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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO COMUNE PATRIMONIALE XVIII CICLO TESI LA PROPORZIONE TRA LE PRESTAZIONI CONTRATTUALI Coordinatore Ch.mo Prof. ENRICO QUADRI Dottorando Dott. CARLO RINALDI ANNO ACCADEMICO 2004-2005

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II

FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA

DOTTORATO DI RICERCA

IN

DIRITTO COMUNE PATRIMONIALE

XVIII CICLO

TESI

LA PROPORZIONE

TRA LE PRESTAZIONI CONTRATTUALI

Coordinatore

Ch.mo Prof.

ENRICO QUADRI

Dottorando

Dott.

CARLO RINALDI

ANNO ACCADEMICO 2004-2005

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I

INDICE SOMMARIO

PARTE PRIMA

L’EQUILIBRIO CONTRATTUALE NEL DIRITTO COMUNE DEI

CONTRATTI

CAPITOLO I LA NOZIONE DI EQUILIBRIO CONTRATTUALE: EQUILIBRIO NORMATIVO ED ECONOMICO; OGGETTIVO E SOGGETTIVO. LA GIUSTIZIA CONTRATTUALE Pag. 1

CAPITOLO II

L’AUTONOMIA CONTRATTUALE E I CONTRATTI A PRESTAZIONI CORRISPETTIVE Pag. 12

CAPITOLO III

LA TUTELA DELLA PROPORZIONE FRA LE PRESTAZIONI NEL CODICE CIVILE DEL 1942: LA RESCISSIONE; LA RISOLUZIONE PER ECCESSIVA ONEROSITÀ SOPRAVVENUTA. ALTRI ISTITUTI E MISURE A TUTELA DELLA PROPORZIONALITÀ Pag. 24

CAPITOLO IV

RILEVANZA DELL’INCAPACITÁ, DEL DOLO E DELL’ERRORE NEI CONTRATTI SPEREQUATI Pag. 59

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II

PARTE SECONDA

L’EQUILIBRIO CONTRATTUALE NELLA GIURISPRUDENZA

CAPITOLO V DISTINZIONE TRA PREZZO “VILE” E PREZZO “SIMBOLICO” Pag. 67

CAPITOLO VI

EVOLUZIONE SUCCESSIVA VERSO LA “OGGETTIVAZIONE CONTRATTUALE” Pag. 73

CAPITOLO VII

EQUILIBRIO CONTRATTUALE E CLAUSOLA GENERALE DI BUONA FEDE Pag. 105

CAPITOLO VIII

EQUILIBRIO CONTRATTUALE E PRINCIPIO DI EQUITÀ Pag. 157

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III

PARTE TERZA

L’EQUILIBRIO CONTRATTUALE NELLA LEGISLAZIONE

SPECIALE

CAPITOLO IX

I CONTRATTI DEL CONSUMATORE Pag. 168

CAPITOLO X

ALTRE NORMATIVE A TUTELA DEL CONSUMATORE Pag. 192

CAPITOLO XI

TUTELA DELL’IMPRENDITORE DEBOLE. LA LEGGE 18 GIUGNO 1998, N. 192 E IL D. LGS. 9 OTTOBRE 2002, N. 231 Pag. 202

CAPITOLO XII

LEGGE 7 MARZO 1996, N. 108: DISPOSIZIONI IN MATERIA DI USURA Pag. 226

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IV

PARTE QUARTA

L’EQUILIBRIO CONTRATTUALE NEI PRINCIPI UNIDROIT E

NEI PROGETTI DI CODIFICAZIONE EUROPEA Pag. 253 NOTE DI RIEPILOGO Pag. 277 Bibliografia Pag. 282

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V

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PARTE PRIMA

L’EQUILIBRIO CONTRATTUALE NEL DIRITTO COMUNE DEI

CONTRATTI

CAPITOLO I

LA NOZIONE DI EQUILIBRIO CONTRATTUALE: EQUILIBRIO

NORMATIVO ED ECONOMICO; OGGETTIVO E SOGGETTIVO. LA

GIUSTIZIA CONTRATTUALE

Occorre preliminarmente chiarire la nozione di equilibrio in materia

contrattuale1.

L’equilibrio può riferirsi tanto al profilo normativo del contratto, inteso

come sintesi delle posizioni normative dei contraenti, come assetto

contrattuale allocativo di diritti, obbligazioni, oneri, responsabilità e rischi2,

quanto al profilo economico, che invece riguarda più specificamente il valore

economico delle prestazioni oggetto di scambio, considerate non in se stesse,

ma nel complesso dell’operazione economica cui accedono3.

Inoltre, l’equilibrio può essere riferito, oltre che agli elementi oggettivi

del contratto (regole e prestazioni), anche alle persone dei contraenti. A tale

1 Sull’argomento, v. A. Di Majo, La nozione di equilibrio nella tematica del contratto,

Incontro di studio del C.S.M., 22-24 aprile 2002, in www.lexfor.it.; G. Oppo, Lo

<<squilibrio>> contrattuale tra diritto civile e diritto penale, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 533 ss.. 2 A. D’Angelo, Il contratto in generale. La buona fede, in Trattato di Diritto Privato diretto

da M. Bessone, Torino, 2004, pp. 89, 97, 165. 3 F. Caringella, Studi di Diritto Civile, II, Giuffré, 2003, p. 1690.

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stregua si è soliti distinguere un contraente “forte” e uno “debole”, alludendo

alla disparità di forza contrattuale tra le parti4.

La tematica dell’equilibrio contrattuale è strettamente collegata con il

concetto di giustizia5.

Infatti, l’istituto dell’equilibrio contrattuale - tanto soggettivo, quanto

oggettivo - tende a preservare un assetto di rapporti equi fra le parti

contrattuali e, quindi, in definitiva, giusto6.

Pertanto, il quesito fondamentale che si pone in relazione al concetto di

equilibrio contrattuale consiste nel chiedersi se quest’ultimo coincida o meno

con la nozione di giustizia contrattuale7.

L’espressione “giustizia contrattuale” è molto diffusa nella dottrina

civilistica italiana8, sintomo della sempre più crescente attenzione da questa

rivolta al problema del contratto “giusto” (o equo)9.

4 A tale distinzione è ispirata tutta la più recente normativa consumeristica. 5 Sulla nozione di giustizia contrattuale v. G. Marini, Ingiustizia dello scambio e lesione

contrattuale, in Riv. critica dir. priv., 1986, p. 257 ss.; G. Vettori, Autonomia privata e

contratto giusto, in Riv. dir. priv., n. 1/2000, p. 21 ss.; U. Breccia, Prospettive nel diritto dei

contratti, in Riv. critica dir. priv., 2001, p. 194 ss.. Si può anticipare (ma sul punto si tornerà più avanti) che, in chiave storica, il problema della giustizia contrattuale è stato sempre collegato alla necessità che lo scambio fosse caratterizzato da un “giusto prezzo”, con la conseguente necessità di dover determinare, nel modo più preciso possibile, cosa si dovesse intendere per prezzo giusto e quale potesse essere il valore oggettivo dei beni. Sulla evoluzione dei principi di giustizia in materia contrattuale, v. R. Lanzillo, La proporzione fra

le prestazioni contrattuali, Padova, 2003, p. 47 ss.. 6 Cfr. G. Marini, op. cit., p. 257 ss. 7 Sul rapporto tra equilibrio contrattuale e giustizia contrattuale, v. F. Caringella, op. cit., p. 1691, secondo cui “è evidente che, con buona probabilità, un assetto contrattuale <<equilibrato>> sia in concreto anche <<giusto>>”. Maggiori perplessità manifesta sul punto A. Di Majo, op. cit., p. 1 ss., secondo cui <<non è neanche del tutto pacifico se la nozione di “equilibrio contrattuale” debba e/o possa o meno coincidere con quella della “giustizia contrattuale”. In senso negativo possono portarsi argomenti secondo cui la nozione di “equilibrio” si muove e si colloca nell’ottica dello “scambio” (di merci e/o di prestazioni) mentre la nozione di “giustizia contrattuale” vola più alto. Ha riguardo ad esiti o risultati dall’assetto contrattuale che siano conformi ai parametri oggettivi della “giustizia”, ove per “giustizia” si intendono esiti conformi ai dettami della morale sociale, il che coinvolge un giudizio etico, non già solo mercantilistico>>.

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Secondo la concezione liberista classica – ormai superata – l’autonomia

contrattuale delle parti non può che garantire ai contraenti un risultato giusto:

“Qui dit contractuel, dit juste”10.

Infatti, la parte non acconsentirebbe mai ad un accordo destinato ad

arrecarle più perdite che vantaggi, e, se il contratto assicura all’una e all’altra

parte un vantaggio maggiore della perdita, e le conseguenze dell’accordo sono

8 G. Alpa, Introduzione alla nuova giurisprudenza, in M. Bessone-G. Alpa (a cura di), I

contratti in generale, I, Torino, 1991, p. 297 ss.; C. M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, II ed., Milano, 2000, pp. 32 e 36; R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, II, Torino, 1993, p. 3 ss.; V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano 2001, p. 928 ss.; U. Breccia, Causa, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. XIII, t. III, Torino, 1999, p. 71 ss.; A. D’Angelo, Contratto e operazione economica, Torino, 1992, p. 309 ss.; P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. It., 1999, p. 231; M. Barcellona, La buona fede e il controllo giudiziale del contratto, in S. Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele: prospettive di diritto europeo, Torino, 2002, p. 305 ss.; F. D. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 556 ss.; G. Marini, Ingiustizia dello scambio e lesione contrattuale, cit., p. 257 ss.; G. Grisi, L’autonomia privata.

Diritto dei contratti e disciplina costituzionale dell’economia, Milano, 1999, p. 180 ss.; A. Somma, Autonomia privata e struttura del consenso contrattuale. Aspetti storico-comparativi

di una vicenda concettuale, Milano, 2000, p. 405 ss.; Id., Il diritto privato liberista. A

proposito di un recente contributo in tema di autonomia privata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, p. 263 ss.; A. Barba, Libertà e giustizia contrattuale, in Studi in onore di P. Rescigno, III, 2, Milano, 1998, p. 11 ss.; F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Milano, 1970, p. 328; E. Dell’Aquila, L’adeguatezza tra i vantaggi nei contratti onerosi, in Studi senesi, XCI, III serie, XXVIII, 1979; R. Lanzillo, Il problema dell’equivalenza fra le prestazioni, in Studi

Parmensi, 1983; Ead., Regole del mercato e congruità dello scambio contrattuale, in Contratto e Impresa, 1985, p. 309; T. O. Scozzafava, Il problema dell’adeguatezza della

prestazione nella rescissione per lesione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, p. 353; M. Costanza, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Contratto e Impresa, 1987, p. 423; F. Galgano, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, in Contratto e Impresa, 2000, p. 918; P. Perlingieri, Nuovi profili del contratto, in Riv. critica

dir. privato, 2001, p. 223; A. Ricci, Errore sul valore e congruità dello scambio contrattuale, in Contratto e Impresa, 2001, p. 987; D. Corapi, L’equilibrio delle posizioni contrattuali nei

Principi Unidroit, in Eur. dir. priv., 2002, p. 23; L. Ferroni (a cura di), Equilibrio delle

posizioni contrattuali ed autonomia privata, Milano, 2002. 9 Cfr. R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, t. I, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2004, p. 22, “Il giurista desidera - ha sempre desiderato - che il contratto, previsto e regolato dal diritto, sia giusto. Egli respinge istintivamente l’idea di un contratto ad un tempo ingiusto ed efficace”. 10 È questa la celebre massima di Fouillé, citata in Ghestin, Le contrat, in Traité de droit civil, II, Les obligations, 1, II éd., Paris, 1988, p. 20.

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conformi alla volontà dei contraenti, non possono residuare altri problemi di

giustizia contrattuale11.

In sostanza, l’autonomia è non solo la garante della giustizia, ma è

anche l’unica garante possibile; fuori dell’autonomia non esiste giustizia12.

Da ciò consegue l’equazione automatica della regola contrattuale con la

regola giusta13.

Tuttavia, l’ottimismo ispirato dalla visione liberista è stato duramente

contestato. La libertà contrattuale, infatti, per essere effettiva, presuppone che

l’accesso al mercato sia fondato su di un equilibrio di opportunità e di poteri,

con riguardo a profili economici, sociali, psicologici, di reciproca relazione tra

le parti, di esperienza, attitudine agli affari e informazione14.

11 I principi dell’economia liberista, portato della rivoluzione francese, nascevano come reazione all’immobilismo medioevale, fondato sul principio di derivazione aristotelica della giustizia commutativa che imponeva di rispettare un giusto prezzo nella compravendita. Per maggiori approfondimenti, v. A. Musio, La buona fede nei contratti dei consumatori, Napoli, 2001, p. 45 ss. L’A. sottolinea che il passaggio dal solidarismo medievale all’individualismo liberistico fu accompagnato dall’abbandono della concezione del contratto inteso come scambio - in virtù della quale la validità del rapporto contrattuale veniva ricollegata all’equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni - e dall’adesione al volontarismo, cioè, alla concezione del contratto inteso come accordo, secondo la quale per la conclusione di un valido regolamento contrattuale era sufficiente il mero scambio dei consensi, prescindendo dal contenuto concreto dello scambio. 12 Così R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, t. I, in Trattato di diritto civile, cit. p. 23. 13 Di diverso avviso è D’Angelo, Il contratto in generale. La buona fede, cit., p. 157, secondo cui l’espressione “giustizia contrattuale” ricomprenderebbe la stessa forza vincolante del contratto e le regole che la assicurano, assumendosi il brocardo “pacta sunt servanda” quale precetto etico, espressivo di valori di giustizia, senza che ciò implichi un giudizio di necessaria conformità a giustizia dei contenuti pattizi. Secondo P. Schlesinger, op. cit., p. 230, il richiamato brocardo “non ha alcuna validità intrinseca, ma si limita soltanto a sottolineare il valore di principio del rispetto della parola data ed a ribadire la constatazione statistica della normale reciproca convenienza a dare stabilità alle relazioni intersoggettive, non revocando di continuo in dubbio, senza più che giustificabili motivi, l’affidabilità di impegni formalmente e specificamente assunti”. 14 A tale proposito, R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 23, osservano come il contratto venga concluso “in un quadro economico dominato da cento strettoie”, che, evidentemente, alterano il corretto funzionamento del mercato, allontanandolo dal modello di mercato perfetto, postulato dalla concezione liberista.

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Conseguenze di tali osservazioni sono la sottoposizione a vaglio critico

della summenzionata equazione tra autonomia contrattuale e giustizia, nonché

lo spostamento dell’attenzione, da parte di molti giuristi contemporanei, dal

piano della volontà e dell’autonomia del volere – e, quindi, dal principio di

libertà contrattuale – al piano della giustizia del contratto15.

Il problema, quindi, non è più la libertà contrattuale, ma la giustizia

contrattuale16; si diffida, pertanto, dall’autonomia e si fa appello ad interventi

eteronomi, a garanzia e salvaguardia della giustizia17.

Alla luce di tali riflessioni, il significato che appare implicato dall’uso

corrente della formula “giustizia contrattuale”, sembra esprimere una

contrapposizione o, quantomeno, una tensione, una conflittualità potenziale

tra vincolo contrattuale e giustizia, tra osservanza del contenuto delle

pattuizioni e salvaguardia di interessi che sono da esse pregiudicati e che

appare giusto proteggere18.

Alla nozione di giustizia contrattuale così intesa, parte della dottrina19

riconduce regole che, in vario modo, limitano o escludono la forza vincolante

dei patti, in presenza di determinate situazioni tipiche previste dalla legge.

Basti pensare – nell’ambito dello statuto generale dei contratti – al regime

15 Sul punto v. U. Breccia, Causa, cit., p. 72. 16 L’argomento è affrontato in modo puntuale da U. Breccia, op. ult. cit., p. 73 ss.. 17 R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 23. Sul punto, v. anche F. Caringella, Studi di

diritto civile, cit., p. 1691, il quale osserva che “la scienza economica ha da tempo evidenziato come l’autonomia privata sia insufficiente ad assicurare la giustizia contrattuale, la quale può essere garantita soltanto attraverso interventi eteronomi”. Dello stesso avviso A. Di Majo, op.

cit., p. 2, secondo cui la giustizia contrattuale è “un valore aggiunto ossia un plus valore normativo rispetto al valore espresso dall’autonomia contrattuale. Per assicurare la “giustizia contrattuale” più non si confida nell’autonomia delle parti contraenti, si invocano invece interventi eteronomi (norme di legge, controlli amm.vi o giudiziali)”. 18 A. D’Angelo, Il contratto in generale. La buona fede, cit., p. 157. 19 A. D’Angelo, op. ult. cit., p. 158; R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 24.

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delle incapacità, dei vizi della volontà, della rescissione, alle regole che

impongono lo scioglimento del vincolo in virtù di circostanze sopravvenute,

considerate con esso incompatibili, alla disciplina delle clausole vessatorie.

Frequenti, inoltre, sono i richiami alla giustizia, all’equità, alla buona

fede, specie in tema di arbitrio mero e boni viri, di interpretazione e

integrazione del contratto, senza dimenticare l’importanza notevole riservata

al requisito della causa.

A questi riferimenti normativi occorre aggiungere quelli desumibili

dalla legislazione speciale – in particolare, di derivazione comunitaria – in

tema di clausole abusive nei contratti dei consumatori 20 , di abuso di

dipendenza economica nei contratti tra imprese21, di termini di pagamento dei

corrispettivi contrattuali22.

La giustizia contrattuale diviene, quindi, in seno alla materia

contrattuale, giustizia di carattere commutativo e di carattere procedurale23.

Pertanto, l’ampio spazio riservato dal diritto italiano alla giustizia

contrattuale, induce l’interprete a verificare l’esistenza, nel nostro

ordinamento giuridico, di un principio generale di giustizia contrattuale24, sul

20 L. n. 52/96, attuativa della direttiva n. 93/13/CEE, il cui art. 25 ha introdotto gli artt. 1469 bis e ss. c.c.. 21 L. n. 192/98, art. 9, così come modificato e integrato dall’art. 11 della L. n. 57/2001. 22 Art. 7, d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, attuativo della direttiva n. 2000/35/CE. 23 Sul punto v. F. Camilletti, Profili del problema dell’equilibrio contrattuale, Milano, 2004, p. 6 ss. L’A. distingue, appunto, tra giustizia di carattere commutativo, riferita alla tematica della giustizia “sinallagmatica”, ovvero alla possibilità di un intervento esterno (della legge ex

ante e del giudice ex post) volto a determinare una certa congruità fra i valori dello scambio, e giustizia di tipo procedurale, intesa come possibilità da parte del legislatore e del giudice di sanzionare eventuali asimmetrie di carattere informativo, tendenti a generare un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi. 24 Pare opportuno precisare che il riferimento è alla giustizia commutativa, ossia del singolo e concreto scambio operato dalle parti, non alla giustizia distributiva, finalizzata ad una redistribuzione della ricchezza tra i consociati in senso perequativo.

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quale fondare un controllo circa la conformità del contratto ad un modello

ideale di giusto equilibrio economico-normativo, e un conseguente controllo

ed adeguamento giudiziale delle condizioni convenute dalle parti.

Occorre, inoltre, stabilire se il supposto principio di giustizia o

equilibrio contrattuale – e di conseguente sindacabilità e modificabilità

giudiziaria dei contenuti delle private convenzioni – debba appuntarsi

sull’equilibrio economico-normativo considerato di per se stesso, ovvero in

rapporto alle circostanze del negoziato, alle condizioni dei contraenti, e alla

loro condotta nella fase precontrattuale e formativa.

Il parametro di riferimento del sindacato giudiziario di giustizia

contrattuale più consueto ed attendibile25 è il mercato26, quale luogo in cui si

incontrano domanda ed offerta, si scambiano beni e servizi economici27.

Secondo autorevole dottrina, infatti, “l’equità del contratto è la sua

aderenza al mercato, la giustizia contrattuale è la sua adeguatezza al mercato,

le prestazioni sono proporzionate se la loro misura riflette il mercato”28.

Inoltre, si aggiunge che “non può avvenire che uno scambio sia giusto

perché contraddice al mercato, o ingiusto perché collegato al mercato”29.

25 Al riguardo, occorre osservare che, se il parametro di giudizio si identificasse con un ideale modello di equilibrio contrattuale giusto, non mediato dai valori offerti (o espressi) dal mercato, né da altri criteri di ordine economico, il sindacato giudiziario risulterebbe estremamente soggettivo, se non addirittura arbitrario e difficilmente controllabile, soprattutto in riferimento ad un eventuale intervento riequilibrativo, che dovrebbe seguire all’apprezzamento negativo circa la conformità a giustizia del contratto. Sul punto, v. A. D’Angelo, op. cit., p. 165. 26 Cfr. M. Barcellona, La buona fede e il controllo giudiziale del contratto, cit., p. 306, secondo cui <<è il mercato che fa da metro allo squilibrio, e, perciò anche alla “giustizia”, alla “morale” che vengono chiaramente a fondarne la repressione>>. 27 Cfr. V. Roppo, Il contratto, cit., p. 903. 28 Così R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 26. 29 R. Sacco-G. De Nova, op. ult. cit., p. 26.

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Invero, non poche perplessità sono state manifestate da altra parte della

dottrina sull’attendibilità del mercato quale parametro valutativo, attesa la

molteplicità di fattori che possono alterarne il corretto funzionamento30.

Del resto, gli stessi Autori che individuano nel mercato il parametro per

valutare la giustizia del contratto, prendono atto della precarietà che può

presentare una tale valutazione qualora il mercato stesso non funzioni

correttamente31.

Al riguardo, si può precisare che il parametro di riferimento dovrà

essere costituito, ovviamente, da valori espressi da un mercato in cui sia

lasciata, a coloro che scambiano determinati beni, un’area di libertà in ordine

alla scelta del contraente e delle condizioni dell’operazione, altrimenti non

sarà possibile individuare condizioni di mercato dello scambio di quei

determinati beni32.

Si tratterà, poi, di stabilire - come già anticipato - se, per il nostro

ordinamento giuridico, la semplice divergenza tra i valori di mercato e le

30 Si pensi, ad esempio, alle strategie di produttori monopolisti o oligopolisti, ai cartelli, alle pratiche volte a limitare l’afflusso di beni sul mercato per mantenere alta la domanda e scarsa l’offerta, ottenendo, così, lievitazioni artificiose dei prezzi, alla disinformazione, alla propaganda disorientante. Al riguardo, v. G. Bellantuono, I contratti incompleti nel diritto e

nell’economia, Padova, 2000, p. 41; P. Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività in

contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in N. Lipari (a cura di), Trattato di diritto

privato europeo, III, II ed., Padova, 2003, p. 23 ss., il quale osserva che “il mondo reale difficilmente ed assai raramente vede il concorso di tutte quelle condizioni che, secondo il paradigma teorico, assicurano il dispiegarsi della concorrenza e, dunque, il raggiungimento di quell’equilibrio cui si lega il miglior soddisfacimento degli interessi in campo”. 31 R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 25 ss.: “La stipulazione del venditore è ingiusta se si allontana dal prezzo che si determinerebbe in un onesto mercato. Ma non sempre può esistere un <<prezzo di mercato>>, perché non esiste un mercato ove si negozino beni unici e irripetibili; perché accanto al mercato dotato di più ampia generalità esistono mercati sussidiari, cui accede un numero limitato di contraenti, e qui è naturale che i valori si alterino dato che si altera il rapporto fra domanda e offerta; perché non sempre il contratto è basato sul puro calcolo economico”. 32 A. D’Angelo, Il contratto in generale, cit., p. 175.

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condizioni contrattuali della singola operazione assuma rilevanza in sé e per

sé, ovvero costituisca un semplice indizio di un’anomalia nella formazione del

regolamento convenzionale, che necessiti, per così dire, di un

approfondimento, mediante la valutazione di condotte e circostanze ulteriori

che possano giustificare la divergenza medesima33.

Si tratta di un’indagine che si svolge attraverso una dialettica tra

l’autonomia contrattuale e i suoi limiti, senza, nel contempo, obliterare

l’esigenza di salvaguardia dei valori della stabilità nel tempo degli effetti delle

operazioni economiche e della prevedibilità degli esiti dei giudizi34.

Infatti, la possibilità di attivare un sindacato giudiziario sul contenuto

del contratto - specie se fondato sull’ingiustizia intrinseca dell’equilibrio

contrattuale e non subordinato alla ricorrenza di fattispecie attinenti alla

formazione del contratto o a definite circostanze che di esso costituiscano il

contesto, originario o sopravvenuto - consentirebbe al contraente pentito, che

volesse sottrarsi alla efficacia vincolante del contratto, di limitarsi ad

affermarne l’ingiustizia, senza specifici oneri di prova in ordine a circostanze

o condotte inerenti a definite fattispecie35.

33 La conclusione di un contratto sperequato potrebbe, infatti, dipendere da ragioni personali, motivi soggettivi, oppure da condotte non corrette - perché, ad esempio, ingannevoli, reticenti, coercitive, speculative - di una parte in pregiudizio dell’altra. 34 Sul punto v. R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 25: “Un legislatore che si impegnasse con troppo entusiasmo nella lotta per la giustizia dovrebbe offrire al contraente pentito l’impugnativa intitolata al vizio dell’ingiustizia, e ciò creerebbe un clima di incertezza incompatibile con una delle funzioni primarie del contratto, che è quella di offrire alle parti, impegnate nella programmazione della loro attività, l’appoggio che possono garantire rapporti giuridicamente certi e indiscutibili”. 35 Appare evidente come questa sorta di generale causa di pentimento si ponga in forte tensione con il dettato dell’art. 1372, comma 1, c.c., in virtù del quale il contratto “ha forza di legge tra le parti” e “non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”. L’esigenza di preservare la certezza dei rapporti giuridici e la sicurezza degli

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Va da sé, inoltre, che l’incertezza sulla stabilità degli effetti dei contratti

si ripercuoterebbe sulla valutazione da parte dei terzi circa la effettiva e stabile

consistenza patrimoniale dei contraenti e, quindi, sulla garanzia patrimoniale

generica da essi offerta, con evidenti conseguenze sulle decisioni relative alle

concessioni di credito36.

Le osservazioni formulate testimoniano la delicatezza e la complessità

del problema dell’equilibrio contrattuale, nonché della individuazione dei

rimedi contro i contratti sperequati. Esse, inoltre, impongono un’attenta ed

accurata selezione degli strumenti adeguati, da un lato, a contrastare le cause

degli squilibri e, dall’altro, a salvaguardare le suindicate esigenze di certezza e

stabilità dei rapporti, su cui si fonda la disciplina dei contratti.

Come già in precedenza evidenziato, il tema della giustizia contrattuale

non è affatto estraneo al nostro ordinamento giuridico37; al riguardo, se è vero

che non esiste un precetto generale che espressamente e specificamente

stabilisca la sindacabilità giudiziaria dell’equilibrio contrattuale e commini la

nullità del contratto ingiusto38, è pur vero che nemmeno sussiste un precetto

che esplicitamente e specificamente le escluda39.

Si impone, pertanto, una ricerca “a tutto campo” nel contesto

normativo, per verificare il fondamento positivo di ipotetiche direttive di

scambi è evidenziata da S. Gatti, L’adeguatezza fra le prestazioni nei contratti con prestazioni

corrispettive, in Riv. dir. comm., 1963, I, p. 454. 36 Secondo A. D’Angelo, op. ult. cit., p. 182, “ne risulterebbero favorite scelte astensionistiche dagli scambi”. 37 V. supra, p. 3. 38 A. Ricci, Errore sul valore e congruità dello scambio contrattuale, cit., p. 987, 994 ss.; D. Corapi, L’equilibrio delle posizioni contrattuali nei Principi Unidroit, cit., p. 23 ss; E. Navarretta, Il contratto e l’autonomia privata, in Breccia e altri, Diritto privato, I, Padova, 2003, p. 361; R. Sacco-G. De Nova, op. cit., p. 25; A. D’Angelo, op. cit., p. 190. 39 A. D’Angelo, op. cit., p. 190.

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giustizia contrattuale che legittimino un sindacato giudiziario sulle

convenzioni private, come, del resto, sembrano “suggerire” gli artt. 1322,

comma 1, e 1372 c.c.40.

A tal fine, pare opportuno prendere le mosse proprio dall’ “ambiente

codicistico”, dalla parte generale dei contratti, soffermandosi, dapprima, sulle

norme che disciplinano fattispecie analitiche (quali la rescissione, la

sopravvenienza, l’incapacità naturale, il dolo, l’errore) e, in seguito, sulle

clausole generali; ricostruire i percorsi tracciati dall’elaborazione

giurisprudenziale e dottrinale; valutare, infine, le influenze evolutive

esercitate dalla legislazione speciale, in particolar modo di derivazione

comunitaria.

40 Cfr. G. Scalfi, Corrispettività e alea nei contratti, Milano, 1960, p. 62: “La legge consente, ed in che limiti, un sindacato del giudice (che non può essere se non obiettivo) sulla corrispondenza di valore tra le prestazioni? La legge consente, e quando, alla parte pregiudicata, di reagire contro il danno cagionato dal divario tra le prestazioni?”.

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CAPITOLO II

L’AUTONOMIA CONTRATTUALE E I CONTRATTI A PRESTAZIONI

CORRISPETTIVE

Prima di addentrarci nel vivo del problema (concernente, appunto,

l’esistenza o meno nel nostro ordinamento giuridico, di un principio che

imponga o, quanto meno, salvaguardi l’equilibrio economico fra le prestazioni

cui sono tenuti i contraenti), appare, però, opportuno svolgere una indagine

sui principi che presiedono ai concetti di “autonomia contrattuale” (e ai suoi

limiti), e di “consensualità”, e ciò al fine di individuare se, e in che termini, il

rapporto di congruità nello scambio contrattuale costituisca o meno un vincolo

del rapporto negoziale; e, qualora tale vincolo sia ritenuto sussistente, se sia

nella disponibilità delle parti apporvi deroghe, e in che limiti.

Il principio di autonomia contrattuale41 , implicitamente presupposto

dall’art. 1321 c.c.42, trova la sua esplicita codificazione nel successivo art.

41 Su tale principio, v. C. M. Bianca, Diritto civile, Il contratto, cit., p. 30 ss.; V. Roppo, Il contratto, cit., p. 80 ss.; A. Somma, Autonomia privata, cit., p. 597 ss.; P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, cit., p. 229 ss.; G. Grisi, Autonomia privata, cit., p. 180 ss.; A. Di Majo, Libertà contrattuale e dintorni, in Riv. critica dir. priv., 1995, p. 9 ss.; N. Distaso, I principi giuridici fondamentali del sistema contrattuale. La libertà contrattuale e i

suoi limiti, in Giur. sist. civ. e comm., fondata da Bigiavi, vol. I, Torino, 1980, p. 38 ss.; Id., Autonomia privata e ordinamento giuridico. Il concetto di causa, ivi, vol. II, p. 717 ss.; R. Scognamiglio, Dei contratti in generale, in Commentario al codice civile, diretto da Scialoja-Branca, sub. artt. 1321-1352, Bologna-Roma, 1970, p. 2455; F. Carnelutti, Teoria generale

del diritto, Roma, 1951; F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1974; Id., Variazioni sul contratto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1970, p. 155; F. Messineo, Il contratto in genere, I, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1973; F. Galgano, Il contratto e l’autonomia contrattuale, in Dir. civ. e comm., vol. II, t. I, Le obbligazioni e i contratti, Padova, 1990, p. 121 ss.; F. Carresi, Il contenuto del

contratto, in Riv. dir. civ., I, 1963, p. 365; R. Sacco, Obbligazioni e contratti, in Trattato di

diritto privato, diretto da Rescigno, Torino, 1992; G. Gorla, Il contratto: problemi

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1322, che rimette alle parti non solo la determinazione del contenuto del

contratto 43 , ma anche la scelta del tipo contrattuale (consentendo la

stipulazione anche di contratti “atipici”), con il limite della meritevolezza

dell’interesse perseguito44.

L’autonomia contrattuale è, inoltre, trasfusa nella struttura del contratto,

in virtù dell’art. 1325 c.c., che prevede, come primo requisito necessario per la

validità del contratto stesso, l’accordo delle parti45.

Per autonomia contrattuale o libertà contrattuale46, bisogna intendere “il

potere del soggetto (concordemente con altro o altri soggetti) di affermare e

attuare interessi, o di modificare situazioni, fissandone anche la disciplina,

ossia, i presupposti e i modi”47.

fondamentali trattati con il metodo comparativo e casistica, lineamenti generali, vol. I, Milano, 1954. 42 Tale norma, infatti, dopo aver definito il contratto, da un punto di vista soggettivo, come “l’accordo di due o più parti”, richiede, affinché possa adempiere ala sua funzione di costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale, un atto di volontà. 43 Sul contenuto del contratto si veda, in particolare, F. Carresi, op. ult. cit., p. 365; A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1974. 44 V. R. Cicala, Produttività, solidarietà e autonomia privata, in Riv. dir. civ., 1972, II, p. 302; S. Pugliatti, voce Autonomia privata, in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, p. 368 ss.; R. Scognamiglio, Dei contratti in generale, cit., p. 24 ss.; M. Costanza, Meritevolezza degli

interessi ed equilibrio contrattuale, cit., p. 423 ss.; A. Di Majo, op. cit., p. 211 ss.; F. Gazzoni, Atipicità del contratto, giuridicità dei negozi e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. dir.

civ., 1978, I, p. 53 ss.. 45 Tale requisito comporta, da un punto di vista negativo, che a nessun soggetto giuridico possa essere unilateralmente imposto di aderire ad una pattuizione contrattuale. V. F. Galgano, Il contratto e l’autonomia contrattuale, cit., p. 130. 46 Secondo l’espressione comunemente adoperata dal F. Messineo, Il contratto in genere, cit., p. 40 ss., secondo il quale la libertà contrattuale è il principale equivalente giuridico della libera iniziativa economica privata. Sui rapporti tra autonomia privata e Costituzione, v., inoltre, L. Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa e titoli di credito, 1997, I, p. 1 ss.; N. Distaso, I principi giuridici fondamentali, cit., p. 38 ss.; S. Gatti, L’adeguatezza fra le prestazioni nei contratti con prestazioni corrispettive, cit., 1963, I, p. 440. 47 F. Messineo, op. ult. cit., p. 40 ss..

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Attraverso l’autonomia contrattuale, cioè, le parti selezionano gli

interessi che intendono perseguire48, e danno vita ad un regolamento avente,

tra di esse, “forza di legge” (art. 1372 c.c.)49.

Tuttavia, nel perseguimento dei propri interessi, le parti non godono di

una libertà illimitata50, in quanto l’ordinamento giuridico rivendica un proprio

controllo, attraverso “i limiti imposti dalla legge” (secondo il dettato dell’art.

1322, comma 1, c.c.) ed il giudizio di meritevolezza (di cui all’art. 1322,

comma 2, c.c.) 51.

48 Secondo F. Galgano, Il contratto e l’autonomia contrattuale, cit., p. 130, “fra i tanti modi di costituzione, regolazione o estinzione dei rapporti (in particolare: fra i modi di acquisto del diritto o di assunzione dell’obbligazione) il contratto si segnala per il ruolo che, con esso, svolge la volontà: le parti contraenti si accordano per <<costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale>>. L’effetto giuridico, costitutivo o regolatore o estintivo del rapporto, è qui prodotto dalla volontà delle parti interessate: l’acquisto della proprietà, in altre parole, è l’effetto della concorde volontà dell’alienante e dell’acquirente (del venditore e del compratore, del donante e del donatario, e così via); ed il sorgere dell’obbligazione è effetto, anch’esso, della concorde volontà del creditore e del debitore (del locatore o del locatario, del mutuante o del mutuatario, e così via)”. 49 I contraenti, pertanto, sono tenuti agli obblighi che, autonomamente e spontaneamente, si sono autoimposti e dai quali potranno liberarsi, al di fuori dell’adempimento, soltanto con un altro atto concorde di volontà con cui decidano di sciogliere il vincolo contrattuale. Sull’argomento, v. Galgano-Visintini, Degli effetti del contratto, della rappresentanza, del

contratto per persona da nominare, in Comm. al c.c., diretto da Scialoja-Branca, sub artt. 1372-1386, Bologna-Roma, 1993; F. Carresi, op. cit., p. 378; F. Messineo, op. cit., p. 48; P. Schlesinger, op. cit., p. 230, evidenzia proprio il legame intercorrente tra autonomia contrattuale e art. 1732 c.c.: “La parola <<autonomia>> - regola autodisposta dagli interessati - ben riassume il principio fondamentale per cui <<il contratto ha forza di legge tra le parti>>”. 50 In realtà, ciascuna parte incontra una prima limitazione nel volere dell’altra; da questo punto di vista, quindi, nessuna decisione può essere assunta liberamente. P. Schlesinger, L’autonomia privata, cit., p. 230, afferma che: “In tanto si perfezionerà l’accordo in quanto ciascuna delle parti si rassegnerà a contemperare il proprio interesse con quello dell’altra, fino a raggiungere un punto di equilibrio che necessariamente non rispecchia i rispettivi punti di vista iniziali e <<sovrani>>, ma solo quella mediazione che si realizza con il regolamento concordato. Ciascuna parte accetta il proprio sacrificio non già perché corrisponde ad un suo <<intento>>, bensì soltanto perché si tratta del sacrificio indispensabile affinché la controparte si induca, a sua volta, ad accettare il suo sacrificio, che per il primo costituisce, invece, il beneficio atteso”. 51 Sui limiti all’autonomia contrattuale, v. N. Distaso, op. cit., p. 37, secondo cui “l’autonomia del volere … deve attuarsi quale strumento di cooperazione per il

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Da ciò scaturisce una costante dialettica tra il piano della libertà e

quello della autorità (dialettica che, del resto, emerge dal disposto dell’art.

1322, comma 1, c.c.)52.

In tale rapporto dialettico, il ruolo dell’ordinamento giuridico è di

fissare le condizioni e i limiti, in presenza dei quali, accordi privati assumono,

per le parti, forza di legge53.

Tali limiti possono essere raggruppati in due ambiti distinti: da un lato,

si pongono tutti quelli che attengono al procedimento di formazione

dell’accordo 54 ; dall’altro, quelli che riguardano direttamente il contenuto

dell’accordo55.

raggiungimento dei fini sociali, di funzioni che abbiano una rilevanza sociale, e, come tali, meritino di essere tutelati dal diritto”; F. Santoro Passarelli, op. cit., p. 125, per il quale la volontà contrattuale “non è una volontà sovrana indipendente, essa è idonea a produrre effetti, perché un’altra volontà, questa sì sovrana, quella che si esprime nell’ordinamento giuridico, a ciò l’autorizza”; P. Schlesinger, op. cit., p. 230: “Ogni ordinamento, tuttavia, non accetta mai di assumere acriticamente il ruolo di tutore incondizionato delle private pattuizioni”. Infatti, secondo l’A., il diritto si riserva sempre una funzione di controllo e di sindacato sugli atti di autonomia, “per decidere se, quando e come, concedere <<giustiziabilità>> agli impegni assunti dai privati”. 52 Osserva F. Camilletti, op. cit., p. 17: “È noto come, insito nel concetto di libertà, sia il concetto di limite, in quanto in una collettività organizzata la potestà del volere individuale, che non incontri limitazioni nei confronti degli altri soggetti o dell’ordinamento, non può essere qualificata libertà, ma arbitrio, e come tale non può ricevere tutela giuridica”. 53 Al riguardo, v. P. Schlesinger, op. cit., p. 230: “Al contrario delle apparenze, non è la libertà contrattuale il prius ed i suoi limiti il posterius, bensì, proprio all’incontrario, il prius è costituito dalla determinazione da parte dell’ordinamento dei confini entro i quali si preferisce lasciare ai privati una effettiva discrezionalità di scelta ed il posterius è rappresentato dal concreto esercizio, entro l’ambito così tracciato, dei poteri di scelta lasciati ai singoli”. 54 Quali, ad esempio, i requisiti di forma delle dichiarazioni delle parti, la determinazione di tempi e modalità per le manifestazioni dei consensi o per la loro revoca, i vizi del volere, lo stato di bisogno, la simulazione, i doveri di informazione, gli oneri di trasparenza. 55 Tali limiti possono essere ulteriormente distinti in tre sottocategorie: illiceità dell’intesa per contrarietà ai bonos mores o all’ordine pubblico; contrarietà a specifici divieti (v., ad esempio, gli artt. 1379, 1501, 2125, 2596 c.c.); contrarietà a norme imperative, senza esplicita comminatoria di una nullità testuale. Sul punto, cfr. P. Schlesinger, op. cit., p. 231.

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Quanto osservato, ripropone il problema del rapporto tra autonomia

contrattuale ed equità, concetto, quest’ultimo, presente in diverse norme

codicistiche, con significati non del tutto coincidenti.

Talvolta, infatti, esso indica un carattere del regolamento contrattuale

(artt. 1450 e 1467, comma 3, c.c.), talaltra, l’attività valutativa discrezionale

del giudice, diretta alla specificazione della regola legale (art. 1374 c.c.),

senza chiarire, però, quali siano i criteri cui il giudice deve uniformare la

propria attività56.

Con riferimento alla reductio ad aequitatem, è incontestabile che essa

comporti creazione o restaurazione dell’equilibrio contrattuale, inteso in senso

economico57.

Ciò è a dirsi anche per l’ipotesi prevista dall’art. 1374 c.c., in cui

l’attività discrezionale deve finalizzarsi al risultato equo, cioè equilibrato58;

sotto questo profilo, essa può essere accomunata all’art. 1384 c.c., ove è il

giudice l’autore della reductio59.

Nell’ipotesi di cui all’art. 1374 c.c., dunque, l’equità del contenuto

contrattuale passa necessariamente attraverso l’attività discrezionale del

giudice. Deve rilevarsi, allora, che allorché il giudice sia chiamato ad

integrare il contratto secondo equità, debba tendere a realizzare “l’equo

contemperamento degli interessi delle parti”, cioè l’equilibrio delle

56 Sui rapporti tra autonomia contrattuale ed art. 1374 c.c., v. M. Franzoni, Buona fede ed

equità tra le fonti di integrazione del contratto, in Contratto e impresa, 1999, p. 83 ss. 57 Cass., 22 novembre 1978, n. 5458, in Foro it., 1979, I, c. 1206: “La modificazione necessaria per ricondurre ad equità il contratto rescindibile per lesione deve essere tale da rendere il valore dell’una prestazione uguale a quello dell’altra con riferimento alla data della pronuncia del giudice”; Cass., 9 ottobre 1989, n. 4023, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 944, parla di “giusto rapporto di scambio che ristabilisca l’equilibrio tra le prestazioni”. 58 In questo caso l’equilibrio è da intendersi sia in senso economico, che in senso giuridico. 59 Su questo argomento, v. infra, p. 133.

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contrapposte posizioni contrattuali, così come gli è imposto già in sede di

interpretazione dall’art. 1371 c.c.60

In sostanza, l’equità cui fa riferimento il Codice civile, sia essa prodotta

dall’iniziativa delle parti, sia essa, invece, risultato dell’attività discrezionale

del giudice, è da intendere sinonimo di equilibrio contrattuale, economico61

(riguardante, cioè, il rapporto di valore tra i vantaggi patrimoniali), e

giuridico62 (riguardante la proporzione tra diritti e doveri).

Secondo un Autore, “in ogni caso, il diritto all’equità dei rapporti

contrattuali individua una pretesa ad una valutazione che superi la mera

legalità quando essa sembri espellere dal proprio seno la giustizia”63.

Resta aperto il problema dei criteri che il giudice deve seguire per

realizzare il risultato equo o per valutare l’equità del contenuto contrattuale64.

Posto, quindi, che nel Codice il termine “equità” indica l’equilibrio

contrattuale, nonché l’attività giudiziale discrezionale talvolta chiamata a

realizzarlo, ne deriva che la discussione circa l’equità del contratto attiene

60 Cfr. M. Bessone e V. Roppo, Equità interpretativa ed economia del contratto. Osservazioni

sull’art. 1371 del codice civile, in Giur. it., 1974, IV, c. 248. Contra, S. Rodotà, Le fonti di

integrazione del contratto, Milano, 2004, p. 223, secondo cui il giudice non può adeguare il proprio giudizio ad un rapporto di proporzione tra le prestazioni, che l’art. 1371 c.c. prevede per il solo caso di oscurità del regolamento. 61 È il caso degli artt. 1384, 1450, 1467, 1474, 1657, 1709, 1733, 1736, 1755, 2225, 2233 c.c. 62 Artt. 1349, 1371, 1374 c.c. 63 Così G. Vettori,., Autonomia privata e contratto giusto, cit., p. 29. Secondo l’A., “quanto all’equità … il suo significato può identificarsi con un principio etico, con un <<criterio logico contrapposto al giudizio di diritto>>, con la valorizzazione di circostanze soggettive o oggettive che non avrebbero altrimenti rilievo nella valutazione del contratto”. 64 Sul punto, v. D. Russo, Sull’equità dei contratti, in Quaderni della Rassegna di diritto

civile diretta da Pietro Perlingieri, Napoli, 2001, p. 19: <<Se però il risultato equo, cioè equilibrato, è quello che realizza il contemperamento degli interessi delle parti, il giudizio che ad esso risultato conduce, per definirsi “d’equità”, non può punto prescindere dalla valutazione della concreta situazione in cui il contratto si inserisce e dai concreti interessi che hanno mosso i privati posto che il contratto è atto di autoregolamentazione di privati interessi>>.

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all’interrogativo sul se, come ed in che limiti è garantito un equilibrio del

contenuto contrattuale; ossia, più sinteticamente, se sia argomentabile un

generale principio di equità o equilibrio contrattuale65.

A tal fine è necessario richiamare la distinzione - già effettuata in

precedenza - nell’ambito del concetto di equilibrio contrattuale, tra equilibrio

normativo ed equilibrio economico, non senza avere effettuato, però, con

specifico riferimento a quest’ultimo, una precisazione di carattere preliminare.

Infatti, occorre considerare che la questione del rapporto di valore che

deve sussistere tra le prestazioni cui sono tenute le parti, si pone per i contratti

commutativi e non per quelli aleatori66.

Invero, sia i contratti commutativi che quelli aleatori appartengono al

genus dei contratti a prestazioni corrispettive, intendendosi, con questi ultimi,

“tutte le ipotesi in cui il contratto produce a vantaggio di una parte effetti

patrimoniali che stanno in posizione corrispettiva ad effetti patrimoniali

prodotti a vantaggio dell’altra parte”, ossia “attribuzioni patrimoniali

corrispettive, indipendentemente dal mezzo tecnico con cui vengono

realizzate” 67.

La corrispettività, pertanto, è caratterizzata dal nesso di reciprocità tra le

prestazioni o le attribuzioni patrimoniali68.

65 D. Russo, op. cit., p. 21. 66 I contratti aleatori, infatti, sembrerebbero costituire una categoria sottratta all’applicazione dei principali rimedi di carattere riequilibratorio, in virtù della loro intrinseca struttura causale, che li rende incompatibili con il concetto di giustizia contrattuale. 67 Cfr. Relazione del Ministro Guardasigilli al Re sul libro delle obbligazioni, n. 128. 68 V. F. Messineo, Contratto, in Enc. Dir., IX, Milano, 1961, p. 139; G. Scalfi, Corrispettività

e alea nei contratti, cit., p. 57 ss.; M. De Simone, Il contratto con prestazioni corrispettive, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1948, p. 48 ss.; A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, cit., p. 319 ss.

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A ben vedere, la corrispettività, così definita, coincide con la nozione,

elaborata dalla dottrina, di sinallagmaticità69, la quale si sostanzia nel “nesso

di interdipendenza tra le prestazioni”70.

Di conseguenza, la causa di tali contratti va individuata proprio

nell’esistenza e nell’esecuzione delle reciproche prestazioni, poiché solo in

questo modo viene realizzata la funzione economica e sociale del contratto

stesso, ossia il soddisfacimento dei diversi interessi dei contraenti71.

Nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, si colloca il

contratto commutativo, “nel quale la valutazione del rispettivo sacrificio, o

vantaggio, possa farsi, da ciascuna delle parti, all’atto stesso in cui il contratto

si perfeziona, sì che ciascuna sappia, in anticipo, quale entità economica il

contratto costituisca per essa”72.

69 Su tale concetto, v. G. Osti, voce Contratto in Nuovissimo digesto it., p. 491 ss.; N. Distaso, Causa e simultaneità del sinallagma funzionale nell’esecuzione dei contratti con prestazioni

corrispettive, in Giur. Cass. Civ., 1949, p. 124; S. Gatti, L’adeguatezza fra le prestazioni nei

contratti con prestazioni corrispettive, cit., p. 424 ss.; R. Nicolò, voce Attribuzione

patrimoniale, in Enc. Dir., vol. IV, Milano, 1959, p. 283 ss.; Dalmartello, Appunti in tema di

contratti reali, contratti restitutori e contratti sinallagmatici, in Riv. dir. civ., 1955, p. 816 ss.; R. Sacco, Obbligazioni e contratti, cit., p. 456 ss.; F. Messineo, Il contratto in generale, cit., p. 746 ss.; I. Birocchi, Causa e categoria generale del contratto, vol. I, Torino, 1997; N. Irti, Scambi senza accordo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, p. 347 ss.; F. Galgano, Diritto

civile e commerciale, II, in Commentario Scialoja e Branca, 1, Padova, 1999, p. 441 ss.; V. Roppo, op. cit., p. 1024; A. Cataudella, I contratti, parte generale, Torino, 1999. 70 F. Messineo, Il contratto in genere, cit., p. 749, osserva che “nel contratto con prestazioni corrispettive si stabilisce, fra le due prestazioni (e fra le due obbligazioni), un nesso speciale, che non è di mera reciprocità, ma appunto consiste nell’interdipendenza (o causalità) reciproca fra esse, per cui ciascuna parte non è tenuta alla propria prestazione, se non sia dovuta, ed effettuata, la prestazione dell’altra; l’una prestazione è il presupposto indeclinabile dell’altra”. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, nei contratti a prestazioni corrispettive, “il nesso di interdipendenza delle opposte prestazioni delle parti fa sì che ciascune delle parti è tenuta alla propria prestazione solo in quanto l’altra adempie contemporaneamente alle proprie”. In termini, cfr. Cass., 16 ottobre 1967, n. 2481, in Giust. civ. Mass., 1967, 1290; Cass., 27 marzo 1962, n. 623, in Foro it. Mass., 1962, c. 181. 71A. Cataudella, I contratti, cit., p. 319 ss.. 72 F. Messineo, Il contratto in genere, cit., p. 781.

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Al contrario, il contratto aleatorio - anch’esso species del contratto a

prestazioni corrispettive - viene definito come il contratto nel quale l’entità del

sacrificio, messa in rapporto con l’entità del vantaggio al quale ciascuna parte

si espone contraendo, non è certa né nota e quindi non valutabile all’atto della

stipulazione73.

Pertanto, mentre i contratti commutativi non implicano l’assunzione da

parte dei contraenti di alcun rischio, permettendo alle parti di valutare in

termini di quasi certezza quali saranno i risultati patrimoniali conseguenti alla

esecuzione del contratto 74 , i contratti aleatori sono caratterizzati dalla

incertezza sulla portata economica delle prestazioni delle parti75.

Da ciò discende l’esclusione dei contratti aleatori da ogni discorso

sull’equilibrio contrattuale (in senso economico), perché, identificandosi la

loro causa con il rischio, è di per sé esclusa ogni valutazione sul rapporto di

valore intercorrente tra le rispettive prestazioni76.

Del resto, tale considerazione trova piena conferma nella disciplina dei

rimedi riequilibratori previsti dal Codice civile, i quali non operano nei

confronti dei contratti aleatori, atteso che, in questi, l’eventuale sproporzione

tra le prestazioni è una conseguenza normale del contratto, voluta ed accettata

dalle parti77.

Al contrario, nei contratti commutativi le prestazioni vengono stabilite

in precedenza, come punto d’arrivo delle trattative, per cui ciascuno dei

73 F. Messineo, Il contratto in genere, cit., p. 774. 74 F. Camilletti, Profili del problema dell’equilibrio contrattuale, cit., p. 33. 75 L. Barassi, Teoria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1954, p. 289. 76 F. Camilletti, op. ult. cit., p. 37. 77 Si pensi alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.) e alla rescissione per lesione (art. 1448 c.c.).

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contraenti sa, fin dal momento della conclusione, quale sarà l’ammontare del

suo sacrificio e quale bene dovrà essergli corrisposto78.

A questo punto, pare opportuno segnalare un orientamento dottrinale

che, proponendo una netta distinzione tra onerosità e corrispettività, ritiene

che il problema della equivalenza attenga al primo concetto, più che al

secondo79.

Contrariamente all’assunto tradizionale che definisce la corrispettività

come species del genus rappresentato dalla onerosità80 , tale orientamento

colloca i due concetti su due piani autonomi e distinti: il primo, infatti,

atterrebbe al profilo della qualificazione dell’atto 81 ; il secondo, invece, a

78 V. G. Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova, 1987; G. Scalfi, Corrispettività e

alea nei contratti, cit.; A. Pino, Contratto aleatorio, contratto corrispettivo e alea, in Riv.

Trim. dir. e proc. civ., 1960. Parte della dottrina, tuttavia, precisa che anche nei contratti commutativi è presente un fattore d’incertezza economica, un certo livello di rischio: v., per tutti, A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1995, p. 663. 79 A. Pino, Il contratto con prestazioni corrispettive. Bilateralità, onerosità e corrispettività

nella teoria del contratto, Padova, 1963, p. 78 ss.: “Di equivalenza, oggettiva, soggettiva, tendenziale, si può parlare a proposito della onerosità, non della corrispettività”; l’A., ancora, ribadisce “l’estraneità rispetto al contratto con prestazioni corrispettive dei concetti di vantaggio e sacrificio patrimoniali, nonché della equivalenza (soggettiva o tendenziale) tra vantaggi e sacrifici”. G. Biscontini, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti. Il

problema della donazione mista, Napoli, 2001, p. 59 ss.: “Alla corrispettività … è estranea qualsiasi valutazione sulla proporzionalità economica o sulla equivalenza soggettiva degli effetti. La prima … attiene al profilo della onerosità, la seconda alla valutazione personale delle parti e quindi ai motivi che le hanno indotto a concludere il contratto”. 80 A. Cataudella, Bilateralità, corrispettività ed onerosità del contratto, in Studi senesi, 1968, p. 146 ss.; Id., Sul contenuto del contratto, cit., p. 319; F. Santoro Passarelli, Dottrine generali

del diritto civile, cit., p. 224 ss.; M. De Simone, Il contratto con prestazioni corrispettive, cit., p. 48 ss.; F. Messineo, Contratto, in Enc. Dir., IX, Milano, 1961, p. 129 ss. 81 V. G. Biscontini, op. cit., p. 77: “La corrispettività si pone quale elemento idoneo a distinguere i rapporti e, di conseguenza, i tipi contrattuali che, di volta in volta, nella configurazione legislativa ne postulano l’assenza o la presenza. Essa designa un modo di essere del regolamento atto ad incidere sulla qualificazione della fattispecie, rendendo possibile l’individuazione della categoria nella quale va collocato il singolo contratto”.

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quello della determinazione della disciplina da applicare, in considerazione

del regolamento in cui hanno trovato composizione gli interessi delle parti82.

Ne consegue che nel contratto con prestazioni corrispettive non deve

necessariamente essere presente l’onerosità del rapporto, in quanto la

corrispettività postula esclusivamente l’esistenza di due attribuzioni

funzionalmente collegate, sicché l’una trova giustificazione nell’altra;

pertanto, vi possono essere contratti corrispettivi non onerosi e contratti

onerosi non corrispettivi.

L’onerosità, dal suo canto, pur non richiedendo una stretta equivalenza

economica, non può essere individuata dal mero requisito formale della

semplice presenza di un sacrificio del terzo83.

In tale contesto, lo squilibrio economico tra le prestazioni dedotte in un

contratto corrispettivo, anziché determinarne la nullità, potrà incidere sul

carattere oneroso o gratuito dell’operazione, individuando la disciplina

applicabile tra le parti e rispetto ai terzi84.

Di contrario avviso è la dottrina prevalente, la quale afferma che, nei

contratti a prestazioni corrispettive, il sinallagma dà origine ad una

corrispettività economica tra le prestazioni, intesa come valutazione da parte

82 Secondo G. Biscontini, op. cit., p. 62, onerosità e gratuità sono concetti che rilevano “per delimitare la tutela accordata al terzo acquirente (artt. 2038, 1445, 534, comma 2, 2901 cod. civ.; artt. 64 e 67, n. 1, l. fall.; artt. 192 e 193 cod. pen.), i limiti di responsabilità o di garanzia tra le parti (artt. 1266, 1710, 1768, 1725, comma 2, 1681, comma 3, 1812, 797 s. cod. civ.; art. 413 cod. nav.), la disciplina dell’errore e della rilevanza dei motivi (artt. 809, 1809, 800 s. cod. civ.), i criteri di interpretazione (art. 1371 cod. civ.)”. 83 Così G. Biscontini, op. cit., p. 66. 84 Ad avviso di G. Biscontini, op. cit., p. 68, “Non si può ammettere che qualora il valore delle prestazioni sia sensibilmente diverso da quello del bene ottenuto, in difetto di un reale scambio economico, il contratto concluso sarebbe nullo qualora manchino anche la gratuità e, ove occorra, la forma. Delle due l’una: o v’è uno scambio economico reale ed allora non v’è spazio per il carattere della gratuità; o non v’è scambio economico reale ed allora l’attribuzione patrimoniale di maggior valore non potrà essere che gratuita”.

