della legge, cit., p. 263. 282

E. BETTI, Interpretazione della legge, cit., p. 264.

283

Cfr. J.J. ROUSSEAU, Contrat social, II, cap. 3, su cui F. GENTILE,

Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed, Milano, 1984, pp. 138 e ss. 284

Ancora J.J. ROUSSEAU, Contrat cit., II, 4. 285

F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed, Milano, 1984,

p. 139, ove viene smascherata l’artificio dell’artificiosa equazione tra volontà

generale e volontà della maggioranza, intesa sempre retta “per definizione”. 286

Cassazione civile, II sez., 14.7.1949 n. 1801 in Giur. it. 1951, I, I, 229-

232.

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legislatore legittimità a costituire il fondamento dell’analogia.

“Fondamento dell’analogia non è la presunzione della volontà del

legislatore, bensì il principio della uguaglianza giuridica”,287

stabilisce la sentenza.

Tuttavia una sentenza di poco precedente288

parlava di

“necessità che determina la volontà della legge” come l’elemento in

grado di interpretare in ogni tempo il testo legislativo, per mezzo

del pensiero del suo autore, nell’ordinamento di cui la norma fa

parte, dimostrando di andare, con l’escamotàge della ricerca della

“necessità causale”, ad individuare di nuovo il “pensiero del

legislatore”. Interessante nella sentenza in questione è, tuttavia, il

fatto che fa coesistere anche un’altra affermazione: la legge, infatti,

si deve interpretare “secondo l’intenzione del legislatore attuale, e

non di quello del tempo in cui fu emanata”,289

sistema che

assicurerebbe un costante “adattamento” della norma medesima.

Volontà, quindi, che coincide, a seconda dell’interpretazione che se

ne dà, con gli intenti del legislatore emanante, ovvero con la

necessità di disciplina del legislatore attuale.

Anche di recente per giustificare, invece, l’interpretazione

estensiva si fa riferimento alla volontà del legislatore: ora

sostenendo che questi “minus dixit quam voluit”,290

ora segnalando

questa estensione come necessità di coprire le lacune avendo

riguardo al disegno globale della legge, “ai suoi criteri ispiratori ed

alle sue implicazioni necessarie, tenendo conto non solo di ciò che il

legislatore ha voluto affermare, dicendolo, ma anche di ciò che ha

inteso escludere, tacendo”.291

Queste incertezze della giurisprudenza non valgono, tuttavia,

a fondare l’ipotesi volontaristica: la distinzione tra interpretazione

estensiva e analogia non può essere costruita sulla base della

distinzione tra volontà del legislatore e volontà presunta né di quella

287

Cassazione civile, II sez., 14.7.1949, cit., p. 230. 288

Cassazione civile, S.U., 25.6.1949 n. 1592 in Foro it., 1949, I, 801-805. 289

Cassazione civile, S.U., 25.6.1949, cit., p. 803. 290

Cfr. Cons. Stato sez. IV, 4.7.1978 n. 701 in Cons. Stato 1978, I, 1047. 291

Così T.A.R. Campania 11.6.1980 n. 445 in Foro amm. 1980, I, 2009 e

Cons. giust. amm. Sicilia 26.7.1986 n. 109 in Cons. Stato 1986, I, 1046.

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117

tra volontà della legge e volontà del legislatore.292

In tutti questi

tentativi, infatti, si nasconde il tentativo di mascherare l’arbitrio

dell’interprete o la sua normale attività integrativo-creativa.

Tutto ciò detto e ricordando che alcuni hanno perfino

sarcasticamente sostenuto che la norma legislativa comincia ad

esistere quando non c’è più nessuna volontà,293

si deve concludere

per la velleitarietà dell’ipotesi volontaristica e nella inutilità ed

equivocità294

delle sue conclusioni.

292

M. BOSCARELLI, L’analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civile,

1954, p. 630. 293

H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, trad. it. di R.

Treves, Milano, 1952, p. 34. 294

M. BOSCARELLI, L’analogia giuridica, cit., p. 631. Implicitamente

anche la giurisprudenza, ove afferma “La Corte napoletana ha correttamente

evidenziato che, ove al divieto regolamentare di costruire in una determinata zona

si dovesse sostituire, nei rapporti tra privati confinanti, l'obbligo di osservare le

distanze prescritte dallo stesso strumento urbanistico per altre zone, si verrebbe

quasi a legittimare, mediante il semplice arretramento della costruzione alla

distanza "analogicamente" applicata, un'opera edilizia che in quella zona non

dovrebbe affatto esistere. A monte di tale considerazione, però, vi è la giuridica

impossibilità del ricorso all'analogia in un caso come quello che ci occupa. L'art.

12 delle Preleggi, infatti, conseguente l'applicazione analogica solo "se una

controversia non può essere decisa con una precisa disposizione", cioè

allorquando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta

fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativi

altrimenti incolmabile in sede giudiziaria, il che non è affatto riscontrabile

nell'ipotesi in esame. Per rendersene conto basta osservare che la mancanza, in

uno strumento urbanistico, di prescrizioni sulle distanze per una determinata zona

del territorio, a causa della scelta del legislatore locale di vietare in tale zona

qualsiasi attività costruttiva, lungi dal creare lacune nella regolamentazione dei

rapporti di vicinato, fa sì che resti applicabile ad essi la disciplina dettata dagli

artt. 873 e segg. del codice civile, con la conseguenza che, in caso di violazione

del divieto di costruire, il privato proprietario che ne abbia subito danno ha

diritto, ai sensi dell'art. 872 dello stesso codice, di esserne risarcito ma non può

pretendere la riduzione in pristino ove non risulti contemporaneamente

trasgredito l'obbligo di rispettare le distanze previste da dette norme codicistiche,

sempre, beninteso, che non sia intervenuta con la controparte, come nel caso di

specie, una deroga pattizia alle medesime (trattandosi senza dubbio di norme

derogabili).” Così Cassazione Civile, Sez. II, n. 4754 del 29/04/95.

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9.3.2. Ipotesi logicistica; diversità di struttura logica e di

natura giuridica (impostazione del problema e rinvio).

Respinta l’ipotesi volontaristica la dottrina si è rivolta a quella

che è stata definita ipotesi logicistica o normativistica.295

La teoria che poneva l’accento sulla volontà del legislatore o

nella legge era stata oggetto di critiche, per la verità, proprio a

partire da un discorso logicistico: si sosteneva, infatti, che essa non

consentiva la costruzione scientifica in quanto ne negava, in pieno

dogma positivistico, il presupposto, cioè l’intima razionalità del

sistema positivo.296

L’ipotesi logicistica, allora, si affacciò di fronte all’esigenza

di distinguere tra un’attività “normale” di interpretazione e una

attività che in dottrina si tese sempre più a identificare come attività

di “integrazione del diritto”297

: processi propedeutici alla

differenziazione tra l’interpretazione estensiva e l’analogia. Vi si

affacciò per distinguere sostenendo che “vi sarebbero casi

logicamente compresi dalla norma, oppure casi non compresi, ma

simili, e quindi da regolare in base alla stessa norma.”298

Si è già fatto cenno all’insistenza sulla dimensione logica del

ricorso all’analogia299

. Tuttavia in questa impostazione lascia il

295

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353. 296

Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 116; M.

BOSCARELLI, L’analogia giuridica, cit., p. 633. 297

L. CAIANI, voce Analogia, cit., p. 353. 298

L. CAIANI, voce Analogia, cit., p. 353. 299

Per tutti Bobbio, la cui opera sull’analogia porta già nel titolo

l’inquadramento della trattazione entro un discorso logico. Cfr. N. BOBBIO,

L’analogia nella logica del diritto, cit. Caiani ne fa una critica in L. CAIANI, voce

Analogia, cit., con argomenti non dissimili da quelli della critica giusliberista,

almeno nell’interpretazione che ne dà Lombardi Vallauri. Cfr. L. LOMBARDI

VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 285 nota 262.

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sospetto di una “insufficiente discriminazione”300

tra il punto in cui

la logica finisce e la chiarificazione di quale genere di “non logica”

ivi comincia.

La critica giusliberista, poi, ha proseguito scagliandosi contro

l’analogia come la più importante risorsa della logica giuridica ed

evidenziando come da un lato essa non sia una pura trasformazione

logica della legge, neppure quando intende esserlo in tutta la misura

del possibile, dall’altro come l’analogia non debba assegnarsi come

primo scopo di essere il più logica possibile. L’ipotesi logicistica si

rivela, per la verità, una “seducente idea”301

e così il fatto che

l’analogia possa riposare sull’“intima consequenzialità del diritto”.

Consequenzialità, però, non sempre meramente logica, bensì, come

la definì Savigny,302

“organica”.303

In questo contesto il tentativo di fare chiarezza sulla

distinzione tra interpretazione e integrazione, e poi tra

interpretazione estensiva e analogia, è stato condotto attraverso il

riferimento ad una diversità di struttura logica. Da un lato si è, così,

sottolineato il rimanere - con l’interpretazione, e con quella

estensiva - nell’ambito della norma, senza discostarsi da essa,

dall’altro ci si è riferiti - con l’integrazione, e con l’analogia - al

ricorso ad un elemento che esce dalla portata della norma e, anzi,

introduce in essa significati che, altrimenti, non sarebbero stati

ricavati per sola via d’interpretazione. A questo genere di

distinzione è conseguita l’analisi sulla diversità della natura

giuridica dei rispettivi risultati.304

Da un lato, quindi, l’indagine si è

spostata sul piano della distinzione tra la dichiaratività e

l’integratività dell’interpretazione, dall’altro sul fronte

300

L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,

1975, p. 285. 301

La definizione è di F. GENY, Méthodes d’interprétation et sources en

droit privé positif, Paris, Sirey, 1919, I, pp. 118-122. 302

C.F. von SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts (1840), Rist.

Aalen, Scientia, 1973, I, 292, citato anche da L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia

in Digesto civile, I, (1987), p. 320 ss., nota 29. 303

Cfr.L. GIANFORMAGGIO, op. ult. cit. 304

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353.

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dell’esistenza o meno di una norma sovraordinata che giustifichi i

diversi risultati interpretativi. Su tali analisi, tuttavia, si

soffermeranno i capitoli seguenti.

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9.3.3. Analogia e ricorso ai principi non valgono a escludere

l’incompletezza dell’ordinamento giuridico. Necessità di

soffermarsi sulla funzione, prima che sulla struttura di

interpretazione estensiva e analogia. Funzione dell’analogia è

colmare le lacune? Equivoco: definire l’analogia per la sua

funzione e non per la sua essenza.

Come si è potuto constatare nei paragrafi precedenti i processi

interpretativi che fanno capo all’analogia e all’interpretazione

estensiva, ammettendo che siano due procedimenti diversi, non

valgono ad escludere l’incompletezza dell’ordinamento giuridico.

Già Savigny, del resto, pur con presupposti diversi, aveva escluso la

relazione tra questi strumenti interpretativi e la completezza.

“L’interpretazione estensiva e restrittiva non hanno a che fare con la

completezza dell’ordinamento giuridico, ma si riferiscono solo alla

inesattezza delle leggi singole, consistente nel contrasto tra pensiero

ed espressione”.305

Sembrerebbe, qui, addirittura, ipotizzare una

sorta di “errore ostativo” del legislatore, vizio sanabile mediante la

ricostruzione, per via, appunto, d’interpretazione, dell’esattezza di

questo rapporto pensiero-espressione.

Nemmeno il ricorso ai principi, d’altro canto, vale ad

escludere questa postulata incompletezza, se si concorda con l’idea

enunciata che sia possibile la presenza di “lacune” anche nei

principi, oltre che nelle norme scritte.306

Se dunque la funzione dei processi interpretativi in questione

non è quella di colmare l’incompletezza dell’ordinamento giuridico,

si rende necessario soffermarsi proprio sulla funzione degli stessi. Il

305 C.F. von SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts (1840), rit.

Aalen, 1973, citato anche da N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto,

Torino, 1938, p. 113. 306

Vedi supra, § 2.1.3.

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122

fatto che si sia ventilata una impostazione logicistica fa presupporre

che affrontare la questione dell’interpretazione estensiva e

dell’analogia come problemi di logica significhi anche fare ricorso

ad un’analisi sulla loro struttura. Si può concordare sul fatto che

non si possa affrontare il discorso se non lo si inquadra, come già si

è cercato di fare, in un’ottica di teoria generale del diritto e, quindi,

andando ad indagare, prima ancora che sulla struttura, sulla

funzione dei processi interpretativi in discussione. 307

“Qual è la funzione dell’analogia? Essa è uno dei mezzi

adoperati dal giudice allo scopo di colmare le lacune della

legislazione”,308

scrive Bobbio.

In effetti questa impostazione è seguita dalla giurisprudenza

che, in numerose sentenze ha dato prova di avere fatto proprio il

concetto del mette in relazione lacune e analogia in un rapporto di

funzione a strumento.

Una sentenza recente della Cassazione mette in chiaro come il

ricorso all’analogia sia consentito “dall’articolo 12 delle preleggi

solo quando manchi nell’ordinamento una specifica norma

regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre

rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede

giudiziaria”.309

Dieci anni prima la Cassazione aveva indicato come,

nel caso di lacune, si dovesse procedere ad un’opera di

“ricostruzione” della disciplina della materia insufficientemente

regolamentata ricorrendo, ove necessario, come ultimo strumento,

all’analogia.310

Il problema che si pone, ovviamente, è però quello

di determinare quando una materia possa dirsi insufficientemente

regolamentata, con quali criteri decidere che c’è o meno un “vuoto

normativo” e, infine, a chi affidare - al legislatore o all’interprete? -

il compito di fare questo discernimento.

307

In adesione alla posizione di M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in

Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 627. 308

N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, p. 604. 309

Cassazione civile sez. II, 28.4.1995, n. 4754, in Giust. civ. Mass. 1995,

925. 310

Cassazione civile, sez. lav., 4.2.1985 n. 731, in Giust. civ. Mass. 1985,

fasc. 2.

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123

In senso conforme, ma con un ragionamento a contrariis è

anche la sentenza del 1994 che preclude il ricorso all’analogia in

assenza di “una qualsivoglia lacuna dell’ordinamento”.311

Si sofferma, invece, ad analizzare la struttura logica

dell’analogia la sentenza del T.A.R. del Molise che ammette il

ricorso all’analogia “nelle ipotesi delle cosiddette lacune

dell’ordinamento” quando, “innanzitutto, sussista un rapporto di

similarità tra alcuni elementi della fattispecie regolata ed alcuni

elementi di quella non regolata e ricorra, inoltre, una identità di

ratio”.312

Decisamente significativa, infine, è la sentenza della

Cassazione del 1994 in cui, definitivamente, si mettono sul piatto,

come elemento di negazione dell’applicabilità in via analogica delle

norme sul fideiussore al terzo datore di ipoteca, da un lato le

“diversità funzionali e strutturali” della fideiussione, dall’altro la

“completezza della disciplina legislativa della prestazione di ipoteca

da parte del terzo che non lascia spazio a lacune di sorta”.313

L’equivoco insito nel costante collegamento tra il problema

delle lacune e la soluzione dell’analogia è, tuttavia, delineato dallo

stesso Bobbio: “definire l’analogia per il suo scopo (colmare le

lacune), ma non per la sua essenza”,314

per cui si finisce per sapere

benissimo a che cosa serva l’analogia senza, tuttavia, sapere che

cosa sia. 315

Alcuni autori per negare l’identificazione tra interpretazione

estensiva e analogia si sono riferiti al procedimento analogico come

a un “vero e proprio mezzo di integrazione delle norme legali”,

giungendo a rifiutare l’idea che l’analogia possa considerarsi una

forma di interpretazione.316

311 Cassazione civile sez. II, 14.12.1994, n. 10699.

312 T.A.R. Molise 6.12.1982 n. 217, in T.A.R. 1983, I, 655.

313 Cassazione civile sez. III, 6.5.1994, n. 4420, in Notariato, 1995, 18

nota Gradassi. 314

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, capitolo

VI.. 315

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., pp. 790 e ss. 316

F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed.,

Milano, 1989, p.85.

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124

Sarà dunque necessario tenere presenti le interazioni cui si

accennava ed evitare l’equivoco cui si riferiva Bobbio.317

Autore

che, peraltro, nega l’esistenza di una differenza tra interpretazione

estensiva e analogia,318

evidenziando come il tentativo di

distinguere si basi su un’errata comparazione di due punti di vista

diversi: da un lato la volontà del legislatore - nell’interpretazione

estensiva - guarda al fondamento interpretativo, dall’altro la

somiglianza dei casi - nell’analogia - si riferisce, invece, al

procedimento interpretativo medesimo.

“Il giudizio che si avvale dell’analogia non crea la norma

giuridica”, ha affermato la Suprema Corte;319

tuttavia, nonostante il

sostanziale accordo, vi sono state alcune correnti dottrinali propense

a far rientrare l’analogia puramente e semplicemente

nell’interpretazione propriamente detta, e altre propense, invece, a

distinguere l’analogia dall’interpretazione per la caratteristica di

essere integrazione delle norme giuridiche.320

Si tenterà, perciò, attraverso l’analisi del problema della

integratività e della creatività dell’interpretazione,321

di dare una

risposta al problema in oggetto.

317

Vedi supra all’inizio del paragrafo. 318

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p II, cap.

IV. 319

Cassazione civile, II sez., 14.7.1949 n. 1801, in Giur. it. 1951, I, I, 229-

232, p. 231. 320

Cfr. N. BOBBIO, nota a sent. Cassazione civile sez. II, 14.7.1949 n.

1801, in Giur. it. 1951, I, I, p. 231. 321

Cfr. capitolo 3.

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125

10. TENTATIVI DI DISTINGUERE

INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA IN BASE

ALLA FUNZIONE: IL PROBLEMA DELLA

DICHIARATIVITÀ - CREATIVITÀ

10.1. Interpretazione e linguaggio: continuità e differenze

10.1.1. L’interpretazione estensiva tenderebbe ad allargare

l’area di significanza dei termini senza superare il limite della zona

di incertezza.; l’analogia consentirebbe di applicare una norma a

una fattispecie non prevista uscendo dalla norma. (Rinvio).

Necessità logica dell’interpretazione estensiva, non similitudine di

rapporti. Superamento tramite concezione della struttura aperta del

linguaggio e ragionamento di “tipo analogico” del giudice.

Si è già approfondito l’argomento del carattere

intrinsecamente ellittico del linguaggio e in particolare delle

implicazioni sul linguaggio normativo. Taluno individua il nodo

problematico centrale dell’intera teoria ermeneutica nel “gioco della

logica di domanda e risposta” che c’è nella relazione dialettica tra

l’interprete e il testo normativo, e delinea la necessità di soffermarsi

sulle implicazioni che l’uso di un particolare medium linguistico ha

sulla stessa conoscenza del reale.322

Non è il caso di soffermarsi in

questa sede sugli spazi che gli interrogativi posti da un’analisi in

termini di filosofia del linguaggio aprirebbe. Basterà accennare, ai

fini della trattazione, all’interrogativo che è stato posto da

322

G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,

in Riv. dir. civ. 1989, I, 330.

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126

Francesco Cavalla:323

l’orizzonte storico in cui si situa il linguaggio

è invalicabile dal linguaggio stesso? Che, tradotto in ambiente

giuridico, può suonare come un interrogativo sui confini evolutivi di

una semantica normativa.

Il problema del rapporto tra interpretazione e linguaggio non è

peregrino. La stessa necessità interpretativa, infatti, è sovente stata

intesa come una insufficienza del linguaggio normativo o come la

necessità di una evoluzione semantica. L’enfasi sulla vaghezza324

e

indeterminatezza del linguaggio normativo, a fronte dell’evocata

fecondità della prassi applicativa è una testimonianza di questo

approccio, da taluni definito “altamente povero al diritto”.325

Di avviso totalmente contrario sembra essere una importante

sentenza del 1991, emessa dalla quinta sezione penale della

Cassazione,326

che individua come ogni termine linguistico, cioè

ogni parola, adoperato nell’enunciazione di una norma sia fornito di

un’”area di significanza” (o “campo di riferimento”) in cui attorno

ad un “nucleo” centrale, più o meno consolidato, si estende una

“zona di indeterminazione” (o “di incertezza”) più o meno vasta”. È

la stessa struttura linguistica della norma, pertanto, secondo questa

impostazione, a caratterizzarsi per tale zona di indeterminazione

semantica attorno ad un nucleo - semantico - forte. È evidente come

la sentenza sia venuta qui recependo le moderne posizioni non solo

in merito alla struttura aperta del linguaggio, ma anche in merito

all’ipotizzabilità di un ragionamento giuridico a “logica sfumata”,

che tenga, cioè, conto delle zone d’ombra attorno al linguaggio

normativo e che collochi in quest’area il discorso

sull’interpretazione estensiva e l’analogia.327

Dall’interno di questa impostazione la sentenza prosegue

tentando di delineare una differenziazione tra interpretazione

323

F. CAVALLA, La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la

secolarizzazione, Padova, 1996, p. 7. 324

M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come

autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, p. 61. 325

Così M. BARCELLONA, ibidem. 326

Cassazione penale, V sez., 3.7.1991, in Foro it., 1992, II, 146. 327

Per ulteriori approfondimenti cfr. cap. 7.

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127

estensiva e analogia. L’interpretazione estensiva sarebbe quella che

“tende ad allargare il campo di riferimento” del termine o

dell’espressione del testo normativo “fino a ricomprendervi

“oggetti” che ricadono nella fascia più sfumata della zona di

indeterminazione”.328

L’analogia, invece, applicandosi a fattispecie

diverse, ma congruenti con quella di partenza in alcuni aspetti

ritenuti essenziali, si avrebbe quando l’identità di ratio fa ricadere

entrambe le fattispecie nella stessa “area di similarità”.329

Sarebbe proprio la contrapposizione tra ambito dell’”area di

significanza” e ambito della “area di similarità” a differenziare

l’interpretazione estensiva dall’analogia. Andando oltre la mera

distinzione linguistica, tuttavia, e scendendo ad analizzare in che

cosa consista questa estensione dall’interno o all’esterno di questo

nucleo forte della norma, emerge un tentativo di distinzione

piuttosto antico. Infatti poco oltre la differenziazione sul piano

semantico dell’interpretazione estensiva e dell’analogia si legge

nella sentenza che il primo procedimento sarebbe “pur sempre

legato al testo della norma esistente”, mentre il secondo sarebbe

“creativo di una norma nuova che prima non esisteva”.330

Questo

non solo spiegherebbe l’inapplicabilità del procedimento analogico

alle leggi penali, causa il divieto del nulla poena sine lege sancito

dall’articolo 1 c.p. e dall’articolo 25 della Costituzione: un

procedimento qualificantesi come “creativo” di una norma nuova

diverso dal procedimento legislativo non potrebbe, infatti, che

infrangersi contro la previsione del citato divieto. Tale impostazione

segna anche il ritorno alle vecchie impostazioni che tentavano di

distinguere sulla base dell’approccio dichiarativo o creativo

l’interpretazione estensiva dall’analogia, registrando un

allontanamento dagli spunti che l’analisi semantica sembrava avere

aperto.

In conclusione, pur ricorrendo all’impostazione semantica,

non ci si discosta dall’intendere l’interpretazione estensiva come un

rimanere nell’ambito della norma pur se dilatata fino al limite della

328 Così Cassazione penale 3.7.1991, ibidem.

329 Così Cassazione penale 3.7.1991, ibidem.

330 Cfr. Cassazione penale 3.7.1991, ibidem.

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128

sua massima espansione linguistica, e l’analogia, al contrario, come

un uscire dalla norma per l’impossibilità di ricomprendere il caso

dentro la norma, per quanto se ne allarghi il significato fino alla sua

massima estensione.331

Il problema, tuttavia, sta proprio qui, cioè nel determinare

quando, effettivamente, si possa dire che il significato di una norma

sia stato esteso fino alla sua massima espansione; di come, cioè, si

fissi il criterio in base a cui “ragionevolmente” un significato si

debba catalogare come eccedente rispetto alla “area di significanza”

della norma.

Alcuni autori332

hanno, su questa scia, distinto altrimenti il

ricorso all’interpretazione estensiva da quello all’analogia. Il primo

sarebbe dettato dalla “necessità logica” di evitare gli effetti assurdi

derivanti dall’assumere i termini linguistici contenuti nelle norme

nella loro accezione più ristretta, mentre il secondo procederebbe

per “similitudine di rapporti”, creando, così, norme nuove.

Per quanto, però, si parli di “necessità” e di “similitudine” non

si riesce a delineare un criterio preciso di distinzione tra i due

procedimenti, o meglio, di determinazione del confine tra l’uno e

l’altro.

A ben guardare, però, quella che il giudice o comunque

l’interprete fanno nel collocare il caso entro la presunta “area di

significanza” ovvero nella “area di similarità” della norma non è

altro che un’operazione ermeneutica, dato che si risolve in un

“interpretare come è opportuno interpretare” il caso al fine di

attribuirgliene la regolamentazione. Operazione ermeneutica che,

però, si avvale di un ragionamento “di tipo analogico”,333

fondato su

“coincidenze e sovrapposizioni, o divergenze e sfasature” tra il caso

331

Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed.,

Milano, 1989, p.85; M. BOSCARELLI, Analogia e interpretazione estensiva nel

diritto penale, Palermo, 1955, p. 68 ss. 332

Così V. MANZINI, Trattato di diritto penale, Torino, 1982, I, p. 344. 333

Cfr. G. FINADACA- E. MUSCO, Diritto penale, Bologna, p. 103.

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129

da giudicare e quelli che sicuramente si possono far rientrare nella

norma.334

Ma allora, se quello che l’interprete deve svolgere è un

compito ermeneutico che si avvale di un ragionamento di tipo

analogico, è facile vedere come anche il procedimento di

interpretazione estensiva e quello dell’analogia, in realtà, vadano

coincidendo. E, sulla base di un comune operare “logico” nella

struttura aperta del linguaggio - anche normativo - sembrerebbe,

dunque, ben difficile individuare una netta linea di confine tra i due

procedimenti.

334

Cfr. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano,

1987, I, p. 45.

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130

10.2. Interpretazione e creazione: fisiologia e patologia ermeneutica

10.2.1. Insostenibilità di una distinzione qualitativa tra

integrazione e interpretazione sulla base dell’antitesi

creatività/dichiaratività. Analogia e interpretazione estensiva come

processo sostanzialmente unitario. Impossibilità di stabilire un

confine tra integrazione e interpretazione naturale e fondamentale.

Respinta l’ipotesi “quantitativa” come discretiva dei

procedimenti di interpretazione estensiva e di analogia, quella, cioè,

facente capo ad un criterio “fondato sulla maggiore o minore

ampiezza dell’ipotesi normativa implicita nella norma da

interpretare o estendere”,335

riferita, dunque, all’intrinseca struttura

del linguaggio normativo - come illustrato nel paragrafo precedente

- si affaccia in dottrina quella che è stata definita come la

“distinzione qualitativa”336

che vede contrapposte, in modo

paradigmatico ai processi di interpretazione estensiva e analogia, la

funzione prettamente interpretativa a quella più propriamente

integrativa dei precetti normativi. Si è così giunti a parlare di una

sorta di antitesi tra interpretazione in funzione “dichiarativa” e

interpretazione in funzione “creativa”, riconoscendo che, se pure

fosse possibile negare ogni distinzione tra la struttura logica dei

processi di interpretazione estensiva e analogia, non sarebbe,

nondimeno, possibile negarne una distinzione sulla base della

335

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353. 336

Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit.

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131

rispettiva funzione. E questo potrebbe essere un argomento a favore

della tesi che vogliamo sostenere.

Tuttavia, i punti di attrito che la detta partizione offre sono

almeno due. Da un lato si rende, comunque, necessario esplicitare il

confine tra la dichiaratività e la creatività del processo

interpretativo: quando l’interpretazione finisce di essere dichiarativa

e comincia, invece, a qualificarsi come creativa?

Non si pensi che questa sia una questione meramente

classificatoria: dalla scelta che si fa - per il carattere di creatività

ovvero di dichiaratività - in merito ad un’interpretazione discende,

secondo questa impostazione, l’ammissibilità o meno di tale

procedimento. Basti pensare al campo penalistico dove decidere se

una certa interpretazione è creativa o meramente dichiarativa

diventa non soltanto un fattore di qualificazione, ma legittimante

quella medesima interpretazione.

D’altro canto, un ulteriore punto debole della partizione

delineata è costituito dalla necessità di individuare e di intendersi

sul significato di quella che viene classificata come funzione

“dichiarativa” e, per contro, dell’attività più propriamente

“creativa”.

Dare ad un’applicazione analogica il carattere di

interpretazione ovvero di creazione si qualifica ben presto, in realtà,

come una “questione meramente verbale”, come la definiscono sia

Bobbio337

che Caiani.338

Infatti confinare un’interpretazione in un

ambito puramente dichiarativo significa disconoscere il carattere

stesso dell’interpretazione così come si è venuta delineando finora,

operante entro una “attività spirituale obbiettivata in una forma

rappresentativa”,339

quale è la norma interpretanda, e mai passibile,

invece, di essere ridotta a mera recezione di un contenuto

obbiettivato.

337

N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino,

1957, p. 604. 338

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 354. 339

Così L. CAIANI, op. loc. ult. cit.

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132

Anche Antolisei espunge dalla sua partizione

dell’interpretazione “rispetto ai risultati” quella che identifica come

interpretazione dichiarativa - contrapponendola all’interpretazione

restrittiva o estensiva - ma con una motivazione che, in realtà, prova

troppo. L’interpretazione dichiarativa può essere eliminata come

categoria, egli scrive, perché “l’interpretazione è sempre

dichiarativa, in quanto il suo scopo essenziale è di spiegare e,

quindi, dichiarare il senso della legge”.340

È chiaro che l’operazione concettuale sottesa a queste due

impostazioni, pur se diretta in entrambi i casi a espungere

dall’orizzonte ermeneutico la categoria della dichiaratività, procede

per vie decisamente antitetiche. Nell’impostazione di Antolisei,

infatti, si nega l’antitesi tra dichiarazione e creazione sostenendo

che l’antitesi non sussiste, dato che l’interpretazione è per

definizione dichiarativa. Nell’impostazione di Caiani, invece, si

nega la stessa antitesi affermando che l’interpretazione non può mai

ridursi a mera dichiarazione, essendo contenuta in ogni attività

interpretativa una componente creativa data da quella che definisce

la “collaborazione simpatetica”341

dell’interprete secondo i canoni

di “attualità dell’intendere” e di “spiritualità dell’interprete” come

insegnano le categorie bettiane.342

Sulla base di quanto si è venuto

sostenendo nei capitoli precedenti non si può che aderire a questa

seconda impostazione.

Emerge, dunque, la velleitarietà della distinzione “qualitativa”

tra interpretazione estensiva ed analogia sulla base della funzione

dichiarativa ovvero integrativa dell’interpretazione medesima

proprio perché viene a mancare la stessa categoria della

“dichiarazione”. Si fa strada, al contrario, l’impostazione che

riconosce in quella che si era delineata come un’antitesi - tra

interpretazione e integrazione, tra dichiarazione e creazione - un

340

F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed.,

Milano, 1989, p. 76. 341

L. CAIANI, op. loc. ult. cit. 342

Cfr. E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 10

ss.. Per l’approfondimento delle tesi di Betti sull’integratività e creatività

dell’interpretazione vedi infra.

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133

processo “fondamentalmente unitario”343

che non segna un confine

tra dove inizia la creazione e dove finisce la dichiarazione proprio in

virtù del fatto che “la stessa interpretazione è in questo senso

sempre integrazione del diritto”.344

Con queste precisazioni anche l’altro aspetto sottolineato,

quello della definizione di che cosa significhi, effettivamente, fare

attività di creazione, assume un connotato più preciso. “Se s’intende

“interpretazione” in senso ristretto, come mera ricognizione del

significato di una disposizione legislativa, si dirà che estendendo la

portata di una disposizione [...] non si compie opera

d’interpretazione, ma di creazione. Allo stesso modo, se s’intende

“creazione” in senso ristretto come produzione originale e originaria

di una norma giuridica, si dovrà dire che l’analogia non è creazione

perché giunge al proprio risultato partendo da una norma

precedentemente data”.345

Le parole di Bobbio esprimono in

maniera assai efficace come questa distinzione non sia che

“meramente verbale”, come detto, e come si riveli determinante

chiarire quale estensione assuma la stessa definizione di “creazione”

in ambito interpretativo per uscire dal circolo vizioso.

Se l’attività di creazione di una nuova norma, cui l’analogia -

contrariamente all’interpretazione estensiva - darebbe luogo,

consiste nella “produzione originale e originaria di una norma

giuridica” è chiaro che si viene, tuttavia, ad accostare il fenomeno

interpretativo a quello legislativo e, anzi, non si riesce più a

individuarne il discrimine. L’attività “creativa” del giudice-

interprete, pertanto, si verrebbe caratterizzando in due diversi modi,

così come li individua Caiani nella sua analisi.

343

Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit. 344

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 355.

345

N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino,

1957, p. 604-605.

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134

Da un lato si manifesterebbe in un’opera di “traduzione”346

della volizione astratta e tipica contenuta nella norma in una

volizione concreta e particolare del caso specifico: la creatività

emergerebbe proprio nel passaggio dalla fattispecie astratta a quella

concreta.

D’altro canto l’emanazione della sentenza che definisce

un’interpretazione come corretta costituirebbe il fulcro di tale

attività creativa, alla stregua di quanto accade per il fenomeno

normativo, sulla scorta della considerazione della sentenza,

appunto, come legge del caso particolare.

Come si può vedere, tuttavia, e come lo stesso Caiani non ha

mancato di osservare, entrambe le prospettive presentano i caratteri

della parzialità dovuta al fatto che l’attività interpretativa, per

quanto si è fin qui affermato, non è in sé né meramente dichiarativa,

né meramente creativa per cui l’accentuare esclusivamente sulla

creatività l’analisi del fenomeno ermeneutico non può che far

emergere le aporie che si presentano su questa via.

Per quanto concerne il secondo aspetto, quello che individua

l’attività creativa nell’applicazione giudiziale, è facile notare che se

si può accordare una qualche credibilità alla visione che riconosce

alla sentenza la caratteristica di legge del caso particolare, o di

“norma individuale”, come la definisce Kelsen,347

è tuttavia difficile

limitare il fenomeno interpretativo a quello che avviene in sede

giudiziale. Non si spiegherebbero, cioè, quelle che tradizionalmente

sono state classificate come interpretazioni dottrinali o scientifiche.

Non si spiegherebbe nemmeno, poi, il fenomeno già analizzato del

conflitto delle interpretazioni, se non come un costante conflitto

diremmo così “normativo” che giunge a scalfire lo stesso concetto

di positività e quindi anche di validità normativa. Senza parlare, in

346

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 355. 347

Cfr. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. a cura di

R. Treves, Milano, 1952, cap. XI.

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135

aggiunta, della necessità di stabilire un confine tra la fisiologia e

patologia della stessa creatività giudiziale.348

Respinta, quindi, per l’impostazione che si è data al concetto

di interpretazione, l’ipotesi “giudiziale” della creatività ermeneutica

rimane da analizzare il primo indirizzo, quello riferentesi al

processo di “traduzione” insito nell’atto interpretativo della norma

astratta in fattispecie concreta, momento in cui si rivelerebbe la

caratteristica creativa e in cui - si ricordi - sarebbe possibile,

giungere ad una distinzione tra il procedimento dell’interpretazione

estensiva e quello dell’analogia.

Ma se si riconosce carattere creativo nelle pieghe di questo

processo che sembra avvicinarsi troppo a quello della sussunzione

le osservazioni sono almeno due.

Da un lato, per le analisi fin qui condotte sul fenomeno

ermeneutico, si deve mantenere una certa distanza dall’adesione allo

schema della sussunzione,349

contro il quale lo stesso Betti ebbe ad

indirizzare la sua arguta critica, sostenendo350

che adottarlo fosse

proprio dei “fanatici del positivismo giuridico e della certezza delle

leggi” e non significasse che “seguire una concezione statica e

antistorica del diritto positivo”.

Dall’altro si può anche riconoscere il carattere di creatività al

processo - sia esso qualificabile o meno nello schema della

sussunzione - che collega il “caso” alla norma, ma allora questo non

è che lo svolgersi normale dell’atto di interpretazione, che diventa

integrativo della norma proprio perché, si potrebbe dire,

interpretativo, e nella misura in cui la interpreta o, per dirla con le

categorie bettiane, la attualizza, la intende nell’attualità.

Ma allora se, nel senso qui delineato, l’integratività

dell’interpretazione si spende nello stesso processo ermeneutico,

348

Cfr. G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ.,

1988, II, 168, nota 5; M.A. CATTANEO, Considerazioni sul significato

dell’espressione “i giudici creano diritto”, Atti del VII congresso della Società di

Filosofia Giuridica e Politica, Milano, 1966, vol II, p. 256 ss. 349

Sulla critica all’applicazione del diritto come pura sussunzione vedi

infra. 350

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 49.

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136

cade anche l’impostazione che tentava di distinguere tra

l’interpretazione estensiva e l’analogia sulla base della

dichiaratività, o quanto meno della non creatività, dell’una e, al

contrario, dell’integratività dell’altra, offrendo un ulteriore

appoggio alla tesi dell’equiparazione tra estensione ed analogia,

opposta a quella che vogliamo sostenere.

Si può allora evidenziare l’impossibilità di stabilire un confine

tra quella che si è definita come interpretazione “fondamentale” o

naturale351

e l’interpretazione analogica.

La prima consisterebbe in una “relazione tra la formula e il

contenuto normativo”,352

porterebbe alla conoscenza di ciò che il

dettato normativo immediatamente rappresenta e condurrebbe alla

ricognizione tanto degli effetti giuridici implicati dalla norma

quanto dei casi che condizionano tali effetti. L’interpretazione

fondamentale avrebbe, pertanto, carattere per così dire “finito” data,

appunto, la finitezza dei casi che nella ratio di una norma si

possono dire contemplati.

Al contrario l’interpretazione analogica sarebbe caratterizzata

da una conoscenza solo indiretta di ciò che la formula normativa

vale a rappresentare dato che arriverebbe a tale conoscenza non

mediante un’operazione ricognitiva ma logica, in grado, tra l’altro,

di estendersi in maniera “infinita”, data l’infinità dei casi che per la

ratio di una norma si possono dire contemplati.

Ma se, come si è venuto descrivendo, il processo

interpretativo non si esaurisce in una mera ricognizione né, d’altro

canto in una totale integrazione logica, si concorda anche sul fatto

che è, quello ermeneutico, e in particolare quello afferente il

procedimento analogico, un ragionamento di natura complessa. Si

potrà discutere sul fatto che esso sia, come lo definisce Bobbio,353

un ragionamento simile a quello entimematico, tuttavia si dovrà

351

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 354; M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in

Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 642. 352

M. BOSCARELLI, op. loc. ult. cit. 353

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, parte II,

cap II.

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convenire che, respinte le partizioni cui si è fatto cenno, emerge la

prepotenza di una sorta di “intuizione analogica”354

all’interno di

ogni approccio ermeneutico, tanto da giungere a concordare con

Höffding che ebbe a definire l’analogia come il Leitmotiv di ogni

ricerca giuridica.355

Resta da capire il perché.

354

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 357. 355

H. HÖFFDING, Der Begriff der Analogie, Leipzig, 1924, citato da L.

CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II,

Milano, 1958, p. 357.

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138

10.2.2. Da Carnelutti a Betti sulla distinzione auto-etero

integrazione; ricorso ai principi e auto (o etero?) integrazione.

Autopoiesi formale e materiale. L’adeguazione dell’intendere di

Betti. La chiarificazione, l’adattamento. La norma si adegua

automaticamente alle condizioni storiche evolvendosi con esse: si

modifica il contenuto della norma. Inoltre il mutare dei rapporti

sociali reagisce sull’originaria ratio iuris (Betti).

La dottrina ha tradizionalmente distinto, ma con

consapevolezza almeno a partire da Carnelutti,356

all’interno della

categoria ermeneutica che delinea il procedimento integrativo i

mezzi cosiddetti di “autointegrazione” da quelli di

“eterointegrazione”.

Fra i primi si sono compresi principalmente l’analogia e il

ricorso ai principi generali dell’ordinamento, qualificandoli come

“mezzi naturali di integrazione, [...] tratti dallo stesso ordinamento,

o meglio dalla sua intrinseca razionale capacità di sviluppo”.357

Non

avrebbe senso, per questi, nemmeno parlare di un rinvio da parte

dell’ordinamento, data la naturalità del ricorso ad essi.

Fra i secondi, al contrario, si sono compresi soprattutto la

consuetudine e il ricorso a norme provenienti da ordinamenti

giuridici diversi da quello vigente e per essi soltanto, perciò,

avrebbe un senso la posizione di un rinvio, trattandosi,

essenzialmente, di fonti di produzione diverse cui fare richiamo.

Altrove si è parlato, al contrario, di tecniche di integrazione

autopoietica,358

tra cui si comprende l’interpretazione estensiva, che

356

Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951,

pp. 86 ss. 357

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958, p.352. 358

Cfr. M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come

autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, 56.

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vedono il conflitto o la situazione sociale non contemplati dalla

previsione normativa essere sottoposti, comunque, a un “principio

di regolazione giuridica” e l’applicazione di un’estensione

interpretativa come un’opera di “ridislocazione di tale conflitto o

situazione da un sottoambito ad un altro”.359

Interessante in questo

inquadramento è il fatto che tanto l’analogia quanto

l’interpretazione estensiva vengono qualificate come forme di

autopoiesi materiale,360

in contrapposizione a quella che viene

definita autopoiesi formale e che qualifica la rinnovazione

normativa, cioè l’adeguamento ad una nuova realtà sociale o ad una

nuova esigenza di regolazione attraverso la posizione di una nuova

norma. Le tecniche di autopoiesi materiale, al contrario, non

vengono aggiungendo, secondo questa impostazione, nuove

rationes a quelle già esistenti nel sistema giuridico, ma si limitano

ad allargare quelle rationes già contemplate dal sistema. In tale

senso costituirebbero una fonte di autoriproduzione, per via

d’interpretazione, dell’ordinamento giuridico medesimo.

Anche Betti riconosce alle partizioni di Carnelutti un qualche

valore, soprattutto dove indica l’integrazione interpretativa, o

meglio il nesso tra interpretazione e integrazione come un nesso di

autointegrazione,361

tuttavia giunge a darne un taglio nuovo.

La “ricognizione contemplativa del significato proprio della

norma considerata nella sua astrattezza e generalità”362

non

costituisce che un momento dell’attività dell’interprete, cioè il

momento concernente quella che si è detta attività di

“chiarificazione”. Da questa chiarificazione parte il nesso, detto di

autointegrazione, con lo “sviluppo individualizzante”, negato dai

formalisti e da coloro che assumono l’attività giudiziale e in

particolare la sentenza come atto di volontà del giudice, il nesso,

cioè, con l’attualizzazione e l’adeguazione al presente

359

Cfr. M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come

autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, 56. 360

Cfr. M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come

autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, p. 59. 361

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., par. 11. 362

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 50 ss.

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140

interpretativo. Questo, che viene detto “sviluppo integrativo”363

opera, secondo Betti, mediante apprezzamenti o giudizi di valore, la

cui formazione è compito del criterio o intento assiologico.

La dimensione “autointegrativa”, pertanto, si sviluppa in

quanto lo stesso giudizio di valore viene definito come il

“riconoscimento di un valore che ci illumina e ci convince e che

riscontriamo nel dato fenomenico: è non pura Bekenntnis ma

Erkenntnis”,364

non tanto una dichiarazione quanto un processo

conoscitivo, gnoseologico.

Alla base del processo interpretativo vi è, secondo Betti, un

affidamento della dichiarazione normativa sulla cooperazione del

destinatario: essa pone in collaborazione l’interprete con lo spirito

che appare come l’”autore della dichiarazione” e, in quanto

collaborazione, l’interpretazione è necessariamente creazione.365

Il

problema che si pone è, dunque, relativo alla natura di tale

integrazione creativa: ha essa carattere di creazione originaria e

indipendente, o derivata? Ovvero: è quella interpretativa una

nomogenesi, una creazione libera, spontanea, e in quanto tale anche

arbitraria, oppure è subordinata alla totalità del sistema giuridico

come “organica concatenazione di norme e alle esigenze

dell’ambiente sociale”?366

“L’interpretazione rimane sempre soggetta alle valutazioni

immanenti e latenti nell’ordinamento giuridico inquadrato

nell’ambiente storico e sociologico in cui vive”, scrive Betti,367

e

questo conferisce un carattere subordinato e vincolato a quella che

definisce interpretazione integrativa. È la stessa attualità, secondo

Betti, a conferire il carattere creativo all’interpretazione, tanto che la

363

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, loc. ult. cit.

Sul punto si veda anche il contributo di A. DE GENNARO, L’ermeneutica idealista.

Filosofia politica neoidealistica italiana ed interpretazione, Napoli, 1993, che si

sofferma sulla critica gnoseologia della giurisprudenza di Angelo Ermanno

Cammarata, Sul pensiero di Widar Cesarini Sforza, sulla meta – interpretazione

di Tullio Ascarelli, l’humus su cui germoglierà il pensiero dell’autore camerte. 364

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, loc. ult. cit. 365

E. BETTI, ibidem, p. 132 ss. 366

E. BETTI, op. loc. ult. cit. 367

E. BETTI, op. loc. ult. cit.

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141

stessa norma ne risulta - contrariamente all’opinione di Sacco368

-

modificata.

Occorre tuttavia distinguere, secondo quanto viene sostenendo

il nostro autore, fra il piano della norma e quello della massima di

decisione che emerge dall’interpretazione giudiziale. Il fatto che la

sentenza, decidendo il caso particolare, venga delineando anche una

massima di decisione non deve, infatti, confondere né con il

fenomeno propriamente legislativo, come si è sopra evidenziato, né,

tuttavia, con un’operazione meramente contabile, da

amministratore, come si è avuto modo di osservare.369

Betti segnala, perciò, la necessità di tenere inconfusi

nell’interpretazione giudiziale quelli che definisce “il profilo

ermeneutico di attività spirituale ricognitiva dal profilo giuridico di

attività normativa”.370

Il primo, in quanto attività “spirituale” si

manifesta sì, secondo Betti, come attività creativa, inventiva, ma

con i caratteri della subordinazione, del vincolo a una “oggettività

irriducibile”371

data dalla norma interpretanda all’interno del

contesto giuridico in cui si trova inserita.

368 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 140.

369Vedi infra §. 1.2.1

370 E. BETTI, op. loc. ult. cit.

371 E. BETTI, op. loc. ult. cit. Ci sembra che in questo modo Betti intenda

ricucire tendenze opposte che avevano lacerato il dibattito giuridico europeo delle

generazione a lui precedente. In Francia, per es. Mornet e Cruet affermano che

l’interprete non è sempre vincolato alla lettera della legge, nè deve darle il

contenuto voluto dal legislatore quando l’una e l’altro non corrispondono alle

esigenze reali della vita moderna. D. MORNET, Du rôle et des droits de la

jurisprudence en matière civile, Paris, 1904; J. CRUET, La vie du droit et

l’impuissance des lois, Paris, 1908, citati in F. DEGNI, L’interpretazione della

legge, Napoli, 1909, p. 186. Non si possono dimenticare posizioni estreme, come

nella stessa Francia, per opera del celebre primo presidente del tribunale di

Château-Thierry, il giudice Magnaud, che conduce il diritto libero ai suoi ultimi

termini, in quanto, non curandosi affatto di disposizioni tassative di legge, quando

contrastano col suo temperamento o con le sue idee politico-sociali nega ad esse

qualunque valore, applicando, invece, un diritto che è perfettamente in antitesi

con quello che la legislazione positiva ha riconosciuto. Così l’ottimo F. DEGNI,

L’interpretazione della legge cit., p. 187. Si veda anche N. BOBBIO, Teoria

dell’ordinamento cit., p. 140. Fra i giuristi tedeschi, si possono ricordare lo

Stammler, che vuole che il giudice non sia schiavo della legge, ma, nei singoli

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142

Emerge chiaramente, da questa impostazione, che precisa

meglio i caratteri della creatività giudiziale e dell’attività

ermeneutica, come ancora una volta si debba giungere a negare una

distinzione tra i procedimenti di interpretazione estensiva e di

analogia, se non altro sulla base della tradizionale partizione

appellantesi alla presenza o meno del dato creativo e della forza di

integrazione del precetto normativo fornita dal procedimento

ermeneutico.

Significativa è anche la sottolineatura che Betti fa in merito

agli strumenti cosiddetti di eterointegrazione cui si è fatto più

indietro cenno.

L’esigenza di eterointegrazione si manifesta, secondo Betti372

negli “apprezzamenti secondo equità”, in un’ampia valutazione

morale dei precetti normativi e in una sorta di “raddrizzamento”, di

correzione dei medesimi alla luce di tali apprezzamenti. Questa

operazione, tuttavia, non è condotta, secondo Betti, sulla scorta del

mero senso giuridico del giudice bensì mediante l’uso degli

“strumenti” di eterointegrazione tra cui emergono i principi generali

del diritto.

Ai principi generali significativamente Betti attribuisce, anzi,

una forza di espansione non meramente logica, quanto assiologica.

Per tale via giunge, dunque, a risolvere la vexata quaestio relativa

all’inserimento del ricorso ai principi generali tra i mezzi di

autointegrazione ovvero di eterointegrazione: il dato assiologico che

casi, indaghi qual è il diritto giusto (gerechtes Recht), il diritto secondo giustizia,

che ha esigenze del tutto diverse, in molti casi del tutto opposte, da quelle che,

nella società moderna, il diritto dello Stato può soddisfare; lo Stampe, che,

combattendo l’analogia e le costruzioni giuridiche, sostiene che, accanto al diritto

statale, deve affermarsi e aver vigore il diritto libero, che corrisponde agli

interessi reali della vita e che il giudice deve indagare liberamente, valutando,

come farebbe il legislatore, i diversi interessi da soddisfare (interessenwägung),

sino al punto che, in casi estremi, quando la legge non si trova d’accordo con le

esigenze pratiche, il giudice può sentirsi autorizzato a disapplicarla. R.

STAMMLER, Die Lehre von dem richtigen Rechte, Berlin - Leipzig 1902; E.

STAMPE, Rechtsfindung durch Konstruktion, in Deutsche Iuristen-Zeitung, 1905,

p. 417, citati in F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 189. 372

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 144.

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143

li caratterizza li pone, perciò, sul confine tra l’una e l’altra

categoria.

Interpretare, secondo questa visione, non è, dunque,

solamente tornare a conoscere una proposizione normativa, ma

integrarla e realizzarla nella vita di relazione373

e in questa

prospettiva, allora, si spende anche il canone dell’adeguazione

dell’intendere374

cui sovente Betti fa cenno.

È opportuno sottolineare ancora una volta, tuttavia, che data la

razionalità di una norma, cioè individuata una correlazione tra il

contenuto e la ratio legis, l’attualizzazione della norma non

avviene, secondo l’impostazione bettiana, attraverso la posizione di

una nuova norma, bensì è la stessa norma che automaticamente si

adegua alle condizioni storiche evolvendosi con esse,375

cosicché lo

stesso contenuto della norma viene ad essere mutato e, come lo

stesso Betti scrive, “il mutarsi dei rapporti sociali reagisce [anche]

sull’originaria ratio iuris”.376

Ma se questo adattamento non è altro che l’interpretazione

evolutiva, l’antitesi interpretazione-integrazione può avere ancora

una qualche validità solo nell’ambito dell’autopoiesi formale, cioè

nella creazione di una nuova norma ad opera degli organi legislativi

competenti e non nell’ambito della funzione ricognitiva.

Nell’adattamento ricognitivo, che si avvale di quella che si è

definita come intuizione analogica, viene a giocarsi

l’attualizzazione medesima, cosicché viene confermata ancora una

volta la natura interpretativa dell’analogia377

- desumibile proprio

dalla funzione ricognitiva - e l’apparente impossibilità di

373

G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio

Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 786. 374

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 276; E. BETTI,

Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 56 ss. 375

Ne dà questa interpretazione M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in

Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 645. 376

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 62.

377

Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 646.

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distinguerla, per questa via, dal procedimento di interpretazione

estensiva.

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145

10.2.3. Attualità nella giurisprudenza sulla dichiaratività-

creatività. Il problema della “falsa applicazione” delle norme. La

Corte costituzionale e la sua vocazione paralegislativa nel rapporto

integrazione-creazione-interpretazione. La nomofilachia come

diretta espressione del principio di uguaglianza (uniforme

interpretazione della legge). Libera ricerca del diritto. Law in

action, law in public action. Tesi: possibilità di intendere

l’interpretazione estensiva e l’analogia come raccordo tra statute

law e common law

Le teorizzazioni in merito alla dichiaratività o creatività dei

procedimenti interpretativi hanno, evidentemente, influenzato anche

le decisioni giurisprudenziali nonostante il panorama giudiziale

presenti una certa eterogeneità. Sicuramente prevalente è

l’impostazione tradizionale, tesa a distinguere l’interpretazione

estensiva dall’analogia sulla base proprio del carattere non

integrativo della prima rispetto alla seconda.