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dei contraenti del valore che ciascuna prestazione, di cui sono rispettivamente

creditori, arreca ad essi in rapporto alla diminuzione patrimoniale che essi

subiscono per effetto dell’adempimento della prestazione di cui sono

debitori85.

Ciò comporta, ai fini dell’equilibrio contrattuale, che il valore delle

prestazioni tende, sulla base della valutazione degli interessi in gioco

compiuta dai contraenti, ad essere omogeneo.

Pertanto, in linea di massima ed in attuazione del principio di cui all’art.

1322 c.c., nei contratti commutativi, il corrispettivo economico è liberamente

determinato dalle parti, con conseguente esclusione di interventi giudiziali

volti a modificare il contenuto del contratto secondo un criterio di giustizia

distributiva86.

85 S. Gatti, L’adeguatezza fra le prestazioni, cit., p. 456 ss.. Più precisamente, secondo l’A., oltre alla corrispettività economica, il sinallagma origina anche una corrispettività “immediata” (nel senso che l’utilità viene conseguita da una parte con l’esecuzione della prestazione da parte dell’altra); una “teleologica” (ciascuna parte intende procurare all’altra una attribuzione patrimoniale al fine di ottenere da questa un’attribuzione corrispondente); una “temporale” (le parti intendono conseguire i propri vantaggi patrimoniali e adempiere ai correlativi obblighi contemporaneamente). 86 V. F. Galgano, Sull’equitas delle prestazioni contrattuali, in Contratto e Impresa, 1993, p. 419 ss.; A. Riccio, Il controllo giudiziale della libertà contrattuale: l’equità correttiva, in Contratto e Impresa, 1999, p. 939 ss.; S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, cit., p. 223; M. Timoteo, Nuove regole in materia di squilibrio contrattuale: l’art. 3.10 dei Principi

UNIDROIT, in Contratto e Impresa/Europa, n. 1/1997, p. 141; R. Lanzillo, Regole del

mercato e congruità dello scambio contrattuale, cit., 1985, p. 309 ss.; F. Gazzoni, Equità e

autonomia privata, cit., p. 320 ss.; G. Marini, Ingiustizia dello scambio e lesione contrattuale, cit., 1986, p. 274 ss.; T. O. Scozzafava, Il problema dell’adeguatezza negli scambi e la

rescissione del contratto per lesione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, 1, p. 309 ss.; M. Costanza, Meritevolezza degli interessi, cit., p. 423 ss.

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CAPITOLO III

LA TUTELA DELLA PROPORZIONE FRA LE PRESTAZIONI NEL

CODICE CIVILE DEL 1942: LA RESCISSIONE; LA RISOLUZIONE

PER ECCESSIVA ONEROSITÀ SOPRAVVENUTA.

ALTRI ISTITUTI E MISURE A TUTELA DELLA PROPORZIONALITÀ

Occorre, a questo punto, indagare se l’ordinamento giuridico tuteli in

modo assoluto ed incondizionato l’assetto di interessi predisposto dalle parti,

o se, al contrario, preveda degli istituti o rimedi atti a garantire un rapporto di

proporzionalità o di equilibrio tra le prestazioni a prescindere dal volere

privato, ed eventualmente anche in contrasto con esso87.

A tal fine, pare opportuno prendere in esame preliminarmente le norme

dettate dal Codice civile in tema di rescissione88 e di risoluzione del contratto

per eccessiva onerosità sopravvenuta 89 ; norme che, per il loro carattere

87 Cfr. F. Camilletti, op. cit., p. 39: “Nei contratti commutativi, in cui ciascuna prestazione ripete la propria validità e trova la propria giustificazione nell’altra, si è in passato ampiamente controvertito […] se tra i sacrifici patrimoniali sopportati dai contraenti debba esserci un rapporto di equivalenza, per cui il valore economico di una prestazione debba essere (tendenzialmente) uguale a quello dell'altra, oppure se questa relazione di corrispondenza non sia necessaria, per essere la valutazione di congruità rimessa alla volontà dei contraenti”. 88 F. Carresi, Rescissione, Diritto civile, in Enc. Giur. Treccani, XXVI; Id., La fattispecie

della rescissione per lesione, in Studi in onore di Paolo Greco, Milano, 1965, p. 13; L. Corsaro, voce Rescissione, in Digesto disc. Priv., Sez. civ., XVI, p. 628; G. Marini, Rescissione (diritto vigente), in Enc. Dir., XXXIX, p. 966; G. Mirabelli, La rescissione del

contratto, Napoli, 1962; Id., voce Rescissione (diritto civile), in Novissimo Digesto, p. 579; G. Scalfi, Il fondamento dell’azione di rescissione, in Temi, 1949, p. 39. 89 G. Scalfi, Risoluzione del contratto I), in Enc. Giur. Treccani, XXVII; A. Pino, L’eccessiva

onerosità della prestazione, Padova, 1952; A. De Martini, Eccessiva onerosità, diminuita

utilità della controprestazione e principio di corrispettività nella dinamica del contratto, in Giur. compl. Cass. civ., 1951, III, p. 681; Id., L’eccessiva onerosità nell’esecuzione dei

contratti, Milano, 1950; M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1975.

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generale, non possono non riflettere le scelte di fondo inerenti alla portata ed

ai limiti dell’autonomia privata90.

Trattasi, infatti, di rimedi previsti dal legislatore del 1942 per far fronte

ad ipotesi in cui vi sia una alterazione del sinallagma che determini uno

squilibrio tra le prestazioni, il quale dipenda dallo stato di pericolo o dallo

stato di bisogno in cui si trovava uno dei contraenti, oppure dipenda dal

verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili successivi alla

conclusione del contratto91.

In tutti e tre i casi, elemento costitutivo della fattispecie è

l’inadeguatezza fra prestazione e controprestazione, con la differenza che,

mentre nelle ipotesi rescissorie si tratta di uno squilibrio originario, presente

già al momento della conclusione del contratto, nella ipotesi risolutoria si

tratta di inadeguatezza verificatasi successivamente alla sua conclusione, in

conseguenza di accadimenti obiettivi, imprevisti ed imprevedibili, che hanno

alterato il valore delle prestazioni92.

I casi di rescissione sono due, previsti rispettivamente dagli artt. 1447 e

1448 c.c..

Il primo contempla l’ipotesi di chi abbia assunto obbligazioni a

condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé od altri

dal pericolo attuale di un danno grave alla persona.

90 D. Russo, Sull’equità dei contratti, cit., p. 22. 91 Queste tre azioni, pur fondandosi su presupposti oggettivi e soggettivi diversi, consentono al contraente svantaggiato dal rapporto negoziale di scambio di svincolarsi dal contratto, a meno che l’altra parte non intenda ristabilire un rapporto di equità tra le prestazioni. 92 Sul diverso ambito di operatività della rescissione e della risoluzione per eccessiva onerosità, v. F. Galgano, Diritto civile e commerciale, cit., p. 439 ss..

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Si tratta di una fattispecie costituita da tre elementi, di cui due oggettivi

ed uno soggettivo.

Il primo requisito oggettivo consiste nell’assunzione, da parte di uno dei

contraenti, di obbligazioni “a condizioni inique”. A tale riguardo, va osservato

che a, differenza del successivo art. 1448 c.c. (che richiede la lesione “ultra

dimidium”), la norma in esame non fissa un limite quantitativo al di là del

quale l’obbligazione deve ritenersi iniqua, ma rimette all’interprete il compito

di dare un contenuto sostanziale alla nozione di iniquità, comunemente

individuata in una forte sperequazione fra il valore della prestazione che il

contraente in pericolo dà ed il valore della prestazione che riceve93.

Natura oggettiva ha anche il requisito dello stato di pericolo - che deve

sussistere al momento della stipulazione - per la persona del contraente, o di

un terzo e dal quale possa derivare un danno imminente94.

Sotto il profilo soggettivo, l’art. 1447 c.c., richiede che la situazione di

pericolo sia nota alla controparte che si avvantaggi dall’esecuzione del

contratto iniquo. A tale riguardo dottrina autorevole ha precisato che rileva

soltanto la effettiva conoscenza e non anche la astratta conoscibilità95.

93 Sul concetto di prestazione iniqua, v. G. Marini, Ingiustizia dello scambio e lesione

contrattuale, cit., p. 292; F. Galgano, Dir. civ. e comm., cit., p. 450 ss.; D. Calabrese, Rescissione per lesione e alienazione di pacchetto azionario strategico, in Contratto e

Impresa, 2002, p. 510 ss.. 94 V. Cass., sez. V, 14 gennaio 1987, in Giust. pen., 1988, II, p. 165 ss.., secondo cui il pericolo, al momento della stipulazione, deve essere già individuato e circoscritto, nel suo oggetto e nei suoi effetti. Si discute se lo stato di pericolo, oltre ad essere attuale, debba essere anche concreto e reale (in tal senso, F. Camilletti, op. cit., p. 72, secondo cui il pericolo deve “effettivamente sussistere in base a circostanze oggettive”), ovvero possa essere anche meramente putativo (secondo C. M. Bianca, op. cit., p. 645, “ai fini della rescissione non ha importanza che il pericolo sia reale. Anche il pericolo putativo è infatti idoneo a menomare la libertà di contrattazione del soggetto”). 95 Così F. Galgano, op. ult. cit., p. 447.

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È interessante notare che, sempre in un’ottica equitativa, la norma in

esame conferisce al giudice il potere di attribuire al contraente che subisce la

pronuncia di rescissione un equo compenso per la prestazione eseguita.

Il secondo caso, previsto dall’art. 1448 c.c., rubricato “Azione generale

di rescissione per lesione”, richiede la presenza contestuale di tre presupposti:

a) lesione obiettiva di oltre il 50%; b) stato di bisogno di una parte; c) abuso

che l’altra parte fa di tale stato, ossia la consapevolezza di approfittare dello

stato di bisogno in cui versa la controparte.

Quanto al primo presupposto, di natura oggettiva, la stessa legge indica

espressamente la misura oltre la quale il rapporto di valore tra le prestazioni è

da intendersi sproporzionato; infatti, l’azione non è ammissibile se la lesione

non eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla

parte danneggiata aveva al tempo del contratto (art. 1448, comma 2, c.c.)96.

96 In altre parole, occorre che la parte lesa abbia dato o promesso una prestazione che valga più del doppio di quella ottenuta come corrispettivo. È necessario, inoltre, che tale lesione permanga fino alla domanda di rescissione (art. 1448, comma 3, c.c.). Con riferimento a quest’ultima disposizione, la dottrina si è chiesta se possa essere applicata in via analogica anche alla precedente ipotesi di stato di pericolo. In particolare, secondo S. Gatti (op. ult. cit., p. 432 ss.), la soluzione deve essere affermativa, “stante la dimostrata fondamentale unità delle figure rescissorie. Inoltre, se la reductio ad aequitatem, adeguamento dei valori delle contrapposte attribuzioni ad opera delle parti, si applica sia all’ipotesi dell’art. 1448 che all’ipotesi dell’art. 1447, perché la condizione di cui al terzo comma dell’art. 1448 –la cui mancanza si presenta come una sorta di reductio- non dovrebbe essere richiesta per il contratto rescindibile ex art. 1447? Il fenomeno che il legislatore mostra di aver preso in considerazione è in sostanza analogo a quello della reductio ad aequitatem. Anche qui, infatti, abbiamo un adeguarsi dei valori delle prestazioni reciproche, originariamente squilibrati, ma non ad opera di un contraente, bensì per il verificarsi di eventi estranei alla sfera d’azione delle parti. Come nel caso della reductio ad aequitatem, anche ex terzo comma dell’art. 1448 l’eliminazione di uno solo dei tre requisiti ha sanato il negozio; l’inadeguatezza fra le prestazioni viene ancora una volta in primo piano, viene confermata come il vizio del negozio rescindibile”.

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L’art. 1448 c.c. richiede, quale ulteriore elemento di natura oggettiva, lo

stato di bisogno in cui deve versare il contraente iugulato97.

Lo stato di bisogno non coincide necessariamente con l’indigenza

assoluta o totale incapacità patrimoniale, potendo essere ravvisato anche nella

semplice difficoltà economica o nella contingente carenza di liquidità 98 ,

purché idonee ad incidere in modo determinante sulla libertà contrattuale della

parte99.

Come nella ipotesi di cui all’art. 1447 c.c., anche la rescissione per

lesione richiede il ricorrere di un elemento soggettivo, ossia l’approfittamento

dell’altrui stato di bisogno, presente quando sussiste la duplice

consapevolezza dello stato di bisogno dell’altro contraente e della grave

sproporzione esistente tra le reciproche prestazioni100.

97 V. S. Gatti, op. ult. cit., p. 425. 98 Cass., 6 dicembre 1988, n. 6630, in Giust. civ. Mass., 1988: “Ai fini della rescissione per lesione, lo stato di bisogno non coincide con l'indigenza, e ricorre anche nel caso di una deficienza di mezzi pecuniari che abbia costituito il concreto impulso alla stipulazione del contratto svantaggioso”. (Nella specie, lo stato di bisogno era stato desunto dall'esistenza di debiti e dalla necessità del contraente svantaggiato di vendere i propri beni per estinguerli); Cass., 5 settembre 1991, n. 9374, in Giur. it., 1992, I, 1, c. 861 ss.. 99 Cass., 24 maggio 1990, n. 4630, in Giust. civ. Mass., 1990, secondo cui: “Ai fini dell'azione di rescissione per lesione, lo stato di bisogno, di cui all'art. 1448 c.c., pur potendo consistere anche in una situazione di difficoltà economica, tuttavia non può prescindere da un nesso di strumentalità tale da incidere sulla libera determinazione del contraente, in mancanza degradandosi, nella possibilità della libera scelta dei mezzi, a quella mera esigenza della realizzazione più conveniente del fine perseguito dal contraente che è presente in ogni negozio. (Nella specie, in base all'enunciato principio la S.C. ha annullato la decisione dei giudici del merito, che avevano accolto la domanda di rescissione con riguardo ad un contratto preliminare di costituzione di una servitù di passaggio a favore di un fondo già collegato alla via pubblica, rispondente al fine di attuare un sistema di trasporti più economico, e quindi di realizzare un risparmio). 100 V. Cass., 6 dicembre 1988, n. 6630, cit.: “Ai fini della rescissione per lesione, perché sussista l'approfittamento dell'altrui stato di bisogno, non è richiesta, da parte del contraente avvantaggiato, un'attività diretta a promuovere o sollecitare la conclusione del contratto, essendo sufficiente che la conoscenza dello stato di bisogno costituisce la spinta psicologica a contrarre, desumibile anche dal contegno passivo integrato e lumeggiato dalla realizzazione effettiva del vantaggio conseguito”; Cass., 24 febbraio 1979, n. 1227, in Giust. civ. Mass.,

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In entrambi i casi, la pronuncia di rescissione libera dall’obbligo di

adempiere le prestazioni non eseguite e fa restituire quanto già adempiuto.

Da una prima lettura delle disposizioni in esame e, in particolare

dell’art. 1448 c.c., emerge il riferimento esplicito ad uno squilibrio originario

tra le prestazioni101.

Da ciò potrebbe inferirsi l’esistenza di un principio di equità, cioè di

equilibrio sinallagmatico di tipo oggettivo, la cui violazione sarebbe

sanzionata, appunto, con la rescissione, salva la realizzazione dell’equità

attraverso la reductio102.

Proprio tale possibilità (cioè di evitare la rescissione attraverso la

reductio) sarebbe riprova della ratio dell’istituto, ravvisata, dunque, nel

principio di adeguatezza o equilibrio caratterizzante i contratti con prestazioni

corrispettive103.

1979: “Ai fini della rescissione del contratto per lesione a nulla rileva che il contraente avvantaggiato abbia soltanto aderito alla pressante offerta del contraente bisognoso senza aver svolto alcuna attività più o meno maliziosa intesa a promuovere o sollecitare la stipulazione del contratto, perché ai fini dell'art. 1448 c.c., è sufficiente che egli abbia profittato della situazione - a lui nota - di menomati potere e libertà contrattuale dell'altra parte consentendo alla stipulazione di un contratto, a prestazioni fortemente sperequate, con suo consapevole vantaggio”. 101 G. Scalfi, Corrispettività e alea nei contratti, cit., p. 69, precisa che nell’ipotesi dell’art. 1447 c.c. “l’iniquità di una prestazione può emergere anche da circostanze che non comportano divario di valore”. 102 Tale rimedio ha sostituito il potere, attribuito all’acquirente di immobile, di pagare il giusto prezzo onde evitare la efficacia della sentenza di rescissione già pronunciata (art. 1534 c.c. 1865). Nella disciplina attuale, la reductio, invece, preclude la rescissione del contratto, perché fa venir meno un elemento della fattispecie complessa. Per una critica sulla reductio, in quanto rimedio rimesso alla scelta dell’approfittatore, v. L. Corsaro, voce Rescissione, cit., p. 644. Sulla natura giuridica di tale istituto, v. G. Mirabelli, La rescissione, cit., p. 586; C. M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, cit., p. 656; M. Izetta, L’equità nella giurisprudenza, in Nuova giur. civ. comm., 1986, p. 16; E. Gabrielli, Poteri del giudice ed equità del contratto, in Contratto e Impresa, 2, 1991, p. 478. 103 F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 164.

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Da tale principio parte della dottrina deduce che la rescissione sanziona

un difetto parziale della causa104.

A ben considerare, però, sia nell’ipotesi di contratto concluso in stato di

pericolo (art. 1447 c.c.) che in quella di contratto concluso in stato di bisogno

(art. 1448 c.c.), le fattispecie di rescindibilità richiedono, oltre allo squilibrio

(le “condizioni inique” nella prima e la lesione “ultra dimidium” nella

seconda), la ricorrenza di determinate circostanze (stato di pericolo di una

parte e sua conoscenza dall’altro contraente, stato di bisogno) o condotte

(approfittamento), inerenti alla fase di formazione del contratto.

Tra i suddetti elementi non v’è rapporto di alternatività, né di

subordinazione, priorità o precedenza, essendo, invece,necessaria la loro

simultanea ricorrenza nel caso concreto105.

104 F. Santoro Passarelli, op. ult. cit., p. 164, il quale afferma: “Può darsi che la causa manchi solo in parte. Per intendere questa possibilità si deve tener presente che la legge accoglie un principio di massima per i contratti, salvo gli aleatori, e specialmente per i contratti con prestazioni corrispettive, il principio dell’adeguatezza del sacrificio patrimoniale, in relazione al sacrificio della controparte o alle previsioni, secondo la valutazione della coscienza sociale. In quanto questa adeguatezza manchi, per le ragioni e nei modi dalla legge previsti, la causa è viziata”. 105 Ciò è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza: cfr. Cass. 1 marzo 1995, n. 2347 e Cass. 5 settembre 1991, n. 9374, in Il codice civile, Piacenza, 1998; Cass., 9 dicembre 1982, n. 6723, in Foro it. Mass., 1982; Cass., 6 novembre 1978, n. 5040, in Foro it. Mass., 1978; Cass., 26 aprile 1978, n. 1947, in Foro it. Mass., 1978; Cass., 5 settembre 1991, n. 9374, in Giur. it., 1992, I, 1, c. 861, secondo cui “L’azione generale di rescissione per lesione prevista dall’art. 1448 c.c., richiede la simultanea ricorrenza di tre requisiti e cioè l'eccedenza di oltre la metà della prestazione rispetto alla controprestazione, l'esistenza di uno stato di bisogno, inteso non come assoluta indigenza ma come una situazione di difficoltà economica che incide sulla libera determinazione a contrattare e funzioni cioè come motivo della accettazione della sproporzione fra le prestazioni da parte del contraente danneggiato ed, infine, l’avere il contraente avvantaggiato tratto profitto dall'altrui stato di bisogno del quale era consapevole. Fra i tre elementi predetti non intercede alcun rapporto di subordinazione od alcun ordine di priorità o precedenza, per cui riscontrata la mancanza o la mancata dimostrazione dell'esistenza di uno dei tre elementi, diviene superflua l'indagine circa la sussistenza degli altri due e l'azione di rescissione deve essere senz'altro respinta”.

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Dalla necessaria ricorrenza dei tre requisiti può ricavarsi che gli istituti

rescissori sono posti a tutela dell’autonomia privata, in linea col principio

generale della libera determinabilità del contenuto delle prestazioni; ciò

comporta che, qualora lo scambio a condizioni sperequate sia stato

liberamente voluto, non vi è spazio per alcuna impugnazione106.

Diversamente opinando, non si spiegherebbe perché il legislatore non

abbia ritenuto sufficiente la semplice esistenza di uno squilibrio oggettivo nel

valore delle prestazioni scambiate107.

Pertanto, dall’analisi del dato normativo consegnato all’art. 1448 c.c., si

desume che l’istituto della rescissione non tutela il “giusto prezzo”108.

106 Così R. Lanzillo, Regole del mercato e congruità dello scambio contrattuale, cit., p. 311. Sull’istituto della rescissione cfr. anche A. Di Majo, op. cit., p. 3, secondo cui <<la normazione codicistica è diretta in larga parte a salvaguardare il corretto esercizio della libertà negoziale. Una volta garantito questo obiettivo, non si incarica di guardare al quid actum tra le parti. I problemi del c.d. “giusto prezzo” sono ignoti alla legislazione codicistica, perchè del resto, oltre che scarsamente praticabili, contrari al principio che sono le stesse parti a contribuire a determinare il prezzo di mercato. Potrebbe richiamarsi a contrario il rimedio della rescissione dei contratti conclusi in stato di pericolo (art. 1447) o di bisogno (art. 1448), quale testimonianza della rilevanza del profilo dello “equilibrio” delle prestazioni. Ma la risposta è anche prevedibile. Anche in tali casi il rilievo dello “equilibrio” è efficacemente mediato dalla condizione soggettiva del contraente (stato di pericolo o di bisogno di cui l’altra parte ha approfittato). In definitiva, è la condizione soggettiva che si mira a garantire, perchè fonte dello squilibrio>>. 107 Per R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni contrattuali, cit., p. 311, il rimedio della rescissione è previsto “contro i contratti conclusi a condizioni inique o fortemente sperequate per valore, ma iniquità e sperequazione rilevano solo in quanto siano frutto di particolari situazioni soggettive: stato di pericolo o stato di bisogno di una delle parti, da cui l’altra abbia tratto vantaggio”. V. anche Calabrese, op. ult. cit., p. 514: “In mancanza di significative anomalie della procedura contrattuale ed in presenza dell’adeguato sostegno causale, il diritto considera di regola irrilevante lo squilibrio economico tra le prestazioni, quando sia originario e non sopravvenuto successivamente alla conclusione del contratto. La valutazione della adeguatezza fra prestazione e controprestazione, in assenza di regole volte a salvaguardare il rispetto dei principi di giustizia commutativa, va dunque in via di principio rimessa esclusivamente ai contraenti; è di loro stretta pertinenza quale espressione primaria della libertà di autodeterminazione contrattuale di cui sono depositari”. 108 Sul punto pare opportuno osservare che la generalizzazione dell’istituto in parola operata dal legislatore del 1942 ne ha determinato uno stravolgimento rispetto alla disciplina dettata dall’art. 1529 del codice Pisanelli (“Il venditore che è stato leso oltre la metà nel giusto prezzo

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Infatti, si osserva che tali prescrizioni non avrebbero utilità e senso ove

da altre norme o principi dell’ordinamento si potesse trarre la regola della

invalidità dei contenuti negoziali, o comunque, della loro sindacabilità e

modificabilità giudiziaria, in presenza di iniquità delle condizioni o di

sproporzione tra le prestazioni, pur in mancanza di ogni altra circostanza o

condotta relativa alla formazione del contratto109.

Una tale regola, infatti, assorbirebbe e soddisferebbe ogni esigenza di

protezione e di disciplina pertinente alle fattispecie previste dal regime della

rescissione, così che da questa si desume l’esclusione dal sistema del codice di

quella regola110.

Inoltre, la natura, i caratteri e il regime del rimedio, quale che ne sia il

controverso fondamento, lo distinguono da quello della nullità, al quale invece

dovrebbero attenere ragionamenti che riconducano il problema dello

squilibrio alle nozioni di “interesse meritevole di tutela”, di causa, di ordine

pubblico, suggerendo che, se per la rescissione occorrono, oltre lo squilibrio,

le circostanze e le condotte indicate dagli artt. 1447 e 1448 c.c., non potrebbe

dal solo squilibrio discendere il differente, e per certi versi più radicale111,

rimedio della nullità del contratto, in virtù di un giudizio di non meritevolezza

di un immobile, ha il diritto di chiedere la rescissione della vendita, ancorché nel contratto avesse rinunziato espressamente alla facoltà di domandare una tale rescissione, ed avesse dichiarato di donare il di più del valore”). 109 A. D’Angelo, Il contratto in generale. La buona fede,cit., p. 190. 110 S. Gatti, L’adeguatezza fra le prestazioni nei contratti con prestazioni corrispettive, cit., p. 438 ss.; T. O. Scozzafava, Il problema dell’adeguatezza della prestazione nella rescissione

per lesione, cit., p. 324 ss.; R. Lanzillo, Regole del mercato, cit.,p. 311; M. Costanza, Meritevolezza di interessi e equilibrio contrattuale, cit., p.432; V. Roppo, Il contratto, cit., p. 384. 111 Si pensi alla legittimazione, alla rilevabilità d’ufficio, alla prescrizione.

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degli interessi, o per mancanza di causa, o per contrarietà all’ordine

pubblico112.

Sempre su questo punto, un Autore ribadisce che non sarebbe sensato

supporre che la disciplina della rescissione sia compatibile con la sanzione di

nullità di squilibri contrattuali ancor più gravi, rispetto alle misure previste

dagli artt. 1447 e 1448 c.c., che sarebbero per la loro entità sanzionabili di per

se stessi, indipendentemente da ogni altro requisito inerente alle circostanze e

alle condotte relative alla fase formativa. Da un lato, infatti, l’art. 1447 c.c.,

riferendosi a “condizioni inique”, ricomprende ogni misura dello squilibrio,

dall’altro, l’art. 1448 c.c., indica nell’ultra dimidium una soglia minima,

ricomprendendo ogni maggiore sproporzione113.

Né tali indicazioni di carattere generale vengono smentite dal disposto

dell’art. 763 c.c., il quale prevede la rescissione della divisione per il solo fatto

della lesione oltre il quarto114.

Infatti, la ratio di tale previsione è specifica e attiene alla particolare

funzione del contratto volto alla conversione in porzioni concrete delle quote

astratte spettanti a ciascun condividente115.

A conferma di ciò, può risultare utile richiamare la Relazione del

Guardasigilli (n. 656), nella quale, pur riconoscendosi che “l’equilibrio tra le

112 A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, cit., p. 311; T. O. Scozzafava, op. ult. cit., p. 342 ss; G. Marini, Ingiustizia dello scambio e lesione contrattuale, cit. p. 260; B. Carpino, La

rescissione del contratto - Artt. 1447-1457, in Il Codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 2000, p. 2. 113 Così A. D’Angelo, op. ult. cit., p. 191. 114 In materia di divisione ereditaria, l’art. 763 c.c., rubricato “Rescissione per lesione”, al comma 1 prevede che “La divisione può essere rescissa quando taluno dei coeredi prova di essere stato leso oltre il quarto”. 115 R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 311 ss.. Secondo P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio

di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, p. 349, l’art. 763 c.c., invece, è espressivo di un generale principio di proporzionalità.

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prestazioni delle parti o l’equità del vantaggio conseguito da una di esse

costituisce l’ideale di una sana circolazione dei beni”, si afferma che “una

norma generale che avesse autorizzato il riesame del contenuto del contratto

per accertare l’equità o la proporzione delle prestazioni in esso dedotte,

sarebbe stata, non soltanto esorbitante, ma anche pericolosa per la sicurezza

delle contrattazioni; tanto più che avrebbe resa necessaria una valutazione

obiettiva delle situazioni contrapposte, là dove spesso, nella determinazione

dei vantaggi di ciascuna parte, operano imponderabili apprezzamenti

soggettivi, non suscettibili di un controllo adeguato”.

Si è posto, quindi, il problema di individuare il fondamento dell’istituto

rescissorio.

Alcuni autori lo ravvisano in un vizio del volere, determinato dal

bisogno116.

È stato, però, obiettato che i vizi del volere sono tipici ed, inoltre, che lo

stesso dato normativo richiede ulteriori elementi per la configurabilità della

categoria in esame117.

Inoltre, si è osservato che lo stato di pericolo e lo stato di bisogno sono

circostanze che agiscono esternamente ed oggettivamente sul contraente

116 M. Allara, Teoria generale del contratto, Torino, 1955, p. 205 ss.; G. Scalfi, Il fondamento

dell’azione di rescissione, cit., p. 43 ss., che parla di “vizio nella determinazione causale del

volere”; E. Redenti, La causa del contratto secondo il nostro codice, in Studi in onore di Cicu, II, Milano, 1951, p. 308 ss.; R. Luzzatto, La compravendita secondo il nuovo codice, Genova, 1946, p. 87 ss.; A. Montel, Della rescissione del contratto, in Commentario al codice civile, a cura di D’Amelio e Finzi, Libro delle obbligazioni, I, Firenze, 1948, p. 758 ss.; A. Giordano, Sul fondamento dell’azione di rescissione nei contratti, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1946, II, p. 677 ss.; G. Mirabelli, voce Rescissione (diritto civile), cit., p. 583; F. Carresi, La fattispecie

della rescissione per lesione, cit., p. 113 ss.. 117 V. E. Leccese, Sullo stato di bisogno, come requisito soggettivo, di natura patrimoniale,

della rescissione per lesione, in Rass. dir. civ., 2, 1987, p. 512, il quale riconduce il fondamento dell’istituto della rescissione alla violazione del principio dell’equilibrio contrattuale.

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iugulato, a differenza della violenza, la quale, identificandosi con la minaccia

proveniente dalla parte o da un terzo, ha carattere soggettivo118.

Ne consegue che “il timore provocato da una qualsiasi forza naturale

(stato di pericolo), o da una particolare situazione economica (stato di

bisogno), non può essere identificato con il timore derivante dalla minaccia di

un male ingiusto e notevole, e non si può sostenere l’esistenza di un vizio

della volontà, di violenza, in senso tecnico”119.

Del resto, a favore della diversità tra i due istituti (rescissione e

annullabilità) militano evidenti argomenti di carattere normativo.

Basti pensare ai diversi strumenti previsti dal legislatore per mantenere

in vita il contratto “viziato”.

Il contratto annullabile, infatti, può essere convalidato, ex art. 1444 c.c.,

soltanto dal contraente cui spetta l’azione di annullamento; il contratto

rescindibile, invece, può essere conservato solo mediante la riduzione ad

equità, ex art. 1450 c.c., su iniziativa del contraente contro cui è domandata la

rescissione e non è suscettibile di convalida, per espressa previsione dell’art.

1451 c.c.120.

118 S. Gatti, L’adeguatezza fra le prestazioni, cit., p. 434. 119 S. Gatti, op. ult. cit., p. 435. Sul punto v. anche G. Marini, op. cit., p. 270. 120 Secondo F. Galgano, Dir. civ. e comm., cit., p. 450 s., tale scelta legislativa “si coordina con gli interessi che le norme in materia mirano a proteggere: esse non tutelano, come si è appena rilevato, la libertà del contraente, che non potrà mai liberarsi del vincolo contrattuale per il solo fatto di avere contratto in stato di pericolo o in stato di bisogno. Proteggono solo il contraente che, versando in un tale stato, abbia contratto <<a condizioni inique>>; pongono rimedio allo squilibrio determinatosi fra le prestazioni contrattuali. Non è ammessa, perciò, la convalida del contratto rescindibile (art. 1451), come è ammessa per quello annullabile; è invece ammessa la sua riconduzione ad equità, come per il contratto soggetto a risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta”.

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Altri Autori ravvisano la ratio della rescissione nella illiceità o

immoralità dell’approfittamento dell’altrui menomata condizione121.

Secondo tale orientamento, la rescissione sanzionerebbe la violazione di

un obbligo di rispettare l’altrui sfera di interessi, che si sostanzia nei doveri di

buona fede e correttezza contrattuale (art. 1337 c.c.) e nel dovere di solidarietà

previsto dall’art. 2 della Costituzione.

Sul punto, però, si obietta che se l’approfittamento fosse stato ritenuto

dal legislatore un comportamento illecito contrastante con norme imperative,

di rango costituzionale, al contratto, in cui una parte si avvantaggia dell’altrui

situazione di pericolo o di bisogno, avrebbe dovuto essere comminata la

sanzione della nullità per illiceità, ai sensi dell’art. 1414 c.c.122.

Ancora, è stato osservato che il contratto rescindibile non presenta

alcun connotato di illiceità in senso tecnico-giuridico123, poiché il contratto

mediante il quale un contraente ottiene la prestazione, che si consenta di

121 Secondo C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 644, “la rescindibilità esprime sul piano giuridico una valutazione socialmente negativa in ordine a tale approfittamento”. Per G. Mirabelli, La rescissione del contratto, cit., p. 97 “la reale essenza del rimedio rescissorio…altro non è che la sanzione nel campo del diritto privato di un illecito o immorale comportamento di uno dei soggetti del contratto”. V., ancora, A. Candian, Contributo alla

dottrina dell’usura e della lesione, Milano, 1946, p. 61 ss.; L. Barassi, Teoria generale delle

obbligazioni, cit., p. 446 ss.; N. Distaso, Considerazioni intorno all’abuso dello stato di

bisogno e al fondamento dell’azione generale di rescissione per lesione, in Giur. cass. Civ.,

1950, III, p. 262 ss.; M. Comporti, Fondamento e natura della rescissione, in Studi senesi, 1956-1957, p. 7; L. Corsaro, voce Rescissione, cit., p. 631. Di tale orientamento riferisce anche S. Gatti, L’adeguatezza, cit., p. 436: “In una società ben regolata ogni comportamento deve essere improntato al dovere di solidarietà, perché ogni uomo nei rapporti della vita sociale, per procurarsi i beni e i servizi che gli sono necessari e per difendersi dai rischi, ha bisogno della cooperazione degli altri”. 122 Così F. Camilletti, Profili del problema dell’equilibrio contrattuale, cit., p. 76. 123 Secondo G. Mirabelli, op. ult. cit., p. 104 ss., l’atto del profittatore è immorale, ma non illecito, perché non comporta responsabilità per il risarcimento del danno, bensì provoca la rescissione del contratto; M. Prosperetti, Mercato e rescissione, in Riv. dir. comm., 1999, p. 680, definisce il comportamento del profittatore “antisociale…perché ha consentito un vantaggio percepito dalla collettività come iniquo”.

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sottrarsi allo stato di bisogno o di necessità, è lecito, avendo una funzione

socialmente utile e realizzando un interesse meritevole di tutela giuridica124.

Del resto, come già osservato per l’annullabilità, notevoli sono le

differenze di disciplina tra nullità e rescissione: il contratto nullo non è mai

sanabile ex se, potendo tutt’al più convertirsi in un’altra figura negoziale,

qualora ne possegga i requisiti di forma e di sostanza, e qualora, avuto

riguardo allo scopo perseguito dalle parti, si possa ritenere che esse lo

avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità dell’accordo originario (art.

1424 c.c.); il contratto nullo non produce effetti, nemmeno nei confronti di

terzi, mentre la rescissione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi (art.

1452 c.c.)125 ; l’azione di nullità è imprescrittibile (art. 1422 c.c.), mentre

l’azione di rescissione si prescrive nel termine di un anno126 , così come

l’eccezione (art. 1449, comma 2, c.c.).

Tali profili di disciplina inducono a ritenere che, se il legislatore avesse

considerato illecito il contratto caratterizzato da uno squilibrio tra le

prestazioni, avrebbe dettato una disciplina differente, specie con riferimento al

termine prescrizionale127.

In realtà, la rescissione fonde in sé diverse anime in una fattispecie

complessa, in cui i singoli elementi di rilevanza non possono giustificare

l’istituto senza viziare di unilateralità la prospettiva dogmatica.

È vero, infatti, che la volontà del contraente è influenzata dallo stato di

bisogno, che è necessaria la presenza e il permanere della lesione, che è

124 S. Gatti, op. ult. cit., p. 438. 125 La disposizione in esame fa salvi gli effetti della trascrizione della domanda di rescissione. 126 “Ma se il fatto costituisce reato, si applica l’ultimo comma dell’articolo 2947” (art. 1449, comma 1, c.c.). 127 F. Camilletti, op. ult. cit., p. 77.

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rilevante lo stato soggettivo del contraente avvantaggiato, ma la ricerca di una

ratio che intenda esprimere il significato dell’istituto nel sistema deve

considerare tutti questi elementi della fattispecie per trarre dal loro

collegamento la unica ed unitaria funzione128.

Per tale ragione, altra parte della dottrina ravvisa la ratio della

rescissione nella tutela indiretta della libertà contrattuale129.

Secondo tale orientamento, la rescissione disciplina il caso in cui la

menomazione dell’autonomia privata influisce sulla valutazione del rapporto

sinallagmatico, in particolare dei vantaggi patrimoniali, tanto che si parla di

vizio originario del sinallagma, e cioè, del rapporto di corrispettività130.

In tale contesto, lo squilibrio economico oggettivo, inteso come lesione

enorme determinata in base ai valori di mercato, è soltanto un indice legale, al

pari dello stato di bisogno e di pericolo, di una eccessiva disuguaglianza di

fatto tra i contraenti, la cui rilevanza è, tuttavia, subordinata all’accertamento

dello stato soggettivo della controparte131.

128 Di tale avviso è D. Russo, Sull’equità dei contratti, cit., p. 25. 129 V. C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 643, che parla di alterazione della libertà contrattuale; G. Benedetti, Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto

patrimoniale, Napoli, 1997, p. 59; N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Bari-Roma, 1998, p. 70. 130 S. Gatti, L’adeguatezza, cit., 457 ss., secondo cui il vizio causale deriva non tanto dalla sproporzione, che sembrerebbe un corollario del principio dell’equilibrio oggettivo tra le prestazioni, ma dalla inadeguatezza, vale a dire dalla non attendibilità della valutazione della corrispettività. A conferma di ciò, l’A. richiama l’esclusione del rimedio rescissorio per i contratti aleatori: “Una spiegazione logica del 4° comma dell’art. 1448 si può avere soltanto ove si riconosca a fondamento dell’istituto rescissorio l’esigenza di adeguatezza fra le contrapposte prestazioni”… “Data la variabilità della misura delle reciproche prestazioni, caratteristica essenziale di questa categoria contrattuale, non è nemmeno concepibile una valutazione comparativa delle attribuzioni reciproche”. 131 In tal senso, v. S. Gatti, op. ult. cit., p. 452; C. G. Terranova, L’eccessiva onerosità nei

contratti, in Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1995, p. 202.

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In questo modo si realizzerebbe la tutela dell’autonomia negoziale del

singolo, nel rispetto dell’analoga ed insopprimibile libertà della controparte132.

In tale ottica, il rimedio della reductio ad aequitatem mira a realizzare

un equilibrio contrattuale oggettivo quale surrogato dell’equilibrio

contrattuale soggettivo di fatto irrealizzatosi, a causa della mancanza di libertà

negoziale in uno dei contraenti133.

Alla luce di tali considerazioni, può affermarsi che l’istituto rescissorio

non sanziona l’iniquità contrattuale in sé e, pertanto, non pone alcun limite

all’autonomia privata, al cui servizio, invece, è posto134.

È chiaro, a questo punto, il collegamento con la risoluzione per

eccessiva onerosità sopravvenuta, fondata sul rispetto del rapporto

sinallagmatico, così come liberamente disegnato dalle parti135.

Tale istituto, al pari della rescissione, rappresenta un rimedio previsto

dal legislatore per ripristinare l’equilibrio contrattuale nell’ipotesi un cui si

verifichino delle “sopravvenienze” 136.

132 Da questo angolo visuale, la lesione ultra dimidium indicherebbe il margine del sacrificio che il contraente debole deve sopportare. 133 Così D. Russo, Sull’equità, cit., p. 27, secondo cui <<l’equilibrio sinallagmatico … appare requisito, richiesto a pena di rescindibilità, dei soli contratti non negoziabili che sono “tipici” in quanto individuati dalla ricorrenza di tutti gli elementi dell’art. 1448 [il quale] insomma tipizza un contratto diverso da quello normale fondato sulla uguaglianza dei contraenti … e per esso dispone un “requisito” ulteriore rispetto a quelli generali: l’equità del sinallagma>>. 134 C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 643; G. Benedetti, Il diritto comune dei contratti e degli

atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, cit., p. 59; N. Irti, L’ordine giuridico del

mercato, cit., p. 70. 135 Sui punti di contratto tra i due istituti, v. F. Galgano, op. ult. cit., p. 450 ss., il quale, dopo averne evidenziato i tratti di disciplina comuni relativi alla riconduzione ad equità, osserva che “anche gli effetti della rescissione rispetto ai terzi sono regolati (art. 1452) in modo corrispondente alla risoluzione”. 136 V. G. Casella, La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, Torino, 2002; A. Di Majo, Eccessiva onerosità sopravvenuta e reductio ad aequitatem, in Corr. giur., 1992, p. 662 ss.; Id., La nozione di equilibrio nella tematica del contratto, cit., p. 8 ss., il quale osserva che <<in pressocché tutti i sistemi giuridici (anche in quello di Common Law) non

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L’art. 1467 c.c. si applica ai rapporti contrattuali ad esecuzione

continuata o periodica, oppure ad esecuzione differita, quindi suscettibili di

essere eseguiti in tutto o in parte137.

Anche l’istituto in esame si fonda sullo squilibrio fra le prestazioni (la

“onerosità”), il quale, però, a differenza delle ipotesi rescissorie, ove è

presente ab origine, deve essere successivo rispetto al valore di scambio delle

prestazioni originariamente stabilito dai contraenti, e deve essere la

conseguenza di accadimenti straordinari e imprevedibili, come tali estranei

alla sfera del “voluto” dei paciscenti al momento della conclusione del vincolo

negoziale138.

L’onerosità, ossia lo squilibrio tra il valore economico delle prestazioni,

oltre che sopravvenuta, deve essere anche “eccessiva”, vale a dire tale da

passano inosservate le sopravvenienze, che sono tali da alterare l’equilibrio contrattuale. In Common Law si ha riguardo alla volontà delle parti. Nella dottrina francese si ricorre all’istituto della “imprevision”. Nel nostro codice si è soliti fare riferimento alla risoluzione per eccessiva onerosità (art. 1467 ss.)>>. 137 La giurisprudenza ha ampliato l’ambito di applicazione dell’art. 1467 c.c., estendendolo a tutte le ipotesi in cui, al di fuori di una predeterminazione delle parti, avvenimenti straordinari e imprevedibili ritardino, senza colpa degli obbligati, l’esecuzione del contratto, e si verifichi una alterazione del rapporto di proporzionalità tra le reciproche prestazioni. Cfr. Cass., 11 novembre 1986, n. 6584, in Nuova giur. civ. comm., 1987, I, p. 677. Una specifica applicazione dell’istituto dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, prevista dal legislatore, si può rinvenire nell’art. 1664 c.c. in tema di appalto (cfr. P. Tartaglia, Eccessiva onerosità ed

appalto, Milano, 1983; O. Cagnasso, Appalto e sopravvivenza contrattuale, Milano, 1979; D. Rubino, Dell’appalto, in Commentario del codice civile, Scialoja-Branca, sub artt. 1655-1677, Bologna-Roma, 1982). 138 Tuttavia, analogamente a quanto previsto in materia rescissoria, laddove sussistano i presupposti per l’applicabilità del rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, il legislatore accorda alla parte contro cui la risoluzione medesima è domandata di evitarla, offrendo di “modificare equamente le condizioni del contratto” (art. 1467, comma 3, c.c.). Il meccanismo della reductio è previsto anche per i contratti con obbligazioni di una sola parte, su domanda, in questo caso, del debitore (art. 1468 c.c.).

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rendere il contratto sensibilmente ingiusto per uno dei contraenti139 e non deve

rientrare nell’ “alea normale del contratto”(art. 1467, comma 2, c.c.)140.

Dal carattere straordinario ed imprevedibile degli accadimenti ex art.

1467 c.c., si ricava la irrilevanza per l’ordinamento giuridico dello squilibrio

dell’assetto negoziale stabilito dai contraenti.

Infatti, se le vicende sopravvenute fossero state previste, o fossero

anche soltanto state prevedibili dai contraenti, il rimedio non potrebbe

operare; da ciò consegue che la finalità di tale istituto non è garantire un

equilibrio oggettivo tra i valori delle prestazioni, bensì assicurare l’assetto

risultante proprio dalle pattuizioni, assetto che costituisce il parametro per

l’apprezzamento dei presupposti della risoluzione stessa141.

Quindi, se lo squilibrio è riconducibile all’ambito delle scelte delle

parti, non è rimediabile.

Inoltre, ai sensi dell’art. 1469 c.c., il rimedio non potrà operare

nemmeno se l’eccessiva onerosità inerisce all’alea pattuita142, senza che tale

139 R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni, cit., p. 311; P. Perlingieri, Equilibrio

normativo e principio di proporzionalità nei contratti, cit., p. 236, secondo cui “istituti quali la rescissione per lesione e la risoluzione per eccessiva onerosità si configurano come gli antesignani di una sia pur timida ed eccezionale necessità di evitare sproporzioni macroscopiche a favore di chi non le merita”. 140 Ci si è chiesti se lo squilibrio dovuto a fenomeni inflattivi rientrasse o meno nel concetto di alea normale. Secondo l’attuale orientamento giurisprudenziale, la svalutazione monetaria può giustificare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, qualora, ancorché non provocata da avvenimenti eccezionali, presenti caratteri di imprevedibilità e straordinarietà (Cass., 15 dicembre 1984, n. 6574, in Giust. civ., 1985, 1, p. 2794; Cass., 3 agosto 1990, n. 7833, in Giur. it., 1991, I, 1, c. 143). 141 R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 311, rileva che l’equilibrio che il regime della reductio ad

aequitatem tende a ristabilire è proprio quello originariamente convenuto dalle parti. In giurisprudenza, v. Cass., 13 luglio 1984, n. 4114, in Rep. Foro it., 1984, voce Contratto in

genere, n. 276; Cass., 9 ottobre 1989, n. 4023, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 944; Cass., 8 settembre 1998, n. 8857, in Giust. civ. Mass., 1998, 1865. 142 Il rimedio in esame non trova applicazione nemmeno nei contratti aleatori per loro natura (art. 1469 c.c.).

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norma subordini l’esclusione della risoluzione per eccessiva onerosità dei

contratti convenzionalmente aleatori alla verifica, secondo calcoli attuariali,

della congruità delle condizioni convenute rispetto all’assunzione del rischio.

In altre parole, anche lo squilibrio sopravvenuto in conseguenza di

eventi straordinari non inficia il vincolo contrattuale se le conseguenze

dell’attuazione del rapporto sperequato sono il frutto dell’originario assetto

negoziale stabilito dai contraenti. Ne consegue, necessariamente, la

insindacabilità nel merito della congruità delle pattuizioni aleatorie143.

Tale disciplina appare coerente con un regime che escluda la

sindacabilità delle condizioni pattuite dai contraenti ed incompatibili con un

regime che la prescriva144.

Quest’ultimo, infatti, non potrebbe che essere inderogabile, così che

dovrebbe escludersi la validità di una pattuizione che implicasse l’assunzione,

non remunerata da contropartite adeguate secondo criteri attuariali, del rischio

143 R. Nicolò, voce Alea, in Enc. Dir., I, Milano, 1958, p. 1024 ss.; G. Scalfi, voce Alea, in Dig. IV ed., Sez. civ., I, Torino, 1987, p. 253 ss.; U. A. Salnitro, Contratti onerosi con

prestazione incerta, Milano, 2003, p. 135 ss.; F. Delfini, Autonomia privata e rischio

contrattuale, Milano, 1999, p. 195 ss. 144 V. C. G. Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, cit., p.233: “Gli istituti in esame non si prestano né ad applicazioni finalizzate al recupero al recupero di operazioni contrattuali compromesse, né ad un potere modificativo del giudice diretto ad attuare astratti criteri di equilibrio dello scambio contrattuale, il che provocherebbe un appiattimento dell’operazione-contratto, privandola di ogni carattere di specificità e cioè del proprium della specifica operazione economica”. Secondo A. Di Majo, Nozione di equilibrio nella tematica del

contratto, cit., p. 8 ss., “si tratta dunque di preservare il mantenimento dell’equilibrio contrattuale ma nei termini inizialmente convenuti dalle parti”. L’A., inoltre, evidenzia come, in presenza di sopravvenienze, i principi di diritto contrattuale europeo vadano <<ben oltre>>. Infatti, <<nel caso di “mutamento di circostanze”, ove le parti non raggiungano un accordo per adeguare il contratto, il giudice può modificare il contratto in modo da distribuire tra le parti in maniera giusta ed equa le perdite e i vantaggi derivanti dal mutamento di circostanze (art. 6.111). Si tratta veramente di garantire un equilibrio contrattuale tale da sostituire quello eventualmente manchevole dettato dalle parti. Quasi paradossalmente si può dire che, in occasione del “mutamento di circostanze”, il contratto, in termini di equilibrio, venga ridefinito, se non altro sul piano di una equa distribuzione tra i vantaggi e le perdite>>.

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dello squilibrio eccessivo per evenienze sopravvenute, straordinarie e

imprevedibili.

Al contrario, la disciplina dell’eccessiva onerosità e l’esclusione della

sua applicazione ai contratti convenzionalmente aleatori, muovono da un

presupposto contrario145.

Gli istituti della rescissione e della risoluzione per eccessiva onerosità

denotano che non necessariamente le parti sono tenute ad elaborare un assetto

di interessi in cui le diverse prestazioni abbiano un equivalente valore

economico e che anche in presenza di prestazioni non equivalenti il contratto

concluso deve essere eseguito, in ossequio al principio “pacta sunt

servanda”146.

Ciò trova conferma nel fatto che tali istituti hanno un ambito di

applicazione limitato a fattispecie tassativamente determinate, in cui qualche

fatto abbia influito negativamente sulla formazione o sullo svolgimento del

rapporto contrattuale, conferendogli una configurazione patologica che ne

consiglia l’eliminazione147.

In particolare, con riferimento agli artt. 1447 ss. c.c., non è sufficiente

per pretendere legittimamente la rescissione del contratto la sola iniquità del

145 In tal senso, v. A. D’Angelo, op. cit., p. 200. Secondo l’A., alla luce della disciplina dettata dagli artt. 1467 ss. c.c., “non si vede come potrebbe invece ammettersi la sindacabilità di un assetto negoziale che appaia squilibrato non già in virtù dell’assunzione dei rischi di evenienze future straordinarie ed imprevedibili, ma per la ragione, assai meno meritevole di rimedio, dell’accettazione di uno squilibrio che sia già attuale al momento della stipulazione del contratto, e lo sia quindi in termini conosciuti o conoscibili, e non variabili e incerti”. 146 Qualora, infatti, la valutazione del rapporto di corrispettività sia avvenuta liberamente e l’assetto sinallagmatico non sia turbato da eventi sopravvenuti ed imprevedibili, trova applicazione, in nome della certezza del diritto, il contratto avrà efficacia di legge privata (art. 1372 c.c.). 147 G. Scalfi, Corrispettività e alea nei contratti, cit., p. 70; A. Cataudella, Sul contenuto del

contratto, cit., p. 311; G. Mirabelli, La rescissione del contratto, cit., p. 47 ss.

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regolamento o la sola lesione ultra dimidium, essendo altresì necessario che

l’alterazione dell’equilibrio patrimoniale sia dipeso da uno stato di pericolo o

di bisogno, del quale l’altra parte abbia approfittato e che abbia determinato

l’accettazione di un regolamento pregiudiziale148.

Al contrario, un’alterazione, liberamente scelta, dell’equilibrio

economico risulta accettata dall’ordinamento che si preoccupa di

salvaguardare soltanto un comportamento di correttezza e buona fede nella

materia delle trattative contrattuali149.

Analogamente, nella risoluzione per eccessiva onerosità, emerge

l’insufficienza del solo profilo economico a legittimare l’eliminazione della

vicenda contrattuale.

Invero, la disciplina della eccessiva onerosità sopravvenuta non riflette

l’esigenza di porre rimedio ad una ingiustizia particolarmente grave del

sinallagma, non ha la funzione di assicurare che il contratto sia in ogni caso

vantaggioso per le parti, bensì provvede all’inattuabilità del programma

negoziale, non imputabile alle parti150.

Inoltre, la libertà riconosciuta alle parti di estendere l’alea normale del

contratto o di trasformarlo in contratto aleatorio è ulteriore indice della

148 Tale istituto è considerato espressione dello “statuto del diritto all’approfittamento” (F. Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, Napoli, 1970, p. 56; Id., Lesione d’interesse e

annullamento del contratto, Milano, 1964, p. 91 ss.). 149 F. Lucarelli, op. ult. cit., p. 267 ss.. 150 Ossia non riferibile alla loro autoresponsabilità. Infatti, soltanto il verificarsi di un evento straordinario (cioè anormale secondo una valutazione statistica) ed imprevedibile (dall’uomo medio in base ad un giudizio ex ante in concreto), produttivo di uno squilibrio sinallagmatico eccessivo, non assorbito nell’alea normale del tipo contrattuale, determina la trasformazione dell’economia dell’affare rilevante per il diritto. Ne consegue che, in questo caso, l’esecuzione delle prestazioni non sarebbe attuazione del contratto programmato dalle parti; al contrario, l’alterazione prevedibile del sinallagma e, quindi, il non perfetto soddisfacimento dell’interesse di una parte, non assurge a problema disfunzionale del contratto.

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inesistenza di un principio di equilibrio imperativo, idoneo, cioè, ad imporsi

alle parti stesse.

In definitiva, gli istituti della rescissione e della risoluzione hanno quale

elemento comune l’esistenza di un rapporto giuridico il cui assetto economico

sarebbe stato diverso se non influenzato da determinati fatti perturbatori151.

L’ordinamento giuridico reagisce ad uno squilibrio patrimoniale delle

prestazioni soltanto se l’assetto di interessi non è stato liberamente voluto; in

tale contesto, l’inadeguatezza fra le prestazioni si pone, accanto ad elementi

eterogenei, quale requisito generale per le due forme di reazione152.

Tali conclusioni non vengono contraddette dalla previsione, nell’ambito

della disciplina di entrambi gli istituti in esame, del rimedio della reductio ad

aequitatem.

Ciò è evidente nel caso di contratto risolubile per eccessiva onerosità

sopravvenuta, in quanto con la reductio si ovvia all’alterazione tra il valore

delle prestazioni, riportando il rapporto tra queste nell’ambito dell’alea

normale, e cioè nell’ambito dell’equilibrio soggettivo153.

Infatti, in questa ipotesi, è stata effettuata dalle parti una libera

determinazione di valore; successivamente, però, il rapporto di scambio, così

151 A tale proposito pare opportuno richiamare il contributo di S. Gatti, L’adeguatezza fra le

prestazioni, cit., p. 429 ss., in cui l’A. fornisce una soluzione unitaria al problema del fondamento della rescissione e della risoluzione per eccessiva onerosità, individuandolo nella inadeguatezza soggettiva delle prestazioni. Secondo S. Gatti, “il principio che è alla base delle diverse disposizioni, e che tutte le ispira non ostante le particolarità di atteggiamenti, è il principio di soggettiva adeguatezza fra le prestazioni, portato necessario dell’autonomia privata”. 152 V. F. Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, cit., p. 58; M. Costanza, Sulla reductio ad aequitatem del contratto rescindibile, in Giust. Civ., 1979, p. 1091. 153 R. Sacco, Il contratto, in Trattato Vassalli, VI, 2, Torino, 1975, p. 1003.

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come voluto dai contraenti, si è alterato a danno di uno di essi per il

sopraggiungere di eventi straordinari ed imprevedibili.

Di conseguenza, il rimedio della reductio deve ricostruire il rapporto di

valori concordato pattiziamente, anche se alle prestazioni sia stato attribuito

un valore diverso da quello oggettivo di mercato154.

L’art. 1467 c.c., infatti, non impone al convenuto, che voglia evitare la

risoluzione, di offrire una modifica tale da ristabilire esattamente l’equilibrio

tra le rispettive posizioni esistenti al momento della conclusione del contratto;

l’offerta di modifica deve ritenersi equa se riporta il contratto in una

dimensione sinallagmatica tale che, se fosse esistita al momento della

stipulazione, la parte onerata non avrebbe avuto il diritto di domandare la

risoluzione155.

In caso di contratto rescindibile, invece, manca una attendibile

determinazione delle parti sul rapporto di scambio contrattuale, poiché quella

effettuata non è idonea a sorreggere il contratto156.

Pertanto, per la sua riconduzione ad equità si deve fare ricorso

all’equilibrio oggettivo157.