Si evidenzia, invece, più che per l’originalità della posizione,

per il tipo di critiche cui ha dato luogo una sentenza della

Cassazione civile del 1959, annotata da Laserra.378

La sentenza

stabiliva l’ammissibilità dell’interpretazione estensiva,

contrariamente a quella analogica, in materia di leggi tributarie,

consentendo la ricomprensione nelle norme concernenti benefici

fiscali379

di tutti i casi a cui le norme stesse si potessero riferire,

“nella lettera e nello spirito”. Laserra nota come la sentenza

378

Cassazione civile, I sezione, 9.8.1959 n. 2500, in Giur. it., 1961, I, 1,

101 e ss., con nota di G. LASERRA. 379

Nella fattispecie concreta si trattava di estendere benefici fiscali

concessi all’Opera Nazionale Dopolavoro anche all’Ente Nazionale Assistenza

Lavoratori, succeduto a tutti gli effetti all’O.N.D, nonché ai Circoli Ricreativi

Assistenza Lavoratori che, in base a sentenza, si sosteneva avere sostituito i

dopolavoro comunali e aziendali.

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146

nasconda tra le sue pieghe un’impostazione triadica in merito

all’attività interpretativa. Da un lato sarebbe posta l’interpretazione

dichiarativa o non elaborante, contrapposta, dall’altro,

all’interpretazione analogica: tra queste starebbe un tertium genus

dato dalla vera e propria interpretazione estensiva. Quest’ultima,

poi, si differenzierebbe dall’interpretazione dichiarativa per una sua

“maggiore latitudine di indagini e risultati”380

mentre, al tempo

stesso, finirebbe per coincidervi in antitesi all’interpretazione

analogica per essere questa soggetta - diversamente

dall’interpretazione dichiarativa ed estensiva - a generalità

indiscriminata di applicazione.

Laserra critica questa tripartizione ricavabile dalla sentenza

finendo, però, per riconoscere, al contrario, una bipartizione tra

interpretazione dichiarativa o non elaborante, che resta nell’ambito

della norma, e interpretazione elaborante, che esce dal “tema” della

norma stessa, o, come la definisce, dalla suità normativa.381

Viene

subito precisando, tuttavia, che, in realtà, la categoria

dell’interpretazione estensiva tende a perdere rilevanza autonoma,

dato che finisce per coincidere con l’analogia382

e che

380

Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, in Giur. it.,

1961, I, 1, 102. 381

Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, cit., p. 103. 382

Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, cit., p., 103.

Al contrario, la distinzione può rivelarsi utile in pratica. Lo stesso tema della

nostra ricerca muove dall’osservazione di come molto spesso i giudici, laddove la

normativa non sia suscettibile di applicazione analogica, ricorrono, per operare

ugualmente l’estensione, all’interpretazione estensiva. Per es., in tema di

assicurazione contro le malattie professionali, si dice che “le elencazioni

contenute nelle indicate tabelle ( ex art. 3 del d. P. R. 30 giugno 1965 n. 1124)

hanno carattere tassativo, ma ciò se vieta l’applicazione analogica delle relative

previsioni (presunzione a favore dell’assicurato di eziologia professionale), non è

di ostacolo ad un’interpretazione estensiva della medesima, con la conseguenza

che la suddetta presunzione è invocabile anche per lavorazioni non espressamente

previste nelle tabelle, ma da ritenersi in esse implicitamente incluse, alla stregua

dell’identità dei loro connotati essenziali, ferma restando l’inapplicabilità della

presunzione stessa per lavorazioni che presentino solo caratteri di mera

somiglianza o prossimità con quelle tabellate. Nella specie, la sentenza

impugnata, confermata dalla S. C., aveva escluso che potesse rientrare nella

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l’interpretazione dichiarativa, o non elaborante, finisce per non

essere altro che l’interpretazione non delle mere parole della norma

- ché, altrimenti, si ridurrebbe a interpretazione letterale - ma del

“problema pratico” della formula legislativa.

Laserra dichiara esplicitamente di rifarsi alle tesi di Betti, ma

che cosa significhi, secondo la sua impostazione, venire

interpretando codesto problema pratico della norma reswta tutto da

chiarire.

valutazione tabellata “prove di motori a scoppio” di cui all’allegato 4 del d. P. R.

n. 1124 del 1965, nel testo sostituito dal d. P. R. n. 482 del 1975, l’attività di

conducente di autobus di città con motore diesel. Cass. Civ. sez. lav., 15/4/1994,

n. 3556. In tal senso, Consiglio di Stato sez. V, sent. 14/10/1992 n.987: “La

tassatività dell’elencazione legislativa (lg. 28/1/1977 n. 10, art. 9) dei casi di

concessione edilizia gratuita non esclude la possibilità di individuare una regola

generalmente applicabile, attraverso un’interpretazione anche estensiva delle

norme che escludono per certe opere la onerosità della concessione”. Per

l’equiparazione, T.A.R. Lazio sez. II, sent. 20/12/1983 n. 1269: “Non è possibile

un’interpretazione estensiva e/o analogica della normativa posta dall’art. 8 l. 25

marzo 1982 n. 94, che ha introdotto la procedura del silenzio-assenso in tema di

concessione edilizia, stante il carattere derogatorio ed eccezionale di tali

disposizioni rispetto all’intero sistema ordinamentale urbanistico-edilizio, che

presuppone il rilascio di un esplicito formale atto di concessione per l’esecuzione

di opere edilizie”.

In senso contrario all’identificazione tra analogia e interpretazione

estensiva, si veda Cass. Civ., sez. lav., sent. 18/3/1981 n. 1800: “Per le

disposizioni di diritto singolare, è vietata (ex art. 14 Prel.) soltanto la

interpretazione analogica, mentre è consentita quella estensiva; ma neppure a

quest’ultima può farsi luogo se la ratio legis non persuada che il legislatore ebbe

in mente di estendere il suo precetto a casi apparentemente non contemplati. (Il

principio è stato affermato nella specie per escludere l’applicabilità -in via

analogica o d’interpretazione estensiva- al rapporto di lavoro privato della

legislazione in materia di pubblico impiego).

Così anche Cass. pen., sez. V, sent. 8/1/1980 ove si afferma che

“l’interpretazione estensiva, che non va confusa con l’estensione analogica, in via

di principio vietata in materia penale (art. 14 Prel. e art. 1 c. p.), si ha quando

l’ambito di applicazione di una norma penale viene esteso ad un caso che, pur

non essendo espressamente ivi previsto, si deve ritenere compreso nella norma

stessa risalendo all’intenzione del legislatore”.

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148

Anche la famosa sentenza della Cassazione civile del 1949,383

commentata da Bobbio, afferma che il giudizio che si avvale

dell’analogia non crea la norma giuridica ma “la trova nella

legislazione positiva e se ne avvale per la somiglianza dei due casi

che meritano un conforme regolamento”. Si avalla, cioè, la tesi

secondo cui non è il carattere creativo o meno del procedimento a

differenziare l’analogia dall’interpretazione estensiva anche se,

tuttavia, rimane scoperto il fianco all’obiezione secondo cui non

sarebbe la creazione, ma l’integrazione il carattere differenziatore.

Significativa per delineare il percorso giurisprudenziale in

merito alla dichiaratività o alla creatività dell’interpretazione e per

chiarire anche meglio il punto lasciato scoperto dalla sentenza

commentata da Bobbio rimane, comunque, la già citata sentenza

della Cassazione penale del 1983384

che, ponendo l’accento

sull’oggettivizzarsi della norma al momento della sua entrata in

vigore, impone un’interpretazione attualizzante, escludendo, perciò,

esplicitamente, in questa operazione, tanto l’interpretazione

estensiva quanto l’analogia. Il fatto di dover interpretare la norma

secondo il riferimento alla situazione esistente al momento della sua

applicazione fa sì che la “nuova fattispecie” rientri direttamente

nella previsione della norma, in particolare, come dice la sentenza,

nel suo “significato letterale e logico” cosicché, come si è venuti

esprimendo, è la stessa interpretazione a “modificare” la norma.

Queste posizioni, che in parte riflettono il dibattito dottrinale

intorno alla creatività giudiziale e alla sua ammissibilità, debbono

essere tenute presenti nell’accostarsi alla problematica della “falsa

applicazione” delle norme di diritto.

È noto, infatti, come tra i motivi della ricorribilità in

Cassazione vi sia la violazione o falsa applicazione delle norme di

diritto, nel giudizio civile (art. 360 n. 3 c.p.c.), cui si avvicina

l’erronea applicazione della legge penale nel giudizio penale (art.

606, lettera b)). L’analisi approfondita del significato di questi

383

Cassazione civile, sez. II, 14.7.1949 n. 1801 in Giur. it. 1951, I, I, 229-

232; vedi supra § 3.3.1 384

Cassazione penale, sez. V, 12.10.1982 in Giust. pen. 1983, II, 633; vedi

amplius supra § 2.4.2.

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articoli porterebbe troppo lontano rispetto al compito che ci siamo

proposti. Non deve, tuttavia, essere perso di vista l’orizzonte entro

cui, nel nostro ordinamento, si muove l’interpretazione giudiziale né

si debbono dimenticare i risvolti processuali cui questa o quella

interpretazione può dare luogo.

Significativo è, perciò, notare come tradizionalmente con

l’espressione “violazione di una norma” si sia indicata

l’interpretazione non combaciante con il “vero contenuto” della

norma mentre con la “falsa o erronea applicazione” si sia indicato il

travisamento del fatto e la sua riconduzione a una norma anziché ad

un’altra.385

Ciò significa che, al di là degli aspetti processualistici, si

è avallato il concetto di sussunzione e, quindi, ci si è spostati

sempre più vicini all’idea di interpretazione non elaborante in nome,

probabilmente, della vagheggiata certezza della legge.

Ma se la Cassazione è coinvolta nel procedimento

interpretativo proprio perché a quest’organo si può ricorrere in caso

di falsa interpretazione, non si deve dimenticare che il massimo

grado di creatività giudiziale si spende proprio grazie ai

“precedenti” stabiliti dalle sentenze della Cassazione.

Storiche, in questo senso, sono due sentenza della stessa corte

del 1983. Con la prima386

si stabilì il fondamentale principio

secondo cui il giudice di merito attende all’obbligo di motivazione

delle sentenze ai sensi dell’art. 132 n. 4 c.p.c. anche soltanto con il

“mero riferimento alla giurisprudenza della Cassazione”.

Con la seconda387

si completò dicendo che il giudice di

merito, pur essendo libero di non adeguarsi alle decisioni di altri

organi giudicanti e nemmeno della stessa Cassazione, tuttavia ha

l’obbligo, in tale caso, di “addurre ragioni congrue, convincenti a

contestare e a fare venire meno l’attendibilità dell’indirizzo

interpretativo rifiutato”. In pratica si stabilì che anche nel nostro

ordinamento le interpretazioni della Cassazione hanno valore di

385

Cfr. S. SATTA- C. PUNZI, Diritto processuale civile, Padova 1994, p.

536. 386

Cassazione civile, 13.5.1983 n. 3275 in Mass. Foro it., 1983.

387

Cassazione civile, 3.12.1983 n. 7248 in Mass. Foro it., 1983.

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precedenti con una sorta di presunzione di conformità iuris tantum:

chi intenda discostarsene ha l’obbligo di dimostrare la fondatezza

del rifiuto. Significativo è aggiungere, a questo proposito, che tale

ultima sentenza andava contro una precedente sentenza del 1980388

che, essendo qualificabili come viziati i motivi della decisione solo

in relazione alla concreta fattispecie, e non perché in contrasto con

motivi addotti in “decisioni riguardanti fattispecie analoghe, simili,

o addirittura identiche”, il giudice non era tenuto a dimostrare, nella

motivazione della sua decisione, la “infondatezza o la non

pertinenza della giurisprudenza eventualmente difforme”.

Decidere per l’una o l’altra affermazione della Cassazione,

come si può vedere, non è neutrale in merito al problema

dell’interpretazione dato che significa anche dare credito o meno

all’ipotesi di creatività giudiziale interpretativa ovvero di rincorrere

un’ipotesi di référé legislatif - luogo dell’emarginazione per

eccellenza dei rimedi cosiddetti di autointegrazione - che pareva

ormai sepolta nelle pieghe della storia.

Una svolta in grado di salvare la vitalità interpretativa e allo

stesso tempo la perenne ansia di certezza giuridica sembra essere

offerta dalla Corte costituzionale, organo sovente accusato di

arrogarsi funzioni interpretative non proprie e, per questo, di avere

addirittura assunto poteri paralegislativi.389

La sentenza del 1986390

chiarisce che la constatazione che la

giurisprudenza in ordine all’interpretazione di una norma non sia

consolidata “al punto da rappresentare diritto vivente” non toglie

alla Corte il potere di esaminare la costituzionalità della norma

lasciando aperta la possibilità di “altre interpretazioni” quando non

sottoposte al vaglio di costituzionalità. Ossia, leggendo a contrariis,

quando un’interpretazione è divenuta diritto vivente non c’è spazio

per la posizione ermeneutica dell’organo della Consulta perché,

388

Cassazione civile, 17.3.1980 n. 1772 in Mass. Foro it., 1983. 389

Sul fenomeno che è stato definito di supplenza legislativa ad opera dei

giudici cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano,

1984, p. 211 e ss. 390

Corte Costituzionale, 3.3.1986 n. 42 in Giur. cost. 1986, I, 330.

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quasi, è il diritto stesso ad avere dato di sé la propria

interpretazione.

È la Corte di Cassazione, lo dice una sentenza della Corte

costituzionale,391

ad avere funzione di nomofilachia e ciò, se da un

lato può costituire un’ammissione di supplenza legislativa da parte

della Suprema Corte, dall’altro lascia anche aperto il campo a colpi

di mano ermeneutici392

che scavalcano gli ordinari mezzi di

integrazione normativa - come l’analogia e l’interpretazione

estensiva - e giungono così, surrettiziamente, a introdurre

orientamenti e interpretazioni.

Una sentenza della Cassazione penale393

precisa come

l’uniforme interpretazione della legge significhi, in realtà,

uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge, e quindi

la funzione nomofilattica sia espressione di un principio

costituzionalmente stabilito. Funzione, questa, affidata a ciascuna

delle singole sezioni di Cassazione.

Significativa, tuttavia, è la precisazione che segue: la

pronuncia delle Sezioni Unite, cui si fa ricorso per porre fine a

incertezze interpretative a seguito di contrasti giurisprudenziali,

costituisce “una sorta di annuncio implicito di giurisprudenza futura

determinante affidamento per gli utenti della giustizia in generale e

per il cittadino in particolare”. In tali ipotesi, prosegue la sentenza,

“la funzione nomofilattica ha un peso dominante su altri valori”.

È evidente il rilievo delle affermazioni contenute in tale

sentenza anche ai fini del nostro discorso: riconoscere alla

pronuncia delle Sezioni Unite il valore di annuncio implicito di

giurisprudenza futura tocca l’autonomia dell’interprete e viene

anche ad assegnare alle pronunce della Suprema Corte un valore

pari a quello di interpretazione autentica.

Attribuire, poi, il crisma dell’idoneità a suscitare un legittimo

affidamento negli “utenti della giustizia” a tali pronunce significa

che si ammette che il cittadino-utente, lungi dal poter contare sui

391

Corte costituzionale 20.3.1985 n. 73 in Riv. amm. R.I. 1985, 738. 392

G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ. 1988, II,

p. 180. 393

Cassazione penale sez. III, 23.2.1994 in Giust. pen. 1995, II, 159.

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canoni dell’adeguazione dell’intendere, sul farsi

dell’interpretazione, deve rimettersi, come ultima parola, alla

Suprema Corte, la cui capacità di far coincidere l’evoluzione sociale

con l’evoluzione ermeneutica è aprioristicamente data per certa.

Assegnare, infine, al giudizio delle Sezioni Unite un peso

dominante sugli altri valori giuridici ed ermeneutici non può non far

discutere sul senso, allora, da attribuire ai procedimenti

interpretativi dell’interpretazione estensiva e dell’analogia. Quale

valore dare a questi strumenti se, comunque, il peso dominante è

dato dalla decisione della Suprema Corte?

Sembrerebbe doversi legittimamente, perciò, affermare che

tali strumenti vengano operando solo laddove la Cassazione non sia

giunta con una sua pronuncia. “Se una controversia non può essere

decisa secondo una precisa disposizione” - come recita l’art. 12 -

non significherebbe altro, allora, che “se le Sezioni Unite della

Cassazione non si sono ancora pronunciate”.

Come si può intuire queste conclusioni, in realtà, provano

troppo, cosicché quella della funzione nomofilattica non è che un

ennesimo tentativo di rincorrere, per via del ricorso ad un organo

superiore che abbia la parola definitiva sulle varie interpretazioni, la

certezza e uniformità ermeneutica. Del resto la stessa

contraddittorietà tra pronunce della stessa Cassazione, fenomeno

non certo peregrino, non può che confermare che, se intesa secondo

l’impostazione data dalla sentenza della Suprema Corte qui

analizzata, il ruolo che si vuole attribuire a quest’organo si rivela

come quello di un “custode troppo timido di una difficile unità della

interpretazione”.394

Si potrebbe pensare che questo rinnegare il ruolo uniformante

della Suprema Corte significhi dare credito alla Freie Rechtsfindung

e avallare la discontinuità del diritto e nel diritto come regola. In

verità nemmeno le teorie antiformalistiche della scuola del diritto

libero hanno mai cercato di sostenere un potere dei giudici talmente

svincolato dal dato normativo da esaltare la creatività

394

Cfr. G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ.,

1988, II, p. 184.

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giurisprudenziale al punto da ammetterla non solo intra et praeter

legem ma addirittura contra legem.395

“L’interesse principale dell’ermeneutica si dirige a conservare

e ampliare l’intersoggettività”,396

scriveva Habermas, ad un

“controllo di razionalità di tipo intersoggettivo”. La creatività

giudiziale, pertanto, si spende sì come law in action, come tendenza

a combaciare, sul piano teorico, con il dato evolutivo di un diritto in

fieri, ma anche come law in public action, come sviluppo, cioè,

delle istanze ermeneutiche date dal vivere sociale, da quella

“comunità giuridica” cui già si è fatto cenno.397

Viste in questa prospettiva, pertanto, l’interpretazione

estensiva e l’analogia potrebbero costituire un punto di raccordo tra

statute law e common law grazie alla contiguità, cui darebbero

luogo, tra l’allargamento per via analogica del senso della norma e

il reasoning from case to case tipico della tradizione anglosassone.

In realtà lo stesso Betti sembra mettere in guardia

dall’equivoco di questo accostamento, sottolineando come il

processo euristico volto a trovare il diritto nei precedenti non si

debba qualificare come interpretazione.

Betti chiarisce come esistano sì delle identità date dal comune

approdo ad uno sviluppo analogico del precetto ma, tuttavia, sia

necessario distinguere tra il processo interpretativo di testi

legislativi e il procedimento euristico di ricerca di un principio da

decisioni giurisprudenziali dotate di autorità. “Solo colà dove una

decisione o una giurisprudenza uniforme non fa altro che fissare una

regola o massima per un tipo definito di situazione di fatto”,

aggiunge Betti, “il processo logico sembra comparabile alla tecnica

di ritrovare una massima di decisione in un testo scritto”. 398

395 Cfr. G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ.,

1988, II, p. 171-172. 396

J. HABERMAS, Erkenntnis und Interesse, in Teknik und Wissenschaft als

Ideologie, Frankfurt, 1968, p. 158; citato da G. ZACCARIA, L’apporto

dell’ermeneutica alla teoria contemporanea, in Riv. dir. civ. 1989, I, 348.

397

Vedi supra § 1.3.2. 398

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 127

nota 91.

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10.2.4. L’eccedenza assiologica delle norme e il consenso

sociale alla base del rapporto tra interpretazione estensiva e

analogia. Negazione di una neutralità assiologica; rifiuto

dell’applicazione del diritto come pura sussunzione. Norma come

rappresentazione e come valutazione secondo criteri assiologici di

plausibilità e ragionevolezza in Betti. Spazio nelle norme per gli

orizzonti di attese collettive e il consenso sociale

Di fronte all’analisi fin qui condotta, passata attraverso la

critica alla configurabilità di un sistema prossimo a quello

anglosassone avvalentesi delle tecniche di sviluppo analogico, non

si può non ricercare, respinte le ipotesi anzidette, un criterio tramite

cui non solo distinguere gli strumenti dell’interpretazione estensiva

e dell’analogia, ma anche rifuggire la completa arbitrarietà delle

interpretazioni e delle applicazioni giudiziali.

Non può non tornare, a questo punto, il discorso sul rapporto

tra la norma e l’interprete e sulla cosiddetta neutralità

dell’interprete.

I tentativi di negare la necessaria neutralità dell’interprete

sono, tuttavia, sovente caduti nell’eccesso opposto di avallare una

giustizia politicizzata399

nella sua accezione più deteriore che va a

scadere nell’arbitrio giudiziario. Si è addirittura teorizzato un diritto

alternativo,400

definito da alcuni come un “diritto politicizzato al

servizio di interessi di classe”401

confinante, come si può capire, con

il diritto asservito all’ideologia.

399

Cfr.F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano,

1984, p. 207 e ss. 400

Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di

Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 781; F. GENTILE, Intelligenza politica e

ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 209. 401

Cfr. L. MENGONI, Ancora sul metodo giuridico, in Riv. trim.dir civ.,

1983, p. 321.

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Per sostenere quest’idea si è anche fatto perno sul rifiuto della

categoria - ormai bandita - della sussunzione, basato sulla crisi del

concetto stesso di applicazione del diritto come procedimento

sillogistico, come tecnica mediante cui sussumere, appunto, il caso

concreto entro una fattispecie astratta.402

Betti riconosce l’esigenza di neutralità ermeneutica

intendendola come un divieto imposto all’interprete di “risalire ad

istanze metagiuridiche, etiche, religiose, sociali o economiche,

secondo preferenze sue personali”403

e, al contrario, lo vincola alle

“valutazioni normative che determinano la disciplina positiva dei

rapporti e sono immanenti all’ordine giuridico”.404

Pone anche tra i

canoni presupposti dell’intendere ermeneutico, o meglio gli

“atteggiamenti metateoretici preliminari al processo

interpretativo”405

, l’abnegazione di sé dell’interprete che, pur dal

sapore vagamente romantico, racchiude il rapporto dialettico tra la

soggettività dell’interprete e l’oggettività della norma.

Un tentativo di sfuggire all’alternativa viene cercato tramite

l’approdo all’idea di una struttura precostituita del comprendere, di

una precomprensione secondo il concetto proposto in maniera

efficace soprattutto a partire dalle teorizzazioni di Esser.406

Su

questa impostazione Betti entra in polemica con Gadamer che non

riesce a convincerlo che “la precomprensione non è un concetto

metodologico ma ontologico”407

e la rigetta apparendogli come una

manifestazione di esasperato soggettivismo che conduce a una

“perdita irreparabile dell’oggettività”.408

402

Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di

Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 781. 403

E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 795. 404

E. BETTI, op. loc. ult. cit. 405

E. BETTI, op. ult. cit., p. 269 ss. 406

Cfr. J. ESSER, Vorverständnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung,

trad. it. di S. Patti e G. Zaccaria col titolo Precomprensione e scelta del metodo

nel processo di individuazione del diritto, Napoli, 1983. 407

G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed., 1972,

tr. It. (sulla II ed., 1965) a cura di G. Vattimo, p. 484 nota 2. 408

L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni

fiorentini n. 7, 1978, p. 132.

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157

Ad essa oppone nella sua metodologia ermeneutica la

funzione normativa dell’interpretazione, recuperando la tematica del

condizionamento storico dell’interprete e del suo ruolo di

mediazione attraverso l’accentuazione dei canoni dell’attualità e

dell’adeguazione dell’intendere e la presentazione del concetto di

drammatizzazione da parte dell’interprete.

Betti sostiene, infatti, che se l’interpretazione ha funzione

normativa, di un intendere per agire, è necessaria da parte

dell’interprete una drammatizzazione,409

un “tuffo nell’azione”,410

quella rappresentazione - la realization anglosassone - dei risvolti

pratici e degli esiti dell’interpretazione, della realtà da interpretare

secondo il delineato concetto di dogmatica.

La dogmatica di Betti, tuttavia, è “rappresentazione

concettuale del fenomeno giuridico nell’indirizzo di valutazioni

normative”,411

non prescinde, cioè, dalle valutazioni immanenti al

sistema e, quindi, dal dato assiologico, ma, anzi, riconosce

l’immanenza nella norma da interpretare di un elemento

“emozionale”, o più precisamente, “valutativo e assiologico.”412

Non è più sufficiente, cioè, il ricorso a canoni logici o

gnoseologici di interpretazione, essendo necessario il ricorso a

criteri assiologici quanto meno di “plausibilità e ragionevolezza”.413

Betti, ponendo l’accento sul dato assiologico come criterio

principe dell’ermeneutica si pone anche al riparo dalla critica di

aprire il varco ad una pericolosa discrezionalità giudiziale. Questa

critica non è giustificata, spiega l’autore, giacché “l’apprezzamento

interpretativo rimane pur sempre vincolato e subordinato alla linea

409

E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 803 ss. 410

Così la definisce G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria

ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 794. 411

E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 813. 412

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 102

ss. 413

Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di

Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 794.

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di coerenza logica e assiologica che si dimostra immanente

all’ordine giuridico considerato nella sua organica totalità”.414

Nella “perenne dialettica tra eternità di valori e contingenza di

situazioni storiche”415

Betti delinea, pertanto, una sorta di eccedenza

di contenuto deontologico nei principi sottesi alle norme e, quindi,

indirettamente, alle norme stesse cosicché l’interprete è chiamato a

414

E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 822. E’ la

premessa, che Donati pone come indiscutibile, che Pedrali-Noy nega: cioè che il

dato della volontà legislativa si abbia solo nella volontà espressa nella norma, che

la volontà legislativa risulti solo dalla sua materiale espressione, perchè essa non

risulta dalla lettera, ma anche dallo spirito della legge. Se si toglie questa

premessa, il ragionamento che fa Donati non può più reggere. Risorge invece il

vero concetto del processo analogico, sia pure tradizionale, che Donati stesso

espone in una nota (Cfr. D. DONATI, Il problema delle lacune dell’ordinamento

giuridico, Milano, 1910, p. 49); cioè il processo analogico non si fa in base ad

una norma stabilita per il caso particolarmente considerato, ma ad una norma più

ampia della norma indicata, comprendente ad un tempo il caso particolarmente

considerato ed il caso non particolarmente considerato ad esso analogo. Ma

questo per Donati significa svisare completamente il carattere dell’analogia,

perchè se la volontà legislativa che si applica nella decisione per analogia è una

volontà più ampia che si ricostruisce logicamente da una più ristretta dichiarata

espressamente dal legislatore, allora vuol dire che l’analogia s’identifica con

l’interpretazione logica estensiva. Tuttavia, secondo il Pedrali-Noy, non si ha

affatto uno svisamento del concetto di analogia e non c’è nulla di male che questo

concetto identifichi l’analogia con l’interpretazione logica, perchè l’analogia è

appunto una forma di processo logico. Pedrali-Noy, infatti, non crede che

l’analogia crei la norma, regolando ciò che dalla legge non è contemplato. Con

essa si svela la vera estensione della legge, si arriva a comprendere che la norma

arriva più in là di quanto a prima vista parrebbe e l’interprete non fa che

dichiarare la legge, senza estenderla oltre i suoi naturali confini. Non vi è dunque

nè creazione nè estensione da parte dell’interprete, ma si tratta solo, per mezzo di

un processo logico, di arrivare a conoscere la portata della legge. Dato il concetto

di analogia che ha Pedrali-Noy è chiaro che l’interprete di essa potrà sempre

usufruire senza che il legislatore lo autorizzi e che l’art.3 disp. prel. non ha per

scopo di concedere all’interprete di usare questo procedimento, ma di

imporglielo. Cfr. P.L. PEDRALI-NOY, I vuoti del diritto, Bologna, 1911, p. 171. 415

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 310 e

ss.

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159

cercare proprio i giudizi di valore416

immanenti alle proposizioni

normative.

Vi è, quindi, un implicito riconoscimento del diritto in quanto

valore o, secondo la definizione di Caiani, del diritto in quanto

“espressione dell’esigenza imprescindibile dello spirito umano a

tradurre nelle forme della giuridicità un regolamento di rapporti

interindividuali che sia ispirato ai valori dominanti nella coscienza

comune, e tendenzialmente a quello supremo di giustizia.”417

Tale riconoscimento, tuttavia, non è una mera ricognizione

delle valutazioni sottese alla norma, ma è un giudizio che si

sviluppa dall’interno, e integra, talvolta rinnovandoli, i “giudizi di

valore originari ispiratori della norma o dell’intero ordinamento.”418

Con queste precisazioni emerge che se è proprio il piano

assiologico l’orizzonte entro cui condurre la ricerca ermeneutica,

allora è su tale base che si dovrà esplicare anche l’interpretazione

estensiva. Ma non potrà non essere pure quell’elemento “terzo”

attraverso cui portare avanti lo sviluppo analogico che non sia mera

discrezionalità: solo tramite un giudizio di valore nel diritto - più

che sul diritto, come precisa Caiani419

- sarà, infatti, possibile fare

ricorso, senza tema di applicazione arbitraria, allo strumento

dell’analogia.

Se, allora, è l’eccedenza assiologica delle norme il perno

attorno a cui ruotano sia l’interpretazione estensiva che l’analogia,

cadrebbe, però, anche la necessità e la possibilità di distinzione dei

due procedimenti.

Rimane, tuttavia, da considerare proprio quella linea di

“coerenza assiologica” immanente al sistema e che consente di

ricorrere agli strumenti ermeneutici al riparo dal soggettivismo. La

416

Cfr. L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica,

Padova, 1953. 417

L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,

1953, p. 49. 418

L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,

1953, p.53. 419

L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,

1953, p.53.

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fusione del dato assiologico e dell’attualità dell’interprete, infatti,

danno luogo alla mediazione tra la necessità di un sistema stabile e

l’elaborazione di nuovi “orizzonti di attese collettive”420

cosicché il

dato assiologico viene a mutare di portata con il mutare del

consenso sociale.

L’interprete, cioè, lungi dall’indugiare in un soggettivismo

esasperato, deve sì ricercare la valutazione originaria, immanente

alla norma nell’ambiente sociale in cui fu emessa, ma anche

l’eventuale maturazione di esiti sociali ulteriori421

in quella che

efficacemente è stata definita da Dilthey una

Wirkungszusammenhang, una “operante concatenazione

produttiva”, un fenomeno di eterogenesi di significati e valutazioni

che solo può assicurare un diritto non arbitrario, ma vivo.

420

Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di

Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 784. 421

E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.

umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319-344.

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11. L’ATTUALE DISCIPLINA DELLA

INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE: L’ARTICOLO 12

DELLE PRELEGGI

11.1. I precedenti storici dell’articolo 12: soluzioni giurisprudenziali, legislative ed esperienze straniere

11.1.1. Intensio ed extensio; leges, auctoritates e rationes;

argumentum a similibus; Codice Giustinianeo; Regie Costituzioni

piemontesi; Codice estense 1771; Dispaccio di Ferdinando IV di

Napoli 1774; Tribunal de Cassation; Référé législatif; Art. 4 Codice

Napoleone; artt. 14 e 15 Statuto albertino; artt. 6 e 7 cc. austriaco;

artt. 3 codice 1865; art. 22 leggi Città del Vaticano; art. 9 n. 1

Codice civile portoghese; art. 1 cc. svizzero; art. 2 disposizioni di

attuazione c.c. svizzero

Le radici del problema della distinzione tra l’interpretazione

estensiva e l’analogia affondano nella storia del diritto più remota,

anche se non sempre la discussione che ne è seguita ha presentato i

caratteri e la portata di quella recente. Sovente, infatti, la materia è

rimasta in un ambito di pura classificazione del diritto o, al

contrario, si è spinta alla ricerca di una giustificazione teorica di

poteri più o meno lati attribuiti agli organi giudicanti.

Qui preme richiamare alcuni passi fondamentali della “storia

dell’interpretazione giuridica” non tanto per fare una dossografia

delle diverse posizioni, quanto piuttosto per individuare il punto ove

si annida l’equivoco dell’indebita equiparazione tra analogia ed

interpretazione estensiva.

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A parte la riflessione sull’interpretazione giuridica condotta

già in epoca romana422

fin dai primi trattati sull’interpretazione,

risalenti al sedicesimo secolo, la dottrina aveva distinto tra intensio

ed extensio, individuando la possibilità di comprendere la

fattispecie concreta nelle parole, nella mens o nella ratio della

fattispecie astratta come intensio, comprehensio o interpretatio

intensiva423

e attribuendo solo all’extensio la qualifica di vera e

propria interpretazione.424

Si è notato, cioè, fin dall’inizio una certa riluttanza a chiamare

extensio la semplice deduzione dalla generalità della ratio alla

specificità del caso, anche se inespresso,425

preferendo distinguere,

perciò, l’interpretazione vera e propria dalla estensione. Per contro

la riflessione sull’analogia, già oggetto di analisi a partire dalla

teologia426

e filosofia classica427

attingeva fin dagli albori ai concetti

di somiglianza e di proporzione, ponendo l’accento sulla struttura

dello strumento dell’argumentum a similibus ad similia come

elemento di distinzione dall’interpretazione estensiva. Anche

l’argumentum a simili, tuttavia, veniva giustificato più in ragione

dell’aequitas o di una ratio naturalis che per argomenti logici o di

teoria ermeneutica.

Se di pari passo con il concetto di diritto comune si

sviluppava l’idea di un “ritrovamento” dello stesso diritto tramite il

ricorso ad una triplice base costituita da leges, auctoritates e

422

Basti ricordare i frammenti 10 e 12 del Digesto “De legibus senatusque

consultis et longa consuetudine”. Altri frammenti del Corpus giustinianeo

saranno esaminati più analiticamente infra al § 5.4.1., non tanto per una

ricostruzione filologica, quanto per trarre spunto di riflessione sui principi che

governano la materia. 423

Cfr. BARTOLOMEO CEPOLLA, De interpretatione legis extensiva, 1557,

citato da N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, cap. II. 424

Cfr. COSTANZO RUGGERO, Tractatus de iuris interpretatione, 1549,

citato da N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 425

N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 426

A partire dalla riflessione sul rapporto analogico tra l’uomo e Dio

matura il concetto di conoscenza analogica come forma di conoscenza propria

della teologia. Cfr. § 6.1.1. 427

Per tutti ARISTOTELE, Metafisica, V libro.

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rationes, veniva anche prendendo piede l’autorità di un diritto

giurisprudenziale in cui l’analogia, nonostante venisse distinta

dall’extensio legis, veniva riconosciuta come il mezzo più idoneo ad

attuare una legittima estensione.428

L’analogia, insomma, serviva da

escamotage attraverso cui il diritto giurisprudenziale veniva

introducendo surrettiziamente, per opera anche della consuetudo

iudicandi, nuovi concetti giuridici.

In epoca recente si vengono sviluppando quelli che si possono

definire come i precedenti storici dell’attuale articolo 12 delle

preleggi e dei quali rimane in quest’ultimo, come si vedrà, una,

talvolta considerevole, traccia.

Sicuro riferimento di tutti gli sviluppi giuridici successivi è

stato, per lungo tempo il Codex giustinianeo i cui concetti erano nati

in un ambiente giuridico fortemente improntato alla casistica e in

cui, pertanto, acquistava un valore particolare il “caso deciso dalla

legge” con l’autorità di chi lo aveva pronunciato.

Si possono, innanzitutto, riferire come precedenti dell’attuale

articolo 12 delle vigenti preleggi le regie Costituzioni piemontesi

del 1723 e del 1729429

che specificano il ricorso, nei casi non decisi,

alle deliberazioni dei grandi Tribunali vietando il riferimento

all’autorità dei dottori, lasciando, tuttavia, aperto il campo alle

auctoritates, alle rationes, nell’accezione dell’appello alla ragion

naturale o delle genti.430

Pure interessante, su questa linea, è il reale dispaccio del Re di

Napoli Ferdinando IV del 1774 che prescrive che “quando non vi

sia legge espressa per il caso, di cui si tratta, e si abbia da ricorrere

alla interpretazione o estensione della legge [...] si faccia dal giudice

in maniera che le due premesse dell’argomento siano sempre

fondate sulle leggi espresse e letterali. E quando il caso sia nuovo o

talmente dubbio che non possa decidersi colla legge, né con

428

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., cap. I. 429

Regie Costituzioni piemontesi, 1723, libro III Della procedura, titolo

XIX Delle sentenze; 1729, libro III, titolo XXVII; citati da G. GORLA, I

precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942

(un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969, p. 119. 430

Cfr. G. GORLA, op. loc. ult. cit.

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l’argomento della legge” si ricorra direttamente all’interpretazione

del Re.431

Documento interessante soprattutto perché vincola

l’argomentazione estensiva ad identità di premesse e, in particolare,

la fonda sulla letterale espressione della legge da estendere.

L’argomentazione analogica, al contrario, è soppiantata dal diretto

ricorso all’autorità del Re.

Di impostazione simile è anche il Codice estense del 1771 che

prevede il ricorso, nei casi dubbi, al Supremo Consiglio di giustizia

e nei casi mancanti alle disposizioni del Gius comune.432

Il periodo rivoluzionario francese vede la creazione di due

istituti giudiziari significativi: il Tribunal de Cassation e il référé

legislatif.

Il Tribunale è deputato all’annullamento di “ogni atto nel

quale le forme fossero state violate e ogni decisione contenente una

espressa contravvenzione alla legge” e, come risulta dalle

discussioni nella sede dell’Assemblea che istituisce la Cassazione,

vige il divieto dell’extensio del testo, dato che tra i vizi oggetto di

Cassazione si può solo includere la violazione di un testo espresso

sul caso o del casus legis.433

Il référé legislatif, invece, è istituito con il compito di

esercitare una funzione dichiarativa dell’interpretazione. Quello

cosiddetto obbligatorio impone al giudice di rivolgersi al Corpo

Legislativo quando la stessa questione sia stata preceduta da due

sentenze entrambe cassate, mentre quello facoltativo consente al

giudice il ricorso al medesimo Corpo Legislativo toutes les fois

qu’ils croiront nécessaire d’interpréter une loi, cioè quando manca

sul caso un testo espresso o preciso di legge - quando, cioè, la legge

ne décide pas le cas - o quando il testo di legge sia oscuro.434

Come si può vedere, perciò, sia il Tribunal de Cassation che il

référé legislatif poggiano sui concetti di casus omissus, novus o

431

G. GORLA, op. ult. cit., p. 120. 432

G. GORLA, op. ult. cit., p. 121. 433

G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del

codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969,

p. 122 nota 20. 434

G. GORLA, op. ult. cit., p. 123.

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dubius, in base, cioè, al casus legis e ai precedenti - sentenze o

pareri - sul medesimo. Traccia dei quali è rimasta nella lettera del

nostro articolo 12 dove parla di casi che possono o meno essere

decisi secondo una precisa disposizione di legge. Forse perché

scardina la tripartizione dei poteri, il référé legislatif ha, tuttavia,

vita breve dato che il Code civil di Napoleone innova anche in

questo settore abrogando l’istituto del référé e sancendo, al

contrario, nel famoso articolo 4 il divieto per il giudice del non

liquet. “Le juge qui refusera de juger, sous prétexte du silence, de

l’obscurité ou de l’insuffisance de la loi, pourra être poursuivi

comme coupable du deni de justice”, stabiliva il codice,435

superando il divieto illuministico dell’interpretazione, ma non

specificando le regole in base alle quali il giudice è tenuto a

giudicare. Implicitamente, perciò, il Codice Napoleone attribuisce ai

giudici ampi poteri, dato che, come riferisce il Discours

Préliminaire “il compito della legge è quello di fissare, attraverso

ampie prospettive, le massime generali del diritto, di stabilire

principi fecondi di conseguenze, e non di scendere nei dettagli delle

questioni che possono nascere su ciascuna materia. Sta al magistrato

e al giureconsulto, penetrato dello spirito generale delle leggi, di

dirigerne l’applicazione”. Potere, quindi, di ampio ricorso

all’analogia e di risalire, anche, in caso di “fatto assolutamente

nuovo”, ai “principi del diritto naturale”, nonostante questi

strumenti siano indicati come ausili dalla dottrina - sfociata poi

nella rigorosa Scuola dell’Esegesi - ma non dal testo espresso del

Codice.

Contrariamente al Codice Napoleone, i paragrafi 6 e 7 del

codice civile austriaco del 1811 e gli articoli 14 e 15 del codice

albertino del 1838 prevedono esplicitamente le regole per

l’interpretazione, cosicché si possono ritenere i diretti precedenti del

nostro articolo 12 delle preleggi.

Il paragrafo 6 dell’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch für

die deutschen Erblande (ABGB) stabilisce, in modo praticamente

identico al primo comma dell’attuale articolo 12, che

435

G. GORLA, op. ult. cit., p. 125.

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“nell’applicare la legge non è lecito d’attribuirle altro senso che

quello che si manifesta dal proprio significato delle parole secondo

la connessione di esse, e dalla chiara intenzione del legislatore”.436

Identico anche l’articolo 14 del codice albertino.

436

G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del

codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969,

p. 114. R. DE RUGGIERO, Istituzioni di diritto civile, vol. I, Milano, VII ed., 1934-

1935, p.14-97, che considera l’analogia come un procedimento logico che risulta

dalla diversità dei casi e dalla identità del principio che li governa, condividendo,

a questo proposito, l’opinione del F. FILOMUSI -GUELFI (Enc. Giur., Napoli, 1907,

p.52, che sostiene che in essa si procede per conseguenza logica da un caso

previsto ad uno che non è tale, ma che è compreso in una norma generale che

regola i due casi e che è presupposta nel caso previsto), in modo chiaro mette in

evidenza la sostanziale differenza che passa tra l’analogia e la cosiddetta

interpretazione logica estensiva e in questo contraddicendo proprio Donati,

laddove quest’ultimo sostiene che, seguendo l’opinione tradizionale in materia di

analogia, si giunge a non intravedere più tale differenza. Perchè l’interprete possa

far ricorso all’analogia, deve infatti esservi nella legge una lacuna assoluta: cioè

occorre che quel determinato caso il legislatore non abbia contemplato nè

esplicitamente, nè implicitamente in un’altra disposizione che lo possa

comprendere. Mentre l’interpretazione è diretta essenzialmente a spiegare,

attraverso le parole della legge, il pensiero e la volontà del legislatore, e quella

estensiva ha come scopo peculiare di ricercare nelle parole oscure o dubbie della

legge quanto in esse solo apparentemente vi manca e si mira alla pura e semplice

ricostruzione della volontà legislatrice, diversa è l’analogia, la quale non è diretta

a ricostruire e a spiegare ciò che è incerto, ma quasi a creare, colmando quei vuoti

che la legge scritta inevitabilmente presenta. Per la qual cosa, si è ritenuto da

molti che l’analogia sia una vera e propria fonte di creazione del diritto (in tal

senso, N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico cit., p. 177-178). Così si

cade in un’esagerazione: colmar le lacune della legge derivando le norme dalla

legge stessa, non è creazione del diritto; la regola applicata per analogia è già

esistente ed emana dal legislatore. Il procedimento, che mediante l’analogia fa

l’interprete, si limita ad un’integrazione, che è qualcosa di più della pura e

semplice interpretazione, ma non è creazione. (ulteriore problema qui si apre

circa la possibilità di esistenza di un tertium genus, se c’è, tra interpretazione e

creazione del diritto). Solo laddove c’è lacuna assoluta, c’è analogia, altrove si

avrà semplicemente un’interpretazione estensiva. In effetti una distinzione esiste,

come appunto nota il De Ruggiero, ma non sempre, nella pratica, è così netta e

recisa, tanto che si parla sovente di interpretazione analogica.

Nel senso della distinzione tra analogia e interpretazione logica estensiva,

anche Cass. Civ. sez. lav., sent. 3/10/1991 n. 10304, ove si afferma che

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Il paragrafo 7 dell’ABGB, invece, stabilisce che “qualora un

caso non si possa decidere né secondo le parole, né secondo il senso

naturale della legge, si avrà riguardo ai casi consimili precisamente

dalla legge decisi, ed ai motivi di altre leggi analoghe. Rimanendo

dubbioso il caso, dovrà decidersi secondo i principi del diritto

naturale, avuto riguardo alle circostanze raccolte con diligenza e

maturamente ponderate”.437

È sicuramente di rilievo l’affinità col

secondo comma dell’attuale articolo 12, ma ancor di più rilevano le

diversità, in particolare il riferimento al “senso naturale” della legge

e ai principi di “diritto naturale” come criterio sussidiario di

interpretazione, oggi spariti dalla dizione normativa, nonché la

menzione dei “motivi” come criterio di appoggio dello strumento

dell’analogia. Tutte indicazioni che spiegano un certo affannarsi

della dottrina nel giustificare, ancora oggi, in base agli stessi criteri

l’attuale disposizione legislativa.

L’articolo 15 del codice albertino, invece, è ancora più vicino

alla norma presente mantenendo solo il ricorso al “senso naturale

della legge“, e ai “fondamenti di altre leggi analoghe”,

prescrivendo, come criterio finale, il ricorso ai “principi generali di

diritto, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso”.438

Di rilievo è anche il fatto che già l’articolo 17 del codice

albertino ma, più esplicitamente, il paragrafo 12 del codice

austriaco prevedesse che “le disposizioni date in casi particolari e le

sentenze proferite dai tribunali non hanno mai forza di legge, e non

possono estendersi ad altri casi o ad altre persone”.439

Viene cioè

negata l’estensione delle norme eccezionali in virtù della mancanza,

in queste, della necessaria “forza di legge” e, soprattutto, si

impedisce l’applicazione di casi già decisi e delle sentenze che li

hanno definiti senza passare per le norme che ne hanno ispirato la

decisione: si estende, semmai, la norma, mai il caso.

“l’interpretazione estensiva, limitandosi ad esplicare il contenuto della norma,

senza nulla aggiungere alla portata della medesima, è consentita anche con

riguardo a disposizioni eccezionali o di carattere tassativo”. 437

G. GORLA, op. loc. ult. cit. 438

G. GORLA, op. loc. ult. cit. 439

G. GORLA, op. ult. cit., nota 36 p. 129.

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L’ultimo, e più diretto precedente dell’articolo 12 è, infine,

l’articolo 3 delle disposizioni preliminari (“Disposizioni sulla

pubblicazione, interpretazione ed applicazione delle leggi in

generale”) al codice civile del 1865,440

che l’attuale articolo

riproduce quasi letteralmente, a parte la dizione “principi generali

dell’ordinamento giuridico dello Stato” che nella precedente

versione era “principi generali di diritto”.441

Significativo nell’articolo 3 del codice del 1865, così come

nei suoi più diretti precedenti è il richiamo alla “intenzione del

legislatore”, sul cui concetto si sono aperti ampi dibattiti dei quali si

riferirà più avanti. Per il momento è interessante rilevare come

anche in legislazioni straniere coeve alla nostra codificazione si

sono sviluppati concetti simili a quelli che hanno animato il

dibattito giuridico italiano.

L’articolo 22 della legge sulle fonti di diritto oggettivo della

Città del Vaticano, per esempio, ha posto l’accento sull’esigenza di

iniziativa del giudice nell’individuazione della norma, desumendo

da tale attività la implicita massima di decisione, come non manca

di sottolineare lo stesso Betti.442

L’articolo prescrive, infatti, che il

giudice, “tenuti presenti i precetti del diritto divino e del diritto

naturale, nonché i principi generali del diritto canonico, decide

applicando quel criterio che seguirebbe se fosse legislatore”. È

questo un importante esempio di approdo al criterio ermeneutico

volto alla ricostruzione della volontà del legislatore (o del presunto

legislatore incarnato dal giudice) che, ciò nonostante, lascia aperto

il campo all’interpretazione evolutiva. Prevedere questa figura di

giudice-legislatore significa, infatti, approdare alla massima

elasticità e apertura ermeneutica, tracimante, per la verità,

440

L’articolo 3, peraltro, è a sua volta il risultato delle discussioni

precedenti l’emanazione del codice del 1865 avvenute sulla base degli articoli 12

e 13 del progetto Cassinis del 1860, degli articoli 14 e 15 del Codice Sardo e

degli articoli 5 e 6 del progetto Miglietti del 1862, come riferisce N. BOBBIO,

L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II, cap. 4. 441

Sul significato di questa precisazione vedi infra capitolo 6. 442

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 136 e

ss.

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nell’arbitrio giudiziale, tanto ampio è il criterio proposto del ricorso,

oltre ai principi generali del diritto canonico, ai precetti del diritto

divino e del diritto naturale.

Significativo è anche l’articolo 9 n. 1 del Codice civile

portoghese che dispone che “a interpretação não deve cingirse à

letra da lei, mas reconstituir a partir dos textos o pensamento

legislativo, tendo sobretudo em conta a unidade do sistema

juridico, as circunstâncias em que a lei foi elaborada e as

condições especìficas do tempo em que é aplicada”. In esso, come

si vede, sono contenuti sia il riferimento al pensiero legislativo che

ha motivato la norma - la ratio - con le circostanze del tempo

dell’emanazione, sia le condizioni dell’applicazione al caso

concreto - il che consente un’interpretazione evolutiva -, sia il

concetto dell’unità del sistema giuridico, così come stabiliranno

tante sentenze che autorizzano il criterio sistematico di

interpretazione.443

Il più citato444

esempio di norma sull’interpretazione è,

comunque, senz’altro l’articolo 1 del codice civile svizzero, redatto

nel 1907 da Eugen Huber, vicino al giusliberismo, che stabilisce

come “en l’absence d’un texte légal applicable, le juge prononce

selon le droit coutumier, et, en l’absence d’un droit coutumier,

suivant la doctrine et la jurisprudence. A défaut de ces sources, il

appliquera les règles qu’il édicterait s’il avait à faire office de

legislateur”. Di rilievo soprattutto perché, al pari dell’articolo 22

443

Fra tutte cfr. Consiglio di Stato, VI sez., 89/717. 444

Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 640 nota 65. Lo stesso Legislatore, infatti, avverte queste nuove esigenze

e abbandona il principio della completezza dell’ordinamento giuridico E nella

relazione pubblicata dal ministro della giustizia e dell’interno, la ragione di quella

disposizione è spiegata così: “La seule direction que la loi puisse alors lui fornir

c’est qu’il ne doit pas statuer arbitrairement, sous l’influence de circostances

momentanées, pitié, indignation, animosité personelle, mais agir comme si,

faisant office de législateur, il avait à édicter une régle pour l’appliquer ensuite à

l’éspéce qui lui est déférée. Il pronence en se fondant non sur une loi qui serait

absolument compléte, mais sur le droit qui doit l’être, et il crée lui même la

norme qu’il estimairet juste et sage, dans le cadre de l’ordre juridique existant”.

Cfr. F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 198.

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delle leggi della Città del Vaticano, autorizza il concetto del

giudice-legislatore come criterio sussidiario di interpretazione, dopo

avere consentito il ricorso al diritto comune in caso di assenza di

norma applicabile.

Da notare, tra l’altro, che l’articolo 2 delle disposizioni di

attuazione del codice civile svizzero prevede l’immediata entrata in

vigore delle norme che “tutelano l’ordine pubblico e la morale

sociale”, ma dichiara inapplicabili le norme riconosciute come

incompatibili con i suddetti parametri “secondo le valutazioni del

nuovo diritto”.445

Questa che Betti definisce la “riserva dell’ordine

pubblico intertemporale” avalla ancora una volta, come si può

vedere, il concetto di interpretazione evolutiva e conferma la

validità di una ricerca ermeneutica volta al contenuto assiologico

delle norme.

Come si può vedere, infine, ciò che accomuna queste

esperienze legislative straniere, ma soprattutto l’articolo 22 delle

leggi della Città del Vaticano e dell’articolo 1 del codice civile

svizzero è la esclusione della possibilità del ricorso all’analogia,

sussistendo altri strumenti espressamente previsti come criteri

sussidiari.

Così come si è osservato,446

pertanto, laddove non ci sia una

norma che la vieti - come il nostro articolo 14 delle preleggi - o una

norma che prescriva di ricorrere ad altri mezzi - come nelle citate

esperienze straniere - l’impiego dell’analogia rientra nell’ordinario

processo di interpretazione e ciò lungi dal costituire un’altra

conferma dell’impossibilità di distinguerla dall’interpretazione

estensiva, manifesta l’ennesima esigenza di fondarne il criterio

discretivo.

445

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 110 e

ss. 446

M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 640.

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11.2. Analisi dell’attuale articolo 12

11.2.1. Riferibilità dell’art. 12 all’interpretazione della legge

ovvero all’applicazione dei giudici. Richiamo dell’interpretazione

in funzione normativa di Betti. Esistenza o meno di un senso

”proprio” delle parole. L’intenzione del legislatore (rinvio).

Significato della “precisa disposizione di legge”; problema dei

combinati disposti. I casi e i tempi “considerati” dell’art. 14.

Conviene, a questo punto, analizzare più da vicino l’articolo

12447

delle nostre disposizioni preliminari e cercare di ritrovare,

attraverso le parole del legislatore, qualche indicazione per

l’oggetto della nostra trattazione.

Un primo spunto di riflessione è dato dall’incipit dell’articolo

12, dove si fa riferimento alla “applicazione della legge”,

diversamente da quanto è indicato nella rubrica, che, al contrario,

reca l’indicazione “interpretazione della legge”. Le norme

dell’articolo 12 sono dettate per l’interpretazione della legge o per

l’applicazione che debbono farne i giudici?

A leggere la rubrica e la stessa collocazione dell’articolo tra le

Disposizioni sulla legge in generale e non all’interno di statuizioni

447

Si riporta, per memoria, il contenuto dell’articolo 12 delle Disposizioni

sulla legge in generale. “Interpretazione della legge. Nell’applicare la legge non

si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio

delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se

una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha

riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso

rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento

giuridico dello Stato.”

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espressamente processualistiche sembrerebbe farsi riferimento alle

regole concernenti l’interprete in genere, sia questi il giudice o

qualsiasi altro soggetto (privati, organi dello Stato, enti

pubblici...).448

In realtà sia le prime parole del primo comma, sia

tutto il secondo comma parlano di “applicazione” e di “casi decisi”,

evidenziando l’intento di una norma rivolta a definire il modo in cui

decidere le controversie, ruolo, apparentemente, riservato agli

organi giudicanti, se non si considerasse il peso dei precedenti per i

giuristi in generale, sia negli ordinamenti di civil, non meno che in

quelli di common law. Insomma più che un interpretare per

conoscere, un interpretare per decidere. Non un’interpretazione, per

dirla con Betti, storica, “volta a rievocare nella sua autonomia [...] il

senso, in sé conchiuso, della forma rappresentativa”,449

ma

operativa.

Anche il giurista, per la verità, deve porsi una questione

storica, scrive Betti, questione cui viene a capo, allo scopo di

“penetrare più a fondo i problemi di convivenza risolti dal diritto”450

avvalendosi dello strumentario dogmatico, di “tipi e categorie che

stanno tra loro in logica correlazione e coerenza”.451

Il giurista,

tuttavia, non può arrestarsi a rievocare il senso originario della

norma, perché la stessa legge non è, come il nostro autore

efficacemente la descrive, che una “impalcatura, destinata a

rianimarsi e ad illuminarsi da un lato al contatto con la vita sociale,

dall’altro nella luce della tradizione”.452

Il giurista deve “fare un

passo avanti”.453

Ecco, allora, l’interpretazione in funzione normativa o

direttiva della condotta, correlata sì con la costruzione dogmatica e

con la qualificazione giuridica, ma altresì con l’applicazione.

448 G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del

codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969,

p. 113. 449

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 28. 450

E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.

umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319. 451

E. BETTI, op. loc. ult. cit. 452

E. BETTI, op. loc. ult. cit. 453

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 28 ss.

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173

Anche se Betti è meno drastico di Gorla454

nel riferire

l’articolo 12 esclusivamente ad un intendere per operare, per

decidere controversie, nondimeno sottolinea come

nell’interpretazione giuridica vadano messe a raffronto

“l’interpretazione del giurista con indirizzo teoretico, storico o

comparativo e l’interpretazione con indirizzo pratico, in funzione

direttiva della condotta”.455

Chiaramente di fronte alla formulazione

di una “teoria generale dell’interpretazione”, come quella che Betti

fa, non poteva non stridere la dura constatazione di un’indicazione

normativa - quale l’attuale articolo 12 - più tesa a “risolvere

controversie” che a raggiungere un approdo ermeneutico.

Non può sfuggire, tuttavia, l’osservazione che viene

dall’analisi che s’è fatta456

sulla storia dei precedenti dell’articolo

12. Il riferimento alla decisione di controversie e la destinazione

dell’articolo non ad un interprete qualsiasi ma al giudice non può

non essere rilevata come esistente proprio a partire da tali

precedenti: basterà pensare, per tutti, all’articolo 1 del codice civile

svizzero rivolto esplicitamente alla categoria dei giudici.

Tuttavia vi è da chiedersi se questa partizione netta, pur

teoricamente visibile, tra la prescrizione di norme per la decisione

di controversie e quella di regole generali per l’interpretazione

giuridica abbia un fondamento. E la questione non è una pura

sottigliezza di astrazione. Ammettere o negare la possibilità di una

coincidenza a livello teorico a fronte di una assoluta distinzione tra

il procedimento di interpretazione estensiva e quello di analogia dal

punto di vista applicativo, davanti ai casi concreti, cioè, può avere,

454

Sul contrasto con Gorla sull’interpretazione in funzione normativa

riferisce lo stesso E. BETTI, Attualità di una teoria generale dell’interpretazione,

in Ann. Camerino, XXXIII, 1967, 95-111. 455

E. BETTI, op. loc. ult cit. Ci pare di vedere qui un riferimento

(inconsapevole) alla alla bipartizione aristotelica tra teoria e prassi, o alla

tripartizione conseguente alla distinzione tra prassi e poiesi (Et. Nic., II, 1, 1103 a

b; II, 6, 1106 a; VII, 3, 1146 b - 1147 a), su cui cfr. infra § 5.1.1 Ad ogni modo,

qui interessa mettere in evidenza la distinzione tra l'operatività e la pratica

nell'accezione aristotelica del termine. 456

Cfr. § 4.1.

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come si può capire, un rilievo assai diverso, come è emerso fin dalla

prima pagina di questo scritto.

Ritengo con Ascarelli, proprio su questa constatazione, -

contrariamente alla rigida partizione di Gorla e secondo il modello

ermeneutico di Betti - che le modalità dell’applicazione normativa e

le regole dell’interpretazione giuridica siano parte di un “unico e

inscindibile problema, là dove la conoscenza giuridica non è

prospettabile mai separata dal fine pratico dell’applicazione e non si

considera completa se distinta dall’impatto con il caso concreto, con

il fatto storico da regolamentare”.457

Chiarito il senso globale dell’articolo 12 si può notare come

l’interpretazione enunciata sia in primo luogo quella letterale,

rinvenibile nella previsione del “senso fatto palese dal significato

proprio delle parole”.

In realtà vi è da chiedersi che cosa sia codesto “senso proprio”

delle parole della legge dato che, come è evidente, proprio sulla

“proprietà” del significato delle espressioni di legge si hanno

multiformi punti di vista.

Si è già analizzato il rapporto tra interpretazione e

linguaggio.458

Come si è avuto modo di indicare, la dottrina più

moderna considera “frutto di pregiudizi filosofici la credenza

secondo cui le parole di una disposizione di legge abbiano un senso

'proprio' se viste nella loro connessione”:459

in realtà qualsiasi

enunciato risulta ambiguo, soprattutto nel momento in cui questo

assume, come nel caso in questione, una funzione precettiva, in cui

457

T. ASCARELLI, Norma giuridica e realtà sociale, in Problemi giuridici,

I, Milano, 1959, p. 90. Si tratta dell’aspirazione (forse inconsapevole)

dell’irrequieto e tormentato giurista di cogliere il problema metodologico del

diritto, che opera nella prassi, ma non si riduce a questa, che vive di teoria, ma

abbisogna del riscontro empirico; è cioè sospeso tra cielo e terra, un filosofico

ircocervo, come ha messo bene in evidenza nel suo documentato studio F. CASA,

Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione giuridica tra positivismo e idealismo,

Napoli, 1999. 458

Cfr. § 3.1. 459

B. TROISI, Interpretazione della legge e dialettica, in Legge, giudici,

giuristi. Atti del Convegno tenuto a Cagliari nei giorni 18-21 maggio 1981,

Milano, 1982, p. 324.

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diventa significativo uscire o meno dalle maglie della lettera della

legge.

Questo problema confina, come si può vedere, con quello

della chiarezza normativa che si è già affrontato,460

tanto che alcuni

autori461

attribuiscono al fatto che il testo abbia un senso “naturale”,

che esprima un giudizio “sensato”, l’inutilità di dar luogo a

ragionamenti di carattere logico, circa la coerenza o incoerenza nel

sistema della lettera della legge, come pure di dare luogo a ricerche

“estrinseche di carattere ontologico (intenzione del legislatore),

teleologico ecc.”462

Del resto, abbiamo sentito dire da Rolando

Quadri, “si può considerare chiara anche una disposizione formulata

con parole improprie quando il discorso non faccia sorgere

dubbi”.463

Come si può vedere, perciò, il criterio letterale del senso

“proprio” delle parole sfocia nel criterio della razionalità e

dell’interpretazione sistematica, dato che, comunque, per attribuire

con certezza un significato come “proprio” alle parole utilizzate è

necessario analizzare il contesto in cui sono inserite.

Significativa è a questo proposito la sentenza della Cassazione

del 1987464

che stabilisce come il criterio del significato letterale - il

quale, precisa, costituisce “norma fondamentale a tutela della

certezza del diritto, e mezzo preminente per l’interpretazione di una

legge” - postula, in realtà, l’assoluta univocità del significato delle

parole adoperate dal legislatore. Tale univocità può, secondo la

sentenza in esame, ritenersi insita nell’uso di un termine giuridico,

specie con riferimento all’interpretazione di norme del codice - si

trattava di norme del codice civile - caratterizzato dalla precisione

della terminologia giuridica, oppure nell’uso di un termine tecnico.

Non altrettanto può affermarsi per le parole “tratte dal linguaggio

460Cfr. § 2.2.

461 R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, in Comm. del

cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1974, p. 240 ss. 462

R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale cit, p. 240. 463

R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, cit. p. 244. Sul

punto, perspicuo N. IRTI, testo e contesto. Una lettura dell’art. 1362 Codice

civile, Padova, 1996; per diversi profili sullo stesso tema, U. PAGALLO, Testi e

contesti dell’ordinamento giuridico, III ed., Padova, 2001. 464

Cassazione civile 31.3.1987, n. 3097, in Giust. civ. 1987, I, 1944.

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comune, il cui significato sia plurivalente o soggetto a mutamenti

nel tempo”.

Il significato “proprio” delle parole, pertanto, stando alla

sentenza della Cassazione, sarebbe un criterio valevole solo per

termini tecnici sulla cui convenzionalità non vi siano disaccordi. Per

ogni altro termine, se ne deduce, la dizione di questa prima parte

dell’articolo 12 si rivela inutile perché prescrive, comunque, il

ricorso ai criteri sussidiari.

Criteri, questi ultimi, costituiti dalla “intenzione del

legislatore” e da quelli previsti dal secondo comma dell’articolo 12.

Per quanto concerne l’intenzione del legislatore se ne parlerà

più diffusamente al paragrafo 4.3.1.. Tuttavia è importante, qui,

sottolineare il valore della congiunzione465

che, secondo la dizione

del citato articolo, lega il ricorso al criterio in parola - l’intenzione

del legislatore - con il ricorso al criterio letterale: quella cesura,

segnata dalla virgola, cui segue la congiunzione, infatti, può

significare alternatività dei due criteri, subordinazione,

indipendenza. Viste le considerazioni fatte in merito alla validità del

criterio letterale ritengo, tuttavia, più plausibile accogliere la

concezione che impone, comunque, di ricorrere al secondo criterio,

sancendo l’inutilità del primo.

Per quanto riguarda l’espressione “secondo la connessione di

esse”, poi, concordo con l’opinione di Bobbio466

che tacciava

l’articolo - si trattava, allora, del vecchio articolo 3 delle

disposizioni preliminari ma, come si è già detto, era per questa parte

identico all’attuale articolo 12 - di dire in questa parte cose “ovvie e

banali”. Che cosa significa, infatti, “secondo la connessione di esse”

se non qualcosa di ovvio ed evidentemente superfluo?

Bobbio fa notare che se il legislatore ha ritenuto di precisare

la necessità di interpretare secondo la connessione delle parole,

avrebbe, del pari, potuto precisare la necessità di interpretarle

465

“... dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse,

e dalla intenzione del legislatore”; così l’attuale articolo 12 dip. prel. 466

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap.

3.

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secondo l’ordine di stesura, cioè da sinistra a destra.467

L’evidenza

delle provocatorie osservazioni di Bobbio consente di non

soffermarsi oltre sul problema.

Per quanto concerne, invece, il secondo comma vi si fa

riferimento ad “una precisa disposizione” e si indica esplicitamente

la sussidiarietà, rispetto a questa, del ricorso ai criteri

successivamente indicati. La “precisione” di cui parla l’articolo è da

taluni468

intesa come l’esistenza di una norma “espressa” ma appare

evidente che, riscontrata la superfluità del primo comma

dell’articolo 12, almeno nelle considerazioni che se ne sono fatte,

prevedere i criteri sussidiari dell’analogia e del ricorso ai principi

solo colà dove non esista una norma espressa regolante la fattispecie

concreta è fuorviante. Stando alla rubrica dell’articolo, infatti,

assegnare il compito dell’interpretazione solo negli spazi lasciati

vuoti dall’espressa previsione legislativa, solo, cioè, applicata ai

criteri sussidiari, non può che contrastare con la concezione

ermeneutica fin qui presentata.

Del resto, poi, dato che l’articolo parla di decidibilità “della

controversia con una precisa disposizione” non può essere

tralasciata la constatazione del fatto che, normalmente, una

controversia, o meglio una fattispecie concreta, è regolata non tanto

da una singola disposizione ma da una serie di due o più norme,

secondo la tecnica dei “combinati disposti”. In tali casi che, per la

verità, sono la maggioranza - data anche la congerie legislativa -

diventa difficile distinguere quale delle disposizioni combinate sia

prevalente rispetto alle altre, quale, cioè, possa qualificarsi come

“precisa disposizione”.469

Partendo dai “casi da decidere”, e non

tanto dalle norme da astrattamente interpretare, cioè, si finisce per

467

N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 468

F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1952, I,

107 e ss. 469

P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e

assiologica in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1010.

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perdere di vista i confini tra casus decisus, casus dubius e casus

omissus.470

Non si deve pensare, tuttavia, che si debba cedere il passo alla

soggettività estrema o all’arbitrio interpretativo. Paradossalmente il

criterio cosiddetto letterale, che potrebbe a rigore essere escluso per

una certa assurdità di applicazione, si potrebbe, in realtà, rivelare il

più consono al complesso di valori sotteso al sistema giuridico. Ne

dà un efficace esempio Perlingeri,471

che riporta il caso del divieto

di ingresso ai minori nei cinema.

Nota l’autore che, alla lettera della legge, il divieto dovrebbe

estendersi anche ai neonati tenuti in braccio dai genitori che

assistono alla proiezione, “minori” i quali, evidentemente, essendo

incapaci di rendersi conto dell’accaduto, non si possono ritenere

colpiti dal divieto né passibili di tutela. Tuttavia, fa notare

Perlingeri, l’interpretazione letterale fino in fondo (esclusione

dall’ingresso anche del neonato) potrebbe essere “la soluzione

maggiormente rispondente alla logica ed ai valori del sistema

imperniato sul rispetto della persona umana”. 472

470 P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e

assiologica in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1010. 471

Cfr. P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e

assiologica, cit, p. 1011. 472

Cfr. P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e

assiologica, cit. p. 1012. La questione rende conto di quanto già avvertiva Luigi

Caiani, Il giurista positivista, osserva Caiani, tende a rinchiudere in un certo senso

“il problema interpretativo in termini strettamente giuridico-dogmatici, onde

difenderlo dalle impurezze e dalle incertezze connesse ai problemi tecnici e

filosofici dell’interpretazione, e così garantire in sostanza la scientificità, cioè

l’univocità e l’esattezza del risultato interpretativo”. E si tratta di un tentativo più

o meno implicito in gran parte dell’opinione giuridico-positiva. Cfr. L. CAIANI, I

giudizi di valore nell’interpretazione giuridica cit., p. 182-183. Ancor più

paradossale appare la dichiarazione di Scarpelli, quando nota come nel

positivismo giuridico la positività del diritto è in funzione appunto della

scietificità: “non si fa una scienza del diritto come scienza del diritto positivo

perchè interessa conoscere scientificamente il diritto positivo e quindi se ne fa la

scienza, ma si fa la scienza del diritto come scienza del diritto positivo perchè

interessa fare la scienza del diritto e, trovando nel diritto positivo l’oggetto che la

rende possibile, le si assegna appunto questo oggetto”. Cfr. U. SCARPELLI, Cos’è

il positivismo giuridico, Milano, 1965, p. 40.

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Si rende, come si vede, necessario il ricorso alla logica del

sistema ed all’interpretazione assiologica il che, evidentemente,

getta seri dubbi sull’utilità dell’articolo in analisi.

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11.2.2. Possibilità di concepire il capoverso dell’art. 12, in

quanto prescrive l’analogia, come teoreticamente superfluo e

irrilevante; come contenente tutti i criteri ermeneutici della legge:

sia l’interpretazione estensiva che l’interpretazione analogica.

L’art. 14 come non dettante alcun criterio di esegesi legislativa.

L’interpretazione assiologica come superamento

dell’interpretazione letterale e criterio base di ogni interpretazione.

Sull’utilità dell’articolo 12 - all’epoca articolo 3 del codice del

1865 - si interroga Bobbio,473

analizzandone la natura. L’articolo in

parola è norma giuridica?

Contro i sostenitori della tesi secondo cui esso non sarebbe

una regola di condotta ma una regola logica, Bobbio obietta che

l’articolo in primo luogo si presenta sotto forma di comando, che

già lo fa ricondurre alla categoria delle norme giuridiche; in

secondo luogo, poi, se può essere vero che le regole logiche e le

massime di esperienza si osservano senza bisogno di imperativistica

imposizione, è anche vero che la contrarietà a tali regole, previste

dall’articolo, non è tollerata “come stravaganza” ma perseguita

“come violazione”. Di qui la natura giuridica, sul presopposto di

matrice kelseniana ripreso dal giusfilosofo torinese, della

compresenza di precetto e sanzione, quest’ultima considerata il

tratto caratterizzante la giuridicità.

Ciò nonostante, tuttavia, l’articolo 3 è, per Bobbio, un

duplicato inutile, dato che “nella prima parte dice cose ovvie e

banali, nella seconda parte cose oscure e imprecisabili”.474

Ma in

questo modo il riconosciuto caposcuola infligge il colpo mortale

all’analitica e all’ermeneutica: se ha appena affermato norma

giuridica l’articolo in esame non può qualificarlo inutile ed

473

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. II cap. 3. 474

N. BOBBIO, op. loc. ult. cit.

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incomprensibile senza far cadere il protocollo analitico positivista

per il quale ogni norma deve contenere uno o più disposizioni e che

queste debbono avere un senso, ricostruibile per scomposizione

analitica.

Né vale, per fare chiarezza, il ricorso all’articolo 14.475

Anche

tale norma, infatti, tradizionalmente deputata a prescrivere e

regolare il divieto di interpretazione analogica, fa riferimento a

“casi” e a “tempi” considerati nelle leggi eccezionali e penali,

elementi tutt’altro che chiari e inequivoci.

Che cosa sono i “casi e i tempi considerati” nelle norme?

Vi è forse l’autorizzazione al mero ricorso all’applicazione

letterale? Ma non necessita, anche questa, di un’operazione di

interpretazione?

L’articolo 14 prevede solo il divieto di interpretazione

analogica, secondo la lettura che se ne è tradizionalmente data, ma

non spiega in che cosa essa consista, né come debba essere

applicata, dato che presuppone che sia l’articolo 12 a dare contezza

di tali criteri ermeneutici.

L’indagine sui lavori preparatori dell’articolo 14 non è, in

questo senso, illuminante, dato che nella sua relazione il

Guardasigilli (n. 4) spiega che “poiché la norma (inizialmente art. 4

ed oggi art. 12) non riguarda l’interpretazione estensiva [... si è]

sostituito “considerati” ad “espressi”, potendo quest’ultima parola

far pensare che si debba aver riguardo solamente ai casi menzionati

espressamente”.476

Storica nel definire la funzione degli articoli 12 e 14 è la

sentenza della Cassazione civile n. 4373 del 1989477

che sancisce

come l’articolo 12 contenga “tutti i criteri ermeneutici della legge

ed in particolare sia il criterio dell’interpretazione estensiva, che

consente l’utilizzazione di norme regolanti casi simili (e non già

475

Si ricorda, per memoria, l’articolo 14: “Applicazione delle leggi penali

ed eccezionali. Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad

altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. 476

Relazione del Guardasigilli, citata in Giust. civ. 1989, fasc. 10. 477

Cassazione civile, sez. lav., 25.10.1989 n. 4373, in Giust. civ. Mass.

1989, fasc. 10.

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identici), sia quello dell’interpretazione analogica (“analogia

legis”), mentre l’articolo 14 non detti “alcun criterio di esegesi

legislativa”, limitandosi a stabilire che le leggi penali ed eccezionali

“non si applicano (in via di interpretazione analogica) oltre i casi ed

i tempi in esse considerati”.

Se i casi “considerati” non sono i casi “espressi” significa,

dunque, che nell’articolo 14 non si vieta l’interpretazione, prescritta

dall’articolo 12, semplicemente si impedisce che questa trasbordi

oltre la sua funzione. Funzione che, tuttavia, dovrebbe essere

delineata sulla scorta dell’articolo 12.

Si è già stabilito, tuttavia, che il primo comma della norma

rinvia ad un processo di interpretazione ulteriore rispetto a quelli

indicati dalla lettera dell’articolo. Né il secondo comma chiarisce

come si deve condurre l’interpretazione analogica, quali criteri,

cioè, si devono ricercare nell’individuare “i casi simili” e le

“materie analoghe”, a quali canoni si debba appellare la ricerca

interpretativa.

Significativo, allora, diventa un passaggio della relazione

della Commissione Reale per la preparazione del codice, citata dalla

menzionata sentenza n. 4373 del 1989.

“Certo che con essa [la disposizione dell’articolo 12] non

sono eliminate le difficoltà cui, nella pratica, l’interpretazione delle

leggi dà luogo”, indica la Relazione, “tuttavia l’opera giudiziaria è

un lavorio continuo d’interpretazione delle leggi, e sarebbe vana la

fatica del legislatore che pretendesse di risolvere con regole generali

le difficoltà numerose che si presentano praticamente e che per la

molteplicità e per la loro varietà sfuggono alle sue previsioni. La

scienza può dare e dà, effettivamente, regole appropriate che

possono servire a guidare convenientemente l’interprete, ma

nessuna di esse può avere valore di norma assoluta, per cui ciò che è

essenziale è che l’interprete sia intelligente ed onesto e che ricerchi

il senso della legge animato dal solo spirito della verità e della

giustizia”.478

478 Codice civile: libro delle successioni e donazioni : illustrato con i

lavori preparatori, relazione sul progetto preliminare, relazione sul progetto

definitivo, atti della commissione parlamentare, relazione del guardasigilli a S.M

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il Re imperatore, Roma, 1939, pag. 9, n.ri 2 e 3, ripresa altresì da Cass. civ.,

25.10.1989 n. 4373. In senso contrario a Donati e a Rotondi riguardo al ricorso

alla norma generale esclusiva, si esprime Solmi, il quale sostiene che il problema

delle lacune non può essere guardato che come un lato del problema generale

dell’interpretazione della legge, per cui solo quando si sia determinato fin dove si

possa giungere con l’analogia e coi principii generali del diritto, si potrà dire se

veramente vi sono punti in cui cessa la possibilità di ricorso all’analogia e in cui

si dia luogo a lacune. Donati sostiene che, in ogni ordinamento giuridico, perchè

sia ammessa l’analogia, sia necessario un apposito riconoscimento legislativo,

Solmi invece che l’analogia sia mezzo necessario d’interpretazione del diritto.

Donati fonda il suo ragionamento su due dati: la presenza della norma generale

all’infuori delle norme espresse e la constatazione che quello che il legislatore ha

voluto per un caso, non può non averlo voluto anche per un caso simile, ma

leggermente diverso, a meno che esplicitamente lo dichiari. Tenendo presente che

per il Solmi la norma generale esclusiva rappresenta il riconoscimento, in realtà,

dell’inadeguatezza del diritto ad un caso concreto, è evidente che ad essa si dovrà

ricorrere il meno possibile e solo quando non vi sia altro modo di trovare una

norma più adeguata. Non può quindi essere che il legislatore abbia inteso

impedire che, dal palese significato di una norma, non si possa indurre la regula

iuris per un caso in tutto simile, benchè non identico, a quello che gli era dinanzi.

Ricorrendo all’analogia, l’interprete fa un’opera di pensiero, che è necessaria allo

spirito umano: egli non esce dalla materia dell’ordinamento giuridico, ma per

mezzo di questa scopre con tutta certezza la effettiva e certa volontà del

legislatore, nei casi analoghi da lui considerati. Così si spiega, secondo Solmi,

come la legge sia costretta espressamente a proibire il ricorso all’analogia nelle

materie di diritto pubblico, dove voglia impedire i possibili arbitri della

P.A.(questo rispetto all’art. 4.); e perciò il cod. civ. germanico ha potuto tacere la

disposizione che ammette l’analogia, senza timore di veder escluso questo

fecondo mezzo d’interpretazione del diritto. Soltanto non si deve credere che

l’analogia sia diretta a determinare una volontà legislativa più ampia, ricostruita

logicamente da una più ristretta. Si tratta, invece, di una volontà del tutto simile a

quella espressa, logicamente indotta dalla volontà espressa, ed adattata ad un caso

strettamente affine a quello previsto. Ma allora non si tratta di creazione, seppur

“vincolata”? Cfr. A. SOLMI, Sulle lacune dell’ordinamento giuridico in Riv. dir.

comm., 1910, p. 487, per la citazione, p. 493.

Quindi, per Solmi, esclusa la norma generale, è legittimo, salvo che risulti

il contrario (art. 4), il ricorso all’analogia senza che sia necessaria un’esplicita

volontà del legislatore in tal senso. Su quest’ultimo punto, risulta quindi concorde

con Rotondi. Quel che è interessante, secondo noi, è la diversa valenza che da

questi due autori viene attribuita all’art. 4. Rotondi lo interpreta come norma che

dà prevalenza all’argumentum a contrario rispetto a quello a simili, almeno in

certe materie; nel resto, si è visto, avviene l’inverso. Solmi, invece, non guarda

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È il complesso di valori sotteso al sistema - lo “spirito di

verità e giustizia” di cui romanticamente parla la Relazione - che,

dunque, costituisce l’unico vero criterio cui ricorrere per

interpretare la legge. Criterio, questo, che accomuna

l’interpretazione estensiva e l’analogia, rendendo, in apparenza,

superflua ogni distinzione. Ma per questa via, per “spirito di verità e

di giustizia”, non si dovrebbe distinguere più alcunché nel mondo

del diritto, atteso che a tali criteri ogni istituto dichiara di rifarsi.

L’articolo 14, in questa luce, non avrebbe, allora, altro

significato che quello (invero impossibile) di vietare l’introduzione

per via d’interpretazione di nuovi valori nel sistema, di inibile lo

spostamento, surrettizio, di quell’equilibrio assiologico che è insito

in ogni ricerca ermeneutica.

all’art. 4 come norma sancente l’imperio dell’argomentum a contrario, ma come

norma che limita il ricorso all’argomentum a simili, che, a suo parere, è l’unico

possibile.

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185

11.3. La ricerca e la distinzione sulla base della ratio legis

11.3.1. Valore dei lavori preparatori e dei progetti di riforma

nell’interpretazione. Il convincimento interpretativo. Art. 12 e

ricorso ai principi costituzionalizzati: possibilità di una doppia

fonte interpretativa. Intenzione del legislatore e ratio legis.

Problema della ratio legis come un doppione della norma. Ratio

come scopo e come fondamento. Differenza tra razionalità della

norma e sentimento di giustizia. Ratio legis e ragion sufficiente

della esistenza e della verità della norma. Scopo della norma e ratio

legis. L’elemento della ratio nella giurisprudenza.

La ricerca del dato assiologico contenuto nella norma non è,

tuttavia, operazione lontana da contrasti e pluralità di vedute.

Un criterio cui sovente si fa ricorso per giustificare e

sostenere una determinata interpretazione è quello che si appella ai

lavori preparatori della norma oggetto di analisi ermeneutica.

Analizzando le scelte del legislatore - rectius, dei legislatori - e le

spesso opposte posizioni che si sono confrontate in sede

parlamentare si ritiene possibile, infatti, risalire ai valori - ai

principi? alla ratio? - che irrorano la norma in esame.

Numerose sentenze della Cassazione hanno affrontato il

problema del ricorso ai lavori preparatori e anche ai progetti di

riforma legislativi. Per questi ultimi,479

in particolare, il confronto

479 Sul valore dei progetti di riforma agli effetti dell’interpretazione della

legge in vigore si era pronunciata in senso nettamente contrario la sentenza delle

Sezioni Unite 17.1.1936, in Foro it. 1936, I, 455. Di diverso avviso la sentenza

della Corte d’Appello di Roma del 10.1.1939 in Foro it., 1939, I, 673 che ritiene

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186

tra le modifiche proposte e discusse e il testo originario, l’analisi

dello “spirito” delle riforme, è stato considerato utile per addivenire

all’individuazione dei valori sottesi.

Tuttavia nella maggior parte di tali sentenze la Cassazione ha

riconosciuto ai lavori preparatori unicamente il tradizionale valore

sussidiario, o anche valore discretivo, ma soltanto quando l’attività

di applicazione normativa sia cronologicamente vicina a quella

promulgativa e il “contesto politico, economico e sociale del tempo

dell’applicazione della legge sia simile o eguale a quello del tempo

in cui la legge fu promulgata”.480

Come si debba fare tale

equiparazione non è spiegato, ma il passaggio è indicativo per la

tesi che andiamo sostenendo: il riferimento, cioè,

all’inpterpretazione teleologica intesa quale individuazione dello

scopo della norma, ovvero a quale problema individuato dal

legislatore voglia essere risposta la norma, verso quale obbiettivo

era (o doveva essere) indirizzata.

Il limite del ricorso ai lavori preparatori - da cui la

sussidiarietà del criterio - è individuata dalla Cassazione481

nell’impossibilità per la volontà da essi risultante di sovrapporsi alla

“volontà obiettiva della legge”, quale emerge, secondo una sentenza

della Suprema Corte, “dal significato proprio delle parole e dalla

connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore”,482

riproducendo -in sostanza- le ambiguità dell’art. 12.

La Cassazione insiste nell’appello all’intenzione del

legislatore soprattutto in tema di lavori preparatori, arrivando a

distinguere tra voluntas legis, la volontà oggettiva della norma, e

voluntas legislatoris, la volontà dei singoli partecipanti al processo

formativo della norma,483

ammettendo, così l’esistenza di una

lecita l’interpretazione secondo progetti di riforma di una legge se compiuta

allorché la legge è stata emanata ancorché non entrata in vigore e altresì se la

nuova legge non era ancora stata emanata quando lo sia, anche se non ancora in

vigore, al tempo della sentenza. 480

Così Cassazione civile 1.3.1971 n. 507. 481

Cassazione civile 8.6.1979 n. 3276. 482

Cassazione civile 8.6.1979 n. 3276. 483

Cassazione civile 8.6.1979 n. 3276.

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187

“eccedenza assiologica” - che definisce in termini di “volontà” -

della norma, da considerare criterio prevalente sulla effettiva,

concreta volontà di chi materialmente volle la legge.

Negando la possibilità di desumere tale medesima voluntas

legis dai lavori preparatori di una legge diversa che pure adotti

espressioni identiche la Cassazione484

conferma, poi, la netta

distinzione tra le due “volontà” che di comune hanno, per la verità,

solo il nome.

Altro campione è la sentenza della Cassazione penale485

che

fa riferimento alle osservazioni e riflessioni sulle leggi e sui

regolamenti contenute nella stessa motivazione del giudizio. La

sentenza chiarisce come queste osservazioni non costituiscano

“semplice fonte di ispirazione nell’interpretazione delle norme” ma

facciano, invece, parte integrante del procedimento interpretativo

se, “nonostante la loro collocazione preliminare alla motivazione, il

giudice dimostra di tenerne conto nel suo convincimento

interpretativo”. Questa chiarificazione è di rilievo perché consente,

come corollario, l’impugnazione della sentenza medesima per

inosservanza o erronea applicazione delle disposizioni sulla legge in

generale -gli articoli 12 e 14, in particolare- vale a dire per errata

interpretazione, quando tali osservazioni e riflessioni “si pongano

contro le espressioni letterali delle norme o ritengano tutelati

interessi esorbitanti dal contenuto delle medesime”. In sostanza la

sentenza indica come fonti d’interpretazione non soltanto le norme

in sé, ma anche le riflessioni sulle norme: l’interpretazione, cioè,

diventa essa stessa fonte di interpretazione.

Ridimensionato il valore del ricorso ai lavori preparatori e alla

mens legislatoris come dato a cui riferire l’interpretazione, si è

tentata la via dei principi costituzionalizzati e della coerenza

costituzionale.

Rinviando al capitolo 6 l’analisi del ricorso ai principi, non

può non porsi come problematico il rapporto tra l’articolo 12 e la

484

Cassazione civile n. 2533/1970.

485

Cassazione penale sez. III, 11.1.1980, in Giust. pen. 1981, III, 21.

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188

Carta costituzionale, non fosse altro per il fatto che

cronologicamente l’emanazione di questa ha seguito quella,

precedente, del codice. È evidente, infatti, che se l’articolo 12, così

come è stato formulato risente della precedenza temporale rispetto

alla Costituzione, ciò nonostante è impensabile supporre che

l’applicazione dei principi costituzionali sia solo sussidiaria rispetto

al criterio letterale e agli altri indicati dall’articolo 12. Si

altererebbe, altrimenti, la gerarchia delle fonti attribuendo

all’articolo 12 idoneità ad impedire l’applicazione delle norme

costituzionali.486

Sono innumerevoli le sentenze dirette a privilegiare

l’interpretazione secondo Costituzione (o adeguatrice): addirittura si

indica all’interprete di giungere ad una lettura della norma stessa

che, “nel rispetto dei tradizionali canoni ermeneutici”, consenta di

intenderla in armonia con la Carta costituzionale,487

attribuendo a

tale operazione il carattere di “momento costitutivo normale di ogni

interpretazione”.488

La vigenza di una legalità costituzionale impone, dunque,

un’interpretazione alla luce degli interessi e dei valori

costituzionalmente rilevanti, non relegabili, tuttavia, solo all’ultima

parte del secondo comma dell’articolo 12. I principi costituzionali

non sono una fonte normativa concorrente ma alimentano

quell’interpretazione che viene ad essere per definizione logico-

sistematica e teleologico-assiologica.489

Tra i criteri di interpretazione di cui già si è fatto cenno vi è,

infine, quello della “intenzione del legislatore” al quale si riferisce

l’ultima parte dell’articolo 12.

486

P. PERLINGERI, Norme costituzionali e rapporti di diritto civile, in

Rass. dir. civ., 1980, p. 101. 487

Cassazione civile 3.2.1986 n. 661 in Foro it., 1986, I, 1898. 488

Corte costituzionale 14.7.1988 n. 823 in PESCATORE-RUPERTO (a cura

di), Codice civile annotato con la giurisprudenza della Corte Costituzionale,

della Corte di Cassazione e delle giurisdizioni amministrative superiori, cit., p.

34. 489

P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e

assiologica in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1012 e ss.

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189

È evidente la concezione volontaristica sottesa all’indicazione

della norma: si rincorre ancora l’idea di un legislatore personificato,

senza avvedersi, al contrario, del fatto che questa è persona fittizia

ma inutile.490

Concezione che, come detto, trova la sua

consacrazione dell’articolo 1 del codice civile svizzero dove si

incarica l’interprete di decidere “secondo la regola che adotterebbe

come legislatore”.491

Del resto questa che appare una considerazione ovvia rispetto

ad una concezione ormai superata dall’attuale elaborazione

giuridica è, al contrario, una impostazione che fa tuttora parte della

cultura giuridica moderna.

La stessa distinzione tra interpretazione estensiva e analogica,

pertanto, si è ritrovata in quella tra ricerca del pensiero del

legislatore insito nella norma e ricerca di quello che sarebbe stato il

pensiero del legislatore se vi avesse pensato.492

L’analogia, cioè, è

sovente costruita come l’individuazione della volontà presunta del

legislatore: il che, evidentemente non può che palesarsi come un

artificio della dottrina per mascherare, dietro questa entità - la

volontà di un legislatore - l’elemento che realmente presiede alle

ricerche ermeneutiche.

Si è anche tentato di distinguere l’interpretazione estensiva

dall’analogia sulla base di un ipotetico diverso fondamento: la

prima poggerebbe sulla volontà del legislatore, la seconda sulla

somiglianza dei casi. A parte la constatazione493

che si prendono in

considerazione, in questo modo, due punti di vista diversi - il

fondamento, nell’un caso, e il procedimento nell’altro - è già emersa

l’artificiosità e l’ambiguità del riferimento ad un legislatore con una

volontà tangibile al pari della volontà contrattuale.

In effetti l’unica realtà afferrabile, più che quella di un

legislatore con questa o quella volontà - o intenzione, come recita

490

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap.

3. 491

Cfr. § 4.1. 492

N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 493

Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II,

cap. 4.

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l’articolo 12 - è quella che può essere indicata come la figura di un

legislatore ragionevole e moderno così come lo concepisce

l’interprete, di un legislatore che esprime, cioè, i criteri di

ragionevolezza, sistematicità e attualità secondo i canoni

dell’interprete. Il che, però, vale a dire che l’unica realtà afferrabile,

più che quella di un artificioso legislatore, è quella dell’interprete

medesimo.

Come indica Betti nella sua critica al dogma della volontà

legislativa494

compito dell’interprete è di rendere esplicito il “senso

della legge”, non di ricreare una “volontà della legge”. Volontà che

già dovrebbe essere negata come concetto solo a constatarne

l’aporia di fronte al fenomeno della consuetudine, istituto in cui non

può che stridere l’accostamento del concetto di volontà con quello

di spontaneità insito nell’idea dell’opinio iuris seu necessitatis.

Volontà, poi, che proprio grazie al compito dell’interprete,

viene ad essere spersonalizzata, al massimo ridotta a “ipostasi o

finzione di una 'volontà collettiva'”. Dato che il legislatore si rivela

non essere altro che “l’insieme degli interessi della comunità che

nella legge hanno trovato protezione” e la sua “intenzione” non

altro che lo “scopo pratico che la legge si propone di conseguire”,495

è evidentemente fuorviante ricercare una intenzione del legislatore -

in un parallelismo con la volontà individuale - in questa sorta di

volontà collettiva che “non trova riscontro nella realtà sociale più di

quanto vi trovi riscontro una coscienza collettiva.”496

Ed anche qui,

ci sembra, ritroviamo un tassello della costruzione che andiamo

sostenendo: non la ricerca di una volontà, ma la ricerca di un

obbiettivo. Si tratta, a ben vedere, della struttura propria della

direttiva che tradizionalmente costituisce il nerbo dell’ordinamento

giuridico comunitario; una disposizione, cioè, che indica lo scopo

da raggiungere, lasciando un certo margine di libertà nella scelta

delle vie da seguire per arrivare alla destinazione prefissata.

Respinto il concetto di volontà del legislatore, pertanto,

questo è soppiantato dal concetto di ratio iuris, dove l’indagine

494 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., cap. XI.

495 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., cap. XI.

496 E. BETTI, op. ult. cit., p. 261 e ss.

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ermeneutica va a ricercare, a seconda di come la si intenda, lo scopo

della norma ovvero il suo fondamento.

Nella ratio come scopo non vi è la ricerca della mera occasio

legis, come fa la critica aderente al formalismo kelseniano,497

bensì

la ricerca della causa finale della norma, da ammettere come dato

fenomenologico, da rinvenire mediante criteri teleologici di

interpretazione. Nella ratio come fondamento, invece, vi è la ricerca

del fondamento logico e assiologico della norma tramite cui la

norma medesima si conforma alle esigenze sociali.498

Quello della ratio, è stato utilizzato su queste basi non

soltanto come criterio ermeneutica, ma anche come elemento

discretivo tra lo strumento dell’interpretazione estensiva e quello

dell’analogia. Mediante quello che Betti definisce499

“l’artificio con

maggiore risalto” nelle teorizzazioni della dottrina, si è, infatti,

intesa l’interpretazione estensiva come basata sul dogma della

volontà, contrariamente all’analogia, basata su un argomentare dalla

parità di ratio tra un caso non disciplinato e una norma regolante

casi o materie simili. In questo modo, tuttavia, si è disconosciuto il

fatto che la ricerca dell’eadem ratio sta alla base anche

dell’interpretazione estensiva nel momento in cui si spinge a trovare

il fondamento dell’estensione secondo la razionalità della norma.

Del resto, poi, anche l’analogia esige un apprezzamento della ratio

della norma come apprezzamento della teleologia in essa

immanente, come giudizio di valore500

e quindi nemmeno su questo

terreno è possibile negare l’equiparazione tra i due strumenti

ermeneutici. Almeno secondo la posizione di Betti.

La ricerca della ratio insita nella norma, tuttavia, potrebbe

apparire come la ricerca di una sorta di norma nella norma, di

497

Cfr. E. BETTI, op. ult. cit., p. 275 e ss. 498

E. BETTI, op. loc. ult. cit., p. 169 e ss. 499

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 169 e

ss. 500

G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico, in Riv. it. dir.

proc. pen., 1989, p. 1541.

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192

doppione, quindi, della norma stessa.501

Per contro l’insistere sulla

ricerca del senso della legge, della razionalità ad essa intrinseca, si

scontra con la constatazione502

espressa dal brocardo dura lex sed

lex: nonostante una legge appaia irrationabilis, infatti, la sua

coercitività sembrerebbe imporne il rispetto, lontano da ogni

interpretazione che, sotto la maschera dell’evolutività, rischierebbe

di trasformarsi in un’interpretazione - per i formalisti - politica.

La razionalità della legge, al contrario, viene fatta coincidere

con il senso di giustizia,503

esigenza storicamente condizionata e

accertata dall’interprete con criteri obbiettivi, fondamento di ogni

intuizione analogica ma, prima ancora, ermeneutica. Ma in tal modo

determinata essa è anche la “ragion sufficiente” della norma così

come la definisce Bobbio,504

tanto che se è vero che è “id propter

quod lex lata est, et sine quo lata non esset”, accade anche che

“cessante ratione legis, cessata est ipsa lex”.

Affermazioni tanto condivisibili quanto gravi, soprattutto in

una cultura giuridica come la nostra, più propensa all’opzione

formalistica che a quella dell’equità come nei Paesi di common law.

Tanto che si è subito avvertito il pericolo, insito nel criterio della

ratio, costituito da una tentazione verso le soluzioni arbitrarie e una

minaccia al dogma della certezza.505

Bobbio distingue tra ragione sufficiente dell’esistenza della

norma e ragione sufficiente della sua verità: la prima, che individua

501

Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p.

601. 502

P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e

assiologica, cit., p. 992, avvallando così la contraddizione di Bobbio: cfr. supra n.

474. 503

Così R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv.

trim. dir. proc. civ., 1951, p. 763. 504

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II, cap.

2. 505

Ancora R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p

.763.

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193

come fatto storico, è la causa della norma, mentre la seconda, che è

un giudizio, ne forma il fondamento.506

La ragione sufficiente della norma, la “ragione per cui essa è

quello che è (nihil est sine ratione cur potius sit quom non sit)”507

e

per cui un effetto è tale in rapporto ad un certo caso, non sarebbe

data da una razionalità come astratta ragione, ma come ragione

immanente, secondo Bobbio508

come “storicità” tramite cui si risale

alla volontà.

Addirittura il chiaro autore arriva a dire che la volontà della

legge e nella legge è per lo più ignota, e quando è nota lo è

attraverso la ragione, tanto che se ci fosse una volontà, nota, non

coincidente con la ragione della legge sarebbe della ragione e non

della volontà che si dovrebbe tenere conto.509

Ma codesta razionalità è concepibile, a questo livello, anche

come adeguatezza della norma rispetto allo scopo, il che equivale a

dire che, proprio in virtù dello scopo, la norma è posta a contatto

con l’esperienza sociale e con quelle istanze che la giustificano

nella sua storica attualità,510

circostanze in grado di offrire un

criterio fondamentale per la conoscenza del suo contenuto. Se,

allora, razionalità è adeguatezza allo scopo ciò significa anche

ripudiare ogni concezione formalistica e concettualistica della legge

per accoglierne invece una concezione teleologica.511

Scopo e ratio

della norma si avvicinano, pertanto, fino a identificarsi.512

506

La distinzione era già stata rilevata da C. NEGRONI,

Dell’interpretazione, Roma, 1878, p. 83. 507

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 165. 508

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II cap.

4. 509

N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 510

M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 635. 511

M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 634. 512

Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.

107; E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 166; L.

SCARANO, Il problema dei mezzi nell’interpretazione della legge penale, in Riv.

it. dir. pen., 1952, p. 164.

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194

Ma nel definire l’analogia come lo strumento mediante cui si

trascende il contenuto di una norma espressa per applicare una

norma inespressa implicita nel sistema,513

rinvenibile aliunde

proprio sulla base di una comune ratio, non ci si discosta dal

definire l’interpretazione estensiva. Questa, comunque, è un

estendere in virtù di una ratio rinvenuta per analogia: perciò se a

caratterizzare entrambi i procedimenti è tale comune intuizione

analogica, basata sulla ratio, non vi è, di nuovo, ragione di

distinguerli.

Ciò che fin qui si è data per scontata è, tuttavia, proprio

l’equiparazione tra la “ragion sufficiente” della norma e la sua ratio

e così, nel parlare di analogia, tra scopo o fondamento di una norma

ed elemento autorizzante l’equiparazione. L’apriorismo si è dato

proprio non discutendo la riconducibilità dell’idea di ratio entro i

concetti di una logica formale:514

si è tralasciato di considerare,

cioè, che il giudizio che consente tale equiparazione appartiene non

soltanto ai giudizi logici o di fatto, ma anche e soprattutto ai giudizi

di valore. È quindi sul dato assiologico, sull’elemento valutativo

insito nella scelta della norma e del principio da applicare, che

trovano fondamento i processi di estensione e di analogia e su tali

basi, prima ancora che su elementi di logica formale, che se ne

dovrà ricercare la distinzione.

La giurisprudenza ricorre sovente all’elemento della ratio,

soprattutto per giustificare applicazioni - analogiche o estensive -

più “audaci”, come per avallare l’introduzione di nuove

interpretazioni facendole rientrare nel contenuto delle norme.

Spesso, anzi, viene addirittura negata l’applicazione dell’analogia o

dell’interpretazione estensiva perché si comprende una certa

interpretazione entro la ratio della norma così che, si dice, non vi è

nemmeno bisogno di ricorrere a tali strumenti ermeneutici.

Prendono l’identità di ratio come elemento di paragone tra

due istituti, o due materie o casi, e quindi come dato che autorizza o

513

Per tutti G. BETTIOL, Diritto penale, Palermo, 1945, p. 84. 514

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 364.

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195

nega l’applicazione analogica, numerose sentenze,515

tra cui

rilevante è quella della Cassazione del 1981516

che vieta non solo

l’interpretazione analogica, ma anche quella estensiva nel caso di

disposizioni di diritto singolare, laddove la ratio legis non persuada

che “il legislatore ebbe in mente di estendere il suo precetto a casi

apparentemente non contemplati”. Vi si fa riferimento, cioè, ad una

ratio in grado di persuadere sulla ratio, ad una razionalità o

ragionevolezza che autorizza un’interpretazione anche esorbitante

l’apparenza, forse quest’ultima coincidente con la letteralità.

Interessante è anche il rilievo della sentenza della Cassazione

del 1990517

che, sempre nell’ambito di norme di diritto eccezionale

o singolare, ne esclude, invece, sia l’applicazione analogica che

l’interpretazione estensiva con riferimento a situazioni che, sebbene

similari a quelle contemplate espressamente, “esorbitano

dall’ambito di operatività della norma stessa, individuato alla

stregua della ratio legis”. La ratio qui è l’elemento che serve ad

individuare l’ambito di operatività, il “confine” della disposizione

di legge.

Emerge, allora, come sia ancora lontana dalla nostra

tradizione giudiziale, come si è potuto constatare, la concezione

della ratio come anima della norma e come elemento assiologico in

grado di sostenerne una corretta ermeneutica, almeno nelle

dichiarazioni esplicite, contrariamente alla dottrina che, invece, su

questi punti ha da tempo avviato le sue riflessioni.

515

Cfr. Cassazione penale sez. I, 10.11,1993 in Foro it. 1995, II, 558;

Cassazione penale sez. I, 12.1,1993 in Cass. pen. 1993, 6, 79; Cassazione civile

sez. I, 19.4.1991 n. 4234 in Foro it. 1991, I, 3114; Consiglio Stato sez. V,

26.10.1990 n. 731 in Foro amm. 1990, fasc. 10. 516

Cassazione civile, sez. lav., 28.3.1981 n. 1800 in Giust. civ. Mass.

1981, fasc. 3. 517

Cassazione civile, sez. lav., 2.2.1990 n. 689 in Giust. civ. Mass. 1990,

fasc. 2.

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196

12. LE SOLUZIONI AL PROBLEMA DELLA

DISTINZIONE

12.1. Premessa logica: ragionamento per analogia nella logica in generale e nel diritto in particolare

12.1.1. L’analogia nella riflessione teologica e filosofica.

L’analogia nella logica: le proposizioni. Ragionamento sottinteso:

induttivo, deduttivo, sussuntivo. Ragionamento per analogia come

di probabilità (storicamente condizionato), non di certezza. Critica

alla completa equiparazione tra analogia nella logica generale e

nella logia giuridica. Esistenza di un termine medio che non è nella

legge ma è nel diritto, come un giudizio di valore, non logico in

senso stretto.

Prima ancora di essere utilizzato come strumento di

interpretazione giuridica quello dell’analogia ha costituito uno dei

termini del ragionamento nella logica e, forse prima ancora, nella

teologia.

Si è già accennato come per quest’ultima l’analogia sia, anzi,

stata considerata un’importante - talora l’unica - forma attraverso

cui si è ritenuto che l’uomo possa attingere alla conoscenza del

trascendente. Tutta la tradizione di pensiero occidentale, quindi, si

può dire segnata, secondo un apparente e dirompente ossimoro,

dall’intuizione analogica,518

non solo a partire dalla speculazione

filosofica, ma anche in ambito di speculazione teologica.

518

L’apparente antiteticità dei termini non deve trarre in inganno. Potrebbe

sembrare, infatti, impossibile una coesistenza dell’elemento di rigorosa logicità

fornito da un procedimento come quello analogico con il dato, empiricamente a-

logico - o almeno che mette tra parentesi il discorso logico - dell’intuizione. In

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197

Nella stessa concettualizzazione biblica519

dell’uomo si può

riconoscere, pertanto, il nucleo essenziale della struttura di

verità parlare di intuizione analogica non è affatto contraddittorio se si parte da

un’accezione di analogia come quella che si viene delineando. Ciò che rende, in

ambito giuridico, l’analogia così intesa vicina all’intuizione è, infatti, il

superamento del dato letterale della norma per passare, sul piano assiologico, al

collegamento con il sistema giuridico di riferimento. L’attualizzazione della

norma e la sua interpretazione secondo la “vivente attualità”, dunque, avviene per

un procedimento che approda al dato assiologico con un “salto”, oltre la stretta

positività normativa, assimilabile a quello di un’intuizione. Questo non significa,

tuttavia, che l’interpretazione analogica sia qualcosa di abbandonato ad una sorta

di fluttuare tra le illuminazioni emozionali dell’interprete. La forza di gravità di

questa “intuizione” è, comunque, la sua rigorosità, e il suo legame non tanto alla

soggettività dell’ermeneuta quanto al dato dell’orizzonte assiologico cui dà

accesso.

Anche rimanendo su un piano non strettamente giuridico, comunque, si

può sottolineare il fatto che, a ben vedere, persino la conoscenza intuitiva, per

quanto scevra di ragionamento, non possa prescindere dall’approdo a risultati

analogici e come, per converso, la conoscenza analogica non possa non avvalersi

di procedimenti intuitivi.

Interessanti a questo riguardo sono anche le considerazioni di Husserl

nelle Ricerche logiche, II vol., a proposito dell’intuizione empirica, rivolta

all’oggetto individuale, e dell’intuizione categoriale, che, partendo dall’oggetto

empirico e in connessione con esso, coglie l’oggetto generale. Quest’ultimo tipo

di intuizione raggiunge il mondo delle essenze o delle idee, e a queste Husserl si

rivolge come ad “ontologie regionali”, regioni in cui l’essere si articola e si

differenzia. Mi sembra che si possa cogliere un certo parallelismo tra l’idea di

intuizione analogica e l’analisi del filosofo tedesco cui si è fatto cenno.