154 In altre parole, in tema di offerta di riduzione ad equità della prestazione, si tende solo ad eliminare riduttivamente la “eccessività” della sproporzione così da ricondurre il rapporto sinallagmatico entro l’alea normale e non anche ad instaurare un vero e serio equilibrio tra entrambe le rispettive prestazioni. 155 Cass., 11 gennaio 1992, n. 247, in Foro it. Rep., 1992, voce Contratto in genere, nn. 413-414. 156 S. Gatti, op. ult. cit., p. 461; F. Galgano, Dir. civ. e comm., cit., p. 450. 157 Secondo M. Prosperetti, Mercato e rescissione, cit., p. 686, il parametro di riferimento per ricondurre ad equità il contratto è rappresentato “dal valore di mercato, il quale viene a costituire il riferimento per valutare se l’offerta sia idonea a ricondurre ad equità il rapporto tra prestazione e controprestazione”. Quanto all’entità dell’integrazione della prestazione, richiesta per paralizzare il rimedio rescissorio, dottrina e giurisprudenza prevalenti ritengono che, per ridurre ad equità il contratto rescindibile, sia necessario pareggiare il valore delle prestazioni, eliminando totalmente lo squilibrio del nesso sinallagmatico, e non

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Invero, l’applicazione del principio dell’equilibrio contrattuale

oggettivo, la necessaria persistenza dello squilibrio (e non anche, ad esempio,

dello stato di bisogno) fino alla proposizione della domanda, lo stesso rimedio

della reductio, sembrerebbero testimoniare l’esistenza di un principio di

equilibrio imperativo.

In realtà, occorre ribadire che, nell’ambito della fattispecie rescissoria,

la sproporzione non rileva in sé e per sé, ma solo nel concorso degli altri

presupposti - di natura soggettiva - normativamente previsti158.

Inoltre, il richiamo all’equilibrio oggettivo soltanto in sede di reductio,

dimostra che “il legislatore, lungi dal sancire un principio contrastante con

quello della privata autonomia, ha posto l’adeguatezza oggettiva solo come

criterio suppletivo rispetto ad essa”159.

La tutela equitativa riconducibile alle norme su richiamate, pertanto,

interviene soltanto in caso di mancanza di libertà nella valutazione del

rapporto di corrispettività fra le prestazioni; al di fuori di questa ipotesi, vige il

principio pacta sunt servanda, che protegge, senza distinzioni, in nome della

semplicemente riducendolo al di sotto della metà (Cass., 8 febbraio 1983, n. 1046, in Rep. Foro it., voce Contratto in genere, n. 307; Cass., 22 novembre 1978, n. 5458, in Giust. civ., 1979, I, 1046; M. Costanza, Sulla reductio ad aequitatem del contratto rescindibile, cit., p. 1091; C. M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, cit., p. 694; R. Sacco-G. De Nova, Il

contratto, t. II, cit., p. 594). 158 Sul punto, v. M. Prosperetti, op. ult. cit., p. 685, secondo cui “è l’abuso della posizione di forza di una parte, il cui indice rivelatore è costituito dalla iniquità del contenuto del contratto che rende il contratto rescindibile”. Secondo l’A., se mancasse la consapevolezza dell’iniquità delle condizioni, ovvero se il contenuto del contratto fosse solo casualmente iniquo, “non vi sarebbe ragione di consentire la rescissione del contratto in assenza di un principio che fissi o consenta di fissare il rapporto tra le prestazioni, e quindi l’iniquità dello scambio”. 159 Così S. Gatti, op. ult. cit., p. 440. Secondo l’A., “le prestazioni di un contratto di scambio risultano bilanciate in un rapporto di adeguatezza, non di <<equilibrio>> o <<equivalenza>>, ossia un giusto rapporto di reciproca convenienza la cui valutazione è rimessa completamente alle parti”.

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certezza del diritto, pattuizioni giuste e meno giuste, e cioè, obiettivamente

equilibrate o squilibrate160.

A conclusioni non differenti conduce l’esame di altre norme

codicistiche che ineriscono al profilo economico del regolamento negoziale,

attribuendo al giudice, in alcuni casi, un potere determinativo del contenuto

contrattuale.

Gli artt. 1537 e 1538 c.c., in tema di rettifica del prezzo nella

compravendita a misura e a corpo, hanno lo scopo di evitare sperequazioni

non espressamente previste e volute.

Infatti - come ha chiarito la giurisprudenza - le azioni previste da tali

articoli presuppongono il solo fatto obiettivo che sia stata consegnata una

quantità maggiore o minore della cosa rispetto a quella pattuita161.

In buona sostanza, le norme in questione intervengono nell’ipotesi in

cui vi sia uno scarto tra misura reale del bene e quella indicata nel contratto,

ma non impongono un rapporto di necessaria equivalenza tra i valori dei beni

scambiati 162 ; infatti, le parti potrebbero legittimamente derogare alle

disposizioni stesse, atteso il loro carattere dispositivo163.

Analoghe considerazioni possono farsi per l’art. 1664 c.c., in tema di

revisione dei prezzi nell’appalto.

160 Così D. Russo, op. cit., p. 34. 161 Cass., n. 27/1975, in Foro it., 1975, I, c. 846. 162 Cass., 27 dicembre 1993, n. 12791, in Giust. civ. Mass., 1993, fasc. 12. 163 Cass., 6 giugno 1980, n. 3666, in Giust. civ. Mass., 1980, fasc. 6. Con specifico riferimento alla vendita a corpo, Cass., 26 giugno 1995, n. 7238, in Giust. civ. Mass., 1995, fasc. 6 e Cass., 9 luglio 1991, n. 7594, in Giust. civ., 1992, I, 1551, escludono la possibilità di chiedere la rettificazione del prezzo se, dall’interpretazione del contratto, risulta che le parti medesime abbiano considerato irrilevante la effettiva estensione dell’immobile, qualunque essa sia.

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Più precisamente, tale disposizione costituisce una particolare

applicazione del più ampio istituto della eccessiva onerosità, disciplinato

dall’art. 1467 c.c., riscontrandosi in entrambe le ipotesi il medesimo

fondamento giuridico, rappresentato dal turbamento dell’equilibrio di valore

tra le prestazioni, verificatosi in modo oggettivo ed imprevedibile nel corso

del rapporto contrattuale164.

La norma in esame, peraltro, è derogabile dalle parti, le quali

potrebbero escluderne la operatività mediante la pattuizione della invariabilità

del corrispettivo165.

In materia di liberalità, l’art. 809 c.c., nell’assoggettare alla disciplina

della revocazione e all’azione di riduzione le liberalità che risultano da atti

diversi dalla donazione, estendendosi anche alle implicazioni attributive

liberali di contratti corrispettivi, sembra presupporre che la validità di questi

ultimi non sia compromessa dalla non equivalenza del valore delle reciproche

prestazioni166.

Ancora, in materia di società, la legge vieta la totale esclusione di uno

dei soci dalla partecipazione agli utili o alle perdite (art. 2265 c.c.), non la

mera disparità di trattamento fra i soci, quanto a tale partecipazione; quindi,

ammette che taluno possa trarre dal contratto di società utili obiettivamente

non corrispondenti ai sacrifici che ha affrontato per la partecipazione

all’impresa.

164 Cfr. Cass., 3 novembre 1994, n. 9060, in Giust. civ. Mass., 1994, fasc. 11 e Cass., 5 febbario 1987, n. 1123, in Giust. civ. Mass., 1987, fasc. 2. 165 Cass., 23 agosto 1993, n. 8903, in Giust. civ. Mass., 1993, 1318; Cass., 14 dicembre 1989, n. 5619, in Giust. civ. Mass., 1989, fasc. 12. 166 V. Roppo, Il contratto, cit., p. 384. L’A. trae argomento anche dall’art. 67, comma 1, n. 1, l. fall., per escludere che il contratto oneroso notevolmente squilibrato possa essere invalido, essendo per esso prevista la diversa sanzione della revocabilità, che ne presuppone la validità.

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In realtà, il codice civile presume, in mancanza di diverso accordo, che

la partecipazione debba essere proporzionale al conferimento (art. 2263,

comma 1, c.c.), così come altre volte integra il contenuto del contratto in

modo che sembrerebbe orientato a realizzare un assetto di interessi equo: la

determinazione dell’oggetto del contratto da parte del terzo si presume

rimessa al suo equo apprezzamento (art. 1349, comma 1, c.c.) 167 ; il

corrispettivo della compravendita non determinato dalle parti va individuato

con riferimento ai prezzi normalmente praticati dal venditore, od ai prezzi di

borsa o di mercato (art. 1474 c.c.)168; il corrispettivo di appalto, mandato,

commissione, spedizione, mediazione, lavoro autonomo, lavoro professionale,

va determinato, nel silenzio delle parti, con riferimento alle tariffe, od agli usi,

oppure va stabilito dal giudice secondo equità (artt. 1657, 1709, 1733, 1736,

1740, comma 1, 1775, comma 2, 2225, 2233 c.c.)169.

A ben considerare, pertanto, si tratta di disposizioni che hanno uno

specifico e circoscritto ambito di applicazione e che autorizzano l’intervento

determinativo del giudice in via del tutto residuale170.

In ogni caso, resta fermo che l’ambito dell’intervento e della

discrezionalità del giudice non si estende - come confermano anche le

167 Secondo A. Musio, op. cit., p. 56, l’intento di tale norma è semplicemente quello di attribuire un valore certe della prestazione che possa garantire la sopravvivenza dell’accordo. 168 Si noti che l’art. 1474, comma 3, c.c. prevede l’ipotesi che le parti non abbiano fissato il prezzo del bene, ma si siano limitate al richiamo ad un giusto prezzo. Tale disposizione sarebbe priva di significato se il prezzo comunque dovesse essere adeguato al bene oggetto del contratto; da ciò discende la ulteriore conferma che il prezzo non deve essere necessariamente equivalente al valore del bene acquistato. 169 Sulle varie ipotesi normative, v. R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 312 ss. 170 In riferimento alle ipotesi normative sopra richiamate, osserva S. Gatti, op. ult. cit., p. 444, che “solamente quando una valutazione dell’adeguatezza ad opera delle parti manchi del tutto si attua un intervento dell’ordinamento giuridico, il quale stabilisce - in via suppletiva - che debba essere costituito un rapporto fra le prestazioni tale da risultare adeguato sulla base dell’oggettiva valutazione dei prezzi di mercato dei beni scambiati”.

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disposizioni codicistiche da ultimo richiamate - alla sindacabilità del

convenuto equilibrio economico-normativo, di per se stesso considerato,

indipendentemente dalla ricorrenza di anomalie formative o sopravvenute che,

secondo l’ordinamento giuridico, comportano la esclusione o la rimozione del

vincolo171.

Particolare attenzione merita l’art. 1349, comma 2, c.c., secondo cui “la

determinazione rimessa al mero arbitrio del terzo non si può impugnare se non

provando la sua mala fede”; non quindi per iniquità od errore, sia pur

manifesti, come previsto dal comma 1 per il caso in cui manchi la rimessione

al mero arbitrio172.

Il solo limite alla stabilità della determinazione del terzo ai sensi del

comma 2 è la sua malafede, cioè un’attuazione del suo compito

deliberatamente volta a favorire una parte, o danneggiare l’altra, o a

soddisfare un interesse comunque alieno rispetto al suo ufficio, in genere al

perseguimento di finalità illecite, riprovevoli173.

171 Secondo R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 312, “l’esigenza cui rispondono le norme integrative non è tanto quella di attribuire alla prestazione indeterminata un valore adeguato a quello della controprestazione, quanto piuttosto quella di attribuirle un valore certo, evitando l’inefficacia del contratto. Il prezzo delle merci che il venditore vende abitualmente è quello da lui normalmente praticato (art. 1474 comma 1°), anche se per avventura superiore al prezzo di mercato. Il prezzo di borsa o di listino in vigore al momento della consegna (art. 1474, comma 2°) è richiamato senza eccezione per i casi in cui peculiari circostanze (penuria o rarefazione delle merci, manovre speculative, sovrabbondanza ecc.) alterino il regolare funzionamento del mercato, determinando prezzi difformi da quelli normalmente praticati. Il compenso risultante dalle tariffe professionali o dagli usi è certamente conforme a ciò che normalmente si pratica, ma non è detto che rappresenti sempre il compenso adeguato al valore della prestazione, dal punto di vista di chi la dà o di chi la riceve”. 172 L’art. 1349 c.c. ammette, accanto alla determinazione della prestazione secondo l’arbitrium boni viri, anche quella secondo l’arbitrium merum. Sul punto, v. A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, cit., p. 340 ss.. 173 R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 135; V. Roppo, Il contratto, cit., p. 354; G. Alpa-R. Martini, Oggetto e contenuto, in Trattato di diritto privato diretto da M. Bessone, vol. XIII, t. III, p. 379; Cass., 2 febbraio 1999, n. 858, in Giust. civ. Mass., 1999, p. 229.

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Lo squilibrio che consegue alla determinazione del terzo, per suo errore

o per un suo non equo apprezzamento174, senza tuttavia essere frutto della sua

malafede, non costituisce ragione di impugnazione e non inficia il vincolo

contrattuale che risulta dalla integrazione di quella determinazione con le

pattuizioni dei contraenti.

Da tale regime si desume la validità e stabilità della pattuizione dei

contraenti che, rimettendosi al mero arbitrio del terzo, preventivamente ne

accettano la determinazione che pur produca uno squilibrio contrattuale175.

A questo punto, va osservato che, se l’ordinamento giuridico -

attraverso la disposizione appena esaminata - riconosce la validità e stabilità

di una pattuizione che solo potenzialmente può essere foriera di squilibrio, a

maggior ragione deve ritenersi che esso attribuisca la stessa forza vincolante

alla convenzione con la quale i contraenti direttamente ed attualmente

stabiliscono un assetto negoziale sperequato.

Anche dall’art. 1349, comma 2, c.c. si traggono, dunque, univoche

indicazioni che confermano la non sindacabilità dell’equilibrio contrattuale

stabilito dai contraenti, di per sé considerato, indipendentemente dalla

ricorrenza di anomalie formative o sopravvenute alle quali la legge riconduca

l’effetto di escludere o rimuovere il vincolo contrattuale.

Accanto alle ipotesi normative sopra richiamate si può collocare quella

di cui all’art. 1371 c.c.176, che prevede - qualora, nonostante l’applicazione dei

174 Secondo G. Alpa-R. Martini, op. ult. cit., l’iniquità consiste nell’ingiustificato sacrificio dell’interesse di una parte. 175 La determinazione della prestazione rimessa al mero arbitrio del terzo, infatti, ben si potrà allontanare da una stretta equivalenza economica, specie per l’adozione del corrispettivo di beni che non abbiano una valutazione corrente.

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vari criteri ermeneutici, il contratto rimanga oscuro - il ricorso

all’interpretazione integrativa, alla ricerca di una volontà astratta che possa

considerarsi come obiettivamente voluta per quel tipo di negozio, in quella

tipica situazione economico-sociale177.

In base a tale norma, ove, nei contratti a titolo oneroso, non si possa in

alcun modo stabilire la valutazione delle prestazioni compiuta dai contraenti,

occorre fare ricorso al criterio oggettivo di adeguatezza178.

Tale criterio, che rappresenta la massima oggettivazione delle

prestazioni, è doppiamente subordinato, potendo il giudice farvi ricorso

soltanto quando prima il criterio soggettivo, e poi quello oggettivo, si siano

rilevati insufficienti179.

176 Su cui v. V. Rizzo, Codice civile annotato a cura di Perlinigeri, Torino, IV, 1, p. 488 ss.; F. Lucarelli, Diritti civili e istituti privatistici, Padova, 1983, p. 263 ss.; M. Bessone e V. Roppo, Equità interpretativa ed <<economia>> del contratto. Osservazioni sull’art. 1371 del codice

civile, cit., c. 250 ss.; G. Piola, Interpretazione del contratto e regole finali (art. 1371 cod.

civ.), in Temi, 1976, p. 238. 177 E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile italiano diretto da Vassalli, Torino, 1960, p. 362; Id., Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, p. 300 ss.; G. Oppo, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio

giuridico, Bologna, 1943, p. 41 ss.; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato

italiano, Napoli, s.d., p. 711 ss.. 178 Dottrina e giurisprudenza consolidate suddividono in due gruppi le regole ermeneutiche: il primo, che comprende gli artt. da 1362 a 1365 c.c., regola l’interpretazione soggettiva del contratto, finalizzato a porre in luce la concreta volontà delle parti; il secondo (artt. da 1366 a 1370 c.c.), disciplina l’interpretazione oggettiva del contratto, con funzione suppletiva rispetto al primo, nell’ipotesi in cui residuino ambiguità ed incertezze. In dottrina, v. F. Galgano, op.

ult. cit., p. 7; C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai

contratti, Padova, 1983; G. Oppo, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio giuridico, cit.; G. Osti, voce Contratto, cit., p. 524; G. Mirabelli, Dei contratti in generale, in Comm.

Cod. civ. UTET, IV, II,2, Torino, 1980, p. 281. In giurisprudenza, v. Cass., 11 giugno 1991, n. 6610, in Dir fall., 1992, II, p. 75 ss.; Cass., 20 gennaio 1989, n. 345, in Giust. civ. Mass., 1989; Cass., 14 gennaio 1983, n. 287, in Foro it., 1983, I, c. 1273; Cass., 17 maggio 1982, n. 3040, in Foro it. mass., 1992. 179 La norma in esame, pertanto, pone nei contratti di scambio l’adeguatezza oggettiva delle prestazioni come criterio suppletivo, applicabile solamente in assenza di una chiara ed espressa previsione delle parti in merito alle reciproche attribuzioni patrimoniali. V. S. Gatti, op. ult. cit., p. 440; A. Cataudella, op. ult. cit., p. 310.

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Alla luce di tale disposizione, appare evidente come nell’intenzione,

almeno originaria, del legislatore, l’oggettivazione contrattuale180 non avrebbe

dovuto costituire uno strumento per indirizzare le scelte economiche

soggettive al fine della realizzazione di una presunta parità sociale, ma

avrebbe dovuto costituire uno strumento di supporto ai fini della applicazione

del principio di conservazione contrattuale, allorché le scelte soggettive dei

contraenti non si fossero rivelate sufficienti nella costruzione della struttura

negoziale181.

Dalle norme codicistiche esaminate finora si evince che l’ordinamento

giuridico non si preoccupa di salvaguardare l’equilibrio oggettivo delle

prestazioni182.

Ciò è confermato anche dall’art. 1174 c.c., norma di fondamentale

importanza nella disciplina delle obbligazioni in generale.

180 Sulla esistenza, nel Codice civile del 1942, di un processo di “oggettivazione dello scambio contrattuale”, v. A. Musio, La buona fede, cit., p. 51. In tal senso, secondo l’A., deporrebbe, da un lato, la scelta operata dal legislatore del ‘42 di non recepire la categoria del negozio giuridico - basata sulla esaltazione della volontà creatrice di effetti giuridici - e di spostare, conseguentemente, il fulcro del contratto dal requisito del consenso a quello della causa, onde consentire al giudice un controllo circa la funzione economico-sociale dell’atto di autonomia; dall’altro, la prevalenza della dichiarazione sulla volontà,quando la divergenza fra la prima e la seconda non fosse riconoscibile dal destinatario della dichiarazione. 181 F. Camilletti, Profili del problema, cit., p. 49. 182 Cfr. A. Musio, op. cit., p. 55: “Il legislatore si è quindi preoccupato soltanto che sussistessero i presupposti perché le parti potessero determinarsi liberamente alla conclusione dell’accordo e così ha predisposto una serie di norme (artt. 428, 1438, 1447, 1448 c.c.) con il compito di colpire quei contratti sproporzionati o iniqui in cui una parte traesse vantaggio approfittando di una situazione di debolezza della controparte. È però evidente che, in realtà, anche in tali ipotesi l’ordinamento reagisce per porre rimedio ad una mancanza di consenso o di volontà piuttosto che al mero squilibrio tra prestazioni”. L’A. prosegue, osservando che “la mera iniquità non è dunque sufficiente per giustificare una reazione dell’ordinamento essendo necessario anche un comportamento scorretto del contraente forte che approfitta della situazione di debolezza della sua controparte”.

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Secondo l’art. 1174 c.c., “la prestazione che forma oggetto della

obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve

corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore”.

L’interesse alla prestazione, pertanto, può essere, oltre che economico,

anche morale, sociale, religioso e soltanto in sua presenza il rapporto è

considerato meritevole di tutela183.

Tale interesse, in sostanza, costituisce un ulteriore elemento di giudizio

atto ad individuare in maniera più completa il perché sia stato ritenuto

conveniente un determinato assetto di interessi in cui la valutazione

economica delle prestazioni potrebbe essere estremamente favorevole ad uno

dei contraenti184.

Applicato ai contratti commutativi, il principio della non patrimonialità

dell’interesse perseguibile comporta che i contraenti, nell’apprezzamento

dell’interesse in concreto perseguito, possano tener conto anche di fattori che

si pongono al di là del mero incremento patrimoniale, e quindi valutare

l’utilità per loro delle prestazioni non solo in senso economico185.

Ciò rende meritevole di tutela, ad esempio, un contratto di

compravendita in cui una parte acquista un bene ad un prezzo anche di gran

183 E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Prolegomeni: funzione economico-sociale

dei rapporti d’obbligazione, Milano, 1953, p. 52 ss.; M. Giorgianni, L’obbligazione, Milano, 1968, p. 58 ss.; P. Rescigno, Obbligazioni (nozioni), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, p. 180 ss.; A. Di Majo, Obbligazioni e contratti, Roma, 1978, p. 101. 184 Secondo F. Carresi, Il contenuto del contratto, cit., p. 391, “i vantaggi debbono trovarsi in rapporto di subiettiva equivalenza, ma non è detto che consistano sempre in una modificazione del patrimonio del contraente, come si desume anche dalla fondamentale norma dell’art. 1174 secondo cui la prestazione può corrispondere anche ad un interesse non patrimoniale del creditore. Stando così le cose, dovranno definirsi contratti onerosi anche la transazione e il contratto d’accertamento, sebbene trattasi di contratti che non modificano latu

sensu la situazione patrimoniale preesistente”. 185 G. Marini, Ingiustizia dello scambio, cit., p. 295.

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lunga superiore al suo valore intrinseco, qualora tale bene soddisfi un

interesse morale della parte stessa186.

In buona sostanza, il legislatore ha previsto in alcune ipotesi

l’operatività di un criterio di oggettività tra il valore delle prestazioni, allorché

una o entrambe non siano state sufficientemente determinate dalle parti187; ma

tale criterio ha solo funzione integrativa dell’elemento volontaristico, in

quanto la sua funzione non è quella di attribuire alla prestazione indeterminata

un valore corrispondente a quello della controprestazione, ma quello di

“attribuire un valore certo, evitando l’inefficacia del contratto”188.

A questo punto dell’indagine, riprendendo il rapporto tra autonomia

privata e suoi limiti189, si può affermare che l’ordinamento giuridico - almeno

con riferimento alle norme codicistiche - tende a stabilizzare l’assetto di

interessi concordato dalle parti al momento della stipulazione del contratto,

rendendo così intangibile quanto da loro voluto mediante le reciproche

manifestazioni di volontà190.

Il contenuto delle prestazioni costituisce l’oggetto della volontà così

come i contraenti l’hanno palesata, ed al giudice non è permesso sostituire il

186 Al contrario, se l’interesse perseguibile fosse solo di natura patrimoniale, sarebbe difficile ammettere una relazione di scambio in cui per un contraente si realizzi uno svantaggio economico, in quanto la nozione di interesse è antitetica con quella di svantaggio. Sul punto v. F. Camilletti, Patrimonalità della prestazione e interesse del creditore, in Impresa, 2002, p. 1593 ss.. 187 Ad avviso di S. Gatti, L’adeguatezza fra le prestazioni, cit., p. 440, “il legislatore, lungi dal sancire un principio contrastante con quello della privata autonomia, ha posto l’adeguatezza oggettiva solo come criterio suppletivo rispetto ad essa”. 188 R. Lanzillo, Regole del mercato, cit., p. 313. 189 V. Cap. II. 190 F. Galgano, Diritto civile e commerciale, cit., p. 4; S. Gatti, op. utl. cit., p. 440: “L’affermazione della necessità che le prestazioni siano in rapporto di equivalenza oggettiva avrebbe colpito al cuore l’autonomia privata, il libero apprezzamento delle parti”.

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proprio criterio a quello adottato dalle parti per stabilire se lo scambio, così

come voluto e realizzato, sia economicamente equo191.

L’equilibrio oggettivo o equivalenza resta estraneo allo schema

contrattuale, cedendo il passo alla adeguatezza, ossia alle reciproca

convenienza, secondo le valutazioni soggettive delle parti 192 ; il contratto,

pertanto, è lo strumento per la realizzazione non di esigenze di giustizia

equitativa, bensì di interessi subiettivamente ritenuti rilevanti dai contraenti193.

Da questo punto di vista, è rintracciabile una continuità tra il nuovo

codice civile ed il vecchio, il quale riconosceva espressamente il carattere

soggettivo dell’adeguatezza fra le prestazioni di un contratto oneroso.

Infatti, l’art. 1101 c.c. 1865, qualificava a titolo oneroso “quel contratto

nel quale ciascuno dei contraenti intende, mediante equivalente, procurarsi un

vantaggio”, laddove, con il termine “intende”, il legislatore chiariva che la

valutazione dell’adeguatezza fra le prestazioni era lasciata all’apprezzamento

individuale della parte194.

191 S. Gatti, op. ult. cit., p. 441: “Il legislatore non verifica se la valutazione compiuta dai contraenti corrisponde a quella oggettiva del mercato; non interviene, ad es. tramite organi giudiziari o amministrativi, a controllare l’apprezzamento compiuto dai soggetti, perché questo colpirebbe l’istituto contrattuale nella sua intima essenza di mezzo giuridico per il raggiungimento di una giusta distribuzione dei beni mediante la decisione dei singoli contraenti, e porterebbe, invece, ad un regolamento d’autorità”. 192 Le parti, quindi, addivengono alla conclusione di un contratto di scambio solo se esse ritengono adeguate o equivalenti le reciproche prestazioni. Cfr. S. Gatti, op. ult. cit., p. 441: “Nei contratti con prestazioni corrispettive le parti sono libere non solo di addivenire o meno allo scambio, ma anche di determinare il rapporto fra le prestazioni, che, in presenza delle condizioni fondamentali dell’economia di mercato, è per principio accettato come adeguato dall’ordinamento”. 193 F. Denozza, Norme efficienti. L’analisi economica delle regole giuridiche, Milano, 2002, p. 134 ss.; 194 La disposizione de qua era pienamente conforme ai principi liberisti dominanti al tempo della prima codificazione italiana. In termini, S. Gatti, op. ult. cit., p. 441. Contra, R. De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, III, Milano-Messina, 1935, p. 253.

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Pertanto, a conclusione di questo prima indagine, possiamo osservare

come la normativa codicistica - almeno in linea di principio 195 - non si

preoccupa di garantire una proporzione, o congruenza, fra i valori delle

prestazioni scambiate196.

Nell’ottica del codice civile, il giusto rapporto di scambio si ritiene

essere quello che gli operatori economici hanno autonomamente stabilito197,

oppure quello che viene normalmente praticato nelle transazioni economiche

aventi il medesimo oggetto198.

195 R. Lanzillo, Regole del mercato, cit., p. 312 ss., osserva come non manchino eccezioni alla regola che vuole il legislatore indifferente al contenuto economico dell’accordo delle parti. Si pensi, ad esempio, all’art. 1339 c.c., che prevede la fissazione dei prezzi da parte dell’autorità; l’art. 36 Cost., che sottrae alla libera contrattazione la fissazione del corrispettivo alla prestazione di lavoro; la legge 27 luglio 1978, n. 392, che impone l’obbligo di rispettare un equo canone nelle locazioni di immobili urbani. 196 In dottrina è diffusa l’opinione che l’adeguatezza o equivalenza soggettiva fra le prestazioni costituisca la caratteristica della categoria dei contratti a prestazioni corrispettive: F. Messineo, voce Contratto, cit., p. 129 ss.; L. Barassi, Teoria generale delle obbligazioni, II, cit., p. 276 ss.; Greco e Cottino, Della vendita, in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, art. 1470-1457, Bologna-Roma, 1981, p. 99 ss.; Tilocca, Onerosità e gratuità, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1953, p. 65; R. Scognamiglio, Contratti in

generale, in Tratt. dir. civ. diretto da Grosso e Santoro Passarelli, IV, 2, Milano, 1977, p. 224. 197 Cfr. A. Musio, La buona fede, cit., p. 54: “L’idea di questo codice, ispirato come noto al pensiero liberistico, è dunque quella che in un’economia di mercato l’equilibrio dello scambio sia garantito dal libero accordo delle parti.” 198 Nel senso della irrilevanza della sproporzione tra le prestazioni quale requisito di validità o di efficacia del contratto, v., fra gli altri, L. Cariota Ferrara Il negozio giuridico nel diritto

privato italiano, cit., p. 227 ss.; F. Messineo, Il contratto in genere, cit., p. 749; G. Scalfi, Corrispettività e alea nei contratti, cit., p. 67 ss.; S. Gatti, op. ult. cit., p. 441 ss.; A. Cataudella, op. ult. cit., p. 303 ss.; G. Osti, voce Contratto, cit., p. 489 ss.; G. B. Ferri, Causa

e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, p. 258 ss.; C. M. Bianca, La vendita e

la permuta, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da F. Vassalli, Torino, 1972, p. 28 ss..

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CAPITOLO IV

RILEVANZA DELL’INCAPACITÁ, DEL DOLO E DELL’ERRORE NEI

CONTRATTI SPEREQUATI

Nell’ambito dei rimedi codicistici contro i contratti conclusi a

condizioni inique, parte della dottrina individua, oltre alla rescissione e alla

risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, anche l’istituto

dell’annullabilità per incapacità naturale e per vizio del consenso199.

Con riferimento alla prima, l’art. 428, comma 2, c.c. prevede

l’annullabilità del contratto concluso dall’incapace naturale, quando “per il

pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere

o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede

dell’altro contraente”200.

Pertanto, il pregiudizio dell’incapace e, quindi, lo squilibrio che lo

determina, è soltanto uno degli indici dai quali può risultare la malafede del

contraente, che è, unitamente all’incapacità, presupposto dell’annullamento.

199 G. Ghezzi, L’adeguatezza fra le prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive, in Riv.

dir. comm., 1963, I, p. 424 ss.; M. Costanza, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio

contrattuale, cit. p. 432; R. Lanzillo, Regole del mercato, cit., p. 333, secondo cui “l’interpretazione delle norme in tema di annullabilità e di rescissione del contratto potrebbe offrire un margine di manovra considerevolmente ampio per privare di effetti le pattuizioni inique, qualora l’interprete si mostrasse sensibile all’esigenza di collegare l’esplicazione dell’autonomia privata alla sussistenza dei presupposti di fatto che ne hanno motivato il riconoscimento”. 200 Sull’argomento, v. M. Giorgianni, La cosiddetta incapacità naturale nel primo libro del

nuovo cod. civ., in Riv. dir. civ., 1939, p. 408 ss.; P. Rescigno, Incapacità naturale e

adempimento, Napoli, 1950; V. Pietrobon, voce Incapacità naturale, in Enc. Giur. Treccani, XVI; E. Leccese, Incapacità naturale e teoria dell’affidamento, Napoli, 1999.

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Ne consegue che all’iniquità delle prestazioni contrattuali non è

attribuita rilevanza di autonomo elemento della fattispecie201.

Inoltre, la giurisprudenza tende ad applicare restrittivamente la norma in

esame, nel senso che - per quanto sia lesivo il contratto - esige la prova

rigorosa e specifica di un turbamento grave del processo formativo della

volontà202.

Né conduce a diverse conclusioni l’esame della fattispecie disciplinata

dall’art. 1440 c.c., relativa all’ipotesi in cui i raggiri abbiano influito, non sulla

determinazione a contrarre, ma sulle condizioni convenute203.

Infatti, il dolo è incidente se induce la vittima a promettere, in vista

della controprestazione, più di quanto convenisse204.

In sostanza, esso, riguardando l’apprezzamento dei valori delle

prestazioni oggetto del contratto e la convenienza delle condizioni pattuite,

comporta che le condizioni pattuite siano oggettivamente squilibrate, essendo

difformi da quelle che sarebbero state convenute in esito ad una genuina

trattativa, non turbata dall’inganno205.

Con riferimento a tale eventualità, l’art. 1440 c.c. prevede

espressamente la stabilità del vincolo contrattuale (“il contratto è valido”) ed

un rimedio risarcitorio.

201 Secondo M. Costanza, op. ult. cit., p. 432, l’art. 428, comma 2, c.c. richiede che alla iniquità fra le prestazioni “si accompagni pure una patologia del consenso, tale da porre su un piano di non parità volitiva gli stipulanti”. 202 Cass., 26 maggio 2000, n. 6999, in … 203 M. Mantovani, Vizi incompleti del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995, p. 282 ss. 204 V. R. Sacco-G. De Nova, op. cit., p. 573, secondo cui il dolo determinante influisce “sull’oggetto della stipulazione o della promessa”, mentre il dolo incidente “sulla misura della prestazione promessa o stipulata”. 205 F. Galgano, Diritto civile e commerciale, cit., p. 315; V. Roppo, Il contratto, cit., p., 822; C. M. Bianca, Diritto civile, Il contratto, cit., p. 667.

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In questa ipotesi, addirittura, pur in presenza di uno squilibrio

oggettivo tra le prestazioni, frutto di raggiri (e, quindi, di un anomalo processo

formativo della volontà), il legislatore ribadisce l’intangibilità del regolamento

contrattuale, prevedendo quale unico specifico rimedio il risarcimento del

danno206.

Come sopra anticipato, l’ipotesi dello squilibrio contrattuale è

ricompresa anche negli artt. 1429 e 1432 c.c.207.

Infatti, nelle ipotesi di essenzialità per le quali l’art. 1429 c.c. dispone

l’annullabilità del contratto indipendentemente dall’influenza, determinante

del consenso, che possa essere esercitata dall’ignoranza o dalla falsa

conoscenza, l’effetto di queste può consistere nell’accettazione da parte

dell’errante di condizioni economiche o normative per esso svantaggiose208.

In tale ipotesi, il rimedio della rettifica previsto dall’art. 1432 c.c. può

implicare, su proposta del contraente immune da errore, la modifica delle

condizioni convenute, così da realizzare un nuovo equilibrio contrattuale

conforme alle aspettative dell’errante209.

Nell’ambito di tale disciplina, lo squilibrio contrattuale non costituisce

elemento di alcuna fattispecie, e le ipotesi di errore essenziale non

determinante non rispondono all’esigenza di sanzionare lo squilibrio che sia il

206 In caso di dolo incidente, infatti, non è prevista alcuna forma di invalidità del contratto, né tanto meno alcun sindacato giudiziario circa la conformità delle condizioni convenute al giusto equilibrio contrattuale. 207 Carpino, La rescissione del contratto, cit., p. 4 ss.. 208 V. Roppo, op. ult. cit., p. 783 ss.; R. Sacco-G. De Nova, op. ult. cit., I, p. 383 ss.. 209 V. Roppo, op. ult. cit., p. 854.

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frutto dell’ignoranza o della falsa conoscenza, ma, piuttosto, conseguono ad

un giudizio di gravità dell’errore in ragione degli elementi su cui cade210.

A questo punto, si pongono problemi di compatibilità tra una

supposta regola generale che sanzionasse il contratto squilibrato, di per sé

considerato, consentendo il controllo giudiziario sui contenuti contrattuali e

un potere conformativo del giudice, e i rimedi dell’annullamento e della

rettifica.

Infatti, ne discenderebbero evidenti incongruenze, tra un rimedio di

carattere generale in virtù del quale la parte svantaggiata potrebbe sottrarsi

all’esecuzione del contratto, allegando la sola circostanza dello squilibrio, e

ottenerne la modifica, e un rimedio specifico di annullamento, subordinato

alla ricorrenza di un errore essenziale e riconoscibile, rispetto al quale la più

intensa protezione della rettifica sarebbe sottratta all’iniziativa della parte

svantaggiata e rimessa a quella della controparte211.

Sempre nell’ambito della impugnativa per errore, particolare attenzione

merita il problema della rilevanza dell’errore sul valore o sulla convenienza

economica212.

Per errore sul valore in senso proprio è da intendere l’errore che cada

sulla valutazione economica di una prestazione, che sia per sé chiaramente

210 R. Sacco-G. De Nova, op. ult. cit., I, p. 388 ss.. 211 Tale incompatibilità non esclude, comunque, che attraverso una estesa applicazione del requisito dell’essenzialità dell’errore, si possa porre rimedio alla iniquità delle pattuizioni. Sul punto v. R. Lanzillo, Regole del mercato, cit., p. 333. 212 Particolarmente sensibile al problema è R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 333, secondo cui la rilevanza dell’errore sul valore, attualmente negata dalla giurisprudenza, “potrebbe consentire di rimediare a taluni casi di abuso dell’inesperienza altrui”.

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identificata; non invece l’errore su aspetti, proprietà, caratteristiche della

prestazione stessa, che siano rilevanti al fine della sua valutazione213.

In una risalente pronuncia, la Suprema Corte ha affermato che “l’errore

giuridicamente efficace a rendere invalido il consenso deve essere reale e

scusabile, cioè non dovuto ad una valutazione insufficiente o non informata

alla intelligenza, avvedutezza e prudenza di grado comune, che sono sempre

necessarie alla trattazione dei propri affari”214.

In un altro caso, la Corte di Cassazione ha affermato il principio

secondo cui “l’errore sul prezzo della prestazione può dare luogo all’azione di

rescissione per lesione, ma non costituisce errore essenziale ai sensi e per gli

effetti dell’art. 1428 c.c., qualunque sia l’entità della sproporzione e non è

quindi causa di annullamento del contratto […] salvo che ridondi in errore su

una qualità essenziale della cosa”215.

Tale posizione è condivisa da una parte della dottrina favorevole

all’annullamento del contratto per errore sul valore, ove si tratti di una

conseguenza di un errore sulla qualità del bene oggetto di scambio216.

213 Così R. Lanzillo, La proporzione cit., p. 235. 214 Cass., 16 maggio 1960, n. 1177, in La vendita, a cura di M. Bin, II, Padova, 1999, p. 1082, che considera, in linea di principio, irrilevante l’errore sul prezzo, in quanto inescusabile, in base alle regole del mercato. 215 Cass., 25 marzo 1996, n. 2635, in Giur. it., I, 1, 476, con nota critica di Accornero. Nel caso di specie, l’impiegato di un’agenzia di viaggi - ricevendo da un cliente £.345.000 in pagamento di un periodo di soggiorno a Parigi di tre persone per cinque giorni (soggiorno il cui prezzo complessivo era pari a £.1.590.750) - aveva erroneamente rilasciato ai clienti una ricevuta a saldo, anziché in acconto sul maggior prezzo. La Suprema Corte ha ravvisato in questa ipotesi un errore sul valore, come tale irrilevante. In senso conforme a tale pronuncia, Cass., 2 febbraio 1998, n. 985, in I contratti, 1998, p. 437; Cass., 24 luglio 1993, n. 8290, in Giust. civ. Mass., 1993, 1227; Trib. Genova, 20 aprile 1999, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, p. 451; Corte di Appello di Roma, 23 novembre 1948, in Foro it., 1949, I, c. 991; Trib. Milano, 31 luglio 1947, in Foro it., 1948, I, c. 679. 216 A. Ricci, Errore sul valore e congruità dello scambio contrattuale, cit., p. 987 ss.; P. Gallo, Errore sul valore, giustizia contrattuale e trasferimenti ingiustificati di ricchezza alla

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In buona sostanza, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale

e dottrinale, l’errore sul valore o sul prezzo della prestazione, che abbia

determinato uno squilibrio tra le prestazioni, non è rilevante ai fini

dell’annullabilità del contratto, a meno che non rientri nell’ambito dell’errore

su una qualità essenziale della cosa217.

L’orientamento minoritario 218 , invece, distingue l’errore sul valore

dall’errore sul prezzo: il primo si riferirebbe alla valutazione di stima del bene

e del rapporto tra questo e la moneta219; il secondo, alla erronea indicazione

della stima compiuta, cioè del prezzo fissato220.

Da tale distinzione si fanno discendere conseguenze opposte.

Secondo l’orientamento dottrinale in esame, infatti, l’errore sul valore

non determina l’annullamento del contratto, in quanto fa parte del rischio che

luce dell’analisi economica del diritto, in Quadrimestre, 1992, p. 656 ss.; G. Stolfi, Teoria del

negozio giuridico, Padova, 1947, p. 140; A. Trabucchi, voce Errore (dir. civ.), in Nuovo Dig.

It., V, Torino, 1960, p. 668; F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1958, p. 84; R. Scognamiglio, Dei contratti in generale, Milano, 1972, p. 45; V. Roppo, In margine ad

un errore non essenziale, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1971, II, p. 281; R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 394. 217 Il tipico caso prospettato dalla giurisprudenza è quello del venditore che trasferisce la proprietà di un terreno verso il corrispettivo di 100 lire credendolo agricolo e poi scopre che il suo valore era 1.000 lire, in quanto edificabile. In questo caso, l’errore che rileva è quello sulla qualità esenziale dell’oggetto del contratto, come tale ricadente in una delle previsioni dell’art. 1429 c.c. L’errore sul valore, quindi, non rileva di per sé, ma soltanto quale indice o elemento che fa ritenere presente altro tipo di errore. Cfr. Cass., 5 dicembre 1974, n. 4020, in Foro it., 1975, I, c. 1791; Cass., 12 ottobre 1985, n. 4955, in Giur. it., 1986, I, 1, p. 719. 218 V. Pietrobon, L’errore nella teoria del negozio giuridico, Padova, 1963, p. 433; C. Belfiore, Sull’essenzialità dell’errore sul valore della cosa venduta, in Riv. not., 1976, p. 187; A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, cit., p. 286; E. Minervini, Errore sulla convenienza

economica del contratto e buona fede precontrattuale, in Rass. dir. civ., 1987, p. 924 ss.; C. Rossello, voce Errore nel diritto civile, in Dig. Disc. Priv. Sez. Civ., vol. VII, Torino, 1991, p. 516. 219 L’errore sul valore è quello che ricade sulla capacità del bene di essere venduto ad un prezzo invece che ad un altro, e può dipendere sia dall’ignoranza di certe caratteristiche del bene che ne determinano il valore, sia dall’ignoranza circa il prezzo corrente. 220 Trattasi del tipico caso di errore ostativo, ossia di errore sulla dichiarazione che cade sul prezzo oggetto del contratto.

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ciascun contraente sopporta ed è, quindi, irrilevante221; l’errore sul prezzo,

invece, può determinare l’annullamento del contratto, trattandosi di errore

essenziale, ai sensi dell’art. 1429, n. 1, c.c., costituendo il prezzo uno degli

oggetti del contratto.

Corollario di tale distinzione è che l’errore sul prezzo, dovendo essere

anche riconoscibile ai fini dell’annullabilità del contratto, conferisce rilevanza

giuridica alle ipotesi di notevole divergenza tra le prestazioni.

Secondo un altro Autore, la rilevanza dell’errore sul valore sarebbe da

escludere quando cada sulla valutazione economica di una prestazione che sia

chiaramente identificata, ma non quando l’errore stesso cada sugli elementi di

fatto che incidono sul valore222.

Ad ogni modo, la prospettazione della questione appena trattata, muove

necessariamente dal presupposto dell’insussistenza di un generale rimedio allo

squilibrio contrattuale, che renderebbe inutile la disputa circa la

riconducibilità della protezione della parte svantaggiata all’alveo della

disciplina dell’errore.

221 È interessante notare come la irrilevanza di questo errore derivi, secondo tali Autori, dalla inesistenza nel nostro ordinamento di un principio di necessaria equivalenza delle prestazioni, con la conseguenza che l’eventuale squilibrio economico di queste, ove non rientri in altre figure portanti all’invalidità del contratto, non ne inficia la validità. Cfr. anche Cass., 16 maggio 1960, n. 1177, in La vendita, a cura di M. Bin, 2a ed., II, Padova, 1999, p. 1093 ss.: “L’errore giuridicamente efficace a rendere invalido il consenso … deve essere reale e scusabile, cioè non dovuto ad una valutazione insufficiente o non informata alla intelligenza, avvedutezza e prudenza di grado comune, che sono sempre necessarie alla trattazione dei propri affari”. 222 R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 236. L’A. cita, quali esempi, la quantità e qualità della clientela, per valutare l’avviamento; l’entità delle scorte o delle esposizioni debitorie, quanto alla valutazione di un’azienda o di una società; l’edificabilità o meno del terreno a cui il prezzo si riferisce; la capacità estrattiva di una cava. “Tuttavia - prosegue l’A. - non sempre la giurisprudenza mostra di percepire la distinzione. Accade che veri e propri errori sul prezzo siano ritenuti rilevanti, e che viceversa errori attinenti ai presupposti di fatti di una data valutazione, addirittura all’identità della prestazione, vengano ritenuti irrilevanti quali errori sulla valutazione economica, avallando operazioni inique”.

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Infatti, è stato osservato223 che ove si neghi la rilevanza dell’errore sul

valore o sulla convenienza economica, precludendo al contraente caduto in

errore di ottenere l’annullamento del contratto, occorre a fortiori escludere

che il vincolo possa essere rimosso a ragione della sola oggettiva sussistenza

di uno squilibrio economico-normativo, consapevolmente accettato dalla parte

pregiudicata, immune da errore224.

Se, al contrario, si ammettesse la rilevanza di un tale errore, si finirebbe

per attrarre l’ipotesi di squilibrio nell’ambito della disciplina ex artt. 1428 ss.

c.c., con la conseguenza, inaccettabile, di assumere la coesistenza di due

regole che implichino entrambe la rimozione del vincolo del contratto

squilibrato, l’una subordinatamente alla sola oggettiva sussistenza dello

squilibrio, l’altra subordinatamente, oltre che a quest’ultima, anche

all’ulteriore presupposto dell’errore sul valore o sulla convenienza

economica225.

223 A. D’Angelo, op. cit., p. 198. 224 A tale proposito, pare opportuno osservare che la Suprema Corte, nella succitata sent. n. 2635/1996, in relazione alla domanda di pagamento di parte del prezzo mancante a titolo di ingiustificato arricchimento, ha affermato che “la figura dell’indebito arricchimento non sussiste, allorquando l’eventuale squilibrio economico dipenda dalla volontà degli interessati, legittimamente espressa nell’esercizio della loro autonomia negoziale, a mezzo di libero contratto”. 225 A. D’Angelo, op. cit., p. 198.

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PARTE SECONDA

L’EQUILIBRIO CONTRATTUALE NELLA GIURISPRUDENZA

CAPITOLO V

DISTINZIONE TRA PREZZO “VILE” E PREZZO “SIMBOLICO”

Dall’indagine fin qui svolta è emerso che il legislatore, in ossequio al

principio di autonomia contrattuale che domina in tema di formazione del

contratto, si disinteressa della pura e semplice sproporzione obiettiva

originaria tra prezzo e valore, intervenendo solo se la lesione sia ultra

dimidium e se ad essa si unisca l’estremo soggettivo dello stato di bisogno di

una parte, del quale l’altra abbia approfittato per trarne vantaggio (art. 1448,

commi 1 e 2, c.c.).

La tendenza maggiormente seguita dalla giurisprudenza, in seno alle

ipotesi di obiettivo squilibrio tra le prestazioni, è di distinguere il caso di

pattuizione di un prezzo puramente simbolico da quello di pattuizione di un

prezzo vile226.

226 Al riguardo, cfr. S. Tolone, L’ordine della Legge ed il mercato. La congruità nello scambio

contrattuale, Torino, 2003, p. 165 ss.. In caso di mancata pattuizione del prezzo, la giurisprudenza non ha mai esitato a dichiarare la nullità del contratto di scambio. Cfr. Cass., 15 novembre 1967, n. 2742, in Giust. civ. Mass., 1967, p. 1432: “Devono considerarsi nulli, per mancanza di valida causa, la convenzione o l’accordo con il quale semplicemente si attribuisce ad un determinato soggetto la proprietà di un immobile senza che risulti dalla convenzione stessa il titolo specifico che qualifichi il negozio (come donazione, vendita, permuta, ecc.). Pur non essendo richiesta l’espressa o precisa definizione del negozio, è sempre necessario che la convenzione chiarisca gli elementi essenziali e, quindi, la causa del medesimo, sicché esso possa, secondo la volontà delle parti, attribuirsi ad un determinato

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Infatti, nell’ipotesi di pattuizione di un prezzo vile, in assenza di vizi del

volere e dei presupposti per l’esercizio dell’azione di rescissione per lesione,

la giurisprudenza, prendendo atto della libertà che ai contraenti è assegnata

nella determinazione del rapporto tra le prestazioni, ha ritenuto sussistente la

causa del contratto di compravendita.

Il requisito causale è soddisfatto anche se lo scambio è caratterizzato da

una grave sproporzione tra il prezzo ed il valore corrente della cosa venduta,

poiché ciascuno è libero di contrattare a condizioni a sé svantaggiose e

vantaggiose per la controparte227.

schema, con la propria causa e possa essere facilitato il controllo della liceità o illiceità delle attribuzioni patrimoniali”; Trib. Napoli, 2 marzo 1965, in Foro pad., 1966, I, c. 108: “Qualora la cessione di un diritto avvenga senza la indicazione del prezzo e senza la manifestazione dello spirito di liberalità, il negozio è privo di causa”. Con specifico riferimento alla compravendita, assunto quale paradigma dell’intera categoria, v. App. Napoli, 19 maggio 1956, in Giust. civ. Mass. App., 1956, p. 171: “Il prezzo è requisito essenziale per l’esistenza di una compravendita; se esso manca nel contratto né viene determinato nelle forme prevedute dalla legge (art. 1473 c.c.), si è in presenza di una nullità assoluta, onde il negozio è giuridicamente inesistente e l’azione diretta alla dichiarazione relativa può farsi valere da chiunque vi abbia interesse e può essere altresì rilevata d’ufficio dal giudice”; App. Lecce, 31 gennaio 1957, in Giust. civ. Mass. App., 1957, p. 13: “La mancata determinazione di uno dei due elementi del contratto di compravendita -cosa o prezzo- importa l’inesistenza del contratto stesso”; Trib. Messina, 18 agosto 1961, in Giust. sic., 1962, p. 68: “In tema di compravendita può parlarsi di mancanza di causa se nessun prezzo è voluto dalle parti”; per la giurisprudenza di legittimità, v. Cass., 18 maggio 1966, n. 1282, in Giust. civ. Mass., 1966, p. 732. 227 In ordine alla nozione di valore o prezzo di mercato del bene, pare opportuno richiamare le osservazioni di A. Calisse, Prezzo vile e prezzo simbolico nella compravendita, in I contratti, n. 1/1994, p. 39: “Il mercato … in quanto punto di incontro della domanda e dell’offerta, può determinare due nozioni di prezzo: la prima <<oggettiva>>, quale valore medio di numerose transazioni in un determinato mercato, tende a coincidere con il cosiddetto valore normale o venale del bene; la seconda <<soggettiva>>, quale esito della singola trattativa tra i contraenti, rappresenta la somma, massima e minima, che rispettivamente il compratore è disposto a versare ed il venditore ad accettare. In questa seconda accezione è valore di mercato anche il prezzo, sia pur sproporzionato rispetto al valore normale, che viene convenuto per l’acquisto di un determinato bene per motivi affettivi o morali, ovvero in vista del perseguimento di un fine ulteriore, o infine determinato dallo stato di bisogno o dall’intento di liberalità”. L’A. conclude sul punto osservando che “quando la volontà delle parti si è formata liberamente (quindi in assenza di qualsiasi coartazione, stato di bisogno od approfittamento) non dovrebbe rilevare in alcun modo la non corrispondenza tra il prezzo pattuito e valore del bene”.

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Significative e puntuali al riguardo sono le seguenti decisioni:

“Se il prezzo è elemento essenziale della compravendita, ne è

indifferente, sotto il profilo dell’essenzialità, l’ammontare, che può essere

rilevante solo ai fini di una eventuale azione di rescissione del negozio per

lesione. Sotto altro profilo la eccessiva tenuità del prezzo può costituire

elemento atto a fare ritenere una eventuale simulazione della vendita”228.

“Nella compravendita l’effettiva corrispondenza tra il valore della cosa

e l’ammontare del prezzo riguarda solo i contraenti, disinteressandosi

l’ordinamento giuridico della pura e semplice sproporzione obiettiva tra

prezzo e valore”229.

“Non esiste nello schema negoziale del contratto di compravendita un

principio generale di adeguatezza del prezzo al valore della cosa, la cui

determinazione resta riservata all’autonomia privata ed ai motivi soggettivi

delle parti. Di conseguenza, accertata l’esistenza in concreto della causa del

negozio (astrattamente prevista dalla legge per ogni contratto tipico),

l’indagine del giudice non può estendersi alla valutazione economica della

congruità del prezzo che - ove esista, ancorché sproporzionato - concretizza

l’ipotesi causale della compravendita”230.

Diversa soluzione adotta la giurisprudenza, invece, nell’ipotesi in cui il

prezzo convenuto sia puramente simbolico:

228 Cass., 16 luglio 1963, n. 1945, in Giust. civ. Mass., 1963, p. 918. 229 Cass., 6 ottobre 1955, n. 2861, in Giust. civ. Mass., 1955, p. 1062; App. Napoli, 30 gennaio 1956, in Giust. civ. Mass. app., 1956, p. 22. 230 Trib. Roma, 15 febbraio 1963, in Temi romana, 1964, II, p. 367, con nota di Lemme, Osservazioni sulla vendita con prezzo irrisorio e in Foro it. Rep., 1964, voce Vendita, n. 35.

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“La mancanza del prezzo o la pattuizione di un prezzo simbolico

rendono priva di causa la compravendita”231.

“In tema di prezzo non può ritenersi inesistente quello che sia

semplicemente tenue, vile o irrisorio. Solo la indicazione di un prezzo

assolutamente privo di valore, epperò meramente apparente e simbolico, può

elevarsi a causa di nullità della compravendita per difetto di uno dei suoi

requisiti essenziali”232.

Dalle pronunce richiamate emerge che, fino ad un passato non troppo

remoto, era invalsa la tendenza a tracciare - in materia di compravendita - una

netta linea di demarcazione tra pattuizioni recanti l’indicazione di un prezzo

simbolico, ossia del tutto privo di valore economico, e statuizioni

contemplanti un prezzo irrisorio (o vile), ossia manifestamente inadeguato

rispetto al valore della res compravenduta, anche se non sprovvisto di una sua

valenza patrimoniale.

In ordine alle stipulazioni del primo tipo, la giurisprudenza concludeva

nel senso della nullità per difetto dell’elemento causale.

A diversa conclusione si addiveniva in relazione a quelle appartenenti al

secondo genere, argomentando dal principio dell’indifferenza

dell’ordinamento giuridico alle manifestazioni di autonomia privata e dalla

conseguente inammissibilità di un controllo giudiziale in ordine alla

rispondenza valoristica tra prezzo e res alienata.

231 App. Roma, 18 febbraio 1965, in Foro pad., 1965, I, c. 862. 232 Cass., 24 febbraio 1968, n. 632, in Giust. civ., 1968, I, p. 1475.

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Alla stregua di tale orientamento, dominante fino all’inizio degli anni

’80 del secolo scorso, la giurisprudenza esprimeva il controllo causale sulla

misura del corrispettivo con riguardo ad una soglia minima.

Tale orientamento pone necessariamente un quesito: quando, per la

giurisprudenza, un prezzo è meramente simbolico ed è, quindi, un “non

prezzo”? 233.

La soluzione a tale quesito consente, infatti, di acquisire un elemento

importante per valutare il grado di utilizzazione, da parte della giurisprudenza,

della causa del contratto, come strumento atto a far sì che lo sviluppo della

circolazione dei beni, tutelato dal legislatore, incontri un limite qualitativo

nella funzione economico-sociale che l’atto di scambio deve realizzare.

Dalla indagine giurisprudenziale, emerge innanzitutto una esigenza di

certezza, al fine di evitare un controllo giurisdizionale sulla determinazione

del prezzo, che limiti ed invada l’autonomia delle parti.

Ciò è particolarmente evidente in quelle pronunce che hanno ritenuto

sussistere l’ipotesi di prezzo simbolico nei soli ed esclusivi casi di vendita

nummo uno, e cioè di vendita per una unità monetaria234: “Purché il prezzo ci

sia e sia effettivamente pagato non è consentito al giudice indagare perché sia

233 Sul prezzo simbolico, v. L. Costantino, Il prezzo simbolico. Profili privatistici, in Contratto

e Impresa, 2001, p. 1199 ss.. 234 Secondo F. Camilletti, Profili del problema, cit., p. 117, <<la vendita, così come tutti i contratti commutativi, per essere valida ed efficace deve prevedere l’esistenza di “effettive” obbligazioni a carico di entrambi i contraenti; con la conseguenza che, quando viene pattuito per il trasferimento in proprietà del bene un prezzo che sia di entità tale da non poter essere qualificato come corrispettivo, il contratto deve ritenersi nullo per mancanza di uno dei suoi elementi essenziali. Fatto questo che non solo priva la vendita di una delle sue prestazioni determinando il venir meno dell’oggetto dell’obbligazione del compratore, ma soprattutto la rende priva di causa in quanto l’accordo negoziale, così come voluto dai paciscenti, non realizza più lo schema del trasferimento in proprietà di un bene a fronte del pagamento del suo prezzo. È questa l’ipotesi della cosiddetta vendita “nummo uno”>>.

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stato pagato quel prezzo, né se quel prezzo sia proporzionato o meno al valore

della cosa, poiché, si ripete ancora una volta, tutto ciò attiene ai motivi e non

alla causa del negozio. Soltanto quando il prezzo manchi del tutto si verserà

nella ipotesi della mancanza di causa. Ed ecco la questione. Quando può dirsi

che il prezzo manchi del tutto? In prima ipotesi quando il prezzo non sia vero,

cioè soltanto indicato, ma non pagato o voluto. In seconda ipotesi, in

riferimento alla serietà del prezzo, soltanto quando tale non serietà possa

essere valutata con un criterio assolutamente obiettivo. Ma ciò può avvenire,

evidentemente, solo nel caso in cui il prezzo abbia un valore puramente

simbolico, come nell’ipotesi di vendita nummo uno. L’espressione nummus

unus deve considerarsi però nel suo stretto significato letterale, come prezzo

rappresentato da un’unità monetaria, una lira, un centesimo. Nummus unus,

una lira non hanno valore intrinseco, ma esclusivamente un valore simbolico,

obiettivamente rilevabile, per cui può effettivamente dirsi che il prezzo non

assolva la sua funzione e quindi sia un non prezzo”235.

235 Così Trib. Roma, 15 febbraio 1963, in Temi romana, 1964, p. 367, che ritenne valida la vendita a lire 1.000 al mq. di una striscia di terreno il cui valore si diceva fosse di lire 33.000 al mq.; confermata da App. Roma, 18 febbraio 1965, in Foro pad., 1965, I, c. 862. In dottrina, A. Calisse, Prezzo vile e prezzo simbolico nella compravendita, cit., p. 39, individua il discrimen tra prezzo irrisorio (comunque frutto del libero accordo) e prezzo simbolico (dunque fittizio) nel criterio del “valore intrinseco”: <<Prezzo vile è dunque quello che pur discostandosi notevolmente dal valore di mercato conserva comunque il carattere di onerosità. Prezzo simbolico è nummo uno: l’entità numeraria minima nel contesto in cui si deve attuare il negozio, l’unità di base del sistema monetario nazionale, ovvero il taglio minimo di carta moneta avente corso legale, in definitiva quella somma di denaro che non è corrispettivo di nulla o quasi>>.

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CAPITOLO VI

EVOLUZIONE SUCCESSIVA VERSO LA “OGGETTIVAZIONE

CONTRATTUALE”

In pronunce successive si riscontra il venir meno del riferimento

esplicito al nummus unus, sicché si intravede la possibilità, per il giudice, di

fruire di una certa autonomia circa la valutazione del carattere meramente

simbolico del prezzo pattuito.

In particolare, la S.C. afferma che: “Allorquando la sproporzione … urti

in modo assolutamente stridente con la valutazione di equivalenza fatta

secondo i criteri del comune commercio, si fa luogo ad una duplice

alternativa, in quanto: si ha motivo di ritenere che le parti non abbiano affatto

voluto vendere; nel qual caso ricorre l’ipotesi di una donazione dissimulata; o

si ha invece motivo di ritenere che le parti, contestualmente alla vendita,

abbiano voluto conseguire il risultato di un arricchimento del compratore, pari

alla differenza fra il valore della cosa ed il prezzo pattuito; nel qual caso si

versa in un’ipotesi che, comunque sia qualificata (donazione indiretta,

negotium mixtum cum donatione, rinuncia donativa, ecc.) rientra nella

previsione e nella disciplina di quelle liberalità diverse dalla donazione vera e

propria”236.

236 Cass., 24 febbraio 1968, n. 632, cit.

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In questa pronuncia, a ben vedere, lo squilibrio tra le prestazioni viene

considerato come una sorta di elemento rivelatore di una figura contrattuale

diversa dalla compravendita237.

La giurisprudenza iniziò, quindi, ad attribuire rilievo alla ricorrenza di

un prezzo meramente simbolico o non corrispondente all’effettivo valore del

bene, ma nel senso che il prezzo simbolico poteva essere indice di una

donazione dissimulata o di una donazione indiretta e che il prezzo vile poteva

indicare un negotium mixtum cum donatione238.

In questi casi il prezzo simbolico e lo squilibrio tra le prestazioni erano

ritenuti indici di una intervenuta simulazione o parametri per individuare la

conclusione di un diverso contratto tra le parti239. Ma queste sentenze non

spostavano ovviamente i termini della questione sulla rilevanza dello

squilibrio tra le prestazioni, in quanto escludevano, comunque, ogni controllo

in termini di adeguatezza o, tantomeno, di equivalenza.

237 Nel caso di specie, la S.C. ha seriamente dubitato della sussistenza di una compravendita, pur in presenza di un prezzo reale ed esistente (£.75.000), per quanto eccessivamente inferiore al valore obiettivo della cosa venduta (pari a £.5.000.000). 238 Cfr., ancora, Cass., 24 febbraio 1968, n. 632, cit.: “Giova avvertire che la inesistenza (o nullità) del prezzo non è da confondere con la pattuizione di un prezzo semplicemente tenue od irrisorio: dappoiché solo la indicazione di un prezzo assolutamente privo di valore - epperò meramente apparente e simbolico - può elevarsi a causa di nullità della compravendita per difetto di uno dei suoi requisiti essenziali, laddove la pattuizione di un prezzo, sia pure eccessivamente inferiore al valore di mercato della cosa venduta, ma non <<del tutto privo di valore>>, pone un problema che, concernendo l’adeguatezza o la obiettiva equivalenza della prestazione, afferisce propriamente alla individuazione ed interpretazione della volontà dei contraenti ed alla (diversa) configurazione della causa del contratto, ben più che alla esistenza stessa del prezzo”. 239 Si trattava, per lo più, di casi in cui occorreva verificare se potesse riscontrarsi la sussistenza di un prezzo per lo scambio di beni, e quindi la ricorrenza di una compravendita, e se l’esiguità del corrispettivo non implicasse la simulazione, ovvero una diversa qualificazione del contratto, con conseguenze in ordine alla disciplina del rapporto o alla stessa validità rispetto ai requisiti formali.

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Ritorna ad un criterio più rigido un’altra pronuncia della Cassazione,

secondo cui “La mancata corrispondenza del prezzo al valore del bene

venduto non è, di per sé, causa di nullità del contratto, essendo sufficiente per

la validità di questo che al trasferimento della proprietà della cosa da parte del

venditore faccia riscontro, da parte del compratore, la corresponsione di un

prezzo, quale che ne sia l’ammontare”240.

Di diverso tenore sono le seguenti pronunce: “In materia di

compravendita, il prezzo è un elemento essenziale del contratto, che deve

ritenersi carente se esso è meramente simbolico e non corrispondente

all’effettivo valore del bene venduto”241; “Il negozio con cui un bene venga

trasferito in cambio di una somma di danaro irrisoria non può essere

qualificato come vendita, ancorché le parti lo abbiano designato come tale, per

mancanza dell’elemento prezzo”242.

Se nelle pronunce precedenti si era notato il venir meno della rigida

equiparazione tra prezzo simbolico ed il nummus unus, non può non rilevarsi

che, nelle pronunce da ultimo richiamate, “prezzo vile” o “irrisorio” e “prezzo

simbolico” non compaiono come concetti nettamente contrapposti.

Tale osservazione consente di ritenere che, a partire dagli anni ’80, la

giurisprudenza inizia, diversamente dal passato, a valutare il carattere

meramente simbolico del prezzo in relazione al valore della cosa venduta,

240 Cass., 26 novembre 1971, n. 3444, in Giust. civ., 1972, I, p. 529. 241 Cass., 24 novembre 1980, n. 6235, in Giust. civ. Mass., 1980, II, p. 2587. 242 Trib. Parma, 16 novembre 1972, in Giur. merito, 1975, I, p. 465, con nota di C. Belfiore, Appunti in tema di prezzo nella compravendita. In senso conforme, Cass., 14 ottobre 1971, n. 2892, in Giust. civ. Mass., 1971, 1563; G. Balbi, La donazione, Milano, 1964, p. 110 ss.; Azzariti F.S.-Martinez-Azzariti G., Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1963, p. 697 ss.; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., p. 237; A. Cataudella, La donazione mista, Milano, 1970.

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riconoscendosi, in tal modo, una maggiore autonomia circa la determinazione

del momento in cui il corrispettivo cessa di essere ingiusto per divenire

irrisorio.

Difatti, il riferimento al “valore effettivo del bene trasferito” si trova in

decisioni che appartengono a due filoni giurisprudenziali in tema di donazioni

miste o indirette: la differenza tra corrispettivo e valore può, infatti,

denunciare una liberalità. Ma tale rilevanza della non congruità del prezzo non

attiene ad un controllo di validità fondato su di un supposto requisito di

equivalenza; esso riguarda soltanto la qualificazione dell’atto come donazione

o come liberalità risultante da atti diversi, ai sensi dell’art. 809 c.c.243.

È pur vero che tale valutazione può riflettersi in giudizio di validità, ove

si segua l’indirizzo che qualifica l’atto come negotium mixtum cum donatione,

anziché come donazione indiretta; ma, in tale ipotesi, la nullità sarà dichiarata

solo in caso di prevalenza della componente liberale, per mancanza di forma

pubblica, mentre, in caso contrario, la validità dell’atto dovrà essere

riconosciuta nonostante lo squilibrio: quest’ultimo sarà, quindi, rilevante non

di per sé, ma in quanto raggiunga una misura tale da determinare un giudizio

243 In ordine all’elevata sproporzione tra le prestazioni si sono contrapposti due indirizzi: l’uno nel senso della qualificazione della fattispecie alla stregua di una liberalità indiretta, cui si applicano le regole dello schema negoziale adottato e per la quale non sono richiesti i requisiti di forma stabiliti per la donazione (Cass., 21 gennaio 2000, n. 642, in Notariato, 2000, p. 514; Cass., 10 febbraio 1997, n. 1214, in Foro it., 1997, I, c. 743); e l’altro nel senso della configurazione di un contratto misto, applicandosi le norme del tipo contrattuale prevalente e così, ove ne discendesse una qualificazione donativa, l’imposizione dell’onere formale a pena di nullità (Cass., 25 maggio 1999, n. 5265, in Rep. Foro it., voce Donazione, n. 17; Cass., 13 luglio 1995, n. 7666, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 1120; Cass., 23 febbraio 1991, n. 1931, in Giust. civ. Mass., 1991, fasc. 2).

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di prevalenza della liberalità sulla corrispettività, e solo in quanto difetti la

forma dell’atto pubblico244.

In altra sentenza si afferma la nullità per mancanza di causa del

“contratto a prestazioni corrispettive nel quale non vi sia una equivalenza,

almeno approssimativa o tendenziale, delle prestazioni”, attenuandosi, così, la

più rigida formula della “corrispondenza all’effettivo valore del bene

trasferito”, ma ribadendosi, nel contempo, una soglia di controllo causale ben

più elevata della mera sussistenza di un pur tenue corrispettivo245.

Nonostante che tale affermazione - come osservato da autorevole

dottrina246 - si riferisca ad una fattispecie che nulla aveva a che fare con lo

squilibrio contrattuale247, la stessa denota, unitamente alle altre in precedenza

richiamate, una maggiore propensione in ordine all’utilizzazione della causa

del contratto come strumento atto a mantenere, sempre nel rispetto

dell’autonomia conferita alle parti nella determinazione del prezzo, il

244 Cass., 17 marzo 1981, n. 1545, in Riv. not., 1982, p. 89; Trib. Milano, 20 marzo 1989, in Giur. it., 1990, I, 2, c. 748; Cass., 22 novembre 1978, n. 5444, in Rep. Foro it., 1978, voce Donazione, n. 6. 245 Cass., 27 luglio 1987, n. 6492, in Rep. Foro it., 1987, voce Contratto in genere, n. 365: “È nullo per mancanza di causa il contratto a prestazioni corrispettive nel quale non vi sia una equivalenza, almeno approssimativa o tendenziale, delle prestazioni, come quando una delle parti si obblighi ad una prestazione senza che, in cambio, le venga attribuito nulla di più di quanto già le spetti per legge”. 246 R. Lanzillo, La proporzione, cit. p. 222, che considera tale affermazione “irrilevante”. 247 Nella specie i comproprietari di un cortile avevano stipulato un contratto col quale uno di essi si era obbligato a compiervi delle opere a proprie spese in corrispettivo del diritto di trasformare delle luci in vedute e di spostare una porta di accesso. I giudici di merito, ritenendo tale diritto rientrante nelle facoltà già spettanti per legge, ex art. 1102 c.c., al comproprietario del cortile, avevano dichiarato nullo il contratto e la Suprema Corte ha ritenuto giuridicamente corretta la decisione in base al surriportato principio. A ben considerare, quindi, si trattava di un’ipotesi di scuola di mancanza di causa, non dissimile da quella dell’acquisto di cosa propria; il rapporto di valore tra le prestazioni era pertanto del tutto irrilevante rispetto all’affermazione della nullità.

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fenomeno della circolazione dei beni all’interno dei limiti della funzione

economico-sociale che l’atto di scambio deve realizzare.

Invero, la ragione per la quale è sembrato potersi prospettare una

interferenza del principio causalistico con il tema dello squilibrio contrattuale

si coglie muovendo dalla regola della rilevanza della “causa concreta”, cioè

della “ragion d’essere dell’operazione valutata nella sua individualità e

singolarità”248.

Essa risponde all’esigenza di controllare l’effettiva sussistenza della

giustificazione del vincolo rispetto al singolo contratto, con riguardo sia ad

eventuali elementi atipici che esso presenti, sia alla stessa ricorrenza in

concreto degli elementi che connotano lo schema causale tipico al quale esso

appartiene.

In questo senso si è posta la questione della validità del contratto che

presenti una sproporzione tra le prestazioni corrispettive così grave da far

dubitare della sussistenza in concreto di una giustificazione causale249.

248 La formula è di U. Breccia, Causa, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, cit., p. 66. V. anche R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1950, p. 245 ss.; M. Giorgianni, voce Causa (dir. priv.), in Enc. dir., vol. VI, Milano, 1960, p. 547; G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 249 ss.; C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 452 ss.; V. Roppo, Il contratto, cit., p. 364 ss.; A. D’Angelo, Contratto e

operazione economica, cit., p. 184 ss. 249 Secondo A. Di Majo, Nozione di equilibrio nella tematica del contratto, cit., p. 3 ss., <<è indubbio ad es. che l’elemento della “causa”, ove interpretato non in senso formale ed astratto, quale tipo o quale genericamente funzione economico – sociale del contratto possa rappresentare anche un valido strumento per controllare in concreto l’uso che i contraenti compiono della loro autonomia, così ad es. da arrivare a sostenere che sono manchevoli sotto l’aspetto “causale” contratti e/o negozi sperequati dal punto di vista normativo, nel senso di una totale diseguaglianza tra le posizioni delle parti>>. Al riguardo, l’A. richiama una sentenza del Tribunale di Roma (Trib. Roma 8 luglio 1987 n. 9386, in Corr. Giur. 1987, 1274) con la quale si ritenne privo di causa un contratto riguardante il deposito di valori in cassette di sicurezza perché la banca si era fatta promettere dal contraente che egli non avrebbe immesso nella cassetta valori superiori a 1 milione, ritenendo che, nella specie, si sia realizzata una ipotesi <<esemplare in cui la mancanza di equilibrio tra le prestazioni

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Al riguardo, la dottrina sensibile al profilo qui considerato ha proposto

varie soluzioni, quale l’accoglimento di una nozione di causa idonea a guidare

la formulazione di un giudizio di meritevolezza, in ragione di quanto previsto

dall’art. 1322, comma 2, c.c., anche in relazione ai contratti tipici250.

Si sottolinea come la nozione di causa del contratto possa consentire

una valutazione in termini di congruità dei reciproci sacrifici e vantaggi, sotto

diversi profili, soprattutto là dove si tratti di attribuire effetti a nuove figure

contrattuali, esaminando se rispondano ad interessi meritevoli di tutela, ai

sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c.251.

In merito, parte della dottrina ritiene che la individuazione delle

fattispecie di illiceità della causa potrebbe permettere di ampliare i mezzi di

impugnazione dei contratti lesivi, come, ad esempio, in talune ipotesi

delittuose, che potrebbero dare luogo alla nullità per contrasto con norme

imperative, oltre che alla mera rescindibilità od annullabilità, dei contratti che

ne conseguono252.

Secondo tale orientamento, se si tiene presente che il concetto di causa

ha la funzione pratica di consentire agli interpreti una valutazione di

conformità del singolo contratto ai principi ed agli interessi dominanti

contrattuali è ricondotto al criterio della “meritevolezza degli interessi” (art. 1322c.c.). Si è in buona sostanza ritenuto non meritevole di tutela un interesse del cliente della banca a corrispondere un premio per avere in cambio una copertura così bassa>>. 250 M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, cit., p. 227 ss.; Id., Causa del contratto,

funzione del tipo ed economia dello scambio, in Giur. merito, 1978, p. 1327 ss. 251 Così R. Lanzillo, Regole del mercato, cit., p. 333. 252 Così R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 334, in relazione alle ipotesi di usura, truffa, circonvenzione di persone incapaci, frode in commercio, estorsione, ricettazione. L’A. afferma, inoltre, in relazione agli ulteriori strumenti di reazione contro i contratti a prestazioni sperequate, che sarebbe comunque possibile attribuire alla parte lesa da un contratto che sia conseguenza di un reato, il diritto alla restituzione dei vantaggi eccessivi percepiti dalla controparte, quale risarcimento del danno prodotto dal reato, ai sensi dell’art. 185 c.p., indipendentemente dalla dichiarazione di nullità del contratto.

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all’interno del sistema, escludendo che esso possa ritenersi valido solo perché

voluto, si può mettere in discussione che abbiano causa valida i trasferimenti

di ricchezza attuati sulla base di dichiarazioni contrattuali rese in condizioni

tali da alterare la libertà o la razionalità delle scelte economiche ad esse

sottostanti, cioè sulla base di comportamenti difformi da quelli che la legge

presuppone come idonei a realizzare il giusto assetto del mercato253.

In realtà, la relazione tra causa e giustizia contrattuale è soltanto

apparente: sussistono, infatti, vari elementi in base ai quali escludere che il

controllo causale possa essere piegato all’esigenza di trovare un rimedio allo

squilibrio contrattuale.

Innanzitutto, le rilevate univoche indicazioni codicistiche incompatibili

con la sindacabilità giudiziaria dell’equilibrio contrattuale, di per sé

considerato, inducono ad escludere che possa ritenersi implicata nel principio

causalistico una inespressa regola di segno opposto.

Del resto, ciò è confermato dalla configurazione che il controllo causale

assume nel nostro ordinamento, in relazione alle sue finalità e all’ambito e alle

modalità della sua esplicazione.

Al riguardo, infatti, è generalmente condivisa l’affermazione che il

riconoscimento giuridico del vincolo contrattuale e dei suoi effetti è

subordinato ad una ragione che lo sostenga e giustifichi il trasferimento di

ricchezza che esso implica e la sanzione coercitiva dell’ordinamento254.

253 Cfr. R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 333 ed autori ivi citati. 254 R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 649; C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 448; F. Galgano, Diritto civile, cit., p. 179; V. Roppo, Il contratto, cit., p. 361 ss.; U. Breccia, op. ult.

cit., p. 5.

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Detto vincolo può trovare fondamento in circostanze, relazioni, interessi

non riconducibili al rapporto di reciprocità fra prestazioni: tra il contratto a

prestazioni corrispettive e la figura della donazione, vi è una varietà tipologica

di interessi in vista dei quali si promette una prestazione, si realizza

un’attribuzione, si trasferiscono o costituiscono diritti, si modificano o si

regolano rapporti.

Difatti, il controllo causale del contratto a vincolo obbligatorio, o a

effetto giuridico, unilaterale, o delle prestazioni isolate, è stato oggetto di

indagini255 che hanno consentito di enucleare ragioni giustificative diverse

dallo scambio corrispettivo, che della causa è solo la più esemplare

manifestazione256.

Da tali indagini sono emerse ragioni giustificative diverse dallo

scambio corrispettivo che mal si prestano o sono addirittura incompatibili

rispetto ad un vaglio della loro adeguatezza comparativa, il quale

presupporrebbe una definita relazione di reciprocità, tra vantaggi e svantaggi,

sacrifici e benefici, che non si riscontra nella generalità delle giustificazioni

causali rinvenute257.

255 G. Gorla, Il contratto, cit., pp. 106 ss., 168 ss.; R. Sacco, Il contratto, cit., p. 580 ss.. 256 V. R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 650 ss.; V. Roppo, Il contratto, cit., p. 369 ss.; A. D’Angelo, Le promesse unilaterali - Artt. 1987-1991, in Il Codice civile.

Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1996, p. 271 ss.; M. Giorgianni, voce Causa, cit., p. 564 ss.; E. Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, Milano, 2000, p. 321 ss.. 257 Giustificazioni causali diverse dallo scambio corrispettivo sono state, ad esempio, individuate nel collegamento negoziale che pur non realizzi un’unitaria relazione di corrispettività, nelle promesse condizionate ad una prestazione del promissario, il quale non si obbliga ad eseguirla, in quelle fondate su di un vincolo obbligatorio preesistente o si di un interesse patrimoniale del promittente diverso dal conseguimento di una controprestazione, nei patti modificativi di un precedente contratto, in vincoli volti al rafforzamento del credito anche in relazione a debiti altrui, nelle promesse in vista di interessi sovraindividuali esterni alla sfera egoistica delle parti. Tali ragioni non sono suscettibili di una misurazione quantitativa e di una valutazione di equivalenza espressa in termini monetari, escludendo,

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Conseguentemente, deve escludersi che la nozione di ragione

giustificativa della coercibilità del vincolo e dello spostamento di ricchezza,

che presiede al controllo causale, possa essere connotata in un senso che

implichi equivalenza tra sacrifici e benefici, equilibrio dell’incidenza del

contratto sulle rispettive posizioni delle parti258.

Invero, in dottrina259 ed in giurisprudenza260 è diffuso il riconoscimento

dell’estraneità alla nozione di causa giustificativa e al controllo causale

dell’idea di equivalenza e di equilibrio contrattuale.

Ciò appare coerente con la indicazione della ratio del controllo causale

nel rifiuto della sanzione a contratti senza ragione261; in altre parole, si rifiuta

la sanzione coercitiva del vincolo contrattuale per effetto della verifica

dell’assenza di ragioni del vincolo stesso, così che possa escludersi la stessa

esistenza di affidamenti che meritino di essere protetti262.

addirittura, alcune di esse, un interesse proprio del soggetto sul quale unilateralmente grava il vincolo giuridico, con conseguente inammissibilità di qualsiasi considerazione di equilibrio, sia economico che normativo. 258 Sul punto A. D’Angelo, La buona fede, cit., p. 205, osserva: “Né sarebbe attendibile prospettare una diversificazione della configurazione della giustificazione causale che riservasse solo a quella consistente nello scambio corrispettivo il requisito di equivalenza e di equilibrio. Infatti … sarebbe paradossale ammettere la sanzione del vincolo in caso di rapporti solo unilateralmente vincolanti (promesse unilaterali e contratti con obbligazioni di una sola parte), non reciprocamente vantaggiosi (garanzie di obbligazioni altrui), e negarla, invece, in caso di rapporti contrattuali corrispettivi, solo perché le prestazioni non siano equivalenti o pur siano gravemente squilibrate”. 259 R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, cit., p. 268; R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 640 ss.; C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 489 ss.; V. Roppo, op. ult.

cit., p. 383 ss.; A Di Majo, voce Causa del negozio giuridico, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, 1988, p. 8; U. Breccia, Causa, cit., p. 11. 260 Cass., 6 ottobre 1955, n. 2861, cit.; Cass., 16 luglio 1963, n. 1945, cit.; Cass., 24 febbraio 1968, n. 632, cit.; Cass., 26 novembre 1971, n. 3444, cit.; Cass., 28 agosto 1993, n. 9144, in Foro it., 1994, I, c. 2489; Cass., 25 marzo 1996, n. 2635, in Giur. it., 1997, I, 1, c. 476. 261 V. Roppo, op. ult. cit., p. 381; E. Navarretta, op. ult. cit., p. 238. 262 R. Sacco-G. De Nova, op. ult. cit., p. 659 ss.

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È stato, però, avvertito che, rispetto all’esigenza di valutare la

sussistenza in concreto di una giustificazione causale, la stessa misura del

corrispettivo può, nei rapporti di scambio, assumere rilievo al fine di accertare

se essa non sia tale da escludere la ricorrenza effettiva della causa; ciò non

perché un corrispettivo inadeguato alla controprestazione non sia idoneo a

giustificare il vincolo, ma perché occorre vagliare se esso non costituisca un

mero artificio per occultare la mancanza di giustificazione, dissimularne una

diversa da quella sinallagmatica o, addirittura, celare finalità illecite. Al

riguardo si è recentemente parlato di “causa non trasparente”263, ma è molto

risalente l’attenzione della giurisprudenza ad una modalità di controllo causale

che investa la misura del prezzo come possibile spia di una simulazione della

compravendita, ovvero come strumento per la corretta qualificazione del

contratto a diversi fini di disciplina264.

Il principio affermato da Cass. n. 6492/87 trova eco in una pronuncia

della Corte di Appello di Napoli, secondo cui “è nullo per mancanza di causa

il contratto di compravendita se il prezzo sia puramente simbolico, o

comunque notevolmente inferiore all’effettivo valore del bene trasferito. La

determinazione di un prezzo irrisorio equivale a mancanza di prezzo, qualora

la sproporzione tra le prestazioni non sia dovuta ad intento di liberalità” 265.

La motivazione di tale ultima pronuncia prende le mosse dal concetto di

causa, quale requisito essenziale del contratto, identificata nella “funzione

economico-sociale che il negozio giuridico obbiettivamente persegue e che il

263 U. Breccia, op. ult., cit., p. 15. 264 Cass., 6 ottobre 1955, n. 2861, cit.; Cass., 16 luglio 1963, n. 1945, cit.; Cass., 26 novembre 1971, n. 3444, cit.. 265 Corte di Appello di Napoli, Sezione I, 21 dicembre 1989, n. 1934, in Dir. Giur., 1990, p. 510 ss., con nota di M. Lubrano, Osservazioni in tema di negozio riproduttivo.

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diritto riconosce rilevante ai suoi fini” 266 e sintetizza la causa della

compravendita nella funzione di scambio della cosa contro il prezzo267.

In tale prospettiva, il principio enunciato dalla sentenza in esame

(nonché da Cass. n. 6492/87) riconosce ampio margine al giudice del merito

per effettuare un controllo di fatto sul reale assetto di interessi emergente dalle

clausole negoziali, e fissa, al contempo, un principio teorico di notevole

rilevanza concreta, che va ad apportare sostanza al concetto di causa intesa,

appunto, come funzione economico-sociale del contratto268.

Riconoscere, infatti, l’esigenza di un prezzo adeguato all’effettivo

valore del bene alienato, giova a rafforzare la tutela del potenziale contraente

debole e, quindi, a concepire in termini sempre più sostanziali (nel senso di

equivalenza) la funzione di scambio269.

Le sentenze sopra richiamate si iscrivono in tale linea di tendenza, a

testimonianza di una espansione dell’area di verifica giurisprudenziale in

senso diametralmente opposto alla precedente tesi del disinteresse

dell’ordinamento giuridico di fronte alla determinazione del prezzo fissato

266 Sotto questo profilo, la pronuncia in esame si colloca nel solco tracciato da un ormai costante orientamento giurisprudenziale che, secondo la formula della Relazione al codice civile (n. 613), definisce la causa quale “funzione economico-sociale” del contratto: cfr., tra le tante, Cass., 13 giugno 1957, n. 2213, in Rep. Foro it., 1957, voce Obbligazioni e contratti, 147; Cass., 13 ottobre 1975, n. 3300, in Rep. Giur. it., 1975, voce Obbligazioni e contratti, 147. In dottrina non sono mancate valutazioni critiche dell’opinione dominante: v. M. Bessone, Obiter dicta della giurisprudenza, l’accertamento della <<causa>> reale dei

contratti, gli equivoci sulla funzione economico-giuridica del negozio, in Riv. not., 1978, I, p. 947; G. B. Ferri, Tradizione e novità nella disciplina della causa del negozio giuridico (dal

cod. civ. del 1865 al cod. civ. del 1942), in Riv. dir. comm., 1986, I, p. 127. 267 “La compravendita ha, come causa, per il compratore, l’acquisto della proprietà o il trasferimento di un altro diritto e, per il venditore, l’acquisto del prezzo”. 268 Così M. Lubrano, op. ult. cit., p. 516. Secondo l’A., il limite della eccessiva esiguità del prezzo, specie se inteso - alla stregua dell’orientamento espresso da Cass., 24 novembre 1980, n. 6235, cit.- in modo incisivo, costituisce, accanto ai casi di rescissione, una eccezione alla indifferenza, da parte dell’ordinamento giuridico, al problema della congruità dello scambio. 269 Così M. Lubrano, op. ult. cit., p. 516.

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dalle parti270, consentendo il controllo giudiziale della rispondenza della causa

concreta del singolo contratto al raggiungimento della obiettiva funzione di

scambio, cui si ritiene sempre più connaturata l’esigenza di equilibrio tra le

prestazioni271.

In sintonia con tale tendenza si mostra un’altra pronuncia della

Cassazione, secondo cui “nei contratti a prestazioni corrispettive, il difetto di

equivalenza, almeno tendenziale, delle prestazioni e, a maggior ragione, il

difetto tout court della pattuizione di un corrispettivo o comunque, della

ragione giustificativa della prestazione prevista, comporta l’assoluta

mancanza di causa del contratto e, per l’effetto, la nullità dello stesso”272.

A ben considerare, però, la portata di tale affermazione si ridimensiona,

in quanto, nel caso di specie, il contratto non prevedeva alcun corrispettivo e,

pertanto, l’indagine dei giudici, sia di merito che - indirettamente - di

legittimità, riguardò l’esistenza di una giustificazione causale esterna al

contratto e si concluse negativamente, con conseguente dichiarazione di

nullità per mancanza di causa; la controprestazione, di conseguenza, non era

sperequata, bensì del tutto mancante273.

270 Tale disinteresse o “indifferenza” da parte dell’ordinamento giuridico nei confronti del problema della congruità dello scambio è stato ricondotto da alcuni alla neutralità del sistema codicistica dinanzi ad una fase - la determinazione del valore di scambio - considerata espressione tipica dell’autonomia privata. Cfr. C. Belfiore, Appunti in tema di prezzo nella

compravendita, cit., p. 466; L. Ferrigno, L’uso giurisprudenziale del concetto di causa del

contratto, in Contratto e Impresa, 1985, p. 150. 271 M. Lubrano, op. ult. cit., p. 517. 272 Cass., 20 novembre 1992, n. 12401, in Foro it., 1993, I, 1506, con nota di F. Caringella, Alla ricerca della causa nei contratti gratuiti atipici, in Corr. giur., 1993, p. 174, con nota di Mariconda. La sentenza è anche commentata da Galgano, Sull’equitas delle prestazioni

contrattuali, cit., p. 420 ss.. 273 La fattispecie riguardava una cessione di linee di trasporto, di proprietà di una società, la FAP. Tali linee non erano di per sé remunerative e, in vista dell’attuazione di un piano regionale che riservava alla pubblica autorità la titolarità e la gestione di tutte le linee di

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In buona sostanza, si trattò di un obiter dictum, che autorevole dottrina

ha definito molto pericoloso 274 , con cui veniva addirittura equiparata la

mancanza di equivalenza tendenziale - e, quindi, qualcosa di molto meno della

grave e stridente sproporzione delle prestazioni - alla mancanza di causa, con

conseguente nullità del contratto.

Indubbiamente, quindi, tale pronuncia ribadisce la necessità - già

espressa dalle pronunce sopra richiamate - di un controllo più sostanziale sul

reale assetto di interessi sotteso al programma negoziale, in un’ottica sempre

più propensa ad equiparare le ipotesi di prezzo vile ed apparente, da ritenersi

entrambe affette da nullità per mancanza di causa.

La pronuncia in esame ripropone la vexata quaestio dell’ammissibilità e

dei limiti di un’interferenza dell’ordinamento giuridico sull’autonomia

privata.

Tale problema si è posto all’attenzione degli operatori del diritto in

considerazione del progressivo disancoramento del nostro sistema economico

da un modello - quale quello recepito dall’impianto codicistico del 1942 -

imperniato sui valori della libera esplicazione del gioco concorrenziale e

dell’assenza di soverchie concentrazioni monopolistiche, come tale atto a

garantire il naturale equilibrio tra i valori oggetto di scambio.

trasporto regionali, la FAP aveva alienato all’Immobiliare turistica, senza corrispettivo, le linee internazionali, al fine di liberarsi dell’onere delle spese di gestione. Il problema non era, quindi, se il corrispettivo fosse adeguato o meno, ma se la cessione delle linee di trasporto senza corrispettivo fosse o meno da considerarsi rispondente ad una valida causa. 274 Così F. Galgano, op. ult. cit., p. 420 ss., il quale aggiunge: “Va perciò ribadito a chiare note che fuori dei casi, legislativamente previsti, della rescissione per lesione ultra dimidium del contratto concluso con approfittamento dell’altrui stato di bisogno e della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, provocata da eventi eccezionali ed imprevedibili, al giudice non è consentito di sindacare l’equivalenza delle prestazioni, ogni determinazione circa la congruità dello scambio contrattuale essendo rimessa all’autonomia dei contraenti, secondo il generale principio dell’art. 1322, 1° co., c.c.”.

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Infatti, la crescita esponenziale di imprese dotate di potenziale

economico di notevole spessore, comportando l’abrogazione del principio,

non codificato, della parità delle armi dei paciscenti, ha decretato il venir

meno delle condizioni di mercato atte a garantire non solo l’equilibrio

oggettivo delle prestazioni, ma anche la tendenziale proporzione valoristica

delle stesse275.

Tali circostanze hanno favorito una progressiva attenuazione delle

rigide posizioni inizialmente assunte dalla giurisprudenza, sia di legittimità

che di merito 276 , fondate sul dogma della indifferenza dell’ordinamento

rispetto al piano della valutazione soggettiva dei margini della convenienza

stipulatoria277, accompagnata dall’affermarsi di una linea interpretativa più

attenta, pur nel rispetto del principio generale della libertà di

autodeterminazione privata, a dotare il contraente, specie se versante in

condizione di inferiorità, di efficaci strumenti di tutela a fronte di vistosi

fenomeni di squilibrio contrattuale.

275 Sul punto, v. C. Belfiore, Appunti in tema di prezzo, cit., p. 466, secondo cui “in una economia di mercato caratterizzata dalla libera concorrenza e dall’assenza di grandi concentrazioni monopolistiche, pubbliche o private, normalmente lo scambio tende ad un naturale equilibrio fra i valori economici oggetto di scambio. Nell’attuale assetto economico, però, siffatta ipotesi appare esclusivamente scolastica, poiché la presenza sul mercato di imprese ad alto potenziale economico induce fortissime turbative alla libera determinazione degli equilibri fra i valori economici, tanto che l’equivalenza oggettiva delle prestazioni nella vendita risulta praticamente irrealizzabile”. Dello stesso avviso è C. M. Bianca, La vendita e

la permuta, cit., p. 29. 276 Cfr. Cass., 16 luglio 1963, n. 1945, cit.; Cass., 24 febbraio 1968, n. 632, cit.; App. Napoli, 30 gennaio 1956, cit.; Trib. Roma, 15 febbraio 1963, cit.; App. Roma, 18 febbraio 1965, cit.; Trib. Parma, 16 novembre 1972, cit.. 277 Cfr. D. Rubino, La compravendita, in Tratt. dir. civ. diretto da Cicu e Messineo, XXIII, Milano, 1962, p. 184, il quale, prendendo le mosse dall’estraneità, al nostro ordinamento, dell’esigenza di assicurare la corrispondenza tra le prestazioni corrispettive, rinviene nella suddetta indifferenza un felice residuo della concezione liberale della vita.

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L’argomento forte a base di siffatte ricostruzioni teoriche è stata proprio

la rivisitazione del concetto di causa, quale strumento di controllo della

razionalità dell’operazione perseguita278, sulla base della considerazione che

la causa del contratto di compravendita è il trasferimento di un diritto contro il

pagamento di un prezzo279.

A tale proposito, pur non essendo questa la sede adatta per ricostruire la

evoluzione dottrinale in tema di causa del contratto, pare opportuno rilevarne,

in estrema sintesi, alcuni aspetti280.

L’orientamento tradizionale prevalente nella nostra dottrina fin dagli

inizi del secolo scorso ha accolto una nozione di causa intesa quale funzione

economico-sociale, cioè tipica ed astratta del negozio281. La funzione che la

legge prende in considerazione è quella che il negozio è idoneo da sé, ed

egualmente in tutti i casi, a realizzare282. In questa prospettiva, la causa viene

considerata un elemento oggettivo del negozio, che, connaturata ad una

determinata fattispecie negoziale, dà alla stessa la sua impronta tipica.

278 Cfr. A. Pellicanò, Causa del contratto e circolazione dei beni, Milano, 1981, p. 112, il quale sottolinea la progressiva tendenza giurisprudenziale a valorizzare la causa del contratto a mò di strumento di controllo dell’autonomia negoziale, nella direzione di una effettiva “saldatura tra quaestio voluntatis e quaestio legis”. 279 Si vedano le indicazioni fornite da M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, cit., p. 227 ss.; v., altresì, A. Calisse, Prezzo vile e prezzo simbolico nella compravendita, cit., p. 39, secondo il quale “nella compravendita la causa contrattuale, come è noto, consiste nella alienazione di una cosa o di un diritto verso il corrispettivo in denaro; pertanto, ai fini della sussistenza del sinallagma genetico, inteso come possibilità originaria della prestazione, il prezzo deve senza dubbio essere reale e non fittizio”. 280 Per tutta l’evoluzione del problema, v. M. Cassottana, Causa ed <<economia>> del

contratto: tendenze dottrinali e modelli di sentenza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1979, p. 813 ss. 281 E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 171 ss.; L. Cariota-Ferrara, Il

negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., p. 580; M. Giorgianni, voce Causa (diritto

privato), cit., p. 547 ss. 282 F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile,cit., p. 127 ss.

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A tale orientamento se ne contrappone uno successivo, diretto a

riconsiderare l’impostazione soggettivistica, senza tuttavia giungere ad

identificare la causa con lo scopo perseguito dal contraente, ma individuando

la causa nella funzione economico-individuale283.

È stato, cioè, affermato che la causa va ravvisata in relazione ai concreti

interessi delle parti, con la conseguenza che l’indagine sul tipo,

essenzialmente astratta e statica, pone un problema di configurabilità

dell’operazione, mentre quella sulla causa, essenzialmente concreta e

dinamica, è volta ad indagare sui concreti risvolti dell’operazione economica,

vista nella sua complessità284.

L’accoglimento di una nozione di causa in astratto (funzione

economico-sociale) preclude il controllo giudiziale, essendo tale valutazione

già operata dal legislatore in astratto nell’ambito del tipo285; viceversa, una

nozione di causa in concreto (funzione economico-individuale)

comporterebbe di volta in volta un controllo del giudice sulle singole

pattuizioni in ogni caso poste in essere286.

Invero, l’inadeguatezza della teoria della causa in astratto, è venuta in

evidenza in alcuni casi classici, tra cui, appunto, la vendita a prezzo

simbolico, dove, nonostante la tipicità del contratto - che dovrebbe garantire,

quindi, una valutazione della causa già compiuta dal legislatore - ne è stata

dichiarata la nullità per mancanza di causa.

283 V. G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 149 ss.; M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, cit., p. 207 ss.; Di Paolo, Nuovi orientamenti in tema di

causa, in Foro it., 1974, I, c. 228 ss.; R. Sacco, Il contratto, cit., p. 574 ss.. 284 F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2000, p. 762. 285 Pertanto, residuerebbero margini per un tale controllo solo in relazione ai contratti atipici. 286 Sul punto, v. R. Sacco, op. ult. cit., p. 579.

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Partendo da tali considerazioni, si è giunti a sostenere che un progettato

trasferimento di ricchezza non possa trovare idonea giustificazione causale

nella previsione di un simulacro di corrispettivo, ma necessiti, se non di un

perfetto equilibrio economico, quantomeno di un quid minimum di

proporzione tra i rispettivi sacrifici e vantaggi287.

Ne consegue un approccio di marca sostanziale al concetto di

corrispettività, atteso che l’esplorazione del programma definito in sede

pattizia, non avviene più nell’ottica dell’astratta rispondenza alla schema

causale legislativamente cristallizzato, bensì nella stringente prospettiva del

collegamento alla realtà sociale ed alla sfera degli interessi (economici e non)

in giuoco288.

Di qui la tendenza della giurisprudenza ad ampliare lo spettro della

tutela del venditore dalle ipotesi di prezzo meramente simbolico od apparente,

a quelle, di più frequente ricorrenza e non meno idonee ad accumulare

fenomeni di abuso di posizioni di superiorità economico-contrattuale, di

prezzo non rispondente, neanche in linea di approssimazione, al reale valore

della cosa venduta289.

287 Cfr., ancora, C. Belfiore, op. ult. cit., p. 467: “Chi vende una cosa per un dato prezzo intende normalmente procurarsi, col denaro ricavato, delle cose di valore corrente almeno pari a quello della cosa venduta. L’adeguatezza fra le due prestazioni deve perciò tendenzialmente sussistere nella compravendita, sicché lo squilibrio fra esse pone problemi di individuazione della volontà reale delle parti, allo scopo di accertare se queste, al di là della forma adottata, non abbiano in realtà voluto una cosa diversa dallo scambio fra bene e prezzo e non abbiano realizzato uno scopo pratico diverso dalla causa negoziale della vendita, e quale”. 288 Nel senso che l’analisi dell’elemento causale del negozio giuridico debba svolgersi con riferimento alla reale dimensione teleologica della fattispecie contrattuale, ossia al significato pratico dell’operazione, si esprime C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 425. 289 V. Cass., 27 luglio 1987, n. 6492, cit.; Cass., 24 novembre 1980, n. 6235, cit.; App. Napoli, 21 dicembre 1989, cit.. Contra, R. Sacco, Il contratto, cit., p. 574 ss..

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Le considerazioni appena svolte, consentono di meglio inquadrare il

contesto in cui è stato enunciato - benché sotto forma di obiter dictum - il

principio di cui alla sentenza n. 12401/1992 della S.C., principio, a ben

vedere, ribadito nel corso della sentenza, là dove si valuta la possibilità di

ravvisare, nella specie, <<una causa diversa da quella “tipica” costituita dalla

equivalenza delle prestazioni o dalla conclamata ragione dello scambio>>.

Probabilmente, tale ultima affermazione esprime una posizione,

addirittura, ancora più rigorosa di quella assunta dagli Autori che hanno visto

con favore la sentenza in esame290 e che riconducono le varie ipotesi di non

remuneratività del prezzo - e, quindi, di mancanza di una ragione pratica di

scambio - ad un denominatore comune individuato nella grave sproporzione

fra il prezzo e il valore corrente della cosa venduta291.

Ciò trova conferma nelle parole di Galgano, secondo cui <<altro è una

“stridente sproporzione fra le prestazioni”, altro il “difetto di equivalenza,

almeno tendenziale, delle prestazioni”. C’è la prima se si vende per 10 milioni

un bene che vale un miliardo; c’è il secondo se quel bene viene venduto per

600 milioni>>292.

290 V., in particolare, C. Belfiore, op. ult. cit., e M. Lubrano, op. ult. cit., i quali evidenziano la insufficienza dei correttivi previsti dalla legge alla sproporzione contrattuale, che si riducono, in buona sostanza, ai casi di rescissione. La necessità di congegnare strumenti volti alla salvaguardia di un’esigenza di giustizia sostanziale ed all’assicurazione di una, troppo spesso mortificata aequitas contrahentium, è vigorosamente rimarcata da A. Trabucchi, Istituzioni di

diritto civile, Padova, 1995, p. 661. 291 Così C. Belfiore, op. ult. cit., al quale, a conclusione del commento a Cass. n. 12401/92, “sembra lecito poter sostenere che l’affermazione che l’ordinamento si disinteressa del tutto del problema della corrispondenza tra il prezzo e il valore economico della cosa venduta è, in questa sua generica formulazione, alquanto errato. In realtà, invece, l’ordinamento presuppone la realtà economica e la funzione sociale della vendita, realtà e funzione che richiedono, almeno tendenzialmente, l’equivalenza economica delle due prestazioni”. 292 F. Galgano, Sull’equitas delle prestazioni contrattuali, cit., p. 420.

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Alla luce di tale precisazione, emerge che, alla stregua

dell’orientamento giurisprudenziale sensibile al problema della congruità

dello scambio, l’ipotesi della vendita nummo uno ricorre non solo quando il

prezzo è meramente simbolico, ma anche quando non corrisponde, almeno

tendenzialmente, al valore del bene conferito293.

È evidente, quindi, l’impostazione marcatamente “oggettivistica” di

questa interpretazione del concetto di corrispettivo. Essa vuole che, nella

vendita, affinché si realizzi la funzione economico-sociale sua propria, è

necessario un rapporto tendenziale di equivalenza tra le prestazioni scambiate,

la cui assenza determina la nullità del contratto per mancanza di causa.

L’unica ragione giustificatrice della vendita ricorre allorché realizzi

l’ingresso nel patrimonio del venditore del corrispondente valore in numerario

del bene venduto294.

Tale principio, che sembra totalmente escludere il principio

volontaristico di autodeterminazione del contenuto contrattuale, stabilito

dall’art. 1322 c.c., è stato vivacemente criticato da autorevole dottrina, la

quale ha evidenziato, appunto, l’incongruenza logica dell’assimilazione della

mancanza di equivalenza tra il valore delle prestazioni, alla assenza tout-court

293 In proposito, F. Caringella, Vendita a prezzo irrisorio (o vile) e rilevanza causale della

fattispecie traslativa: un (improbabile) ritorno al passato della corte di legittimità, in Foro it., 1994, I, c. 2491 ss., osserva che “la pattuizione di un prezzo non rispondente, neanche in linea di lontana approssimazione, al reale valore della cosa trasferita, nel dar foggia ad un mero simulacro di corrispettività, non si presenta sul piano della ragionevolezza causale, affatto distinguibile rispetto alla previsione di corrispettivo stricto sensu simbolico e, quindi, non diversamente da quest’ultima, appare meritevole di caducazione per carenza del requisito funzionale”. 294 Secondo la dottrina, in termini economici, prezzo, o ragione di scambio, è il rapporto in cui la quantità di un bene si scambia con la quantità di un altro. Il prezzo, inoltre, si esprime in termini di denaro, segno monetario convenzionale, privo di utilità diretta, ma recante l’utilità strumentale di procurare qualsiasi bene suscettibile di scambio ed avente, quindi, la funzione di intermediario degli scambi. V. Papi, Moneta, in Noviss. dig. it., vol. X, Torino, 1964.

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di corrispettivo, perché simbolico o, comunque, sproporzionatamente

inferiore295.

Orbene, non v’è dubbio che, in effetti, le due fattispecie divergono sul

piano pratico in modo sostanziale, e che, pertanto, la loro riconduzione ad un

modello unitario produca conseguenze giuridiche inaccettabili, quale quella di

escludere dal novero degli interessi meritevoli di tutela tutti gli atti privi di

contenuto patrimoniale e diversi dalla mera sostituzione nel patrimonio del

debitore di un bene con il suo esatto controvalore in denaro296.

Tali considerazioni hanno spinto parte della dottrina a ribadire il

primato dell’autonomia contrattuale, secondo il generale principio dell’art.

1322 c.c., limitando la rilevanza dello squilibrio tra le prestazioni alle sole

ipotesi in cui lo scambio sia gravemente alterato e ci sia il sospetto di dolo o

violenza di una parte a danno dell’altra297.

Secondo tale orientamento, infatti, “l’autonomia contrattuale è, in linea

di principio, insindacabile e incensurabile”, ed il criterio del corrispettivo

proporzionale al valore della prestazione, che pure si ritrova in diverse norme

295 F. Galgano, op. ult. cit., p. 420. 296 V. F. Camilletti, Profili del problema, cit., p. 119, il quale osserva sul punto: “E ciò come se non fosse possibile che un soggetto decida di vendere un bene ad un valore diverso da quello reale e ciò nonostante ritenere comunque per lui vantaggiosa la stipulazione del contratto”. Cfr., inoltre, quanto detto in precedenza (Cap….) in ordine all’art. 1174 c.c.. 297 F. Galgano, op. ult. cit., p. 421: “Va perciò ribadito a chiare note che fuori dei casi, legislativamente previsti, della rescissione per lesione ultra dimidium del contratto concluso con approfittamento dell’altrui stato di bisogno e della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, provocata da eventi eccezionali ed imprevedibili, al giudice non è consentito di sindacare l’equivalenza delle prestazioni, ogni determinazione circa la congruità dello scambio contrattuale essendo rimessa all’autonomia dei contraenti”.

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codicistiche, vale solo per integrare, e non per correggere, la volontà delle

parti298.

Tuttavia, va registrato che successivamente, nel 1993, la Cassazione ha

“corretto il tiro”299, statuendo che “la pattuizione di un prezzo notevolmente

inferiore al valore di mercato della cosa compravenduta, ma non privo del

tutto di valore intrinseco, può rilevare sotto il profilo della individuazione del

reale intento negoziale delle parti e della effettiva configurazione ed

operatività della causa del contratto, ma non può determinare la nullità del

medesimo per la mancanza di un requisito essenziale”300.

Pertanto, tale pronuncia, collocandosi nel solco tracciato

dall’orientamento dominante fino agli inizi degli anni ’80 dello scorso

secolo 301 , ritiene che i problemi circa la adeguatezza e l’equivalenza

tendenziale della prestazione, riguardino soltanto la corretta qualificazione del

contratto, senza determinarne la nullità302.

298 F. Galgano, op. ult. cit., p. 422, il quale raggiunge tale conclusione a seguito dell’esame delle disposizioni codicistiche relative alla determinazione del corrispettivo (artt. 1474, 2225, 2263, 1657, 1709, 1733, 1755, comma 2, 2233, comma 1). 299 L’espressione è di F. Galgano, Squilibrio contrattuale e mala fede del contraente forte, in Contratto e Impresa, 1997, p. 420. 300 Cass., 28 agosto 1993, n. 9144, in Foro it., 1994, I, c. 2489, con nota di F. Caringella, Vendita a prezzo irrisorio (o vile) e rilevanza, cit. La sentenza cassa App. Napoli, 21 dicembre 1989, cit.. 301 Tra le varie sentenze che si erano già espresse in senso conforme a quella in esame, ricordiamo Cass., 16 luglio 1963, n. 1945, cit.; Cass., 24 febbraio 1968, n. 632, cit.. 302 La Cassazione, in questa pronuncia, precisava ancora che “il prezzo della compravendita deve ritenersi inesistente, con conseguente nullità del contratto per mancanza di un elemento essenziale (art. 1418 e 1470 c.c.), non nell’ipotesi di pattuizione di prezzo tenue, vile ed irrisorio, ma quando risulti concordato un prezzo obiettivamente non serio, o perché privo di valore reale e perciò meramente simbolico, o perché programmaticamente destinato nella comune intenzione delle parti a non essere pagato”. V. anche Cass., 25 marzo 1996, n. 2635, in Giur. it., 1997, I, 1, c. 476, la quale esprime l’indirizzo tradizionale secondo cui “la figura dell’indebito arricchimento non sussiste allorquando l’eventuale squilibrio economico dipenda dalla volontà degli interessati, legittimamente espressa nell’esercizio della loro autonomia negoziale a mezzo di valido contratto”. Tale affermazione, evidentemente, implica che lo

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Con tale sentenza, quindi, la Cassazione riprende a tracciare una netta

linea di demarcazione tra ipotesi di prezzo simbolico, ossia del tutto carente di

spessore economico, ed ipotesi di prezzo vile (od irrisorio), ossia ictu oculi

inadeguato rispetto al valore della res alienata, anche se non privo di

intrinseca consistenza, facendo discendere da tale distinzione soluzioni

differenti. Nel primo caso, infatti, si opta per la soluzione della nullità per

carenza dell’elemento causale; nella seconda, si abbraccia la soluzione

contraria, sulla base del noto principio dell’indifferenza dell’ordinamento

giuridico di fronte all’esplicazione dell’autonomia privata303.

In tale prospettiva, il contraente svantaggiato da un contratto a

prestazioni sperequate, potrà solo avvalersi dei rimedi expressis verbis

approntati dalla trama codicistica per porre rimedio a simili fenomeni di

sbilanciamento, e, specificatamente, in presenza dei presupposti

legislativamente scolpiti, dell’azione di rescissione per lesione304.

Siffatte implicazioni, determinate dalla pronuncia in esame, non hanno

mancato di suscitare critiche da parte di autorevole dottrina.

squilibrio economico non esclude la validità del contratto. Nello stesso senso, v. ancora, Cass., 21 novembre 1996, n. 10251, in Mass. Giur. it., e Cass., 29 luglio 1983, n. 5236, in Mass.

Giur. it., 1983. 303 Facendo applicazione di tali principi, la S.C., nella pronuncia in esame, ha ritenuto che l’alienazione di un bene per un prezzo di £.55.000.000, a fronte di un valore di mercato corrispondente a £.1.323.000.000, in assenza di elementi suffraganti la caratterizzazione del negozio in termini di liberalità, è idonea a superare indenne il controllo giudiziale circa l’integrità e l’efficienza dell’elemento causale. 304 In tal caso, infatti, la reazione dell’ordinamento a fronte della stipulazione vessatoria si giustifica in virtù, oltre che del mero difetto di equivalenza economica tra prezzo e diritto trasferito, degli ulteriori estremi dello stato di bisogno e dell’approfittamento ad opera della controparte. Cfr. Cass., 6 ottobre 1955, n. 2861, cit., secondo cui “se il prezzo è elemento essenziale della compravendita, ne è indifferente, sotto il profilo dell’essenzialità, l’ammontare, che può essere rilevante solo ai fini di un’eventuale azione di rescissione del contratto per lesione”.

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In particolare, è stato affermato che l’esclusione della vendita a prezzo

vile od irrisorio dalla sfera di operatività della sanzione di nullità - per

mancanza dell’elemento causale - costituisce <<la surrettizia riproposizione

dell’ormai anacronistica tesi dell’indifferenza dell’ordinamento giuridico a

fronte dell’esplicazione dell’autonomia privata>>305.

Secondo tale Autore, infatti, il progressivo mutamento della situazione

di mercato, rispetto a quella esistente all’indomani del varo del vigente codice

civile, attualmente caratterizzato dalla presenza, da un lato, di gruppi

imprenditoriali dotati di un forte potere contrattuale e, dall’altro, di soggetti

versanti in uno stato di inferiorità economico-contrattuale, impone - quale

correttivo indispensabile - una caratterizzazione sostanziale del concetto di

corrispettività306.

Altri, in sintonia con l’orientamento appena esposto, sottolinea che la

nozione di corrispettività, intesa in senso sostanziale, pur non postulando

l’obiettiva equivalenza tra le prestazioni, non può prescindere da una <<logica

congruenza>> tra le stesse, in virtù della quale solamente la prestazione di una

parte può atteggiarsi a fattore determinante della prestazione della

controparte307.

Secondo tali Autori, se risulta pacifico ed incontestabile che la funzione

di scambio sottesa al contratto di compravendita non implica la

configurazione del prezzo in termini di <<giustizia>>, è del pari evidente che

un prezzo irrisorio, ossia prima facie inadeguato rispetto al valore economico

della cosa venduta, non può considerarsi provvisto del crisma della

305 Così F. Caringella, Vendita a prezzo irrisorio, cit., c. 2492. 306 F. Caringella, op. ult. cit., c. 2493. 307 Lemme, Osservazioni sulla vendita con prezzo irrisorio, cit., p. 367.

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corrispettività308: in buona sostanza, la compravendita è nulla non quando il

prezzo sia meramente <<ingiusto>>, ma quando sia <<irrisorio>>309.

Altra parte della dottrina, invece, si è espressa in senso favorevole sulla

pronuncia in commento, ritenendola coerente con il principio di autonomia, in

forza del quale la determinazione contrattuale del prezzo della vendita è

libera, per essere il rapporto di equivalenza tra il prezzo pattuito e il valore

della res “un elemento naturale, ma non essenziale” dei contratti

commutativi310.

Del resto, anche un prezzo vile è reale perché, se non simulato, le parti,

se non ne avessero voluto il pagamento, ne avrebbero pattuito un altro

adeguato nell’ammontare: in tanto ne hanno scelto uno vile, in quanto è quello

che volevano fosse realmente pagato311.

La libera determinazione del prezzo, che l’art. 1470 c.c. non rapporta in

alcun modo al valore del diritto alienato312, non permette all’interprete di

ricercare, nel caso di vistosa sproporzione, la causa reale del contratto o di

308 F. Caringella, op. ult. cit., il quale richiama, sul punto, la distinzione operata da F. Galgano, Sull’equitas delle prestazioni, cit., tra “stridente sproporzione delle prestazioni” e “difetto di equivalenza, almeno tendenziale, delle prestazioni”. 309 Resta aperto, ovviamente, il problema relativo alla individuazione dei parametri in base ai quali stabilire quando un prezzo cessi di essere ingiusto per divenire irrisorio, attesa la varietà di ragioni (comprese quelle di natura sentimentale, v. C. Belfiore, op. cit., p. 467) che influiscono sulla determinazione dello stesso. 310 Cfr. P. Greco, Lezioni di diritto commerciale: I Contratti, Roma, 1958, p. 5 ss.; P. Greco e G. Cottino, Della vendita, cit., p. 77 ss.; A. Calisse, op. cit., p. 39. 311 D. Rubino, La compravendita, cit., p. 303; A. Pino, Il contratto con prestazioni

corrispettive. Bilateralità, onerosità e corrispettività nella teoria del contratto, cit., p. 143 ss.; A. Cataudella, Sul contenuto del contratto,cit., p. 309; G. Alpa, Sulla nozione di prezzo, in Alpa, Bessone e Roppo, Rischio contrattuale e autonomia privata, Napoli, 1982, p.148. 312 S. Romano, Vendita. Contratto estimatorio, in Tratt. dir. civ., diretto da Grosso e Santoro Passarelli, V, 1, Milano, 1960, p. 107; G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, p. 17.