Si può accennare qui al fatto che un’interessante analisi sull’intuizione e

sulla sua portata gnoseologica fu approfondito da diversi autori, tra cui H.

Bergson (Introduzione alla metafisica, 1903) e attraverso le idee di quelli che

furono definiti “intuizionisti”, in particolare della cd. scuola del senso comune,

per i quali alla base dell’agire etico stava l’intuizione, come capacità di cogliere

principi razionali oltre la conoscenza empirica e come strumento per conoscere in

modo prerazionale (“affettivo”, diranno Hartmann e Scheler) i valori morali. Su

questo carattere “affettivo” della conoscenza, peraltro, indugia lo stesso Betti (Di

una teoria generale dell’interpretazione, p. 41 ss) dove abbozza il discorso a

proposito della cd. spiritualità dell’interprete, di cui si è già discorso al cap. 1.

Permane, ad ogni modo, come si può constatare, una pesante ipoteca della

conoscenza analogica su tutta il pensiero occidentale. 519

Cfr. Gn, 1, 26: “E Dio disse: ”Facciamo l’uomo a nostra immagine, a

nostra somiglianza, [...].”

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198

conoscenza analogica: l’uomo è fatto a “immagine e somiglianza”

di Dio, cosicché conoscendo l’uomo è possibile conoscere Dio

nonostante i due termini non siano identici (o forse proprio per

quello). L’uomo conosce Dio, insegna la tradizione biblica, per

analogia con l’esperienza che fa di se stesso:520

questa impostazione

rimane viva nella gnoseologia occidentale, che continuerà a riferirsi

allo strumento dell’analogia come al mezzo in grado di mettere in

relazione gli “enti” consentendo una sorta di superamento della

“datità”521

a fronte dell’accesso all’”ulteriorità”.

520

L’immagine di Dio nel creato non è l’uomo individualmente

considerato, ma l’uomo in quanto umanità. Secondo l’interpretazione che ne dà

Gregorio di Nissa (De hominis opificio 140C) per procedimento d’analogia è

possibile conoscere di Dio anzitutto l’unicità: poiché l’immagine è unica, anche

l’archetipo sarà uno. Tuttavia è possibile conoscere, sempre secondo Gregorio

(Contra Eunomion, 256), solo ciò che è intorno a Dio, a causa della pochezza

della intelligenza umana. “Poiché ci sfugge la natura della nostra intelligenza che

è ad immagine del Creatore, ciò dimostra in maniera perfetta la somiglianza con

Colui che la domina, esprimendo attraverso il mistero che è in lei la natura

inconoscibile”. Interessante notare che la duplice definizione “immagine e

somiglianza”, variamente interpretata, è intesa dall’autore citato come un

rapporto di reciproca implicazione ma di non coincidenza. Per Gregorio, anzi,

nella ragione risiede l’immagine, nel nous, ed è causa efficiente della

somiglianza, che si acquista attraverso il gioco della libera volontà.

Non sarà superfluo, ad ogni modo, sottolineare l’opportunità di una lettura

non in termini di essenza ma di rappresentazione, di specularità del racconto

esameronale; il che non toglie, tuttavia, l’influsso che la struttura di conoscenza

analogica, nel passo contenuta, ha esercitato sul pensiero occidentale. 521

L’analogia, cioè, è il mezzo attraverso cui la realtà, che appare come un

dato, consente di accedere alla trascendenza, a quell’”ulteriore” che emerge dalla

relazione tra gli “enti”. Davanti all’insufficienza del “dato” della conoscenza

soccorre, cioè, l’analogia. Stabilire un’analogia tra due “enti”, allora, significa

oltrepassarne i confini di conoscibilità per aumentare, al contrario, le possibilità

di conoscenza. Che cosa rivela la relazione tra i due enti? Se è una relazione di

analogia significa non solo che c’è del diverso e c’è del comune tra questi enti,

ma anche che il loro legame rimanda ad un assetto - di “valori”, o di “essenza” -

che oltrepassa il primitivo dato conoscitivo e forma una sorta di inter-essenza,

come tale ulteriore.

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199

Siffatta “analogia degli enti” fu sviluppata in ambito teologico

soprattutto dal tomismo,522

favorendo questo “prestito” delle

nozioni trascendentali da una realtà all’altra - umana e divina,

naturale e soprannaturale - sulla scorta della loro avvicinabilità.

D'altronde vale la pena sottolineare come la stessa matrice del

tomismo, Aristotele,523

utilizzò i concetti di “somiglianza” per

indicare non qualunque concordanza di due termini, ma la

concordanza di due termini sotto l’aspetto della qualità.524

I

dialettici parleranno di similitudo e diranno che “nihil aliud est,

quam rerum differentium eadem qualitas”.525

E dunque, se ogni

forma di conoscenza avviene per “riconoscimento” per identità e

differenza dell’ignoto comparato con il già noto, allora ogni forma

di conoscenza è mutuata sull’analogia. Anzi, l’analogia costituisce

il paradigma stesso della conoscenza in generale e, quindi, anche

del ragionamento giuridico.

Siamo al nodo del problema: la difficoltà nel distinguere

analogia da interpretazione estensiva si annida nella circostanza

(nulla di più) che quest’ultima (come ogni forma di conoscenza)

partecipa della struttura euristica per identità e differenza o per

confronto tra “diverso” e “comune”.526

522

Ma fu respinta da autori come Duns Scoto e Occam, che rivendicarono,

invece, l’univocità degli enti. Fra i contemporanei anche Barth nega l’esistenza di

similitudini tra Dio e il mondo, respingendo anzi ogni discorso analogico in sede

teologica. Cfr, in questo senso F. BOTTIN, La scienza degli Occamisti, Rimini,

1982, specialmente p. 87. Altresì, cfr. P. VIGNAUX, La filosofia del medioevo

(1987), trad. it. Bari, 1990, specialmente, p. 61 e ss., 105 e ss. 523

Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, libro V, citato anche da N. BOBBIO,

L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap. I. 524

Per la verità i concetti sono enunciati con diversa significanza anche

dalla speculazione platonica. Cfr. PLATONE, Il Sofista, 235 e), ed. a cura di

Arangio-Ruiz, Bari, 1951. Cfr. supra n. 4. 525

N. BOBBIO, op. loc. ult. cit., che tralascia, tuttavia, ampi momenti della

riflessione classica su cui infra. 526

Seppure rimanga affermata nel linguaggio corrente la dizione principio

per identità e differenza, la dottrina più attenta già da qualche decennio ha messo

in luce come questa dicitura risulti impropria. Infatti, il confronto dialettico non

potrebbe darsi “per identità”, poiché, in ossequio alla confutazione platonica del

sofista attorno alla quadripartizione dell’essere (uno - molti, quieto – in moto) due

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200

termini “identici” non potrebbero sussistere, in quanto sarebbero la medesima

cosa. Per questo l’indagine dovrebbe avvenire solo per “comunanza e diversità”,

cioè raggruppando e dividendo gli oggetti da conoscere per ciò che gli accomuna

e per ciò che li diversifica. In verità, a ben vedere, la “comunanza” dei due oggetti

a confronto può darsi solo tramite un procedimento analitico che, sezionandoli,

individui i profili “identici” tra i due termini che, per questo aspetto, diventano

“comuni”. Come possono dirsi “comuni” due oggetti di indagine, se non legati da

spetti che sono tra loro “identici”? La comunanza non può che essere data dalla

corrispondenza dell’oggetto con il suo archetipo. Ciò che rende due termini

“comuni” non può che essere l’identità, cioè l’esatta sovrapponibilità di uno o più

dei loro aspetti, che poi questi aspetti si presentino già distinti dal fatto di

accedere a due termini diversi, fa si che gli oggetti di indagine siano due e non

uno. Altresì, il procedimento della dialettica classica deve essere completato con

il principio, anch’esso di origine platonica, di non contraddizione e terzo escluso,

ponendo la ricerca in termini di alternativa dualista e identificando il termine di

indagine in un dato tempo, giacché il fluire del “divenire” consente a Socrate (per

mantenere il noto esempio) di essere prima seduto e poi in piedi, giacché solo

nello stesso tempo egli non può essere in piedi e seduto. Così come, l’alternativa

tra identità e differenza può esplicare la sua efficacia euristica solo se mantenuta

nei termini dell’alternativa, giacché l’introduzione di un tertium genus sposta il

termine di indagine compromettendo il confronto. Per questo motivo, pur

mantenendo la consapevolezza della diversità che distingue “identità” da

“comunanza” (e proprio a questa condizione) non riteniamo di dover mutare la

terminologia di quello che è orami conosciuto come principio per identità e

differenza, non contraddizione e terzo escluso. Tra le molte monografie tedesche,

per il ruolo che hanno avuto ed ancora hanno nella storia del pensiero, cfr. E.R.

BIERLING, Zur Kritik der juristischen Grundbegriffe, Gotha, 1877; IDEM,

Juristische Prinzipienlehre, Freiburg und Leipzig, 1894; R. STINTZING,

Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig, 1880; E.

LANDSBERG, Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und

Leipzig, 1898; più recentemente, cfr. W. SAUER, Juristische Methodenlehre.

Zugleich eine Einleitung in die Methodik der Geisteswissenschaften, Stuttgart,

1940; F. MÜLLER, Juristische Methodik, Berlin, 1976; nonché il più diffuso K.

LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, V ed., Berlin, 1983, della cui I

ed. (1960) esiste una traduzione italiana, non a caso, limitata alla parte storica,

Storia del metodo della scienza giuridica, Milano, 1966. In Francia, oltre ai

capitoli dedicati al metodo nelle opere di Gény, di Eisenmann, Batiffol e Villey

cfr. particolarmente, P. AMSELEK, Méthode phénoménologique et théorie du

droit, Paris, 1964, p. 24 e ss. Per un'esplicita professione di applicazione del

metodo di identità e differenza e del principio di non contraddizione e del terzo

escluso, in un ampio capitolo introduttivo di carattere metodologico, ad

imitazione delle migliori monografie germaniche, cfr. la rilevante opera di G.

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201

Il concetto di analogia, nato per gemmazione dall’intuizione

platonica, riceve nuova linfa innestandosi nelle costruzioni della

matematica che attingevano all’idea di proporzione, tanto che

ancora oggi l’elaborazione sull’analogia oscilla sovente tra il

significato, in termini matematici, di “proporzione” e quello, più

generico e in termini logici, di “comparazione”.527

La struttura logica dell’analogia ha, dunque, sempre fatto

riferimento al concetto di “comunanza” tra due termini: la stessa

derivazione greca del termine ( indica la relazione di

identità, similitudine, tra due elementi o discorsi. E da qui, a partire

dall’analisi delle proposizioni matematiche (e logiche), si è dipanato

il percorso logico attraverso cui storicamente è andato ad operare lo

strumento analogico.

Si rende indispensabile, a questo punto, soffermarsi

brevemente su tale percorso, al fine di chiarire quel ragionamento

logico che, successivamente, verrà tradotto in termini giuridici.

Dato un predicato afferente un soggetto si è giunti ad

attribuire lo stesso predicato ad un diverso soggetto in base alla

relazione logica di similitudine tra i due. In simboli, utilizzando il

linguaggio proprio delle proposizioni matematiche e logiche,

modernamente si è indicato questo procedimento analogico

mediante le espressioni “q è p”, dove q è il soggetto e p il predicato,

per indicare l’attribuzione di un predicato ad un soggetto; “s è p”,

dove s è il diverso soggetto, per indicare l’assegnazione dello stesso

predicato ad un diverso soggetto; “s è simile a q” , per indicare il

BRUNETTI, Il dogma della completezza dell'ordinamento giuridico, Firenze, 1924,

p. 27. Cfr. altresì W. SAUER, Juristische Methodenlehre, cit. p. 327 e ss., p. 441 e

ss., nonché 560 e seg. La rilevanza (anche) giuridica del principio di non

contraddizione, inteso come condizione per il significato di ogni altro discorso,

viene evidenziata da E. BERTI, Il principio di non contraddizione come criterio

supremo di significanza nella metafisica aristotelica, memoria presentata dal

socio effettivo Marino Gentile in “Rendiconti della Classe di Scienze morali,

storiche e filologiche” dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti (Venezia),

serie VIII, vol. XXI, fasc. 7-12 – Luglio – Dicembre 1966. 527

Ci ricorda il detto di M. T. CICERONE nel Timaeus, “Id optime

adsequitur, quae Graece latine comparatio proportiove dici potest”,

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, cap. V.

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202

passaggio di predicato sulla scorta della relazione e ragione

sottostante di similitudine.

Di per sé, si è detto,528

tale ragionamento non offre alcuna

garanzia di validità, dato che per rendere credibile il passaggio del

predicato “p” dalla proposizione “q” alla proposizione “s” è

necessario che “p” sia la ragione sufficiente di q e di s. Il predicato

“p” deve, cioè, poter sostenere sia il soggetto “q” che il soggetto

“s”.

Si è, allora, detto che, per dare credibilità al passaggio tra “q”

e “s” si rende opportuno introdurre un nuovo elemento nel

ragionamento, simboleggiato con “m”, che rappresenta il

fondamento di validità della proposizione “s è p”. Da qui, poi, si è

reso, in questo modo, possibile la transitività tra “q” e “s”, dato che

si è allargato il discorso logico sfruttando il “ponte” dell’elemento

“m”, passando attraverso la sequenza “q è p”; “q è m”; “s è m”; “s è

p”.

A questo punto, però, introdotto il concetto di un “m” in grado

di spiegare in modo plausibile il passaggio tra “q” e “s”, si è resa

necessaria una giustificazione di tale “m”, supposto esistente per

giocoforza logico, ma implicante una sostenibilità almeno

sufficiente. Si possono, su questo punto, rinvenire quanto meno due

ordini di giustificazioni.529

Da un lato si è spiegato questo termine medio “m” come una

relazione del tipo fondamento a conseguenza: “m” sarebbe il genere

di cui “p” è il predicato, tale per cui si renderebbe possibile dire

“tutti gli m sono p” e farne il fondamento di validità del

ragionamento. In questo caso, perciò, il procedimento per analogia

si è avvalso della logica deduttiva, cosicché il passaggio da “q è p”

alla proposizione “s è p” è scaturito da una deduzione sulla

proposizione generale “tutti gli m sono p”.

Dall’altro lato si è individuato questo “m” come una relazione

del tipo causa ad effetto: sarebbe, in forza di ciò, possibile dire “m è

la causa di p” e farne, a sua volta, il fondamento di validità del

528

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 81 e ss. 529

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 97 e ss.

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203

ragionamento. In questo secondo caso, come si può notare, il

procedimento per analogia si caratterizza, invece, come induttivo,

sulla base dell’osservazione empirica che “m è la causa di p”.

Traducendo tutto questo dal piano strettamente logico al piano

giuridico si arriva ad affermare che è applicabile una certa

disciplina giuridica prevista per un caso - contemplato - ad un caso

che non è contemplato nella lettera della legge per il fatto di

riconoscere una relazione di somiglianza - o la ragione comune? -

tra i due casi.530

Ma proprio su questo punto si innescano i contrasti,

sull’individuazione di quel quid in grado di consentire il passaggio

logico dal caso contemplato alla disciplina del caso non

contemplato, da “q”, “a”, “s”.

Non solo. La difficoltà nel distinguere l’analogia

dall’interpretazione estensiva consegue alla difficoltà

nell’individuare il confine di quel “q” e la comprensività di quel

“m”, nonché la effettiva distinguibilità tra “q” e “s”. Difficoltà

insormontabile ove si insista nell’indugiare (ecco il limite!)

nell’allargamento dei “soggetti” per accomunarli tutti sotto lo stesso

“predicato”, si pretenda cioè di risolvere e giustificare il passaggio

dal caso contemplato “q” al caso non contemplato “s” mediante un

allargamento del concetto di “q”, tale per cui vi si finisca per

includere lo stesso “s”. Come, infatti, delineare i confini di “q” e

decidere, per ipotesi, che, contrariamente a quanto è possibile fare

con “s”, non vi rientra l’ipotesi “t”, totalmente estranea alla

comprensività di “q”?

Per accedere ad una risposta il più possibile univoca si rende,

allora, necessaria l’analisi della struttura dell’analogia sulla scorta

delle sollecitazioni che vengono dalla riflessione logica, nonché del

fondamento - politico, giuridico e logico - dello stesso

procedimento.

Si è accennato alla configurabilità del procedimento per

analogia come ragionamento deduttivo, ma anche, secondo altra

accezione, induttivo.

530

M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 624.

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204

Per quanto riguarda l’induzione la riflessione logica e

dottrinale non si è curata troppo di distinguerla sia

dall’interpretazione che dall’analogia. Comunemente si è intesa,

perciò, l’induzione come una fase del procedimento analogico,

tramite cui dal precetto si evince il principio, dalla norma la ratio.

In quest’ottica531

l’induzione diventa quasi un procedimento

autonomo, che può vivere anche indipendentemente dall’analogia, e

non più, pertanto, come una sua fase. L’induzione, infatti, si può

ritrovare in quei procedimenti, cui si è più indietro dato rilievo,532

di

ricerca dello “spirito del sistema” propri, piuttosto,

dell’interpretazione in quanto tale533

e della norma.

Non si è mancato, tuttavia, di osservare che, mentre

l’induzione si struttura come una ricerca eminentemente

oggettiva,534

la ricerca dello spirito si fonda su un ritrovamento

delle “valutazioni immanenti e latenti” nella legge le quali, nel

momento in cui costituiscono la ratio iuris di norme già formulate,

possono essere adoperate come base o “addentellato da cui ricavare

e rendere esplicite le massime adatte alla decisione cercata”,535

come sottolinea lo stesso Betti. Induzione e ricerca dello spirito

vengono perciò, con queste puntualizzazioni, differenziandosi. Ciò

significa che si viene attenuando anche la portata

dell’avvicinamento dell’analogia all’induzione, almeno in senso

stretto, e così che, sul piano logico, sarà necessario spingere altrove

l’analisi dello strumento analogico.

Si è cercata, allora, un’affinità tra l’analogia e la deduzione,

tentando di costruire, cioè, il procedimento analogico come un

fenomeno deduttivo: la situazione particolare prevista dalla legge,

da estendersi al caso simile, si è individuata come esemplificativa, e

531

Cfr. L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale,

Milano, 1975, p.295. 532

Cfr. § 4.3 533

La colloca in questi termini L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto

giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 295 nota 283, o ammette che si parli,

piuttosto, di “astrazione” o “generalizzazione”. 534

Lo sottolinea E. EHRLICH, Juristische Logik, Tübingen, 1925, p. 258. 535

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit. p. 31.

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non tassativa,536

cosicché si è resa possibile la concretizzazione dei

principi in soluzioni, e si è dato vita, così, alla vera e propria

applicazione.

Non solo. Si potrebbe qualificare come deduttivo anche il

procedimento attraverso cui si sono trasformati e combinati i

principi per produrne di nuovi, in una sorta, diremmo, di

“deduzione di alto livello”.

Come si può vedere si sono fusi e confusi in un unico

elemento, quello deduttivo, più procedimenti e, inoltre, anche in

questo caso, se si può riconoscere una componente deduttiva nel

procedimento analogico, non è altrettanto sostenibile la perfetta

coincidenza tra la deduzione e l’analogia. La deduzione, come per

l’induzione, è stata ritenuta sussistere, infatti, anche autonomamente

da un discorso analogico.

Si è allora parlato, a proposito dell’analogia, di induzione

imperfetta,537

e di deduzione temperata538

nel tentativo di conciliare

i due procedimenti logici con le caratteristiche dello strumento

ermeneutico e con le conseguenze che comporta l’applicazione al

fenomeno giuridico di detti procedimenti. A ben vedere sia

quest’ultima posizione, sia quella che la precede sono affette dal

medesimo vizio di derivazione scolastica, cioè –rispettivamente- la

fiducia nella deduzione come fondamento della conoscenza, sulla

base del sillogismo aristotelico, oppure la costruzione speculare

fondata sull’induzione di derivazione empirica in forza della critica

alle capacità euristiche della deduzione dacché predicatus inest

subjecto. In questo senso l’analogia viene di volta in volta

ricostruita da quello che è ritenuto il punto di partenza: la deduzione

o l’induzione. Ci si deve chiedere se non debba avvenire l’opposto:

se il procedimento originario della conoscenza (addirittura il

“sistema di funzionamento” della nostra mente) è il movimento

536

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II., cap.

II. 537

M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 624. 538

L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,

1975, p. 297.

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dialettico per identità e differenza, allora sono induzione deduzione

a dover essere plasmati sulla struttura dell’analogia. E proprio a

questo sembrano condurre i tentativi di conficcare questa in quelle.

Il margine di incertezza della induzione così come della

deduzione sembra essere dovuto alla necessità, in ambito giuridico,

di postulare, in ogni caso, la ragionevolezza del legislatore o

comunque del sistema giuridico nel suo complesso. Perché, in tutti i

casi, per deduzione o per induzione, l’applicazione della norma

rimarrebbe sempre incerta? Per la necessità di postulare, sempre la

ragionevolezza dell’interprete: senza questa non ci sarebbe, infatti,

mai deduzione o induzione veramente “sicura”. Senza dire, poi, del

fatto che, per quanto concerne il discorso induttivo, un margine di

incertezza sarebbe dato dall’impossibilità di risolvere del tutto

quella critica giusliberista che nega la giuridicità dei principi

ricavati per induzione.

Premesso ciò, pertanto, l’induzione sarebbe imperfetta, perché

applicata all’analogia si caratterizzerebbe solo come giudizio di

probabilità e non di certezza: imperfetta in quanto probabile ma non

certa, come invece richiederebbero i canoni di un procedimento

logico puro. Tradotto in termini giuridici avvalersi di un’induzione

imperfetta significherebbe, allora, pensare come applicabile una

norma sulla base della somiglianza con un’altra disciplina,

ritenendo quella disciplina, non prevista per il caso non regolato,

come altamente probabile.539

L’incertezza connessa alla deduzione, poi, tale per cui si è

parlato, appunto, di déduction tempérée, sarebbe data anche da un

altro fattore. Si renderebbe sempre necessario, infatti, come

procedimento a posteriori ma anche in fieri dell’interpretazione,

dare luogo a una verifica, da parte dell’interprete, di tipo assiologico

sui risultati dell’interpretazione medesima, “temperandone”,

dunque, gli esiti. E ciò al fine di evitare, appunto, l’irrazionalità

della deduzione in relazione al sistema, o al contesto, o a fronte di

539

Sull’applicabilità dei criteri probabilistici all’analogia vedi infra.

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un’avvenuta evoluzione del caso rispetto ai principi che

disciplinano la fattispecie simile.

In entrambe le ipotesi, pertanto, la necessità di un controllo -

che presto si rivela di tipo assiologico - sui risultati

dell’interpretazione diremmo così “logica”, impedisce la completa

assimilazione non solo dell’analogia, ma anche della stessa

interpretazione tra i procedimenti mutuabili dalla logica in senso

stretto e tradizionale.

Per la medesima ragione, e a fortiori, è da respingere l’idea di

sussunzione quale ragionamento sottinteso al procedimento di

analogia, come si è già avuto modo di approfondire.540

Rigettata, almeno su queste basi, la stretta logica del

sillogismo giuridico - e giudiziario - si è anche sostenuto che la

cosiddetta inferenza analogica null’altro sia se non, appunto un

ragionamento di probabilità e non di certezza. Probabile nel senso

di storicamente condizionato, proprio perché l’analogia si applica

come un giudizio di valore e non come un giudizio logico o di

fatto.541

Il giudizio analogico, infatti, richiede di accertare non tanto la

causa di un evento naturale, o i presupposti strettamente logici di

un’argomentazione: esso implica il rinvenimento del “motivo

storico” della norma, che non si identifica, evidentemente, con le

mere motivazioni politiche del legislatore, ma implica, comunque,

una serie successiva di scelte, tra cui quella della norma da

applicare, del procedimento analogico con cui giustificarne

l’applicazione, della giustificazione teleologica implicita nella

valutazione del rapporto caso-disciplina.

La probabilità insita nel procedimento analogico, pertanto,

non è altro che quel “salto assiologico” che ogni interpretazione

540

Sulla sussunzione cfr. § 3.2.1, dove si sono prese le distanze dallo

schema della sussunzione, contro cui si scagliò lo stesso Betti, riconoscendo

peraltro il carattere di creatività del processo che collega il caso alla norma, ma

non più che come svolgimento normale dell’atto di interpretazione. 541

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 364; L. CAIANI, I giudizi di valore

nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953, p. 14 e ss.

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208

richiede, ma allora, ancora una volta, nemmeno sul piano logico si

può giungere ad una netta differenziazione tra l’analogia e

l’interpretazione in quanto tale e, a maggior ragione, in quanto

estensiva.

Si è anche cercato di sostenere il carattere logico dell’analogia

individuando in essa un procedimento mediante cui una parte della

norma, in special modo la conseguenza giuridica, viene ricondotta a

una fattispecie astratta che si sostiene non essere espressamente

regolata.542

L’analogia, definita, secondo quest’impostazione, come

Niveauschluss, come deduzione di livello, sarebbe una sorta di

inferenza dove non si ha modificazione, appunto, del livello di

generalità: il passaggio avviene da una norma generale ad un’altra

norma generale. Il problema cruciale, comunque, rimane sempre

quello dell’affidabilità dell’estensione della disciplina che

l’applicazione analogica - o estensiva - comporta.

Alcuni autori hanno negato, perciò, la configurabilità

dell’analogia come un procedimento di probabilità543

avvalendosi

della critica secondo cui parlare di probabilità di una norma è, per

definizione, un nonsenso.544

Ciò che può essere certo o, al contrario,

probabile - si è detto - non è tanto un ragionamento logico, il quale

può solo essere formalmente valido o meno, quanto piuttosto le

conseguenze di quel ragionamento, ove consista in un giudizio di

fatto che possa dirsi, pertanto, “empiricamente vero o falso”.

Il ragionamento per analogia, quindi, non può essere

probabile o certo, ma semmai valido o meno. Solo a patto, però, di

riferirsi a un’entità che possa essere reputata vera o falsa. Ma la

norma non può mai ricondursi ad uno schema di vero-falso in questi

termini strettamente logici, per cui il ragionamento per analogia su

una norma non può seguire queste categorie di certezza-

probabilità.545

Peraltro, la validità o la probabilità, per vero,

542

Ne fa parola L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I,

1987, p. 322. 543

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 89. 544

L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, cit., p. 323. 545

L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, cit., p. 323.

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209

presuppongono l’univocità di senso o di ratio, che è l’oggetto della

discussione: sicché la posizione in esame sembra incorrere in una

petizione di principio.

Ciò che lascia perplessi in tutto questo argomentare è

comunque il tentativo di incasellare entro precise categorie logiche -

o meglio logicistiche - il processo interpretativo e, pur negandolo

esplicitamente, il cedere di continuo alla tentazione di avvicinare la

logica giuridica a quella scientifica, o meglio di far coincidere i

criteri e i ragionamenti del diritto con quelli della logica formale. È

questo indugiare nel logicismo giuridico che, illudendo che sia

possibile trarre dalla legge nuovo diritto mediante operazioni

puramente logiche, fa perdere di vista il fatto che il ragionamento

ermeneutico, e quindi la scelta tra i metodi interpretativi, non può

avvenire sulla base di considerazioni meramente logiche o tecniche,

ma deve, alla fine, per forza essere condotta sulla base di giudizi di

valore capaci di trovare consenso e aderenza storica più di qualsiasi

inferenza logica.546

Per lo stesso Bobbio è da negarsi, pertanto, una completa

equiparabilità del ragionamento per analogia nella logica e nel

diritto547

e da riconoscersi, al contrario, una sostanziale complessità

di esso, proprio in virtù della componente assiologica, tale per cui è

anche possibile ipotizzarlo come ragionamento entimematico -

come lo definisce Bobbio548

- che procede da premesse verosimili

per arrivare a conclusioni non assolutamente certe. Ammettendo,

così, che la logica giuridica può anche non coincidere con quella

formale si arriva ad ammettere l’analogia giuridica come

ragionamento che procede per probabilità.

La proposizione assunta come universale, allora, poiché si

potrà rivelare come solo tendenziale o, pur formalmente

546

Sul punto, cfr. F. GENTILE, Politicità e positività nell'opera del

legislatore. Relazione al 17. Congresso della Societa Italiana di Filosofia

Giuridica e Politica (1989), Catanzaro, 1998. 547

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 363. 548

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap.

I.

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ineccepibile, inadatta alla “imprevedibile e inesauribile creatività

del reale” andrà costantemente verificata alla luce proprio del dato

assiologico.549

E poiché la razionalità del sistema non è un dato ma,

semmai, un prodotto,550

l’analogia finisce per essere null’altro che

un procedimento di attribuzione di valore che ricerca il “termine

medio”, quella “m” delle proposizioni logiche, non nella legge, ma

nel diritto,551

non nella sfera razionale, ma in quella etica.

È chiaro, però, che ciò si verifica solo laddove legge e diritto

siano supposti come distinti e non coincidenti, sul presupposto che

la legge non sia che una delle fonti dell’ordinamento giuridico.552

Non bisogna dimenticare, infatti, che non tutta la letteratura

giuridica sull’antichissimo tema del rapporto tra legge e diritto si è

risolta a favore di una distinzione tra i due concetti: anzi, si

potrebbe dire che anche in tempi moderni è proseguita sul dramma

di Antigone questa tensione, vero motore di ogni problematica

giuridica.

Da un lato, perciò, si sono schierati i sostenitori della tesi che

vede coincidere legge e diritto: “tutto il diritto è nella legge e tutta

la legge è diritto” potrebbe essere il loro manifesto. Ma contro

questi postulati legalisti, riuniti attorno ad un’idea giuspositivista e

normativista, si schierano quanti riconoscono, invece, la non

esaustività della legge rispetto alla vastità del diritto. Anzi, il

legislatore finirebbe sempre per emanare norme già “vecchie”,

superate dal cosiddetto “diritto sociale”,553

per l’intrinseca

incapacità della legge di “afferrare la vita e la storia”,554

fuggevoli

dalla rigidità degli schemi giuridici.

Malgrado le storiche riflessioni sulla distinzione tra leges e

jura non bisogna dimenticare, ad ogni modo, che, comunque, nel

549 M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 624; N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 99. 550

L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 325. 551

L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, cit., p. 324. 552

Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art. 3. disp. prel. nel

diritto privato. (Appunto critico), Estratto da Archivio Giuridico, vol XCIV, Fasc.

2, p. 7. 553

Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune, cit., p. 10. 554

Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune, cit., p. 13.

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nostro ordinamento il diritto ha pur sempre, almeno in senso lato,

derivazione statale e che, quindi, la legge, anche se non esaurisce

tutto il diritto, ne è pur sempre l’aspetto più eminente e più tipico:555

del resto porre eccessivamente l’accento sul diritto, piuttosto che

sulla legge, rischierebbe di far cadere nella trappola opposta a

quella in cui si imbattono i legalisti, cioè di abbandonare il

fenomeno giuridico al mero gioco delle forze, ossia alla legge del

più forte. Il che, poi, non è altro che la negazione stessa della

giuridicità.

“Law, in short, begins to grow as soon as society begins to

grow; it is not invented and imposed ab extra at any specific stage

of development”, scrive Allen.556

Pare, invece, più corretto

sostenere che non tutta l’esperienza giuridica si esaurisca nella

legge - ché, altrimenti, si arriverebbe alla stasi giuridica, alla

negazione di un “diritto vivente” - ma che essa non possa

prescinderne.

Solo in questo modo, avendo delineato l’intreccio tra legge e

diritto, senza determinarne la confusione, è possibile, allora,

investire l’analogia del carattere di strumento di grado di attribuire

valore, di fare un salto assiologico, tramite una ricerca che passa per

la legge per attingere, alla fine, al diritto e, anzi, ne costituisce

proprio l’originale trait d’union.

Ma un ultimo profilo merita di essre qui considerato, in vista

del momento ricostruittivo demandato alla fine di questo lavoro. E

si tratta della obiezioni al procedimento per identità e differenza cui

si ipira la nostra indagine e su cui è plasmato, lo si è visto, il

procedimento analogico.

La critica più radicale al procedimento per genere e specie,

proviene dal kantismo, ove si afferma che l’aggregazione dei

termini in comparazione presuppone già quel criterio di distinzione

che si afferma essere il prodotto della ricerca. In altri termini, per

collocare gli oggetti dell’indagine nelle diverse categorie nelle

differenti caselle di un genere e di una specie, il ricercatore

555 G. FASSÒ, voce Legge (teoria generale) in Enciclopedia del diritto, vol.

XXIII, Milano, 1973, p. 792. 556

C.K. ALLEN, Law in the making, 7th ed., Oxford, 1964, p. 6.

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212

dovrebbe già avere in mente, in via necessariamente preventiva,

dunque, un criterio discretivo che gli consenta di sceverare

operando quella classificazione di cui si è detto. In questo senso si

riconosce l’eredità prettamente kantiana delle categorie, cioè di

quella griglia a priori che costituisce il punto di forza ma anche il

limite della speculazione del Maestro di Königsberg, già denunciata

dagli allievi, giacché si sottrae alla problematicità del criticismo il

punto di partenza, cioè proprio il carattere a priori delle categorie.

Singolare destino, per chi voleva fondare un nuovo metodo

speculativo libero da incrostazioni metafisiche, quello di veder

dichiarata forte l’assonanza tra le categorie a priori e le idee

platoniche. La stessa critica, infatti, potrebbe essere mossa alla

dialettica classica, affermando che anche in tale prospettiva la

distinzione dei termini oggetto di indagine può avvenire solo

tramite la rimembranza delle idee che ha il soggetto conoscente e

che proietta sull’oggetto di indagine, classificando per genere e

specie. In questo modo, viene facile il parallelo tra le idee, bollate

come metafisica, fuori dalla verifica empirica, e le categorie

kantiane, parimenti fuori dall’esperienza sensibile e dalla verifica,

programmaticamente assunte come a priori. In questa prospettiva,

anche in Platone, come in Kant (e, per altro verso, secondo la

tradizione empiristica inglese), il procedimento conoscitivo

avverrebbe grazie alla memoria di archetipi noti e quindi sarebbe

privo di capacita critica originaria, poiché alla fine della

classificazione avremmo in mano quello sapevamo già, proprio quel

concetto che ha costituito il metro con cui abbiamo potuto svolgere

la classificazione. Così come senza le categorie non ci si può

orientare, parimenti togliendo le idee non vi sarebbe più alcun

riferimento con il quale accorpare, dividere, cioè classificare gli

oggetti del conoscere; di più, la svolta idealistica sarebbe già in

nuce nelle premesse platoniche, dacché il riconoscimento delle cose

starebbe tutto nella rimembranza del soggetto conoscente;

consentendo così il breve passo per il quale si afferma che è il

soggetto (con il suo pensiero) a dare esistenza alle cose. Tuttavia, a

ben vedere, per riconoscere il “diverso” ed il “comune” fra due

termini si possono enucleare gli elementi specifici di ciascuno senza

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fare riferimento a categorie pregresse, vuoi dell’esperienza, vuoi

reperite aliunde.557

In altri termini, la forza euristica del

procedimento che riteniamo programmaticamente di adottare

emerge dalla considerazione che per esso non è necessario il

confronto tra l’oggetto di indagine ed un secondo termine di

paragone, di difficile, problematica (ancorché spesso non

problematizzata) individuazione; al contrario, la comparazione

avviene tra i due (o più) termini di indagine, in confronto tra di loro,

senza la necessità di richiamare ciò che è fuori da quell’indagine

nella sua puntualità, sia idea metafisica, sia categoria a priori. E

così, ancora, il confronto può essere tra un oggetto fisico ed un

termine astratto: ciò che caratterizza l’indagine è proprio il

confronto tra entrambi i termini; non si tratta di un oggetto che

dev’essere conosciuto mediante la sovrapposizione di categorie

prefissate, bensì di due oggetti, entrambi sottoposti a conoscenza o a

(ri)conoscimento, sicché anche il termine di confronto (le categorie

kantiane, per capirci) è soggetto a nuova conoscenza ed a eventuale

modificazione in ragione del confronto con un altro oggetto.

Operazione impossibile per un criticista, come per ogni scienziato

che intenda esplorare un oggetto fruendo del suo bagaglio di

categorie, in quanto tali date per non modificabili, almeno

all’interno della singola operazione conoscitiva, poiché questa è la

funzione delle categorie, quella cioè di fungere da piano di

riscontro, da misura, da immobile criterio di paragone.

Ed è questo limite, invalicabile per lo scienziato, che non si

pone come ostacolo al dialettico. Con la conseguenza che norma e

principio di cui essa vuol essere specificazione diventano entrambi

oggetto di indagine, non tentativo di sussunzione dell’una nell’altro.

Ma su questo, infra al § 7.2.

557

E con questa espressione ricomprendiamo ogni momento non

riconducibile all’esperienza intesa qui come luogo privilegiato degli orientamenti

empiristi, accomunando le speculazioni che vanno dall’adduzione di Peirce alle

categorie subliminali di Poincaré, alla ricerca della “qualità”.

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12.1.2. Segue. Analogia come argomento a contrario:

indeducibilità di una regola generale a contrariis da una norma

eccezionale. Analogia e paradigma, proiezione e proporzionalità.

Fondamento logico e politico dell’analogia. Ipotizzabilità della

eguaglianza e della giustizia distributiva come fondamento

dell’analogia e della interpretazione estensiva.

I giuristi medioevali usavano distinguere, nelle partizioni

dottrinali, l’interpretazione detta comprensiva da quella detta

estensiva e all’interno di quest’ultima includevano, tra gli altri

strumenti, l’argomentare per analogia, o argumentum a simili, e il

cosiddetto argumentum a contrario.558

L’alternativa tra analogia e argomento a contrario, in

particolare, ha diviso i giuristi che hanno sovente visto nell’opzione

tra l’uno o l’altro strumento non soltanto la soluzione al problema

delle lacune, ma anche una precisa scelta di campo sul fronte della

delimitazione nella estensione interpretativa e della correlata

autonomia di movimento da parte dell’interprete.

In ogni norma, si è detto, sono contenute due norme generali

implicite: una, detta generale inclusiva, che stabilisce che tutti i

comportamenti giuridicamente simili a quello regolato si devono

intendere come inclusi nella qualificazione normativa; un’altra,

detta generale esclusiva, per cui - procedendo mediante l’argomento

a contrario - tutti i comportamenti dissimili da quelli regolati

debbono avere una disciplina opposta a quella qualificata dalla

norma.559

558

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.I, cap.

II. 559

Tra gli altri N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano,

Torino, 1957, p. 604. Ma la formulazione più compiuta della teoria della norma

generale esclusiva si deve a E. ZITELMANN, Lücken im Recht, Leipzig, 1903, p.

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Argomentare a contrario, allora, significa escludere

l’estensione e l’analogic, ritenendo tutti i casi non espressamente

contemplati come esclusi. Significa, cioè, come è stato detto,

considerare le differenze, tra i casi regolati e quelli non regolati,

come essenziali.

Il problema che, però, a questo punto si sono posti i giuristi è

proprio sulla effettività e sulla consistenza di tale alternativa tra

analogia e argomento a contrario. Ogni proposizione giuridica,

infatti, si è osservato,560

consente, dal punto di vista logico, di

avvalersi di entrambi gli strumenti ermeneutici: addirittura vi è stato

chi ha parlato,561

per la scelta tra l’uno o l’altro di Pandektlotterie,

per indicare in modo pittoresco l’assoluta indifferenza per l’uno o

per l’altro.

Ma se l’argomentare a contrario o per analogia è

assolutamente un’operazione non controllabile logicamente,

assimilabile addirittura all’alternativa di una lotteria, ciò significa

17 e ss., la cui tesi sarà ripresa in Italia con originali varianti da D. DONATI, Il

problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, Milano, 1910. Cfr. altresì, K.

BERGBOHM, Jurisprudenz und Rechtsphilosophie, Leipzig, 1892, le cui tesi

saranno riprese in Italia da S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917-18,

p. I, p. 190, nonché IDEM, Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento

statale, Modena, 1925, ora in Scritti minori, I, Milano, 1950, p. 371 e ss; ma si

veda anche A. SOLMI, Sulle lacune dell’ordinamento giuridico, in Riv. dir.

comm., 1910, p. 492; A. ASQUINI, La natura dei fatti come fonte del diritto,

Modena, 1921, p. 10. Per le critiche a tali concezioni, cfr. A. LEVI, Contributi ad

una teoria filosofica dell’ordine giuridico, Genova, 1914, p. 383; F. FERRARA,

Trattato di diritto civile italiano, I, Roma, 1921, p. 225, nota 1; G. BRUNETTI, Il

dogma della completezza dell’ordinamento giuridico, Firenze, 1924, p.27; M.

ASCOLI, La interpretazione delle leggi, Roma, 1928, p. 34; E. BETTI, Metodica e

didattica secondo E. Zitelmann, in Riv. Int. Fil. Dir., 1925, p. 49 ss.; Id., Teoria

generale dell’interpretazione (1955), II ed., Milano, 1990, p. 839, nota n. 2. Cfr.,

altresì, A. FRANCO, Problema della coerenza e della completezza

dell’ordinamento, Torino, 1988. 560

L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,

1975, p. 299 e ss.; IDEM, Corso di filosofia del diritto, cit., p. 95 e ss.; vi sono

citati come autori che sostengono questa tesi, tra gli altri, Jung, Gény, Heck, Jsay,

Rümelin, Brütt. 561

E. FUCHS, Die Gemenischädlichkeit der konstruktiven Jurisprudenz,

Karlsruhe-Brun, 1909, p. 55.

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che occorre decidere non su basi logiche - per l’inclusione o

l’esclusione dalla qualificazione giuridica prevista dell’elemento

non previsto - dato che la scelta è logicamente non motivabile nel

senso di “tecnicamente indifferente”. Differisce solo, e

significativamente, sul piano di un giudizio di valore, per cui se la

scelta tra l’argomento a contrario e l’analogia è del tutto arbitraria

dal punto di vista logico, sul piano ermeneutico implica una scelta

assiologica qualificante.

Non si può, allora, per questa via continuare a sostenere che

l’analogia opera nello spazio lasciato tecnicamente libero

dall’argomentazione a contrario, perchè la scelta della stessa

analogia si pone come scelta non logico-formale, cosicché la portata

delle stesse proposizioni legali viene ad essere modificata dall’uso

dello strumento ermeneutico: si fa dire alla legge qualcosa che essa,

per definizione, certamente non ha detto, in netta opposizione al

formalismo della Buchstabenjurisprudenz, ma in piena coerenza

con il canone dell’attualità dell’intendere e dell’evolutività

interpretativa. Ma ciò significa abbandonare la scelta tra

l’argomentare a contrario o per analogia e inserire, invece, di buon

diritto, il procedimento analogico tra gli ordinari procedimenti di

interpretazione. In latri termini, si può concludere che

l’argomentum a contrariis costituisca una sorta di procedimento

analogico a rovescio: l’affermazione dimostra la sua rilevanza per la

conseguenza che non sarà possibile dedurre una regola generale

procedendo a contrario da una disposizione eccezionale.

Un tentativo di distinguere, in qualche modo, l’analogia si è

tentato tramite l’utilizzo dei concetti di paradigma e proiezione.

A partire dal aristotelico, assunto nel suo

significato tecnico dalla logica per indicare l’argomentazione

fondata su un esempio, la dottrina si è avvalsa, infatti, del concetto

di paradigma per assumere la funzione paradigmatica delle norme.

Nell’interpretazione, pertanto, si giungerebbe alla disciplina dei casi

non contemplati per trasposizione dal particolare al particolare,

dall’esempio al caso.

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217

A parte coloro che hanno voluto vedere nel paradigma lo

svolgimento della struttura analogica562

appare non condivisibile il

tentativo di utilizzare tale concetto per scardinare la funzione

dell’analogia: basti l’obiezione che, se tale procedimento logico -

quello da particolare a particolare - può essere configurabile nella

logica, non si può superare, comunque, il fatto che in ambito

giuridico la proposizione normativa non si caratterizza come una

qualsiasi proposizione ma è intrinsecamente dotata di imperatività e

quindi di generalità e astrattezza. Non si potrà, perciò, mai

considerare la norma giuridica come un esempio di disciplina, per

cui nemmeno si potrà accedere ad un’idea di interpretazione come

di applicazione di un procedimento paradigmatico.

Del concetto di proiezione, invece, si sono valsi alcuni autori

per distinguere da questo sia l’analogia che la sussunzione.

Wurzel563

parla di proiezione come di “applicazione del concetto di

una norma giuridica senza modificazioni a fenomeni che

originariamente non vi erano stati rappresentati o almeno non lo

erano in modo dimostrabile” e, collocandola in posizione

intermedia tra l’analogia e la sussunzione, ne segnala l’influenza ad

opera di elementi extralegali come l’esperienza e addirittura gli

affetti.

Ma non mi pare che questo concetto differisca di molto dai

canoni dell’adeguazione dell’intendere e della corrispondenza o

consonanza ermeneutica di cui parla Betti564

in base ai quali

l’interprete deve “sforzarsi di mettere la propria vivente attualità in

intima adesione e armonia” con quello che definisce “l’incitamento

che gli proviene dall’oggetto”, cioè la norma stessa, imponendogli

di conservare e, anzi, valorizzare la sua soggettività e allo stesso

tempo gli sviluppi a cui è, dall’ambiente ermeneutico, sollecitato.

562

Per una ricostruzione puntuale delle posizioni dei diversi autori, rinvio

all’informato studio di L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I,

1987, p. 324, nota 21. 563

Lo cita N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.

I, cap. VI. 564

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 20 e ss.

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Si è, dunque, analizzato il discorso del fondamento logico

dell’analogia e della sua “legge di validità”, nonché della sua

giuridicità. È emersa, comunque, la politicità del fondamento

dell’analogia565

anche se su questo punto si dibatte una pluralità di

posizioni.

Converge, tuttavia, parte della dottrina nell’individuare alla

base dell’analogia un principio di universalizzabilità566

e la

connessa questione dell’uguale trattamento. È l’uguaglianza il

valore e il criterio su cui poggia l’analogia, ossia una “uguale

valutazione di circostanze di fatto ritenute giuridicamente simili”.567

L’analogia è proporzionalità, almeno in uno dei significati

aristotelici568

e ciò, in ambito giuridico, si traduce nell’idea di

giustizia, e in particolare di giustizia distributiva. In quest’ottica,

pertanto, il discorso sull’analogia si può inserire in un più ampio

approccio al vasto problema della giustizia, intesa sia nel senso di

tensione alla certezza, sia di approdo all’equità: sempre, comunque,

il valore a cui l’analogia attinge è quello di una fondamentale

esigenza di “giusta uguaglianza”, nonostante ciò non possa

rimanere sul mero piano etico ma debba essere riconosciuto e

tradotto sul piano del diritto positivo.

Non basta, cioè, un vago ideale di giustizia dell’interprete per

conferire legittimità al ragionamento analogico e, comunque, ad

ogni approdo ermeneutico.569

Ciò nonostante, però, per quanto si è

venuti dicendo, si può ribadire che la forza, oltre che il fondamento,

565

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 361. 566

Cfr. G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico. Sul

fondamento ermeneutico del procedimento analogico, in Riv. it. dir. proc. pen.,

1989, 1546. 567

K. LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, cit. p. 132. Si

cercherà al § 7.2.1. di sgiogliere l’ambiguità del termine “eguaglianza” in questo

contesto, ancorando l’analogia (e, più in generale, l’interpretazione della norma)

ai due elementi di tèlos e ratio. 568

Cfr. l’informato studio di L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in

Digesto civile, I, 1987, p. 325, nota 21. 569

Cfr. G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico, in Riv. it.

dir. proc. pen., 1989, p. 1550.

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219

dell’analogia è di natura concettualmente politica, ossia non tanto o

non soltanto logica, quanto piuttosto quella squisitamente

assiologica di un “procedimento razionale di attribuzione di

valore”.570

Su queste basi, tuttavia, non poggia senza inconciliabilità, a

ben guardare, l’interpretazione estensiva, nemmeno ove il

superamento della letteralità cui l’estensione dà luogo si costituisce

e si giustifica in termini di giustizia, cosicché ancora una volta

verrebbe a profilandosi una ragione per eavvicinarsi

concettualmente alla distinzione tra il procedimento ermeneutico di

estensione e quello di analogia, cioè alla tesi che andiamo

sostenendo.

570

L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 325.

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220

12.2. L’analogia legis e l’interpretazione estensiva

12.2.1. Distinzioni tradizionali: qualitativa e quantitativa,

particolare e generale (ragionamento a sineddoche). Distinguibilità

in base al presupposto, agli effetti, alla funzione (Betti e Bobbio).

Impossibilità di distinguere una interpretazione ordinaria e una

analogica posto che il criterio di ragionamento è quello analogico.

La tesione che conduce ad equiparare l’intepretazione

estensiva all’analogia sottende il carattere “analogico”

dell’interpretazione estensiva -come di ogni altro procedimento

conoscitivo in genere- ché la nostra mente sembra poter conoscere

solo tramite apparentamenti tra ignoto e noto, tra “diverso” e

“comune”. Si è cioè già sottolineato che ogni forma di conoscenza –

logica- è debitrice della struttura analogica, sicché non bisogna

lasciarsi condizionare da “quel po’ di analogia” che si trova in ogni

procedimento euristico, in ogni ragionamento, che si riduce in

sostanza ad una serie di equivalenze. Di più: per identità e

differenza (e solo per identità e differenza = analogia) si può

distinguere tra analogia ed intepretazione estensiva.

Si è già fatto cenno alla distinzione tradizionale tra

interpretazione estensiva e analogia sul piano sia qualitativo che,

diremmo così, quantitativo.

Per quanto riguarda l’aspetto qualitativo della distinzione si

sono già affrontate le classificazioni sul piano della diversità di

struttura logica e di natura giuridica dei risultati dell’applicazione

dell’uno o dell’altro strumento ermeneutico e si sono già indicati gli

argomenti a favore dell’insostenibilità della distinzione.571

571

Cfr. §. 2.3.2.

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221

Anche con riferimento a una differenziazione su una base più

strettamente quantitativa, poi, la dottrina ne ha già da tempo

indicato l’insufficienza, non potendosi, sostanzialmente, sostenere

come criterio discretivo tra estensione interpretativa e applicazione

analogica l’arbitrario confine determinato dalla minore o maggiore

ampiezza dell’”allargamento” dalla norma al caso, o meglio di

quella ipotesi normativa che si reputa implicita nella regola da

interpretare e che, mediante l’applicazione di questo o quello

strumento ermeneutico, si viene ad esplicitare.572

Agli stessi fondamenti si appellano anche quelle analisi che si

soffermano sulla struttura analogica e ne sottolineano, in antitesi a

quella dell’interpretazione estensiva, la tensione verso la ricerca di

una norma generale: nell’analogia si passerebbe da una norma che

regola il caso particolare alla norma - principio? - più generale, per

ridiscendere, poi, di nuovo alla norma del caso particolare.

Al contrario nell’interpretazione estensiva si passerebbe

direttamente dalla regola del caso particolare alla regola - sempre

particolare - del caso non previsto.

A questa impostazione che si avvale di una costruzione

definibile, col linguaggio della retorica, di sineddoche analogica,

sono tuttavia sollevabili almeno due ordini di obiezioni.

Anche ammesso che l’analogia possa passare dalla specie al

genere, dalla parte al tutto, come per sineddoche, resta infatti,

comunque, da un lato da chiarire il confine, in ambito giuridico, tra

norma “particolare” e norma “generale”, dall’altro da giustificare

l’esclusione di questo passaggio dal particolare al generale

nell’interpretazione estensiva e, quindi, il fondamento di legittimità

dell’allargamento dell’ipotesi normativa al caso pur sempre non

esplicitamente previsto.

Costituisce un indice che questi argomenti non siano però

decisivi la difficoltà della giurisprudenza che indugia ancora su tali

posizioni, ribadendo la distinzione tra i due criteri proprio su queste

basi.

572

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353.

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222

Ne è un esempio la sentenza della Cassazione civile n. 5777

del 1990573

che, in materia di clausole vessatorie, ha stabilito un

criterio discretivo netto tra interpretazione estensiva e analogia,

dichiarando come l’analogia consista in un “processo intellettivo

che, attraverso norme particolari, consente di determinare la ratio, il

principio informatore da cui derivano per poi stabilire se in questi

rientri anche il caso non preveduto”. Il ricorso all’analogia viene

fatto discendere dall’esigenza di regolare un caso non preveduto

dalla norma mediante il riferimento alla disciplina di un caso “con

lo stesso fondamento razionale”, appunto analogo.

Al contrario la sentenza indica il ricorso all’interpretazione

estensiva “solo allorché il caso non previsto sia uguale a quello

disciplinato e debba, quindi, essere considerato implicitamente

compreso nella norma”. Ma come si vede, il fondamento della

distinzione è analogico.