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ipotizzare la nullità del contratto di compravendita per mancanza di un

elemento essenziale313.

Ne discende che, a prescindere da ipotesi puramente marginali, quale,

ad esempio, la vendita nummo uno, in cui potrebbe difettare un vero e proprio

prezzo, una effettiva prestazione del compratore, espressione di una

imprescindibile serietà contrattuale314, la previsione di un prezzo, pur non

adeguato, è corrispettivo idoneo a rendere possibile la qualificazione del

contratto quale compravendita315.

Inoltre, è stato osservato che ritenere nulla la vendita quando ci sia solo

sproporzione fra le prestazioni, significherebbe creare un istituto analogo a

quello della rescissione per lesione, ma con un ambito di applicazione ancora

maggiore, in quanto sarebbe permesso al venditore di ottenere addirittura la

nullità del contratto, anziché la rescissione, pur in assenza della lesione ultra

dimidium e in assenza dello stato di bisogno, presupposti entrambi necessari

per l’applicabilità dell’art. 1448 c.c.316.

Il ripensamento operato dalla Suprema Corte con la sentenza n.

9144/1993 non ha, tuttavia, posto fine al problema della rilevanza causale

della sproporzione fra le prestazioni.

Esso, infatti, è stato disatteso da una ordinanza del Tribunale di Trieste,

secondo cui la sproporzione tra le prestazioni, facendo venir meno la

313 C. M. Bianca, La vendita e la permuta, cit., p. 59; M. Bessone, Obiter dicta della

giurisprudenza, l’accertamento della <<causa>> reale dei contratti, equivoci sulla funzione

economico-sociale del negozio, cit., p. 947 ss.; C. Belfiore, op. cit., p. 467. 314 P. Greco e G. Cottino, op. ult. cit., p. 102; S. Gatti, L’adeguatezza fra le prestazioni, cit., p. 457; Trib. Parma, 16 novembre 1972, cit.. 315 Nel senso della indifferenza dell’ammontare del prezzo, v., ex plurimis, Cass., 16 luglio 1963, n. 1945, cit.; Cass., 24 febbraio 1968, n. 632, cit.; Trib. Roma, 15 febbraio 1963, cit.. 316 P. Greco-G. Cottino, op. ult. cit., p. 77.

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corrispettività del contratto di compravendita, ne comporta la nullità per

mancanza di causa317.

A conforto di tale decisione, il Tribunale, afferma che l’orientamento

espresso dalla Cassazione nella sentenza n. 9144/1993 <<non resiste alla

critica espressa in dottrina, secondo cui un prezzo irrisorio - ossia prima facie

inadeguato rispetto al valore economico della cosa compravenduta - non può,

salvo accedere ad una dimensione meramente formalistica del concetto di

causa, considerarsi provvisto (alla luce di un parametro di razionalità socio-

economica) del crisma della corrispettività>>318.

Aderendo, quindi, all’orientamento espresso da Cass. n. 12401/92 e n.

6492/87, aggiunge che è da ritenersi superato, nell’ultimo ventennio,

<<l’orientamento giurisprudenziale dominante in passato, fondato sulla

ritenuta indifferenza dell’ordinamento giuridico alle manifestazioni di

autonomia privata, con conseguente inammissibilità di un controllo giudiziale

in ordine alla rispondenza valoristica fra prezzo e res alienata>>.

L’ordinanza in commento, nel ritenere il mero fatto della oggettiva

sproporzione tra le prestazioni, di per sé considerato, causa di nullità del

contratto, a prescindere da ogni altra circostanza, segue un approccio

decisamente sostanzialistico nella verifica della rispondenza del programma

317 Tribunale di Trieste, 14 agosto 1998, in Giur. comm., 1998, II, p. 736 ss., con nota di E. Rimini, Brevi note in tema di vendita di partecipazioni sociali a prezzo irrisorio, nonché

sull’ambito di operatività delle clausole statutarie di prelazione cd. <<incerte>> e sulla

sequestrabilità delle quote di s.r.l.. 318 La fattispecie riguardava una compravendita per £.35.000.000 di un pacchetto di quote di una s.r.l., il cui valore nominale era di £.700.000.000, ed il cui valore di mercato si affermava ancora superiore. Secondo il Tribunale “un prezzo siffatto, ove rapportato all’effettivo valore del bene nel tessuto complessivo dell’operazione negoziale, non può attendere alla funzione -necessariamente ineludibile nei contratti di scambio- di effettivo vantaggio (o ristoro) economico per l’alienante, e di serio sacrificio per l’acquirente”.

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negoziale definito in sede pattizia con lo schema causale tipicamente previsto

per il contratto di compravendita, con la conseguenza di ammettere, in

presenza di corrispettivi a tal punto ingiusti da rivelarsi irrisori, il sindacato

giudiziale sull’accordo negoziale definito dalle parti contraenti319.

Appare, quindi, evidente la progressiva rilevanza attribuita dalla

giurisprudenza - a fronte della esiguità e della rigidità degli strumenti

codicistici - al problema della congruità dello scambio, attraverso una diversa

concezione del contratto, notevolmente spogliato - rispetto al passato - dei

suoi connotati di volontarietà e visto essenzialmente nella sua funzione

oggettiva, ossia nello scambio contrattuale, tanto che autorevole dottrina ha

parlato di “oggettivazione dello scambio”320.

Ancor più di recente, la Cassazione - richiamando espressamente Cass.

n. 12401/92 - ha ribadito che il “difetto di equivalenza delle prestazioni o

della ragione giustificativa della prestazione prevista” comporta “l’assoluta

mancanza di causa del contratto e, per l’effetto, la nullità dello stesso”321.

319 Cfr. F. Caringella, Vendita a prezzo irrisorio, cit., c. 2493. 320 L’espressione è di F. Galgano, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, cit., p. 923. L’A., infatti, prima di esaminare Cass. n. 12401/92, osserva: “Quando negli anni settanta, sulla base di una certa giurisprudenza, che aveva dichiarato, in alcune prime sentenze, la nullità del contratto per mancanza di causa, parlai di oggettivazione dello scambio contrattuale, non potevo prevedere quali dimensioni questo fenomeno avrebbe raggiunto”. 321 Cass., 15 giugno 1999, n. 5917, in Giust. civ., 2000, I, p. 135 ss., con nota di M. Balestrieri, La preordinata volontà di non pagare il corrispettivo come causa di nullità della

compravendita. Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte riguardava la compravendita di un immobile, il cui prezzo era stato offerto dall’acquirente per il tramite di una dazione di un assegno bancario risultato, in ambito penale, postdatato e senza copertura. Pertanto, nel caso di specie, più che di difetto di equivalenza delle prestazioni, dovrebbe più correttamente discorrersi di difetto tout court della pattuizione di un corrispettivo. Ad ogni modo, la pronuncia si pone all’attenzione dell’interprete, in quanto contiene un esplicito richiamo a Cass. 20 novembre 1992, n. 12401.

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Anche tale pronuncia, pertanto, privilegiando il concetto di causa in

concreto o ragione dell’affare, utilizza tale requisito contrattuale quale

strumento di controllo della congruità dello scambio322.

Nonostante tali pronunce, va comunque tenuto presente che la più

autorevole dottrina continua a ribadire che il principio causalistico non

implica un sindacato giudiziario di validità del contratto che attenga al vaglio

della congruità dello scambio323.

Il controllo causale, secondo tali Autori, lungi dal costituire lo

strumento per negare la sanzione del vincolo nell’ipotesi di contratti in cui lo

scambio appaia squilibrato, implica il riconoscimento dell’attitudine

dell’autonomia privata ad esplicarsi anche nella valida pattuizione di

prestazioni, non solo non equivalenti, ma anche gravemente sperequate.

Ciò, del resto, sarebbe confermato dalla mancata riproposizione, nel

codice civile vigente, della disposizione contenuta nell’art. 1101 del codice

civile del 1865, che definiva contratto a titolo oneroso quello “nel quale

322 Secondo la pronuncia in esame, correttamente i giudici di merito hanno qualificato nullo il contratto per mancanza di causa, stante il difetto tout court della pattuizione di un corrispettivo, in quanto, nella specie, la prestazione assunta dall’alienante non trovava “alcuna giustificazione nell’originaria intenzione di controparte di non pagare il prezzo concordato”. Secondo M. Balestrieri, op. cit., p. 137, la decisione merita di essere condivisa, in quanto “rappresenta un importante passo verso il consolidarsi di un orientamento dei giudici di legittimità nel senso di una concezione di <<causa>> intesa quale emersione delle ragioni che in concreto giustificano le parti ad assumere impegni vincolanti”. Critico, invece, F. Galgano, op. ult. cit., p. 925, secondo cui si sarebbe potuto parlare, nella specie, di “nullità del contratto perché corrispondente ad insolvenza fraudolenta, che è reato; invece la Cassazione ha motivato: qui il contratto è nullo per mancanza della causa in concreto”. 323 R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 640 ss.; C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 489 ss.; V. Roppo, Il contratto, cit., p. 383 ss.; A. Di Majo, voce Causa del negozio giuridico, cit., p. 8; U. Breccia, Causa, cit., p. 11; G. Alpa, La causa e il tipo, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno, I contratti in genere, a cura di E. Gabrielli, I, Torino, 1999, p. 511 ss.; F. Benatti, Arbitrato di equità ed equilibrio contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, p. 843.

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ciascuno dei contraenti intende mediante equivalente procurarsi un

corrispettivo”324.

Più precisamente, al riguardo si è osservato che le determinazioni

afferenti alla congruità dello scambio contrattuale, in assenza nel nostro

ordinamento positivo di un principio di necessaria equivalenza delle

prestazioni, devono essere rimesse alla esclusiva sfera di pertinenza delle parti

contraenti325. Con la conseguenza che, sul piano applicativo, l’ammontare,

congruo o non congruo, del prezzo, potrebbe al più rilevare ai soli fini di

un’eventuale azione di rescissione del contratto per lesione, e non a quelli di

una azione di declaratoria di nullità per difetto di causa326.

Conforme a tale ultimo orientamento è Cass. n. 2635/1996, la quale

richiama <<il costante insegnamento di questa Corte, secondo il quale la

figura dell’indebito arricchimento non sussiste allorquando l’eventuale

squilibrio economico dipenda dalla volontà degli interessati, legittimamente

espressa nell’esercizio della loro autonomia negoziale a mezzo di valido

contratto>>327.

324 Sul punto, v. A. Accornero, Errore sul prezzo ed errore sul valore: due concetti distinti ma

non ancora riconosciuti dalla giurisprudenza, in Giur. it., 1997, I, 1, c. 478 (e sentenze ivi citate). L’A. riferisce dell’orientamento giurisprudenziale che dalla mancata trascrizione, nel Codice civile del 1942, dell’art. 1101 c.c. del 1865 fa discendere il carattere non (più) indispensabile del concetto di equilibrio contrattuale, rimanendo nella libera disponibilità delle parti prevedere prestazioni squilibrate. Secondo il riportato orientamento giurisprudenziale, quindi, lo squilibrio delle prestazioni, liberamente ammesso dall’ordinamento, può dare luogo solamente alla rescissione per lesione, quando ne sussistono i presupposti. 325 G. Marini, Ingiustizia dello scambio, cit., p. 274 ss.; R. Lanzillo, Regole del mercato, cit., p. 333; F. Galgano, Sull’equitas delle prestazioni contrattuali, cit.. Contra, A. Pino, Il difetto

di alea nella costituzione di rendita vitaliza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, p. 365 ss.. 326 L. Ferrigno, L’uso giurisprudenziale del concetto di causa, cit., p. 151; A. Accornero, Errore sul prezzo ed errore sul valore, cit., c. 477 ss.. 327 Cass., 25 marzo 1996, n. 2635, in Giur. it., 1997, 1, c. 476 ss..

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Invero, è stato evidenziato anche un altro punto della motivazione, in

cui la Suprema Corte precisa che nella fattispecie la somma versata dal cliente

all’agenzia di viaggio non era irrisoria e che <<lo stesso normalmente si affida

all’esperienza delle agenzie specializzate, restando così esonerato

dall’acquisire informazioni dirette>>328.

Tale affermazione - si osserva - sembra consentire l’individuazione di

una soluzione mediana al problema della congruità dello scambio, consistente

nell’ammettere la nullità del contratto per difetto di causa soltanto in caso di

irrisorietà del prezzo, ossia di corrispettivo assolutamente inadeguato a

realizzare la funzione economico-sociale sottesa all’operazione negoziale;

viceversa, la semplice non equivalenza delle prestazioni, sempre che non

siano applicabili i rimedi normativamente previsti della rescissione per lesione

o della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, non può

consentire ingerenze giudiziali, volte a riscontrare la sussistenza, o meno,

della causa del contratto329.

Ai fini della individuazione del criterio in base al quale valutare la

irrisorietà o meno del corrispettivo, tale orientamento suggerisce di seguire

l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui nell'ambito dei rapporti

sinallagmatici o di scambio il principio di corrispettività non richiede che ad

328 L’osservazione è di E. Rimini, op. ult. cit., p. 743. 329 E. Rimini, op. ult. cit., p. 743. Secondo l’A. “il controllo giudiziale sulle manifestazioni contrattuali frutto dell’autonomia dei privati - che secondo alcuni studiosi si imporrebbero in quei contesti sociali nei quali la presenza di operatori ad alto potenziale economico è in grado di creare fortissime turbative alla libera determinazione dei tendenziali equilibri tra i beni oggetto di scambio - può esser giustificato unicamente in ipotesi tassative ed eccezionali. Non a caso alcuni interpreti si sono soffermati sulla differenza intercorrente tra le figure di <<stridente sproporzione delle prestazioni>> e quelle di <<difetto di equivalenza almeno tendenziale delle stesse>>, chiarendo che le prime ricorrono <<allorché si vende per 10 milioni un bene che vale un miliardo>> e le seconde sono configurabili <<se quel bene viene venduto per 600 milioni” (il riferimento è a F. Galgano, Sull’equitas, cit., p. 420).

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ogni singola prestazione di una parte corrisponda una distinta

controprestazione o comunque una qualche forma di remunerazione dell’altra

parte, in quanto il principio di corrispettività opera, ove la legge o l'autonomia

privata non dispongano diversamente, tra gli insiemi di obblighi assunti da

ciascuna delle parti, assicurando nel suo complesso equilibrio contrattuale330.

Il carattere ambiguo dello squilibrio economico tra le prestazioni331,

inoltre, sconsiglia una reazione dell’ordinamento fondata sulla mera

constatazione dello squilibrio economico, come accadrebbe nell’ipotesi in cui

la sanzione di nullità per mancanza di causa operasse a ragione della non

equivalenza (sia pure almeno tendenziale) tra i valori delle prestazioni.

330 Così E. Rimini, op. cit., p. 744, in riferimento a Cass., 8 novembre 1997, n. 11003, in Giust. civ., 1998, I, p. 2889; I contratti, 1998, p. 255; Nuova giur. civ. comm., 1999, I, p. 338. Alla stregua del principio enunciato dalla pronuncia citata, l’A. conclude che la “non irrisorietà del corrispettivo potrebbe ricavarsi da un esame complessivo delle pattuizioni contrattuali che sono astrattamente in grado di mettere in evidenza altri elementi equilibratori del sinallagma.” 331 Lo squilibrio può essere, infatti, il frutto della considerazione, da parte dei contraenti, di un più ampio assetto di interessi e reciprocità di utilità, che trascende il contenuto del contratto e le pattuizioni del medesimo che definiscono il suo oggetto, o, comunque, della considerazione di ragioni esterne a tali elementi. Può essere, inoltre, espressione di un disegno liberale, o comunque di favore, di una parte a beneficio dell’altra. Può essere anche indotto dal perseguimento di finalità illecite, condivise dai contraenti, ovvero perseguite da uno di essi in collusione con il rappresentante dell’altro. Può, infine, essere determinato da anomalie delle circostanze della formazione del contratto, inerenti alle rispettive posizioni e condizioni dei contraenti (di debolezza o di forza, di capacità e informazione, di inettitudine o di ignoranza), e della condotta del’uno in danno dell’altro (di approfittamento, prevaricazione, inganno, reticenza). Sulle varie motivazioni che possono determinare tale squilibrio, v. A. Calisse, op.

cit., p.39.

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CAPITOLO VII

EQUILIBRIO CONTRATTUALE E CLAUSOLA GENERALE DI BUONA

FEDE

Da tale riflessione emerge l’indicazione di opportunità nel senso del

perseguimento di valori di giustizia contrattuale attraverso il sindacato sulle

circostanze e sulle condotte attinenti alla formazione del contratto, piuttosto

che attraverso il sindacato sull’equilibrio del contratto di per sé considerato332.

Sotto questo profilo, notevole interesse presenta una pronuncia di

merito che, se prima facie sembra collocarsi nel filone giurisprudenziale che

sanziona con la nullità per mancanza di causa il contratto con prestazioni

sperequate, in realtà ammette una impugnativa di tale contratto a causa della

332 Cfr. F. Benatti, op. ult. cit., p. 843 ss., il quale ricostruisce una linea di tendenza volta a ricercare soluzioni di giustizia contrattuale rispetto a rapporti squilibrati nell’allargamento ermeneutico di rimedi codicistici (incapacità naturale, errore) e nella valorizzazione della buona fede precontrattuale, indicando la prospettiva di evoluzione “nel senso di un più attento controllo dell’equilibrio originario delle prestazioni, qualora esso dipenda da un anomalo processo di formazione del contratto”. V., ancora, L. Mengoni, Autonomia privata, cit., p. 20; V. Pietrobon, Errore, volontà ed affidamento nel negozio giuridico, Padova, 1990, p. 99 ss.; M. Mantovani, <<Vizi incompleti>> del contratto e rimedio risarcitorio, cit., p. 219; R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., p. 498; R. Sacco, L’abuso della libertà contrattuale, in AA. VV., Diritto privato, III. L’abuso del diritto, Padova, 1997, p. 217 ss., dove l’attenzione è centrata sulla fase formativa; P. Schlesinger, L’autonomia privata, cit., p. 231, osserva. “il problema centrale, dunque, nella nostra società, non appare quello di garantire l’equità del contenuto economico del contratto, quanto di colpire quelle turbative o pregiudizi della libertà di decisione (specie per asimmetrie informative) tali da poter incidere su di una adeguata valutazione della convenienza dell’affare”; G. Marini, op. cit., p. 308 ss.; G. Vettori, Autonomia privata, cit., p. 37, coglie una linea evolutiva nella transizione “dall’impossibilità di sindacare la congruità dello scambio al di là di ipotesi tipiche, ad un nuovo assetto ove non è rilevante lo squilibrio in sé, ma in quanto frutto di un abuso o di un contegno in mala fede”.

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disparità di forze fra le parti, oltre i limiti consentiti dalle azioni di

rescissione333.

Si tratta della sentenza 23 febbraio 1993 con cui il Pretore di Salerno ha

ritenuto non rispondente ad interessi meritevoli di tutela un contratto di

iscrizione ad un corso di meteorologia per corrispondenza, sottoscritto per

adesione a condizioni particolarmente onerose334.

Di particolare interesse si presenta la riflessione sull’autonomia

contrattuale, che “non può rilevare ex se, quale valore assoluto

dell’ordinamento, quasi fosse espressione di un diritto inalienabile o

inviolabile di ciascun consociato (talvolta ricondotto persino, con qualche

evidente esagerazione panliberista, al precetto degli aa. 2 ovvero 21 Cost.), ma

deve sottostare, a seconda del campo di attività umana in cui esplica i suoi

effetti, alle regole generalissime dettate dalla norma superiore per quel singolo

campo […] una volta superato il giudizio di liceità”.

Appare del tutto evidente il venir meno della intangibilità del principio

di autonomia contrattuale, in favore dell’ammissibilità di un controllo più

incisivo del contratto, sotto il profilo della meritevolezza degli interessi

perseguiti335.

333 Così R. Lanzillo, La proporzione, cit., p. 220. 334 Pretura Circondariale di Salerno, 23 febbraio 1993, in Dir. e giur., 1995, p. 261 ss., con nota di G. Di Giovine, Controllo giudiziale della causa e congruità delle prestazioni

contrattuali. 335 “La valutazione di meritevolezza dell’interesse perseguito è condizione ineliminabile perché il negozio atipico sia riconosciuto dall’ordinamento come produttivo di effetti giuridici: tanto che, ove quella valutazione si risolva negativamente, esso non avrà rilevanza sul piano giuridico e non sarà fonte di obbligazione per le parti”. La fattispecie sottoposta all’esame del Pretore di Salerno riguardava, infatti, un contratto atipico di iscrizione ad un corso di meteorologia, contenente una clausola che prevedeva, nel caso di recesso prima del termine, una penale del 40% del prezzo dell’intero corso a carico dell’aderente, un operaio

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A fondamento di tale ultima esigenza, il Pretore di Salerno osserva che

“si deve abbandonare la prospettiva codicistica della pari libertà formale dei

contraenti quale unica garanzia di un’effettiva eguaglianza […] in una società

ormai in rapida evoluzione e tale da esigere la tutela del singolo contro le sue

controparti più forti - da un punto di vista eminentemente sostanziale - assai

più che non per il passato”; infatti, secondo la pronuncia in esame, il Codice

civile, proprio perché “profondamente informato all’ideologia della piena

eguaglianza formale come idonea garanzia per ciascun soggetto”, non

appresta adeguati rimedi a tutela del contraente debole, “vale a dire di colui

che, per quanto formalmente eguale alla sua controparte, abbia un potere

contrattuale sensibilmente inferiore rispetto a questa” e che vede menomata

“sostanzialmente la sua concreta possibilità di influire sulla determinazione

del contenuto del contratto - o delle clausole più importanti di esso - ”.

Sulla base di tali premesse, la pronuncia in esame giunge a dichiarare la

inefficacia del contratto de quo, perché diretto a realizzare un risultato iniquo,

in situazione di grave disparità di forze tra le parti e, pertanto, privo di causa

ai sensi dell’art. 1322 c.c.336, perché non rispondente ad interessi meritevoli di

tutela337.

In sintesi, il giudice ha percepito l’esigenza di negare effetti ad una

clausola indebitamente oppressiva e, non trovando nell’ordinamento specifici

strumenti per farlo, ha fatto ricorso all’art. 1332 c.c., tenendo conto della

(escavatorista) disoccupato, che si era iscritto nella speranza di trovare per questo tramite un posto di lavoro. 336 La decisione in commento muove dalla nozione di causa intesa nel senso di “interesse economico-individuale dei contraenti”. 337 Secondo il Pretore di Salerno “deve essere riconosciuta la massima potenzialità operativa alla norma di cui all’art. 1322 c.c. ed in sostanza al medesimo giudizio di meritevolezza”.

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modalità di conclusione del contratto (per adesione) e dell’ignoranza del

contraente aderente, il quale aveva confidato che la frequenza del corso gli

potesse facilitare il reperimento di una occupazione338.

Dal raffronto di tale pronuncia con le sentenze della Cassazione in

precedenza richiamate, emerge chiaramente come vi sia un mutamento di

prospettiva nel dare rilevanza allo squilibrio tra le prestazioni contrattuali, in

quanto in essa non viene in considerazione uno squilibrio oggettivo, ossia tra

le prestazioni in sé e per sé dedotte in contratto, bensì uno squilibrio

soggettivo, quale “effetto o strumento di quel fine prevaricatore o

antisolidale” contrario a principi generali del nostro ordinamento, e che si

risolve nella inutilità, per una delle parti, della prestazione conseguita339.

Anzi, con riferimento allo squilibrio oggettivo tra le prestazioni, la

pronuncia in esame afferma espressamente che “non sussiste la necessità di un

equilibrio sostanziale tra queste (eccettuati i casi in cui rileva ai fini della

normativa sulla rescissione o, in quanto applicabile, di quella di cui all’a. 428

c.c.)”, collocandosi, sotto questo profilo, nel solco del risalente e tradizionale

orientamento della Suprema Corte340.

Ciò nonostante, la sentenza del Pretore di Salerno non ha mancato di

sollevare critiche da parte della dottrina che tende ad escludere che si possano

338 Così R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 220. 339 In un altro passaggio della motivazione si legge: “La combinata lettura - che qui, dichiaratamente, si propugna quale uno dei parametri del giudizio di meritevolezza - dell’ a. 3 cpv., dell’a. 2 … e dell’a. 41 cpv. … della Costituzione consente di ritenere necessaria non tanto una sostanziale diseguaglianza, bensì un concreto approfittamento della disuguaglianza da parte del contraente forte”. 340 Sul punto, il Pretore di Salerno ribadisce: “Nessuna immanenza, pertanto, dell’equilibrio nel contratto, ovvero nessuna rilevanza di questo, in sé considerato ed esaurito, quale autonomo elemento di validità ed efficacia dell’atto di concreta estrinsecazione dell’autonomia privata”.

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qualificare come mancanza di causa anomalie, quali la sproporzione tra le

prestazioni, che non rilevino di per sé, ma solo in concorso con

comportamenti e situazioni esterni alla struttura contrattuale, attesa la

mancanza, nelle norme in tema di causa, di indicazioni circa i requisiti esterni

che si possono considerare rilevanti al fine di formulare il giudizio di

meritevolezza341.

Si dubita, inoltre, che, in generale, lo squilibrio delle prestazioni possa

riguardare la causa del contratto. Muovendo, infatti, dagli artt. 428, 1447 e

1448 c.c., è stato autorevolmente osservato che, trasformando in vizio della

causa le ipotesi in cui si verifichi una sproporzione tra le prestazioni ai danni

di uno dei contraenti, si provocherebbe un ampliamento della nozione di vizio

di causa, creando una nuova figura che determina non già la nullità, come

dovrebbe essere secondo i principi, ma solo l’annullabilità o la rescindibilità

del contratto342.

Pertanto, conformemente ai principi dell’economia di mercato, si

esclude l’esistenza di un generale principio di equivalenza oggettiva tra le

prestazioni, affermandosi l’opposto principio dell’equivalenza soggettiva delle

stesse, alla stregua del quale viene precluso ogni tipo di valutazione esterna

sulla congruità degli interessi contrapposti realizzati dalle parti in relazione al

341 In mancanza di espresse disposizioni di legge, infatti, le valutazioni di nullità formulate dall’interprete sulla base della propria personale sensibilità, potrebbero apparire arbitrarie. Sul punto, v. G. Mirabelli, La rescissione, cit., p. 132; G. Villa, Contratto e violazione di norme

imperative, Milano, 1993, p. 151 ss. 342 R. Sacco, Il contratto, cit., p. 276.

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rapporto di scambio esistente tra le prestazioni, ivi compresa quella del

giudice, atteso che le parti sono i migliori giudici dei propri interessi343.

Si ribadisce, quindi, il principio secondo cui il sindacato sulla congruità

dello scambio è ammesso soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge

ed, in particolare, nelle ipotesi di vizio del consenso, di stato di bisogno o di

pericolo344.

La rilevanza dello squilibrio soggettivo, ossia ascrivibile alla situazione

di debolezza complessiva - sostanziale ed economica - di uno dei contraenti,

emerge anche in una pronuncia della Corte Costituzionale tedesca345 - di

qualche mese successiva a quella del Pretore di Salerno - che si è espressa per

la censurabilità, alla stregua della buona fede contrattuale, del contratto

concluso a condizioni “notevolmente onerose per la parte debole”346.

343 G. Di Giovine, Controllo giudiziale, cit., p. 268. V., altresì, G. G. Auletta, La risoluzione

per inadempimento, Milano, 1942, p. 129 ss.; L. Mosco, Onerosità e gratuità degli atti

giuridici, Milano, 1942, p. 206 ss.; Id., La risoluzione del contratto per inadempimento, Napoli, 1950, p. 13; G. Osti, voce Contratto, cit., p. 489; G. Mirabelli, La rescissione, cit., p. 55. Sul punto, cfr. il §123 della Relazione al Codice civile del 1942: ”Una norma generale che avesse autorizzato il riesame del contenuto del contratto per accertare l’equità o la proporzione delle prestazioni in esso dedotte, sarebbe stata non soltanto esorbitante, ma anche pericolosa per la sicurezza delle contrattazioni, tanto più che avrebbe resa necessaria una valutazione dei vantaggi di ciascuna parte, operando imponderabili apprezzamenti soggettivi, non suscettibili di un controllo adeguato”. 344 V. S. Gatti, L’adeguatezza fra le prestazioni, cit., p. 443 ss. 345 BundesVerfassungsGericht (BverfG), 19 ottobre 1993, 1 BVR 567/89 e 1044/89, in Foro

it., 1995, IV, c. 88 ss. e in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 202 ss., con nota critica di A. Barenghi, Una pura formalità. A proposito di limiti e di garanzie dell’autonomia privata in

diritto tedesco. 346 A proposito del sindacato sulla congruità dello scambio contrattuale, osserva F. Galgano, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, cit., p. 927 ss.: “Siamo sulla linea di quelle cose che vengono dette in Italia dai giudici ordinari e in Germania dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza del 1993. Fatto significativo è che il Pretore di Salerno le ha dette con qualche mese di anticipo rispetto alla Corte Costituzionale tedesca: non perché sia stato molto geniale, ma perché si tratta di cose che erano nell’aria: dice testualmente questa sentenza del Pretore di Salerno che il contraente che, abusando della propria posizione di potere, costringe la controparte a concludere un contratto a condizioni inique, con evidente sproporzione tra le prestazioni reciproche, viola la buona fede contrattuale, e pone in essere un

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Secondo tale pronuncia, nel diritto tedesco, in riferimento a rapporti

contrattuali caratterizzati da una strutturale disparità delle parti e dalla

notevolissima onerosità degli obblighi assunti dalla parte debole, il giudice,

nel determinare il contenuto delle clausole generali di correttezza e buona fede

e di contrarietà al buon costume, deve utilizzare il precetto costituzionale della

garanzia dell’autonomia negoziale dei privati ed operare a tale stregua un

controllo del contenuto del contratto347.

Tale sentenza, quindi, affronta esplicitamente anche il problema

dell’intervento giudiziale di limitazione o di correzione e, al tempo stesso, di

garanzia dell’autonomia privata 348 , sostenendo che il giudice non si può

appagare del mero accordo formale fra le parti, omettendo ogni indagine

sull’effettiva e concreta possibilità per ognuno dei contraenti di formulare

scelte libere e consapevoli; così facendo, infatti, si corre il rischio di

disconoscere la garanzia dell’autonomia privata, “quale diritto fondamentale

… in quanto … la libertà di conformazione dei rapporti giuridici secondo la

volontà del singolo deve considerarsi compresa nella generale libertà di

iniziativa economica”.

contratto nullo. … La stessa cosa dopo tre o quattro mesi l’ha detta la Corte Costituzionale tedesca. Sono idee che circolano, che sono nell’aria, che sono cioè frutto del senso comune del tempo in cui viviamo”. 347 La pronuncia in esame riguardava la prassi, invalsa in Germania fra gli istituti bancari, di esigere a garanzia dei finanziamenti, il rilascio di fideiussioni (su modulo predisposto dalla banca, contenente una clausola che nella prassi italiana verrebbe qualificata omnibus) da parte dei più stretti congiunti del debitore principale, pur se nullatenenti, con lo scopo, da un lato, di prevenire gli effetti di eventuali intestazioni fittizie in loro favore di beni ed attività del debitore; dall’altro, di creare nel debitore un forte incentivo alla restituzione del prestito, tramite la minaccia di azioni esecutive contro i suoi cari. La Corte Costituzionale tedesca fu investita della questione, dopo che il Supremo Tribunale Federale (Bundesgerichtshof = BGH) aveva più volte deciso per la validità degli impegni fideiussori, sulla base del rilievo che essi erano stati accettati e sottoscritti da soggetti maggiorenni e responsabili, e che, pertanto, non potevano essere privati dei loro effetti. 348 In termini, A. Barenghi, op. cit., p. 202.

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La Corte Costituzionale tedesca si preoccupa, con tale pronuncia, di

rendere effettiva la tutela dell’autonomia privata: “Il corretto bilanciamento

degli interessi dei singoli risulta bensì dalle concordanti dichiarazioni di

volontà dei contraenti; […] quando, tuttavia, uno di essi vanti una così

marcata superiorità da potere in sostanza determinare unilateralmente il

contenuto del contratto, ciò si traduce per l’altra parte nella soggezione

all’eterodeterminazione”.

Ne discende che “ solo ove sussista un certo equilibrio nei rapporti di

forza fra i contraenti l’autonomia contrattuale è idonea a fornire un’equilibrata

composizione degli interessi in conflitto […] sicché […] tra i principali

compiti del vigente diritto civile è il riequilibrio delle alterazioni della parità

dei contraenti”349.

Pertanto, “quando il contenuto del contratto presenti straordinari oneri

a carico di una delle parti ed il bilanciamento dei contrapposti interessi risulti

visibilmente squilibrato, allora il giudice non potrà affermare che <<il

contratto è il contratto>>, ma dovrà piuttosto accertare se tale assetto di

interessi non sia il risultato di una strutturale disparità tra le parti, e, nel caso,

intervenire, utilizzando una delle clausole generali predisposte

dall’ordinamento”350.

349 Tale affermazione, trasferita nel nostro ordinamento giuridico, comporta il riconoscimento dell’operatività del principio di cui all’art. 1372 c.c. (“Il contratto ha forza di legge tra le parti”) solo nelle situazioni in cui vi sia parità di forze tra i contraenti. 350 Critico sul punto A. Barenghi, op. cit., p. 205, ad avviso del quale “l’opposizione tra parità e disparità delle parti quale metro di valutazione dell’ammissibilità di un intervento giudiziale nel contratto esprime, tuttavia, una prospettiva né pacifica né priva di azzardi”.

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Gli strumenti di reazione alla strutturale disparità fra le parti, la Corte

Costituzionale tedesca li ha rinvenuti nel § 138, comma 2, BGB e nel § 242

BGB351.

Difatti, il BundesVerfassungsGericht ha affermato che i vincoli

fideiussori oggetto di contestazione, stipulati tra istituti bancari e soggetti

sprovveduti, privi di ogni potere di incidere sulle condizioni del contratto,

devono essere dichiarati nulli, perché contrari al buon costume o, comunque,

privati di effetti, perché frutto di comportamenti contrari al dovere di buona

fede352.

Tali principi hanno ben presto trovato un riscontro sempre più crescente

nella cultura giuridica, al punto tale da ispirare la legislazione e la

giurisprudenza successiva anche del nostro Paese353.

351 Il § 138, Absatz 1, BGB sancisce la nullità del negozio stipulato in contrasto con il buon costume (Gute Sitten). Tale clausola generale è più precisamente individuata nel secondo Absatz del § 138 BGB, con riferimento ai contratti con cui ci si assicuri, o si assicuri ad un terzo, un vantaggio patrimoniale eccezionalmente sproporzionato, sfruttando la situazione di bisogno o l’inesperienza o l’incapacità di giudizio o la debolezza della volontà dell’altra parte; il § 242 BGB, sancisce il principio di correttezza e buona fede (Treu und Glauben). Sul punto, v. A. Barenghi, op. cit., p. 204 ed autori ivi citati. 352 Osserva F. Galgano, Squilibrio contrattuale, cit., p. 419, che “in Italia, come del resto in Germania, la sentenza era a taluno apparsa sconvolgente: perché rendeva l’atto di autonomia sindacabile da parte del giudice alla stregua della congruità dello scambio, tradizionalmente ritenuta incensurabile fuori delle ipotesi tassative del contratto rescindibile per lesione ultra

dimidium e del contratto risolvibile per eccessiva onerosità sopravvenuta; e perché ricollegava alla violazione della buona fede contrattuale una sanzione, quale la nullità del contratto, ben più drastica della generica obbligazione di risarcire il danno cagionato, tradizionalmente ritenuta come la sola sanzione applicabile”. 353 Cfr. R. Lanzillo, La proporzione, cit. p. 177: “La sentenza in esame, pertanto, ha esteso la copertura costituzionale dell’autonomia privata all’aspetto sostanziale della stessa, escludendo che i contratti possano essere ritenuti vincolanti in virtù della mera, formale, adesione ad un regolamento da altri predisposto; ha affermato la natura socialmente tipizzabile delle situazioni di potere-soggezione fra i contraenti, le quali autorizzano il giudice a valutare lo scambio contrattuale anche sotto il profilo dei suoi contenuti economici, ed ha invitato il legislatore e gli interpreti ad impedire gli abusi”.

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A ben considerare, i principi affermati dalle pronunce da ultimo citate e,

soprattutto, dalla sentenza del Pretore di Salerno, non si presentano del tutto

isolate, essendo possibile riscontrare alcuni precedenti.

In particolare, la valorizzazione del principio di meritevolezza degli

interessi (di cui all’art. 1322, comma 2, c.c.), quale limite alla esplicazione

dell’autonomia privata, è rinvenibile già in alcune pronunce degli anni ‘80, sia

di merito che di legittimità354.

Tra queste pare opportuno citare una decisione del Tribunale di

Vicenza, in tema di contratto di leasing355.

Tale pronuncia, dopo aver evidenziato i punti di contatto tra questa

figura contrattuale e la vendita a rate (sotto il duplice profilo della categoria di

soggetti contraenti e delle finalità economiche dei due contratti), ha escluso la

operatività delle clausole unilateralmente predisposte in un contratto di

leasing, in quanto, in contrasto con il principio di meritevolezza, prevedevano,

in caso di inadempimento dell’utilizzatore, il diritto del concedente di

conseguire non solo la restituzione del bene, ma anche i canoni già scaduti e

non pagati, l’importo delle indennità di mora, le spese, e, a titolo di penale, il

valore attualizzato al tasso di sconto dell’ammontare dei canoni a scadere,

salvo il risarcimento dell’eventuale maggior danno356.

Di poco precedente era stata una sentenza della Cassazione che, in forza

del medesimo principio, aveva ammesso interventi del giudice diretti a

354 Sulla portata di tale principio, v. G.B. Ferri, Meritevolezza degli interessi e utilità sociale, in Riv. dir. comm., 1971, II, p. 81 ss. 355 Trib. Vicenza, 10 novembre 1984, in Riv. dir. comm., 1985, II, p. 285. 356 Secondo la pronuncia in commento, al contratto di leasing finanziario deve applicarsi la norma imperativa di cui all’art. 1526 c.c., “che pone a tutela del contraente più debole il principio della adeguatezza del sacrificio patrimoniale al vantaggio effettivamente conseguito”.

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limitare l’autonomia privata, al fine di ristabilire l’equilibrio economico fra le

parti contrattuali, in tema di clausola penale eccessivamente onerosa357.

L’art. 1322, comma 2, c.c. è stato, inoltre, richiamato per valutare la

legittimità o meno di singole clausole contrattuali atipiche. In particolare, in

relazione ad una clausola di manleva contenuta in un contratto di appalto, la

Cassazione ha ritenuto che essa fosse valida ed efficace, poiché trovava

corrispettività nell’economia del contratto, anche se, nel contempo, veniva

sottratta all’apprezzamento del giudice di merito la convenienza economica

del contratto stesso358.

Tali pronunce, pur prospettando un utilizzo - più o meno intenso - del

principio di meritevolezza degli interessi funzionale alla salvaguardia

dell’equilibrio (economico) del programma negoziale, non si discostano dalla

posizione della dottrina dominante che, sebbene nella varietà delle tesi

sostenute e delle soluzioni proposte, colloca l’art. 1322, comma 2, c.c.,

esclusivamente nell’ambito della problematica del contratto atipico.

Sicuramente più originale si presenta, pertanto, una corrente di pensiero

propensa ad estendere il giudizio di meritevolezza anche ai contratti tipici359.

In tale prospettiva, il canone della meritevolezza degli interessi viene

assunto come strumento per sanzionare l’autonomia privata, quando vengano

costituiti rapporti in cui i termini dello scambio fra le prestazioni non sono

equilibrati, risolvendosi in uno sperequato vantaggio per una sola delle parti.

357 Cass., 24 aprile 1980, n. 2479, in Giur. it., 1980, I, 1, c. 1784. Sull’argomento, v. infra, p. 133 ss.. 358 Cass., 8 marzo 1980, n. 1343, in Foro it., 1981, I, c. 2339. 359 Secondo P. Perlingieri. Nuovi profili del contratto, in Rass. Dir. civ., n. 3/2000, p. 553, “al sistema giuridico va conformata la nozione di autonomia contrattuale: non basta che l’atto sia lecito, occorre che sia anche meritevole e - come ormai sembra acquisito - senza a tal proposito distinguersi tra contratti atipici e quelli tipici”.

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Secondo questa impostazione, la meritevolezza degli interessi perseguiti

dai contraenti sarebbe rivelata proprio dalla corrispettività dei valori

scambiati, la cui mancanza impedirebbe di attribuire al negozio efficacia

giuridica e quindi forza vincolante fra le parti, non rispondendo il contratto

alla condizione richiesta dall’art. 1322, comma 2, c.c.

In merito, si può richiamare l’orientamento dottrinale che, intendendo il

requisito della causa come “funzione economico-sociale” del contratto360 ,

sanziona con i mezzi della illiceità o mancanza di causa tutti gli atti di

autonomia privata in contrasto con la lex generalis dell’art. 1322 c.c., che

esclude la tutela per interessi socialmente non meritevoli di protezione361.

Da altri si sottolinea la inesistenza, nel nostro ordinamento giuridico, di

un autonomo regime per i contratti atipici, attesa la sostanziale ininfluenza del

requisito dell’interesse meritevole di tutela, prescritto dall’art. 1322 c.c.362.

Si sostiene, infatti, che, fermo restando il principio del numero aperto

dei contratti, la differenza fra quelli codificati e quelli rimessi all’autonomia

delle parti, sarebbe essenzialmente di ordine pratico, in quanto i secondi,

soprattutto se molto diffusi e caratterizzati da un nomen comune,

360 Al riguardo, v. G.B. Ferri, Causa e tipo, cit., p. 118 ss.; M. Giorgianni, voce Causa, cit., p. 562. 361 Critico sul punto M. Bessone, Causa del contratto, cit., p. 1328 ss., il quale osserva che “carattere vincolante della promessa, controllo di liceità delle prestazioni, selezione degli interessi giuridicamente apprezzabili sono universi soltanto in parte comunicanti. … Da ciò l’insufficienza e la fondamentale ambiguità delle enunciazioni di principio e dei dicta che la giurisprudenza continua invece ad accreditare. E più criticabili di tutte le altre sono le formule che assegnano alla nozione di funzione economico-sociale del contratto un ruolo e un significato contrastanti con il contenuto e il valore operativo della nozione”. 362 Così V. Zeno-Zencovich, Il controllo giudiziale sull’equivalenza delle prestazioni nei

contratti di leasing, in Riv. dir. comm., 1985, p. 318 ss.; cfr., altresì, G. B. Ferri, op. ult. cit., p. 406.

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solleciterebbero una più puntuale verifica dei requisiti richiesti per tutti i

contratti363.

La dottrina maggioritaria, tuttavia, non ritiene condivisibile una tale

interpretazione della norma relativa al giudizio di meritevolezza, sia per la

difficoltà di giustificare, stante la lettera della legge 364 , una applicazione

estensiva, sia per la impossibilità di individuare nell’equilibrio dello scambio

un fattore determinante la efficacia giuridica di un contratto.

Si osserva, inoltre, che il giudizio di meritevolezza serve per selezionare

i contratti che perseguono interessi degni di protezione giuridica e non per

stabilire le modalità attraverso le quali tali interessi sono in concreto

realizzati, per cui non viene reputato corretto assumere quale criterio di

apprezzamento dell’autonomia privata la meritevolezza, quando il problema

da risolvere riguarda le modalità dello scambio365.

Si aggiunge che l’equivalenza tra le prestazioni, l’equilibrio dello

scambio, sono situazioni che riguardano - ammesso che esse rappresentino un

elemento necessario per la efficacia giuridica dei rapporti privati - la causa e

non il tipo contrattuale366; poiché ogni controllo sulla privata autonomia non

può compiersi correttamente senza mantenere distinti i concetti di causa e di

tipo, è da escludere che attraverso il giudizio di meritevolezza, che deve

363 V. Zeno-Zencovich, op. cit., p. 318. 364 L’art. 1332, comma 2, c.c., infatti, lega i contratti atipici al controllo di meritevolezza: “Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. 365 Secondo M. Costanza, Meritevolezza degli interessi, cit., p. 431, “La meritevolezza delimita la giuridicità dei rapporti privati in ragione delle situazioni finali che essi creano e non può, perciò, essere sovrapposta ad altre valutazioni, quali la sussistenza dell’equilibrio negoziale”. 366 V. G. Scalfi, Corrispettività ed alea nei contratti, cit., p. 62.

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necessariamente riferirsi al tipo, si possa controllare anche la causa del

contratto367.

Secondo tale orientamento, in definitiva, se si vuole assumere

l’equilibrio come un elemento immanente nel contratto con la conseguenza

che la sua mancanza fa venir meno l’idoneità del contratto stesso a creare un

vincolo giuridico efficace, si debbono utilizzare sistemi di controllo

sull’autonomia privata diversi da quello di meritevolezza368.

Ad ogni modo, la valorizzazione del giudizio di meritevolezza al fine di

privare di efficacia i contratti sperequati, rientra in un più ampio orientamento

volto a ravvisare l’implicazione di un precetto di giustizia dell’equilibrio

contrattuale nelle clausole generali dell’ordinamento giuridico ed, in

particolare, nel principio di buona fede369.

Al riguardo, va innanzitutto evidenziata la propensione mostrata dalla

giurisprudenza ad intervenire contro i contratti sperequati mediante

l’applicazione delle norme che impongono, appunto, il rispetto della buona

fede nella conclusione (art. 1337 c.c.), nell’interpretazione (art. 1366 c.c.) e

nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.)370.

Infatti, la Corte di Cassazione ha fatto ricorso proprio al dovere di

buona fede nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto per negare

efficacia ad un accordo, la cui esecuzione secondo il testo letterale avrebbe

367 M. Costanza, op. cit., p. 432. 368 M. Costanza, op. cit., p. 432. 369 Sul punto, v. M. Barcellona, Un breve commento sull’integrazione del contratto, in Quadrimestre, 1988, p. 524 ss.; M. Franzoni, Buona fede ed equità tra le fonti di integrazione

del contratto, cit., p. 83 ss. 370 F. Galgano, Squilibrio contrattuale, cit., p. 417 ss.

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costretto uno dei contraenti ad appagarsi di un corrispettivo del tutto

inadeguato371.

Secondo la pronuncia in esame, il principio di buona fede, che, nella

fase di esecuzione del contratto, si specifica nel dovere di ciascun contraente

di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte - quando ciò

non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio - si pone come

limite di ogni situazione, attiva e passiva, negozialmente attribuita,

determinando, così, integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto372.

Applicando tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto contrari a

buona fede il comportamento dell’affittuario di azienda, il quale aveva tenuto

fermo dal 1983 il prezzo di fabbrica dell’acqua minerale cui era commisurato

il canone di locazione dell’azienda termale, mentre risultava più volte

modificato il prezzo di mercato nella successiva fase di commercializzazione

del prodotto.

In questo modo, si era verificata una traslazione dell’aumento del

prezzo sulla fase di distribuzione della merce, affidata ad una società dello

stesso gruppo, conseguendo, così, il duplice vantaggio di impedire

scorrettamente l’aumento del canone dovuto alla controparte e di lucrare

ugualmente sulle vendite dell’acqua minerale e determinando una

sproporzionata divaricazione tra prezzo di mercato e canone, contraria allo

spirito dell’accordo raggiunto373.

371 Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, in Foro it., 1995, I, c. 1296. 372 Cfr. C. M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. Dir. Civ.,1983, I, 205 ss. 373 Con la pronuncia in commento, la Cassazione intervenne sull’”affaire Fiuggi”, che coinvolse, appunto, l’Ente Fiuggi ed il Comune di Fiuggi. Infatti, nel 1963 il primo aveva ricevuto dal secondo la concessione per lo sfruttamento delle sorgenti di acqua minerale

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Va sottolineato che, nella specie, considerata la natura delle parti

contraenti, non si poneva alcun problema di abuso del potere di mercato o

disparità di forze tra le parti stesse; la Suprema Corte ha perseguito, in

sostanza, l’equilibrato componimento degli interessi in conflitto, avallando il

principio per cui la violazione del dovere di buona fede ad opera di una delle

parti autorizza l’altra a chiedere la risoluzione del contratto, oltre che il

risarcimento dei danni374.

A ben considerare, però, il principio di buona fede non viene utilizzato

dalla Suprema Corte con funzione “correttiva” dell’autonomia privata, al fine

di sindacare la validità o meno della clausola contrattuale (che, nella specie,

attribuiva alla società concessionaria il potere di fissare liberamente il prezzo

di vendita in fabbrica delle bottiglie), ma per valutare la correttezza del

comportamento della società medesima375.

esistenti in luogo, impegnandosi a pagare un canone di concessione il cui importo era agganciato al prezzo di vendita in fabbrica delle bottiglie di acqua minerale, e avrebbe dovuto variare proporzionalmente al variare di questo. A partire dal 1983, la società concessionaria aveva bloccato i prezzi di vendita in fabbrica, nonostante la sopravvenuta svalutazione monetaria; contemporaneamente aveva fatto in modo che le società di distribuzione da essa stessa controllate, aumentassero congruamente i prezzi di vendita al pubblico delle bottiglie, in modo da recuperare in quella fase la differenza dovuta alla svalutazione monetaria, senza essere tenuta a pagare le corrispondenti royalties al Comune. Il Comune di Fiuggi aveva, pertanto, chiesto la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni, con domande, prima respinte dai giudici di merito, poi accolte in sede di legittimità. 374 Così R. Lanzillo, La proporzione, cit., p. 229; cfr. anche V. Carbone, L’”affaire” Fiuggi, in Corr. giur., n. 5/1994, p. 570 ss., secondo cui la Cassazione “al fine di garantire l’equilibrio contrattuale, conferisce al principio di buona fede il rango di regola di governo della discrezionalità delle parti, di guida al comportamento che le stesse debbono tenere nell’ambito delle … zone franche non pattiziamente regolate”. 375 Ad avviso di V. Carbone, op. cit., p. 573 ss., la motivazione della sentenza in esame “parte dal rispetto del patto contrattuale di cui presuppone la validità, ma lo interpreta secondo il criterio della buona fede, evitando l’abuso del diritto da parte dell’altro contraente”. Secondo l’A., infatti, la parte che gode della discrezionalità conferitale dall’accordo deve, tuttavia, esercitare i poteri discrezionali che le sono stati conferiti in relazione all’esecuzione del contratto, in modo da salvaguardare l’utilità della controparte.

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La clausola de qua viene “integrata” in virtù del principio di buona

fede 376 , quale limite all’esercizio del potere discrezionale attribuito dalla

volontà negoziale ad uno dei contraenti377.

In realtà, la conclusione cui giunge la Suprema Corte non appare

pienamente coerente con le premesse del “valore cogente” della buona fede e

del “dovere di solidarietà, ormai costituzionalizzato” 378 , le quali

sembrerebbero preludere, invece, il riconoscimento di implicazioni del

principio di buona fede antagonistiche rispetto alle pattuizioni contrattuali,

con effetto invalidante di queste ultime, qualora fossero in contrasto con tale

principio379.

376 La funzione di integrazione della clausola contrattuale consiste nella individuazione di utilità dei contraenti (nella specie, “l’evidente interesse dell’Amministrazione comunale all’adeguamento del prezzo di vendita in fabbrica al quale era commisurato il canone d’affitto”). Sul punto. v. M. Barcellona, op. cit., p. 550. 377 Osserva V. Carbone, op. cit., p. 573 che secondo la Cassazione, “se è vero che l’Ente Fiuggi è pienamente libero di determinare discrezionalmente il prezzo delle bottiglie alla fabbrica, non può ritenersi svincolato dall’osservanza del dovere di correttezza che si pone per l’ordinamento come un limite interno di ogni situazione, così da evitare l’abuso del diritto o come dice la motivazione <<per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale>>”. Secondo C. M. Barone, in Foro it., 1995, I, c. 1298, la sentenza in esame ha ampliato e puntualizzato le enunciazioni della precedente Cass. 9 marzo 1991, n. 2503, per la quale, anche se riferita al momento esecutivo, la buona fede conserva la sua funzione di integrazione del rapporto, quale regola obiettiva che concorre a determinare il comportamento dovuto, … come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale e generale del neminem laedere. 378 La buona fede - afferma la Cassazione - “concorre a creare la regula iuris del caso concreto, in forza del valore cogente che … le deve essere in generale riconosciuto”. 379 A proposito della motivazione di Cass. n. 3775/94, A. D’Angelo, La buona fede, cit., p. 247 ss. osserva: “Non sembra davvero che le premesse del valore cogente della buona fede e dell’inderogabilità della solidarietà si siano tradotte in una ratio decidendi implicante l’invalidità della clausola circa la <<piena libertà>> del concessionario di determinazione dei prezzi di vendita alla distribuzione. … Proprio la discrezionalità implicata dalla clausola che rimetteva al concessionario la determinazione del prezzo di vendita è parsa comportare il vaglio della conformità a buona fede del suo esercizio; secondo una logica, dunque, che presuppone la pattuizione, non già la sua rimozione in virtù di un giudizio di invalidità. Non

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Qualche Autore osserva come la pronuncia in commento segni “un

passo decisivo verso la definitiva accettazione della buona fede oggettiva (art.

1375 c.c.) tra le fonti di integrazione del contratto, […] in particolare tra le

fonti che consentono di inserire nel contratto un margine all’esercizio di

quelle scelte discrezionali dei contraenti che sembrerebbero invece del tutto

libere, o per lo meno non delimitate da alcuna regola interna al rapporto”380.

La giurisprudenza di legittimità, pertanto, inizia a mostrarsi sempre più

sensibile alle sollecitazioni della dottrina, che ha creduto di ravvisare nel

principio della buona fede lo strumento per integrare-limitare-correggere il

contenuto normativo dell’obbligazione, con riferimento alle esigenze poste

dallo svolgimento di essa381.

Difatti, coerentemente con il riconoscimento alla buona fede di una

funzione integrativa del rapporto, la Cassazione ha qualificato il

comportamento ad essa contrario in termini di inadempimento contrattuale,

tale da legittimare il ricorso al rimedio della risoluzione ex art. 1453 c.c.382.

può, dunque, dirsi che la decisione abbia, in attuazione della clausola generale di buona fede, riconosciuto o pronunciato l’invalidità di patti contrattuali”. 380 Così L. Nanni, Scelte discrezionali dei contraenti e dovere di buona fede, in Contratto e

Impresa, 1994, p. 477. L’A. sottolinea come la Cassazione, in tale pronuncia, abbia superato l’orientamento tradizionale ispirato al principio volontaristico, volto a negare alla buona fede funzione integrativa del contratto. Tale orientamento è espresso, ad esempio, da Cass. 16 febbraio 1963, n. 357, in Foro Pad., 1964, I, 1284, secondo cui “un comportamento contrario ai doveri di lealtà, correttezza e di solidarietà sociale non può essere reputato illegittimo e colposo, né può essere fonte di responsabilità per danni quando non concreti la violazione di un diritto altrui già riconosciuto in base ad altre norme”. 381 Di Majo, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, in Riv. critica dir. priv., I, 1984, p. 555. L’A. individua diversi livelli funzionali suscettibili di orientare l’uso del principio: “quello della integrazione dell’obbligazione e/o del contratto, quello del controllo, in termini etici, della condotta delle parti, quello della <<rottura>> dei principi del sistema codificato, là dove esigenze etico-sociali ciò rendono necessario”. 382 Osserva L. Nanni, op. cit., p. 477 ss., che la Cassazione, con tale pronuncia, “condivide … l’orientamento ormai diffuso secondo cui il criterio di buona fede oggettiva introduce nel regolamento contrattuale doveri e regole di condotta che le parti avevano omesso di

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Tale pronuncia, secondo un Autore, consente di rendere operante nella

fase di esecuzione del contratto un criterio già ampiamente collaudato

nell’applicazione del canone di buona fede precontrattuale383.

Infatti, come in forza dell’art. 1337 c.c. una parte non deve recedere

senza giusto motivo da una trattativa giunta ad un punto tale da giustificare il

legittimo affidamento dell’altra nella conclusione del contratto, così, in forza

dell’art. 1375 c.c., “una parte non può deludere senza giusto motivo la

ragionevole aspettativa dell’altra in ordine alla esecuzione del contratto”384.

Di poco precedente alla sentenza della Cassazione è una pronuncia di

merito che, pur non implicando giudizi di validità sulle pattuizioni, ha risolto

la controversia stabilendo, in applicazione della buona fede, una regola

concreta difforme dal contenuto di una clausola contrattuale385.

Nella specie si discuteva della legittimità del recesso esercitato dal

titolare di una polizza assicurativa, il quale lamentava che la compagnia di

assicurazione avesse attivamente sostenuto una formazione politica, con ciò

determinando una - sia pur minima - riduzione dei rendimenti e, nel

contempo, una sorta di associazione coattiva alla formazione politica

beneficiaria, il cui programma non era condiviso dall’assicurato.