Emerge chiaramente l’impostazione bipartita della sentenza e

il sottile confine che, tuttavia, segna la differenza tra

l’interpretazione estensiva e l’analogia con questo approccio. Da un

lato, infatti, si fa riferimento ad un caso identico, implicitamente

incluso nella norma, dall’altro ad un caso analogo, con il medesimo

fondamento razionale. Come, però, si determini la differenza tra

questa identità e l’analogia, tra il fondamento razionale e la

considerazione implicita non è affatto chiarito.

Sottesa, come si può capire, è ancora una volta l’idea di una

distinzione qualitativo-quantitativa, volta a cercare in una maggiore

o minore ampiezza di significato, in un distaccarsi più o meno dalla

letteralità della norma, l’incerta barriera tra i due strumenti

ermeneutici. E sotto le mentite spoglie della diversità logica e

giuridica può celarsi, in verità, l’autonomia dell’interprete che

risulta, comunque, l’arbitro della decisione di far rientrare una

interpretazione in questo o in quell’ambito.

Più onestamente un’ autrice574

ha fatto osservare come la

differenza tra interpretazione estensiva e analogia possa essere

573 Cassazione civile, sezioni unite, 14.6.1990 n. 5777, in Giust. civile

1991, I, 79. 574

L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 327.

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223

identificata, a questo proposito, nell’attitudine dell’interpretazione

estensiva a qualificarsi come “analogia facile”, ritenuta o

pretestuosamente fatta passare per accettabile dalla dottrina e dalla

giurisprudenza; al contrario l’analogia sarebbe un’estensione che

necessita di giustificazione. Il che, evidentemente, equivale a negare

l’effettività di ogni distinzione, se si dimentica il procedimento

analogico che è servito per conoscere analogia ed interpretazione

estensiva.

Sui tentativi di distinguere interpretazione estensiva e

analogia in base al presupposto, agli effetti e alla funzione si sono

soffermati criticamente sia Bobbio575

che, più tardi, lo stesso

Betti576

per approdare entrambi, comunque, alla conclusione che

non esista differenza tra i due procedimenti.

La distinzione in base al presupposto si è avvalsa del concetto

di volontà del legislatore, rinvenuta come effettiva

nell’interpretazione estensiva e, al contrario, qualificata come

mancante nell’analogia: da qui la diversità di presupposti. Ma, come

già sottolineato affrontando il tema della volontà effettiva o

presunta del legislatore577

ciò che rende possibile l’estensione “non

è la volontà né effettiva né presunta, ma la ragione della legge”578

cosicché, la volontà viene ad essere per lo più ignota, o al più

conoscibile solo attraverso la ragione. E se pur può essere

suggestiva l’immagine attribuita a Federico II di Prussia secondo

cui “basterebbe un tratto di penna del legislatore per mandare al

macero intere biblioteche giuridiche”,579

è pur vero che, comunque,

anche quel tratto di penna necessita a sua volta di essere riletto

ermeneuticamente, per cui nemmeno questa presunta volontà

575

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II cap.

IV. 576

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 277 e

ss. 577

Cfr. § 2.3.1. 578

E. BETTI, op. ult. cit., p. 278. 579

Lo riferisce E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p.

572. Incerta è tuttavia l’attribuzione del detto ripreso da molti al grande sovrano

Hohenzollern.

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224

esplicita è in grado di cancellare lo sforzo raziocinante

dell’interprete.

Eliminata la volontà, in questi termini, è presto soppressa

anche la presunta differenza di presupposti tra i due procedimenti,

almeno così intesa.

I tentativi di distinguere in base agli effetti e alla funzione non

si rivelano più efficaci. Per i primi la differenza si è voluta condurre

sul piano dell’estensione di una norma già esistente nel caso di

interpretazione estensiva e, per contro, di formulazione di una

norma nuova nel caso di analogia.

A parte l’obiezione che anche nell’analogia non si tratta di

elaborare una norma “nuova” ma di rinvenire una massima di

decisione sulla base di una comune ratio iuris,580

si nota che la

struttura è la stessa tra i due procedimenti, per cui in entrambi si

arriva a integrare il precetto nel senso di rendere esplicito ciò che

era implicito nella norma.

Quanto alla diversità di funzione, poi, l’osservazione secondo

cui l’interpretazione estensiva estende le parole della legge mentre

l’analogia ne estende il pensiero si rivela povera, constatato che se il

“pensiero della legge” corrisponde alla sua intrinseca logicità, alla

sua idea, questa non si estende ma, semmai, si sviluppa, si integra,

si vivifica: ad estendersi - sottolinea Betti581

- è la portata, e con

essa la formula della legge, non l’intrinseca logicità della legge.

Smantellata anche questa distinzione Bobbio,582

da una parte,

e Betti,583

dall’altra, concludono per l’inesistenza di ogni

differenziazione tra i due procedimenti e in particolare Betti584

segnala come esigenza sottesa, questa volta, ad entrambi i processi,

quella di spiritualizzare la logica del diritto e il procedere, per

580

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 172. 581

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 280.

582

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.143 e

ss. 583

E. BETTI, op. loc. ult. cit. 584

E. BETTI, op. loc. ult. cit.

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225

ambedue, perciò, secondo un argomentare dal carattere

essenzialmente teleologico.

A questo punto, tuttavia, si prospetta un’ulteriore questione:

esiste differenza tra un’interpretazione, diremmo così, ordinaria e

l’interpretazione analogico - estensiva, ipotizzate come coincidenti?

E come escludere la contraddizione pratica da cui ha preso le mosse

questa indagine?

Per Betti585

l’analogia ha l’ufficio di porre, anzichè norme

giuridiche, “massime di decisione”, ossia precetti per il caso

concreto, e ciò in virtù della caratteristica di ogni interpretazione in

funzione normativa, che, nella concezione bettiana, ha il compito di

conoscere per agire, e quindi si rivolge immediatamente al caso

concreto. Ciò, tuttavia, rischia di essere fuorviante, se non altro per

il fatto che in questo modo si viene negando una certa funzione

normativa della stessa analogia.586

E se è pur vero che nel momento

applicativo della legge, interpretata analogicamente, ciò che si

rinviene è una “massima di decisione”, questa assume valenza

ermeneutica ulteriore rispetto alla fattispecie concreta, proprio in

virtù dell’intuizione normativa che la sostiene.

Contrariamente a chi587

nega che l’argomentare per

interpretazione estensiva significhi rinvenire, comunque, la ratio

implicita, o meglio il valore sotteso alla norma, mi sembra

possibile, invece, sostenere che ogni interpretazione finisce per

argomentare in questo modo, ad onta delle accuse di

teleologismo,588

e che pertanto anche nell’interpretazione cosiddetta

ordinaria sia rinvenibile un criterio di ragionamento analogico.

Concordo, perciò, con Grosso che, commentando una

sentenza della Corte Costituzionale589

in materia di leggi di

585

E. BETTI, op. ult. cit., p. 42. 586

Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 644 nota 78. 587

Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 639 nota 58. 588

Cfr. M. BOSCARELLI, op. ult. cit., p. 638.

589

Corte costituzionale 27.5.1961 n. 27, in Giur. it. 1961, I, 1, 1043 e ss.

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226

pubblica sicurezza, introduce il concetto secondo cui l’analogia non

porta all’allargamento dell’area di operatività di una disposizione

mediante l’ingresso di una figura non contemplata. L’analogia,

piuttosto, permette di constatare, rispetto a situazioni simili a quella

formalizzata nella norma, la validità della disciplina ipotizzata,

peraltro già vincolante sebbene esplicitata solo per relationem.

Ciò mi sembra implichi evidentemente il riconoscimento

dell’ordinarietà insita nella logica dell’analogia, così come

l’ammissione dell’approccio analogico che è implicito in ogni

interpretazione ordinaria.

Su questa linea, peraltro, si era già inserito l’autore del

commento alla sentenza della Cassazione civile del 1959,590

ponendo in luce l’equivoco, insito nella dottrina e nella stessa

giurisprudenza, tra analogia, interpretazione estensiva e

interpretazione lata o non elaborante. Laserra sottolinea come,

mentre la dottrina, e la stessa sentenza in analisi, continuino a porre

l’interpretazione estensiva come tertium genus tra interpretazione

lata e analogia, di fatto questa contrapposizione non abbia senso.

L’interpretazione dichiarativa, o non elaborante, o ordinaria, infatti,

non può ridursi ad un mero legame alla lettera della legge, avendo

essa stessa per oggetto non tanto le parole del legislatore, quanto il

problema pratico della formula legislativa,591

cosicché si finisce per

concludere che nemmeno l’interpretazione estensiva sfugge

all’alternativa tra “rientrare nell’ambito del problema pratico di una

formula legislativa o di superare questo problema.”592

Ma ciò significa, per Laserra, anche dedurne che

l’interpretazione estensiva coincide con l’interpretazione lata

ovvero con l’analogia, vale a dire che l’interpretazione estensiva in

quanto tale non esiste.

590

Cassazione civile, I sez., 8.8.1959 n. 2500 in Giur. it. 1961, I, 1, 101 e

ss., con nota di G. La serra. 591

Così anche E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici,

cit., p. 22 e ss; 163 e ss. 592

Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, in Giur. it.,

1961, I, 1, p. 104.

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227

Pur condividendo l’analisi di Laserra sulla non terzietà

dell’interpretazione estensiva tra l’analogia e l’interpretazione lata

rimane, comunque, da giustificare la differenza tra questi ultimi due

termini. Differenza che, come si è sostenuto, verrebbe a cadere

laddove si riconosca la natura analogica di ogni accesso

ermeneutico nel momento stesso in cui va a ricercare un’ulteriorità

rispetto alla formula della legge che è data dalla ratio o dal valore

che vi sono impliciti.

A meno di non voler realmente concludere con Bobbio che

“non è il procedimento a disposizione del giudice che determina il

risultato, ma il risultato cui si vuol giungere che determina la regola

che viene di volta in volta adottata”,593

cosicché la qualificazione

come analogica dell’interpretazione estensiva o viceversa sarebbe

del tutto indifferente ponendosi il più delle volte come

giustificazione a posteriori di una scelta operata. Ma questa

disincantata professione di pragmatismo giustifica l’indifferenza e

l’irrilevanza di ogni attività ermeneutica, scaduta a paludamento dei

capricci del giudice.

593

N. BOBBIO, Ancora intorno alla distinzione tra interpretazione

estensiva e analogia, in Giur. it. 1968, I, 1 c. 701.

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228

12.2.2. Il senso della norma e la necessità normativa.

Relazione tra norma e teleologia, validità e fini. Norma come

Sollen e ammissibilità o meno di un discorso analogico che

prescinda da un atto di posizione. Sollen e Sein: la cd. legge di

Hume e le critiche alle interpretazioni che ne sono discese. Il

problema dell’efficacia. Applicabilità o meno dei principi di non

contraddizione e inferenza alla struttura normativa. La

ragionevolezza come condizione del volere normativo.

Si è già affrontato il discorso a proposito dell’analogia nella

logica e nel diritto594

e si è accennato alle analisi condotte in termini

di validità-invalidità, verità-falisità, certezza-probabilità.

La questione che si affaccia a questo punto è la seguente: che

cosa “rinviene” l’analogia? Un enunciato - lo si consideri nuovo,

rinnovato, creato, dichiarato, rivivificato, ... - in termini descrittivi o

prescrittivi, di essere o di dover essere (sempre che tale distinzione

non sia fuorviante)? E ancora: sono applicabili all’analogia i

principi di inferenza e di non contraddizione, alla stregua di un

sillogismo logico, o si tratta di una questione, in questo ambito,

priva di senso?

Per tentare di risolvere le molte implicazioni connesse ai temi

enunciati sarà necessario fare un passo indietro, fino ad arrivare alle

domande intorno al concetto di norma e soprattutto a riguardo del

senso stesso della norma: ad un problema di filosofia del diritto.

Senza addentrarsi nelle spire delle analisi normativistiche o

decisionistiche595

potrà essere utile partire assumendo la norma

come espressione di un dover essere, concepibile, tuttavia, come un

termine semplice, elementare, primigenio, ovvero come implicante

594

Cfr. § 5.1.1. 595

Cfr. A. G. CONTE, Primi argomenti per una critica del normativismo,

Pavia, 1968, p. 3 e ss.

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229

il riferimento a caratteri non puramente normativi ma intenzionali,

relativi al perseguimento di fini.596

Non possono non tornare alla mente le riflessioni kelseniane

sul senso della norma597

come un Sollen, come un atto di volontà

diretto ad un comportamento altrui, come una necessità normativa,

distinto dal Müssen, contenuto di una regola relativa all’essere

(Seins-Regel), che si qualifica come necessità causale, come

relazione tra causa ed effetto, la stessa che identifica la relazione tra

fine e mezzo, la necessità, appunto, teleologica.598

In questo quadro si ricorderà come Kelsen distingua a sua

volta l’atto di posizione della norma, come essere (Sein), dal senso

dell’atto medesimo, dalla norma stessa, che si pone come un Sollen.

Come un Sollen, un dovere, si badi bene, non come un Soll Sein,

come un dover essere: la norma esprime, cioè, più ancora che

“qualcosa deve essere”, che qualcosa “deve”. Così mentre entro un

contesto di necessità causale se all’antecedente non segue il

conseguente si può dire che la legge è falsa - o, nel caso contrario,

vera -, in un contesto di necessità normativa si deve dire che la

legge è infranta e che, del resto, la validità normativa è data

dall’atto di volontà che la pone e di cui la norma stessa è il senso.

Ma allora, partendo da questa impostazione, che connessione

può esserci tra norma e teleologia, tra validità e fini, e, a cascata, tra

positività e interpretazione normativa? Se la norma è espressione di

un dovere, la cui validità dipende esclusivamente dall’atto che la

pone, come ammettere un discorso interpretativo e, soprattutto

analogico il quale, per quanto si è detto, sembra prescindere da - e

soccorrere proprio laddove manca - un esplicito atto di posizione

normativa?

Il tema dell’interpretazione e della necessità di qualificarla in

termini di Sollen, Müssen o Sein, non può, a questo punto,

596

Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità - Una critica all’ultimo

Kelsen, Torino, 1990, p. 5. 597

In particolare H. KELSEN, Allgemeine Theorie der Normen, (ed. post.)

Wien, 1979, cap. 2. 598

Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità - Una critica all’ultimo

Kelsen, Torino, 1990, p. 23.

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230

prescindere da una considerazione a proposito della relazione

esistente tra questi concetti, e in particolare a riguardo di quello, che

sembra essere diventato un assioma, della presunta inderivabilità

logica del dover essere dall’essere: è la cosiddetta “legge di Hume”,

contenuta, a detta di coloro che se ne sono avvalsi, nel famoso “Is-

ought paragraph”.

“Non posso evitare di aggiungere a questi ragionamenti”,

scriveva Hume nel paragrafo citato, “un’osservazione che può forse

risultare di una certa importanza. In tutti i sistemi di morale in cui

finora mi sono imbattuto ho sempre trovato che l’autore va avanti

per un po’ ragionando nel modo consueto, e afferma l’esistenza di

Dio o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi, tutto a un tratto,

scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è-non è

incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o non

deve. Si tratta di un cambiamento impercettibile ma che ha, tuttavia,

la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve o non deve

esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è

necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si

dia una ragione di ciò che sembra del tutto inconcepibile, ovvero

che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre

relazioni da essa completamente diverse. [...] La distinzione tra

vizio e virtù non si fonda semplicemente sulle relazioni tra oggetti e

non viene percepita mediante la ragione”.599

Poiché da questo passo si sono tratte conseguenze in ordine

all’assoluta separatezza tra essere e dover essere, nonché alla

reciproca inderivabilità - conclusioni dalle quali non sono avulse

nemmeno le analisi kelseniane - è opportuno sottolineare come sia

possibile ventilare l’ipotesi che le interpretazioni dell’is-ought

paragraph siano spesso andate ben oltre l’originaria intenzione

dell’autore scozzese. Di modo che, si può prospettare, in realtà, si

sarebbero tratti esiti concettuali giustificandoli sulla scorta di un

599

D. HUME, Trattato sulla natura umana, (1739-40), tr. it. ed. Laterza,

1971, p. 496-497.

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assioma non discusso, a ben guardare, nemmeno dallo stesso

Hume.600

Hume non crea un solco tra fatti e valori, ma sottolinea la

necessità di considerare l’essere prima di erigere qualsiasi forma di

dover essere.601

Ma allora da dove deriva la sua validità la norma?

Il “deve” non deriva, per Hume, ma anche per tutta una vasta

tradizione di pensiero giuridico che arriva fino ai giorni nostri

immediatamente dal dato di fatto, ma dalla normatività insita in

quella convenzione che sta alla base della norma stessa,

convenzione che non solo ha tradotto l’interesse individuale in un

interesse generale, ma lo ha anche reso obbligatorio: è l’idea, che

Kelsen svilupperà ampiamente, della Grundnorm, “principio in

grado di assicurare l’unità logica interna di un insieme di norme”602

proprio perchè ne statuisce la cogenza.

È proprio sulla validità della norma fondamentale, sulla

validità del dovere, che si arenano tanto l’analisi di Kelsen quanto

l’interpretazione che si è data della legge di Hume: la Grundnorm,

600

Tra le interpretazioni più rappresentative dell’is-ought paragraph si

possono qui ricordare quella che ne ha visto una distinzione tra essere e dover

essere, negando conclusioni normative da premesse descrittive - un dover essere

da un essere - a cui si è obiettato non avere, Hume, elaborato che una scienza

della natura umana, di stampo eminentemente teoretico, ben lungi dall’averne

tratto delle applicazioni pratiche. L’interpretazione che ne ha dedotto l’autonomia

della morale e la non riducibilità del dover essere all’essere è stata, invece,

confutata sottolineando come Hume non credesse a tale autonomia, ma anzi,

intendesse la morale come un procedimento artificiale con una rilevante

componente razionale, capace di compiere distinzioni solo a posteriori: il che, del

resto, non significa negare l’intrinseca diversità tra essere e dover essere.

Un’ulteriore interpretazione ne ha tratto, infine, addirittura l’inesistenza del

dovere, e quindi la non obbligatorietà della morale. In verità si può concludere

che la legge di Hume è inapplicabile tanto alla morale quanto al diritto, dato che,

così come l’ha enunciata l’autore scozzese, è riferita alla parte speculativa, più

che pratica dell’analisi giuridica. Queste intuizioni sono state sviluppate da C.

BARONI, Essere e dover essere alla luce della cd. legge di Hume, Tesi di laurea in

Filosofia del diritto, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Padova, a.a.1995-

96, pp. 123 e ss. 601

Cfr. C. BARONI, op. loc. ult. cit. 602

Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano,

1984, p. 158.

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232

infatti, è in grado di organizzare la cogenza, l’operatività e

l’efficacia delle norme esistenti, ma rivela tutta la sua ambiguità

proprio laddove non spiega la ragione per cui è necessario obbedire

alla stessa norma fondamentale, e, a cascata, a tutte le norme che in

essa traggono validità.603

L’analisi sul perché di quel Sollen - sia o meno lecita la

posizione di una domanda sul warum (Warum soll etwas) -

conduce, allora al discorso sul fine della posizione delle norme.

Kelsen sostiene che solo l’atto di posizione della norma può

avere un fine, poiché è un essere, non la norma che è un dovere,604

per cui rimane del tutto inaccettabile un’interpretazione, teleologica,

della norma in quanto tale.

Ma allora si pongono numerosi problemi: se la posizione della

norma è un atto di volontà, che senso può avere, in questa

concezione, se non quello di una volontà di volontà? E ancora:

davvero il Sollen non è diretto verso un Sein? E se la norma non è

un fine ma un mezzo per raggiungere un fine, chi vuole il mezzo

non vuole, per ciò stesso, anche il fine?

Ancora una volta è l’interpretazione a far uscire dal vicolo

cieco in cui, altrimenti, parrebbe di ritrovarsi. L’interpretazione del

senso della norma, indispensabile quanto meno per “capirne il

comando” - impone il riconoscimento di una connessione tra la

norma e l’asserzione che ne costituisce il senso, tra il pensiero e la

volontà.605

Così se può essere sostenibile, in astratto, come vera

un’interpretazione humeana del tipo “ciò che è non può essere

dovuto, proprio perchè è, e ciò che è dovuto non può essere, proprio

perché è dovuto” da un lato rimane da risolvere l’impasse di che

senso possa avere che qualcosa sia dovuto senza che sia dovuto che

esso sia,606

dall’altro il problema ermeneutico fondamentale solleva

603

Suggestiva, su questo ampio tema, la nota L’ambiguità della

“Grundnorm” di F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed.,

Milano, 1984, p. 147 e ss. 604

Cfr. H. KELESEN, Allgemeine Theorie der Normen, cit., cap. 2. 605

Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità cit., p87. 606

Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 118.

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233

il dubbio di come si determini che qualcosa è veramente dovuto

senza sapere che cosa è - a meno di non attenersi alla mera

letteralità - senza riconoscere anche al Sollen una qualche direzione

verso il Sein.

Perciò, a ben guardare, se non si vuole far sì che il

destinatario della norma non sappia riconoscerne il comando, è

necessario dotarsi di strumenti in grado di ricavarlo, ricucendo, si

potrebbe dire, lo strappo tra Sollen e Sein: e, significativamente,

questo “rammendo giuridico” non è necessitato né da un problema

di verità o non verità della norma - perchè, su questo piano, si

potrebbe obiettare che le proposizioni prescrittive non sono né vere

né false607

- né di validità o invalidità608

- dato che non viene, per

questo, meno la validità formale della norma, sussistendo quella

della norma fondamentale - ma da un problema di efficacia.

Un’obiezione, però, potrebbe, a questo punto, essere

sollevata: quella, sostenuta da Kelsen,609

della non applicabilità del

principio di non contraddizione e della regola dell’inferenza alle

norme, né direttamente, né indirettamente. Da ciò deriverebbe il

fatto che un eventuale conflitto tra norme non infirmerebbe la loro

appartenenza all’ordinamento e, soprattutto, che non sarebbe

logicamente derivabile la validità di una norma dalla validità di una

o più norme superiori o collaterali.610

Questo, evidentemente,

metterebbe fuori gioco l’intero discorso sull’analogia poiché tra un

dover essere e un altro dover essere (o, meglio, tra due “doveri”,

entrambi validamente sussistenti) non potrebbe sostenersi alcun

rapporto analogico611

proprio in ragione della non applicabilità del

607

Per dirla con Aristotele, sono discorso semantico, significante, non

apofantico, vero o falso; cfr. ARISTOTELE, De interpretatione, 17a. 608

Affronta il tema dell’impossibilità, per gli enunciati deontici, di essere

intesi come giudizi di validità R. GUASTINI, Dalle fonti alle norme, Torino, 1990,

p. 60 e ss. 609

Cfr. H. KELSEN, Allgemeine Theorie der Normen, cit., capp. 57-61. 610

B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 232 e ss.

611

Kelsen non nega la possibilità di rapporti logici fra norme, anzi

esplicitamente lo ammette considerato che una norma, pur non essendo un

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234

sillogismo logico alle norme, essendo norme solo e soltanto quelle

poste,612

e in ragione del fatto che non sussisterebbe correlazione tra

la verità di un’asserzione613

e la validità di una norma, né tra la

verità di un’asserzione e l’osservanza della norma.614

Il problema irrisolto, però, rimane comunque quello

dell’efficacia, proprio a cagione di questa non correlatività tra

validità e osservanza, nonché, sulla stessa lunghezza d’onda, rimane

il problema della staticità dell’ordinamento se inteso esclusivamente

come positivamente fondato.

Il pericolo avvistato da chi contrasta questa obiezione -

derivante, a ben guardare, più dal dato empirico che da quello

logico - è sempre quello della “naturalistic fallacy”, della fallacia

naturalistica, che consiste nella deduzione immediata del Sollen dal

Sein: il pericolo che si teme è quello di tornare ad invocare, per

salvare il rapporto tra Sollen e Sein, tra validità ed efficacia, un

ormai ritenuto sepolto (ma –paradossalmente- sempre temuto)

diritto naturale.615

L’ostacolo si supera se si pone mente al fatto che, dal punto di

vista dell’efficacia, l’espressione di un volere non può che essere

quella di un volere possibile, almeno ragionevolmente, pena

l’impossibilità di osservare quel volere. Non è sufficiente, cioè, la

posizione di un dovere, ma occorre quella di un dovere almeno

normalmente “ragionevole”.

concetto, contiene concetti, elementi tra cui sono ammissibili relazioni logiche.

Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 233. 612

Tale non applicabilità, in verità, si potrebbe qualificare come una

tautologia, posto che la validità di due proposizioni contraddittorie nonostante

tale loro contraddittorietà deriva dalla sufficienza, per l’esistenza - compresa in

un concetto ampio di validità - di una norma, della sua mera esistenza. Così A. G.

CONTE, Primi argomenti per una critica del normativismo, Pavia, 1968, p. 21. 613

Per Kelsen un’asserzione è il senso (Sinn), o il contenuto di senso

(Sinngehalt) di un atto di pensiero, mentre una norma è il senso, o il contenuto di

senso di una atto di volontà. Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità - Una

critica all’ultimo Kelsen, Torino, 1990, p.51. 614

Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 82. 615

Lucido, nell’individuare la radice delle difficoltà moderne del diritto

naurale, F.GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p.

171, Un oggetto misterioso: il diritto naturale.

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235

Ma è qui che si inserisce il cuneo che porta alla rottura della

costruzione. Porre un dovere ragionevole significa distruggere il

dogma della norma come puro Sollen e, al contrario, avvicinarla

decisamente almeno ad un Soll Sein, se non proprio ad un Sein. Ma

cosi si introduce un giudizio di valore che dà validità alla norma

(anche) in base al suo contenuto, guardando al télos.

Ecco, allora, che, scardinate le premesse sul senso della

norma, è possibile intravederne, in lontananza, quello che si è

indicato come orizzonte assiologico. Su questa base, perciò, si può

richiamare l’analogia, fuori dal timore di inapplicabilità, come

ponte, se non tra l’essere e il dover essere, almeno tra il dovere e il

dover essere.

L’interpretazione stessa, anzi, fondata com’è sul criterio di

ragionevolezza, è il passante attraverso cui è possibile attingere al

senso della norma senza per questo minarne la validità positiva.616

Ma allora, per quanto si è detto, tanto vale negarne, anche da

quest’angolo visuale, ogni differenziazione con l’analogia, per

riconoscere, al contrario, in ragione anche di queste peculiarità, la

caratteristica essenzialmente analogica di ogni approccio

ermeneutico. Tuttavia, sarebbe conclusione affrettata: l’analogia

procede per identità e differenza, così come l’interpretazione

estensiva e, più in generale, ogni forma di conoscenza. Se

l’equiparazione è in forza di questo elemento, ogni forma di

ragionamento è analogia. Ed è superfluo rimarcare che essa

partecipa di ognuna, ma non si esaurisce in alcuna.

616

Scrive G.H. VON WRIGHT in Is and Ought, London, 1963, p. 72: “In an

important sense, we could say the purpose of norms is to “bridge the gap”

between Is and Ought, although not in the sense of establishing a deductive bound

of entailment between the two”.

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236

12.3. Sulla necessità di una norma autorizzatrice

12.3.1. Ipotizzabilità della tesi negativa sul condizionamento

del legittimo impiego dell’analogia all’esistenza di una norma che

lo prescriva. Posizione di Betti. L’analogia e il contenuto delle

norme. La previsione di norme sull’interpretazione all’interno di

altre norme (gli “altri casi simili”). Consuetudine e analogia.

Ipotizzabilità di un ordinamento giuridico senza norma di

autorizzazione al ricorso analogico. Il problema dell’ordinamento

giuridico internazionale. Tra virtualità e realtà.

Il dibattito sull’ordinarietà o meno dell’applicazione analogica

e sulla normalità del procedimento proprio dell’analogia come di

ogni dinamica ermeneutica ha portato la riflessione sull’indagine in

merito alla necessità o meno di una norma che prescriva l’analogia

per autorizzarne l’applicazione.

Se, dunque, si ritiene che l’analogia sia nulla più che

l’applicazione da parte del giudice di una norma si deve escludere la

necessità di una esplicita regola che ne autorizzi l’impiego; esigenza

avvertita da chi ritiene, al contrario, che con l’analogia il giudice

ponga una disciplina per il caso singolo, segnalandosi come

necessaria, in questo caso, una norma generale che ne sancisca la

legittimità.617

Chi, peraltro, nega la necessità di un’esplicita norma

autorizzatrice fa, poi, ricorso per giustificare l’applicazione

analogica all’ipotesi volontaristica di una presunta volontà

conforme del legislatore - che avrebbe regolato il caso nello stesso

617

M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 627.

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237

modo se lo avesse esplicitamente preveduto - oppure ad una norma

implicita ma inespressa dal sistema - che legittima il ricorso

analogico -, ovvero ancora ad una norma consuetudinaria.

Per quanto riguarda i sostenitori di quest’ultima tesi618

vi è da

rilevare che sovente essi si rinvengono tra gli autori tedeschi, a

ragione dell’assenza nell’ordinamento germanico di una regola

sullo stampo del nostro articolo 12 e che, pertanto, l’appello alla

consuetudine non potrebbe essere giustificato altrimenti.

Si è già analizzato l’articolo 12 e la critica che si è formata

attorno ad esso. Il fatto che il fondamento dell’analogia sia

rinvenuto nella razionalità,619

più che in una norma autorizzatrice

fa, pertanto, non solo esplicitamente superare la prescrizione

dell’articolo 12 medesimo, ma anche approdare a qualcosa di simile

al diritto naturale come elemento in grado di autorizzare questo

genere di interpretazione. Diritto naturale nel senso, come dice

Bobbio, di ragione nel diritto, di razionalità, ma ancora di più: una

intima attitudine alla regolarità, al darsi delle regole e rispettarle,

propria della tradizione classica del diritto.

Il problema è, semmai, di rinvenire ancora uno spazio per

l’analogia anche al di là del riferimento alla ratio, e in particolare

nei casi in cui il riferimento all’analogia figura per esplicita volontà

del legislatore, ma non in una norma generale come quella del tipo

dell’articolo 12, quanto in una norma particolare come quando la

legge estende la sua disciplina ad una serie di casi tassativamente

previsti ed aggiunge, in fine, la locuzione “e in ogni altro caso

analogo.”620

Partendo dalla domanda implicita sulla sufficienza di una

norma sull’interpretazione per escludere, comunque, tutti i dubbi

618

Tra cui si annoverano WRIGHT G.H. e L. ENNECCERUS, Lehrbuch des

bürgerlichen Rechts, I, Marburg, 1928, p. 110 e ss; A. von TUHR, Der allgemeine

Teil des deutschen bürgerlichen Rechts, I, Leipzig, 1910, p. 41; E. ZITELMANN,

Lücken im Recht, Leipzig, 1903 p. 26. 619

Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II

cap. 3. 620

Cfr. M. ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, Milano,

1987, p. 47 e ss.

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238

ermeneutici e analizzando la funzione dell’analogia - individuata

oltre che in una autointegrazione dell’ordine giuridico, anche di un

“intendere nella sua intima coerenza la norma”621

- pure Betti

conclude per la non necessità di un’apposita autorizzazione

all’analogia: essa sarebbe legittima sempre che non sia vietata.

Quella che viene esplicitamente disciplinata, pertanto, non è

l’autorizzazione all’applicazione analogica, ma quell’attività che è

necessario impiegare per formare il convincimento, ossia il

“procedimento da tenere per raggiungere l’intelligenza del quid

iuris”622

che consente l’accesso alla verità normativa.

È da negare, quindi, la posizione di chi individua il contenuto

della norma accertato mediante l’analogia come una scissione

logica della fattispecie prevista in tante fattispecie quanti sono i casi

non previsti,623

scissione operata, appunto dalla norma

autorizzatrice, così come la posizione di chi conferisce a tale ultima

norma il potere di allargare il contenuto di quella da interpretare,

che altrimenti sarebbe più ristretto.624

Tuttavia, si consideri

l’analogia come uno strumento per accertare il contenuto di una

norma,625

ovvero se ne giustifichi l’impiego per ossequio alla

ragione insita nel diritto - come fanno Bobbio626

e Betti627

- rimane

la superfluità, quanto ai risultati, di una norma generale

autorizzatrice.

Per quanto riguarda, invece, il problema della previsione

esplicita di una norma sull’interpretazione non in via generale ma,

al contrario, all’interno di una norma specifica e come regola di

621

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit. p. 70. 622

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 248 e

ss. 623

Così A. BURDESE e M. GALLO, Ipotesi normativa e interpretazione del

diritto, in Riv. it. sc. giur., 1949, p. 371. 624

Così R. SACCO, Il concetto di interpretazione del diritto, Torino, 1947,

p. 15 e ss. 625

Come fa M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc.

civ. 1954, p. 639. 626

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 123. 627

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 70 e

ss.

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239

chiusura dopo l’elencazione di casi tassativi, sono numerosissime le

sentenze in materia.

Paradigmatica, a questo proposito, è ancora la sentenza della

Corte costituzionale del 1961628

in merito all’interpretazione

dell’articolo 121 delle leggi di pubblica sicurezza. La norma, che

sancisce il divieto di esercitare mestieri ambulanti senza previa

iscrizione in un registro apposito presso l’autorità locale di pubblica

sicurezza, contiene un elenco di mestieri - ambulanti - che fa

rientrare nella fattispecie normativa, e conclude con la dicitura “e

mestieri analoghi”. Stante il carattere penale delle leggi di pubblica

sicurezza la questione oggetto di sentenza sorge perché

l’ammissione di una interpretazione analogica della legge penale -

esplicitamente prevista dall’articolo in parola con l’espressione

“analoghi” - cozzerebbe non solo contro l’articolo 14 delle preleggi,

ma anche contro gli stessi articoli 1 del codice penale e anche 25

comma secondo della Costituzione che prevedono l’irretroattività

della legge penale e, per il principio del nulla poena sine lege, il

divieto di analogia in ambito penale.

La soluzione adottata dalla Corte costituzionale per superare

l’impasse è quella di escludere che le diciture di chiusura (“e

mestieri analoghi”, “e casi simili”, “ed altri analoghi”, o altre

equivalenti) ad elenchi di fattispecie, come nel caso in questione,

possano autorizzare l’interpretazione analogica e di concludere, al

contrario, che si tratti di “ordinario procedimento di interpretazione,

anche se diretto ad operare l’inserzione di un caso in una fattispecie

molto ampia e di non agevole delimitazione”.

È questo, evidentemente, un escamotage della Consulta per

sfuggire alla trappola dell’articolo 14 e degli articoli 1 c.p. e 25

Cost. che lascia, tuttavia, aperto il problema.

Non può non essere rilevato, infatti, che il procedimento per

cui si individuano “casi analoghi” a quelli elencati non sembra

differire da quello normalmente impiegato per rinvenire i “casi

simili” e le “materie analoghe” sulla scorta di una norma generale

alla stregua dell’articolo 12 delle preleggi. Quanto meno, perciò,

628

Corte costituzionale, 27.5.1961 n. 27, in Giur. it. 1961, I, 1, 1043 e ss.

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240

questa operazione dovrebbe essere inserita in una particolare

accezione di interpretazione ordinaria, ulteriore rispetto al normale

inquadramento di un caso in una fattispecie astratta.629

Ma ciò

conduce, inevitabilmente fuori dalla proponibilità di una

convergenza sul concetto di interpretazione ordinaria stessa, il che

avvalora la tesi che assegna ad ogni interpretazione gli elementi del

ragionamento analogico, come ormai abbiamo detto più volte.

Per superare il problema, che comunque rimane, del divieto di

analogia in ambito penale si è proposta, poi, un’ulteriore

qualificazione, invero formalistica: la previsione di diciture come

quella che, in materia penale, estende a “casi analoghi” una data

disciplina incriminatrice significherebbe una deroga al generale

divieto di estensione analogica, cosicché si verrebbe giustificando la

previsione in casi come l’articolo 121 del T.u.l.p.s. senza

ammetterne l’incostituzionalità.

Del resto l’uso incondizionato dell’analogia, laddove si

ritenga che essa dia luogo non a ragionamento di certezza630

ma di

probabilità, potrebbe rivelarsi estremamente a rischio proprio in

ambito penale, dove potrebbe scalfire il fondamentale principio di

stretta legalità.

Facendo appello, invece, alle tesi di chi, come Betti, individua

nell’analogia non tanto la creazione di una norma nuova, quanto

piuttosto il rinvenimento di una proposizione linguistica e

concettuale già presente nel tema della norma,631

l’intenderla nella

sua intima coerenza e allo stesso tempo il vivificarla in un

“incessante ripensamento”,632

si può concludere che anche diciture

come quella dell’articolo 121 del T.u.l.p.s. non fanno che

629

Cfr. C. F. GROSSO, L’art. 121 delle leggi di pubblica sicurezza e il

divieto di analogia in diritto penale, in Giur. it. 1961, I, 1, 1046. 630

Sostengono la tesi dell’analogia come ragionamento di certezza N.

BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.97 e ss; M.

BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 634;

contrario, invece è L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia

del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 363 e ss. 631

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit. p. 70 e

ss. 632

E. BETTI, op. ult. cit., p. 140 ss.

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241

riferimento, a loro volta, a “casi [e tempi] considerati” come

prevede l’articolo 14 delle preleggi, e quindi non contrastano con il

principio di stretta legalità perché, pur se in forma generica, i casi

rinvenuti analogicamente in realtà già si trovano nell’attualità della

norma.

Rimane, a questo punto, l’interrogativo sul senso da dare,

comunque, al divieto sancito dall’articolo 14, ma sul punto si

approfondirà nel prossimo paragrafo.

Ciò che qui è interessante anticipare è proprio la riflessione in

merito all’interpretazione analogica esplicitamente prevista in

norme incriminatrici, come nel caso dell’articolo 121 T.u.l.p.s..

Caso significativo proprio perchè oggetto di una recente sentenza

del T.a.r. Liguria633

che, sulla stessa materia, si è espresso per

un’interpretazione adeguatrice634

della norma ritenendo che per far

scattare il divieto - nella fattispecie si trattava di includere tra i

“mestieri analoghi” a quello, espresso, di “ciarlatano” l’esercizio

della cartomanzia, dell’occultismo e della parapsicologia a mezzo

della televisione - sia necessario interpretare la norma

obiettivamente “alla luce dei nostri giorni”, apparendo “francamente

impossibile” applicare automaticamente la qualifica data dalla

norma incriminatrice (“ciarlatano”) a tutte le categorie elencate e

non potendosi ritenere, perciò, incluse quelle in questione (“maghi e

cartomanti”).

Nemmeno le norme incriminatrici, pertanto, sfuggono

all’interpretazione adeguatrice e la previsione di spazi

apparentemente liberi dalle maglie del diritto, come l’allargamento

di una disciplina a “casi analoghi”, testimonia quanto meno

un’elasticità ermeneutica delle norme penali non inferiore a quella

delle altre norme.

Sull’analogia nel caso di elenchi tassativi di fattispecie

un’ultima osservazione può essere fatta: la giurisprudenza tende, in

questi casi, a escludere sia l’interpretazione estensiva che

633

T.A.R. Liguria, sez. II, 15.1.1997-14.2.1997 n. 37 in Guida al diritto

5.4.1997 n. 13. 634

Cfr. M. CLARICH, Con un’interpretazione moderna della legge salta

l’equiparazione tra maghi e “ciarlatani”, in Guida al diritto 5.4.1997 n. 3, p. 71.

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242

l’analogia,635

autorizzando, al contrario, una sorta di interpretazione

letterale. Significativo è il fatto che l’elencazione specifica di casi è

considerata un’implicita volontà di esclusione dei casi non

menzionati, talvolta con l’esplicita cautela contro la violazione del

principio costituzionale di uguaglianza. La giurisprudenza, e con

essa il legislatore sembrano, cioè, ancora tesi nello sforzo di

certezza e obiettività, cercate rincorrendo una specificità normativa

contro gli arbitri dell’interprete: salvo, poi, cadere nella trappola

delle deroghe o della pletora legislativa.

Contro l’idea di certezza ermeneutica cozza anche il tema del

rapporto tra analogia e consuetudine. Si è già accennato alla

soluzione data da una parte della dottrina, soprattutto tedesca, al

problema della norma autorizzatrice dell’analogia ricorrendo

all’idea di una norma consuetudinaria facente funzioni di norma

legittimante il procedimento analogico. Tuttavia il tema richiama,

altresì, quello dell’interpretazione delle stesse norme

consuetudinarie e dell’ammissibilità di un ragionamento analogico

anche in questa materia.

Senza allargare troppo il discorso sarà qui sufficiente

accennare all’interrogativo che si pone lo stesso Betti636

in ordine

all’ammissibilità di un’interpretazione analogica di norme

consuetudinarie, chiedendosi se il criterio di valutazione della

“necessità sociale”, o ratio iuris possa ricorrere anche in nuove

situazioni di fatto rinvenute analogicamente, o per similarità con

ipotesi regolate dalla consuetudine.

Anche se la risposta che l’autore si dà è per la proponibilità

della questione ma per una soluzione “non necessariamente risolta

in senso positivo”,637

tuttavia, per le considerazioni che si sono fatte

635

Cfr. Cassazione civile, sez. lav., 9.5.1983 n. 3168, in Giust. civ. Mass.

1983, fasc. 5; Cassazione civile, sez. lav., 27.10.1986 n. 6294, in Riv. infort. e

mal. prof. 1987, II, 23; Comm. centrale imposte sez. IX, 16.3.1994 n. 733, in

Giur. imp. 1994, 533. 636

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 276

ss. 637

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 331 e

ss.

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243

sulla natura dell’analogia non mi sembra che il ragionamento da

farsi su norme consuetudinarie sia diverso da quello che consente di

ricavare una norma a simili. E ciò sia nell’interpretare una norma

consuetudinaria, sia, viceversa, nell’avvalersi di norme

consuetudinarie come regole da cui ricavare “casi simili o materie

analoghe”.

Prima di concludere il discorso sulla necessità di una norma

autorizzante il ricorso all’analogia converrà accennare ad un ultimo

argomento: quello sull’ipotizzabilità di ordinamenti giuridici senza

norme di autorizzazione al ricorso analogico e, in particolare, al

problema dell’ordinamento giuridico internazionale.

Si è già menzionato l’ordinamento giuridico tedesco come

esempio di assenza di norme del genere indicato. Per quanto

riguarda l’ordinamento giuridico internazionale nella sua attuale

fase di sviluppo manca, evidentemente, una regola in grado di

determinare a priori gli strumenti per colmare eventuali lacune ma,

più direttamente, per interpretare tutte le possibili norme regolanti i

conflitti interstatuali. A questo proposito vi è stato chi ha

autorevolmente sostenuto638

addirittura la necessità da parte del

giudice o dell’arbitro internazionale di emettere un giudizio di non

liquet e quindi di rifiutare ogni decisione.

In questa sede non si può, evidentemente approfondire la

natura dell’ordinamento giuridico internazionale. Mi pare, però, di

poter dire che è possibile rinvenire nella maggior parte degli

ordinamenti statuali moderni una regola, scritta o non scritta, che si

ispira all’idea di un’interpretazione secondo quanto si è fin qui

esposto. Accogliendo, pertanto, il concetto di un’analogia non tanto

creativa, quanto piuttosto attualizzante e vivificante le norme, non è

indispensabile nemmeno in un ordinamento come quello

internazionale la esplicita previsione di una norma che autorizzi il

ricorso a questo strumento ermeneutico.

Semmai il problema si pone in merito alla ricerca di quel

quid, di quei valori sottostanti le norme su cui, nel caso

638

N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano,

Torino., 1963, p. 423.

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dell’ordinamento internazionale, si può dubitare non tanto in

ragione della consistenza, quanto in ragione dell’univocità e

universalità.639

Peraltro, la norma autorizzatrice dell’interpretazione è

l’ultimo problema dell’ordinamento internazionale dei nostri tempi.

In ogni caso, se per analogia intendiamo il procedimento per

identità e differenza, esso non dev’essere autorizzato, semplicmente

perché così funziona la nostra mente ed è in forza di questo che si

identifica la fattispecie concreta con quella astratta. L’analogia

dev’essere qualcosa di più del semplice procedimento per identità e

differenza e la distinzione dev’essere ricercata nello scopo della

norma, nel ruolo che occupa all’interno dell’ordinamento. Ma è

bene muovere dai limiti positivi della analogia legis per coglierne

appieno la portata.

639

Cfr. per questi approfondimenti il capitolo seguente.

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245

12.4. I limiti dell’analogia legis

12.4.1. Fondamento politico, logico, giuridico del divieto di

analogia in rapporto alle norme penali e eccezionali. Estensibilità e

valore del divieto. Posizioni della dottrina sui limiti della norma

penale. Il concetto di norma eccezionale. Fluidità del rapporto

storico tra regola ed eccezione (le eccezioni sono progressivamente

diventate regole). Esistenza o meno di altri limiti oltre quelli

dell’art. 14. Norme eccezionali e principio di eguaglianza:

l’articolo 14 disp. prel. in rapporto all’articolo 3 Costituzione. Il

problema dei privilegi legali nel credito.

L’articolo 14 delle preleggi stabilisce che “le leggi penali e

quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si

applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.

Questa regola, come detto, è stata tradizionalmente

interpretata quale divieto esplicito di analogia per le leggi

eccezionali e per quelle penali, o almeno per quelle incriminatrici, o

odiosae. Regola, peraltro, che storicamente ha proprio segnato il

confine tra interpretazione estensiva e analogia, laddove la dottrina

ha finito per indulgere all’estensione ermeneutica, in opposizione ad

una stretta letteralità, sulle norme penali ed eccezionali

giustificandola come interpretazione e negando, per contro,

l’applicazione ad esse dell’analogia.

Non tutta la dottrina, tuttavia, sembra essere concorde sulla

natura di divieto costituita dall’articolo 14. Carnelutti,640

per

esempio, ha sostenuto come l’articolo 14 non vieti l’applicazione

640

Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, p.

90 e ss.

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analogica, ma il suo significato, al contrario, consista nel fatto che

le leggi penali e quelle eccezionali non possono servire alla

ricostruzione di un principio. Posizione illuminante soprattutto se si

considera che nell’articolo in parola si individua un “procedimento

analogico a rovescio”641

e tale per cui tutti i casi diversi da quelli

previsti dalle leggi penali e eccezionali si dovrebbero, in base ad

esso, reputare contrari. Il che consentirebbe non solo di conciliare

l’articolo 14 con il principio di stretta legalità della pena, ma anche

di giustificarne la stessa esistenza, altrimenti da ritenersi superflua

posto che, comunque, l’applicazione analogica non sarebbe,

nemmeno nelle materie indicate, vietata. Alla concezione proposta

da Carnelutti si è già risposto al § 5.1.2., dimostrandone la petizione

di principio nel ricercare una norma generale a contrariis da una

norma eccezionale. Né è condivisibile l’individuazione di un

comportamento lecito a contrariis da una norma incriminatrice

speciale. La circostanza che l’articolo 628 c.p. punisca chi, al fine di

trarne un ingiusto profitto, sottrae la cosa mobile atrui con violenza

alla persona o minaccia, non autorizza la sottrazione in assenza di

violenza o minaccia, dacché cadrebbe sotto l’ipotesi dell’articolo

624 stesso codice; ma ugualmente a contrariis, da quest’ultima

disposizione non si può dedurre la legittimità di una sottrazione

della cosa mobile altrui avvenuta non al fine di trarne profitto.

Tutt’al più si può affermare che non si è in presenza di furto, ma

questo è quanto è ammissibile in base ad una lettura diretta o

rovesciata (non vale qui distinguere) dell’articolo 624 c.p.

Conviene soffermarsi, viste le oscillazioni della dottrina, sul

fondamento del divieto sancito dall’articolo 14, anche in ordine alla

ipotizzata non necessità di un’esplicita norma autorizzatrice che

prescriva l’applicazione analogica: di fronte a questo assunto,

infatti, è naturale interrogarsi sul valore di una prescrizione per così

dire negativa, che impedisca, cioè, l’utilizzo di uno strumento che si

assume non necessitare di autorizzazione espressa.

Dal punto di vista logico-giuridico nulla impedisce, per la

verità, di ipotizzare una norma come quella dell’articolo 14 così

641

Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, loc. cit.

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247

come tradizionalmente è stata intesa, cioè come una prescrizione di

non fare, perfettamente legittima.

Il problema, semmai, è di ordine politico, o meglio di politica

legislativa: che cosa fa prescrivere il divieto di analogia per le

norme penali ed eccezionali?

Abitualmente la soluzione al quesito è stata trovata

nell’assegnare un carattere di “privilegio”642

all’interno delle norme

eccezionali, nel fatto che esse perderebbero il carattere di generalità

e di astrattezza, cosicché l’estensione analogica finirebbe per

estendere la ragione di privilegio, e non la ragione di principio,

trattandosi, appunto, di norme a fattispecie cosiddetta esclusiva.643

Per le norme penali, invece, il principio guida del divieto di

analogia si è rinvenuto, come detto, nel principio di stretta legalità e

di riserva a favore della legge, nonché di certezza del diritto.

A queste considerazioni si è, tuttavia, obiettato che le

medesime esigenze di certezza e di legalità sono rinvenibili anche in

altre norme644

e, anzi, in ogni categoria normativa, oltre al fatto che

il timore di incertezza collegato allo strumento dell’analogia

applicato alle leggi penali deriva più da un’idea distorta dello

strumento in questione che dai contenuti dello stesso, più da un

“abuso del potere interpretativo”645

che dai risultati di un possibile

uso.

Il problema sorge, tuttavia, per le norme penali cosiddette

scriminanti o favorevoli per le quali parte della dottrina ha escluso il

divieto di analogia, limitando quest’ultimo, perciò, alle sole norme

cosiddette incriminatrici. Il fondamento di una diversa disciplina è

stato rinvenuto, a questo proposito, nel principio di libertà tale per

cui il favor legislativo è, comunque, per l’esclusione della punibilità

o della colpevolezza, come del resto suggerisce un’interpretazione

teleologica dell’articolo 14.646

642

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 170 ss. 643

M.S. GIANNINI, L’analogia giuridica, in Jus 1941, p. 67. 644

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, cap. XIV. 645

N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 646

Cfr. G. BETTIOL, Diritto penale, Palermo, 1955, p. 110 e ss.

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Dal punto di vista logico la ragione dell’esclusione delle

scriminanti dal divieto di analogia è stato individuato anche in

maniera diversa. Assegnando alle norme penali un carattere di

eccezionalità, Rocco647

osserva come le norme negative dei precetti

penali, quali si possono qualificare le scriminanti, verrebbero ad

essere eccezioni delle eccezioni, cioè deroghe alle norme penali, di

per sé eccezionali: sarebbero, pertanto, norme di diritto comune, e

come tali estensibili per analogia.

Alcuni autori648

hanno, poi, ipotizzato l’esistenza di

scriminanti inespresse nelle norme penali consistenti non tanto in

deroghe normative, in regole rinvenute per mezzo d’analogia,

quanto piuttosto in veri e propri limiti taciti alla norma penale che,

insieme alle disposizioni espresse, concorderebbero a qualificare

l’interesse tutelato.

Tuttavia, come si è osservato,649

anche tali limiti taciti devono

essere ritrovati in qualche modo nella norma, siano pure essi

impliciti, e ciò non può che avvenire per mezzo di un processo di

interpretazione che, come visto, assume comunque caratteri non

dissimili da quelli dell’analogia. Da notare che in questa materia la

giurisprudenza si è dimostrata contraria alla ricerca da parte del

giudice di “cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso

l’utilizzo dell’analogia iuris”,650

più che altro, tuttavia, per una

dichiarata fiducia nel legislatore, con le sue “espresse

codificazioni”, più che nel giudice interprete.

Contro l’opinione di chi ammetteva l’interpretazione per

analogia di tutte le norme in bonam partem - per tutti Carrara, che

nel suo programma notava come “per analogia non si può estendere

la pena da caso a caso, per analogia si deve estendere da caso a caso

647

Ne fa menzione N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino,

1938, cap. XIV. 648

Famoso, a questo proposito, il testo di P. NUVOLONE, I limiti taciti

della norma penale, Palermo, 1947. 649

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 373. 650

Cassazione penale, sez. VI, 2.4.1993, in Giust. pen. 1994, II, 317.

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249

la scusa”651

- emerge la tesi secondo cui la scelta tra l’ammissione o

l’esclusione del divieto per le scriminanti non sarebbe altro che una

scelta politica,652

assegnata - tenendo conto del grado di evoluzione

giuridica di concetti come quello di garanzia cui è informato il

sistema penalistico - alla discrezionalità dell’interprete e al

condizionamento storico in cui si trova immerso.

Personalmente ritengo di dover aderire, per quanto si è fin qui

detto, a questa ipotesi, suffragata, peraltro, dalla constatazione

empirica che non può nascondersi l’uso strumentale che si è fatto

dell’idea di analogia per le scriminanti e di interpretazione estensiva

per le norme penali incriminatrici, teso, in realtà, a giustificare

l’introduzione di nuovi concetti normativi al passo con gli

adattamenti sociali e, quindi, a coprire una effettiva elusione del

considerato divieto costituito dall’articolo 14. Operazione, come si

può vedere, che non si fatica a qualificare come eminentemente

politica.

Ma allora il limite dell’articolo 14 deve pur avere una

giustificazione o si deve ritenere inutile e superfluo come è stato

ritenuto l’articolo 12?

Per quanto si è osservato mi pare di poter dire che anche

senza l’articolo 14 le norme eccezionali non dovevano essere

applicate oltre i casi in esse considerati: ne sarebbe derivata,

altrimenti, un’analogia esorbitante i suoi contenuti e non

rispondente alla sua verità.

Anche per le norme penali, tuttavia, è possibile fare lo stesso

ragionamento. Il limite all’estensione dei casi disciplinati dalla

norma penale, infatti, non è rinvenibile tanto in una regola come

l’articolo 14, quanto piuttosto è già implicitamente incluso tra i

principi informatori del nostro sistema giuridico, e anche

esplicitamente sancito da articoli come l’1 del c. p. e il 25 della

Costituzione.

651

F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale: del delitto,

della pena, (1859-70) Bologna, 1993, n. 890, citato anche da F. ANTOLISEI,

Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989, p. 75 e ss. 652

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 372 e ss.

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Ritenere inclusi, per via di interpretazione estensiva o di

analogia, nella norma penale anche casi che esorbitano dal suo

stretto contenuto - e il confine non può che essere determinato

dall’interprete con la sua storicità e la sua attualità - mi pare debba

significare, perciò, non tanto un andare contro l’articolo 14, quanto

piuttosto contro la stessa ratio della norma penale e contro ogni

corretta interpretazione, si voglia classificarla come estensiva o

analogica.

Rimangono, a questo punto, da fare alcune considerazioni in

merito alle norme eccezionali.

Come norma di diritto eccezionale è stata qualificata,

storicamente, quella norma che non si può dedurre dal sistema, e

per questo non può essere sottoposta a uno sviluppo logico,

ponendosi come elemento extrarazionale.653

Non può sfuggire,

tuttavia, come anche la norma eccezionale debba necessariamente

avere una sua intrinseca razionalità, il che la differenzia dalla norma

arbitraria.

Quale rapporto, allora, tra la razionalità di questa norma e

l’extrarazionalità rispetto al sistema? Questione, questa, che non è

semplicemente un’argomentazione teorica, ma implica

evidentemente ripercussioni sulla possibilità e sulle modalità di

interpretare analogicamente le norme incluse in questa categoria.

L’elemento problematico nelle norme di diritto eccezionale -

da non confondersi con il privilegio, individuato nella norma

valevole per singole persone654

- è, dunque, “la collisione o la

deroga rispetto ai principi fondamentali di carattere politico-

valutativo dell’ordinamento giuridico”.655

Problema che sovente la

dottrina ha superato trasformando il diritto eccezionale in diritto

speciale - si pensi al caso del diritto commerciale - e superando, per

questa via, il divieto.

653

Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II,

cap. V. 654

N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.170. 655

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 369.

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Le riflessioni sulla politicità del fondamento del divieto per le

norme penali si possono, pertanto, avallare anche per le norme

eccezionali, con una precisazione. La qualifica di eccezionale rivela,

in verità, una portata di relatività logica e “condizionalità storica”656

tale per cui il passaggio dalla norma eccezionale a quella, per così

dire, comune avviene, più che per trasformazioni logico-giuridiche,

per una continua evoluzione politica e sociale del tessuto su cui

questa va ad operare. È un processo “fatale”657

che ha fatto la storia

del diritto, storia di “eccezioni che si trasformano in regole, di

novità che si trasformano in normalità”.658

Essendo del tutto relativa la distinzione tra norma eccezionale

e norma comune, pertanto, emerge chiaramente che solo l’interprete

può, alla luce della sua attualità, stabilire il confine del suo sforzo

ermeneutico, applicando sì anche lo strumento analogico, ove

l’evoluzione delle fattispecie lo richieda, ma sempre entro

l’orizzonte assiologico su cui fa perno il sistema e da cui, pena

l’arbitrarietà del risultato, non si deve mai discostare.

Su questa linea anche una sentenza della Cassazione civile del

1981659

la quale, pur premettendo che per le disposizioni di diritto

singolare è vietata l’interpretazione analogica mentre è consentita

quella estensiva, secondo i canoni dottrinali tradizionali, aggiunge

che neppure all’interpretazione estensiva può farsi luogo se la “ratio

legis” non persuada che “il legislatore ebbe in mente di estendere il

suo precetto a casi apparentemente non contemplati”.

Il principio, affermato, nel caso di specie, per escludere

l’applicabilità della legislazione in materia di pubblico impiego al

rapporto di lavoro privato, evidenzia come, in ogni caso, necessiti

un’interpretazione per rinvenire un valore in base al quale applicare

l’estensione. Valore che, nel caso in sentenza, è rinvenuto in una

656

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 181 e

ss. 657

La felice espressione è di L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale,

in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 370. 658

Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit. 659

Cassazione civile, sez. lav., 28.3.1981 n. 1800, in Giust. civ. Mass.

1981, fasc. 3.

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ipotetica volontà del legislatore ma che, per quanto si è detto, può

essere tranquillamente identificato con l’orizzonte assiologico in cui

si muovono le norme in questione.

Per quanto si è detto a me non sembra di poter dire che

l’unico vero limite dell’analogia - e quindi anche

dell’interpretazione estensiva - sia un limite assiologico.660

Per

questa via, infatti, l’interprete potrebbe, alla luce dei valori che

rileva dal complesso sociale e giuridico, segnare i confini

dell’interpretazione, confini che nessuna norma potrebbe mai

stabilire definitivamente, neanche sotto l’illusione di un ritorno alla

presunta certezza di una Buchstabenjurisprudenz. "La volontà del

principe è legge, pertanto, in virtù della legge regia che istituì la

volontà del principe, il popolo trasferì in lui il suo impero e la sua

volontà".661

Da qui i privilegi sono stati considerati come norme di

favore in vantaggio di posizioni di preminenza da proteggere, che il

legislatore, soltanto perché tale, ha il diritto di introdurre,

prescindendo dalla disparità potenziale di trattamento che il ius

singulare introduce, sia nei confronti dei cittadini tra loro, sia tra i

cittadini e la legge. Il ius singulare è quello che viene introdotto

dall'autorità del legislatore contro le norme ordinarie della ragione,

in vista dell'utilità.662

Di conseguenza, la giurisprudenza pretoria:

"non si possono seguire le regole del diritto là ove esse sono state

introdotte contro la ragione del diritto stesso",663

ed è questa

l'origine e la ratio della norma di cui allo art. 14 delle preleggi, che

vieta l'analogia delle leggi penali, per via interpretativa, nonché di

quelle eccezionali o, comunque, derogatorie. Le norme eccezionali,

pertanto, sono, in generale, secondo la loro stessa origine, o di

carattere corporativo, come quelle, numerosissime che, in passato,

affliggevano il diritto commerciale, ovvero discriminatorie, in senso

classista, come quelle che esentavano od alleviano del pagamento

dei tributi in vantaggio di potentati di ogni specie, o primaziali,

660

Cfr. contra L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I,

1987, p.328. 661

ULPIANO, D. I, 4, I. 662

PAOLO, D. I, 3; 16. 663

GIULIANO, D. I, 3, 15.

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secondo la concezione, ad esempio, che si aveva, sino ad un tempo

recente, della famiglia e dei diritti dei genitori, anche iure

successionis, nei confronti dei figli, ovvero del consiglio di famiglia

nei confronti degli orfani minorenni e delle vedove. Basta por

mente, però all'attività svolta dalla Corte costituzionale, per aver la

prova che quel residuo di norme ingiuste che ancora sopravvivono

nella nostra legislazione, e di quelle novissime che,

inavvertitamente, sfuggono ancor oggi alla percezione del

legislatore, vengono fulminate tutte d'incostituzionalità, ex art. 3

cost., che rappresenta nella nostra legislazione l'archetipo stesso del

concetto di giustizia realizzato nel divenire giuridico. Indicativa

anche la concezione che il legislatore stesso ha avuto delle norme

eccezionali, secondo i requisiti essenziali che esso ne ha stabilito

così come risulta dalla relazione della commissione parlamentare

estesa a commento dell'art. 4 del progetto preliminare del codice

civile: "si è osservato, in definitiva, che occorre salvaguardare il

principio che la legge eccezionale deve avere applicazione

eccezionale, dev'esser, cioè, limitata sia nel tempo che

nell'estensione, escluso ogni criterio di analogia".664

Il discorso ci porta allora all’Assemblea costituente ed alla

definizione del principio di uguaglianza, come criterio che presiede

e giustifica le norme eccezionali. Ne era emersa una prima stesura

che ne aveva indicato le linee fondamentali nei termini seguenti: "1)

la radice spirituale e religiosa dell'uomo è la base sulla quale

soltanto è possibile costruire solidamente l'edificio dei diritti

naturali, sacri ed imprescrittibili"; 2) "per dare solidità intrinseca a

tali diritti la dichiarazione deve procedere anche ad un'affermazione

relativa alla natura spirituale e trascendente della persona". I

correlatori nominati, quindi, procedettero collegialmente alla stesura

dell'art. 1 nei termini seguenti: "La presente costituzione, al fine di

assicurare l'autonomia e le dignità della persona umana e di

promuovere a un tempo la necessaria solidarietà sociale, economica

664

Codice civile: libro delle successioni e donazioni : illustrato con i

lavori preparatori, relazione sul progetto preliminare, relazione sul progetto

definitivo, atti della commissione parlamentare, relazione del guardasigilli a S.M

il Re imperatore, Roma, 1939, p. 8.

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e spirituale in cui le persone devono completarsi a vicenda,

riconosce e garantisce i diritti inalienabili e sacri dell'uomo, sia

come singolo che come appartenente alle forme sociali nelle quali

esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona". Il

preambolo suddetto, però, fu poi abbandonato, non già perché la

commissione, e l'assemblea, nel suo complesso, vi furono contrari,

ma perché nella seduta del 9 settembre 1946 si preferì non seguire

quel metodo di compilazione per non caricare di ideologia eccessiva

la nuova Carta costituzionale, e far sì, per contro, che i principi già

espressi trasparissero dai singoli precetti piuttosto che da definizioni

teoretiche di difficile acquisizione cognitiva dalla generalità dei

cittadini: "assicurare una Costituzione accessibile a tutti, una

Costituzione che possa essere compresa dal professore di diritto e,

in pari tempo dal pastore sardo, dall'impiegato d'ordine e dalla

donna di casa."665

Il giusnaturalismo, pertanto, ispiratore della

nostra Carta costituzionale, è l'unico canone ermeneutico di diritto

non scritto (nòmos agrafòs) che è lecito applicare per

l'interpretazione delle norme allorquando si vuol ricercare la loro

ratio. Le norme suddette, quindi, per essere giuste, devono essere

riguardate: in ordine all'autore, sub species legitima potestatis di

colui che le ha dettate; in ordine al fine, nella misura in cui esse

sono state ordinate al bene comune, così come richiamato e definito

nel corso dei lavori preparatori della costituzione: unde homines

vivere possit et unde bene vivant; in ordine alla forma, intesa come

trascendenza dall'esperienza sensibile all'intelligibile (potenza

contrapposta ad atto), sotto il profilo in cui impongono oneri uguali

a coloro che devono osservarle.

La disciplina dei privilegi, pertanto, non fa trattamento

uguale, secondo il criterio formalistico, a meriti diseguali, ma

parifica persone e beni in una commisurazione plurima e composita

di singole posizioni soggettive da riguardare e di beni della vita da

attribuire, e realizza quella giustizia perfetta, sotto l'aspetto

665

Per originali osservazioni sul principio di uguaglianza nella Carta, cfr.

C. PINELLI, Titano, l’uguaglianza ed un nuovo tipo di “additiva di principio”, in

Giur. cost., 1993, p. 1792 e ss.

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retributivo, che viene chiamata geometrica.666

Essa, inoltre, realizza

la giustizia commutativa, quale regolatrice di rapporti

sinallagmatici, perché commisura impersonalmente e

quantitativamente il credito ed il debito bella realizzazione

proporzionalistica in cui entrambi possono trovare soddisfazione,

onde realizza in tal modo la giustizia che viene chiamata

aritmetica.667

Da qui l'esemplificazione della giustizia, anche in

segno grafico, come un numero elevato al quadrato,668

quale

riassunzione composita delle sue caratteristiche geometriche ed

aritmetiche, espressioni, entrambe, di relazioni egualitarie e di

corrispondenza d'istanze opposte e confliggenti, onde la giustizia è

l'uguale, perché rende lo stesso per lo stesso.669

La giustizia

aritmetica, in particolare, che viene in risalto maggiore in tema di

attribuzione dei beni materiali, come, per l'appunto, la disciplina dei

privilegi, tende a far sì che ciascuno dei creditori sia soddisfatto

paritariamente rispetto agli altri concorrenti, di modo che nessun

d'essi riceva nulla di più e nulla di meno di quanto è possibile

attribuirgli in concreto, onde la giustizia commutativa rappresenta il

punto ottimale tra il danno ed il guadagno. Tale concezione della

giustizia, come constans et perpetua voluntas ius suum cuique

tribuendi,670

mette in rilievo che il significato abbia in concreto,

l'espressione ius suum, quale sia, in sostanza, il dictamen practicum

che consente di ravvisare la giustizia nei casi singoli. Il legislatore,

nella fattispecie dei crediti concorsuali, l'ha ben fatto consistere

nella proporzionalità susseguente dei diritti da comparare, ritenendo

più meritevoli di soddisfazione quelli che precedono nella

graduatoria da lui stabilita, con presunzione iuris et de iure di

giustizia, che di essi vien fatta, e meno privilegiati quelli che ha

666

gheometriché analoghia: ARISTOTELE, Etica a Nicomaco, V, 7, 1131 b,

II, 20. 667

aritmetiché analoghia: ARISTOTELE, Etica cit., V, 7, 1131 b, 25; 1132

a, 10. 668

ARISTOTELE, metafisica; I, 5, 985 b, 29. 669

ARISTOTELE, etica a Nicomaco; V, 8, 1132 b, 21, nonché, IDEM, grande

etica, I, 34, 1194 a, 28. 670

ULPIANO, D. I, I, 10.

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posto in seguito. Mai, quindi, come nel caso della disciplina dei

privilegi, si evidenzia ex se l'esattezza del principio: ubi societatis

ibi ius,671

poiché dove vi è pluralità concorsuale vi è bisogno di

regole proporzionalistiche in termini di parità e di eguaglianza

sociale ed economica. La consuetudinarietà delle leggi, infatti, è, di

per se, indice di giustizia realizzata, perché il comune consenso

prestato ad esse ab antiquo è segno indefettibile della rispondenza

di esse alla retta ragione ed al senso di eguaglianza personale e

reale che è insito nella natura degli uomini. Anche a tal principio

etico-giuridico è stato recepito dalla nostra tradizione

giusnaturalista in termini, inizialmente, di giurisprudenza pretoria,

e, poi, di legge in senso formale e sostanziale, dalle costituzioni

imperiali: "non devono esser cambiate mai quelle leggi che hanno

ottenuto sempre un'interpretazione uniforme in ogni tempo;672

"la

diuturna consuetudine ha forza di legge in mancanza di legge

scritta,673

e da qui il secondo tratto di legge giusta, per essere

osservata sempre, e soltanto in un secondo tempo trasfusi

nell'edictum tralaticium, come regole di giustizia indubitate, e,

quindi, nell'edictum perpetuum e nelle costituzioni imperiali sino ai

vigenti codici europei; "nell'interpretare le leggi si deve avere

riguardo, anzi tutto, al diritto che fino a quel tempo è stato vigente,

perché la consuetudine è per esse un ottimo criterio ermeneutico",674

e da qui la caratteristica ulteriore di essere legge perequativa, perché

introdotta ab immemorabile tra le regole del diritto ed interpretata

sempre in modo uniforme; "nell'istituire leggi nuove deve apparire

evidente l'utilità di esse prima di discostarsi da quelle che per lungo

tempo sono state ritenute giuste",675

La legislazione, pertanto, deve

realizzare quel diritto positivo che è ritenuto per antonomasia come

espressione stessa della retta ragione e, quindi, come derivazione

diretta della legge naturale, che è partecipazione stessa alla legge

eterna, secondo la fantasiosa (ma significativa) etimologia del

671

ARISTOTELE, grande etica, VIII, II, 1159 b, 26. 672

PAOLO D. I, 3, 23. 673

ULPIANO, D. I, 3, 33. 674

CALLISTRATO, D. I, 3, 37. 675

ULPIANO, D. I, 4, 2.

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termine "diritto": i primi padri delle nazioni gentili, ch'erano giusti

per la creduta pietà di osservare gli auspici, e che credevano divini i

comandi di Giove dal quale appo i latini era chiamato Ious, ne fu

anticamente detto il "ius", onde la giustizia appo tutte le nazioni

s'insegna naturalmente con la pietà".676

Al di là dell’imprecisa,677

ma efficace, etimologia di Vico, se

ne può dedurre che le disposizioni sui privilegi, come norme

ordinarie di diritto comune (oggi detto civile), sono suscettibili sia

d'interpretazione estensiva che analogica, ed a tal riguardo soccorre

l'origine di legge positiva stessa dei privilegi di cui agli artt. 2753 e

2754 cc, che costituiscono un complemento del sistema

previdenziale, che è oggi un corpus legislativo di carattere ordinario

e generale, perché scaturente direttamente dai precetti di cui agli

artt. 1 e 38 cost., onde di esso non è più il caso di parlare come di un

ius singulare.

Dev'esser rilevato, che l'articolo 14 delle preleggi si limita

soltanto a disporre che le leggi penali e quelle eccezionali, o che

derogano ad altre leggi, non sono suscettibili d'interpretazione

analogica, ma non spiega in che cosa questa consista, ne come

debba essere applicata, perché suppone che tali criteri ermeneutici

siano già conosciuti dall'interprete, perché enunziati nel precedente

art. 12. Di tanto ne danno certezza gli stessi lavori preparatori

dell'art. 14, là dove la relazione del Guardasigilli678

lascia

comprendere inequivocabilmente che i concetti d'interpretazione

analogica ed estensiva sono già stati acquisiti cognitivamente in una

norma precedente: "poiché la norma (inizialmente art. 4 ed oggi art.

12) non riguarda l'interpretazione estensiva ho ritenuto più

appropriato chiarire che le leggi formanti eccezioni a regole

generale non si applicano anziché non si estendono, e sempre al fine

di ottenere maggiore chiarezza, ho sostituito considerati ad espressi,

676

GB. VICO, La scienza nuova, introduzione, (1730 – 1744) nell’edizione

curata da Fausto Nicolini, Bari 1931 e 1953. 677

Per un’accurata etimologia di jus, cfr. F. GENTILE, Il giuramento.

Conversazione tenuta agli Allievi del 170 Corso Ufficiali dell’Accademia

Militare di Modena, Modena, 1989. 678

Cfr. supra, n. 4.

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potendo quest'ultima parola far pensare che si debba aver riguardo

solamente ai casi menzionati espressamente". La relazione al re, del

pari, (n 4) dà la certezza che il concetto d'interpretazione analogica

sia stato anch'esso già acquisito nel codice: "d'altro canto le leggi

che restringono il contenuto e l'esercizio dei diritti subiettivi sono

necessariamente leggi eccezionali, in quanto si contrappongono alle

leggi generali che determinano il contenuto e l'esercizio dei diritti, e

quindi non possono applicarsi analogicamente, secondo il principio

già enunciato nell'art. 4. Consegue, pertanto, che la norma che

indica quale sia l'interpretazione analogica è quella dell'art. 12, 2

comma, delle preleggi, che dispone che: "se una controversia non

può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle

disposizioni che regolano casi simili e materie analoghe; se il caso

rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi dell'ordinamento

giuridico dello Stato".

La "materia analoga" presuppone che si faccia ricorso a

discipline d'istituti diversi che possano avere soltanto qualche punto

in comune col caso da disciplinare, o nei presupposti legislativi, o

negli effetti pratici. La giurisprudenza al riguardo, non lascia adito a

dubbi: "il ricorso alla analogia è consentito per regolare un caso non

preveduto dalla legge con la disciplina prevista per un caso analogo,

che abbia, cioè, lo stesso fondamento razionale, e consiste in un

processo logico per risalire dalle norme espresse particolari, al

principio generale che le governa.679

La giurisprudenza

sull'interpretazione estensiva, a sua volta, puntualizza, con

differenziazione apposita, in cosa essa consista: "fondamento

dell'analogia non è la presunzione della volontà del legislatore, ma

il principio dell'eguaglianza giuridica: presupposto che il rapporto

non è contemplato, sebbene diverso da quello che è, abbia con

questo somiglianza.680

La conferma che, nel caso presente, si tratti

d'interpretazione estensiva e che questa riguardi casi simili e non

identici, si ha dai lavori preparatori e, primieramente, dalla

relazione della commissione reale (pag. 9) sull'art. 3 (oggi 12), che

679

Cfr., per tutte, inizialmente, sent. n. 2404 del 23.11.1965. 680

Cfr., per tutte, inizialmente, sent. n. 1801 del 14.7.1949.

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reca le considerazioni seguenti: questa disposizione serve a stabilire

nettamente che l'interpretazione non dev'esser altro, che la

ricostruzione del pensiero del legislatore, ed è diretta a evitare il

pericolo d'interpretazioni più o meno cervellotiche; certo che con

essa non sono eliminate le difficoltà cui, nella pratica,

l'interpretazione delle leggi dà luogo, tuttavia l'opera giudiziaria è

un lavorio continuo d'interpretazione delle leggi, e sarebbe vana la

fatica del legislatore che pretendesse di risolvere con regole generali

le difficoltà numerose che si presentano praticamente e che per la

loro molteplicità e per la loro varietà sfuggono alle sue previsioni;

la scienza può dare e dà, effettivamente, regole appropriate che

possono servire a guidare convenientemente l'interprete, ma nessuna

di esse può aver valore di norma assoluta, per cui ciò che è

essenziale è che l'interprete sia intelligente ed onesto e che ricerchi

il senso della legge animato dal solo spirito della verità e della

giustizia; "se i codici più recenti non contengono norme

sull'interpretazione della legge, quasi tutti contengono norme per

supplire al silenzio della legge, perché essa può presentare

mancanze, sia per la visione incompleta delle varie contingenze da

parte del legislatore, sia perché il progresso segna continuamente

rapporti sempre nuovi e più complessi; in caso di lacuna della legge,

è certo che il giudice deve compiere la sua opera, onde il codice di

Napoleone sanciva nell'art. 4 che il giudice non poteva rifiutarsi di

giudicare sotto il pretesto del silenzio o dell'oscurità o

dell'insufficienza della legge, altrimenti sarebbe stato passibile di

pene per il rifiuto di giustizia"; "tutti i codici più recenti contengono

una disposizione a questo proposito, ed essi riproducono, in

generale, e spesso letteralmente, quella contenuta nel capoverso

dell'art. 3 (oggi 12) del nostro titolo preliminare, e, in realtà, non si

può negar che essa sia redatta in modo da appagare le ragionevoli

esigenze della dottrina e da servire convenientemente alla pratica

giudiziaria". Da tale nomofilachia compiuta dal legislatore stesso

discende che l'interpretazione es analogica delle leggi è il criterio

generale ed ordinario dell'ermeneutica giuridica, perché le leggi

sono facilmente insufficienti o lacunose non già per la loro

formulazione claudicante od oscura, ma per l'evolversi rapido delle

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situazioni reali con riguardo alla produzione ed alla disponibilità dei

beni della vita ed ai rapporti che a quelli si riferiscono e che

l'influenzano, e tale è da ritenersi il sistema previdenziale vigente

che non consente soste interpretative o remore legislative dei valori

umani, onde impone alla giurisdizione di adeguare il sistema

generale già esistente ai casi più disparati con criterio direttivo

coerente col sistema già posto ed il più possibile uniforme. In tal

senso, peraltro, è concorde la nostra stessa tradizione giuridica,

onde la ratio del legislatore si rivela come la conferma di un sistema

già sperimentato con favore nel tempo, e da tali precendenti essa

acquista maggior forza di convinzione e maggior certezza di

applicazione circa l'estensione della legge a quei pochi casi non

disciplinati precisamente o non previsti addirittura: "le leggi, come

sostiene Teofrasto, devono esser dettate per quei casi che accadono

più frequentemente e non già per quelli che avvengono

rarissimamente";681

"non devono esser poste leggi per quei casi che

possono accadere soltanto qualche volta";682

"le leggi devono

riguardare i casi più frequenti e facili ad accadere e non già quelli

che sorgono rarissime volte";683

"le leggi ed i senatoconsulti non

possono essere concepiti in modo che concernano tutti i casi

possibili, ma è sufficiente che provvedano a quelli che di più

frequente accadono".684

Dev'esser tratta, pertanto, una prima

conclusione al riguardo, ed affermare che l'interpretazione analogica

delle leggi è, istituzionalmente, attività quotidiana della

giurisdizione, senza la quale non sarebbe possibile render giustizia a

tutti i cittadini secondo un criterio mirato e proporzionale di

attribuzione di diritti o di obblighi. La relazione della commissione

parlamentare, a sua volta, (pag, 728) che seguì quella della

commissione reale, fu ancor più puntuale in tema d'ermeneutica

legislativa, perché pose in evidenza la differenza tra il primo ed il

secondo comma dell'art. 12 evidenziando il senso relativamente

costrittivo del primo precetto, rispetto alla maggior libertà che il

681

POMPONIO, D. I, 3, 3. 682

CELSO, D. I, 3, 4. 683

CELSO, D. I, 3, 5. 684

GIULIANO, D. I, 3, 10.

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secondo accordava al giudice per i casi non disciplinati: "si è

considerato che le de parti di questo articolo hanno due funzioni

precise: la prima guida e frena l'interpretazione, stabilendo che deve

farsi in base alla lettera della legge e l'intenzione del legislatore,

l'altra dà, invece, una certa libertà all'interprete. "La commissione,

pertanto,... non ha creduto che si possa precisare, come qualche

commissario avrebbe voluto, cosa debba prevalere l'interpretazione

di una norma nel caso di contrasto tra la lettera e lo spirito di essa,

ed ha ritenuto che la soluzione della questione debba esser lasciata

alla dottrina, mentre, indubbiamente, se il magistrato riconosce che

nella formulazione della legge vi è un errore, egli non può dare la

prevalenza allo spirito della disposizione. Risulta confermato,

quindi, dall'autorità stessa del legislatore, che quel che deve

prevalere in caso di norma incerta, o lacunosa è la ratio legis,

considerata secondo lo spirito che anima il provvedimento

legislativo, il dictamen practicum che con esso si vuol conseguire,

la disciplina che si vuole introdurre in vista di un ampliamento della

sfera dei diritti dei cittadini ovvero della restrizione di questi in

funzione di un maggior bene comune. Di tanto, il pensiero del

legislatore, peraltro, è sorretto ancora una volta dall'esperienza

collaudata della nostra tradizione giuridica, che è, sotto tale aspetto,

ancor più illuminante con riguardo all'esattezza della soluzione data

alla tematica in esame: "non tutti i casi particolari possono essere

compresi nelle disposizioni di legge o nei senatoconsulti, ma

allorquando il senso di esse è in qualche modo manifesto, il

magistrato può estenderlo a cause simili, e rendere in tal modo

giustizia";685

"allorquando, come sostiene Pedio, una legge viene

promulgata per disciplinare una determinata materia, è questa

un'occasione favorevole per applicarla a quei casi analoghi che

tendono alla medesima utilità, mediante l'attività interpretativa

ovvero l'applicazione analogica";686

"Le leggi devono essere

interpretate benignamente, in modo, però, che venga conservata a

loro volontà";687

"la ragione del diritto e la benigna equità non

685 GIULIANO, D. I, 3, 12.

686 ULPIANO, D. I, 3, 13.

687 CELSO, D. I, 3, 18.

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tollerano che quanto viene introdotto salutarmente per l'utilità degli

uomini, si rivolga in loro pregiudizio a causa di 'un'interpretazione

severamente restrittiva",688

e da qui l'avvertenza fatta da Cicerone ai

giurisperiti di non essere mai formalisti o restrittivi

nell'interpretazione delle leggi al fine di evitare di dimostrarsi "di

naso chiuso, emuctae nares". La sentenza di Modestino è quella che

evidenzia meglio il vizio d'interpretazione in cui abitualmente

incorrono le corti, perché esse si precludono ogni via ermeneutica e

si è ristretto soltanto nell'interpretazione letterale della locuzione,

con la conseguenza di non aver potuto cogliere tale espressione

nella sua vera ragion d'essere, secondo l'intenzione del

legislatore.689

688

MODESTINO, D, I, 3, 25. 689

“Deve concludersi, pertanto affermando: 1) che le norme del codice

civile di cui agli articoli 2753 e 2754 non costituiscono un ius singulare; 2) che

esse, per contro, sono norme di legge ordinaria; 3) che esse sono tali anche con

riguardo alla loro origine previdenziale; 4) che esse creano una par condicio tra

lavoratori subordinati e lavoratori autonomi in ordine alla tutela dei diritti

previdenziali riconosciuti ad essi ex legge; 5) che le norme suddette sono, di

conseguenza, suscettibili d'interpretazione sia estensiva che analogica; 6) che,

nella specie, dovevano esser fatte oggetto d'interpretazione analogica; 7) che tutti

i criteri ermeneutici delle leggi sono dettate dall'art. 12 delle preleggi; 8) che l'art.

14 delle preleggi non è fonte d'esegesi legislativa, ma norma che disciplina

l'applicazione delle leggi penali od eccezionali.” Così Cassazione civile, Sez.

Lavoro, n. 7494 del 24/07/90.

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13. L’ANALOGIA IURIS E I PRINCIPI GENERALI

13.1. Analogia legis e analogia iuris

13.1.1. Il problema dell’esistenza o meno di una scala

gerarchica tra i criteri di interpretazione (interpretazione estensiva,

analogia legis, analogia iuris). Critica alla distinzione qualitativa o

sulla base dell’esistenza di un rapporto particolare-particolare

(analogia legis) o particolare-generale (analogia iuris). Negazione

della distinzione analogia legis-analogia iuris sulla base del fatto

che metterebbero capo a un principio comune (norma inespressa)

di ampiezza diversa. Ipotizzabilità di una coincidenza tra analogia

legis e principi.

Si è già accennato all’inserimento del ricorso ai principi

generali dell’ordinamento in coda ai canoni legislativi per

l’interpretazione della legge previsti dall’articolo 12. Il secondo

comma dell’articolo in parola, come noto, dispone infatti che, “se il

caso rimane ancora dubbio” - dopo la menzione del ricorso a “casi

simili o materie analoghe” - “si decide secondo i principi generali

dell’ordinamento giuridico”.

Si è anche fatto cenno alla variazione,690

rispetto al precedente

articolo 3 del codice civile del 1865 della dicitura “principi generali

690

Cfr. par. 4.1.1. “Devesi preliminarmente osservare che l'art. 12 delle

preleggi, nel dettare i criteri legislativi di interpretazione, stabilisce, anzitutto,

che, nell'applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso se non quello

fatto palese: a) dal "significato proprio delle parole secondo la connessione di

esse" (criterio cosiddetto di interpretazione letterale); b) dalla "intenzione del

legislatore" (criterio cosiddetto di interpretazione teleologica). L'interprete, in

forza dei suddetti criteri, deve acquistare la conoscenza della determinazione

legislativa, tenendo presente come, nei diversi sistemi giuridici, alcune

proporzioni siano ripetute e conclamate con costanza: una di queste è la regola

(evidenziata dal citato art. 12) per cui, nel procedere all'interpretazione della

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dell’ordinamento giuridico dello Stato”: l’antecedente codice

riportava, infatti, l’espressione “principi generali di diritto”.

Interessante, per capire la logica sottostante il concetto espresso

dall’articolo, è rileggere la relazione a Sua Maestà il Re Imperatore,

stilata in occasione del nuovo codice del 1942 (il cui primo libro,

com’è noto, è entrato in vigore già nel 1939).

“La specificazione introdotta nel progetto definitivo”, scrive il

relatore, “a proposito dei principi generali del diritto, nel senso che

tali principii debbono essere ricercati entro la sfera del sistema

legislativo vigente, ha incontrato il pieno favore della Commissione

parlamentare. Nondimeno, in luogo della formula «principii

generali di diritto vigente», che avrebbe potuto apparire limitativa

dell’opera dell’interprete, ho ritenuto preferibile l’altra, « principii

generali dell’ordinamento giuridico dello Stato », nella quale il

termine «ordinamento» risulta comprensivo, nel suo ampio

significato, oltre che delle norme e degli istituti, anche

legge, occorre attenersi innanzitutto e principalmente al lato letterale. La legge va,

dunque, interpretata alla lettera; e questo criterio impone al giudice di attenersi

strettamente al diritto posto con la legge dello Stato. Anche se il criterio di

interpretazione teleologica tende a questo risultato: le parole sono solo il mezzo

attraverso il quale si esprime "l'intenzione del legislatore"; e come tali vanno

interpretate, ma non fino al punto di attribuire alla norma un senso diverso da

quello che, dal contesto della legge, risulta corrispondere alla finalità che la

norma si propone (tradizionalmente definita anche come ratio legis); tuttavia,

l'interpretazione secondo la ratio legis deve essere giudicata eccezionale. Il

primato dell'interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla

giurisprudenza di legittimità (Cass. 26 febbraio 1983 n. 1482; Cass. 2 marzo 1983

n. 1557; Cass. 27 ottobre 1983 n. 6363; Cass. 7 aprile 1985 n. 2454; v. anche:

Cons. St. Sez. V 15 giugno 1992 n. 555). All'intenzione del legislatore può darsi

rilievo soltanto nell'ipotesi - eccezionale - che l'effetto giuridico risultante dalla

formulazione normativa sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo

consentito all'interprete correggere la norma, nel significato tecnico - giuridico

proprio delle espressioni che lo strutturano, solo perchè ritiene che l'effetto

giuridico risultante sia inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa

(Cass. 6 agosto 1984 n. 4631). L'interpretazione da seguire deve essere, dunque,

quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro

formulazione tecnico giuridica.” Così Cassazione Civile Sez. Lavoro n. 3495 del

13/04/96.

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dell’orientamento politico legislativo statuale e della tradizione

scientifica nazionale con esso concordante”.691

La variazione dall’una all’altra dicitura è interessante non solo

perché il tentativo è verso la precisazione di codesti principi

generali, rendendoli qualcosa di più vicino al diritto vigente, ma

anche perché, raffrontando i progetti di riforma dell’articolo

rigettati con quello poi adottato emerge la volontà di dare peso non

unicamente al complesso di norme esistenti, ma anche alla

“tradizione scientifica nazionale”, all’elaborazione giuridica e

quindi a quei principi rinvenuti non solo per diretta discendenza dai

precetti ma anche per via ermeneutica.

Prima di addentrarci, però, ad analizzare il significato e la

portata dei principi generali nel nostro ordinamento - il che sarà

fatto, anche se per sommi capi, nel paragrafo successivo - è utile

indagare sul rapporto tra questi e gli altri criteri ermeneutici previsti

dall’articolo 12.

Si è già detto, parlando dei limiti all’analogia legis, che

ritenere eccezionale o meno una norma dipende da

un’interpretazione sistematica ed assiologica e che in questa

operazione è coinvolta una valutazione qualitativa rispetto ai valori

- e ai principi - che emergono dal dinamismo sociale e giuridico.

Ciò implica, evidentemente, un ricorso a elementi che trascendono -

o sono impliciti - la norma nella sua letteralità.

Ma non è solo l’analogia legis a fare da passante per il ricorso

ai principi generali. Anche nell’ordinaria attività interpretativa,

infatti, si è detto che il criterio per estendere la lettera della legge

adattandola alla concretezza dell’esperienza deve essere quello del

ricorso a valori sottesi alle norme stesse, cosicché anche senza

passare per l’analogia si può, come si vede, fare ricorso ai principi.

Tradizionalmente, invece, si è inteso il rapporto tra

interpretazione estensiva, analogia e ricorso ai principi generali

691

Cfr. Codice civile: libro delle successioni e donazioni : illustrato con i

lavori preparatori, relazione sul progetto preliminare, relazione sul progetto

definitivo, atti della commissione parlamentare, relazione del guardasigilli a S.M

il Re imperatore, Roma, 1939; nonché Corte d’Appello di Roma, sent. 10.1.1939,

in Foro it., I, c. 677.

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come una successione progressivamente sempre più ampia di criteri

ermeneutici, come una serie di cerchi concentrici con al centro

l’espressione formale della norma e all’esterno la concezione

ideologico-valoriale che sostiene il sistema giuridico.

Anche la stessa dizione dell’articolo 12 sembra rifarsi a questa

idea, laddove parla di caso che rimane ancora dubbio,

presupponendo, pertanto, una precedente applicazione di criteri

ermeneutici diversi da quello, che appare come sussidiario, del

ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.

Ciò che, tuttavia, non convince di questa gerarchia dei criteri

ermeneutici è il fatto che, comunque, il processo interpretativo in se

stesso comporta, come si è detto, la ricerca di questi principi, se non

altro per poter legittimare il ricorso al criterio analogico: i principi

generali, pertanto, non affiorano solo come extrema ratio, ma, al

contrario, sono il naturale approdo di ogni autentica ermeneutica,

sicché non ha ragione di esistere la scala gerarchica così come è

stata tradizionalmente individuata nell’articolo 12.

Contraria a questa impostazione è, tuttavia, parte della

dottrina, incline piuttosto a individuare nell’analogia juris,

ipotizzata come coincidente con il ricorso ai principi generali, uno

strumento di “ulteriore astrazione” rispetto ai termini della

descrizione normativa, per risolvere “ulteriori conflitti e situazioni

sociali [...] irriducibili a tali termini”.692

In generale, perciò, quella dell’analogia juris è vista come

una diversa forma di autointegrazione per sostituire i termini della

fattispecie normativa, anche non dipendenti da un inquadramento

sistematico, con termini più generali, in un rapporto, pertanto, che

va dal particolare - il caso della norma - al generale - il principio -

così come l’analogia legis era vista, rispetto alla fattispecie

normativa, come uno strumento che stabiliva con essa un rapporto

da particolare - anche qui il caso della norma - a particolare - il caso

“analogo” rinvenuto, appunto, per analogia.

692

.Cfr. M. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come

autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, p. 53.

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267

Conviene, a questo punto, fare un passo indietro e soffermarsi

sul significato di questa analogia juris che, come visto, viene

confondendosi con l’idea del ricorso ai principi generali

dell’ordinamento, dato che il termine è caduto in disuso.693

Storicamente l’espressione analogia juris precedette, nell’uso,

quella di analogia legis, indicando il concetto aristotelico di

proporzione, il procedimento per ricavare soluzioni per i casi non

previsti dall’armonia del sistema.694

Così da metodo per comporre

le contraddizioni all’interno del sistema giuridico l’analogia juris

progressivamente passò a significare l’intero sistema razionale del

diritto, nella sua connessione organica, e nel suo principio logico di

costruzione.695

Proprio a partire dall’origine del termine qualche autore ha

sottolineato l’assoluta differenza esistente tra il rapporto analogia

legis-interpretazione estensiva, aventi la stessa struttura logica, e

quello analogia legis-analogia juris, aventi rapporto diverso, e

precisamente quello di sussunzione tra la specie e il genere.696

Tuttavia si è anche obiettato come pure l’analogia legis

stabilisca, dal punto di vista logico, un rapporto tra un particolare e

un universale,697

dato che, come si è ampiamente evidenziato, nella

ricerca della ratio, o del valore implicito nella norma si deve,

giocoforza, passare dalla particolarità della norma all’universalità

del principio.

Il processo di astrazione non solo logica, ma teleologica e

assiologica che il passaggio dalla fattispecie prevista alla fattispecie

non prevista richiede non differisce, pertanto, dalla indagine sui

principi generali dell’ordinamento.

693

N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino,

1957, p.605. 694

N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino,

1957, p. 605. 695

L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p.321. 696

N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino,

1957, p. 605. 697

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 358.

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268

Anche Carnelutti dà contezza del procedimento analogico

come di quello in cui “si risale mediante una semplificazione del

comando espresso, dalla cui fattispecie si elimina un numero

maggiore o minore di caratteri, a un comando inespresso più ampio

e comprensivo al quale, in quanto per via di specificazione il

comando espresso ne è generato, si dà il nome di principio”,698

pur

se nella sua analisi l’analogia legis si differenzia dall’analogia juris

per un criterio quantitativo, dato dalla maggiore ampiezza e

generalità del comando cui il ricorso ai principi generali darebbe

luogo.

E, per la verità, questo sottolineare la diversa ampiezza del

principio comune rinvenuto con l’analogia legis ovvero con

l’analogia juris è condiviso da buona parte della dottrina, tra cui lo

stesso Betti699

: con l’analogia si metterebbe capo all’applicazione di

un “principio”, inteso come proposizione normativa inespressa, cui

si giungerebbe per astrazione logica da una o più norme espresse.

Senonché altri autori700

fanno osservare che con il

procedimento analogico si perviene, in realtà, all’applicazione di

una norma espressa, poiché ad essere inespressa è solo la ratio

legis, elemento sì comune, da cui traggono origine le

argomentazioni, ma che non ha carattere normativo.

Ad essere applicati, quindi, non sono mai né il principio né la

ratio, direttamente, ma sempre si applica una norma rinvenuta per

via di interpretazione. È perciò impossibile distinguere l’analogia

legis dall’analogia juris sulla base del fatto che danno luogo

all’applicazione di un principio comune di portata diversa, e allo

stesso tempo è da accogliere, pertanto, in base alle osservazioni che

si sono fatte sull’analogia, l’ipotesi di una coincidenza tra i due

procedimenti, o comunque della irrilevanza pratica701

di una

distinzione.

698

Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, p.

87. 699

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 69. 700

M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 648. 701

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia in Enciclopedia del diritto, cit., p. 359.

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269

Di contrario avviso sembra essere parte della giurisprudenza,

che utilizza la distinzione come escamotage per superare il presunto

divieto di analogia, giustificando un’estensione interpretativa

“audace” con l’analogia juris.

Così fa, ad esempio, una sentenza del Consiglio di Stato del

1985702

che, attesa la tassatività delle forme processuali, ritiene non

702

Consiglio di Stato, adun. plenaria, 20.2.1985 n. 2, in Giur. agr. 1986,

117. Ma anche la Corte di cassazione ha avuto modo di statuire che “…secondo i

principi generali del nostro ordinamento processuale, mentre l'art. 91 cpc è

applicabile estensivamente anche nelle ipotesi in cui è prevista la forma

dell'ordinanza che contiene una statuizione definitiva idonea ad incidere su un

diritto sostanziale delle parti (artt. 350 e 375 cpc), dall'altro esso non è applicabile

fuori delle ipotesi che non prevedono la chiusura di un procedimento con

sentenza definitiva. Le tesi fin qui esposte hanno tutte un tratto comune che le

unifica nella loro ratio e le contrappone, nello stesso tempo, a quelle della

seconda tendenza giurisprudenziale di cui verrà detto subito. Esse sono ancorate

tutte al principio aprioristico, che, nel caso in esame, assume vero e proprio

valore di categoria giuridica, assoluta di per sè, come principio, ed indefettibile

come applicazione, che la locuzione "sentenza che chiude il processo" debba

essere intesa in senso restrittivo, secondo il significato fatto palese dalla parole,

per cui, sotto l'aspetto letterale, essa non può significare altro che il

provvedimento che definisce il processo ordinario di cognizione, inteso come

strumento di sintesi che rappresenta, sempre e comunque, l'individuazione della

legge al caso concreto, e, quindi, la definizione, a cognizione piena, della

confliggenza di diritti soggettivi perfetti tra contendenti sottoposti al medesimo

ordinamento giuridico. L'art. 91 cpc, pertanto, diminuito, così da principio

generale del nostro ordinamento processuale a norma finalizzata alla

complementarità della formulazione del giudizio racchiuso nel documento

qualificato come "sentenza", non esprime più il suo valore universalistico di

civiltà giuridica e di giustizia, che sovviene in expensis alle necessità di chi

subisce un confronto dialettico di qualsiasi genere in sede giurisdizionale, e non

risponde più, quindi, all'imperativo categorico di eliminare le lacrimae rerum

costituite dagli esborsi inevitabili sopportati per proporre l'exceptio in litem

improbam, ma si concretizza in una forma processuale, rigida, per definizione, e

riduttiva, per valore giuridico, che lascia priva di tutela giurisdizionale una

molteplicità di casi, come quello in esame, riguardante per l'appunto la tutela

risarcitoria in sumptibus dei resistenti riusciti vittoriosi nei procedimenti cautelari.

Tale valore minimale attribuito alla norma di cui all'art. 91 cpc si pone in

antinomia non soltanto col criterio di giustizia commutativa che impone di

ristorare il reus absolutus delle spese di lite sopportate, ma contrasta anche con la

nostra stessa tradizione giuridica senza alcuna spiegazione plausibile, e di essa

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270

applicabile in materia l’analogia legis, bensì l’analogia juris, col

ricorso ai principi - processuali - generali. Giustificazione che,

tuttavia, non significa altro, a ben guardare, che parrebbe

un’analogia legis particolarmente arrischiata, e niente più, se non si

accoglie la tesi –che a noi sembra preferibile- per cui l’analogia

legis astrae dalla norma il principio (o ratio) ricercandolo poi tra le

norme espresse quelle che partecipano della medesima ratio ed

individuando così il caso analogo. All’opposto, l’analogia juris non

trovando una norma che contenga la stessa ratio e portata, la

produce sostituendosi al legislatore.

bisogna tener conto allorquando, è necessario ricorrervi per riassumere i principi

generali del nostro ordinamento giuridico, essendo essa criterio comprimario di

ermeneutica legislativa, ex art. 12, 2 comma delle preleggi, secondo la ratio stessa

che di tale norma ne dà la relazione al re (n. 12): "ho ritenuto preferibile la

formula principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato, che risulta

comprensiva, nel suo ampio significato, oltre che delle norme e degli istituti,

anche dell'orientamento politico-legislativo statuale e della tradizione scientifica

nazionale (diritto romano, comune, ecc.)". La formulazione degli artt. 91 e 96 cpc

si pone nel solco di quella che fu, in un primo tempo, la giurisprudenza pretoria e,

successivamente, la legislazione imperiale. I punti salienti della tradizione

romanistica con riguardo al thema decidendum in esame, sono tre: 1) il principio

che il pagamento delle spese del giudizio non è soltanto la conseguenza della

malafede (temeritas) della parte soccombente, ma l'attuazione del principio

obiettivo della causalità, onde chi ha cagionato una spesa, indipendentemente

dall'elemento subiettivo che l'ha animato, è obbligata a risarcire l'altra parte

dell'onere economico impostale; 2) che l'obbligo del pagamento delle spese

(expensae), sia dirette che indirette (sumpta), non è connesso esclusivamente

all'accertamento di merito che conclude il giudizio, ancorchè la pronunzia della

sentenza definitiva ne sia il sistema normale; 3) che la pronunzia di condanna alle

spese può esser pronunziata anche con interlocutio nel corso del giudizio, anzichè

con sententia e, quindi, prescindendo dalla soccombenza della parte in punto di

merito.” Così Cassazione Civile Sez. Unite n. 2631 del 30/05/89.

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13.2. I principi generali dell’ordinamento: tra norme e fonti di norme.

13.2.1. Concetto di principio. Posizione di Betti: i principi

generali non si identificano con norme inespresse, ma sono somme

valutazioni normative. Eccedenza assiologica dei principi generali.

Il diritto naturale vigente. Principi comuni e principi fondamentali;

rapporto con i principi costituzionali. Principi di civiltà giuridica e

della vita comunitaria. Analogia e criterio degli interessi.

Insostenibilità della distinzione interpretazione estensiva/analogia

sulla base della ricerca e applicazione di un “principio” giuridico.

L’analisi dei problemi connessi ai principi generali

dell’ordinamento meriterebbe un’intera trattazione a sé e, del resto,

la letteratura in materia è, come noto, vastissima. Sembra, tuttavia,

opportuno, soffermarsi anche su questo aspetto connesso

all’interpretazione per dare, quanto meno, l’idea degli sbocchi cui il

ragionamento fin qui condotto può dare spazio. Non sarà possibile,

evidentemente, esaurire l’indagine all’interno del presente lavoro:

ciò che interessa far emergere è, comunque, come le implicazioni

connesse al complesso rapporto tra l’analogia e l’interpretazione

estensiva sfocino anche nelle pieghe del delicato e cruciale tema dei

principi del diritto.

Ciò premesso la dizione dell’articolo 12 - che parla di

“principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” - e la già

menzionata variazione rispetto alla precedente versione del codice

del 1865 - che si riferiva, più scarnamente, ai “principi generali del

diritto” - non può non interrogare, in primo luogo, proprio sul

concetto giuridico di principio.

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Già la constatazione della diversità linguistica tra le

espressioni contenute negli articoli dei due codici citati rinvia a

quella che è una diversità concettuale: la prevalenza, alla fine di un

vivace dibattito, del pensiero positivistico su quello

giusnaturalistico, sostenuto al tempo della redazione del codice del

1942 da Giorgio Del Vecchio, che proponeva la coincidenza e

l’immedesimazione dei “principi generali del diritto” col diritto

naturale.703

L’”ulteriorità”, comunque insita nell’idea di questo ritorno,

attraverso i principi, al diritto naturale sembra respirarsi ancora

soprattutto di fronte a chi, indugiando nell’immagine delle lacune

del sistema giuridico, considera i principi come norme capaci di

“mettere una toppa”704

di fronte a documenti legislativi non chiari.

“Se il diritto positivo aveva dei vuoti”, scrive criticamente

Bobbio705

a proposito di questo aspergere di “diritto naturale” i

principi dell’ordinamento, “chi avesse guardato attraverso quei

vuoti avrebbe visto comparire il diritto naturale”.

I principi: norme o fonti di norme?

Sulla capacità normativa dei principi si sono spesi ampi

dibattiti della dottrina: dalla concezione che ne ha visto la

qualificazione come norme su norme706

a quella che ne ha fatto

norme di secondo grado,707

dall’idea di norme “superiori”708

a

703

S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, in

Riv. dir. civ., 1991, I, p. 496. 704

A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera

di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir., 1995, p. 183. 705

N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, IX,

1963, p. 423. 706

N. BOBBIO, voce Principi generali del diritto, in Novissimo Digesto

Italiano, 1966, XIII. 707

G.R. CARRIO, Principi di diritto e positivismo giuridico, Bologna 1970,

ora in R. GUASTINI, Problemi di teoria del diritto, Bologna, 1980, pp. 75-94. 708

S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, cit.,

p. 498.

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273

quella di leggi universali, o universalmente valide, contrapposte alle

mere leggi generali contenute negli ordinamenti.709

Lo stesso legislatore, che spesso fa uso del termine

“principio”, sembra ricorrervi in maniera polisensa: alcune volte per

indicare semplicemente una disposizione generale, talaltre per

riferirsi alle finalità della legge - alla cosiddetta mens -, altre ancora

per segnalare il valore che intende tutelare.710

In epoca recente Dworkin711

ha proposto un’ulteriore

distinzione, entrata anche nella nostra riflessione giuridica, tra

norme e principi, tra rules e principles, considerando i “diritti”, e

con essi i principi, come standards di giudizio non riguardanti

aspetti contingenti, ma rispondenti ad esigenze in qualche modo

legate alla giustizia, alla correttezza, alla tutela dei cittadini.712

Questo assegnare ai principi il ruolo e la dimensione,

mancante alle norme, del “peso” o dell’”importanza”713

rischia,

tuttavia, di passare sotto silenzio il fatto che anche le norme, dal

canto loro, esercitano un’importante influenza sui principi,

contribuendo alla loro definizione, e che, comunque, resta del tutto

indefinito il grado di generalità necessario perché una norma possa

cessare di essere norma e cominciare ad essere principio.714

Cosicché nemmeno la dicotomia norme-principi sembra

soddisfare: ciò che è condiviso è, sicuramente, che i principi - al di

là delle discussioni su che cosa siano - contribuiscono

all’interpretazione delle norme per un’eccedenza assiologica che li

709

V. Per la pace perpetua. Progetto filosofico, sez. I, in I KANT, Scritti

politici, a cura di Bobbio, Firpo, Mathieu, Torino, 1956, p. 290. 710

G. ALPA, I principi generali, in Trattato di diritto privato, Milano,

1993, p. 33 e ss. 711

Cfr. § 2.2.1. 712

A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera

di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir., 1995, p. 162. 713

A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles, cit., p.

162. 714

A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles, cit., p.

169.

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274

caratterizza715

e che consente loro di superare, in qualche modo, la

rigida e ristretta dimensione normativa.