In accoglimento del ricorso d’urgenza, il Tribunale di Milano ha

riconosciuto efficacia al recesso dell’assicurato, senza l’applicazione della

penalizzazione prevista dal contratto, ravvisando nel caso di specie la “lesione

prevedere, ma che è necessario adempiere o rispettare per consentire la piena attuazione dell’accordo”. L’A., inoltre, individua i precedenti di tale orientamento nella giurisprudenza lavoristica, in numerose occasioni propensa ad applicare il criterio della buona fede oggettiva per valutare la condotta sia del lavoratore che del datore di lavoro. 383 L. Nanni, op. cit., p. 479 ss. 384 Così L. Nanni, op. cit., p. 479. 385 Trib. Milano, 30 marzo 1994, in Foro it., 1994, I, c. 1577.

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di un diritto costituzionale primario”, quale la libertà di associazione, di per sé

valutabile come inadempimento sul piano contrattuale, con conseguente

diritto del ricorrente alla risoluzione del contratto386.

A ben considerare, quindi, tale decisione, più che comportare l’elisione

di una clausola contrastante con la buona fede, sembra avere stabilito una

regola integrativa, derogatoria della clausola che prevedeva penalizzazione a

carico del recedente, secondo una consolidata ed appropriata modalità di

attuazione della correttezza387.

Le decisioni esaminate presentano un elemento comune: in entrambe si

individua nella risoluzione del contratto il rimedio idoneo contro la violazione

della buona fede, che perciò viene ad essere considerata alla pari di un

inadempimento contrattuale, con una portata innovativa rispetto

all’orientamento contrario secondo cui “l’obbligo di eseguire il contratto

secondo buona fede non riveste attitudine integrativa rispetto alle

determinazioni delle parti, in quanto, operando solo nel momento esecutivo,

presuppone un regolamento d’interessi già definito”388.

Probabilmente un precedente di tale orientamento innovativo, può

rinvenirsi in una pronuncia di legittimità relativa ad una ipotesi in cui un

contraente si era impegnato con preliminare di permuta alla cessione di una

parte di un edificio da costruire, ma in seguito aveva omesso di compiere

386 In questo caso, il criterio di buona fede ha rappresentato lo strumento per inserire e rendere operante nel regolamento contrattuale il principio costituzionale della libertà di associazione. 387 V. A. D’Angelo, op. ult. cit., p. 249 ss. Secondo L. Nanni, Scelte discrezionali dei

contraenti e dovere di buona fede, cit., p. 481 ss., in questo caso viene in rilievo la ragionevole aspettativa a non vedere in alcun modo compromesso, in conseguenza della scelta di concludere il contratto, l’esercizio dei propri diritti costituzionali. 388 Così Cass., 9 aprile 1987, n. 3480, in Giur. it., 1988, I, 1, 1609.

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tempestivamente le pratiche amministrative richieste per il rilascio della

licenza edilizia389.

A fronte della obiezione formulata dal promittente di avere assunto

soltanto l’impegno di costruire entro il termine decorrente dal rilascio della

licenza edilizia, senza alcun altro impegno circa il momento della decorrenza

di quel termine e, quindi, di essersi riservato la libertà di intraprendere o meno

l’espletamento delle pratiche per il rilascio della licenza, la Cassazione, in

applicazione del principio di buona fede, riconduce tale libertà di scelta entro i

limiti da questo desumibili.

La Suprema Corte, infatti, ravvisa nella totale violazione del dovere

assunto contrattualmente un inadempimento grave, tale da giustificare la

risoluzione del contratto, perché aveva impedito all’altra parte di realizzare

l’aspettativa economica ragionevolmente prefissata al momento della

conclusione dell’accordo390.

Vi sono, invero, altre pronunce in cui, diversamente da quanto si è

riscontrato in quelle analizzate in precedenza, il riferimento alla buona fede è

posto in esplicita relazione con un giudizio di validità.

La Cassazione, ad esempio, in tema di impugnazione di delibere

societarie, ha riconosciuto l’applicabilità dell’art. 1375 c.c. nei rapporti tra

soci, avuto riguardo alla natura contrattuale dell’atto costitutivo di società391.

389 Cass., 10 aprile 1986, n. 2500, in Giur. it., 1987, I, 1, 507 e in Vita not., 1986, p. 787. 390 Secondo L. Nanni, op. ult. cit., p. 484, “ai giudici non interessa tanto la collocazione della buona fede entro una dettagliata graduatoria tra le fonti di integrazione del contratto; contano invece le conseguenze che la sua violazione determina sul contratto; se queste sono tali da vanificare la ragionevole aspettativa della parte alla prestazione dedotta in contratto, non vi è motivo di negare a quella parte il rimedio della risoluzione per inadempimento”. 391 Cass., 26 ottobre 1995, n. 11151, in Giur. comm., 1996, II, p. 329 ss., con note di Jaeger, Gambino, Corsi. La sentenza è commentata anche da F. Galgano, La categoria del contratto

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Più precisamente, la Suprema Corte ha affermato che le determinazioni

volitive assunte dai soci durante lo svolgimento del rapporto “debbono essere

considerate, a tutti gli effetti, come veri e propri atti di esecuzione del patto

sociale” e, quindi, la invalidità della delibera “in concreto preordinata ad

avvantaggiare alcuni soci in danno di altri”392.

In questa decisione è evidente la peculiarità e la non generalizzabilità

della relazione tra buona fede e validità; essa non riguarda in alcun modo il

controllo alla stregua della correttezza della validità del contratto o di singole

pattuizioni ad esso inerenti: è sindacato il comportamento di voto del socio in

quanto atto esecutivo, non costitutivo del patto sociale393.

È solo l’inerenza della condotta alla formazione della delibera che,

come ragione di impugnazione di quest’ultima, investe la validità, non di un

patto, ma dell’atto collegiale, nel quadro della disciplina delle impugnazioni

delle delibere assembleari.

alle soglie del terzo millennio, cit., p. 920; Id., Squilibrio contrattuale e mala fede del

contraente forte, cit., p. 423. Nella specie, la delibera di scioglimento anticipato adottata dall’assemblea straordinaria di una società a responsabilità limitata era stata impugnata da un socio che ne prospettava l’invalidità per essere stata assunta all’unico scopo di estrometterlo dalla compagine sociale. Il giudice di merito aveva respinto la domanda, affermando l’insindacabilità dei motivi che inducono la maggioranza dei soci a deliberare lo scioglimento anticipato della società. 392 Fortemente critico nei confronti di tale pronuncia è L. Nanni, La clausola generale di

buona fede, in Clausole e principi generali sull’argomentazione giurisprudenziale degli anni

novanta, in Le monografie di Contratto e Impresa, Padova, 1998, p. 333. Secondo l’A., infatti, la Cassazione, in questo caso, avrebbe consentito alla buona fede contrattuale di andare ad occupare uno spazio che invece non dovrebbe competerle, ossia quello della illegittimità, laddove il principio in parola dovrebbe riguardare esclusivamente l’adempimento dell’obbligazione sotto il profilo del se e del come adempiere. 393 In buona sostanza, la Cassazione ha ritenuto invalida, per violazione di buona fede nell’esecuzione del contratto di società, una deliberazione assembleare effetto di abuso del diritto di voto, quale, appunto, atto esecutivo del contratto di società, senza alcun sindacato sulla validità di quest’ultimo.

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Di conseguenza, il giudizio di validità non muove da una proprietà della

buona fede, ma dal quadro normativo dell’impugnabilità delle delibere, al

quale quel giudizio è connaturale in termini di contrarietà a legge del voto e,

quindi, della delibera394.

Dal tenore della motivazione della sentenza, comunque, non sembra

lecita alcuna estrapolazione in chiave di controllo giudiziale dell’equilibrio

contrattuale, che non era in alcun modo in questione nel caso di specie395.

Altra sentenza della Cassazione afferma l’invalidità della clausola di un

contratto di leasing che imputava all’utilizzatore il rischio della mancata

consegna della cosa da parte del fornitore, e abilitava il concedente a

pretendere egualmente il pagamento dei canoni, nonostante il mancato

godimento del bene da parte dell’utilizzatore396.

In relazione a tale clausola, la Cassazione ha affermato che “la clausola

del contratto di leasing che fa gravare sull’utilizzatore il rischio della mancata

consegna viola il principio dell’esecuzione secondo buona fede ed è pertanto

invalida”397.

394 F. Galgano, Squilibrio contrattuale, cit., p. 423, evidenzia l’importanza che può assumere il principio affermato dalla Cassazione, nell’ambito di un orientamento volto a sanzionare, in base all’art. 1418, comma 1, c.c., con la nullità o con la inefficacia - totale o parziale - il contratto in contrasto col principio di buona fede. L’A., infatti, osserva che, se è vero che nella sent. n. 11151/95, è richiamata la buona fede nell’esecuzione del contratto di società, sulla premessa che il voto in assemblea è atto esecutivo del contratto sociale, “tuttavia l’invalidità investe il voto quale dichiarazione di volontà, sia pure esecutiva di un contratto”. Secondo Galgano, in conclusione, nel voto dato in mala fede dal socio il rimedio è l’annullabilità, perché operano le norme speciali sulla invalidità delle delibere assembleari, “ma quando manca una norma di legge che disponga diversamente, la violazione di norma imperativa comporta nullità, quale forma generale di invalidità a norma dell’art. 1418, comma 1°”. 395 Cfr. A. D’Angelo, La buona fede, cit., p. 250. 396 Cass., 2 novembre 1998, n. 10926, in Foro it., 1998, I, c. 3081; I Contratti, n. 8-9/1999, p. 803 ss. con nota adesiva di A. G. Ruvolo; Giust. civ., 1999, I, 3385 ss., con nota di F. Sebastio. 397 La sentenza è così massimata sul Foro italiano.

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Se dalla massima sembra che il senso della pronuncia in esame possa

riassumersi nella invalidità della clausola di inversione del rischio per sua

contrarietà a buona fede, accreditando, così, l’idea che la correttezza possa

fondare un giudizio di validità dei patti contrattuali, la lettura dell’intera

decisione conduce a diverse conclusioni.

Infatti, il passo della sentenza che riguarda la buona fede si esprime,

senza che si faccia parola di invalidità, in termini di non giustificabilità della

pretesa del concedente all’adempimento dell’utilizzatore (infatti, secondo la

Suprema Corte, la clausola di inversione del rischio “non appare giustificabile

né in rapporto alla causa del contratto di leasing finanziario, né in rapporto

al dovere di esecuzione del contratto secondo buona fede”), per cui non è

possibile imputare l’affermazione dell’invalidità della clausola de qua alla

violazione del principio di buona fede, ma ad altre ragioni invocate nella

motivazione e, in particolare, alla sua non rispondenza ad interessi meritevoli

di tutela (“la clausola di inversione del rischio, applicata alla mancata

consegna, non realizza interessi meritevoli di tutela e non è quindi in sé

valida”) 398.

398 In senso contrario, v. F. Galgano, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, cit., p. 924, che ravvisa nella sentenza in commento un’ipotesi in cui i giudici italiani hanno censurato il contratto alla stregua della congruità dello scambio contrattuale, dichiarando la nullità della clausola di inversione del rischio perché violativa della buona fede nella formazione del contratto. Secondo l’A., più precisamente, la Cassazione ha applicato, nella specie, il principio che l’abuso della posizione di potere del contraente forte implica violazione della buona fede nella formazione del contratto, estendendone, quindi, l’operatività al di là delle fattispecie tipiche del contratto del consumatore e del contratto di subfornitura.

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Ne consegue che tale pronuncia, a ben considerare, non utilizza in alcun

modo il principio di buona fede, né per la valutazione del comportamento

delle parti, né ai fini della decisione399.

Si tratta, quindi, di obiter dicta400che manifestano la propensione a

ritenere non rispondenti ad interessi meritevoli di tutela le clausole

eccessivamente gravose od inique, in contrapposizione al precedente,

consolidato, orientamento giurisprudenziale che, per decenni, ha ritenuto

valide le clausole che addossano all’utilizzatore il rischio della mancata

consegna401.

Tale sentenza ripropone il tema dell’oggettivazione dello scambio,

presentando con esso forti collegamenti.

Difatti, la decisione della Suprema Corte prende le mosse da un

accurato esame della struttura dell’operazione di leasing e, conseguentemente,

della funzione economico-sociale del relativo contratto, giungendo ad

affermare che “l’operazione di leasing realizza una figura di collegamento tra

399 Secondo R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 224 e 230, tale pronuncia non è significativa ai fini di un’indagine volta a ricercare ed analizzare applicazioni giurisprudenziali del principio di buona fede ai contratti sperequati. 400 La sentenza di merito, peraltro, non fu cassata, perché la consegna in fatto risultava avvenuta. 401 V. Cass., 30 giugno 1998, n. 6412, in Foro it., 1998, I, c. 3082: “Poiché è l’utilizzatore a prescegliere, oltre al bene, la persona che dovrà direttamente fornirglielo, è valida la clausola del contratto di leasing che fa gravare sull’utilizzatore medesimo il rischio della mancata consegna”; Cass., 2 agosto 1995, n. 8464, ivi, 1996, I, c. 164 (con nota di G. Lener, Leasing,

collegamento negoziale e azione diretta dell’utilizzatore): “È valida la clausola del contratto di leasing che fa gravare sull’utilizzatore il rischio della mancata consegna”; Cass., 21 giugno 1993, n. 6862, in Foro it., 1997, I, c. 2144: “È valida la clausola, inserita in un contratto di locazione finanziaria, che esonera il concedente da responsabilità per omessa consegna del bene da parte del fornitore ausiliario dell’utilizzatore e non del concedente”. Per un quadro sul dibattito giurisprudenziale e dottrinale sull’inversione del rischio nel contratto di leasing, v. F. Sebastio, op. ult. cit., p. 3396 ss. Sulla clausola di inversione del rischio v., inoltre, Di Gregorio, Le clausole di esonero da responsabilità contrattuale a favore del concedente nel

contratto di leasing, in Nuova giur. civ., 1992, I, p. 37; Buonocore, Contratti d’impresa, Milano, 1993, II, p. 1547.

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negozi e che la causa del contratto di leasing non ha natura solo finanziaria,

ma consiste, anche ed essenzialmente, nel mettere a disposizione

dell’utilizzatore il bene che ne costituisce l’oggetto”402.

La Cassazione, inoltre, aggiunge che il contratto di leasing non è un

contratto di credito, ma un contratto di scambio (“perché la prestazione del

concedente a favore dell’utilizzatore e la controprestazione di questo non si

esauriscono nel fare credito e restituirlo, constano bensì quantomeno anche

nel dare e ricevere in godimento”), a prestazioni corrispettive (“perché

l’obbligazione di pagamento del canone da parte dell’utilizzatore costituisce

il corrispettivo del godimento del valore d’uso del bene che il concedente ha

dal canto suo l’obbligazione di procurargli, mentre è nella commisurazione

del costo complessivo dell’operazione per l’utilizzatore che trova compenso

l’anticipazione fatta dal concedente attraverso l’acquisto del bene presso il

fornitore”).

Orbene, sulla base di tali premesse, la Suprema Corte giunge a

considerare invalida la clausola di inversione del rischio a carico

dell’utilizzatore, ritenendo che questa incida sull’operazione di leasing nel

senso di frustrarne lo “scopo complessivo”.

Appare evidente, pertanto, come nella pronuncia in esame la

Cassazione abbia operato un processo di oggettivazione dello scambio

contrattuale, prendendo in considerazione l’operazione di leasing finanziario

nel suo complesso, prescindendo dal concreto comportamento assunto dalle

402 La Cassazione, nel ricostruire l’operazione di leasing finanziario, si rifà all’orientamento prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, secondo cui tale operazione “non dà luogo ad un unico contratto plurilaterale, ma consta di due contratti … il contratto di leasing tra concedente ed utilizzatore e quello di compravendita tra concedente e fornitore [che] realizzano una figura di collegamento negoziale”.

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parti in sede di formazione e di esecuzione del contratto; difatti, il parametro

per valutare la validità o meno della clausola di inversione del rischio è

rappresentato dalla causa del contratto, ossia dalla sua funzione astrattamente

considerata403.

Tuttavia, a differenza delle pronunce più risalenti della Cassazione, in

cui il processo di oggettivazione dello scambio riguardava quasi

esclusivamente il contratto di compravendita ed era volto a preservare

l’equilibrio economico delle prestazioni attraverso la valorizzazione del

requisito della causa 404 , in quest’ultima pronuncia l’oggettivazione viene

estesa ad una tipologia contrattuale del tutto nuova, a tutela non solo

dell’equilibrio economico, ma anche e soprattutto di quello normativo,

attraverso la valorizzazione della clausola generale di buona fede, piuttosto

che di un elemento essenziale del contratto previsto dall’art. 1325 c.c.405.

In tale modo, il principio di buona fede tende ad assumere la funzione

di limite generale all’autonomia contrattuale, determinando la inefficacia o la

invalidità delle clausole che comportino uno squilibrio contrattuale406.

403 Sul punto, v. le osservazioni di F. Sebastio, op. cit., p. 3397 ss. e di A. G. Ruvolo, op. cit., p. 812 ss. 404 Per cui, la clausola che avesse previsto un prezzo vile o notevolmente sproporzionato rispetto al valore del bene (a seconda dei diversi orientamenti giurisprudenziali affermatisi nel tempo) avrebbe comportato la nullità della compravendita per mancanza di causa (ex art. 1418, comma 2, c.c.). 405 Cfr. F. Galgano, La categoria del contratto, cit., p. 923 ss.: “Nuovo è il concetto di congruità dello scambio contrattuale: una volta si diceva che la materia è rimessa all’autonomia delle parti; eccettuati i casi, tipici, previsti dalla legge, della rescissione per lesione ultra dimidium o della eccessiva onerosità sopravvenuta, al di fuori dei casi tipici, l’autonomia contrattuale era considerata incensurabile da parte del giudice. Oggi … si fa riferimento al concetto di buona fede nella formazione del contratto (ancora una volta la buona fede precontrattuale) perché si considera in contrasto con la buona fede il predisporre clausole che comportino il predetto squilibrio”. 406 Sul punto v. A. Riccio, La clausola generale di buona fede è, dunque, un limite generale

all’autonomia contrattuale, in Contratto e Impresa, 1999, p. 21 ss.: “La clausola generale di

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A questo punto, si pone il quesito se lo squilibrio contrattuale possa

essere esso stesso considerato violazione della buona fede contrattuale, a

prescindere da ulteriori condotte contrarie a tale principio poste in essere dal

contraente, o se tale squilibrio sia idoneo a fare presumere il vizio procedurale

nel corso delle trattative oppure ad invertire l’onere della prova sul punto407.

Invero, parte della dottrina ravvisa proprio nella sentenza da ultimo

commentata una prima risposta, nel senso di dare rilievo allo squilibrio

contrattuale che sia frutto della violazione, da parte del contraente forte e a

danno del contraente debole, del dovere di buona fede contrattuale408.

Ciò comporta la elevazione della clausola generale di buona fede in

senso oggettivo ad inderogabile principio limitativo dell’autonomia privata,

alla cui violazione consegue, in base all’art. 1418, comma 1, c.c., la nullità o,

buona fede tende ormai ad essere intesa non solo come una fonte di integrazione del contratto, ma anche e soprattutto quale limite generale dell’autonomia dei privati, quale strumento di controllo del contenuto, dell’equilibrio e della congruità causale del contratto”. 407 Secondo A. Riccio, op. ult. cit., p. 21, per porre rimedio ad un contratto oggettivamente squilibrato, mediante la valorizzazione del principio di buona fede, presuppone che la sua conclusione sia conseguenza della violazione, da parte del contraente forte e a danno del contraente debole, del dovere di buona fede contrattuale. Diversa la posizione di R. Rolli, Le

attuali prospettive di <<oggettivazione dello scambio>>: verso la rilevanza della

<<congruità dello scambio contrattuale>>?, in Contratto e Impresa, n. 2/2001, p. 638 ss., secondo cui, anche se appare preponderante la tendenza a sanzionare l’eccessivo squilibrio tra le prestazioni contrattuali quando sia il risultato dello sfruttamento abusivo da parte di un contraente della disparità di potere contrattuale, “non mancano indici in cui viene in considerazione il notevole squilibrio di per sé considerato”. 408 A. Riccio, op. ult. cit., p. 24: “La Cassazione con questa sentenza ha enunciato, in modo inequivoco, che se una clausola di un contratto viola l’imperativo principio di buona fede e correttezza contento dagli artt. 1175, 1337, 1375 c.c., essa deve considerarsi invalida e quindi nulla, in quanto non realizza interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Contra R. Rolli, op. ult. cit., p. 638, secondo cui tale sentenza rappresenta una ipotesi in cui lo squilibrio assume rilevanza in sé e per sé considerato.

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comunque, l’inefficacia del contratto o, a norma dell’art. 1419 c.c., di sue

singole clausole409.

Tali conclusioni possono considerarsi la logica conseguenza di principi

affermati dalla Suprema Corte in precedenti pronunce, tra cui si segnala Cass.

n. 2503/1991410 , secondo cui “anche se riferita al momento esecutivo, la

buona fede conserva la sua funzione di integrazione del rapporto, quale regola

obiettiva che concorre a determinare il comportamento dovuto. […] Essa non

impone un comportamento prestabilito, né è subordinata a specifiche

previsioni contrattuali, ché, anzi, può anche imporre alle parti di operare in

modo difforme e contrastante da quanto stabilito nel contratto”.

È chiaro come l’applicazione di tale principio, volto ad attribuire alla

buona fede un ruolo non meramente integrativo, ma addirittura “correttivo”

della volontà privata, possa giustificare modifiche ope iudicis dei termini del

contratto411.

Estremamente significativa sotto questo profilo si presenta Cass. n.

10511/1999412 , che, mutando un’opinione consolidata413 , e richiamando il

409 In questo senso, A. Riccio, op. ult. cit., p. 25; F. Galgano, Squilibrio contrattuale, cit., p. 423. 410 Cass., 9 marzo 1991, n. 2503, in Corr. giur., n. 7/1991, p. 789, con commento di A. di Majo, Principio di buona fede e dovere di cooperazione contrattuale, in Corr. giur., n. 7/1991. 411 Sul punto cfr. A. di Majo, op. ult. cit., p. 791, il quale individua i costi e i benefici conseguenti alla crescente rilevanza del principio di buona fede nei contratti: “Se, tra i costi, è da considerare la lievitazione del tasso di discrezionalità della decisione giudiziaria, tra i benefici v’ha indubbiamente quello di ottenere una soluzione che sia più aderente alle circostanze del caso e che dunque meglio si avvicina a quella <<giustizia del caso concreto>> che, esorcizzata da molti, non può essere tuttavia troppo facilmente rimossa in favore di più astratte soluzioni”. 412 Cass., 24 settembre 1999, n. 10511, in Foro it., 2000, I, c. 1929 ss., con nota di A. Palmieri, La riducibilità <<ex officio>> della penale e il mistero delle “liquidated damages clauses”; Giur. it., 2000, 1154 ss., con nota di G. Gioia, Riducibilità ex officio della penale

eccessiva; I Contratti, 2000, p. 118 ss., con nota di G. Bonilini, Sulla legittimazione attiva alla

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principio di buona fede oggettiva e correttezza, ha ritenuto che, nel caso

previsto dall’art. 1384 c.c., il giudice possa rilevare ex officio il carattere

eccessivo della penale pattuita, al fine di ridurne l’importo414.

Tale pronuncia viene considerata da autorevole dottrina “un piccolo

trattato di storia del contratto, di storia recente del contratto, dell’evoluzione

del contratto dalle concezioni soggettivistiche, basate sul dogma della volontà,

alle concezioni attuali, oggettivistiche, basate sulla congruità dello scambio

contrattuale”415.

riduzione della penale manifestamente eccessiva; Giust. civ., 1999, I, 2929 ss.; Arch. civ., 2000, p. 46 ss.; Riv. not., 2000, p. 488; La nuova giur. civ. comm., 2000, I, p. 507, con commento di U. Stefini; Corr. giur., 2000, p. 68, con commento di M. Faucelli. Anteriormente a tale sentenza soltanto qualche pronuncia di merito si era espressa in favore della riducibilità ex officio della penale: Trib. Firenze, 12 settembre 1995, in Foro it. Rep., 1996, voce Contratto in genere, n. 344; Pret. Trento, 19 luglio 1991, in Giur. merito, 1993, 1031; Trib. Brescia, 22 febbraio 1988, in Riv. it. leasing, 1989, p. 419; App. Bari, 20 giugno 1955, in Foro it., 1956, I, c. 660. In dottrina, a favore della riducibilità ex officio v., in particolare, A. Marini, La clausola

penale, Napoli, 1984, p. 152 ss.; E. Gabrielli, Clausola penale e sanzioni private

nell’autonomia contrattuale, in Rass. dir. civ., 1984, p. 901 ss.; M. Togliatto, Penale, clausola

vessatoria e poteri del giudice, in Giur. it., 1998, p. 48 ss.; G. Alpa, L’equità, in G. Alpa-M. Bessone, I contratti in generale. Aggiornamento 1991-1998, I, Torino, 1999, p. 127 ss.; S. Mazzarese, Clausola penale, in Comm. Schlesinger (artt. 1382-1384), Milano, 1999, p. 622 ss. 413 Cass., 21 ottobre 1998, n. 10439, in Giust. civ. Mass., 1998, 2138; Cass., 15 gennaio 1997, n. 341, in Giust. civ. Mass., 1997, p. 62; Cass., 30 marzo 1984, n. 2122, in Foro it. Rep., 1984, voce Contratto in genere; Cass., 9 gennaio 1984, n. 138, in Giust. civ. Mass., 1984, fasc. 1; Cass., 24 aprile 1980, n. 2479, in Giur. it., 1982, I, 1, p. 1784; Cass., 20 dicembre 1973, n. 3443, in Mass. Giur. it., 1973; Cass., 21 ottobre 1969, n. 3437, in Giur. it. Rep., 1969, voce Obbl. contr., n. 304. 414 Nella specie, si trattava di una penale di £.48.000.000, dovuta per un ritardo di circa otto mesi (£.200.000 al giorno) nel completamento dei lavori di costruzione di un appartamento. 415 Così F. Galgano, La categoria del contratto, cit., p. 925. Critico, invece, A. D’Angelo, La

buona fede, cit., p. 252, secondo cui, nella specie, “trattandosi di un intervento parzialmente modificativo delle pattuizioni contrattuali che è specificamente previsto dall’art. 1384 c.c., senza che sia dalla norma assegnato alcun ruolo o valutazioni di correttezza, il supporto argomentativo tratto dall’asserita cogenza della buona fede si rivela sostanzialmente nullo ed appartiene soltanto ad un contesto declamatorio, in cui la metafora (-lapsus) della <<cittadella dell’autonomia>> sembra tradire propositi di assedio da parte dell’estensore”.

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La Corte ha osservato, innanzitutto, che la precedente interpretazione,

per cui la penale è riducibile solo su istanza di parte, non è più “in sintonia

con la natura e la funzione della clausola penale … e con il complessivo

sistema della correlativa disciplina, quale si è venuto nel tempo evolvendo,

anche per effetto di un più generale fenomeno di rilettura degli istituti

giuridici in senso conformativo ai precetti superiori della sopravvenuta

Costituzione repubblicana”416.

Né, secondo la Corte, vale in contrario richiamare “una ratio di tutela

della libertà della volontà negoziale del debitore”, poiché il “tramonto del

mito ottocentesco dell’onnipotenza della volontà e del dogma

dell’intangibilità delle convenzioni ha inciso anche sul fenomeno della

riducibilità della penale”, la quale ha assunto “connotazioni funzionali più

decisamente oggettive, sì che la spiegazione della vicenda appare spostata da

una supposta tutela della volontà delle parti ad un interesse primario

dell’ordinamento, valutandosi l’intervento del giudice non più in chiave di

eccezionalità, bensì quale semplice aspetto del normale controllo che

l’ordinamento si è riservato sugli atti di autonomia privata … controllo che

non può non implicare anche un bilanciamento di valori di pari rilevanza

costituzionale” e , cioè, il valore dell’iniziativa economica privata e quello

della solidarietà nei rapporti intersoggettivi417.

416 Ad avviso di R. Lanzillo, La proporzione, cit., p. 231, da tale affermazione, sembra che, ad avviso della Corte, i principi costituzionali impongano di interpretare gli istituti del diritto civile in modo da evitare effetti economici eccessivamente gravosi per uno dei contraenti. 417 Osserva F. Galgano, L’efficacia vincolante del precedente di Cassazione, in Contratto e

Impresa, 1999, p. 895, come sia apprezzabile l’iter argomentativo seguito da Cass. n. 10511/99, nella quale, reputandosi di mutare opinione rispetto al precedente indirizzo della Cassazione, si sono chiarite le ragioni che hanno ispirato tale decisione, in relazione alla ritenuta mutata concezione del contratto: “Un esemplare modello di overruling si ritrova nella

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Da tali affermazioni emerge chiaramente la tendenza all’oggettivazione

delle fattispecie, ossia a considerare il contratto nella sua funzione obiettiva,

nello scambio contrattuale418.

Il dovere di solidarietà, secondo la Corte, “entrando in sinergia con il

canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, lo arricchisce di

contenuti positivi, inglobanti obblighi, anche strumentali, di protezione della

persona e delle cose della controparte”; è significativo, inoltre, che, secondo la

Corte, “la legge pattizia non può ritenersi svincolata dal dovere di correttezza,

il quale si pone nel sistema come limite interno di ogni situazione soggettiva”;

da tale affermazione, infatti, discende che viola la buona fede chi abusa

dell’autonomia contrattuale419.

Il rimedio a tale abuso è individuato nella norma contenuta nell’art.

1384 c.c., ossia la riduzione dell’ammontare della penale, la sua riconduzione

ad equità, con la novità che il giudice può intervenire d’ufficio per

riequilibrare il contratto420: “Il potere di riduzione ad equità della penale va

esercitato anche ex officio configurandosi come potere-dovere, attribuito al

giudice per la realizzazione di un interesse oggettivo dell’ordinamento [che] si

motivazione della pregevole Cass., 24 settembre 1999, n. 10511 […] che affronta il problema delle riduzione ex officio della penale eccessiva, analizzando con attenzione la precedente contraria giurisprudenza della Cassazione e rilevando come questa fosse legata ad una antica, e non più attuale, concezione del contratto basata sulla <<intangibilità delle convenzioni>> e sul <<dogma della volontà>>, non compatibile con i nuovi orientamenti giurisprudenziali, che, muovendo dalla valorizzazione delle clausole generali di buona fede e correttezza, riconoscono al giudice il potere di verificare la congruenza dello scambio contrattuale”. 418 In termini, F. Galgano, La categoria del contratto, cit., p. 926; G. Meruzzi, Funzione

nomofilattica della Suprema Corte e criterio di buona fede, in Contratto e Impresa, 2000, p. 29. 419 Così R. Rolli, Le attuali prospettive di <<oggettivazione dello scambio>>, cit., p. 623. 420 R. Rolli, op. ult. cit., p. 623. La conclusione cui giunge la Suprema Corte presuppone l’attribuzione alla clausola penale di una funzione essenzialmente sanzionatoria, che impone, pertanto, un controllo giudiziale diretto, appunto, a garantire la proporzione tra illecito e sanzione. Su tale aspetto, v. G. Meruzzi, op. ult. cit., p. 11 ss. ed autori ivi citati.

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specifica e consolida nell’esigenza (che si radica nel cuore della “giustizia del

caso concreto”, che il giudice è chiamato ad assicurare) di garantire

l’adeguatezza e proporzione della sanzione all’illecito che essa è destinata a

prevenire o reprimere”421.

Secondo parte della dottrina, il riconoscimento operato dalla Cassazione

della natura non eccezionale dell’art. 1384 c.c., quale norma rispondente ad un

oggettivo intervento di controllo sull’autonomia che l’ordinamento si riserva

ab origine, potrebbe preludere ad un mutamento di indirizzo anche del profilo

dell’applicabilità analogica dell’art. 1384 c.c.422.

Inoltre, si osserva come la sentenza in esame valorizzi il ruolo della

equità correttiva, riconoscendo al giudice il potere, appunto, di correggere in

via equitativa il contenuto del contratto, anche ex officio423.

Al riguardo, qualche autore ha parlato di “funzione eversiva” del

criterio di buona fede, quale terza funzione attribuita dall’ordinamento alla

buona fede oggettiva, che si affianca a quelle di integrazione e correzione del

contenuto del contratto424.

Tale funzione consentirebbe al giudice di creare eccezionalmente nuove

regole giuridiche, “al di là della semplice integrazione del contratto, in

421 Secondo R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 232, “è chiaro il richiamo all’esigenza di sovrapporre agli effetti che deriverebbero dalla mera considerazione della volontà delle parti, le valutazioni imposte dai principi di legge a garanzia dell’equilibrio e della giustizia dell’assetto di interessi, utilizzando anche, allo scopo, il principio di buona fede: sia nella interpretazione del contratto, sia nella valutazione dei comportamenti attinenti alla fase della conclusione e della esecuzione”. 422 R. Rolli, op. ult. cit., p. 623. Secondo l’A., la lettura dell’art. 1384 c.c. operata dalla Cassazione nella sentenza in esame “potrebbe portare ad ammettere il controllo sulla congruità della caparra confirmatoria, campo nel quale tradizionalmente si esclude l’applicabilità in via analogica di tale norma, atteso il suo carattere eccezionale. 423 F. Galgano, La categoria del contratto, cit., p. 925. 424 G. Meruzzi, Funzione nomofilattica della Suprema Corte e criterio di buona fede, cit., p. 47.

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assenza (praeter legem) o persino in contrasto (contra legem) con le

disposizioni di diritto positivo”425.

Il nuovo indirizzo interpretativo in tema di riducibilità ex officio della

clausola penale inaugurato dalla sentenza n. 10511/99, nonostante un

“ripensamento” ispirato dall’orientamento tradizionale 426 , ha trovato

successiva conferma nella sentenza n. 8188/2003, secondo cui “il potere di

riduzione ad equità della penale di cui all’art. 1384 c.c. deve essere esercitato,

attesi i valori costituzionali che presiedono all’autonomia privata, anche

d’ufficio da parte del giudice, indipendentemente da un atto di iniziativa del

425 G. Meruzzi, op. cit., p. 47. L’A. osserva che “per quanto concerne l’aspetto sistematico, se da un lato […] nessun ordinamento può rinunciare del tutto alla funzione eversiva della norma codificata, che posta in essere tramite l’uso delle clausole generali o di altri strumenti concettuali, costituisce un essenziale strumento di evoluzione interna del sistema, dall’altro si sottolinea il pericolo di dare luogo, per il suo tramite, all’eversione dei principi cardine dell’ordinamento. Per quanto concerne l’analisi del diritto applicato, va preso atto che la giurisprudenza, incline ad un uso ampio della buona fede al fine di adeguare l’ordinamento non solo ai valori espressi dalla Costituzione, ma anche alle indicazioni sistematiche provenienti dalle nuove leggi in materia di tutela del contraente debole, percorre ormai con relativa disinvoltura anche il sentiero tracciato da questa ulteriore funzione”. A tal proposito, si segnala una recente pronuncia della Cassazione (sent. n. 18947, depositata il 28 settembre 2005), relativa ai rapporti fra istituti di credito e clienti, secondo la quale il principio generale di buona fede e correttezza deve prevalere sulle specifiche norme del Codice civile. Nel caso di specie, un istituto di credito aveva effettuato delle compensazioni tra il saldo attivo ed il saldo passivo di due conti correnti intestati ad un proprio cliente, secondo quanto previsto dall’art. 1853 c.c. ed in mancanza di patto contrario. La Suprema Corte, accogliendo le doglianze del cliente, il cui conto corrente attivo si era, così, prosciugato a sua insaputa - tanto che aveva, inconsapevolmente, emesso assegni a vuoto - ha affermato che se, da un lato, la banca ha la facoltà di operare la compensazione ex art. 1853 c.c., dall’altro deve esercitare tale facoltà secondo correttezza e buona fede, a salvaguardia dell’interesse del correntista. Alla stregua di tale principio, la Cassazione ha affermato che, nella specie, l’istituto di credito aveva agito in maniera scorretta, omettendo di comunicare al cliente in maniera tempestiva le operazioni di compensazione. 426 Si tratta di Cass., 27 ottobre 2000, n. 14172, in Foro it., 2001, c. 2924, con commento di A. Palmieri e in Giust. civ., 2001, p. 104.

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debitore, configurandosi esso come potere-dovere riconosciuto al giudice per

la realizzazione di un interesse oggettivo dell’ordinamento”427.

Il carattere recessivo dell’autonomia negoziale rispetto al potere

correttivo del giudice era, però, già emerso in alcune pronunce di merito ed, in

particolare, in una sentenza del Tribunale di Roma - di poco precedente alla

sentenza della Cassazione n. 10511/99 - in tema di riduzione di tassi pattuiti in

un contratto di mutuo428.

Più precisamente, tale ultima pronuncia riguardava il problema della

individuazione della disciplina applicabile ai contratti di finanziamento

stipulati anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 108/1996, con i quali

fossero stati convenuti interessi superiori al tasso soglia vigente al momento

della richiesta o della ricezione429.

Il Tribunale di Roma esclude che la richiesta di interessi moratori nella

misura lecitamente pattuita dalle parti di un contratto di mutuo stipulato

anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 108/96 - benché il tasso

convenuto sia divenuto superiore al tasso di soglia vigente - integri il reato di

usura, che l’esecuzione della prestazione possa considerarsi giuridicamente

427 Cass., 23 maggio 2003, n. 8188, in Giust. civ. Mass., 2003 e in Dir. e giur., n. 1/2004, p. 105 ss. Per un’analisi delle tre recenti pronunce della Suprema Corte in tema di riduzione della penale, v. G. B. Ferri, Autonomia privata e poteri del giudice, in Dir. e giur., n. 1/2004, p. 1 ss. L’A., pur affermando la prevalenza dell’autonomia privata sul potere “modificativo” del giudice, il cui esercizio deve essere limitato ai soli casi espressamente previsti dalla legge, prende atto di recenti tendenze legislative (ad esempio, il d. lgs. n. 231/2002) che offrono al giudice non poche occasioni di intervento sull’atto di autonomia privata. 428 Trib. Roma, 10 luglio 1998, in Corr. giur., n. 8/1999, p. 1022 ss., con commento di A. Moliterni e A. Palmieri, Tassi usurari e razionamento: repressione e prevenzione degli abusi

nel mercato del credito. 429 Sull’argomento, cfr. Trib. Firenze, 10 giugno 1998, in Corr. giur., 1998, p. 805. In dottrina, v. A. Riccio, Le conseguenze civili dei contratti usurari: è soppressa la rescissione

per lesione ultra dimidium?, in Contratto e Impresa, 1998, p. 1038; E. Quadri, Usura e

legislazione civile, in Corr. giur., 1999, p. 890; G. Meruzzi, Il contratto usurario tra nullità e

rescissione, in Contratto e Impresa, 1999, p. 475 ss.

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impossibile e che il contratto possa essere colpito da nullità parziale per

contrasto con norma imperativa successiva; “tuttavia, qualora la condotta del

creditore rivesta, rispetto all’inadempimento, caratteristiche di mala fede, è

consentita l’integrazione del contratto, attraverso la riduzione dei tassi pattuiti,

secondo principi di equità”.

Dalla motivazione della sentenza emerge, quindi, una differenza

rispetto alla posizione assunta dalla Suprema Corte nelle recenti sentenze n.

10511/99 e n. 8813/03: mentre, infatti, quest’ultima attribuisce al giudice un

potere correttivo ufficioso a tutela del principio solidaristico di cui all’art. 2

Cost., per salvaguardare il principio di proporzionalità tra sanzione ed illecito,

il Tribunale di Roma riconosce tale potere al fine di riequilibrare un assetto di

interessi che non presenta alcun profilo di illiceità, né sotto il profilo

penalistico, né sotto quello civilistico.

Tale ultimo orientamento ripropone il quesito consistente nel chiedersi

se il giudice possa sindacare il merito dell’operazione contrattuale in sé e per

sé considerata, indipendentemente da profili di illiceità o da anomalie nella

fase di formazione, e correggerne equitativamente le sperequazioni,

riequilibrando le posizioni delle parti e sembra fornire allo stesso soluzione

positiva, in aperto contrasto con l’opinione dominante430.

430 Secondo la dottrina maggioritaria, infatti, nel nostro ordinamento giuridico, il giudice, tranne isolate ed eccezionali ipotesi (ad esempio, artt. 1384 e 1526 c.c.), non ha, per ragioni equitative, il potere di correggere il contratto e temperarne gli effetti, in quanto ogni valutazione in merito all’equilibrio e alla giustizia del contratto è rimessa alle parti, secondo i generali principi contenuti negli artt. 1322, comma 1, e 1372, comma 1, c.c. In tal senso, F. Galgano, Sull’equitas delle prestazioni contrattuali, cit., p. 419; S. Rodotà, Le fonti di

integrazione del contratto, cit., p. 223 ss.; P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, Napoli, 1997, p. 448; G. Alpa, L’equità, in Nuova giur. civ. comm., 1994, II, p. 231; E. Gabrielli, Poteri del giudice ed equità del contratto, cit., p. 479; M. Timoteo, Nuove regole in materia di

squilibrio contrattuale, cit., p. 141; R. Lanzillo, Regole del mercato e congruità dello scambio

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In realtà, a ben considerare, la pronuncia in esame non ricollega

l’esercizio del potere correttivo del giudice alla presenza di uno squilibrio

oggettivo tra le prestazioni, bensì alle ipotesi di squilibrio soggettivo,

determinato dalla mala fede di uno dei contraenti e, precisamente, ogni

qualvolta sia riconoscibile la volontà del creditore di profittare

dell’inadempimento del debitore per conseguire profitti superiori a quelli

offerti sul mercato dalle normali forme di impiego del denaro431.

In questi casi, il principio di buona fede esecutiva, “quale norma

fondamentale nella fase di esecuzione di tutti i rapporti giuridici”,

contrattuale, cit., p. 309 ss.; F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, cit., p. 320; G. Marini, Ingiustizia dello scambio, cit., p. 274; S. Gatti, L’adeguatezza delle prestazioni, cit., p. 447; T. O. Scozzafava, Il problema dell’adeguetezza della prestazione nella rescissione per lesione, cit., p. 353; M. Costanza, Meritevolezza degli interessi, cit., p. 423. La scelta, da parte dell’ordinamento giuridico, di limitare ad ipotesi tassative ed eccezionali l’intervento del giudice secondo equità, viene così spiegata da G. Tucci, L’equità del codice civile e

l’arbitrato di equità, in Contratto e Impresa, 1998, p. 489 ss.: “Come è ampiamente noto che l’idea del rimedio contro l’iniquità del contratto, nella sua plurisecolare tradizione, viene sacrificata dal diritto contrattuale moderno all’esigenza della certezza dei rapporti giuridici e del rispetto dell’autonomia dei privati, unica garante dell’equità del contratto. Con riferimento al nostro codice, la prevalenza accordata al valore della certezza dei rapporti giuridici rispetto alla giustizia contrattuale si manifesta nella disciplina della rescissione, dove, nel caso di contratto concluso in stato di pericolo, disciplinato dall’art. 1447 c.c., l’iniquità delle condizioni contrattuali rileva, come elemento necessario, insieme allo stato di pericolo ed alla conoscenza che la controparte abbia dello stesso, dovendosi determinare tale iniquità non in base a criteri tecnici di proporzionalità, ma in relazione a criteri etico-sociali. La lesione qualificata della sproporzione ultra dimidium delle prestazioni contrattuali rileva ancora, accanto allo stato di bisogno ed all’approfittamento dello stesso, in caso di azione generale di rescissione secondo la disciplina dell’art. 1448 c.c., dove si richiamano i criteri oggettivi di mercato ai quali il giudice deve riferirsi per compiere tale valutazione”. 431 V. A. Riccio, Il controllo giudiziale della libertà contrattuale, cit., p. 941. Nel commento alla sentenza del Tribunale di Roma, l’A. si chiede se “effettivamente non sia venuto meno il dogma dell’intangibilità del contratto, anche e soprattutto a seguito dei molteplici interventi di diritto comunitario che, come è noto, giorno dopo giorno stanno ampliando le ipotesi d’intervento del giudice a sindacare il merito delle operazioni contrattuali sperequate a causa della non paritetica posizione contrattuale delle parti e della mala fede del contraente forte. Si sta, dunque, rompendo il nesso tra la regola dell’intangibilità del contratto e l’eccezione della tangibilità, a seguito del progressivo aumento delle eccezioni”.

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consentirebbe l’integrazione del contratto, o, meglio, la correzione dello

stesso, attraverso la riduzione dei tassi pattuiti, secondo principi di equità.

Seppur riletta in questi termini, la sentenza del Tribunale di Roma

conserva, comunque, una notevole rilevanza nell’ambito dell’orientamento

giurisprudenziale volto a valorizzare il principio della buona fede in funzione

di riequilibrio degli assetti negoziali sperequati432.

In questo modo, infatti, si consente al giudice di intervenire a

protezione del contraente debole, “correggendo” un contratto che risulti

oggettivamente squilibrato e che ponga a carico della stessa parte debole una

prestazione economicamente assai più onerosa di quella che grava sull’altro

contraente forte433.

Tale orientamento giurisprudenziale impone di verificare la reale

compatibilità con i principi del nostro ordinamento giuridico di una funzione,

non soltanto integrativa, ma anche correttiva, della buona fede434.

432 Con riferimento al summenzionato orientamento giurisprudenziale, A. Di Majo, Nozione di

equilibrio nella tematica del contratto, cit., p. 4 ss., afferma: “Più di recente, si è scoperto che anche la nozione di buona fede e correttezza può essere utilizzata per salvaguardare l’equilibrio nei contratti (artt. 1175, 1375 c.c.). Si è trattato di un notevole progresso rispetto al normale impiego della buona fede. Tale impiego ha sempre visto la buona fede come fonte integrativa di doveri (definiti ancillari) a carico delle parti per garantire un buon esito del contratto (v. da ultimo Cass. 27 settembre 2001 n. 12093 in Corr. Giur. 2002, 328)”. 433 Secondo A. Riccio, La clausola generale di buona fede, cit., p. 21, “la clausola generale di buona fede si rivela oggi come uno strumento di razionalizzazione complessiva delle operazioni contrattuali. Rappresenta il tramite (o lo strumento) per un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia privata”. 434 Al riguardo, invero, non va tralasciato che parte della dottrina esclude a monte che la buona fede possa concorrere - se pur in via meramente suppletiva - alla formazione del regolamento negoziale, sia per considerazioni di carattere sistematico, che condurrebbero ad una incompatibilità tra tale principio e quello dell’autonomia negoziale, sia sulla base del dato testuale dell’art. 1374 c.c., che non include la buona fede tra le fonti di integrazione del contratto, facendone menzione, invece, nel successivo art. 1375, che attiene alla esecuzione dello stesso. V. Senofonte, Buona fede e fideiussione per obbligazione futura, in Giust. civ., 1990, I, p. 126; A. Di Majo, La fideiussione <<omnibus>> ed il limite della buona fede, in Foro it., 1989, I, c. 2750; Id., Principio di buona fede e dovere di cooperazione contrattuale,

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A tale proposito sembra opportuno distinguere, nell’ambito della

integrazione del contratto, tra integrazione suppletiva ed integrazione

cogente435.

La prima, appunto, supplisce alle eventuali lacune dell’autonomia

privata, e, comunque, nel rispetto dei programmi che quest’ultima si è data,

senza, cioè, introdurre mai nel contratto regole che non siano coerenti con la

logica, gli equilibri, le scelte risultanti dall’accordo delle parti. Per tale

ragione, l’integrazione suppletiva è stata definita “amica dell’autonomia

privata”436.

L’integrazione cogente, invece, non supplisce un accordo mancante, ma

si sovrappone ad un accordo esistente, disapprovato dall’ordinamento

giuridico, perché violatore di interessi o valori preminenti; essa determina la

espulsione dal regolamento contrattuale dei contenuti disapprovati

dall’ordinamento, benché voluti dalle parti. L’integrazione cogente è, quindi,

“antagonista all’autonomia privata”437.

In un quadro così delineato, occorre chiedersi se il principio di buona

fede, in senso oggettivo, operi soltanto per colmare le lacune dell’accordo, in

una logica coerente con le scelte dell’autonomia privata, oppure possa anche

sovrapporsi all’accordo, introducendo soluzioni contrastanti con le scelte

d’autonomia privata.

in Corr. giur., 1991, p. 791; V. Mariconda, Fideiussione <<omnibus>> e principio di buona

fede, in Foro it., 1989, I, c. 2775; V. Carbone, Limiti alla clausola di esonero dall’art. 1956

c.c., in Corr. giur., 1989, p. 1084; Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Tratt. dir.

civ,. e comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1974, p. 26 ss. 435 Per integrazione del contratto si intende la costruzione del regolamento contrattuale ad opera di fonti eteronome, ossia diverse dalla volontà delle parti. 436 Così V. Roppo, Il contratto, cit., p. 485. 437 L’espressione è di V. Roppo, op. ult. cit., p. 499.

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Il rapporto tra buona fede, intesa in senso oggettivo, e autonomia

privata è stato ricondotto a quello delle derogabilità o inderogabilità del

precetto di buona fede.

Parte della dottrina afferma che la correttezza costituisce “una

limitazione in senso tecnico dell’autonomia privata, quale è comunemente

intesa, e più precisamente … una indicazione che incide sui poteri attribuiti ai

privati dal primo comma dell’art. 1322”, e ne sottolinea il carattere

inderogabile da parte dei privati438.

Tale inderogabilità, però, andrebbe intesa non come appartenenza della

buona fede al novero dei principi di ordine pubblico, tale da determinare la

nullità delle clausole ad essa contrarie, legittimando il giudice a compiere

interventi correttivi sul regolamento negoziale, ma soltanto nel senso che

sarebbe nulla la pattuizione che prevedesse l’inapplicabilità al rapporto della

clausola di buona fede, escludendo, così, la sindacabilità della condotta dei

contraenti alla stregua della correttezza e la integrazione del contratto in virtù

di regole di risoluzione dei conflitti desunte dalla buona fede439.

438 S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, cit., p. 178 ss. Secondo l’A. la buona fede si colloca tra le fonti del regolamento contrattuale, prevalente sia sulle norme dispositive che sulle determinazioni private, tanto che, in caso di contrasto di queste ultime col principio di buona fede, deve ammettersi la integrazione ope iudicis del regolamento contrattuale. 439 Cfr. S. Rodotà, op. cit., p. 182: “L’ovvia attribuzione al giudice di siffatti poteri integrativi induce ad escludere che in essi sia compreso anche quello di integrare la norma contrattuale al fine di metterla in condizione di realizzare direttamente finalità divergenti da quelle a cui l’operazione economica era stata rivolta”. Nello stesso senso V. Roppo, Il contratto, cit., p. 495, il quale, esprimendosi in senso contrario alla integrazione cogente ispirata al principio della buona fede, che “non potrebbe mai condurre ad affermare la nullità del contratto”, sostiene che “sarebbe invece illecito, per contrarietà all’ordine pubblico, l’accordo con cui le parti escludano una volta per tutte, in modo indifferenziato, che al loro rapporto si applichi il principio di buona fede. Ovvero: è inammissibile una deroga generalizzata e <<in bianco>> al principio (che, in quanto principio, ha valore imperativo); è ammissibile derogare, in modo individualizzato, alle sue singole applicazioni concrete (che hanno perciò valore suppletivo)”. Concordano con tale orientamento A. D’Angelo, La buona fede, cit., p. 231 ss., e F. Benatti,

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Inoltre, la sicura funzione suppletiva svolta dalla buona fede in senso

solidale al programma contrattuale stabilito dai contraenti e coadiuvante di

un’attuazione del rapporto ad esso coerente440 , escluderebbe che lo stesso

principio di buona fede possa svolgere, al tempo stesso, anche un ruolo

antagonistico rispetto all’autonomia privata e, conseguentemente, che il

controllo giudiziale ispirato a tale principio possa uscire dall’ambito

dell’integrazione del regolamento convenzionale e comportare un vero e

proprio giudizio di validità del contratto e delle sue clausole441.

La buona fede nelle obbligazioni e nei contratti, in AA. VV., Atti del seminario sulla

problematica contrattuale in Diritto romano, Milano, 1988, p. 297, secondo cui “la buona fede non è mai norma che dispone dell’invalidità del negozio”. 440 Anche se la buona fede non è esplicitamente richiamata dall’art. 1374 c.c., norma fondamentale in tema di integrazione del contratto, si osserva che essa deve intendersi implicitamente richiamata nel rinvio alla legge. Infatti, è legge l’art. 1375 c.c., secondo cui “il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”. V. Roppo, op. ult. cit., p. 493. Dello stesso avviso S. Rodotà, op. cit., p. 165: “Una volta accertata la tassatività dell’elenco contenuto nell’art. 1374 (leggi, usi, equità), rimane proprio aperta la possibilità di individuare altre norme di legge, contenenti ulteriori indicazioni relative alla integrazione: questo, vedremo, è proprio il caso della correttezza, la cui considerazione legislativa non può essere messa in dubbio”. Contra D. Russo, Sull’equità dei contratti, cit., secondo cui la riconduzione della buona fede alla previsione legislativa di cui all’art. 1374 c.c. “appare una forzatura del sistema, chiaro nel distinguere la funzione della buona fede da quella assegnata alla legge, agli usi e all’equità”. 441 Cfr. A. D’Angelo, La buona fede, cit., p. 227 ss.: “Suscita gravi perplessità la stessa ipotesi che l’ordinamento possa esprimere una clausola generale, per così dire <<strabica>>, che rechi in sé sia la funzione di assicurare l’attuazione del programma contrattuale, sia quella di contrastarlo mediante la comminatoria di invalidità. Se si assume che il valore portato dalla clausola generale possa vincere le pattuizioni che si giudichino in conflitto con esso, non ha più senso indagare circa la coerenza di una regola del conflitto desunta dalla correttezza rispetto all’assetto contrattuale stabilito dai contraenti e alla composizione di interessi che esso determina: se la buona fede esige una certa soluzione del conflitto insorto, questa dovrà essere comunque adottata, quali che siano i contenuti pattizi, che, se non ad essa conformi o con essa compatibili, dovrebbero comunque cedere, risultandone la loro invalidità”. Secondo D. Russo, Sull’equità dei contratti, cit., p. 57, l’ambito di applicazione del principio di buona fede <<resta, per l’opinione prevalente, quello della esecuzione del programma contrattuale. In tale contesto (e solo in questo) è concepibile un ruolo “integrativo” della buona fede chiamata ad individuare quegli obblighi accessori positivi e negativi reciprocamente esigibili dalle parti in quanto funzionali alla realizzazione degli interessi contrattuali e nei limiti di un “apprezzabile sacrificio” degli stessi>>.

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Si conclude, pertanto, che il principio di buona fede può condurre alla

responsabilità contrattuale, ma non ad affermare la nullità del contratto o di

sue singole clausole442.

442 Sul punto, v. V. Roppo, Il contratto, cit., p. 497: “Sintetizzando, può dirsi che la buona fede obbliga ciascuna parte a comportarsi - nell’ambito del rapporto contrattuale - in modo da non pregiudicare, e anzi da salvaguardare il ragionevole interesse di controparte, quando ciò

non comporti a suo carico nessun apprezzabile e ingiusto sacrificio. A loro volta, le conseguenze a carico del contraente che viola la buona fede possono sintetizzarsi così: impossibilità di far valere pretese contrattuali verso controparte; oppure esposizione alle

pretese contrattuali di controparte”. L’A., tuttavia, riconosce che “questa visione è considerata riduttiva da settori della dottrina, propensi ad adibire il principio a funzioni di

controllo dell’autonomia privata e d’integrazione cogente, che la tradizione riserverebbe a strumenti diversi (norme imperative, ordine pubblico, buon costume)”, non nascondendo perplessità in ordine a tale propensione. Tale linea innovativa viene ravvisata dal Roppo sia nella legislazione ed, in particolar modo, nella disciplina dei contratti dei consumatori, sia nella giurisprudenza, “che comincia a disattendere clausole con cui le parti avevano concordato un certo assetto dei propri diritti e obblighi, ritenuto dai giudici contrario a buona fede. In questa linea, il criterio della buona fede ora è messo a base di un giudizio d’inefficacia: così per le clausole delle fideiussioni omnibus, che (prima dell’introduzione - nel 1992 - del secondo comma dell’art. 1956) esoneravano la banca dalla preventiva autorizzazione del fideiussore per ulteriori finanziamenti al debitore principale. Ora è invocato come ragione di nullità: così per le clausole del leasing che accollano all’utilizzatore il rischio della mancata consegna”. Secondo L. Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, cit., p. 9, la clausola di buona fede “si concreta in obblighi autonomi ordinati alla protezione dell’interesse di ciascun contraente a preservare la propria persona e i propri beni da danni prodotti da comportamenti scorretti (sleali o negligenti) dell’altra, sia nella fase delle trattative e della formazione del contratto, nella quale costituiscono un rapporto obbligatorio senza obbligazione primaria di prestazione, sia nella fase dell’esecuzione del contratto, del cui contenuto essi entrano a far parte come obblighi accessori (obblighi di correttezza). … In ordine, invece, alle prestazioni dedotte in contratto in funzione degli interessi perseguiti dalle parti, la buona fede, secondo l’insegnamento corrente fondato su un argomento a contrario dalla lettera dell’art. 1374 c.c., non è fonte di integrazione del regolamento negoziale, ma soltanto un criterio ermeneutico di esplicitazione di doveri o condizioni impliciti nel contenuto dell’accordo (art. 1366 c.c.) oppure un criterio di determinazione delle modalità esecutive e quindi di valutazione dell’esattezza dell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.). … In nessun caso, comunque, secondo la dogmatica del nostro codice civile, la violazione del dovere di buona fede è causa di invalidità del contratto, ma solo fonte di responsabilità per i danni”. Su tale ultimo profilo, v. anche F. Benatti, Arbitrato di equità ed equilibrio contrattuale, cit., p. 849, il quale individua nel risarcimento del danno il rimedio contro le ipotesi in cui il contratto sia stato concluso a condizioni inique, in circostanze tali da turbare la libertà di decisione di uno dei contraenti. Secondo A. Di Majo, La nozione di equilibrio nella tematica contrattuale, cit., p. 5, “è difficile che, attraverso la valutazione di buona fede, possa arrivarsi a garantire in positivo l’equilibrio contrattuale. L’impiego della buona fede, in ultima analisi, può

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Altra parte della dottrina, invece, dal valore di ordine pubblico della

buona fede desume che essa sarebbe fonte primaria di integrazione del

rapporto, prevalente anche sulle determinazioni contrattuali443.