Valenza interpretativa, e non tanto correttiva, quella dei

principi, perché quest’ultima presupporrebbe, altrimenti, una

necessaria sovraordinazione del principio alla norma: il che può

avvenire solo accedendo ad un concetto di principio come norma di

“rango superiore” a quello della norma da correggere.716

Ma vi è di più: come efficacemente è stato detto, i principi

costituiscono la “koiné moderna dei giuristi appartenenti a

ordinamenti differenti [...]. Essi assolvono oggi alla funzione un

tempo assolta dal diritto romano: tendono alla comunicazione (se

non alla omologazione) degli ordinamenti giuridici diversi per

tradizione e per storia interna”.717

715 Cfr. V. FROSINI, Sull’interpretazione dei principi generali del diritto, in

Riv. internaz. fil. del diritto 1995, p. 853. 716

G. OPPO, Sui principi generali del diritto privato, in Riv. dir. civile,

1991, I, p. 492. 717

G. ALPA, I principi generali, cit., p. 175. Ben più audace la corte di

Cassazione, ove afferma che “A tal fine, doveva venire in rilievo l'istituto della

"presupposizione", sul fondamento del quale la dottrina è tutt'ora molto discorde,

ma che la giurisprudenza ha da tempo riconosciuto come principio generale

dell'ordinamento (sent. 17 ottobre 1947, n. 1619; 29 luglio 1948, n. 1281; 6

maggio 1949, n. 1143; 16 gennaio 1951, n. 97; 25 giugno 1952, n. 1883; 17

settembre 1970, n. 1512; 10 aprile 1973, n. 1028; 19 aprile 1974, n. 1080; 5 luglio

1974, n. 1954; 10 dicembre 1976, n. 4601; 8 agosto 1978, n. 3864; 24 gennaio

1980, n. 588; 22 settembre 1981, n. 5168), talora ritenendovelo introdotto in

modo espresso e in via generale dalla norma dell'art. 1467 cod. civ., con la quale

il legislatore ha espressamente sancito la rilevanza delle straordinarie e

imprevedibili circostanze, sopravvenute ad alterare l'originaria economia

contrattuale (sent. 9 maggio 1981, n. 3074; 17 maggio 1976, n. 1738; 24 gennaio

1974, n. 191; 3 ottobre 1972, n. 2828; 6 luglio 1971, n. 2104). Ora, secondo i

principi enunciati dalla giurisprudenza, si ha presupposizione quando una

determinata situazione di fatto o di diritto, comune a entrambi i contratti, il cui

avverarsi (o il cui venir meno) sia del tutto indipendente dalla loro volontà e che

abbia i caratteri dell'obiettività e della certezza, pur in mancanza di un espresso

riferimento possa ritenersi tenuta presente dai contraenti medesimi nella

formazione del loro consenso, in modo da costituire il presupposto condizionante

il negozio (c.d. condizione non sviluppata o inespressa). Ed è stato ritenuto, sulla

scia di una parte della dottrina sul tema che il negozio fondato sulla

presupposizione possa essere dichiarato nullo per difetto di causa ove, nel

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Koiné che si ritrova proprio a partire da e attorno alla perenne

dialettica tra l’eternità dei valori e la contingenza delle situazioni

momento della sua conclusione, l'evento presupposto già difettasse nella realtà

fenomenica; ovvero risoluto ex tunc quando, invece, venga meno nel corso di

esecuzione del contratto, nel qual caso invero l'evento, riferendosi a vicende

successive al valido sorgere del vincolo contrattuale, darebbe luogo allo

scioglimento di questo per causa non imputabile ai contraenti (v. citata sentenza

n. 5168 del 1981).

Un rapporto giuridico così anomalo, in quanto non solo impone una

controprestazione al creditore dell'onere, ma, per quanto riguarda il lato passivo,

non rimane esterno al diritto reale cui è collegato, bensì sostanzialmente ne

esaurisce (in perpetuo) i poteri di godimento normalmente attribuiti al titolare

(rapporto che tuttavia questa corte, in forza del giudicato, deve considerare come

configuranti un diritto reale), non può trovare regolamentazione se non nei

principi generali del diritto, in difetto di altri istituti giuridici dai quali mutare, sia

pure con i dovuti adattamenti, la disciplina giuridica per il caso concreto (art. 12,

2 comma, ult. parte della disp. sulla legge in generale). La corte però non ha

indagato - come si diceva - se, esclusa esattamente tale diretta applicazione, il

rapporto, per il fatto di non potere trovare una diretta regolamentazione nello

ordinamento, a causa della sua dimostrata anomalia, non dovesse trovare

disciplina nei principi generali dell'ordinamento. Quei principi del resto dei quali

lo stesso art. 1467 c.c., per unanime consenso, è esso stesso - come sopra si è

detto - espressione. Si riconosce infatti che detto articolo non è che la

applicazione, sia pure entro determinati limiti e nel solo campo dei rapporti

obbligatori, del principio della presupposizione, cioè del principio che dà rilievo

alle circostanze presupposte non manifestate, riassumibili nell'espressione rebus

sic stantibus, che condizionano ogni assetto di interessi concordato tra gli

interessati, principio che a sua volta è il portato di insopprimibili esigenze di

equità. L'impugnata sentenza va cassata e la causa rinviata ad altra Sezione della

stessa corte d'appello di Napoli, la quale procederà a nuovo esame della

controversia applicando il seguente principio di diritto: "Il giudice chiamato a

decidere una controversia relativa ad un rapporto giuridico anomalo, che non

trovi disciplina nell'ordinamento, deve fare ricorso ai principi generali

dell'ordinamento stesso, a norma dell'art. 12 disp. prel. al c.c. Fra questi principi

generali nel campo dei rapporti patrimoniali vi è quello che si racchiude nella

espressione rebus sic stantibus, cui si ispira l'art. 1467 cod. civ., in forza del quale

un rapporto giuridico patrimoniale, ove non altrimenti disciplinato, non può

essere mantenuto in vita quando siano venute meno, in misura notevole, le

condizioni di equilibrio sulle quali esso è sorto"”. Così Cassazione Civile Sez. II,

n. 6584 del 11/11/86.

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storiche, grazie a quella che anche Betti definisce l’eccedenza di

contenuto deontologico o assiologico dei principi.718

“Nei principi”, scrive il maestro dell’interpretazione,

“operano una virtualità e una forza di espansione non di indole

dogmatica e logica, ma valutativa e assiologica”,719

cosicché viene

ad essere proprio il dato assiologico quello che consente questa

operazione di inquadramento dell’ordine giuridico nell’ethos

sociale, e con essa la possibilità di intesa ermeneutica

intertemporale e collettiva nel mondo giuridico.

Ciò che, tuttavia, interessa osservare, ai fini della presente

analisi, a proposito del discorso sui principi generali è proprio il

loro ruolo ermeneutico, accanto, o parallelamente, o

intrinsecamente ai procedimenti interpretativi ordinari di analogia e

di estensione.

“I principi generali”, scriveva Betti, “non si identificano con

norme inespresse, ma sono somme valutazioni normative”.720

Tale

caratteristica dei principi, siffattamente intesi, questa capacità

teoretico-esplicativa, diremmo così noetica,721

prima che normativa,

viene in rilievo proprio nel momento in cui l’interprete risolve

quella che si presenta come incognita normativa, e giustifica la sua

interpretazione - in nome, appunto, dei principi - attraverso il

ricorso ad una empirica esigenza di razionalità, andando ben oltre le

soluzioni legislative determinate dalle valutazioni dei principi ma,

anzi, trascendendo il diritto positivo.722

Qualcuno, tuttavia, ha distinto i principi generali veri e propri,

indicati dall’articolo 12, da quelli che sono stati identificati come

postulati concorrenti a formare il cosiddetto “spirito del sistema”,723

cioè direttive per il legislatore ricavabili per induzione dalle norme

718 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 310 e

ss. 719

E. BETTI, op. loc. ult. cit. 720

E. BETTI, op. loc. ult. cit. 721

Cfr. S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni

filosofiche, cit., p. 503. 722

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 52. 723

M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 653.

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positive, e valenti come sussidi ermeneutici. Ciò, però, non deve

trarre in inganno, facendo ritenere che i principi sottesi al sistema

siano semplicemente un’ispirazione ideale, cui fare ricorso in caso

di lacune normative assolute, appellandosi ad una vaga idea di

giustizia e di garanzia.

Esiste, infatti, un vincolo di solidarietà assiologica724

che va

oltre lo stesso concetto di coerenza, poiché, al di là della

conciliabilità tra le diverse norme dell’ordinamento, si esprime in

quello che è stato definito il “diritto naturale vigente”: “non già il

senso di un astratto o ideale diritto naturale che è stato reso positivo,

bensì un diritto positivo che risulta naturale perché prodotto in

conformità alla natura specifica dell’uomo, alla sua struttura

ontologica”.725

Tradizionalmente la dottrina ha collocato accanto a questi,

definiti come principi comuni, in grado di collocare entro un ordine

sistematico tutto il quadro normativo vigente - e grazie a cui

l’interpretazione secondo i principi si viene a confondere con

l’interpretazione sistematica, e viceversa - i cosiddetti principi

fondamentali, che sarebbero caratterizzati, rispetto ai primi, per una

più elevata “idealità assiologica”.726

Così, si è detto, mentre i principi comuni - e l’interpretazione

secondo questi - esprimerebbero la coscienza sociale, e quindi

giuridica, di una comunità, i principi fondamentali, anch’essi regole

di diritto positivo, sarebbero proiettati verso il superamento del

livello medio della vita sociale e il miglioramento della sua qualità,

costituendo addirittura una sorta di “escatologia mondana”.727

724

A. FALZEA, I principi generali del diritto, in Riv. dir. civ, 1991, I, p.

467. 725

S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, cit.,

p. 509, La posizione, pienamente condivisibile, si innesta in quell’approccio che

fa riferimento a Capograssi e al concetto di “esperienza giuridica” da lui

propugnato, oggi saldamente sostenuto, con innovazioni originali, dal gruppo di

lavoro all’insegna del L’Ircocervo, su cui http://www.filosofiadeldiritto.it 726

A. FALZEA, I principi generali del diritto, cit., p. 469. 727

A. FALZEA, I principi generali del diritto, cit., 469.

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278

Non può non balzare alla mente il tema dei principi

costituzionali, se non altro per il fatto che proprio la Costituzione

vigente inquadra i primi dodici articoli entro la categoria dei

“principi fondamentali” anche se, come è stato sottolineato,

l’evidenziazione di direttive superiori del sistema normativo non si

deve ricondurre in via esclusiva all’avvento del costituzionalismo

moderno.728

Le sentenze che si rifanno alla prevalenza, allora, dei “principi

costituzionali” sono numerosissime, tutte, per lo più, tese a ribadire

la necessità di scegliere l’interpretazione, fra più, maggiormente

aderente ai canoni costituzionali (cosiddetta interpretazione

adeguatrice), considerata quest’ultima, anzi, come momento

costitutivo normale di ogni interpretazione.729

Principi che, tuttavia, vengono sovente acquistando rilevanza

accanto ad altri principi, più che altro per giustificare estensioni

ermeneutiche volte, appunto, ad adeguare una disciplina ad un

mutato sentire sociale.

Così l’importante sentenza della Corte costituzionale n. 427

del 1989730

pone tra i suoi motivi, come ragione di estensione

ermeneutica delle garanzie per il lavoratore, accanto alle “innegabili

esigenze di parità di trattamento”, secondo il principio

costituzionale di uguaglianza, anche i “principi di civiltà giuridica”,

dimostrando di appellarsi a tali principi, senza peraltro indicare da

dove trarli.731

È legittimo estendere le “garanzie procedimentali” - nella

fattispecie si trattava della contestazione preventiva dell’addebito e

della necessaria audizione del lavoratore incolpato nel caso di

728

A. FALZEA, op. loc. ult. cit., dove l’autore cita, come esempio risalente,

il codice di Hammurabi, sulla stele di Susa, nel cui epilogo sono contenute le

grandi direttrici in base a cui improntare l’amministrazione della giustizia. 729

Corte costituzionale 14.7.1988 n. 823 in Gazzetta Ufficiale 7.9.1988 n.

36, non diversamente da Cons. Stato, sez. V, 18.1.1988 n. 8 in Giur. it. 1988, III,

I, 175. 730

Corte costituzionale, 25.7.1989 n. 427, in Foro it. 1989, I, 2685. 731

Cfr. G. GORLA, I principi generali comuni alle nazioni civili e l’art. 12

delle disposizioni preliminari del codice civile italiano del 1942, in Foro it.,

1992, V, 95.

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279

licenziamenti disciplinari, da estendere anche alle imprese con

meno di sedici dipendenti - in base a tali “principi di civiltà

giuridica” e quindi porre, per via d’interpretazione, nel nulla una

norma732

di diritto positivo in nome dell’adeguamento a tale “civiltà

giuridica”?

Quale civiltà giuridica? Solo quella italiana?

L’esperienza ormai pluridecennale dell’inserimento del nostro

ordinamento entro un sistema giuridico comunitario ha fatto sì che

si venissero delineando anche veri e propri principi generali

dell’ordinamento comunitario. Tuttavia proprio da questa verifica si

è trovata conferma del fatto che tali principi e criteri, per quanto

sottoposti a controllo di razionalità e logicità, non sono vincolati a

imperativi provenienti dai singoli ordinamenti alla stessa stregua di

quanto prevede il nostro articolo 12.733

In sostanza è il sostrato etico che sorregge l’ordinamento

sociale e giuridico, costituente un sistema di valori, e quindi un

insieme di principi, a giustificare la ricerca ermeneutica di una

comunità - anche pluristatuale - fondata sul diritto.

Ciò, tuttavia, non deve far cadere in una ingenua fiducia nella

possibilità di fare del ricorso ai principi una specie di osso di Cuvier

-che sosteneva la possibilità di ricostruire l’intera struttura di un

animale preistorico a partire dal rinvenimento di un solo osso- per

l’ossatura giuridica nazionale e internazionale.

Soccorre, allora, quella bettiana dogmatica giuridica di cui si è

parlato all’inizio, come di rappresentazione della realtà. Solo in

questa chiave si potrà, dunque, contro il pericolo che concezioni

assiologiche differenti possano condurre a decisioni divergenti

nell’uno o nell’altro ambiente giuridico,734

concedere la

qualificazione che Betti dà della giurisprudenza: come di organo

non solo deputato a identificare e elaborare i principi generali del

732

Nel caso di specie la sentenza in esame dichiarò l’incostituzionalità dei

commi 2 e 3 dell’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori. 733

Cfr. A. TRABUCCHI, Regole di diritto e principii generali del diritto

nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. civile, 1991, I, p. 520. 734

E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 856.

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280

diritto, ma anche, in forza di ciò, costituente la coscienza sociale del

tempo.

È evidente la sottile linea su cui queste posizioni fanno

correre la ricerca interpretativa: l’oscillazione più pericolosa è,

senza dubbio, quella di un incontrollabile soggettivismo

ermeneutico capace di togliere ogni validità alla stessa positività

normativa.

È proprio l’analisi dello strumento interpretativo dato

dall’analogia che permette, allora, di comprendere la percorribilità,

al di fuori di ogni arbitrio, di questa astrazione o amplificazione non

solo logica, ma teleologica e assiologica, delle norme e di trovare,

pertanto, una visibile e condivisibile “ragione normativa”735

anche

nell’altrimenti evanescente e sfuggevole ricorso ai principi.

Può accadere che il principio applicabile ad un caso, non

regolato da una norma esplicita, sia così generale da risultare

generico e da richiedere, pertanto, un’opera dell’interprete che

risulta creativa alla stregua di quella di un legislatore?

Se si ammette che ciò possa accadere significa che si

riconosce da un lato una difficoltà notevole a passare, anche

ordinariamente, dal piano dei principi generali a quello della

disciplina concreta dei casi, e dall’altro che, comunque, è necessario

trovare una soluzione - se non altro per il divieto, per il giudice, di

non liquet - a tale eventualità, peraltro non del tutto remota.

La dottrina,736

a questo proposito, è giunta fino a riconoscere

l’esistenza di un quarto mezzo di interpretazione, da utilizzare

proprio quando né l’interpretazione diretta, né l’estensione

analogica, né il ricorso ai principi siano in grado di rinvenire una

disciplina per il caso in esame: soccorrerebbe allora il criterio degli

interessi in conflitto che, senza scadere nell’equivoco in cui sono

caduti alcuni fautori della giurisprudenza degli interessi, scivolando

nella scuola del diritto libero, si proporrebbe di rinvenire, come

735

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 359. 736

Cfr. D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione

della legge, in Foro it. 1949, IV, p. 9.

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281

ratio ermeneutica, l’interesse prevalente, tenuto conto di tutto il

sistema e delle esigenze che esso comporta.737

L’emergere di questo criterio degli interessi, tuttavia, non può

non far sorgere la questione della compatibilità con gli altri criteri di

interpretazione, in particolare con l’analogia: se vi fosse contrasto

tra il criterio degli interessi e la regolamentazione del caso data da

una norma analoga, quale si dovrebbe ritenere prevalente?738

A me sembra che, come è stato sottolineato, se una norma

“analoga” effettivamente disciplina una materia in modo differente

rispetto a quanto suggerirebbe il criterio degli interessi ciò significa

che, in realtà, dal complesso del sistema risulta che l’ordinamento,

attraverso quella specifica norma, ha già compiuto una scelta

assiologica e ha ritenuto prevalente, evidentemente, un complesso

diverso di interessi.

Il compito dell’interprete, ciò nonostante, si giocherà

ugualmente da un lato nell’indagine della natura di quella norma

“analoga” in relazione a tutto il resto del sistema: se risulterà che si

tratta di una disciplina isolata potrà, così, trarne ragione per

discostarsene, cioè per concludere che il caso effettivamente

“analogo” è disciplinato da una norma eccezionale.

Dall’altro lato, infine, l’interprete sarà tenuto a ritrovare sì le

valutazioni immanenti e latenti nella legge, ma senza scordare che -

come Betti insegnava- “il mutarsi dei rapporti sociali nel tempo

reagisce sull’originaria ratio iuris e matura un esito ulteriore, nel

senso di additare il criterio di analogia per comporre il conflitto fra

altre categorie di interessi all’infuori di quelle previste”.739

Da questa necessariamente veloce panoramica sui principi

generali emerge come appaia insostenibile tentare una distinzione

tra l’interpretazione estensiva e l’analogia basandosi sul principio

sottostante le norme: esso è il criterio cui fa riferimento ogni

737

D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione della

legge, cit., p. 6. 738

La questione è posta da D. RUBINO, op. ult. cit., p. 10. 739

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 31 e ss.

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282

operazione ermeneutica.740

La constatazione della “forza di

espansione logica (logische Expanzionskraft) della legge” fa sì che,

comunque, ciò cui l’interprete deve accedere sia il dato assiologico

contenuto nelle norme, per cui indugiare nel definire741

l’interpretazione estensiva come “risultanza tecnica”

dell’interpretazione in quanto tale e, al contrario, l’analogia come

atto che “innova nel mondo giuridico una proposizione giuridica per

l’indinanzi non esistente o non formulata” si rivela privo di

consistenza. Occorre mantenere ferma la consapevolezza

dell’habitus “analogico” della nostra mente e non confondere il

procedimento della conoscenza con le forme di interpretazione (cfr.

supra).

È illuminante, perciò, l’insegnamento di Capograssi742

che

considerava come ogni atto interpretativo sia, in realtà, ricerca di

uno o più principi, nel senso che per comprendere il significato di

una norma, qualunque sia il fine che l’interprete si pone, occorre

riportarla all’unità del sistema, attraverso un lavoro costante di

deduzione e induzione che costituisce la trama mentale di ogni

ermeneutica.743

Ha tutt’oggi senso, quindi, soffermarsi ancora sulle categorie

dell’interpretazione estensiva e dell’analogia come processi

differenziati per un progressivo allargamento verso i principi, pur

tenendo presente, come osservava Caiani,744

che è proprio il rilievo

che assume la ricerca e l’applicazione del principio che consente di

scorgere la profonda unità del momento interpretativo e integrativo

nel processo dell’applicazione del diritto ed è il ragionamento per

analogia, o meglio l’intuizione analogica, che meglio esprime la più

profonda natura - nonché il fascino - dell’attività di ogni giurista.

740

Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.

1954, p. 652 e ss., in particolare nota 116. 741

Cfr. M.S. GIANNINI, L’analogia giuridica, in Jus, 1941, II, p. 528 e ss. 742

G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, Roma, 1937, p.

103 e ss. 743

Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del

diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 357. 744

Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit.

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283

14. NUOVE PROSPETTIVE SUL RAPPORTO TRA

INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA

14.1. Dalla discrezionalità alla fuzzy logic applicata al pensiero giuridico

14.1.1. Le clausole generali e gli standards valutativi come

tentativo di superare la distinzione. L’uso dei cd. concetti-valvola.

Avvicinamento al sistema di common law tramite la categoria della

discrezionalità interpretativa. La core-penumbra theory già

anticipata da Betti. Principi della logica a più valori. Ipotizzabilità

di un sistema giuridico “sfumato”. Sostenibilità dell’intendere

analogia e interpretazione estensiva come applicazioni fuzzy.

Il tema dell’interpretazione estensiva e dell’analogia giuridica

e lo studio del rapporto esistente tra queste due tradizionali

partizioni nella categoria degli strumenti ermeneutici conduce, in

epoca recentissima, a nuove aperture e nuovi sbocchi su cui vale la

pena, prima di avviarsi alla conclusione, di soffermarsi per qualche

considerazione di metodo.

Il pensiero giuridico odierno sempre più frequentemente viene

confrontandosi con l’utilizzo, accanto ai collaudati (per quanto

insoddisfacenti) modelli interpretativi, di criteri in grado di

consentire all’ermeneuta un discreto margine di adattamento nel

sempre problematico rapporto tra fattispecie astratta e fattispecie

concreta.745

In particolare il mutare via via più veloce delle situazioni

sociali, e il presentarsi di sempre nuovi casi, bisognevoli di una

disciplina che non riesce a stare al passo con la rapidità dei

745

Cfr. A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 32 ed., Padova, 1991, p.

43.

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284

cambiamenti, nonché un alto tasso di instabilità assiologica -

complice anche la imperante tentazione di un certo sincretismo nei

valori giuridici - hanno fatto sì che i giudici abbiano sempre più

frequentemente ricercato un appiglio nella definizione di criteri

generali di riferimento, quali, appunto, le cosiddette clausole

generali dell’ordinamento.

Si è data vita, così, a queste regole generali che, anziché

riferirsi a singoli comportamenti e in maniera definitiva e assoluta,

sono costruite come imperativi generici, oltre che generali, di

regolamento secondo valori giuridici quali la buona fede, il buon

costume, l’ordine pubblico, l’equo pareggiamento fra le parti

contrapposte, l’onestà, la correttezza.746

Ad esse si è fatto riferimento anche come a disposizioni di

legge “elastiche” sulle quali si è subito posto un problema di

controllo di legittimità,747

per evitare il rischio, ovviamente, di fare

delle norme di legge un’opzione, ma attorno alle quali si è anche

creata l’idea che esse costituiscano, comunque, degli standards

valutativi,748

quando non ermeneutici, degli imperativi metagiuridici

e sociali in grado, tuttavia, di far leggere quella coscienza comune

che l’interprete è chiamato ad esprimere.

Addirittura alcuno749

ha parlato, a proposito di queste clausole

generali, di elementi in grado di recepire l’aequitas, il diritto

naturale, e di trasformarli in diritto positivo.

Certamente la formulazione normativa per mezzo di tali

clausole, ha mutato radicalmente la stessa tecnica legislativa,750

cosicché l’uso di queste vere e proprie valvole - da cui il termine di

746

Cfr. V. PIETROBON, Errore, volontà e affidamento nel negozio

giuridico, Padova, 1990, p. 89. 747

Cfr. C. ROSSELLI, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle

clausole generali, Napoli, 1983. 748

Cfr. A. FALZEA, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in Riv.

dir. civ., 1987, I, p., 198. 749

J. ESSER, Wege der Rechtsgewinnung, Tübingen, 1990, p. 54. 750

P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed

assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp.

prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rass. dir. civ., 1985, p. 995.

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285

“clausole-valvola”751

- di adeguamento del sistema giuridico al

mutare della vita sociale ha fatto sì che si sia sentita come più rara

l’ipotesi di autentiche lacune nel sistema. D’altro canto, tuttavia, la

generalità insita in queste clausole ha portato ad un sempre maggior

potenziamento del ruolo dell’interprete, relativizzando, per contro,

il testo di legge.752

Non solo. Queste clausole hanno di molto accentuato, a ben

guardare, l’intuizione analogica insita in ogni interpretazione, dato

che la loro stessa struttura si è venuta delineando come

concettualmente orientata non ad un’applicazione letterale ma ad

un’esplicazione,753

appunto, analogica, contribuendo, con ciò, a far

concludere (erroneamente), ancora una volta, per l’impossibilità di

una distinzione tra l’analogia e l’interpretazione estensiva così come

si sono tradizionalmente intese.

L’idea dei cosiddetti concetti-valvola (Ventilbegriffe) ha,

tuttavia, anche sviluppato il dibattito attorno a questi che sono stati

visti come “mandati in bianco” all’interprete (o Blankette, come

sono stati efficacemente definiti),754

come “norme di scopo”755

capaci di costituire addirittura un’alternativa cognitiva alla tecnica

della fattispecie,756

dibattito che è sfociato in quello sulla

discrezionalità giudiziaria ed ermeneutica.

Senza addentrarsi in questa materia, che porterebbe lontani

dal tema in oggetto, gioverà, tuttavia, sottolineare come, almeno

nella concezione bettiana, discrezionalità e interpretazione non

coincidono ma, anzi, vi è la necessità di differenziare i due termini.

751

Cfr. E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, a cura di Giuliano

Cfrifò, 2 voll. Milano, 1990, p. 856. 752

G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico, in Riv. it. dir.

proc. pen., 1989, p. 1543. 753

G. ZACCARIA, op. loc. ult. cit. 754

Cfr. P. HECK, Gesetzesauslegung und Interessenjurisprudenz,

Tübingen, 1914, p. 314. 755

Cfr. L. PERFETTI, Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei

valori nell’interpretazione, in Jus, 1993. 756

Cfr. M. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come

autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, par. 4.

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286

Nonostante l’interpretazione in funzione normativa non si

esaurisca in una mera ricognizione del significato proprio della

norma nella sua astrattezza e generalità ma, al contrario, dia luogo

ad un’ulteriorità che le permette di integrare lo stesso precetto,

questa operazione, nell’analisi dell’autore camerte,757

non sconfina

mai nella discrezionalità, e tanto meno nell’arbitrio, poiché

l’interpretazione siffattamente intesa è sorretta da una solida

concezione dogmatica - intesa, come si è precisato, quale

rappresentazione della realtà - cosicché l’interpretazione, e con essa

tutte le estensioni analogiche che vi si riconnettono, lungi

dall’essere discrezionale, finisce, in questa impostazione addirittura

per risultare vincolata.758

L’avvicinamento alla categoria della discrezionalità ha, però,

anche un altro effetto: quello di stabilire un punto di contatto tra il

nostro sistema giuridico e quelli di common law, soprattutto laddove

si accentua la capacità ad un tempo evolutiva e vincolante, quindi

certa, dell’interpretazione, in parallelo all’uso - anglosassone - della

tecnica dei precedenti giudiziari.

La capacità osmotica dell’intuizione analogica di stabilire un

costante movimento tra un diritto prevedibile e un diritto

perennemente adeguato fa, dunque, sì che il nostro diritto trovi dei

punti di contatto - pur con la necessità di tenere distinte le due

tradizioni giuridiche e tenendo presente la critica, già citata, di

Betti759

ad un troppo facile avvicinamento - col sistema

anglosassone a partire dall’idea-finzione di un giudice che

“rinviene”, e non crea, il diritto nella realtà e della ratio decidendi

come elemento in grado di dare continuità al diritto senza renderlo

757

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 149 e

ss. 758

E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 157 e

ss. 759

Cfr. § 4.2.3.

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arbitrario, della ragionevolezza come attributo di ogni vincolatività

ermeneutica.760

Questo processo di rinvenimento-adattamento è spesso, per la

verità, sconfinato nella già sottolineata761

enfasi sulla vaghezza e

indeterminatezza del linguaggio normativo, sovente contrapposte

alla ricchezza e creatività della prassi applicativa, processo che ha

spesso riportato ad un problema di linguaggio quello che andava

affrontato anche come problema squisitamente ermeneutico.

Da queste premesse si è così fatta strada l’idea che i concetti -

anche normativi - si presentino come elementi intuitivamente

“visibili” nella loro essenzialità, ma avvolti da una specie di nebbia

semantica che avvolge questa visibilità. È quella che si è definita la

core-penumbra theory762

, dove, attorno al nucleo chiaro di ogni

definizione normativa, si è individuata una penombra concettuale

che impedisce di trattare con concetti dai contorni ben determinati.

Mi pare di poter dire, tuttavia, che se il merito di questa

impostazione è di avere messo in luce il dato empirico della

indeterminatezza dei confini tra un concetto e l’altro, tra una

definizione normativa e le sue effettive possibilità di estensione,

non si è, al contrario, sottolineato a sufficienza quello che, invece,

era già stato messo bene in luce dallo stesso Betti,763

e cioè che

molta della penumbra è cagionata non solo da un problema di

necessaria indeterminatezza nel linguaggio, ma proprio dalla

vivente attualità dell’interprete, chiamato, attraverso l’estensione e

l’analogia, a mettere la sua contemporaneità in intima adesione e

armonia con quell’incitamento che gli proviene dalla norma e dal

caso cui applicarla.

Chiarito ciò è possibile, a questo punto, fare accenno ai nuovi

sviluppi che, su quest’ultima linea, si vengono muovendo nel

760

Com’è noto, già Lord Mansfield osservava nel 1762 che “the reason of

cases makes law, not the letter of a particular precedent”. Cfr. G. P. FLETCHER,

Basic concept of legal tought, Oxford, 1996, p. 96. 761

Cfr. § 3.1.1. 762

L. PERFETTI Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei valori

nell’interpretazione, cit. 763

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 24 ss.

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288

pensiero contemporaneo e giuridico a partire dalle sollecitazioni

date dalla logica applicata al linguaggio informatico, ossia alle

implicazioni della fuzzy logic e del fuzzy pensiero sulla riflessione e,

in particolare, sull’ermeneutica giuridica.

È possibile sostituire il giudice con un computer?

La domanda, che potrebbe sembrare banale o didascalica,

nasconde, in realtà, il problema, dibattuto in tutti i tempi

dell’evoluzione giuridica, del sempre conteso rapporto tra la regola

e l’interprete, tra la lettera e lo spirito della legge. L’avvento

dell’era informatica non ha fatto altro, in questo campo, che porre

l’accento sulla tesi, già positivista, dell’assoluta fiducia nelle regole

e nella loro precisione.

La logica informatica, come noto, funziona come logica a due

valori - vero o falso - e sulla legge aristotelica del terzo escluso;

così qualunque congegno elettronico “ragiona”, nella sua più povera

essenzialità, come un controllo binario: o bianco o nero, o acceso o

spento. Le proposizioni vaghe o che implichino giudizi di valore

non sono ammesse.

È facile immaginare, perciò, come solo in un’ottica di

formalismo puro si sia ragionevolmente potuto pensare di sostituire

il giudice con il computer, l’interprete con un programma

informatico.

Quale idea di regola giuridica si è applicata?

Partendo da un concetto di norma giuridica come di uno

schema entro cui incasellare la realtà - che può rientrare o non

rientrare nella previsione, tertium non datur - si è, così, cercata una

semplificazione ermeneutica. L’analogia, allora, non si è intesa che

come un passaggio logico da un sistema di riferimento ad un altro,

come una ricerca, nell’universo normativo, di una regola giuridica

avente almeno un elemento - logico - in comune con il caso da

disciplinare e l’interpretazione estensiva, per contro, come la ricerca

di tutte le possibili inferenze implicite nella norma da applicare, e

nulla più.

L’impasse della logica giuridica binaria, tuttavia, è arrivato

ben presto di fronte allo scontro sul tema dei principi e alla

necessità di adattamento e continua riattualizzazione delle regole.

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Per quanto preciso e dettagliato sia il “programma di

soluzione”, la previsione di tutti i casi e di tutti i modi per deciderli

- tecnicamente, per quanto “esperto” sia il sistema - il tallone

d’Achille di questo fantomatico giudice-informatico si manifesta

non solo nel rischio dell’iniquità, che sempre si può annidare in

ogni automatismo, e quindi nella difficoltà di controllo dei risultati

dell’applicazione, ma anche, nel caso di lacune - che non si

possono, in quest’ottica formalistica, che pensare come esistenti -

nell’impossibilità di risalire a un principio, ad una ratio, ad un

valore capace di muovere una decisione adatta alla contemporaneità

anche al di là delle norme scritte.

Proprio da queste difficoltà ha cercato di muoversi quella

logica nuova, la fuzzy logic, che ha investito, come si diceva, non

solo le applicazioni tecnologiche ma anche il pensiero giuridico.764

È del 1937765

l’articolo di Max Black,766

comparso su

“Philosophy of Science”, che affrontava il tema della logica a più

valori e dei sistemi “vaghi”, ma solo degli anni sessanta l’avvento

degli studi sulla logica “sfumata” (o, appunto, fuzzy logic) ad opera

di Lotfi Zadeh, della Berkeley University, che introdusse sistemi

capaci di interpretare l’insopprimibile indeterminatezza del

linguaggio e dei concetti.

La Fuzzy logic, basata sul buon senso e su giudizi di valore

scaturenti dall’incertezza si è sviluppata ben presto in sistemi

informatici capaci di “ragionare” in maniera non più rigida ma

elastica, sfumata, e anche all’interno di parziali contraddizioni, dove

cioè la realtà da sottoporre a disciplina non sia totalmente vera

ovvero totalmente falsa, ma si possa presentare come parzialmente

vera e, allo stesso tempo, parzialmente falsa.

764

Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 588

e ss. 765

Già negli anni Venti, tuttavia, il logico polacco Jan Lukasiewicz

enunciò una logica fatta di valori di verità frazionari, di valenza intermedia tra

l’uno e lo zero, tra il vero e il falso della logica binaria. Cfr. B. KOSKO e S. ISAKA,

Logica “sfumata”, in Le Scienze n. 301, 1993, p. 53. 766

Cfr. B. KOSKO e S. ISAKA, op. loc. ult. cit.

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Dall’esplosione informatica il passaggio al fuzzy pensiero e al

fuzzy pensiero giuridico non è stato lungo. La necessità di decidere

su una realtà transeunte, all’interno di contraddizioni sempre in

agguato e, soprattutto, di fare appello, il più delle volte, a regole di

ragione (meglio, di non definita “ragionevolezza”), ha fatto sì che il

contatto tra il problema tipico dell’ermeneutica giuridica più pura

trovasse approdo entro questa concezione, nuova nella

formulazione, ma dai contenuti cui la scienza giuridica era da tempo

approdata.

“La parte vitale, durevole della legge”, scriveva Roscoe

Pound,767

“è nei principi - i punti di partenza del ragionamento -

non nelle regole. I principi rimangono relativamente costanti o si

sviluppano lungo linee costanti. Le regole hanno vita relativamente

breve. Non si sviluppano; vengono abrogate e sostituite da altre

regole”.

A partire da quest’idea - complice anche la sottolineatura data

dalle teorie di Dworkin sulla differenziazione tra regole e principi768

- il pensiero giuridico si è spostato sempre più attorno ad un’idea di

giudice alle prese con sistemi fuzzy, a logica sfumata, e di legge

come di quell’insieme delle affermazioni morali fuzzy rese efficaci

dallo Stato.769

Nella vecchia logica binaria il parallelo poteva essere tra una

proposizione informatica del tipo “se x allora y” e una proposizione

giuridica del tipo “se il caso x allora la norma y”; nella logica fuzzy,

invece, la proposizione informatica diventa “se x è a, oppure b, o a e

b, in base all’esperienza di x e al valore di y, allora y”, e quella

giuridica “se il caso x, con le caratteristiche di a, ma inquadrabile

anche in b, secondo la ragionevolezza e sull’esperienza e attualità

della norma y, allora y”.

767

Cfr. R. POUND, Why Law Day, in Harvard Law School Bulletin,1958,

vol X, 3, citato da B. KOSKO, Il fuzzy pensiero. Teoria e applicazioni della logica

fuzzy, Milano, 1995, p. 210. 768

Cfr. A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles

nell’opera di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir., p. 159 e ss. 769

B. KOSKO, op. ult. cit., p. 302.

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Ciò che differenzia questa impostazione da quella suaccennata

della core penumbra theory mi sembra possa essere il fatto che la

logica fuzzy, da mera descrizione del dato empirico della

indeterminatezza dei contorni dei concetti giuridici, si propone

anche come metodo di soluzione, suggerendo, attraverso un

processo chiamato di defuzzification, di uscire dalla sfumatura per

giungere ad una - e solo una - decisione.

Il sistema a logica fuzzy, pertanto, non è altro che la

dichiarazione in termini logici di ciò che, normalmente, un corretto

ermeneuta dichiara di fare; il che non è un complimento per

l’ermeneuta. Così, dato un caso e un sistema di regole, se ne fa un

approccio “aperto” dove il principio di estensione si avvale della

esperienza e della tradizione precedente, ma anche delle esigenze di

vivente attualità, senza timore di far convivere risultati anche

parzialmente contraddittori, ma sempre avendo di mira il modello

sotteso a tutto il funzionamento, quello cioè di una ragionevolezza

animata dalla tensione assiologica, unica in grado di garantire

attualità e, al contempo, certezza.

In quest’ottica l’approccio fuzzy, mettendo in luce gli aspetti

equivoci e contraddittori dei sistemi giuridici e la possibilità di

gestirli, al di fuori di un’ottica binaria, entro un’alternativa

“sfumata”, conferma l’idea di quella intuizione analogica che è

Leitmotiv di ogni ricerca di ermeneutica giuridica, e della possibilità

di tracciare un confine netto tra l’interpretazione estensiva e

l’analogia.

Proprio la “sfumatura” che - lo rivelano le applicazioni fuzzy -

può essere gestita con certezza, fuori da ogni indeterminatezza,

impedisce, perciò, di dare, con l’interpretazione estensiva, un limite

alla forza di espansione logica, teleologica e assiologica delle norme

e fa sì che l’attualità possa penetrare, pur dentro il canone della

totalità e della coerenza ermeneutica,770

mediante la continua,

osmotica, elaborazione dell’interprete.

770

E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 15 ss.

Ma a ben vedere, identico sforzo faceva Ernst Zitelmann ritenendo necessaria,

perchè l’analogia sia ammissibile, una norma generale che l’ammetta, pur

considerando, però, la norma stessa come necessariamente implicita

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292

Interprete che diviene un artefice in grado di attuare, grazie al

balzo analogico che lo stacca dalla “datità” testuale, negli spazi

liberi delle “sfumature” normative, quell’intendere ermeneutico che

è sì un contendere, ma a patto che sia, prima di tutto, un

intendersi.771

nell’ordinamento giuridico (E. ZITELMANN, Lücken im Recht, Leipzig, 1903, p.

26), “Potrebbe avvenire che il giudice (nel caso non previsto), invece di applicare

la norma generale negativa, volesse dichiarare l’esistenza dell’obbligazione, in

quanto ciò gli sembrasse giusto (“weil er das für gerecht hält”): ebbene, se egli

lo fa, propriamente non colma una lacuna, ma, per questo caso, muta la norma

generale negativa nel suo contrario, ossia fa ad essa una nuova eccezione (“so

füllt er in Wahrheit nicht eine Lücke aus, sondern er ändert jenen allgemeinen

negativen Satz für diesen Fall in sein Gegenteil um, er macht eine neue

Ausnahme von ihm”). Egli, in molti casi, ha la facoltà di farlo (“darf er das”); e

ciò gli riuscirà più facilmente laddove si trovi già nella legge un disposto per un

caso simile, giacchè egli estenderà per analogia questa disposizione al caso non

previsto. Metaforicamente, dove era già un’isola, cioè terra, si avrà un

accrescimento della terra, a scapito, s’intende, dell’estensione del mare libero.”

Non si colma una lacuna, perchè la soluzione del caso ci sarebbe già nella legge,

tuttavia si deroga alla stessa, nel deviare da essa adottando una soluzione diversa

da quella, che dalla medesima risulterebbe. Mediante l’analogia si attua quindi

una nuova deroga alla norma generale e, in questo, sicuramente, Donati segue

Zitelmann. Per quest’ultimo, con l’analogia, il giudice non può creare il diritto,

ma decide in conformità del diritto esistente(“dem vorhandenen Recht gemäss...

entscheiden”). In conclusione, egli dice che deve ammettersi l’esistenza di una

norma giuridica generale (“es muss einen allgemeinen Rechtssatz geben”), con

questo contenuto: “è diritto ciò che qui nella legge è espresso (“was hier im

Gesetz steht”) con certe mutazioni o modificazioni (“mit gewissen

Aenderungen”), che risultano per via del procedimento analogico o per altra via”.

Una tal norma generale era espressa nel primo Progetto di Codice civile per

l’Impero germanico: fu poi cancellata, ma soltanto, dice Zitelmann, perchè si

ritenne che non ci fosse bisogno di esprimerla (“aber doch nur, weil sie sich von

selbst verstehe”). L’autore allude all’art. 1 del Progetto, il quale, a somiglianza

del nostro art. 3 Prel. (oggi art. 12 disp. prel.), in mancanza di una disposizione di

legge relativa ad un dato caso, stabiliva l’applicabilità delle disposizioni che

regolano casi simili e dei principi generali del diritto. Come si vede, a differenza

di Donati, Zitelmann ritiene che la norma legittimante l’analogia possa ben essere

non espressamente dichiarata. 771

Sul punto, cfr. F. GENTILE, Politicità e positività nell'opera del

legislatore. Relazione al 17. Congresso della Società Italiana di Filosofia

Giuridica e Politica (1989), Catanzaro, 1998.

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294

7.2. Ipotesi ricostruttive e prospettive operative

7.2.1. Lettura usuale e lettura “capovolta” dell’articolo 12

disp. prel. La norma come risposta ad un problema percepito dal

legislatore. La norma come attuazione di un principio

(costituzionale o non) dell’ordinamento. Tèlos o scopo della

norma; ratio o ragion d’essere della norma. Segue: il problema del

criterio che rende ragione dell’ordine. Problema analogo, scopo

analogo ed interpretazione analogica della norma. La norma

eccezionale come compressione di un principio dell’ordinamento.

Compressione del principio e costituzionalità della norma

eccezionale. L’estensione della norma eccezionale. Il problema del

favor della norma eccezionale. Concorrenza di principi e

concorrenza di norme attuative di principi concorrenti.

Rilevata già all’inizio di questo lavoro l’intrinseca

contraddittorietà dell’equiparazione tra analogia ed interpretazione

estensiva, occorre affrontare il tema più arduo, cioè quello di

individuare un criterio, un metron che consenta di distinguere la

prima dalla seconda. Infatti, quand’anche si sia dimostrata

l’insostenibilità dell’equiparazione, il nostro lavoro non è finito,

dovendosi affiancare alla pars destruens la pars construens; anche

perché occorre parare l’obiezione di chi volesse affermare ancora

una volta l’equiparazione dei due procedimenti ermeneutici che

andiamo distinguendo, sostenendo che l’affaticarsi attorno ai vizi

dell’equiparazione a nulla vale se non si è in grado di fornirne una

distinzione; anzi, che proprio l’incapacità di delineare una

distinzione tra i due termini è prova della loro sostanziale

equiparazione, a dispetto degli enunciati del legislatore e degli

sforzi da noi fin qui condotti.

Non per ossequio al positivismo, ma per pura strategia

retorica, muoviamo l’ipotesi ricostruttiva di una distinzione tra

analogia ed interpretazione estensiva proprio dall’articolo 12 delle

disposizioni sulla legge in generale.

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295

Come si è visto sopra al § 4.2, l’articolo in esame, ad una

prima lettura sembra esaurire il tema in tre possibilità, a loro volta

sempre meno articolate: 1) una serie di tre criteri, il successivo

specificazione dell’altro: l’interpretazione giuridica avviene

ricercando 1a) il senso fatto proprio dalle parole, 1b) secondo la

loro connessione, 1c) secondo l’intenzione del legislatore. Solo in

caso di insufficienza di questi a rendere chiarezza, interviene in

subordine il riferimento 2a) ai casi simili o 2b) alle materie

analoghe; ed in ulteriore subordine sussidiariamente si indica di

guardare 3) ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello

Stato.

Già altri hanno messo in evidenza come la lettura “diretta”

dell’articolo 12 produca un aumento esponenziale delle variabili

interpretative mano a mano che si procede: il criterio letterale del

significato proprio dalle parole si somma e si moltiplica in base al

criterio logico sistematico della loro connessione, per assurgere ad

un numero difficilmente dominabile di variabili ove si immetta

anche l’intenzione del legislatore. Criterio letterale, logico,

sistematico, concettuale, evolutivo, interagiscono tra di loro

aumentando i significati scientificamente sostenibili di una

disposizione normativa. Vi è chi calcolato una media di 72

significati accettabili.772

Il senso fatto palese dalla parole è mutevole quanto il contesto

in cui si inserisce: con un esempio molto semplice, la disposizione

772

Cfr. L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova,

1981, p. 57, con l’ulteriore provocazione che ogni disposizione così interpretata

può valere di fronte ad un caso nuovo sia per analogia sia argomentando a

contrario, portando quindi a 72 x 2 = 144 i diversi usi possibili delle proposizione

normativa. Sul punto Alexy rileva come sulla quantità dei canoni ermeneutica, sul

loro ordine gerarchico, valore non vi sia accordo alcuno, pur discutendosi fin dai

tempi di Savigny. Cfr. R. ALEXY, Theorie der juristischen Argumentation: die

Theorie des rationalen Diskurses als Theorie der juristischen Begrundung,

Frankfurt (a M.), 1978, di cui segnalo la traduzione italiana a cura di Massimo La

Torre, Milano, 1998; una sintesi del suo pensiero in IDEM, voce Interpretazione

giuridica, in Enciclopedia Treccani delle scienze sociali, Roma, 1996, p. 64-71,

nonché R. ALEXY – A. PECZENIK, The Concept of Coherence and its Significance

for Discursive Rationality, in Ratio juris, 1990, p. 130 – 147.

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“mi porti una pasta” può voler dire “mi porti una brioche” se siamo

al bar alle nove del mattino; ma può voler dire “mi serva un piatto

di maccheroni” se siamo al ristorante e qualche ora più tardi.

Seguendo questa strada è evidente che spesso una

controversia “non può essere decisa con una precisa disposizione” e

si apre la porta a quello che in cibernetica si chiama default, noto

alla tradizione come criterio subordinato e sussidiario. Entra in

gioco cioè l’analogia; con l’effetto però di portare ulteriore

moltiplicazione. E si deve così ricorrere all’ultima chance dei

principi generali dell’ordinamento giuridico, che sono però così

ampi, proprio per loro natura, da essere concepiti come fonti norme

(e come tali sottratti all’interpretazione), con la conseguenza che per

un principio cui richiamarsi spesso se ne trova uno o più d’uno utili

per sostenere sofisticamente il contrario. In buona sostanza,

l’applicazione paziente e progressiva dell’articolo 12 porterebbe ad

ampliare e generalizzare la portata della norma, anziché

individuarne l’applicabilità al caso concreto che occupa l’interprete

in quel momento.

Da qualche tempo è stata allora proposta la lettura

“rovesciata” dell’articolo 12, cioè quella che consente di dare un

significato proprio alle parole solo partendo dai principi generali,

per guardare ai casi simili, quindi all’intenzione del legislatore, al

contesto delle disposizioni e quindi al senso della singola norma. La

costruzione –a volte consapevolmente, ma spesso, meno- ha trovato

un suo seguito tra i pratici.

Fino a qui, un racconto già noto.

Ma una prima obiezione potrebbe venire proprio da quella

prospettiva positiva da cui abbiamo preso le mosse. Non sarebbe

violazione proprio dell’articolo 12 la sua lettura “rovesciata”? Quale

norma autorizza il capovolgimento di una gerarchia di criteri

chiaramente esposta nell’articolo 12? Com’è possibile fare ricorso

in prima battuta ai principi generali quando questi possono

intervenire solo in terzo luogo ed in accertato difetto di tutte le

precedenti chiavi ermeneutiche? Procedendo in questo modo non si

concreta un error in iudicando per falsa interpretazione della

norma, eventualmente motivo autonomo di ricorso in

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Cassazione?773

Anche l’articolo 12, in quanto norma di legge segue

i criteri interpretativi previsti dallo stesso articolo 12 ed occorre

allora rendere conto della scelta di muovere dai principi per

giungere al senso fatto proprio dalle parole, anziché partire da

questo in prima battuta, lasciando per ultimo l’eventuale ricorso ai

principi.

Ora a noi sembra che la legittimità costituzionale di una

norma si misuri proprio sulla sua portata nell’attuare (o limitare) un

principio. Anzi che questa sia proprio la ragion d’essere della

norma, tanto che a questo significato vogliamo riservare in

prosieguo il termine ratio, distinguendolo dallo scopo o tèlos, con

l’intento specifico di preservarci dalle ambiguità riscontrate sopra al

§ 4.3.1.

Proprio da quest’osservazione, si dipana una proposta di

distinzione tra interpretazione estensiva ed analogia che renda anche

conto della lettura “capovolta” dell’articolo 12 alla quale riteniamo

di aderire.

Il problema che ci occupa dev’essere affrontato

incamminandoci su di un sentiero già aperto da altri, quello

dell’interpretazione teleologica, che un’esplorazione più coraggiosa

può dimostrare ancora ricco di utili conseguenze.

Riprendendo un atteggiamento proprio della riflessione

classica, occorre pensare alla ragion d’essere della norma da

773

Ricordiamo che il vigente art. 360 del codice di procedura civile, al n. 3

prevede come motivo di ricorso per cassazione la “violazione o falsa applicazione

di norma di diritto”. Grazie a questa disposizione si sostanzia la funzione

nomofilattica della Cassazione che indica la corretta interpretazione delle norme,

tra razionale e ragionevole, su cui cfr. A. AARNIO, The Rational as Reasonable,

Dordrecht, 1987, specialmente p. 54. Sul principio di ragionevolezza come

criterio adeguatore dell’interpretazione ma anche come princpio guida del

legislatore, risulta interessante porre a confronto gli scritti -separati da vent’anni-

di due grandi del diritto pubblico italiano: A.M. SANDULLI, Il principio di

ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Diritto e società, 1975, p.

561 e ss; e C. ROSSANO, “Ragionevolezza” e fattispecie di eguaglianza, in

AA.VV., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte

costituzionale. Riferimenti comparatistici, Atti del sminario di studi tenuto a

Palazzo della Consulta il 13 e 14 ottobre 1992, Milano, 1994, p. 169 e ss.

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interpretarsi. Ora, la norma nasce –o dovrebbe nascere (ma per il

momento non vale distinguere tra is ed ough)- come risposta del

legislatore ad un problema percepito nella società.

In altri termini, secondo l’insegnamento tradizionale, la

comunità a fini generali, o comunità politica, ha come compito il

perseguimento del bene comune, di quel bene che se non è

esclusivo di alcuno è proprio di ciascuno. Chi, per diversi modi, è

chiamato a fissare le regole della comunità è in realtà chiamato ad

individuare il problemi che ostacolano il percorso della comunità.

La norma vuole essere la risposta (più o meno riuscita) ad un

problema percepito. Si può allora dire, riprendendo Platone, che lo

spessore politico del governante si misura nell’attitudine di

individuare i problemi della comunità; e possiamo aggiungere che il

suo spessore giuridico si misura sulla capacità di tradurre in norme

la soluzione di quei problemi.

Affrontare la norma è per prima cosa chiedersi di quale

problema essa vuol essere la risposta. Si tratta cioè di applicare alle

norme il procedimento elentico (èlenkos) consigliato dagli antichi,

alla ricerca di quella che è la ragion d’essere dell’oggetto di

indagine: per quale motivo è stata formulata quella norma? Quali

esigenze hanno indotto la sua adozione? Il solo tentativo di risposta

a queste domande aiuta a cogliere la ratio della norma, intesa

appunto come ragion d’essere della norma, come aristotelica causa

della sua esistenza.

In modo speculare si individua anche il tèlos della norma, il

suo scopo, la risposta che si è voluta dare al problema. Capito cioè

quale problema aveva indotto la nascita della norma, occorre fare il

passo successivo e chiedersi come la norma vuol far fronte a quel

problema, quale è il suo scopo, il suo obbiettivo, il suo fine: il tèlos.