La buona fede viene considerata come un principio di giustizia

superiore, che opera nel senso di un giusto contemperamento degli interessi

delle parti, imponendo a ciascuna di esse di salvaguardare l’utilità dell’altra a

prescindere da determinati obblighi contrattuali o extracontrattuali444.

Non pochi Autori, invero, hanno accolto favorevolmente l’orientamento

giurisprudenziale volto ad applicare la clausola generale di buona fede con

funzione di controllo del contenuto contrattuale, e a ricollegare alla violazione

di tale principio un effetto invalidante del contratto445.

determinare l’inesigibilità della prestazione non in equilibrio con l’altra ma non anche la imposizione di un equilibrio mancante e/o difettoso”. 443 C. M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, cit., p. 206; Id., Il contratto, cit., p. 501: “Pur se riferita al momento esecutivo, la buona fede rileva come fonte primaria d’integrazione del rapporto, prevalente anche sulle determinazioni contrattuali. In tal senso depone il suo valore di ordine pubblico. La buona fede rappresenta infatti uno dei principi portanti del nostro ordinamento sociale, e il fondamento etico che le viene riconosciuto trova rispondenza nell’idea di una morale sociale attiva o solidale, che si pone al di là dei tradizionali confini del buon costume”. Attribuisce alla buona fede una valenza normativa “sovrastante” rispetto alle pattuzioni dei contraenti P. Barcellona, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, p. 227 ss.. 444 C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 520. Pur qualificando la buona fede come principio di ordine pubblico, l’A., tuttavia, non sembra discostarsi dall’orientamento dottrinale che intende il carattere inderogabile della buona fede in senso restrittivo, sanzionando con la nullità le sole clausole che prevedessero l’inapplicabilità al rapporto della buona fede. Cfr. C. M. Bianca, La

nozione di buona fede, cit., p. 206: “Ci si chiede se possa sussistere una contrarietà del contratto o di singole clausole contrattuali alla regola della buona fede e se la conseguenza possa essere quella della invalidità. … Di disposizione contraria alla buona fede potrebbe parlarsi nei casi in cui la regola contrattuale precludesse l’applicazione del principio e legittimasse la parte a comportarsi senza tenere conto dell’interesse dell’altra. Se non risulta che questo interesse sia irrilevante o sia stato altrimenti salvaguardato deve riconoscersi la violazione del principio di buona fede, e la conseguente nullità della disposizione”. 445 V. A. Riccio, La clausola generale di buona fede, cit., p. 26: “Che alla violazione della regola di buona fede possa conseguire un effetto invalidante del contratto o di una sua clausola è ormai acquisito”. Si ricordino, inoltre, le parole di F. Galgano, Squilibrio

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In riferimento al principio sancito da Cass. n. 10926/98, un Autore ha

espressamente affermato che “la clausola generale di buona fede tende ormai

ad essere intesa non solo come una fonte di integrazione del contratto, ma

anche e soprattutto quale limite generale dell’autonomia dei privati, quale

strumento di controllo del contenuto, dell’equilibrio e della congruità causale

del contratto”446.

La buona fede viene considerata, infatti, quale strumento di

razionalizzazione complessiva delle operazioni contrattuali, quale tramite per

un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia privata, attraverso cui il

giudice può, a protezione del contraente debole, porre rimedio ad un contratto

che oggettivamente risulti squilibrato e che ponga a carico della stessa parte

contrattuale e mala fede del contraente forte, cit., p. 423: “Che alla violazione della regola di buona fede possa conseguire, in base all’art. 1418, comma 1, c.c., la nullità o, comunque, l’inefficacia del contratto o a norma dell’art. 1419 c.c. di singole sue clausole, non può più suscitare scandalo; Id., La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, cit., p. 926: “È un contratto spogliato di molti dei suoi connotati di volontarietà, e visto essenzialmente nella sua funzione oggettiva, nello scambio contrattuale, sindacabile alla stregua dei criteri di buona fede nella formazione, nell’interpretazione e nella esecuzione del contratto”. Secondo R. Rolli, Le attuali prospettive di <<oggettivazione dello scambio>>, cit., p. 626, il sindacato sul contratto, condotto alla stregua del criterio di buona fede, può portare alla dichiarazione di nullità dello stesso per violazione della norma imperativa sulla buona fede contrattuale, aprendo, così, “nuovi scenari … per la operatività della regola di buona fede che non attiene più solamente al profilo delle modalità dell’adempimento, ma diviene criterio per valutare la validità dell’atto”. A. Di Majo, Libertà contrattuale e dintorni, cit., ravvisa nelle pronunce sopra riportate un passo della Corte di Cassazione verso un impiego della clausola della buona fede anche in funzione integrativa del contenuto contrattuale (intesa, quest’ultima, come funzione diversa ed ulteriore rispetto a quella integrativa degli effetti ex art. 1374 c.c.). L. Mengoni, op. cit., p. 8 ss., ritiene che il graduale mutamento operato dalla giurisprudenza, tradizionalmente diffidente verso l’uso della clausola di correttezza e buona fede come strumento di controllo dell’autonomia privata, sia stato determinato da una “progressiva sensibilizzazione della dottrina privatistica ai valori etici della persona istituzionalizzati nella carta costituzionale nella forma di diritti fondamentali”. 446 A. Riccio, La clausola generale di buona fede, cit., p. 21. Sull’argomento v. anche P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, cit.

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debole una prestazione economicamente assai più onerosa di quella che grava

sull’altro contraente forte447.

In buona sostanza, si affida al giudice il compito di individuare, in

relazione alle varie fattispecie sottoposte alla sua attenzione, quel minimo di

cooperazione e solidarietà irrinunciabile ed adeguato ad evitare lo

sbilanciamento degli interessi in contatto, ossia, la regola di correttezza che

sarà suscettibile di operare anche “con funzione demolitoria della

regolamentazione convenzionale, nella parte in cui confligge con il parametro

di correttezza ed eventualmente additiva della regola necessaria al riequilibrio

degli interessi in gioco”448.

In relazione al problema dell’equilibrio contrattuale, quindi, la clausola

di buona fede svolge la funzione di evitare che il contratto diventi strumento

di imposizione di condizioni inique mediante lo sfruttamento dell’altrui

ignoranza449 o l’abuso del diritto450.

447 In termini, A. Riccio, Il controllo giudiziale della libertà contrattuale: l’equità correttiva, cit., p. 942; Id., La clausola generale di buona fede, cit., p. 21: “Ove il contenuto del contratto presenti straordinari oneri a carico di una parte ed il bilanciamento dei contrapposti interessi risulti visibilmente squilibrato, irragionevole, per effetto di un fine prevaricatore di uno dei contraenti lesivo di quel costituzionale dovere di solidarietà sociale che da tempo la Cassazione collega al codicistico dovere di buona fede (art. 2 Cost.), allora il giudice non potrà accontentarsi di affermare che <<il contratto è il contratto>>, ma dovrà intervenire in funzione repressiva e sanzionatoria (dell’autonomia dei privati), attraverso lo strumento della nullità del contratto (totale o parziale) ex art. 1418, comma 1, c.c.”. 448 Così M. R. Morelli, La buona fede come limite all’autonomia negoziale e fonte di

integrazione del contratto nel quadro dei congegni di conformazione delle situazioni

soggettive alle esigenze di tutela degli interessi sottostanti, in Giust. civ., 1994, I, p. 2173. 449 L’intenzione di sanzionare il contratto frutto dell’approfittamento, da parte del contraente forte, dell’altrui stato di ignoranza aveva ispirato la sentenza del Pretore di Salerno del 23 febbraio 1993. In dottrina, cfr. P. Gallo, Buona fede oggettiva e trasformazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, p. 263 ss: “Autonomia privata non può significare diritto indiscriminato di danneggiare gli altri e sfruttare l’altrui ignoranza, buona fede, o ancora imporre condizioni inique o vessatorie”. 450 Così F. Camilletti, Profili del problema dell’equilibrio contrattuale, cit., p. 56. Secondo l’A., tuttavia, l’osservanza del principio di buona fede non deve comprimere la libertà dei

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Ciò significa, in altre parole, che alla clausola generale di buona fede

viene attribuito il ruolo di garantire e salvaguardare non tanto l’equilibrio

oggettivo tra le prestazioni, ossia il rapporto di equivalenza o proporzione tra

il valore dei beni scambiati o delle prestazioni effettuate, quanto l’equilibrio

soggettivo, e, cioè, la parità di potere o forza contrattuale dei paciscenti.

contraenti di perseguire i propri interessi, sempre che questi siano meritevoli di tutela: <<Mai vi può essere un contrasto tra la clausola generale di buona fede ed il principio, basilare nel nostro ordinamento, di autonomia privata, che anzi è salvaguardato dalla buona fede la cui funzione è quella di permettere un corretto esplicarsi del rapporto contrattuale e quindi in ultima analisi il perseguimento degli interessi che le parti si sono prefissate all’atto della manifestazione del “voluto”>>. Nello stesso senso, P. Gallo, op. ult. cit., p. 263: “Il contratto deve essere il più possibile equo e corretto, ma nel contempo libero. Ecco quindi che non deve ravvisarsi un contrasto tra buona fede ed autonomia privata. Buona fede significa soltanto che il contratto non può diventare lo strumento per imporre condizioni inique; ferma restando la piena libertà dei contraenti di perseguire i loro interessi individuali nel rispetto delle norme poste dall’ordinamento. Si tratta in altre parole soltanto di evitare possibili abusi, non certo di reprimere ed azzerare la libertà contrattuale”. Sui rapporti tra autonomia negoziale e buona fede, v. anche L. Nanni, La clausola generale di buona fede, cit., p. 335, secondo cui la violazione della buona fede contrattuale darebbe luogo, in linea di principio, all’obbligo di risarcire i danni e “solo ove il risarcimento del danno non appaia idoneo, l’esigenza di eliminare l’atto contrario alla buona fede può trovare fondamento … ricorrendo ai noti insegnamenti in tema di abuso del diritto, e così ritenendosi, qualora si riscontri un uso del diritto contrario alla ragione che giustifica l’attribuzione del diritto stesso, che l’atto è stato compiuto in difetto di legittimazione a compierlo e dunque è inefficace”. Di buona fede quale limite all’autonomia delle parti, volto a contrastare situazioni di abuso dell’un contraente rispetto all’altro, parla A. Di Majo, Nozione di equilibrio nella tematica del contratto, cit., p. 5 ss., precisando che “non è detto tuttavia che sempre siavi abuso ove le posizioni delle parti non siano equilibrate dal punto di vista normativo e meno che mai ove non sussista tra di esse adeguatezza economica”. V., altresì, F. Galgano, La categoria dell’inefficacia del contratto, in Contratto e Impresa, 1997, p. 895 ss.; L. Valle, La categoria dell’inefficacia del contratto, in Contratto e Impresa, 1998, p. 1203 ss. Secondo P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv.

dir. civ., 1965, I, p. 276 “l’abuso del diritto comincia là dove la condotta dell’obbligato, pretesa dal titolare del diritto, non sarebbe esigibile. La qualifica in termini di abuso serve a contrassegnare la pretesa del creditore che vada al di là dello sforzo di diligenza che può esigersi dal debitore. La dottrina dell’abuso diviene, così, il mezzo per attenuare l’asprezza del sistema in materia di responsabilità per inadempimento. La nostra legge accoglie infatti, come è noto, una concezione rigorosamente obbiettiva della responsabilità (art. 1218): dinanzi al fatto obbiettivo dell’inadempimento sembra esclusa ogni possibile indagine sullo sforzo di diligenza compiuto dal debitore. La nozione di abuso attenua il rigore del principio, fermando l’ambito e l’estensione della pretesa del creditore al limite dell’esigibilità della condotta del debitore”.

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Le nuove tendenze delineatesi in giurisprudenza e in dottrina

affrontano, quindi, il problema dell’equilibrio contrattuale da un diverso

angolo visuale rispetto al passato, spostando la propria attenzione

dall’equilibrio oggettivo, per così dire, puro, all’equilibrio oggettivo non

considerato in sé e per sé, ma quale indizio o sintomo di uno squilibrio

soggettivo.

Infatti, mentre nelle pronunce più risalenti - nelle quali si ravvisavano le

prime aperture al problema dell’equilibrio contrattuale - il controllo veniva

condotto sul contratto inteso come scambio, considerato, pertanto, nella sua

dimensione funzionale, alla stregua di parametri di natura prevalentemente

economica, a prescindere dalle concrete circostanze e modalità in cui le parti

erano addivenute alla stipulazione, nelle pronunce più recenti il controllo

viene anticipato, avendo ad oggetto le circostanze e le condotte attinenti alla

formazione del contratto, alla stregua del criterio della buona fede451.

In tale prospettiva si colloca la soluzione offerta dagli Autori

particolarmente sensibili al problema dell’equilibrio contrattuale, consistente

nel valorizzare la clausola generale dell’art. 1337 c.c., al fine di qualificare

come scorrettezza l’abuso di una posizione di forza durante le trattative,

consentendo, in tal modo, di “recuperare sotto forma di risarcimento del

451In altre parole, si è passati dal sindacato sull’equilibrio del contratto di per sé considerato (substantive justice) al sindacato sulle circostanze e sulle condotte attinenti alla formazione del contratto (procedural justice). V. A. D’Angelo, La buona fede, cit., p. 163, p. 212 ss. p. 228 ss., secondo cui “appaiono inappaganti un controllo di validità o, comunque, rimedi correttivi del contratto, alla stregua della correttezza, che siano circoscritti nell’angusta considerazione dei contenuti contrattuali avulsi dalla valutazione delle circostanze e delle condotte della fase formativa”. Sull’argomento v. anche M. J. Trebilcock, The limits of

Freedom of Contract, Cambridge, 1993, p. 116 ss., p. 249 ss..

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danno per responsabilità precontrattuale, gli utili eventualmente realizzati

dalla controparte in eccesso rispetto al valore di mercato della prestazione”452.

Sempre nell’ottica della valorizzazione della clausola generale di buona

fede con finalità ripristinatorie dell’equilibrio contrattuale va considerato

l’orientamento che dal principio in esame fa discendere l’obbligo di

rinegoziare le condizioni contrattuali squilibrate da sopravvenienze

nell’ambito dei contratti di durata453.

Al riguardo è stato osservato che la necessità di adeguare il contratto

rinegoziandone il contenuto, per il sopravvenire di circostanze pur prevedibili,

determinanti uno squilibrio contrattuale, coincide con il postulare un principio

di riequilibrio del sinallagma operante al di qua dei limiti tracciati dalla

disciplina della eccessiva onerosità sopravvenuta454.

452 Così R. Lanzillo, Regole del mercato, cit., p. 335. L’A., ritiene che “ad analoga responsabilità per danni potrebbero dar luogo talune fattispecie di concorrenza sleale, qualora abbiano permesso ad una delle parti di realizzare, mediante il contratto, profitti eccessivi” ed inoltre osserva che “il risarcimento del danno può risultare in molti casi rimedio più idoneo a proteggere la parte lesa di quanto non sia la dichiarazione di invalidità e di inefficacia della convenzione. Esso consente, infatti, all’interessato di tenere fermo il contratto, modificandone le condizioni, laddove l’invalidità o la rescissione la porrebbero di fronte all’alternativa fra perdere una prestazione, di cui in ipotesi può aver bisogno, o accettare le condizioni inique”. 453 Sull’argomento v. V. M. Cesaro, Clausola di rinegoziazione e conservazione

dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000; A. De Mauro, Il principio di adeguamento nei

rapporti giuridici privati, Milano, 2000; F. Criscuolo, Equità e buona fede come fonti di

integrazione del contratto. Potere di adeguamento delle prestazioni contrattuali da parte

dell’arbitro (o del giudice) di equità, in Riv. arbitrato, 1999, p. 71; P. Gallo, Revisione del

contratto, in Dig. disc. priv., XVII, Torino, 1998; Id., Sopravvenienza contrattuale e problemi

di gestione del contratto, Milano, 1992; F. Grande Stevens, Obbligo di rinegoziazione nei

contratti di durata, in AA. VV. (a cura di N. Lipari), Diritto privato europeo e categorie

civilistiche, Napoli, 1998, p. 193; M. Timoteo, Contratto e tempo. Note a margine di un libro

sulla rinegoziazione contrattuale, in Contratto e impresa, 1998, p. 619; F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996; R. Tommasini, Revisione del rapporto (diritto privato), in Enc, dir., XL, Milano, 1989. 454 Così D. Russo, Sull’equità dei contratti, cit., p. 64. L’A. afferma, tuttavia, che la soluzione prospettata “sebbene apparentemente eversiva non risulta ad un attento esame in contrasto con la sistematica del codice”. Osserva P. Gallo, Sopravvenienza contrattuale, cit., p. 312: “In sostanza l’esistenza stessa di un rapporto contrattuale destinato a protrarsi nel tempo potrebbe

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Secondo un Autore, il principio di buona fede può generare a carico

delle parti, che pure non lo abbiano previsto, un obbligo di rinegoziare, per

adeguare il loro rapporto alle sopravvenienze significative che si siano nel

tempo manifestate; in queste ipotesi, trattandosi di obbligo non previsto

contrattualmente, la buona fede opererebbe come fonte integratrice del

regolamento contrattuale455.

Altri ritiene che il fenomeno dell’adeguamento atterrebbe alla fase di

attuazione del rapporto, in quanto i caratteri stessi dei contratti di durata

(solidarietà tra i contraenti, rilevanza causale del tempo, flessibilità del

contenuto) farebbero emergere un principio di adeguamento del rapporto nel

corso della sua esecuzione456.

Tuttavia, la buona fede esecutiva - secondo tale ricostruzione - non

rileverebbe quale fonte integrativa, ma solo per la individuazione delle

modalità dell’adempimento della obbligazione contrattuale di adeguamento457.

Questo orientamento, in sostanza, costruisce l’obbligo di rinegoziare

come obbligazione accessoria nascente dalla buona fede esecutiva,

implicare un obbligo reciproco dei contraenti a trattare le condizioni della modificazione del contratto, anche indipendentemente dalla ricorrenza di tutti i requisiti per la risoluzione ex art. 1467, ossia quante volte la situazione di fatto sia tale da non permettere l’adempimento delle obbligazioni assunte, senza un sostanziale sacrificio economico per il debitore (ancorché non in misura tale da far scattare i presupposti della risoluzione per eccessiva onerosità)”. 455 V. Roppo, Il contratto, cit., p. 1046 ss.. 456 P. Gallo, op. ult. cit., p. 102 ss., parte dalla premessa fondamentale nello studio dell’adeguamento del contratto nei rapporti a lungo termine, e cioè che “la valutazione degli interessi dei contraenti non può svolgersi sul piano del contenuto del contratto, come insieme delle pattuizioni su cui si è raggiunto il consensus in idem placitum, bensì sul diverso piano dell’esecuzione, cercando di rinvenire gli strumenti normativi atti a garantire che l’adempimento sia in linea con il concreto sviluppo del rapporto contrattuale”. 457 P. Gallo, op. ult. cit., p. 355: “Il contratto … indica l’esistenza, nonché il contenuto dell’obbligo, mentre il criterio della buona fede (ovvero della correttezza) offre lo strumento giuridico per individuare le modalità concrete dell’obbligo … il <<come>> l’obbligo vada adempiuto”.

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presupponendo, quindi, che nel contenuto del contratto già esista l’obbligo di

adeguare il contratto nel tempo458.

Tale obbligo può essere espressamente pattuito oppure può ritenersi

implicitamente contenuto sulla base della valutazione del tipo, ai sensi

dell’art. 1366 c.c. o dell’art. 1340 c.c.; di conseguenza, il problema

dell’adeguamento diventa un problema interpretativo.

Impostato in questi termini, il problema della revisione resterebbe

ancorato all’accertamento del contenuto contrattuale ed il riequilibrio del

sinallagma conseguirebbe comunque, al di là dell’ambito applicativo della

normativa sull’eccessiva onerosità, alla volontà delle parti459.

Sempre nell’ottica di preservare l’equilibrio contrattuale in conseguenza

di sopravvenienze prevedibili o, comunque, tali da non legittimare

l’azionabilità del tradizionale rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità

sopravvenuta, autorevole dottrina ha individuato proprio nel principio di

458 P. Gallo, op. ult. cit., p. 154 ss.: “La modificazione non è più soltanto legata alle vicende patologiche dell’esecuzione del contratto; essa è strumento di attuazione del rapporto”. 459 Sia che l’obbligo di rinegoziare abbia fonte contrattuale, sia che abbia fonte legale, si pone il problema di stabilire quali siano le conseguenze dell’inadempimento di tale obbligo. Secondo F. Macario, op. cit., p. 395 ss., ad un tale inadempimento conseguirebbe la possibilità, per la parte adempiente, di far valere la culpa in contraendo della controparte, chiedendo al giudice una pronuncia costitutiva, sostitutiva del mancato accordo, ai sensi dell’art. 2932 c.c. Favorevole a tale soluzione è anche V. Roppo, Il contratto, cit., p. 1047, il quale osserva che i rimedi rappresentati dalla risoluzione e dal risarcimento porterebbero al risultato che l’obbligo di rinegoziazione mira ad evitare e, cioè, la distruzione del contratto. La soluzione ispirata all’art. 2932 c.c., secondo l’A., “può sembrare molto audace. Ma, prima di tutto, il risultato di essa non è così eversivo: equivale a dare alla parte gravata dalla sopravvenienza quello stesso potere d’invocare la riduzione a equità del contratto squilibrato, che già le spetta in relazione ai contratti gratuiti, e che nei contratti onerosi spetta a controparte (sicché, più che un rimedio nuovo, si configurerebbe un semplice allargamento della legittimazione a un rimedio già previsto)”.

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buona fede il criterio in base al quale determinare il margine di sacrificio

esigibile dal debitore460.

Fondamentale in tale prospettiva è - secondo l’orientamento in esame -

individuare gli interessi rilevanti nell’economia dell’affare461, onde verificare

la compatibilità con gli stessi delle sopravvenienze, alla stregua del canone

della buona fede, inteso quale fonte di integrazione del regolamento

negoziale462.

Più precisamente, attraverso un giudizio di buona fede, condotto sulla

base delle caratteristiche del tipo contrattuale prescelto e dei valori di mercato,

il giudice potrà creare la regola giusta di ripartizione del rischio concretizzato

dalla sopravvenienza463.

460 M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, cit.. Secondo l’A. (p. 338) “il giudizio di buona fede costituisce un adeguato mezzo di controllo sulla compatibilità tra circostanze createsi ed equilibrio economico del contratto”. 461 Esplicita è l’adesione, da parte di Bessone, alla teoria della causa concreta (op. ult. cit., p. 117 ss): “Nel quadro degli ordinamenti che sembrano esaurire la causa del contratto negli interessi che esprimono la funzione tipica di ogni singolo affare, accade che ogni interesse diverso da quelli venga qualificato irrilevante, e ciò naturalmente sembra impedire di apprezzare circostanze che, essendo incompatibili con situazioni solo presupposte dal contratto, paiono riguardare interessi estranei più di ogni altro alla causa del negozio, puri e semplici motivi dell’iniziativa. … Queste difficoltà invece non vi sono se si accoglie un concetto di causa così ampio da estendere la nozione di ragione giustificativa dell’affare anche agli interessi che talvolta integrano l’economia del contratto pur essendo estranei alle costanti del tipo negoziale, così da consentire di apprezzare anche circostanze che li concernono”. 462 Nella teoria elaborata dal Bessone, il giudizio di buona fede non costituisce applicazione né dell’art. 1366 c.c., né dell’art. 1375 c.c., “perché il controllo sulla compatibilità tra circostanze occorse ed adempimento non pone tanto un problema di valutare la correttezza del contegno tenuto nell’esecuzione del rapporto, quanto piuttosto di verificare se la prestazione è correttamente esigibile”. 463 M. Bessone, op. ult. cit., p. 399 ss.: “Il giudizio di buona fede consente di accertare se - date le circostanze - la prestazione delle parti può ancora essere richiesta o se costituisce piuttosto abuso del diritto la pretesa di ottenerla fatta valere dall’altra. … In conclusione, il controllo sulla compatibilità tra evenienze (pure diverse dall’imprevedibile) ed adempimento invariabilmente si concreta nel giudizio di buona fede inteso ad accertare se lo stato di cose creatosi non richieda un sacrificio che sta al di là del limite implicito nella stessa economia dell’affare”, limite oltre il quale, secondo l’A., la prestazione non è più dovuta e il contratto si risolve senza alcuna responsabilità in capo al debitore. In tale prospettiva, “la legge fa della

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buona fede in senso oggettivo (e distinta da diligenza e da equità) la fonte di un precetto diretto ai singoli, in quanto regola di comportamento, e al giudice, in quanto modello di decisione che è compito del giudice puntualizzare”.

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CAPITOLO VIII

EQUILIBRIO CONTRATTUALE E PRINCIPIO DI EQUITÀ

Se, quindi, è dibattuto in dottrina il ruolo integrativo del principio di

buona fede464, altrettanto non può dirsi per l’equità, espressamente indicata

dall’art. 1374 c.c. tra le fonti di integrazione del contratto465.

Invero, il richiamo all’equità nel nostro codice civile466 non è limitato a

tale articolo, in quanto se ne possono ravvisare molti altri, sia nell’ambito

464 Secondo A. Musio, La buona fede nei contratti dei consumatori, cit., p. 75, “la buona fede svolge una funzione che solo impropriamente può definirsi integrativa dal momento che non comporta la nascita di nuovi diritti non previsti dalle parti nel loro accordo, bensì si limita a conformare la condotta del soggetto tenuto alla soddisfazione dell’interesse della controparte”. 465 Sull’equità v. F. Calasso, voce Equità (storia), in Enc. Dir., vol. XV, Milano, 1966, p. 65 ss.; V. Frosini, voce Equità (nozione), ibidem, p. 69 ss.; S. Romano, voce Principio di equità

(dir. priv.), ibidem, p. 83 ss.; S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, cit., p. 205 ss.. Frequente in dottrina è l’osservazione secondo cui l’equità rappresenta uno dei concetti più tormentati e dai contorni più incerti dell’esperienza giuridica. Le difficoltà che si incontrano nel fornirne una esatta definizione derivano innanzitutto dalla circostanza che esso “si presta ad assumere diversità di colorazione e di aspetto a seconda della particolare impostazione giuridica o filosofica dello studioso che ne tenta la definizione” (così C. M. De Marini, Il

giudizio di equità nel processo civile (premesse teoriche), Padova, 1957). Sul ruolo di equità e buona fede quali fonti di integrazione del contratto, v. M. Barcellona, Un breve commento

sull’integrazone del contratto, cit., p. 524 ss. e M. Franzoni, Buona fede ed equità tra le fonti

di integrazione del contratto, cit., p. 83 ss. F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, cit., p. 90 ss., osserva come il principio di equità, insieme con quelli di affidamento, correttezza, buona fede, tutela del contraente debole, caratterizzi sempre di più l’istituto contrattuale, tanto da consentire al giudice un intervento diretto sull’economia dell’affare, con il conseguente superamento dell’ “antico mito del giudice inteso quale mero strumento della applicazione di norme”. 466 Tale precisazione si impone in considerazione degli espressi richiami all’equità contenuti anche nel Codice di Procedura civile e, segnatamente, negli artt. 113 e 114. A tale riguardo, la dottrina parla di “equità sostitutiva”, quale valore alternativo al diritto, per indicare, appunto, le ipotesi in cui il giudice è legittimato a valutare il caso concreto in modo diverso da come è stato valutato in astratto dalla legge. In particolare, si osserva che l’art. 113, comma 1, c.p.c., è costruito secondo lo schema regola/eccezione: normalmente il giudice decide secondo diritto e, in casi eccezionali, secondo equità. Il giudizio di equità sostitutiva è ammesso, a norma dell’art. 114 c.p.c, a due condizioni: che la controversia riguardi diritti disponibili e che vi sia espressa e concorde richiesta delle parti in causa. Si è, altresì, precisato che, in questo caso, il

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della disciplina generale del contratto che in relazione a singoli tipi

contrattuali467.

L’indubbio collegamento che il concetto in esame presenta con il

profilo dell’equilibrio contrattuale - in particolar modo economico -

unitamente al suo diffuso richiamo in diverse norme, soprattutto codicistiche,

impone di esaminare se nel nostro ordinamento sussista un principio generale

di adeguatezza del corrispettivo468.

A tal fine pare opportuno prendere in considerazione i richiami

contenuti all’equità nell’ambito della disciplina generale dei contratti, e,

giudice non deve necessariamente disapplicare la legge, anche quando essa appaia conforme ai principi di equità da lui stesso individuati; se ne potrà discostare qualora dovesse ritenere la soluzione normativa non equa nel caso concreto. Il giudice deve, in ogni caso, dare conto dei criteri seguiti nella decisione (ex art. 118, comma 2, disp. att. c.p.c.), motivandola con riferimento alle circostanze del caso, inquadrate pur sempre nell’ambito dei principi desumibili dalla Costituzione. Va, infine, tenuto presente che la legge stessa autorizza il giudice di pace a decidere secondo equità le cause di valore non eccedente i millecento euro, “salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 del codice civile” (art. 113, comma 2, c.p.c.) e che gli arbitri, a norma dell’art. 822 c.p.c., possono essere autorizzati dalle parti a pronunciare secondo equità. Sul giudizio di equità, v. S. Romano, op. ult. cit., p. 102 ss.; G. Verde, I profili del processo civile, 1, Napoli, 1994, p. 144 ss. 467 Quanto alla disciplina generale del contratto, si pensi, oltre agli artt. 1371 e 1374 c.c., anche agli artt. 1349, 1447, 1450, 1467, 1468 c.c.; quanto ai singoli tipi contrattuali, in relazione ai quali l’apprezzamento equitativo del giudice, sempre in mancanza di accordo delle parti, si esprime, per lo più, nella determinazione di corrispettivi dovuti in cambio di beni e servizi, si pensi agli artt. 1526, 1660, 1664, 1733, 1736, 1738, 1748, 1751, 1755, 2109, 2118 c.c.. Nell’ambito delle numerose norme che rinviano all’equità, P. Rescigno, Manuale

del diritto privato, Napoli, 1991, p. 113 ss., distingue i casi in cui la valutazione equitativa demandata al giudice riguarda la determinazione del corrispettivo di un’opera o di un’attività, da quelli in cui la stessa concerne la quantificazione di un danno di non preciso ammontare (artt. 1226, 2056 c.c.) ovvero di un indennizzo o di una indennità che la legge pone a carico di un soggetto in conseguenza di una diminuzione patrimoniale non cagionata da un fatto illecito. Secondo l’A., l’equità richiamata dall’art. 1374 c.c. si riferisce al primo gruppo di ipotesi, rispetto al quale essa svolge una funzione suppletiva, volta a colmare le lacune non coperte dagli usi e dalla contrattazione (collettiva ed individuale). 468 Non vi è dubbio, infatti, che, da un punto di vista semantico, il termine equità richiami il concetto di misura, proporzione, equilibrio, uguaglianza. In base ad un approccio filosofico, l’equità, inoltre, esprime l’aspirazione del legislatore e del giurista ad un diritto “giusto”, conforme al comune sentire dei consociati.

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preliminarmente, nelle disposizioni relative alla interpretazione ed agli effetti

del contratto469.

Quale criterio ermeneutico del contenuto contrattuale, l’equità - come

più volte chiarito dalla giurisprudenza - svolge la funzione di regola di

chiusura, avendo “carattere espressamente supplementare”470.

Con riguardo a tale funzione, essa viene tradizionalmente definita come

“la giustizia del caso singolo”471 , “il giusto contemperamento dei diversi

interessi delle parti in relazione allo scopo e alla natura dell’affare”472.

Il medesimo significato assume l’equità quale fonte d’integrazione del

contratto, ai sensi dell’art. 1374 c.c., anche se, ovviamente, con una funzione

diversa.

Infatti, mentre l’equità intesa quale criterio di interpretazione assolve

alla funzione di accertare il significato della pattuizione oscura, quale criterio

di integrazione concorre a determinare il contenuto del contratto473.

469 I riferimenti all’equità contenuti in altre norme costituenti lo statuto generale del contratto (artt. 1349, 1447, 1450, 1467 e 1468 c.c.) sono già stati analizzati in precedenza; in relazione ai medesimi si è già evidenziato come non sia possibile ritenere sussistente nel nostro ordinamento giuridico un principio generale di adeguatezza del corrispettivo. 470 Così Cass., 4 gennaio 1995, n. 74, in Giust. civ. Mass., 1995, 10. Secondo tale pronuncia “la disposizione di cui all’art. 1371 c.c. … è applicabile solo nel caso in cui, malgrado il ricorso a tutti gli altri criteri previsti dagli artt. 1362 e ss. c.c., la volontà delle parti rimanga dubbia”. Sul carattere sussidiario dell’equità quale regola d’interpretazione del contratto, v. anche C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 442: “Precisamente, se l’applicazione degli altri canoni d’interpretazione soggettiva ed oggettiva non consente di accertare il significato del contratto, questo deve essere interpretato nel senso meno gravoso per il debitore, se è a titolo gratuito, nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti, se è a titolo oneroso (1371 c.c.)”. 471 V. Roppo, Il contratto, cit., p. 490. 472 C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 443. L’A. precisa che “il dettato della norma [1371 c.c.] potrebbe fare pensare che l’equità valga solo per i contratti a titolo oneroso. In realtà, il canone di favore dell’obbligato nei contratti a titolo gratuito non è altro che un’espressione del medesimo principio equitativo. In tali contratti si tratta infatti di contemperare l’interesse del creditore ad avere il massimo risultato utile e quello dell’obbligato al minore sacrificio possibile. Il contemperamento privilegia qui la posizione dell’obbligato dato che il sacrificio economico della prestazione non ha rispondenza in un corrispettivo”.

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L’equità integrativa opera attraverso la mediazione del giudice, il quale

deve, pertanto, creare la regola del caso concreto, ispirandosi a criteri di

giustizia, al fine di assicurare un equilibrato assetto degli interessi delle parti

in relazione all’economia dell’affare474.

Secondo l’orientamento prevalente in dottrina, l’equità costituisce una

fonte di integrazione suppletiva e non cogente, nel senso che in base ad essa il

giudice colma le lacune del regolamento contrattuale, creando - sempre che la

legge glielo consenta475 - la regola del caso concreto che non sia, tuttavia, in

contrasto con le logiche e gli equilibri concordati476.

La funzione suppletiva discenderebbe - secondo tale orientamento -

dalla stessa previsione dell’art. 1374 c.c., che stabilisce una gerarchia tra le

varie fonti di integrazione del contratto, in virtù della quale gli usi e l’equità

473 Secondo F. Galgano, Il negozio giuridico, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni e continuato da P. Schlesinger, Milano, 2002, p. 57 ss. “il contenuto del contratto non è solo, come si esprime l’art. 1321, frutto dell’<<accordo delle parti>>: è, piuttosto, la risultante di una pluralità di fonti, una sola delle quali è l’accordo delle parti … Il codice civile esprime questa pluralità di fonti del regolamento contrattuale allorché enuncia il generale principio secondo il quale <<il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità>> (art. 1374)”. C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 518, precisa che “quale fonte di integrazione del contratto, l’equità non è un principio di giustizia morale che si sostituisce alla regola del diritto positivo per la soluzione della controversia. Essa rileva piuttosto come uno dei criterio che secondo la previsione legislativa concorrono a determinare gli effetti giuridici del contratto”. 474 Secondo L. Bigliazzi Geri, Buona fede nel diritto civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., II, Torino, 1988, p. 186, l’equità rappresenta uno strumento residuale di integrazione del contratto che si traduce non in un giudizio di tipo qualitativo, ma quantitativo, poiché mira all’equilibiro economico del sinallagma. 475 F. Galgano, op. ult. cit., p. 58, distingue l’equità sia dalla legge che dagli usi, in quanto non costituisce fonte di norme generali ed astratte, bensì rappresenta “la norma del caso concreto creata dal giudice negli eccezionali casi in cui la legge consente al giudice di crearla”. 476 Secondo V. Roppo, op. ult. cit., p. 492, il giudice non può invocare l’equità “per affermare soluzioni incoerenti coi programmi dell’autonomia privata, e tanto meno per modificare i contenuti dell’accordo, anche se questi gli appaiono <<iniqui>>”.

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valgono soltanto in mancanza della volontà espressa delle parti o di

disposizioni di legge477.

Il principio in esame, quindi, consente al giudice, soltanto in caso di

lacune nel regolamento contrattuale, di integrare quest’ultimo al fine di

realizzare il giusto contemperamento dei diversi interessi delle parti in

relazione allo scopo e alla natura dell’affare, anche nei contratti a titolo

gratuito, dove la determinazione del contratto deve procedere contemperando

l’interesse dell’avente diritto (ad avere il massimo quantitativo e qualitativo) e

quello dell’onerato (al minore sacrificio possibile, sempre tenendo conto dello

scopo e della natura del contratto)478.

L’orientamento prevalente, pertanto, pur non negando uno stretto

collegamento tra il principio di equità e l’esigenza di equilibrio contrattuale479,

esclude, tuttavia, che da tale principio possa farsi discendere il potere, da parte

477 V. Roppo, op. ult. cit., p. 490, afferma che “la prima fonte dell’integrazione giudiziale è l’equità, richiamata (insieme con legge e usi) dall’art. 1374. … Applicata al contratto, essa autorizza il giudice a determinare aspetti del regolamento non contemplati nell’accordo delle

parti, né puntualmente definiti da leggi o usi: a determinarli tenendo conto delle circostanze

concrete in presenza delle quali il contratto è stato fatto e deve essere eseguito, e nella prospettiva di affermare soluzioni che siano giuste ed equilibrate alla luce dei programmi e

degli assetti d’interessi definiti dal contratto”. In merito alla costruzione delle fonti di integrazione del contratto secondo una scala gerarchica, F. Galgano, op. ult. cit., osserva che “il carattere suppletivo degli usi rispetto alla legge è coerente con il ricordato art. 8 prel.; quanto alla volontà delle parti, questa prevale sugli usi per la evidente considerazione che le norme consuetudinarie non hanno mai natura imperativa e sono sempre derogabili per accordo fra le parti. In rapporto all’equità bisogna dire che il suo carattere suppletivo è solo normale, sussistendo casi nei quali, come nel caso della riduzione equitativa della penale eccessiva (art. 1384), il giudice è chiamato ad esercitare un vero e proprio potere <<correttivo dell’autonomia privata>>”. 478 Così C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 519. 479 Secondo C. M. Bianca, op. ult. cit., p. 520, l’equità “esprime l’esigenza dell’equilibrio contrattuale … è un precetto di giustizia contrattuale che ha come destinatari le parti e che trova applicazione al fine di integrare le lacune del regolamento contrattuale”.

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del giudice, di modificare le pattuizioni private da lui ritenute inique480, o la

invalidità delle clausole il cui contenuto appaia squilibrato, a meno che tale

squilibrio non derivi dalla incapacità naturale del contraente o da una sua

grave situazione di necessità o di bisogno481.

Tuttavia, non sono mancati in dottrina tentativi volti a configurare il

giudizio equitativo quale primario strumento di controllo, oltre che di

480 In tal senso, cfr. V. Roppo, Il contratto, cit., p. 492 ss.: “Non è principio del nostro sistema quello per cui i contratti devono essere equi, cioè avere contenuti equilibrati e conformi a giustizia: in regime di libertà contrattuale, la giustizia e l’equilibrio del contratto sono decisi

fondamentalmente dalle parti stesse; i contratti si fanno per regolare interessi delle parti, e le parti sono arbitre dei propri interessi. Sulle determinazioni volontarie delle parti può sovrapporsi e prevalere la volontà della legge, con lo strumento delle norme imperative. Può intervenire, in nome di valori o interessi generali, un controllo giudiziale suscettibile di portare alla distruzione del contratto: ma lo strumento è l’ordine pubblico e il buon costume, non l’equità. Nella disciplina del contratto in genere, un controllo del giudice sull’equità del singolo scambio contrattuale è ammesso solo in presenza di una condizione, che ne circoscrive la praticabilità: quando l’accettazione del regolamento iniquo dipende da circostanze oppressive, le quali tolgono alla parte che subisce l’iniquità la possibilità di autodeterminarsi in modo libero: è la disciplina della rescissione. Ma in generale i giudici non

possono, in nome dell’equità, distruggere o correggere i contratti iniqui”. Del tutto eccezionale, quindi, secondo l’A., si presenta il potere del giudice di diminuire equamente la penale manifestamente eccessiva (art. 1384 c.c.), trattandosi, in questo caso, di valutazione equitativa che non colma una lacuna dell’accordo, bensì si sovrappone a questo, “rettificando le scelte dell’autonomia privata: è un caso d’integrazione (giudiziale) non suppletiva, ma

cogente”. Secondo C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 519, le ipotesi nelle quali l’ordinamento riserva al giudice il potere di modificare equitativamente il contenuto del contratto, quale, appunto, la riduzione della penale eccessiva, sono eccezionali e comunque esulano dalla previsione generale delle fonti di integrazione. Anche il Consiglio Superiore della Magistratura, Società italiana e tutela giudiziaria dei

cittadini. Prime linee di riforma dell’ordinamento giudiziario, 1971, p. 136 ss., ha precisato che il giudice può ricorrere all’equità soltanto nei limiti in cui il diritto positivo glielo consente; “l’autorizzazione legislativa funziona da presupposto per l’applicazione della norma di equità e ne costituisce a un tempo il suo limite formale”. 481 Sul punto, v. C. M. Bianca, Il contratto, p. 520 ss., il quale afferma che “sebbene la grave iniquità possa costituire un limite di validità del contratto, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale le parti non sono tenute specificamente ad attenersi al criterio dell’equità”, precisando, altresì, che “la violazione del criterio equitativo ha tuttavia una sua rilevanza in quanto rende annullabile o rescindibile il contratto quando l’iniquità ha causa nell’incapacità naturale del contraente o nella sua eccezionale situazione di bisogno o di necessità”.

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completamento, della regola contrattuale, attraverso una diversa lettura

dell’ordine delle fonti di integrazione.

Più precisamente, secondo tale orientamento, ciascuna fonte di

integrazione indicata dall’art. 1374 c.c. avrebbe un autonomo ambito

applicativo: la legge riguarderebbe i contratti tipici; gli usi i contratti

socialmente tipici; l’equità le pattuizioni atipiche482.

Inoltre, tale ultima fonte, non solo consentirebbe la integrazione dei

contratti atipici, ma anche il controllo delle clausole atipiche, operando,

quindi, quale fonte di integrazione suppletiva o imperativa, con la

conseguenza di sanzionare con la nullità la clausola che sia in contrasto con la

valutazione giudiziale483.

482 F. Gazzoni, op. ult. cit., p. 310 ss.. La surriportata classificazione delle fonti di integrazione richiama le affermazioni di G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 320 ss., secondo cui “la distinzione tra legge, usi ed equità, corrisponde alla distinzione tra tipi legali, tipi sociali e strutture meramente individuali”. In tale scritto, inoltre, Ferri sostiene che il richiamo all’equità ha “come punto di riferimento quei contratti che, per la loro struttura nuova e originale, non possono essere ricondotti ai tipi legali e ai tipi sociali; ai quali quindi non possono essere applicati quei criteri di normalità che le strutture legali o sociali esprimono. … Proprio perché in questo campo l’equità è soltanto un criterio tecnico, il richiamo ad essa è richiamo ai criteri tecnici comunemente ricevuti dall’esperienza e cioè ai criteri di proporzione, equilibrio, armonia. Quegli stessi criteri tecnici di esperienza che, nel caso di contratti tipici, si troveranno cristallizzati nella legge o negli usi; mentre in caso di contratti che, per la novità del rapporto che in essi è espresso, non hanno ancora dato luogo ad un uso, dovranno essere desunti dal caso concreto”. 483 F. Gazzoni, op. ult. cit., p. 276 ss.: “Se è vero che l’equità oltre che a modificare può anche restringere e ridurre la norma contrattuale oltre che aggiungere altre norme che assicurino che il regolamento contrattuale risulti equo, non si vede perché uno di questi interventi non potrebbe essere diretto ad eliminare dalla regola privata, mediante la comminazione dell’invalidità, quella parte di essa che non potrebbe continuare a sussistere senza determinare l’iniquità del regolamento contrattuale. … Pertanto può ben richiamarsi l’art. 1374 come norma imperativa che prevede l’invalidità degli atti derivante non solo dalla legge (per illiceità conseguente a norme imperative, ordine pubblico, buona costume), ma anche dall’equità”. In tale prospettiva, l’iniquità opererebbe, quale causa di invalidità del contratto o di sue singole clausole, non a priori (come la illiceità), bensì a posteriori, poiché dipenderebbe non dalla violazione di regole predeterminate, ma dal concreto atteggiarsi di un regolamento contrattuale di per sé lecito. Una tecnica sanzionatoria analoga, operante in base alle circostanze del singolo caso, viene ravvisata dal Gazzoni (Manuale di diritto privato, cit., p.

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Tale ricostruzione, tuttavia, non viene condivisa da autorevole dottrina,

secondo cui la ratio dell’art. 1374 c.c., non consisterebbe nell’individuare, per

ciascuna fonte di integrazione, un diverso ambito operativo, bensì nel

prevedere che le conseguenze ulteriori, rispetto a quelle espressamente volute

dalle parti, discendano dalla legge e, in mancanza di questa, dagli usi e

dall’equità484.

In tal senso sembrerebbe deporre proprio il preciso ordine di

elencazione delle varie fonti di integrazione del contratto, esattamente opposto

a quello indicato dal Codice civile del 1865, nel quale, al primo posto,

figurava l’equità, quindi, l’uso ed, infine, la legge485.

Infatti, se quest’ultimo elenco “rispecchiava l’attitudine del legislatore a

ridurre l’incidenza della legge sull’autonomia negoziale ed a ritenere più

vicine alla spontanea determinazione dei singoli le regole del costume e della

naturale giustizia” 486 , quello attuale rivela l’intenzione del legislatore di

ridimensionare il ruolo dell’equità, attribuendo alla stessa una funzione

meramente suppletiva487.

774) nella disciplina delle clausole vessatorie nei contratti del consumatore (artt. 1469bis ss. c.c.). Inoltre, ad ulteriore sostegno della propria teoria, l’A. invoca la L. n. 281/98, che menziona espressamente, tra i diritti fondamentali del consumatore, quello alla equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi. 484 P. Rescigno, op. ult. cit., p. 706 ss. 485 Più precisamente, l’art. 1124 del Codice civile del 1865 stabiliva: “I contratti devono essere eseguiti di buona fede ed obbligano non solo a quanto è nei medesimi espresso, ma anche a tutte le conseguenze che secondo la equità, l’uso o la legge ne derivano”. Secondo F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, cit., p. 226, l’avere scisso, nel Codice civile del 1942, le previsioni relative all’equità e alla buona fede, invertendone l’ordine progressivo, comporta che “l’integrazione, come del resto impone la logica, viene a precedere l’esecuzione secondo buona fede del contratto”.? 486 Così P. Rescigno, op. ult. cit., p. 707. 487 In termini, cfr. Cass., 8 luglio 1983, n. 4626, in Mass. Giust. civ., 1983, fasc. 7: <<La funzione dell’“equità” richiamata dall’art. 1374 c.c. - in forza del quale “il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne

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Del resto, i numerosi rinvii all’equità integrativa contenuti nel Codice

civile, specie in materia contrattuale, sono talmente disaggregati e

frammentari da impedire la individuazione di una ratio unitaria ed una

funzione comune ad essi sottese e, quindi, di un generale principio di equità

che possa legittimare interventi del giudice - al di là delle ipotesi

espressamente previste - volti ad integrare o, addirittura, correggere le private

convenzioni488.

Con specifico riferimento alla funzione correttiva dell’autonomia

privata assolta dall’equità, la dottrina precisa che le previsioni contenute negli

artt. 1384 e 1526, comma 2, c.c. 489 , rappresentano delle eccezioni,

espressamente volute dal legislatore, alla regola generale che vede l’equità

derivano secondo la legge, o in mancanza, secondo gli usi e l’equità” - è puramente suppletiva, nel senso che colma le lacune non coperte dagli usi o da altre legittime fonti, ma non è un canone interpretativo del contratto già completo in tutti i suoi elementi. 488 Sul significato meramente “ricognitivo” del richiamo all’equità contenuto nell’art. 1374 c.c., v. M. Franzoni, op. cit., p. 91, secondo cui “l’equità dell’art. 1374 c.c. costituisce una norma di sintesi di altre espressamente attributive del potere di integrare il contratto con equità. Senza un riferimento più puntuale, infatti, il giudice non sarebbe autorizzato a determinare il contenuto del regolamento con giudizio equitativo”. Secondo S. Rodotà, Le

fonti di integrazione del contratto, cit., p. 225, “nel nostro sistema, l’equità non rappresenta un autonomo principio regolativo e viene in questione nei soli casi in cui la legge la richiama espressamente”. Del medesimo avviso è F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 772 ss.. Attribuisce all’equità un ruolo residuale anche A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Comm. al cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1988, sub art. 1175, p. 301: <<Nonostante le ufficiali proclamazioni del codice (art. 1374), lo spazio dell’equità è residuale nel nostro sistema. Esso vive nei “vuoti” lasciati dall’autonomia delle parti e dalle norme di legge. … Ove la legge a ciò l’autorizzi, il giudice esercita un potere di apprezzamento equitativo, valutando tutte le circostanze del caso. La più ampia e generica “autorizzazione” contenuta nella norma sui contratti (art. 1374) non deve indurre in equivoco, non potendo il giudice evidentemente imporre conseguenze “equitative” alle parti, modificando quanto da esse stabilito>>. 489 L’art. 1384 c.c., in precedenza esaminato, prevede il potere del giudice di ridurre l’ammontare della clausola penale manifestamente eccessivo, “avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento”. Con analoga formulazione, l’art. 1526, comma 2, c.c., dettato nell’ambito della disciplina della vendita con riserva di proprietà, dispone che, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento del compratore, qualora si sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo di indennità, il giudice, “secondo le circostanze, può ridurre l’indennità convenuta”.

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quale criterio residuale di integrazione del contratto, che interviene solo

quando il legislatore abbia fatto ad essa espresso riferimento490.

Peraltro, si aggiunge che, a differenza della buona fede, l’equità opera

soltanto sul piano del contenuto economico dello scambio fra le prestazioni,

senza comportare la nascita di diritti che l’accordo non abbia già previsto, né

l’inefficacia di clausole491.

Dalla clausola generale di buona fede, che trova il proprio fondamento

nel dovere di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, possono, infatti,

derivare obblighi a carico dei contraenti, pur sempre attinenti, beninteso, alla

fase esecutiva del rapporto, i cui termini di scambio - compresi quelli

economici - siano già stabiliti dalle parti492.

In tale prospettiva, sia l’equità che la buona fede si presentano come

valori volti a tutelare l’esecuzione del contratto secondo l’originario

programma concordato dalle parti, con la differenza che la repressione di un

490 Così M. Franzoni, op. cit., p. 89. 491 M. Franzoni, op. cit., p. 90. Al riguardo, tuttavia, pare opportuno segnalare che i recenti interventi legislativi in tema di diritti dei consumatori e degli utenti (L. n. 281/1998) e, soprattutto, di pagamenti nelle transazioni commerciali (d. lgs. n. 231/2002), sembrano delineare un diverso assetto dei rapporti tra equità e invalidità o inefficacia contrattuale, alla luce del quale la prima non appare più completamente estranea al novero dei criteri di validità del contratto. 492 Cfr. M. Franzoni, op. cit., p. 94 ss.: “Gli obblighi riconducibili alla buona fede attengono all’esecuzione del rapporto, non invece alla nascita del rapporto stesso, le cui vicende sono estranee al diritto, salvo la presenza di vizi genetici, sempre salvo il limite posto dagli artt. 1337 e 1338 c.c.. In altri termini, date certe condizioni nelle quali il diritto non può entrare, proprio quelle condizioni devono trovare l’esecuzione che è legittimo attendersi, secondo un’idea di mercato che prende a modello quello di contraenti corretti. Sono tali le parti che non abusano dei propri diritti; che non si pongono in situazioni maliziosamente preordinate al raggiungimento di profitti il cui costo l’altro partner non poteva ragionevolmente prevedere al momento della perfezione del contratto”. Tuttavia, l’A. sembra riconoscere alla buona fede anche una funzione di integrazione “repressiva” dell’autonomia privata, quando afferma che, in ossequio al principio di buona fede, i contraenti “sono tenuti a cooperare anche laddove il testo del contratto non ponga alcun obbligo ed anche se quel contratto espressamente lo esclude. La valutazione di tutte queste circostanze deve essere rimessa al prudente apprezzamento del giudice che applica la clausola dell’art. 1375 c.c.”.

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comportamento scorretto (o “abuso”, secondo la terminologia adoperata dal

legislatore) con la buona fede costituisce il presupposto logico e giuridico per

riequilibrare con l’equità493.

493 La ricostruzione, in tali termini, delle aree di operatività di buona fede ed equità, nell’ambito della fase di esecuzione del regolamento contrattuale, potrebbe rivelarsi utile all’interprete al fine di colmare le lacune del regolamento negoziale determinate dalla declaratoria di inefficacia o di nullità di clausole “vessatorie” o “ingiustificatamente gravose” ai sensi, rispettivamente, dell’art. 1469quinquies c.c. e dell’art. 9, comma 3, L. n. 192/1998. Tale aspetto problematico, qui soltanto accennato, costituirà oggetto di approfondimento, in sede di disamina specifica delle norme citate.

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PARTE TERZA

L’EQUILIBRIO CONTRATTUALE NELLA LEGISLAZIONE

SPECIALE

CAPITOLO IX

I CONTRATTI DEL CONSUMATORE

I risultati dell’indagine fin qui svolta, diretta a verificare l’esistenza, nel

nostro ordinamento giuridico, del principio di necessaria proporzione tra i

valori delle prestazioni scambiate, evidenziano una limitata attenzione rivolta

dal legislatore del 1942 allo squilibrio economico tra le prestazioni,

circoscrivendone la rilevanza - unitamente al ricorrere di ulteriori presupposti

di natura soggettiva - alle ipotesi di rescissione e risoluzione per eccessiva

onerosità sopravvenuta, come, peraltro, dimostrano i tentativi compiuti da

dottrina e giurisprudenza di funzionalizzare alla salvaguardia dell’equilibrio

economico del contratto requisiti strutturali di questo ovvero clausole generali

dell’ordinamento.

Il legislatore codicistico, pertanto, nell’ottica della piena valorizzazione

dell’autonomia privata, ispirata ai principi dell’economia di mercato494, ha

494 Osserva R. Lanzillo, Regole del mercato, cit., p. 309 ss., che “l’idea della necessità che venga rispettato un <<giusto>> rapporto di scambio fra i valori delle prestazioni contrattuali appare estranea ai sistemi che si ispirano ai principi dell’economia di mercato. Ciò per una ragione semplicissima: perché nella logica di questi sistemi viene a mancare il criterio obiettivo di valutazione delle singole prestazioni. Invero, perché si possa affermare che il prezzo di cento è adeguato al valore del bene X, occorre poter desumere da elementi esterni

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preferito lasciare libere le parti di determinare il contenuto del contratto e di

fissare il rapporto tra le prestazioni in esso dedotte, con la conseguente

irrilevanza di eventuali sproporzioni fra i valori delle stesse495.

Da ciò discende la regola della insindacabilità della congruità dello

scambio contrattuale, in particolare, del prezzo, se non nei ristretti limiti di

operatività dei rimedi previsti dagli artt. 1447, 1448 e 1467 c.c.