Si è collocata allora la norma in un ordine, tra un prius ed un

posterius, in un embrione di sistema,774

tra quella che è la sua

774

A questo punto il discorso dovrebbe affrontare il problema dell’ordine e

del sistema, per parlare dell’ordinamento giuridico. Sennonché una trattazione

che volesse almeno dar conto delle principali questioni supera l’economia di

questo lavoro, per diventare oggetto di un ponderoso studio a parte. Molti sono i

contributi sul punto della dottrina meno recente, ma tesa alla ricerca del principio:

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provenienza e quella che è la sua direzione. E proprio tra prius e

posterius, tra problema di cui vuol essere risposta e/o attuazione di

un principio (ratio) e obbiettivo con cui si vuol risolvere quel

problema (tèlos) la norma comincia a svelarsi, cominciando già a

scartare tutti quei significati che pur potendo appartenere

linguisticamente al senso palese della parola, giuridicamente

sarebbero inidonei a risolvere il problema, quando non addirittura

fuorvianti. Si consente così anche di ovviare al lapusus calami del

legislatore, che magari usa come sinonimi i termini “bimensile” e

“bimestrale”.

Procedendo ancora, la norma si pone come perseguimento di

un obbiettivo che serve ad ovviare o risolvere il problema da cui ha

avuto scaturigine l’intervento del legislatore. Parallelamente, nella

risposta ai problemi, l’attività del legislatore non è libera nel senso

moderno del termine775

, ma è guidata dall’attuazione dei principi

da quelli di B. BRUGI, L’analogia di diritto e il cosiddetto giudice legislatore, in

Dir. Comm., 1916, I, p. 262-75; G. DEL VECCHIO, Sui principi generali del

diritto, Archivio Giuridico LXXXV, 1921, p. 33-90, ora in Studi sul diritto, vol. I,

Milano 1958, p. 207-270; V. MICELI, I principi generali di diritto, in Riv. dir.

civ., 1923, p. 23-42; V. RAGUSA, L’araba fenice, ovvero dei principi generali del

diritto, Roma, 1924; M. ROTONDI, Equità e principi generali del diritto, in Riv.

dir. civ., 1924, p. 266-275; E. BETTI, Sui principi generali del nuovo ordine

giuridico, in Riv. dir. comm., 1940, I, p. 217-223; G. LAZZARO, L’interpretazione

sistematica della legge, Torino, 1965, M. MAZZIOTTI DI CELSO, Lezioni di diritto

costituzionale, parte I, Milano, 1993, p. 25 - 27, che definisce l’ordinamento quel

complesso coerente di norme che organizzano una determinata società. Critico su

quest’ultima costruzione “weberiana”, D. CASTELLANO, La verità della politica,

Napoli, 2002, p. 26. Da ultimo lo studio di V. VELLUZZI, Interpretazione

sistematica e prassi giurisprudenziale, Torino, 2002, che, riprendendo

quest’ultimo studio, compila e sintetizza con prudenza le diverse posizioni, senza

tuttavia proporre un criterio che elevi l’insieme a sistema. Individua con lucidità

la chiave di volta del problema nella distinzione tra ordinatio ed ordinatum F.

GENTILE, Ordinamento giuridico: tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova,

2001. 775

Si tratta della prospettiva malamente definita antropocentrica che

sostituisce all’uomo vocato alla socialità delle tradizione classica, l’individuo che

si pretende l’unico, quindi consumatore di tutti i beni di cui è in grado di

appropriarsi, negatore “dell’altro” e quindi del diritto che sull’alterità si fonda.

L’esaltazione del dogma della libertà, anche sotto le miti spoglie tematizzate da

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300

generali, spesso (anche se non sempre) precipitati nella carta

costituzionale. Vi sono cioè eventi della realtà che richiedono il

repentino intervento del legislatore, così come vi è un’attività, che

potremmo dire ordinaria, ove il legislatore è chiamato ad esplicitare

e dare attuazione ai disposti costituzionali, adottando disposizioni

che rimuovano gli ostacoli alla piena esplicazione dei principi o ne

costituiscano strumento attuativo; in tale ipotesi, il problema di cui

la norma ambisce essere soluzione è l’attuazione o la specificazione

di un principio fondamentale, per esempio: come rispondo

all’esigenza di garantire la libertà dell’insegnamento (art. 33 Cost.)?

Tuttavia, in un caso come nell’altro, l’opera del legislatore si

concreta nell’esplicitare principi generali cogliendone aspetti

peculiari. Anche nel primo caso, infatti, la posizione del problema

deve avvenire nel quadro dei principi: è la prima operazione grazie

alla quale ogni problema può essere ricondotto fin da subito in

termini giuridici. Peraltro la seconda eventualità è più frequente

della prima, nel senso che l’attività legislativa è quasi interamente

assorbita dalla necessità di esplicitare principi.

A ben vedere, infatti, il più delle volte, il problema che una

norma è chiamata a risolvere consiste nell’attuazione di un principio

generale dell’ordinamento, magari precipitato anche nella Carta

fondamentale. In altri termini la ragion d’essere e lo scopo del

legislatore consistono proprio nell’esplicitare un principio

costituzionale, disegnandone la disciplina operativa con

disposizioni di immediata e più diretta operatività. La tutela della

salute, la funzione sociale della proprietà, il principio di capacità

contributiva, pur immediatamente efficaci, necessitano di norme

che, in attuazione di quei principi indichino direttamente ai cittadini

o all’amministrazione i comportamenti da tenere in determinate

fattispecie. Per esempio, ambiscono a sviluppare il principio

Kant, sradica il singolo dal ruolo che ha nell’ordine delle cose, por porlo

infelicemente fuori dall’ordine, cone le tristi conseguenze –spesso non percepite

dai giuristi- su cui si rinvia a D. CASTELLANO, La libertà soggettiva, Napoli,

1984, specialmente p. 87 e ss; nonché IDEM, La razionalità della politica, Napoli,

1993, p. 57; IDEM, L’ordine della politica, Napoli, 1997; IDEM, La verità della

politica, Napoli, 2002, specialmente p. 69, 92 e 154.

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costituzionale della tutela della salute, in ossequio al principio di

eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3, l’istituzione del

servizio sanitario nazionale, introdotto con legge n. 833/78, rivisto

con i D.lgs. n.552/92, 517/93 e 229/99. Quest’operazione di ricerca

del problema e dello scopo, della ratio e del tèlos della norma

assicura fin da subito la conformità dell’interpretazione ai disposti

costituzionali, come raccomanda la Corte,776

oppure ne evidenzia la

contrarietà, avvertendo subito l’interprete che non può assegnare

grande affidamento su quel disposto, verosimilmente destinato a

cadere. Ma è anche il primo passo di un procedimento ermeneutico

che muove dai principi per giungere a definire il significato delle

parole, proprio secondo quella lettura “capovolta” dell’articolo 12

sommariamente illustrata sopra. Lettura “capovolta” che trova

allora la sua legittimazione anche positiva, oltre che logica, nella

necessità di condurre le operazioni ermeneutiche in aderenza ai

principi costituzionali. Se si vuole, la stessa costituzionalità

dell’articolo 12 impone la sua lettura “capovolta”, onde evitare che

l’applicazione diretta del senso linguistico delle parole produca

l’incostituzionalità della norma interpretanda in conseguenza di un

errore grammaticale del legislatore che altera, per esempio, il

776

Com’è noto, in più occasioni, fin dall’inizio del suo magistero, la Corte

costituzionale ha avuto modo di ricordare che fra più interpretazioni possibili, si

deve espungere quella che porterebbe all’incostituzionalità della norma,

favorendo quella che meglio tiene conto dei principi, espressi ed inespressi, della

Costituzione, in modo da risolvere le questioni di nomofilachia in via

interpretativa, riservando al giudice delle leggi quei contrasti che non possono

essere risolti in altro modo se non espungendo in via diretta una norma, ovvero

manipolandone il testo con sentenze additive o interpretative di accoglimento o di

rigetto. Cfr. C. cost. 23.6.1953, n. 3, in Giur. cost., 1956, p. 568; 2.7.1956, n. 8, in

Giur. cost., 1956, p. 602; 26.1.1957, n. 24, in Giur. cost., 1957, p. 373. Sul punto,

fra i molti, B. CARAVITA DI TORITTO, La modifica dell’efficacia temporale delle

sentenze della Corte costituzionale: limiti pratici e teorici, in AA.VV., Effetti

temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle

esperienze straniere, Atti del seminario di studi tenuto al Palazzo della Consulta

il 23 e 24 novembre 1988, Milano, 1989, p. 243; altresì, N. ZANON, La Corte, il

legislatore ordinario e quello di revisione, ovvero del diritto all’”ultima parola”

al cospetto delle decisioni d’incostituzionalità, in Giur. cost., 1998, p. 3169;

altresì, M. BARBERIS, L’evoluzione nel diritto, Torino, 1998.

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principio di eguaglianza: il “bimensile” – “bimestrale” di cui si è

detto.

Colto il problema rilevato dal legislatore, cui vuol far fronte la

norma, in attuazione di un principio, occorre fare il passo

successivo ed individuare, come la norma intenda rispondere al

problema, quale sia il suo scopo, il suo fine, il suo tèlos: in sostanza

quale è il bene verso cui si dirige, il valore che intende proteggere.

Se ne deduce una sorta di primogenitura del criterio teleologico,

cioè del bene protetto dalla norma, che da tempo ha trovato ampio

credito nella dottrina penalistica. Il riferimento al bene tutelato dalla

norma è infatti ulteriore piano di riscontro della conformità ai

principi (e quindi anche della costituzionalità) della norma, che

potrebbe avvenire nel modo seguente. È da premettere che

specialmente in area germanica si è parlato di interpretazione

teleologica oggettiva e soggettiva,777

laddove quest’ultima si riduce,

a ben vedere, all’intenzione del legislatore, mentre la prima fa

riferimento ad una volontà sganciata dai soggetti che hanno

concorso alla sua produzione. Siffatte concezioni

dell’interpretazione teleologica ci sembrano riduttive e non rendono

ragione delle potenzialità del criterio. Occorre allora collegarlo con

quanto si è venuto sostenendo fin ad ora. Se la norma è la soluzione

voluta dal legislatore per un problema che ha individuato, la norma

di pone in attuazione di un principio e come suo scopo mira a

perseguire o tutelare un certo bene particolare. Questo è cioè che è

stato voluto (in concreto) dal legislatore nel momento genetico delle

norma, ovvero ciò che avrebbe dovuto essere voluto dal legislatore

in attuazione di questo o quel principio costituzionale.778

Sta

777

Cfr. R. ALEXY, Theorie der juristischen Argumentation: die Theorie

des rationalen Diskurses als Theorie der juristischen Begrundung, Frankfurt (a

M.), 1978, p. 190 e ss.; nonché K. LARENZ, Methodenlehre der

Rechtswissenschaft, V ed., Berlin, 1983, della cui I ed. (1960) esiste una

traduzione italiana, non a caso, limitata alla parte storica, Storia del metodo della

scienza giuridica, Milano, 1966. Per un’acurata ricostruzione del pensiero di

Alexy rinvio a G. BONGIOVANNI, Teorie costituzionalistiche del diritto. Morale,

diritto e interpretazione in R. Alexy e R. Dworkin, Bologna 2000. 778

In senso più ampio, si veda la “seria e divertita” monografia di M.

BERTOLISSI, Identità e crisi dello Stato costituzionale in Italia, Padova, 2002,

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303

insomma all’interprete individuare quello che era o avrebbe dovuto

essere la risposta a quel problema. Attività politica, si dirà. E sia,

poiché questa è in fondo ciò che ineludibilmente è anche chiamato a

fare l’interprete, studioso, patrono o giudice, nella consapevolezza

che il diritto non è mera tèkne, ma un arte, propria della filosofia

pratica aristotelica. Alla corte costituzionale, infine, valutare se una

certa norma si configura come vera attuazione di un principio,

senza violarne altri, giudicando sulle suggestioni che l’interprete,

con le diverse procedure previste, le sottopone.779

Possiamo allora sintetizzare così: la ratio della norma è un

problema percepito dal legislatore che ostacola il perseguimento del

bene della comunità e/o l’esplicazione di un principio fondamentale

in risposta ad un problema; il suo scopo o tèlos è il perseguimento

di quell’obbiettivo o la tutela di quel bene che consente il

superamento del problema originario. Per fare degli esempi, la

risposta al problema della disoccupazione viene individuato in una

norma che riduca la pressione fiscale delle imprese, che trova la sua

ratio nell’art. 35 Costituzione sul diritto al lavoro e nell’art. 53 sul

principio di capacità contributiva; lo scopo o tèlos è la creazioni di

nuovi posti di lavoro.

Siamo allora venuti ad definire una ratio ed un tèlos che

caratterizzano un disposizione normativa,780

cioè due elementi non

specialmente p. 1 e 311, nonché p. 206, dove, a proposito della Corte dei conti,

parla espressamente di “sindacato sull’eccesso di potere legislativo”. Cfr. altresì

G. ALPA – A. GUARNIERI – P.G. MONATERI – A. PASCUZZI – R. SACCO, Le fonti

non scritte e l’interpretazione, in R. Sacco (a cura di), Trattato di diritto civile,

Torino, 1999. 779

Per il ruolo latu sensu politico della Corte costituzionale, nella

creazione e sviluppo di nuove forme di sentenze (additive, interpretative di rigetto

e di accoglimento, manipolative, fino alle sostitutive), si veda l’analisi lucida ed

elegante di L. A. MAZZAROLLI, Il giudice delle leggi tra predeterminazione

costituzionale e creatività, Padova, 2000, specialmente pag. 55 e ss. Con taglio

diverso, l’interpretazione e declinazione ideologica dei principi costituzionali da

parte della Corte sono annotate negli scritti dell’ultimo ventennio da P.G.

GRASSO, Costituzione e secolarizzazione, Padova, 2002, specialmente p. 255. 780

Pur avendo chiaro l’insegnamento di Benvenuti che, meglio di altri,

distingue proposizione normativa da norma, i termini sono da noi trattati come

sinonimi. Propugnatore della distinzione tra disposizione normativa e norma è

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volatili -a differenza del significato fatto palese dalle parole usate

dal legislatore- che consentono di porre in relazione una norma con

le altre, confrontandole per ciò che hanno in comune e per ciò che

hanno di diverso, secondo il principio di identità e differenza, non

contraddizione e terzo escluso.781

Cioè quel procedimento

conoscitivo, come detto sopra, che fa dell’analogia, della possibilità

di intessere una relazione tra tue termini, il proprio motore di

ricerca.

Non solo. Viene così a trovare giustificazione la lettura

“rovesciata” dell’articolo 12 della preleggi, dacché la stessa ricerca

del senso proprio delle parole non può che passare attraverso la

comprensione del principio che sta a monte, del problema di cui la

norma ambisce ad essere soluzione. Si tratta di ricostruire quanto

più precisamente quel contesto solo entro il quale il testo ha un

significato fatto palese dalle parole. E solo così si capirà se “una

pasta” significa una brioche o un piatto di maccheroni. In altre

parole, non vi è formalistica violazione dell’articolo 12 della

preleggi, poiché per dare un significato palese alle parole, non si

può che guardare al contesto e questo è dato (anche) tramite un

procedimento elentico, che consenta di capire di quale problema

quella norma vuol essere risposta. Solo per tale scopo si muove dai

principi generali, affinando progressivamente la norma nel cogliere

oggi in Italia Riccardo Guastini, il quale però è stato condotto ad introdurre

indirettamente un terzo elemento tra disposizioni e norme sulla scorta della

distinzione tra proposizioni normative non interpretate e proposizioni frutto di

prima interpretazione. Cfr. da ultimo R. GUASTINI, Realismo ed antirealismo

nella teoria dell’interpretazione, in Ragion pratica, 17, 2001, p. 43-52, che

corregge la formulazione da lui stesso resa in IDEM, Dalle fonti alle norme,

Torino, 1992, accogliendo implicitamente la critica mossagli da P. BECCHI,

Enunciati, significati, norme. Argomenti per una critica dell’ideologia

neoscettica, in P. Comanducci – R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999,

Torino, 2000, p. 1 – 17. Per altro verso, cfr. A. PIZZORUSSO, Il controllo sull’uso

della discrezionalità legislativa, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della

Corte costituzionale, Atti del convengo di Trieste, 26-28 maggio 1986, Milano,

1988, p. 71 e ss. 781

Abbiamo già avuto modo di illustrare perché riteniamo preferibile

questa dizione del procedimento conoscitivo enucleato da Platone e sistemato da

Aristotele consegnandolo alla storia del pensiero. Cfr. supra, al § 5.1.1.

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305

quale era o avrebbe dovuto essere l’intenzione del legislatore per

risolvere quel determinato problema in attuazione o nel rispetto di

quel determinato principio.

Infine, ci sembra che venga superata la difficoltà della volontà

del legislatore; e possiamo così sciogliere un debito contratto al

principio di questo capitolo. Qual’era o avrebbe dovuto essere la

volontà del legislatore? Spetta all’interprete ricostruirla,782

aprendo

però subito alle difficoltà su volontà storica od effettiva, legislatore

odierno o quello che dei tempi in cui la norma ha preso vita. Noi

crediamo utile parlare di volontà presunta del legislatore,783

superando situazioni, paradossali quanto accadute, sullo stato

mentale del legislatore,784

spesso in tutt’altro affaccendato.785

È

782

Com’è noto, minima rilevanza è tradizionalmente accordata ai lavori

preparatori e comunque a criteri testuali, muovendo dal presupposto logico che la

volontà sia sempre e solo ricavabile dal testo; in questo modo si esclude a priori

la possibilità di una volontà simulata del legislatore, estendendo il criterio

civilistico dell’irrilevanza dei motivi nella formazione della volontà. In realtà,

diciamo nella nota successiva, questi elementi possono e debbono essere

recuperati quali indizi, eventualmente precisi e concordanti, per presupporre la

volontà del legislatore, superando il formalismo positivista, pur rimanendo nel

solco della tradizione giuridica. Già profetico L. PALADIN, Osservazioni sulla

discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, in Riv. trim dir,

pub., 1956, p. 993; in altro senso, V. VILLA, L’intenzione del legislatore nell’art.

12 delle disposizioni preliminari, in F. VIOLA - M. URSO, Interpretazione ed

applicazione del diritto tra scienza e politica, Palermo, 1974, p. 125 – 138. 783

Non presupposta, cioè una volontà ipoteticamente assunta per poter

dedurre “scientificamente” ma in realtà del tutto apoditticamente le conclusioni

interpretative utili nel singolo caso. La volontà di cui parliamo è presunta, nel

senso giuridico del termine, cioè provata per indizi e ritenuta valida fino a prova

contraria. Secondo quanto anticipato alla nota precedente, gli indizi sono allora i

lavori preparatori, la relazione di presentazione, il dibattito parlamentare.

Cfr. sul punto A. PIZZORUSSO, Il controllo sull’uso della discrezionalità

legislativa, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale,

Atti del convengo di Trieste, 26-28 maggio 1986, Milano, 1988, p. 71 e ss.; R.

PINARDI, La Corte, i giudici e il legislatore. Il problema degli effetti temporali

delle sentenze d’incostituzionalità, Milano, 1993. Infine, la suggestiva

monografia di R. BIFULCO, La responsabilità dello Stato per atti legislativi,

Padova, 1999, specialmente p. 237 e ss. 784

Si ricorderà il redente fatto che ha colpito la stessa Camera alta a

Westminster, ove un suo giovane componente aveva l’abitudine di fumare

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306

dunque più conveniente ricercare quella che è stata o avrebbe

dovuto essere stata la volontà del legislatore di fronte a quel tale

problema ed in attuazione di quel certo principio. Si dirà che in tal

modo si soggettivizza la volontà del legislatore facendola dipendere

dall’interprete. La dipendenza dall’interpretate non sarebbe

comunque una novità, giacché tutti i criteri fin ora enucleati

cripticamente portano in questa direzione. Al contrario con la tesi

qui sostenuta, la volontà si oggettivizza, sottraendola (questo sì) alle

contingenze del legislatore,786

procedendo alla ricostruzione tramite

prodotti non provenienti dai monopoli. Viene però da chiedersi l’effetto di siffatto

fumo passivo in aula, che –ricordiamolo- ha anche funzioni giurisdizionali in

ultima istanza. Sovvengono le dissacranti osservazioni di Bentham (su cui F.

ZANUSO, Utopia e utilità. Saggio sul pensiero filosofico – giuridico di Jeremy

Bentham, Padova, 1989) e del suo allievo J. AUSTIN, Lectures on Jurisprudence

or The Philosophy of Positive Law, London, 1879. 785

Il divieto dell’uso del cellulare in aula è l’ultimo tentativo in ordine di

tempo adottato da Camera e Senato per evitare interferenze nel voto dall’esterno e

mantenere l’attenzione dei parlamentari sui lavori, nel momento in cui esercitano

la funzione di “rappresentanti” della nazione. Per quest’aspetto sia consentito

rinviare a M. M. FRACANZANI, Il problema della rappresentanza nella dottrina

dello Stato, Padova, 2000, p. 434. 786

Per un verso G. ZACCARIA, L’arte dell’interpretazione, Padova, 1990,

p. 47, rileva come anche due prospettive pressoché contrapposte nei metodi, quali

l’Ecole de l’éxegèse e la Begriffenjurisprudenz, concepiscano l’interpretazione

come attività “conoscitiva di un oggetto già determinato”, pur se, aggiungiamo, si

tratti di un ricorrente tentativo di riferire ad altra e sopraordinata entità quello che

è solo il prodotto di una propria attività più o meno scientificamente fondata,

riprendendo una consuetudine inaugurata dagli aruspici e prima ancora. Più

approfonditamente M. A. CATTANEO, Illuminismo e legislazione, Milano, 1966,

p. 158-164, in cui l’autore chiarifica la diversa origine culturale delle due

teoriche, rilevandone nel contempo le affinità soprattutto nel metodo. La

diversità, comunque, delle due scuole rimane del tutto evidente: la

Begriffsjurisprudenz ebbe la sua origine nella Scuola Storica del diritto, corrente

giuridica essenzialmente anti-giusnaturalistica, anti-illuministica, anti-

rivoluzionaria, anti-codicistica. Savigny esalta l’aspetto tecnico del diritto dato

dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ricusando il primato della legge,

punto fermo della Scuola dell’Esegesi. È interessante rilevare, anche se

incidentalmente, come la logica di partenza della Scuola Storica fosse il

Volksgeist. E se tale momento politico risulta chiaro negli intenti di Savigny,

quindi esaltando lo spirito sottile dell’empiria rivolta all’interpretazione

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307

dell’essere, non si comprende come gli esiti di tale dottrina abbiano svuotato tale

programma. Il voler ricondurre la realtà sull’elemento tecnico del diritto

nell’elevazione del ruolo dello scienziato del diritto, spezza l’assunto di partenza.

Non è logico giustificare il concetto scientifico, il cui fondamento è il giudizio

ipotetico-convenzionale-operativo, in base al Volksgeist che fonda le sue radici su

basi sociali e concretamente naturali. L’ossimoro appare evidente. Non

meraviglia quindi lo stallo che tale movimento ebbe negli anni a venire su questo

punto e il conseguente frequente affiancamento con la Scuola dell’Esegesi con

cui, all’origine, nulla aveva in comune. Per la consueta puntualità, si veda anche

P. BECCHI, La polemica sulla codificazione fra Thibaut e Savigny. Significato e

limiti di una chiave interpretativa, in Materiali per una storia della cultura

giuridica, Milano, 1987, p. 376 ss.

Senza negare l’apporto dell’interprete, pur condotto secondo criteri

otnologicamente fondati, a noi preme mantenere la consapevolezza della

distinzione felicemente espressa da Gény tra donné et construit, con tutte le

relative difficoltà del definire il donné. Nella sua opera, Gény “contrapponeva

alla pedissequa esegesi dei testi legislativi la libre recherche scientifique,

attraverso la quale il giurista avrebbe dovuto ricavare la regola giuridica

direttamente dal diritto vivente nei rapporti sociali. «Il diritto è cosa troppo

complessa e mobile -scriveva Gény- perché un individuo o un’assemblea ,

ancorché investiti di autorità sovrana, possano pretendere di fissarne d’un sol

colpo i precetti in modo da soddisfare a tutte le esigenze della vita giuridica»”.

Cfr. N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, p. 140. Per non

cadere in contraddizione bisognerebbe ritenere, come non stentano a fare altri

all’interno della corrente antiformalista, che l’intenzione di chi ha formato la

legge non può essere che un elemento dell’interpretazione di questa, la quale, non

derivando dalla volontà di un individuo o di un gruppo, ma essendo l’espressione

del diritto, che il legislatore riconosce e non crea, si separa dalla volontà di chi

l’ha emanata (il quale non è colui che l’ha creata), per vivere di una vita propria.

E così la sua applicazione, piuttosto che essere dominata in modo inflessibile da

quella volontà, dev’essere sempre corrispondente a tutte le condizioni della vita

sociale che agiscono e reagiscono sulla vita del diritto, non può cristallizzarsi

nelle formule legislative, ma deve elaborarsi nella dinamica del diritto. Questo

principio è così forte che finisce per imporsi allo stesso Gény, il quale non può

non riconoscere che, in qualche caso, l’interpretazione della legge debba variare

col tempo della sua applicazione, quando, cioè: “i rapporti sociali, le circostanze

economiche che hanno determinato la legge, che ne sono state, anzi, le

condizioni, siano venute a mancare o a trasformarsi.... giacché trovandosi la

prescrizione iniziale della legge, condizionata da certi elementi essenziali, si può

dire che questi elementi stessi ne limitano necessariamente l’effetto nel senso che,

la regola, tale, qual è stata voluta e formulata, resti inapplicabile a uno stato di

cose, assolutamente differente da quello che il legislatore aveva in vista.”Cfr. F.

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GENY, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris, 1900, p.

230, n. 98 e 238-239, n. 99. Ancora, nella teoria di Gény, si muove, osserva

Degni, dal principio che il diritto debba soddisfare, innanzitutto, alle necessità

della vita sociale. (Ecco la connessione tra diritto e realtà, che abbiamo visto

sostenuta da Tullio Ascarelli, supra §2.1.) Affermato questo principio, se ne

devono ammettere tutte le conseguenze (non come fa invece Gény), e la volontà

del legislatore, per quanto chiara nel regolamento di taluni rapporti ed istituti

giuridici, non può essere mantenuta, quando si rivela inadeguata alle esigenze del

loro ordinamento. Affermare che la legge debba essere interpretata, come ogni

altro atto della volontà umana, sempre nello stesso senso, cioè quello che ad essa

ha attribuito il suo autore, senza tener conto delle circostanze posteriori che ne

hanno potuto modificare la portata e gli scopi, significa disconoscere la fecondità

del principio, che si pone a base del sistema, significa negare l’evoluzione del

diritto nell’ordinamento di quei rapporti su cui si è fermata la volontà del

legislatore. Cfr. F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 207. Si

tratta, dunque, della critica che il Degni muove a Gény, che, da un lato lascia nel

dominio della legge ciò che deriva da essa, rispettando, perciò, l’intenzione del

legislatore (diritto come volontà), dall’altro, rigettando la finzione che la legge

debba in sè contenere la disciplina di tutti i rapporti, e combattendo l’abuso delle

astrazioni logiche, riconosce, accanto alla legge, altre fonti parallele di diritto che,

nascendo spontaneamente dalla natura delle cose, debbano regolare, per sè stesse,

tutte le nuove manifestazioni della vita sociale. Si è visto, quindi, come Gény

certo consideri la legge atto di volontà del legislatore, per lo meno laddove essa

dispone. Eppure quest’autore accetta anche il principio che il diritto debba

soddisfare alle necessità della vita sociale. Si è posta in luce, quindi, la stridente

contraddizione che deriva nella sua teoria dall’accettazione di quel principio e

contemporaneamente dell’assoluto rispetto, laddove espressa, della volontà del

legislatore. E da osservare comunque che, ove non provveda il legislatore,

sovviene la volontà dell’interprete, ma si tratta di interprete legittimato, il giudice,

e pertanto la sua volontà è legge solo perchè “autorizzata”: non si esce, dunque,

con la critica di Gény al legalismo e formalismo, dalla concezione positivistica.

Per non cadere in contraddizione, nota Degni, bisognerebbe ritenere, come non

stentano a fare altri all’interno della corrente, che l’intenzione di chi ha formato la

legge non può essere che un elemento dell’interpretazione di questa, la quale, non

derivando dalla volontà di un individuo o di un gruppo, ma essendo l’espressione

del diritto, che il legislatore riconosce e non crea, si separa dalla volontà di chi

l’ha emanata (il quale non è colui che l’ha creata), per vivere di una vita propria.

E così la sua applicazione, piuttosto che essere dominata in modo inflessibile da

quella volontà, dev’essere sempre corrispondente a tutte le condizioni della vita

sociale che agiscono e reagiscono sulla vita del diritto, non può cristallizzarsi

nelle formule legislative, ma deve elaborarsi nella dinamica del diritto. Questo

principio è così vero che finisce per imporsi allo stesso Gény, il quale non può

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il problema (oggettivo) ed il principio generale (oggettivo) per dare

un senso compiuto (e costituzionale) alla norma.

Infine, così inquadrata, mediante tèlos e ratio, la norma trova

un suo posto nell’ordine che proprio tramite tèloi e rationes si viene

edificando: emerge cioè quel sistema ordinato di norme che è

l’ordinamento giuridico.787

Tramite la propria ragion d’essere ed il

non riconoscere che, in qualche caso, l’interpretazione della legge debba variare

col tempo della sua applicazione, quando, cioè: “i rapporti sociali, le circostanze

economiche che hanno determinato la legge, che ne sono state, anzi, le

condizioni, siano venute a mancare o a trasformarsi.... giacchè trovandosi la

prescrizione iniziale della legge, condizionata da certi elementi essenziali, si può

dire che questi elementi stessi ne limitano necessariamente l’effetto nel senso che,

la regola, tale, qual è stata voluta e formulata, resti inapplicabile a uno stato di

cose, assolutamente differente da quello che il legislatore aveva in vista.”, cfr. F.

GÉNY, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris, 1900, p.

238-239, n. 99. Evidentemente Gény, per rimanere coerente al principio

informatore del suo metodo, è stato condotto a questa affermazione, la quale, in

verità, pare, come giustamente ha osservato il Degni, inconciliabile coll’altro

principio, secondo cui l’intenzione del legislatore dovrebbe sempre essere

rispettata. Per meglio riassumere la posizione di quest’autore, si ricordi che egli si

pone dallo stesso punto di vista del metodo giuridico tradizionale, ma se ne

allontana sostanzialmente in ciò, che, mentre quello, coi mezzi che gli forniscono

la logica interna e gli elementi esteriori, che hanno influito sulla formazione delle

leggi, ed avvalendosi del sistema delle costruzioni giuridiche, mira a ricercare la

volontà del legislatore, anche nell’ordinamento di quei rapporti che, in realtà,

eccedono tale volontà, egli, invece, si ferma alla volontà concreta e reale che la

legge racchiude. L’interprete, insomma, deve inchinarsi ad essa, ma, quando si

tratta di rapporti che effettivamente il legislatore non ha contemplati, s’impone la

necessità di riconoscere nell’interprete un’attività più larga

che,indipendentemente dalla legge, che, a questo riguardo, non esiste, gli

permetta di determinarne l’ordinamento giuridico, di ricercare qual è il nuovo

diritto e dichiararlo. Accanto alla legge scritta, e in sostituzione di essa, perciò,

egli ammette altre fonti di diritto positivo.

Si ricordi la posizione di Gény, che se riconosce la necessità che il diritto

debba soddisfare alle esigenze della vita sociale, d’altro canto vuole il rispetto

assoluto della volontà della legge che definisce una volontà che emana da un

uomo o da un gruppo di uomini condensata in una formula. Cfr. F. GENY,

Méthode d’interprétation en droit privé positif cit., p. 230, n. 98. 787

Interessante confrontare le divere prospettive di N. BOBBIO, Teoria

dell’ordinamento giuridico, Torino., 1960, e di F. GENTILE, Ordinamento

giuridico: tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001.

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proprio scopo le norme trovano un loro ordine, operando in co-

attività.788

Infatti, il duplice elemento discretivo, del principio

costituzionale (o dei principi costituzionali) di cui ambisce essere

attuazione e del bene che intende tutelare, quale risposta ad un

problema individuato dal legislatore, consentono al giurista di por

mano a quell’operazione di mettere ordine, già felicemente

indicata789

come ordinatio per distinguerla dal suo prodotto,

l’ordinatum. E non si deve mancar di sottolineare come delle due, la

prima costituisca il vero nerbo dell’ordinamento giuridico: non

tanto l’insieme affastellato delle norme, quanto la capacità di

riconoscere ragion d’essere e scopo di ognuna eleva l’ammassato

indistinto a sistema ordinato, fornendo al marinaio-giurista gli

strumenti per navigarvi proficuamente, piuttosto che stordirlo con

nozioni, nel tentativo di fargli vedere tutto il mare.

Abbiamo ripetuto a sazietà come l’analogia costituisca una

manifestazione particolarmente prossima a quello che si ritiene il

788

Mi vedo costretto ad adottare questa versione grafica per sottolineare la

duplice valenza delle norme riunite a sistema, nel senso di norme che agiscono

l’una per mezzo delle altre, sia nel senso che, proprio per questo, sono coattive

nel senso di cogenti. L’assonanza rammenta un tema kelseniano, enunciato più

volte ed in diverse forme dal più famoso neokantiano Marburgo. Tuttavia, l’idea

che il diritto non sia altro che un insieme di imperativi per cui la violazione di uno

si ponga come condizione per l’applicazione di un altro, emerge già chiara

quando ancora la dogmatica tedesca non aveva raggiunto l’organicismo di

Laband e Jellinek. Emblematico come Thon apra la sua opera affermando

perentoriamente “das gesammte Recht einer Gemeinschaft ist nichts als ein

Complex von Imperativen”, “L’intero diritto di una società non è altro che un

complesso di imperativi”, sicché la violazione degli uni sia condizione di

efficacia per l’applicazione degli altri. Così A. THON, Rechtsnorm und subjectives

Recht. Untersuchungen zur allgemeinen Rechtslehre, Weimar, 1878, p. 8, con

grassetto nel testo. Lo speciale sistema di co-attività delineato da Thon trova forse

la sua radice teoretica in K. BINDING, Die Normen, vol I, Leipzig, 1872. Cfr.

altresì A. RAVÀ, Il diritto come norma tecnica, Cagliari, 1911, p.71. 789

Come già ricordato più volte supra, la distinzione si deve a F. GENTILE,

Ordinamento giuridico: tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001.

L’accento sull’operazione del mettere ordine, come riconoscimento dell’esistenza

di un ordine, è posto anche dal poco noto L. VON BERTALANFFY, General system

theory: foundations, development, applications, New York, 1968, di cui segnalo

una traduzione italiana, Milano 1971, rivista nel 1983.

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procedimento archetipico della nostra mente, dico il movimento

dialettico che procede nella conoscenza operando tra due termini

per identità e differenza, non contraddizione e terzo escluso: è

quello che abbiamo chiamato l’ipoteca analogica. Ora, proprio

questo consente di operare con l’analogia legis, senza cadere nelle

ambiguità che hanno finito per rendere inviso quando non

provocatorio questo strumento, in realtà necessario sia in

prospettiva positivista che antipositivista. Invero, procedere per

analogia senza aver chiaro quale sia il criterio discretivo tra le

norme conduce a ritener applicabili questa o quella in ragione di un

mutevole, inconscio, sguardo a questo o quell’aspetto delle norme.

Al contrario, minor arbitrio sembra assicurare il riferimento a quelli

che abbiamo individuato come gli elementi caratteristici di una

norma: di quella principio vuol essere specificazione e verso quale

bene si dirige in risposta di quale problema.

Si potrebbe allora sintetizzare che “problema analogo, norma

analoga”. Più precisamente la norma “analoga” da applicare si

desume guardando la sua ratio ed il suo tèlos, cioè ricercando quella

norma che –ad un indagine dialettica per identità e differenza, non

contraddizione e terzo escluso- più forti presenti i legami di

principio e di scopo con il caso che si deve risolvere. Solo ove si

individui identico principio da specificare e identità di bene da

proteggere per risolvere il problema che ha originato la fattispecie si

potrà dire di aver elementi tali da poter sostenere con qualche buon

argomento, anche in sede processuale, l’applicabilità della norma

così individuata al caso occorso.

Abbiamo così anche distinto l’analogia legis dalla analogia

juris: nella prima i termini da ricercare sono due ratio et tèlos; nella

seconda, non essendovi un’esplicita norma per casi analoghi, non è

stato percepito il problema o non vi è stato tentativo di darne riposta

con una norma fornita di un suo scopo; e pertanto si deve ricercare

il principio generale di cui la soluzione della fattispecie concreta

sarà attuazione.

Si noti, poi che il procedimento per l’analogia appena

descritto appare uno sviluppo logico e naturale del procedimento di

interpretazione della legge, riassunto all’inizio di questo capitolo.

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Resta ora la parte più difficile, la distinzione tra la strada

appena tracciata per l’analogia da una strada per l’interpretazione

estensiva. Ed anche in questo caso, vogliamo cercare

dialetticamente la caratteristica della norma eccezionale.

Norme eccezionali, sono evidentemente norme che fanno

eccezione a regola generale, si parte quindi da una definizione in

negativo che presuppone prima l’accertamento della norma

generale. Il criterio non quantitativo, ma qualitativo come

compressione di un principio: a ben guardare le norme eccezionali

sono in numero maggiore delle norme generali, proprio perché

queste ultime -valendo per la maggior parte dei casi- coprono la

maggior parte delle fattispecie possibili. Al contrario, la norma

eccezionale copre casi più ridotti e, quindi, mentre per fissare una

regola occorre una sola norma generale, per porvi dei limiti

necessitano una o più norme eccezionali. Ancora, se il criterio fosse

solamente qualitativo, occorrerebbe tenere la somma algebrica di

tutte le norme che dispongono in un senso e di tutte quelle che

indicano una prescrizione contraria; con la conseguenza che per la

frenetica attività del legislatore una norma potrebbe trovarsi “in

maggioranza” o “in minoranza” e passare così da generale ad

eccezionale e viceversa, mutando il regime di regole

d’interpretazione cui è soggetta.

Come si è anticipato la ragion d’essere della norma

eccezionale riposa sulla necessità di porre un limite ad un principio

esplicato in una o più norme generali, a tutela di un altro principio

per salvaguardare un bene specifico. La norma eccezionale sorge

dalla necessità di contemperare i principi o di porli in gerarchia

ordinata. Il problema si sposta allora all’ordine dei principi, cui non

si applica però l’articolo 12: per quanto controversa sia la loro

natura appare chiaro che non si tratta di norme ma di fonti di

norme.790

In ogni caso, però, anche la mera operazione del porre

790

Si veda A. BELVEDERE, Le clausole generali tra interpretazione e

produzione di norme, in Politica del diritto, 1988, p. 631 – 653. Oltre ai

contributi più risalenti, citati alla nota 774, la difficoltà nel collocare i principi è

testimoniata dagli scritti di S. COTTA, I principi generali del diritto:

considerazioni filosofiche, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 496; N. BOBBIO, voce

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ordine si presenta più facile, minore essendo il numero delle

variabili; inoltre, sotto il profilo sostanziale, si può contare su un

consenso diffuso nell’ordine generale dei principi: nel dare la

precedenza alla persona sui beni, al lavoro sulla proprietà passiva,

seppure già l’armonia si rompe quando si fanno concorrere per

esempio la libertà personale con l’interesse della comunità. La

provocazione ci aiuta a capire che la scelta è ancora una volta

politica nel senso forte del termine, cioè rappresenta il grado di

consapevolezza di una comunità in un certo momento.791

Alla

sensibilità politica del legislatore ed al controllo della Corte

costituzionale, dunque, l’ordine di attuazione normativa dei

principi, che è ordine nei principi.

Tuttavia, il problema cui una norma è chiamata a rispondere

può essere anche un’altra norma, alla quale appare necessario porre

dei limiti, spesso solo in un secondo momento rispetto alla data di

entrata in vigore; una norma che salvaguardi delle peculiarità

sottraendole alla regola generale: una norma eccezionale. Il prius –

norma generale ed il posterius – scopo della norma eccezionale

Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, IX, 1963, p. 423; IDEM, voce

Principi generali del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, 1966, XIII; G.R.

CARRIO, Principi di diritto e positivismo giuridico, Bologna 1970, ora in R.

GUASTINI, Problemi di teoria del diritto, Bologna, 1980, pp. 75-94; G. ALPA, I

principi generali, in Trattato di diritto privato, Milano, 1993, p. 33 e ss.; A.

SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera di Ronald

Dworkin, in Riv. int. fil. dir., 1995, p. 162; V. FROSINI, Sull’interpretazione dei

principi generali del diritto, in Riv. internaz. fil. del diritto 1995, p. 853; G. OPPO,

Sui principi generali del diritto privato, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 492. Peraltro,

a noi sembra che si tratti di un falso problema: essendo collocati comunque al

vertice nella gerarchia delle fonti risulta superfluo chiedersi se si tratti delle

norme più generali o di fonti di produzione. Cfr. A. CERRI, Appunti sul concorso

conflittuale di diverse norme della Costituzione, in Giur. cost., 1976, I, p. 272 e

ss.; IDEM, Il “principio” come fattore di orientamento interpretativo e come

valore “privilegiato”: spunti ed ipotesi per una distinzione, in Giur. cost., 1987,

p. 1806. Da ultimo, sembra aderire a questa posizione anche P. BECCHI, Giuristi e

principi, Genova, 2000. 791

Con le parole di apertura – chiusura di U. PAGALLO, Alle fonti del

diritto. Mito, scienza, filosofia, Torino 2002, possiamo dire che veramente “Alle

fonti del diritto ritroviamo il “nodo del riconoscimento che presiede

all’interazione comunicativa degli uomini”.

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costituiscono già un primo esempio di sistema giuridico, cioè di

insieme co-attivo di norme, nel duplice senso già detto di norme che

operano insieme e che (anche per questo) sono cogenti.

In base all’art. 14 le norme eccezionali si applicano solo ai

casi in esse considerati. È dunque ammessa l’estensione, ma non il

passaggio dal problema di cui sono risposta ad un altro problema.

La vera natura dell’eccezionalità risiede non nel solo tèlos, che può

essere comune ad altre norma, non nella sola ratio, ché la

compressione di quel dato principio può essere comune anche ad

altre norme, ma nella combinazione dell’uno e dell’altra.

Il limite dell’estensione sta nella ragione stessa

dell’eccezionalità: perché si è dovuta introdurre quella determinata

norma? Per limitare la portata di un’altra. La ratio riposa

nell’esigenza di comprimere un determinato principio per far posto

ad un altro. Il tèlos consiste nel proteggere un bene che sarebbe

altrimenti travolto dalla disciplina generale, una peculiarità

meritevole di tutela in base ad un altro principio generale o per

miglior specificazione del medesimo principio di cui vuole essere

attuazione la stessa norma generale derogata dalla norma

eccezionale.

Abbiamo sopra sintetizzato il fondamento dell’analogia

nell’equazione problema analogo = norma analoga, cioè

l’applicabilità di una norma per analogia è ammessa ove il caso da

risolvere sorga dal medesimo problema di cui ha voluto essere

risposta la norma espressa; la fattispecie da regolare abbisogna della

medesima ratio e dello stesso tèlos; ed è per questo, per la

comunanza di questi due elementi, che la norma espressa può essere

analogicamente applicata anche al caso non specificamente

regolato.792

792

Giova ripetere che tèlos e ratio non esauriscono gli aspetti

caratterizzanti la norma: due norme con identico tèlos e ratio non sono la stessa

norma, potendovi essere altri elementi precipui, quali l’applicazione temporale o

spaziale che differenziano l’una dall’altra. Per un diverso tentativo di ricostruire il

carattere eccezionale della norma, cfr. R. PINARDI, “incostituzionalità

sopravvenuta” e natura “eccezionale” della normativa denunciata (a margine di

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Se questo è il fondamento dell’analogia legis, allora la norma

eccezionale non può essere applicata ad un problema analogo a

quello per la quale è stata prevista. In altri termini, la definizione di

interpretazione estensiva è data a contrariis da quella di analogia.

Ci sembra allora che acquisti un senso nuovo (e il termine va

usato con cautela dopo oltre duecentocinquanta pagine spese sui

problemi dell’interpretazione) l’affermazione tradizionale per cui se

analogia è passaggio da un problema ad un altro (individuandosi

l’uno e l’altro mediante procedimento dialettico di confronto dei

rispettivi ratio e tèlos), l’estensione spinge il momento teleologico

fino alla massima risposta del problema che aveva originato la

norma, ma non va oltre.793

un’altra pronuncia di accoglimento solo parzialmente retroattiva), in Giur. cost.,

1991, p. 1236 e ss. 793

Questa costruzione viene incontro anche alla posizione cara ai penalisti

che ambiscono a dilatare l’eccezione alla norma incriminatrice speciale

(eccezione a norma eccezionale!) avvalendosi del principio del favor rei. Tra i

molti, mi limito a richiamare il valore di G. BELLAVISTA, L’interpretazione della

legge penale, Milano 1936 (rist. 1975); di G. VASSALLI, La legge penale e la sua

interpretazione, il reato e la responsabilità penale, le pene e le misure di

sicurezza, 2 vol, Milano, 1997, nonché in altra prospettiva R. RINALDI,

L’analogia e l’interpretazione estensiva nell’applicazione della legge penale, in

Riv. it. dir. proc. pen. 1994, p. 195.

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Indice della giurisprudenza citata

(in ordine cronologico)

1. Cassazione civile, sez. I.,

10.8.1934

2. Corte d’Appello Roma,

10.1.1939

3. Cassazione penale, sez. un,

7.2.1948

4. Cassazione civile, sez. III,

22.6.1948 n. 975

5. Cassazione civile, sez. III,

27.7.1948 n. 1255

6. Cassazione civile, sez. un,

25.6.1949 n. 1592

7. Cassazione civile, sez. II.,

14.7.1949 n. 1801

8. Corte cost., 23.6.1956, n. 3

9. Corte cost., 2.7.1956, n. 8

10.Corte cost. 26.1.1957, n.

24

11.Cassazione civile, sez. I.,

8.8.1959 n. 2500

12.Corte cost., 27.5.1961, n.

27

13.Cassazione civile, sez. I.,

3.7.1967 n. 1621

14.Corte cost., 19.12.1968, n.

126

15.Corte cost., 19.12.1968, n.

127

16.Cassazione penale, sez. I,

7.3.1977

17.Cassazione penale, sez. I,

14.4.1978

18.Tribunale Milano,

15.5.1978

19.Cons. Stato, sez. IV,

4.7.1978 n. 701

20.Tribunale Palermo,

12.7.1978

21.Pretura Milano,

31.10.1978

22.Pretura Ottaviano,

28.3.1979

23.Cons. Stato, sez IV,

27.9.1979 n. 738

24.Cassazione civile, sez. lav,

4.12.1979, n. 6307

25.Cassazione penale, sez. V,

sent. 8.1.1980

26.Cassazione penale, sez. III,

11.1.1980

27.T.A.R. Calabria, sez.

Catanzaro, 18.1.1980 n. 2

28.Cassazione penale, sez. I,

25.2.1980

29.Cassazione civile,

17.3.1980 n. 1772

30.Corte cost., 22.4.1980, n.

62

31.Corte cost., 5.5.1980 n. 68

32.T.A.R Campania,

11.6.1980, n. 445

33.Cassazione civile, sez. lav,

6.11.1980, n. 5968

34.Corte cost., 10.2.1981 n.22

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35.Cassazione civile, sez. lav,

28.3.1981 n. 1800

36.Cassazione civile, sez. lav

9.4.1981, n. 2067

37.Pretura Milano, 21.9.1981

38.Cassazione civile, sez. III,

9.7.1982, n. 4095

39.Tribunale Torino, 3.9.1982

40.Cassazione civile, sez. lav.,

1.10.1982, n. 769

41.Cassazione penale, sez. V,

12.10.1982

42.T.A.R. Molise 6.12.1982,

n. 217

43.T.A.R. Emilia Romagna,

sez. Bologna, 18.12.1982

n. 643

44.Cassazione civile, sez. lav.,

9.5.1983 n. 3168

45.Cassazione civile,

13.5.1983 n. 3275

46.Cassazione penale, sez. IV,

13.6.1983

47.Cassazione civile,

3.12.1983 n. 7248

48.Cons. Stato, a. plen.

16.12.1983, n. 27

49.T.A.R. Lazio sez. II, sent.

20.12.1983 n. 1269

50.Cassazione penale, sez. I,

20.10.1984

51.Cassazione civile, sez. lav,

4.2.1985, n. 732

52.Cons. Stato, a. plen.,

12.2.1985 n. 2

53.Cassazione civile, sez. lav,

19.6.1985, n. 3609

54.Cassazione civile, sez. I,

21.10.1985, n. 5171

55.Corte d’Appello Reggio

Calabria, 22.1.1986

56.Tribunale Roma

,18.4.1986

57.Cons. G. Amm. Sicilia,

26.7.1986, n. 109

58.Cons. G. Amm. Sicilia,

28.8.1986, n. 129

59.Cassazione civile, sez. lav,

27.10.1986, n. 6294

60.Cassazione civile, sez. II,

11.11.1986, n. 6584.

61.Cassazione penale, sez. I,

27.11.1986

62.Cassazione civile, sez. lav.,

17.1.1987, n. 383

63.Cassazione civile, sez. I,

26.5.1987, n. 4710

64.T.A.R. Lazio, sez.I,

16.10.1987, n. 1651

65.Comm. imposte prov.le,

sez. I, Firenze, 28.10.1987

n. 443

66.Cassazione penale, sez. V,

24.2.1989

67.Cassazione civile, sez. lav,

18.3.1989, n. 1381

68.Cons. Stato, sez. VI,

15.4.1989, n. 422

69.Cassazione civile, sez. lav,

12.5.1989, n. 2178

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70.Cassazione civil,e sez. un,

17.5.1989, n. 2336

71.Cassazione civile, sez.

unite, 30.5.1989, n. 2631

72.Corte cost. 25.7.1989 n.

427

73.Cassazione civile, sez. lav,

25.10.1989, n. 4373

74.Cassazione civile, sez. lav,

2.2.1990, n. 689

75.Cons. Stato, sez. V,

27.2.1990, n. 217

76.Tribunale Catanzaro,

24.4.1990

77.Cassazione penale, sez. I,

21.5.1990

78.Cassazione civile, sez. un,

14.6.1990, n. 5777

79.Cassazione civile, sez. lav.,

24.7.1990, n. 7494

80.Cassazione penale, sez. VI,

15.10.1990

81.Cons. Stato, sez. V,

26.10.1990, n. 731

82.Cassazione civile, sez. lav,

21.11.1990 n. 11210

83.Cons. G. Amm. Sicilia,

26.3.1991 n. 99

84.Cassazione civile, sez. I,

19.4.1991, n. 4234

85.Cassazione civile, sez. II,

16.5.1991, n. 2991

86.T.A.R. Toscana, sez. I,

30.5.1991 n. 314

87.Cassazione penale, sez. V,

3.7.1991

88.Cassazione civile, sez. lav.,

30.7.1991, n. 7279

89.Cassazione civile, sez. lav.,

3.10.1991, n. 10304

90.T.R.G.A., sez. Trento,

2.12.1991 n. 410

91.Cassazione civile, sez. II,

16.12.1991, n. 13519

92.Cassazione penal,e sez. I,

11.2.1992

93.Cassazione penale, sez. I,

6.3.1992

94.Cassazione penale, sez. IV,

11.3.1992

95.Consiglio di Stato sez. V,

14.10.1992, n.987

96.Pretura Milano,

10.11.1992

97.Cassazione penale, sez. III,

2.12.1992

98.Cassazione penale, sez. I,

12.1.1993

99.Cassazione civile, sez. lav,

26.2.1993, n. 2404

100.Cassazione penale, sez.

VI, 2.4.1993

101.Cassazione penale, sez.

IV, 10.6.1993

102.Cassazione civile, sez. I,

8.7.1993, n. 7514

103.Cassazione penale, sez. I,

10.11.1993

104.Cassazione penale, sez.

un, 19.1.1994

105.Cassazione penale, sez.

III 23.1.1994

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106.Cassazione penale, sez. I,

17.2.1994

107.Comm. centr. imposte

sez. IX, 16.3.1994, n. 733

108.Cassazione civile, sez. I,

17.3.1994, n. 2574

109.Cass. Civ. sez. lav.,

15.4.1994, n. 3556

110.Corte d’Appello Brescia,

4.5.1994

111.Cassazione civile, sez.

III, 6.5.1994, n. 4420

112.Pretura Milano,

19.7.1994

113.Cassazione civile, sez. I,

18.8.1994, n. 7437

114.Pretura Bologna,

6.9.1994

115.T.A.R. Sicilia, sez. II,

4.10.1994 n. 888

116.Tribunale Napoli,

7.10.1994, n. 13519

117.Corte cost., 28.11.1994,

n. 410

118.Cassazione civile, sez. II,

14.12.1994, n. 10699

119.Cassazione civile, sez. I,

15.2.1995, n. 1638

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1896, citato in E. BETTI, Metodica e didattica del diritto

secondo Ernst Zitelmann, in Riv. int. fil. dir. (RIFD), 1925,

p.5, ora in Diritto, Metodo, Ermeneutica, Milano, 1991,

p.14.

ZITELMANN E., Lücken im Recht, Leipzig, 1903