Coerentemente con la scelta di non interferire con la esplicazione

dell’autonomia privata, il legislatore del 1942 ha altresì riservato limitato

rilievo allo squilibrio giuridico, come si ricava dagli artt. 1341 e 1342 c.c.,

volti a tutelare il contraente debole nell’ambito dei rapporti contrattuali di

mercato mediante la prescrizione di un semplice onere formale496.

alla singola contrattazione qual è il giusto valore obiettivo del bene X. Ora, in base alle regole del mercato, non esiste un giusto valore obiettivo, che non sia il riflesso dei valori soggettivi espressi dalle scelte individuali nelle singole contrattazioni. … Non è il prezzo di mercato che si può considerare come il metro di valutazione dell’adeguatezza dei prezzi convenuti nella singola contrattazione. Al contrario, sono i prezzi liberamente convenuti nelle singole contrattazioni che debbono poter influire sulla valutazione di mercato e determinarne eventualmente la modifica, affinché gli operatori economici possano tener conto dell’evolvere dei gusti, nel compiere le loro scelte”. 495 Cfr. F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., p. 471: “È di regola irrilevante lo squilibrio economico originario tra le prestazioni: domina, in sede di formazione del contratto, il principio dell’autonomia contrattuale, e ciascuno è libero di contrattare a condizioni a sé svantaggiose e vantaggiose per la controparte. … Non è lecito fondare una generale regola, che imponga di uniformare le ragioni contrattuali dello scambio a oggettivi criteri di equivalenza fra le prestazioni”. Nello stesso senso, v. L. Mengoni, Autonomia privata e

costituzione, cit., p. 19, secondo cui “la libertà di contratto è, come dice l’art. 1322, libertà di due o più parti di darsi un regolamento di interessi sul quale si verifica una convergenza della loro volontà. L’autodeterminazione che essa garantisce non va intesa come potere di fatto di influire sul contenuto dell’accordo ottenendo condizioni vantaggiose o almeno oggettivamente equivalenti, bensì come libera decisione di stipulare il contratto a certe condizioni sulle quali la controparte concorda”. 496 C. M. Bianca, Condizioni generali di contratto (tutela dell’aderente), in Dig. disc. priv.,

III, Torino, 1988; Id., Condizioni generali di contratto. I) Dir. civ., in Enc. giur., VII, Roma, 1988; Id., Le condizioni generali di contratto, I, II, Milano, 1979-1981; G. Alpa-M. Bessone, I contratti standard nel diritto interno e comunitario, Torino, 1991; AA. VV. (a cura di E. Cesaro), Le condizioni generali di contratto nella giurisprudenza, Padova, 1989; G. Chiné, La

contrattazione standardizzata, in Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, XIII, Torino, 2000;

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170

In particolare, l’art. 1341, comma 1, c.c. stabilisce che “le condizioni

generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei

confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha

conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza”.

Dalla formulazione della disposizione si evince, in primo luogo, che la

stessa trova applicazione in presenza di clausole contrattuali unilateralmente

predisposte (generalmente da un imprenditore, contraente “forte”), al fine di

regolare uniformemente il contenuto di tutti i rapporti di natura identica.

La norma in esame si riferisce, pertanto, alla pratica dei “contratti

standard”, realizzata dalle imprese che, per la vendita dei propri beni o la

erogazione dei propri servizi, utilizzano testi contrattuali standardizzati, in

modo da regolare uniformemente tutti i rapporti con i clienti afferenti ai

medesimi beni o servizi497.

E. Francario, Clausole vessatorie, in Enc. giur., VI, Roma, 1988; G. Gorla, Condizioni

generali di contratto e contratti conclusi mediante moduli e formulari, in Riv. dir. comm.,

1963, I, p. 608 ss.; A. Liserre, Le condizioni generali di contratto tra norma e mercato, in Studi in onore di R. Sacco, Milano, 1994; M. Nuzzo, Condizioni generali di contratto, in Diz.

del dir. priv., a cura di N. Irti, I, Milano, 1980; G. Patti-S. Patti, Responsabilità

precontrattuale e contratti standard, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1993; S. Patti, Le condizioni generali di contratto e i contratti del consumatore, in Tratt. contr. Rescigno, Torino, 1999; Id., Le condizioni generali di contratto, Padova, 1996; Id., Clausole vessatorie, clausole d’uso e necessità dell’approvazione specifica, in Nuova

giur. civ. comm., 1995, I, p. 63 ss.; F. Realmente, Le condizioni generali di contratto, Milano, 1975; V. Scialoja, Il c.d. contratto per adesione e gli artt. 1341 e 1342 cod. civ., in Foro it.,

1949, IV, c. 39; C. Scognamiglio, Condizioni generali di contratto nei rapporti tra

imprenditori e la tutela del contraente debole, in Riv. dir. comm., 1987, II, p. 418 ss.; G. Sicchiero, Condizioni generali di contratto, in Riv. dir. civ., 1992, II, p. 469; G. Tassoni, Condizioni generali di contratto e dolo del predisponente, in I contratti, 1994, p. 124 ss.; A. Tullio, Il contratto per adesione, Milano, 1997; V. Rizzo, Condizioni generali del contratto e

predisposizione normativa, Napoli, 1983; U. Violante, Clausole vessatorie e approvazione

specifica <<a tutto campo>>: chi troppo vuole…, in Corr. giur., 2000, p. 1042 ss.. 497 La standardizzazione dei contratti è la conseguenza della standardizzazione dei beni e servizi, tipico fenomeno della moderna economia di massa. Sul piano strettamente giuridico, la pratica dei “contratti standard” determina una sensibile modifica al tradizionale schema della conclusione del contratto, incentrato sullo scambio proposta/accettazione (secondo

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Tale tipologia di conclusione del contratto, infatti, vede, da un lato, il

“predisponente”, ossia la parte che elabora unilateralmente il contenuto del

contratto (generalmente una impresa o la organizzazione di categoria delle

imprese di un certo settore commerciale), dall’altro, l’“aderente”, ossia la

parte che si limita ad accettare il contenuto unilateralmente predisposto, senza

alcuna possibilità di trattativa o, comunque, di ottenere modifiche al testo

negoziale già confezionato498.

Orbene, la disposizione di cui all’art. 1341, comma 1, c.c., per un verso,

onera il predisponente di rendere conoscibili all’altra parte contrattuale le

clausole, utilizzando un testo comprensibile e rendendolo accessibile; per

l’altro, impone all’aderente di usare l’ordinaria diligenza. Questi, infatti, è

vincolato dalle condizioni generali non soltanto quando le ha conosciute al

momento della conclusione del contratto, ma anche quando, pur di fatto non

conoscendole, avrebbe dovuto conoscerle secondo l’ordinaria diligenza499.

Il legislatore si è, inoltre, preoccupato di approntare specifica tutela

all’aderente nei confronti di determinate condizioni generali, particolarmente

quanto previsto dall’art. 1326 c.c.), sostituito dalle modalità della predisposizione unilaterale del contenuto del contratto e dell’adesione. 498 Al riguardo si parla, per l’appunto, di contratti “per adesione”. 499 Il dovere di conoscenza delle condizioni generali da parte dell’aderente ha, quindi, come parametro, l’ordinaria diligenza, intesa come il grado di sforzo che può richiedersi a un cliente medio del mercato di riferimento. Cfr. V. Roppo, Il contratto, cit., p. 906, secondo cui il dovere di conoscenza “ha un contenuto complesso, perché riguarda: la conoscenza del fatto stesso che esistono condizioni generali del predisponente, riferite al contratto in questione; la loro accessibilità; la loro comprensibilità. In altre parole, le clausole standard non vincolano l’aderente se questi avrebbe dovuto impiegare un particolare sforzo: per scoprire che il predisponente regola i suoi contratti mediante condizioni generali; o, avendolo scoperto, per acquisirne il testo; o, avendone acquisito il testo, per comprenderne il significato”.

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“onerose” per quest’ultimo, in quanto produttive di uno squilibrio tra diritti,

obblighi e facoltà facenti capo alle parti500.

Tali clausole, indicate dal comma 2 dell’art 1341 c.c., devono essere “in

ogni caso … specificamente approvate per iscritto”, a pena di inefficacia501.

Mediante la prescrizione di tale requisito di forma il legislatore intende

sollecitare l’attenzione e la piena consapevolezza dell’aderente, evitando, nel

contempo, che il predisponente approfitti della disattenzione altrui502.

Dalla disamina della disciplina contenuta nell’art. 1341 c.c., si ricava - a

conferma di quanto già osservato in relazione agli istituti della rescissione e

della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta - che il legislatore del

1942 non ha inteso dare alcun rilievo allo squilibrio economico tra le

prestazioni, preoccupandosi, piuttosto, di garantire ed assicurare, anche se

500 Si tratta, precisamente, delle condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria. L’elencazione delle clausole onerose è considerata tassativa e, quindi, insuscettibile di applicazione analogica. 501 Anche in questo caso, come per le clausole vessatorie nei contratti del consumatore, è controversa la qualificazione della sanzione prevista per la mancata approvazione scritta. Secondo la giurisprudenza si tratta di nullità assoluta, invocabile sia dall’aderente che dal predisponente. La dottrina prevalente, invece, ritiene maggiormente rispondente alla ratio della disciplina in esame limitare la legittimazione al solo aderente; pertanto, si parla, in merito, di nullità relativa, di inopponibilità, di inefficacia relativa. 502 Si ritiene che il requisito formale sia rispettato non soltanto in caso di specifica sottoscrizione di ogni clausola vessatoria, ma anche di sottoscrizione di un’apposita dichiarazione che le richiami, riportando di ciascuna il numero d’ordine e il suo contenuto. A tale proposito pare opportuno precisare che il requisito prescritto dal comma 2 dell’art. 1341 c.c. si aggiunge a quello del comma 1, senza eliminarlo. Pertanto, una clausole onerosa, anche approvata per iscritto con le formalità descritte, non vincola l’aderente se da lui non conoscibile con l’ordinaria diligenza (si pensi ad una clausola onerosa dal contenuto incomprensibile per un consumatore medio).

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attraverso una tutela di carattere “formale”, l’equilibrio normativo tra le

posizioni dei contraenti503.

La medesima considerazione può farsi in relazione alla disciplina

contenuta nell’art. 1342 c.c., avente ad oggetto la conclusione del contratto

mediante sottoscrizione di moduli o formulari, predisposti per regolare in

maniera uniforme determinati rapporti contrattuali504.

Tale disposizione prevede che “le clausole aggiunte al modulo o al

formulario prevalgono su quelle del modulo o del formulario qualora siano

incompatibili con esse anche se queste ultime non sono state cancellate”505.

Ebbene, in virtù del disposto del comma 2 di tale articolo, anche per le

clausole onerose inserite in moduli o formulari è richiesta la specifica

approvazione per iscritto, a pena di inefficacia506.

Alla luce di quanto esposto, può affermarsi che se, da un lato, la

disciplina codicistica contempla delle norme specificamente volte a preservare

l’equilibrio soggettivo, mettendo al riparo l’aderente da possibili

503 Tra le clausole indicate dall’art. 1341, comma 2, c.c. e richiamate dal successivo art. 1342, infatti, nessuna si riferisce alla eventuale sproporzione del prezzo. 504 I moduli o formulari sono, in sostanza, testi prestampati che contengono l’intero regolamento di un tipo di contratto. Il testo del contratto concluso mediante moduli o formulari può essere predisposto, in linea di principio, dalle parti del contratto (si pensi ai contratti normativi con cui le parti fissano la disciplina dei futuri contratti che eventualmente stipuleranno tra loro); da una sola parte del contratto (ad esempio, polizze assicurative) ovvero da soggetti diversi dalle parti del contratto, anche se, generalmente, viene predisposto da una sola parte che intende avvalersi di esso ogni qual volta stipulerà questo tipo di contratto. 505 V. F. Festi, Le clausole aggiunte ai moduli o formulari ed interpretazione secondo buona

fede, in Banca, borsa e tit. cred., 1992, p. 300 ss.. 506 A tutte le clausole unilateralmente predisposte, siano esse inserite in condizioni generali di contratto oppure in moduli o formulari, si applica, infine, la regola di cui all’art. 1370 c.c., secondo la quale, in caso di dubbio sul loro significato, si interpretano contro il predisponente e, quindi, nel senso più favorevole all’aderente (interpretatio contra stipulatorem); anche questa norma, pertanto, al pari degli artt. 1341 e 1342 c.c., esprime l’esigenza di tutelare il contraente debole, vale a dire il soggetto che si limita ad aderire al regolamento contrattuale predisposto dalla controparte.

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comportamenti prevaricatori della controparte, dall’altro, tuttavia, non si

spinge al di là della previsione, quale meccanismo di protezione, di un mero

controllo formale sull’attività del contraente forte.

In altre parole, il legislatore del 1942, pur avendo individuato e

tipizzato delle situazioni caratterizzate da una diseguale posizione di partenza

dei contraenti, ha preferito porvi rimedio assicurando la libertà di “adesione”

del contraente debole attraverso un controllo indiretto, piuttosto che introdurre

un controllo sostanziale e diretto sull’equità del contenuto contrattuale.

La scelta si spiega in considerazione di una precisa posizione assunta

dal legislatore medesimo rispetto al rapporto tra autonomia contrattuale e suoi

limiti, consistente nella intenzione di non comprimere la libera esplicazione

dell’autonomia privata, se non in casi di estrema gravità (si pensi alla

rescissione) ovvero mediante controlli indiretti (come nella disciplina dei

contratti per adesione) e che, rispetto al profilo dell’equilibrio contrattuale -

considerato nella duplice prospettiva, economica e giuridica - si traduce nella

decisione di non ingerirsi nel problema dell’equità contrattuale, lasciando che

la stessa sia rimessa, in linea di principio, ai rapporti di forza tra le parti.

A differenza del Codice civile, la più recente normativa, specie quella

emanata in attuazione di direttive comunitarie, contiene numerose disposizioni

in tema di equilibrio contrattuale, prevalentemente inteso in senso giuridico,

segno evidente di una crescente attenzione rivolta dal legislatore nazionale,

sulla scia di quello comunitario, a tale problema.

In proposito vanno segnalati il decreto legislativo 1 settembre 1993, n.

385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), il decreto

legislativo 17 marzo 1995, n. 111 (Attuazione della direttiva n. 90/314/CEE

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concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti “tutto compreso”), la legge 6

febbraio 1996, n. 52, che, in attuazione della direttiva 93/13/CEE (in tema di

condizioni generali di contratto predisposte dal professionista nei confronti dei

consumatori), ha introdotto, nel Titolo II del Libro IV del Codice civile, il

Capo XIVbis, intitolato “Dei contratti del consumatore” (artt. 1469bis e ss.),

la legge 7 marzo 1996, n. 108 recante “Disposizioni in materia di usura”, la

legge 18 giugno 1998, n. 192 sulla “Disciplina della subfornitura nelle attività

produttive”, la legge 30 luglio 1998, n. 281 sulla “Disciplina dei diritti dei

consumatori e degli utenti”, il decreto legislativo 22 maggio 1999, n. 185

(Attuazione della direttiva 97/7/CE relativa alla protezione dei consumatori in

materia di contratti a distanza), il decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231

(Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di

pagamento nelle transazioni commerciali).

Tali interventi normativi, se, da un lato, per la loro frammentarietà e

disorganicità mal si conciliano con il rigore metodologico proprio del Codice

civile, a volte “messo in crisi” da queste nuove discipline, dall’altro, si

presentano coerenti tra di loro ed ispirati ai medesimi valori e principi, tanto

da imporre all’interprete di verificare se, in conseguenza di essi, si sia

originato un nuovo sistema, che potremmo definire “extracodicistico”, basato

su una diversa concezione ed un diverso ruolo dei principi di equità,

equilibrio, buona fede507.

507 V. P. Mengozzi, Lo squilibrio delle posizioni contrattuali nel diritto italiano e nel diritto

comunitario, Padova, 2004, p. 6 ss.; G. De Nova, Contratto: per una voce, in Riv. dir. priv., 4, 2000, p. 633; F. Lapertosa, La giurisprudenza tra passato e futuro dopo l’avvento della nuova

disciplina sulle clausole vessatorie, in Foro it., 1997, V, c. 357; G. Lener, La nuova disciplina

delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, cit., c. 145; L. Mengoni, Problemi di

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A tale riguardo, particolare attenzione merita la disciplina contenuta nel

Capo XIVbis, Titolo II, Libro IV c.c. (artt. 1469bis e ss.), relativa alle clausole

dei contratti conclusi tra professionisti e consumatori che siano

“vessatorie”508.

Quanto all’ambito soggettivo di applicazione della stessa, l’art. 1469bis,

comma 2, c.c. definisce professionista “la persona fisica o giuridica, pubblica

o privata, che, nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale,

utilizza il contratto” predisposto 509 , e consumatore “la persona fisica che

integrazione della disciplina dei <<contratti del consumatore>> nel sistema del codice

civile, in Studi in onore di Pietro Rescigno, III, 2, 1998. 508 Il legislatore italiano, nel recepire la direttiva 93/13/CEE, ha preferito utilizzare il termine “vessatorie” anziché “abusive”, presente, invece, nella medesima direttiva. La legge attuativa si inserisce nell’ambito di una vasta e complessa normativa speciale a tutela del consumatore e trova la propria ratio nell’esigenza di garantire il giusto equilibrio tra le posizioni contrattuali a fronte dei possibili abusi provenienti dalla parte contrattualmente più forte (il professionista); proprio tale finalità consentirebbe di giustificare l’inserimento della disciplina in esame subito dopo gli istituti della rescissione e della risoluzione, che costituiscono anch’essi - seppur entro i limiti e con i presupposti esaminati in precedenza - strumenti volti ad assicurare l’equilibrio contrattuale. Le disposizioni contenute negli artt. 1469bis e ss. c.c. sono state recentemente trasfuse negli artt. da 33 a 37 del d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo), con alcune modifiche. Tra queste va segnalata la qualificazione delle clausole vessatorie, non più in termini di inefficacia (ex art. 1469quinquies c.c.), bensì di nullità, mediante la introduzione di una esplicita ipotesi di nullità di protezione. Infatti, ai sensi dell’art. 36 d. lgs. cit., rubricato “Nullità di protezione”, le clausole considerate vessatorie ai sensi degli artt. 33 e 34 “sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto” (comma 1) e “la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice” (comma 3). Con l’entrata in vigore del d. lgs. n. 206/2005, inoltre, gli artt. da 1469bis a 1469sexies c.c. sono sostituiti dall’art. 1469bis c.c., come riformulato dall’art. 142 d. lgs. n. 206/2005, a norma del quale, le disposizioni contenute nel Titolo II, Libro IV c.c., “si applicano ai contratti del consumatore, ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore”. 509 In relazione al contratto stipulato tra professionista e consumatore, la disciplina de qua era originariamente limitata ai soli contratti aventi ad oggetto “la cessione di beni o la prestazione di servizi”; tale espressione è stata successivamente soppressa dall’art. 25, comma 1, L. n. 526/1999 (legge comunitaria del 1999), con conseguente ampliamento dell’ambito di operatività della disciplina stessa sotto il profilo oggettivo. Quanto al profilo soggettivo, la definizione di professionista è stata trasposta nell’art. 3 del d. lgs. n. 206/2005, in base al quale con la stessa si intende “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, ovvero un suo intermediario”.

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agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale

eventualmente svolta”510.

Secondo il disposto dell’art. 1469bis, comma 1, c.c.511, “si considerano

vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del

consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal

contratto”512.

Dalla formulazione della norma, si ricava innanzitutto che lo squilibrio

rilevante ai fini della disciplina in esame è quello giuridico (dei diritti e degli

obblighi, appunto), e non economico, fra i contraenti, come confermato dal

successivo art. 1469ter, comma 2, in virtù del quale “la valutazione del

carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto

del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché

tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile”513.

510 V. P. Mengozzi, op. cit., p. 35 ss. 511 Ora art. 33 d. lgs. n. 206/2005. 512 Sulla disciplina delle clausole vessatorie nei contratti del consumatore, v. P. Mengozzi, op.

cit.; G. Alpa, I contratti dei consumatori, in Giur. Alpa-Bessone. Aggiornamento, I, Torino, 1999; G. Alpa-S. Patti (a cura di), Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, Milano, 1997; V. Roppo, La nuova disciplina delle clausole vessatorie: spunti critici, in Europa e diritto privato, 1998, p. 65 ss.; A. Barenghi (a cura di), La nuova disciplina delle

clausole vessatorie nel codice civile, Napoli, 1996; C. M. Bianca-F. D. Busnelli (a cura di), Commentario al Capo XIV-bis del codice civile: dei contratti del consumatore, in Le nuove

leggi civili commentate, 1997; N. Lipari (a cura di), Diritto privato europeo, Padova, 1997; E. Cesaro (a cura di), Clausole vessatorie e contratto del consumatore, Padova, 1996; G. Cian, Il nuovo Capo XIV-bis (Titolo II, Libro IV) del codice civile sulla disciplina dei contratti con i

consumatori, in Studium iuris, 1996; G. De Nova, Le clausole vessatorie, Milano, 1996; Id., La novella sulle clausole vessatorie e la revisione dei contratti standard, in Riv. dir. priv., 2, 1996, p. 221 ss.; G. Lener, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei

consumatori, cit., c. 146 ss.; R. Pardolesi, Clausole abusive, pardon vessatorie: verso

l’attuazione di una direttiva abusata, in Riv. crit. dir. priv., 1995, p. 523 ss.; V. Roppo, La

definizione di clausola <<vessatoria>> nei contratti dei consumatori, in I contratti, 2000, p. 83 ss.. 513 Osserva L. Mengoni, Problemi di integrazione della disciplina dei <<contratti del

consumatore>> nel sistema del codice civile, cit., p. 546: “Lo scrutinio di equità dei contratti stipulati con i consumatori è circoscritto ai diritti e agli obblighi concernenti l’esecuzione del

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In secondo luogo, detto squilibrio dev’essere significativo, e cioè deve

consistere in una notevole e sostanziale asimmetria dei diritti e degli obblighi

facenti capo alle parti514.

Inoltre, l’art. 1469bis c.c. dà rilevanza alla buona fede oggettiva, nel

senso che la clausola si considera vessatoria soltanto se il professionista,

nell’imporre il “significativo squilibrio” al consumatore, abbia violato il

canone della buona fede.

Invero, l’inciso “malgrado la buona fede” contenuto nell’art. 1469bis

c.c. ha suscitato non poche difficoltà di natura interpretativa; esso, infatti, può

essere inteso in varie accezioni515.

contratto, mentre resta fermo il principio che, nei limiti della disciplina generale dei contratti, l’equità dello scambio è garantita dal libero consenso delle parti nel quadro degli equilibri complessivi del mercato determinati dalla concorrenza”. Del medesimo avviso è F. Bochicchio, La nuova disciplina dei contratti con i consumatori. Dal controllo formale al

controllo sostanziale: effettività e limiti, in Economia dir. terz., 1997, p. 125 ss., il quale ritiene che, nella specie, si tratti “non di mancanza di proporzione od anche mancanza di adeguatezza di proporzione tra le due prestazioni, proporzione che è, in modo assoluto, al di fuori della valutazione dell’ordinamento, ma di mancanza di giustificazione all’introduzione di elementi unilaterali, vale a dire a favore del solo professionista, mancanza di giustificazione a sua volta rapportata alla concreta funzione contrattuale”. Secondo V. Roppo, Il contratto, cit., p. 387, “anche il divieto di uno squilibrio <<normativo>> … indica che il legislatore non è indifferente al modo in cui si assesta, fra le parti, la complessiva bilancia fra prestazioni e controprestazioni”. 514 Su tale requisito, v. V. Rizzo, Il significativo squilibrio dell’art. 1469 bis c.c., in Rass. dir.

civ., 3, 1996, p. 517 ss.. Secondo V. Roppo, Il contratto, cit., p. 913, “la clausola crea <<squilibrio>> quando modifica, a danno del consumatore, le reciproche posizioni

contrattuali delle parti come definite dal diritto dispositivo (parametro del livello ideale di <<equilibrio>> delle posizioni stesse). Non basta però un qualunque squilibrio, ma occorre uno squilibrio <<significativo>>: misura difficilmente definibile in astratto, da rimettere caso per caso alla prudente discrezionalità del giudicante. 515 Cfr. V. Rizzo, Il significativo squilibrio <<malgrado>> la buona fede nei contratti dei

consumatori, in Giur. Alpa-Bessone. Aggiornamento, I, Torino, 1999, p. 527 ss.; cfr. anche V. Roppo, La recezione della disciplina europea delle clausole abusive (<<vessatorie>>) nei

contratti tra professionisti e consumatori, in Diritto privato, 1996, II, p. 99 ss. Al riguardo, occorre considerare che il legislatore ha riprodotto tale espressione nel testo dell’art. 33 d. lgs. n. 206/2005, lasciando, così, irrisolti i dubbi interpretativi dalla stessa generati. Sul punto, v. G. De Cristofaro, Il <<Codice del consumo>>: un’occasione perduta?, in Studium iuris, n. 10/2005, p. 1137 ss.

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Secondo una prima interpretazione, tale inciso andrebbe interpretato nel

senso di “nonostante la buona fede”, con la conseguenza che la clausola

andrebbe qualificata vessatoria in considerazione del suo solo contenuto, a

prescindere, o, meglio, benché il professionista, nello svolgimento delle

trattative precontrattuali, abbia rispettato il canone di buona fede nei confronti

del consumatore; in altre parole, si verrebbe ad determinare un’automatica

equazione squilibrio giuridico = violazione della buona fede.

Secondo un altro orientamento, la espressione “malgrado la buona fede”

andrebbe intesa in senso diverso, e cioè “in contrasto con la buona fede”, con

la conseguente necessità di verificare di volta in volta, ai fini

dell’accertamento della vessatorietà della clausola, la contrarietà a buona fede

della condotta tenuta dal professionista nella fase precontrattuale. Pertanto, la

violazione del principio di buona fede non sussisterebbe in re ipsa, e, cioè,

nello stesso carattere sperequato della pattuizione, ma costituirebbe un

elemento ulteriore, posto in relazione di causa ad effetto rispetto allo

squilibrio medesimo.

Ciò posto, appare evidente che l’adesione all’una piuttosto che all’altra

delle prospettate soluzioni ermeneutiche - entrambe pienamente compatibili

con il dato letterale della norma in esame - produce delle rilevanti ricadute in

punto di giudizio sulla vessatorietà della clausola.

Infatti, alla stregua del primo orientamento, lo squilibrio giuridico

rileverebbe in sé e per sé, indipendentemente da un concreto comportamento

del professionista contrario al principio di buona fede, con la conseguenza che

il semplice contenuto sperequato della clausola implicherebbe la violazione

del precetto di buona fede, e, quindi, la inefficacia della clausola stessa.

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Il secondo orientamento, invece, impone all’operatore del diritto e, in

principal modo al giudice, in presenza di una clausola inserita in un contratto

concluso tra professionista e consumatore che determini un “significativo

squilibrio di diritti ed obblighi” tra le parti, la esigenza di appurare se il

contenuto vessatorio della clausola sia effettivamente il frutto di una condotta

scorretta e sleale del professionista ai danni del consumatore516.

Invero, per superare le difficoltà interpretative poste dall’inciso

contenuto nell’art. 1469bis c.c., occorre leggere tale previsione normativa alla

luce dell’intera disciplina racchiusa nel Capo XIVbis, nell’ambito della quale

è possibile individuare tre diversi stadi di tutela dell’equilibrio giuridico del

contratto tra professionista e consumatore517.

Il primo di essi è rinvenibile nel comma 3 dell’art. 1469bis c.c. (ora

comma 2 dell’art. 33 d. lgs. n. 206/2005), che contiene una elencazione di

clausole che “si presumono vessatorie fino a prova contraria”518.

516 A tale proposito occorre evidenziare che l’art. 1469quinquies, comma 3, c.c. stabilisce che l’inefficacia della clausola vessatoria “opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”. Sull’argomento v. A. Palmieri, Il controllo giudiziario

delle clausole abusive, tra sentieri impervi e (la tentazione di) sortite avventurose, in Foro it., 1999, I, c. 2087 ss.. 517 V. G. Cian, Il nuovo Capo XIV-bis (Titolo II, Libro IV) del codice civile, sulla disciplina

dei contratto con i consumatori, cit., p. 411; G. De Nova, Criteri generali di determinazione

dell’abusività di clausole ed elenco di clausole abusive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 691 ss. 518 Le clausole elencate in tale disposizione possono distinguersi in due gruppi: clausole di sbilanciamento e clausole di sorpresa. Nel primo gruppo, il significativo squilibrio si manifesta come asimmetria delle posizioni sostanziali o processuali delle parti (aggravamento delle responsabilità del consumatore, alleggerimento delle responsabilità del professionista), nel secondo, come soggezione del consumatore, dopo la conclusione del contratto, a situazioni contrattuali imprevedibilmente diverse da quelle che, secondo ragionevolezza, poteva attendersi (formazione o permanenza del vincolo contrattuale, contenuto del regolamento contrattuale, identità di controparte). In ordine a tale classificazione, v. V. Roppo, Il contratto, cit., p. 915.

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In presenza di clausole aventi uno dei contenuti indicati in tale

disposizione, la vessatorietà si presume iuris tantum dalla squilibrio dei diritti

e degli obblighi che esse determinano519.

Incomberà, quindi, al professionista, vincere tale presunzione,

dimostrando che la clausola in questione, benché astrattamente squilibrante, in

concreto non può ritenersi vessatoria, in quanto, ad esempio, è stata oggetto di

trattativa individuale, vale a dire di specifica discussione con il consumatore,

con conseguente possibilità per questi di concorrere a determinarne il

contenuto e, quindi, la portata effettiva, ovvero è bilanciata da altre clausole

del medesimo contratto vantaggiose per il consumatore.

In altre parole, il professionista dovrà, in questi casi, provare l’assenza

di una disparità di potere contrattuale, che precluderebbe la valutazione del

suo comportamento in termini di buona o mala fede.

Per altre clausole, e, precisamente, quelle indicate dall’art.

1469quinquies, comma 2, nn. 1, 2 e 3, c.c., il legislatore ha invece previsto la

inefficacia, benché siano state oggetto di trattativa individuale520.

Tale scelta legislativa, traducendosi in una presunzione di vessatorietà

iuris et de iure, è, evidentemente, ispirata al convincimento che le clausole in

questione, determinando tipicamente uno squilibrio giuridico tra le parti, siano

il frutto, senza dubbio alcuno e, quindi, senza ammissione di prova contraria,

519 G. De Nova, Criteri generali di determinazione dell’abusività di clausole ed elenco di

clausole abusive, cit., p. 695. 520 Riguardo a tali clausole la dottrina parla di “lista nera”, in quanto esse sono qualificate dal legislatore irrimediabilmente vessatorie, senza possibilità di alcuna prova contraria. Da questo punto di vista, l’elenco contenuto nell’art. 1469bis, comma 3, c.c. (ora art. 36, comma 2, d. lgs. n. 206/2005), viene definito, invece, “lista grigia”, attesa la possibilità, da parte del professionista, di dimostrarne la non vessatorietà in concreto.

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di una disparità di forza contrattuale che immancabilmente concretizza una

violazione del dovere di buona fede.

L’utilizzo da parte del legislatore di presunzioni legali - assolute e

relative - in relazione a determinati tipi di clausole, consente di chiarire la

portata ed il significato della regola racchiusa nel comma 1 dell’art. 1469bis

c.c.

Essa rappresenta la regola generale, secondo cui, come già anticipato,

“nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano

vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del

consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal

contratto” e va integrata con l’art. 1469ter c.c., che indica i criteri in base ai

quali accertare la vessatorietà delle clausole.

A questo punto, interpretare l’inciso “malgrado la buona fede”, nel

senso di “nonostante la buona fede”, equivarrebbe ad introdurre una ulteriore

categoria di clausole - peraltro non tipizzate, a differenza di quelle di cui

all’art. 1469quinquies, comma 2, c.c., e la cui determinazione, quindi, sarebbe

rimessa unicamente all’operatore del diritto - considerate vessatorie in

considerazione esclusivamente del loro contenuto, anche qualora si riuscisse a

provare, da parte del professionista, che il loro inserimento non è conseguente

ad un suo comportamento sleale e/o che il loro contenuto è stato concordato

con il consumatore.

Tale risultato, invero, appare eccessivo e difficilmente armonizzabile

con il resto della disciplina, precedentemente esaminata.

Difatti, attesa la previsione già di una categoria - peraltro suscettibile di

ampia applicazione - di clausole considerate vessatorie in ragione del solo loro

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contenuto (art. 1469quinquies, comma 2, c.c.), senza che rilevi, al fine di

scongiurarne la inefficacia, la circostanza che esse siano state oggetto di

trattativa individuale tra professionista e consumatore, non si comprende

perché il legislatore avrebbe dovuto formulare una regola generale di

vessatorietà di tutte le clausole sperequate, fondandola, in via esclusiva, sul

loro contenuto e precludendo, di conseguenza, qualsiasi verifica circa un

concreto “abuso” da parte del professionista della propria posizione di

“contraente forte” ai danni del consumatore.

Alla stregua di tali osservazioni, appare più in linea con l’intera

disciplina contenuta nel Capo XIVbis del Codice civile, intendere

l’espressione “malgrado la buona fede” nel senso di “in contrasto (o in

violazione) della buona fede”, e, conseguentemente, attribuire alla regola

generale espressa dall’art. 1469bis, comma 1, c.c. una diversa portata.

Secondo tale soluzione ermeneutica, la regola appena esposta pone a

carico del consumatore - al fine di ottenere la pronuncia di inefficacia

prevista dall’art. 1469quinquies c.c. - l’onere di provare che la singola

clausola impugnata non sia stata oggetto di trattativa individuale, realizzi un

“significativo squilibrio” e, infine, sia il risultato di un concreto

comportamento scorretto da parte del professionista521.

521 Con specifico riferimento all’onere, in capo al consumatore, di provare la mancata negoziazione della clausola impugnata, pare opportuno precisare che si verifica una inversione dello stesso, a carico del professionista, oltre che in presenza di clausole rientranti nell’elenco di cui all’art. 1469bis c.c., che si presumono vessatorie fino a prova contraria, anche in caso di contratto concluso mediante sottoscrizione di moduli o formulari, predisposti per disciplinare in modo uniforme determinati rapporti contrattuali. In tale ipotesi, a norma dell’art. 1469ter, comma 5, c.c. “incombe sul professionista l’onere di provare che le clausole, o gli elementi di clausola, malgrado siano dal medesimo unilateralmente predisposti, siano stati oggetto di specifica trattativa con il consumatore”.

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In questo modo la clausola di buona fede viene ad assumere una nuova

e più ampia funzione rispetto a quella ad essa tradizionalmente riconosciuta,

ponendosi quale limite all’autonomia privata, operante sin dalla fase di

formazione del contratto, e la cui violazione determina la inefficacia della

clausola dal contenuto fortemente sperequato522.

Così interpretato, l’art. 1469bis c.c. si presenta, oltretutto, in piena

armonia con la disciplina della responsabilità precontrattuale, dettata

specificamente dal legislatore a presidio del leale e corretto svolgimento della

fase che precede la conclusione del contratto523.

A ben considerare, infatti, la disposizione contenuta nel primo comma

dell’art. 1469bis c.c., si riferisce proprio alla fase delle trattative e della

formazione del contratto, fase che trova la propria regolamentazione generale

nell’art. 1337 c.c., che impone alle parti l’obbligo di comportarsi secondo

buona fede524.

522 V. G. Benedetti, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, in Riv. trim. dir. proc.

civ., 1998, p. 17 ss. 523 Tale forma di responsabilità, che consegue alla violazione della libertà negoziale di un soggetto, è diretta a tutelare l’interesse negativo dello stesso a non essere coinvolto in trattative inutili, a non stipulare contratti invalidi o inefficaci, a non subire coartazioni o inganni in ordine ad atti negoziali. Secondo l’orientamento prevalente, essa costituisce un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, in quanto trova il suo fondamento nella violazione di un dovere generale di condotta. Secondo altra parte della dottrina, si tratterebbe di un tertium genus di responsabilità, ulteriore e distinto dalla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. 524 Il principio contenuto nella norma in esame si specifica, innanzitutto, nel dovere, a carico di ciascuna delle parti, di non coinvolgere l’altra in trattative inutili. Infatti, sebbene lo svolgimento delle trattative non comporti alcun obbligo di contrarre, tuttavia è contrario a buona fede suscitare nell’altra parte la ragionevole convinzione sulla conclusione del contratto (si parla, al riguardo, di recesso ingiustificato dalle trattative quale fonte di responsabilità precontrattuale, che si verifica quando una parte recede senza alcuna valida giustificazione dalle trattative che erano state condotte a tal punto da ingenerare nella controparte la ragionevole aspettativa della conclusione del contratto. Ulteriori specificazioni della buona fede nella fase precontrattuale sono il dovere di informare l’altra parte sulle circostanze che possono rendere invalido il contratto, la chiarezza, al fine di evitare qualsiasi fraintendimento

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Tale regola - di cui il successivo articolo 1338 c.c. costituisce una

specificazione, mediante la individuazione di una tipica condotta sleale o

scorretta - che permea di sé non solo la fase dei “primi contatti”, ossia l’inizio

della negoziazione, ma anche la fase, più avanzata, di predisposizione del

futuro regolamento d’interessi, impone di verificare in concreto, di volta in

volta, se le parti abbiano posto in essere comportamenti rispettosi o meno del

principio di buona fede.

Alla stregua di tali considerazioni, non vi è dubbio che la

interpretazione dell’inciso “malgrado la buona fede” nel senso di “in

violazione della buona fede” renda la disposizione di cui all’art. 1469bis,

comma 1, c.c. pienamente compatibile e conforme alla disciplina generale

della fase delle trattative e della formazione del contenuto del contratto,

dettata dall’art. 1337 c.c., con la conseguenza, in entrambe le ipotesi, che la

verifica circa l’osservanza del precetto di buona fede richiede necessariamente

una indagine condotta in concreto, caso per caso, al fine di valutare se il

comportamento tenuto da ciascuna delle parti sia stato leale o meno.

Pertanto, nell’ambito della disciplina dei contratti del consumatore, lo

squilibrio, inteso in senso giuridico (ossia “dei diritti e degli obblighi” tra le

parti), non rileva, almeno in linea di principio, in sé e per sé, ma soltanto ove

sia il frutto di un “abuso” del professionista (contraente forte) ai danni del

consumatore (contraente debole), e cioè, in buona sostanza, qualora il

professionista, in relazione alla singola e concreta fattispecie portata

all’altra parte, compiere tutti gli atti necessari per la validità o efficacia del contratto, non coartare l’altrui volontà negoziale, vale a dire non ingannare l’altra parte al fine di indurla ad un contratto che non avrebbe altrimenti concluso oppure avrebbe stipulato a condizioni diverse ovvero non indurre colposamente l’altra parte in errore.

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all’attenzione del giudice, abbia imposto l’inserimento della clausola

impugnata525.

Tuttavia, occorre considerare che anche le disparità e gli squilibri

giuridici possono avere rilevanti effetti economici, nella misura in cui si

traducano in vantaggi ed oneri per il predisponente o per il consumatore.

A tale proposito è opportuno richiamare l’art. 1469ter c.c. che,

nell’indicare i parametri del giudizio di vessatorietà 526 , esclude che

quest’ultima possa inerire alla determinazione dell’oggetto del contratto o

all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, “purché tali elementi

siano individuati in modo chiaro e comprensibile” (comma 2)527.

525 Sul punto osserva D. Russo, Sull’equità dei contratti, cit., p. 102: “Non rileva lo squilibrio, l’iniquità in sé quando i contraenti sono su di un piano di uguaglianza (di cui è indice legale la negoziazione individuale) o se il contenuto contrattuale, seppur ictu oculi squilibrato, non è ingiustificato alla luce <<della natura del bene o del servizio>>, delle <<circostanze esistenti al momento della sua conclusione>> e delle <<altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende>> (art. 1469-ter): lo squilibrio giuridico è sanzionato solo ove irragionevolmente imposto”. V., altresì, S. Tolone, L’ordine della Legge ed il mercato, cit., p. 194 ss.. 526 L’art. 1469ter c.c., ora trasposto nell’art. 34 d. lgs. n. 206/2005, esprime, nel suo complesso, i criteri, positivi e negativi, da utilizzare nel giudizio di vessatorietà. Criteri “negativi” possono considerarsi la irrilevanza dell’oggetto e dell’adeguatezza del corrispettivo (comma 2); criteri “positivi”, “la natura del bene o del servizio oggetto del contratto”, le “circostanze esistenti al momento della sua conclusione”, le “altre clausole del contratto medesimo o di un altro contratto collegato o da cui dipende” (comma 1). Oltre a tali criteri, la norma de qua fornisce degli elementi impeditivi della vessatorietà. Infatti, non sono considerate vessatorie le clausole che “riproducono disposizioni di legge ovvero che siano riproduttive di disposizioni o attuative di principi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell’Unione europea o l’Unione europea”, né “le clausole o gli elementi di clausola che siano stati oggetto di trattativa individuale” (commi 3 e 4). A questo riguardo, v. L. Valle, Giudizio di vessatorietà e clausole riproduttive di legge, in Contratto e impresa, 2000, p. 753 ss. 527 D. Russo, op. ult. cit., p. 103, osserva che, stante la lettera dell’art. 1469ter, comma 2, c.c. “soltanto l’ambiguità, l’incomprensibilità della determinazione (unilaterale) dà ingresso al giudizio sulla sua vessatorietà: un vizio “formale”, la violazione di quello specifico dovere di buona fede sintetizzato come “dovere di trasparenza”, anziché produrre semplicemente l’inefficacia (rectius: la nullità relativa) della condizione, ne consente il controllo (sostanziale) della equità”. L’A. individua la ratio della norma in esame nella finalità di “preservare il diritto del consumatore all’informazione … strumentale rispetto al libero esercizio … del

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Da tale precisazione discende ragionevolmente che, qualora il

corrispettivo non sia individuato in modo chiaro e comprensibile, anche la

clausola relativa al prezzo potrebbe essere considerata vessatoria e, quindi,

inefficace ovvero - come ritiene parte della dottrina - nulla, ai sensi dell’art.

1469quinquies c.c.528.

potere di scelta tra proposte economiche alternative”. Secondo l’A., quindi, “l’insindacabilità del profilo economico del contratto presuppone l’esistenza di alternative nel mercato. L’art. 1469-ter, 2° comma, dovrebbe allora leggersi: <<La valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile e purché il mercato offra alternative al consumatore>>. Argomentando a

contrario si perviene alla seguente norma: la valutazione del carattere vessatorio della

clausola può attenere alla determinazione dell’oggetto del contratto o all’adeguatezza del

corrispettivo dei beni e servizi se tali elementi non sono individuati in modo chiaro e

comprensibile, o se non sono reperibili sul mercato alternative. L’argumentum a fortiori

consolida il risultato interpretativo raggiunto: se è valutabile la vessatorietà della determinazione del corrispettivo quando il mercato c’è ma è eluso tramite la violazione della buona fede (id est trasparenza), a fortiori quella determinazione è sindacabile allorché il mercato manca affatto”. 528 Ai sensi dell’art. 1469quinquies, comma 1, c.c., le clausole considerate vessatorie ai sensi dei precedenti articoli 1469bis e 1469ter “sono inefficaci mentre il contratto rimane efficace per il resto”. Si tratta, quindi, di una sanzione che comporta la espunzione dal regolamento negoziale della sola clausola “abusiva”; essa, inoltre, opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice (comma 3). Secondo parte della dottrina, il legislatore ha volutamente qualificato la sanzione de qua in termini di inefficacia (parziale e relativa), piuttosto che di nullità, al fine di evitare la operatività dell’art. 1419, comma 1, c.c. e, quindi, il venir meno dell’intero contratto, con evidente pregiudizio per il consumatore, peraltro in pieno contrasto con le specifiche finalità di tutela della normativa. Altra parte della dottrina ritiene che la teoria della inefficacia non trovi alcuna giustificazione di carattere sistematico, e, pertanto, propende per una qualificazione della sanzione prevista dall’art. 1469quinquies c.c. in termini di nullità, atteso che la stessa non presenta i caratteri propri della inefficacia, quanto quelli delle nullità “speciali”, disposte per la protezione di particolari categorie di contraenti. Ciò comporta il riconoscimento a tale forma di invalidità, nell’ambito della disciplina dei contratti del consumatore, di un particolare statuto, differente da quello generale dettato dagli artt. 1418 ss. c.c. e caratterizzato dal carattere “relativo” della nullità, stante la legittimazione a farla valere del solo consumatore. Nell’ambito della disciplina volta a tutelare il consumatore, va da sé che la regola della rilevabilità ex officio

della “inefficacia” della clausola vessatoria deve essere funzionale all’interesse del consumatore stesso. Ne consegue che il giudice può rilevare la inefficacia della clausola vessatoria, anche in assenza di eccezione da parte del consumatore, soltanto qualora su tale clausola si fondi la pretesa del professionista; viceversa non può rilevarla laddove su tale clausola si fondi la domanda del consumatore. Sull’argomento, v. G. Passagnoli, Nullità

speciali, Milano, 1995. Sulla sanzione comminata dall’art. 1469quinquies c.c. alle clausole

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Tuttavia, attesa la essenziale rilevanza della clausola relativa al prezzo,

nell’economia del contratto, la sanzione della inefficacia parziale finisce per

aprire ampi spazi all’intervento del giudice, finalizzato a determinare il prezzo

del bene o del servizio, in sostituzione di quello non chiaro e

incomprensibile529.

Difatti, se a tali ipotesi si ritenesse applicabile il disposto dell’art. 1419,

comma 1, c.c., si finirebbe per privare del tutto il consumatore del bene o del

servizio da lui richiesto, con evidente pregiudizio per questi ed, oltretutto, in

palese contrasto con la espressa volontà del legislatore che ha inteso limitare

le conseguenze della vessatorietà alla singola clausola, senza estenderle

all’intero contratto (art. 1469quinquies, comma 1, c.c.)530.

vessatorie, v. G. Lener, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei

consumatori, cit.; G. Passagnoli, Art. 1469-quinquies comma 1, 3 e 5, in Materiali e commenti

sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 1999, p. 158 ss.; S. Mazzamuto, L’inefficacia delle clausole abusive, in Europa e diritto privato, 1998, p. 45; A. Gentili, L’inefficacia delle clausole abusive, in Riv. dir. civ., 1997, I, p. 403 ss.; F. Alcaro, L’inefficacia delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, in Vita not., 1996, p. 1119 ss.; A. Orestano, L’inefficacia delle clausole vessatorie: <<contratti dei consumatori>>

e condizioni generali, in Riv. critica dir. priv., 1996, p. 501 ss. L’attuale previsione della sanzione della nullità delle clausole vessatorie, comminata dall’art. 36 Codice del consumo, ha recepito le istanze della dottrina propensa a ravvisare, nell’inefficacia di cui all’art. 1469quinquies c.c., la più grave forma di invalidità del contratto. 529 Pare opportuno precisare che l’art. 1469ter, comma 2, c.c. non è l’unica disposizione che si riferisce al prezzo nei contratti del consumatore. Infatti, l’art. 1469bis, comma 3, c.c., individua, tra le clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria, tra le altre, quelle che stabiliscono “che il prezzo dei beni o dei servizi sia determinato al momento della consegna o della prestazione” (n. 12) e che consentono al professionista di “aumentare il prezzo del bene o del servizio senza che il consumatore possa recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato rispetto a quello originariamente convenuto” (n. 13). Tuttavia, a differenza dell’art. 1469ter, comma 2, c.c., tali previsioni sono volte ad impedire la realizzazione di condotte “a sorpresa” da parte del professionista, senza tradursi in un controllo sull’equilibrio economico del contratto. Più precisamente, la prima è diretta ad escludere la possibilità che il prezzo venga determinato in un momento successivo alla stipulazione del contratto; la seconda, a privare il professionista del potere di aumentare indiscriminatamente il corrispettivo. 530 Secondo V. Roppo, Il contratto, cit., p. 918, la regola espressa in base alla quale <<il contratto rimane efficace per il resto>>, mette “fuori gioco” l’art. 1419, comma 1, c.c., a

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Ciò posto, sembrerebbe residuare soltanto la soluzione che attribuisce al

giudice il potere di determinare il prezzo in sostituzione delle parti,

riconducendo il contratto ad equità531.

Analoghe prospettive di intervento del giudice si profilano, inoltre,

qualora venga dichiarata la vessatorietà e, quindi, la inefficacia, della clausola

che stabilisce, in violazione dell’art. 1469bis, comma 3, n. 12) c.c., la

determinazione del prezzo di beni e servizi “al momento della consegna o

della prestazione”, e non trovi applicazione il meccanismo di

eterointegrazione di cui all’art. 1339 c.c.532.

vantaggio del consumatore. Infatti, “eliminata la clausola vessatoria, l’originario equilibrio del contratto è alterato a favore del consumatore e a danno del professionista: questi avrebbe interesse alla totale inefficacia del contratto, che invece gli è preclusa; mantenere in vita il contratto col nuovo equilibrio favorevole al consumatore avvantaggia quest’ultimo”. Secondo D. Russo, Sull’equità dei contratti, cit., p. 94 ss., il fenomeno della nullità parziale <<risulta spiegabile anche come sostituzione automatica di clausole. È vero che gli artt. 1339 e 1419 comma 2° fanno riferimento come materiale di sostituzione a norme imperative, ma tale natura rivestono (ora) anche le norme “dispositive” nei confronti della parte forte cui è appunto vietato l’abuso della posizione di supremazia. Posto che nei casi di rilevante disparità di forza contrattuale l’abuso può realizzarsi solo tramite la deroga ingiustificata alla normativa dispositiva (v. art. 1469-ter comma 3°), appare corretto dedurre che tale diritto permane (liberamente) derogabile solo dalle parti libere di contrarre. Nei casi in cui diviene giuridicamente rilevante la disuguaglianza sostanziale tra le parti la norma dispositiva “cambia natura” per divenire relativamente inderogabile: essa cioè può esser derogata solo a vantaggio della parte debole o se la deroga è conforme a buona fede. E tanto basta per postulare una sostituzione automatica della pattuizione nulla non essendo necessario per l’opinione preferibile che la norma - materiale di sostituzione - abbia una specifica finalità sostitutiva>>. Sul punto v., altresì, S. Monticelli, Dalla inefficacia della clausola alla nullità

del contratto, in Rass. dir. civ., 1997, p. 565. 531 Tale soluzione sembra preferibile a R. Lanzillo, La proporzione, cit., p. 246, “tenuto anche conto di quanto il legislatore ha disposto in casi simili: per esempio, nell’art. 117, 6° e 7° comma T.U. n. 385 del 1993, per il caso di nullità delle clausole relative agli interessi e ad altri prezzi e condizioni. Sembra da escludere, invece” - prosegue l’A. - “che si possano analogicamente applicare i principi di cui agli artt. 1815, 2° comma, cod. civ. e 23, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998 sull’intermediazione finanziaria, per cui l’operatore finanziario perde ogni diritto al corrispettivo, nel caso di violazione delle norme a garanzia della trasparenza e dell’equilibrio fra le prestazioni. Si tratta, infatti, di norme di carattere punitivo, di cui non sembra ammessa l’applicazione analogica”. 532 Diversa sarebbe, invece, la conseguenza nel caso di dichiarazione di inefficacia della clausola che attribuisse al professionista il potere di aumentare il prezzo del bene o del

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A questo punto, risulta interessante notare come la disciplina in esame,

al pari di quella contenuta negli artt. 1341 e 1342 c.c., persegua l’obiettivo

della tutela del contraente debole (rispettivamente, il “consumatore” e

l’“aderente”) attraverso il meccanismo sanzionatorio della “inefficacia” della

clausola “vessatoria” o “onerosa”533.

Tuttavia, la tutela originariamente approntata dal legislatore codicistico

con l’art. 1341 c.c. si presenta poco incisiva, in quanto incentrata su di un

requisito formale e non sostanziale, a differenza di quella introdotta dalla L. n.

52/1996 che esula, invece, da qualsiasi dato formale534.

servizio senza che il consumatore possa recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato rispetto a quello originariamente convenuto (n. 13). Va da sé, infatti, che in questo caso, non si renderebbe necessario alcun intervento da parte del giudice finalizzato a determinare l’ammontare del corrispettivo, in quanto il prezzo resterebbe quello originariamente stabilito dalle parti. 533 Sui rapporti tra le due discipline, v. M. Costanza, Condizioni generali di contratto e

contratti stipulati dai consumatori, in Giust. civ., 1994, II, p. 543; S. Patti, Le condizioni

generali di contratto e i contratti del consumatore, cit.. In proposito, occorre precisare che, in virtù del disposto del succitato art. 36 d. lgs. n. 206/2005, il profilo sanzionatorio non accomuna più la tutela dell’aderente ex artt. 1341 e 1342 c.c. e quella del consumatore. 534 Al riguardo osserva V. Roppo, Il contratto, cit., p. 910 ss.: “È facile che l’aderente, di fronte alla formula che richiama le clausole onerose, firmi meccanicamente senza leggerle e

valutarle. Anche ammesso che le legga, le valuti e le contesti, ben difficilmente ne otterrà la

modifica dal predisponente: se è molto tenace e orgoglioso, potrà rinunciare al contratto e rivolgersi a un altro fornitore; ma è facile che ovunque vada, egli s’imbatta nelle stesse

condizioni standard, di fatto non modificabili. Quella dell’art. 1341 è, in definitiva, una protezione formale e non stanziale: non impedisce che nei contratti predisposti entrino clausole svantaggiose per gli aderenti, parte debole del rapporto. … [La disciplina dei contratti del consumatore] offre una tutela sostanziale, in questo senso: le clausole unilateralmente predisposte che, per il loro contenuto, aggravano in modo notevole la posizione dell’aderente, sono senz’altro non vincolanti per l’aderente stesso, a prescindere da qualsiasi dato formale (siano conosciute o meno, conoscibili o meno, approvate per iscritto o meno) ”. Del medesimo avviso è R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni, cit., p. 79: “In tema di condizioni generali di contratto gli artt. 1341 e 1342 hanno previsto - come unica garanzia contro l’eventuale lesività non solo e non tanto del prezzo, quanto delle clausole predisposte da uno dei contraenti e della complessiva regolamentazione che ne deriva - il solo diritto dell’aderente di essere posto in condizione di venirne a conoscenza (art. 1341 1° comma). L’eventuale esosità del corrispettivo non è neppure menzionata, mentre la protezione contro le clausole eccessivamente onerose è stata affidata ad un adempimento meramente formale (la specifica approvazione scritta di cui all’art. 1341 2° comma). Trattasi di protezione del tutto

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Diverso è, inoltre, l’ambito soggettivo di applicazione: l’art. 1341 c.c. si

applica a qualsiasi contratto standard concluso tra qualsiasi predisponente e

qualsiasi aderente; gli artt. 1469bis e ss. c.c., invece, soltanto ai contratti

conclusi tra un professionista e un consumatore.

Sotto il profilo oggettivo, però, il rapporto tra le due discipline si

inverte. Infatti, l’art. 1341 c.c. riguarda soltanto i contratti standard,

predisposti per regolare in modo uniforme una serie indefinita di rapporti

contrattuali, mentre gli artt. 1469bis e ss. c.c. si applicano anche ai contratti

predisposti per un singolo affare con un solo cliente535.

insufficiente, non avendo l’interessato alcuna possibilità di modificare o di eliminare le clausole particolarmente gravose, com’è ora previsto dalla disciplina dei contratti dei consumatori (art. 1469 bis ss. cod. civ.)”. 535 Da quanto esposto, risulta evidente che la maggior parte dei contratti che ricadono sotto la disciplina del Capo XIVbis del Titolo II, Libro IV c.c. ricadono anche sotto la disciplina di cui all’art. 1341, comma 2, c.c., con la conseguenza che, in mancanza di una specifica norma di coordinamento, all’interprete è affidato il non facile compito di stabilire quale delle due discipline risulti applicabile. In concreto il problema si pone in caso di contratto per adesione di serie in cui il giudice, ai sensi dell’art. 1469ter, accerti l’abusività di una clausola che non sia stata specificamente approvata per iscritto a norma dell’art. 1341, comma 2, c.c. In tali ipotesi concorrono due discipline: l’una ex art. 1341, comma 2, della nullità della clausola che può, altresì, importare la nullità dell’intero contratto laddove, ai sensi dell’art. 1419, comma 1, risulti che le parti la abbiano considerata essenziale; l’altra ex art. 1469quinquies, della inefficacia parziale della clausola che, invece, non comporta mai la nullità dell’intero contratto. La soluzione da preferirsi è quella della prevalenza della disciplina ex art. 1469quinquies perché, lasciando in vita il contratto, protegge più efficacemente l’interesse del consumatore a mantenere il bene di consumo oggetto del contratto.

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CAPITOLO X

ALTRE NORMATIVE A TUTELA DEL CONSUMATORE

La disciplina contenuta negli artt. 1469bis e ss. c.c. si inserisce - come

già anticipato - nel quadro di una vasta produzione normativa volta a tutelare

il consumatore, individuato quale soggetto debole nell’ambito delle moderne

contrattazioni536.

Più precisamente, autorevole dottrina ritiene che la disciplina delle

clausole vessatorie nei contratti del consumatore abbia reso “più generale e

sistematica una tendenza alla protezione contrattuale dei consumatori, già

presente in leggi speciali relative a singoli settori di mercato”537.

Si pensi, ad esempio, al d. lgs. 15 gennaio 1992, n. 50, attuativo della

direttiva n. 85/577/CEE, in materia di contratti negoziati fuori dei locali

536 F. Di Marzio, Ancora sulla nozione di «consumatore» nei contratti (nota a Cass., 25 Luglio 2001, n. 10127), in Giust. civ., 2002, 3, p. ss.688; Id., Intorno alla nozione di «consumatore»

nei contratti (nota a Cass., 11 Gennaio 2001, n. 314), in Giust. civ., 2001, 9, p. 2151 ss.; U. Corea, Ancora in tema di nozione di "consumatore" e contratti a scopi professionali: un

intervento chiarificatore (nota a Tribunale di Roma, 20 Ottobre 1999), in Giust. civ., 2000, p. 2117; Id., Sulla nozione di "consumatore": il problema dei contratti stipulati a scopi

professionali (nota a Corte Giustizia CE, 3 Luglio 1997, n. 269, sez. VI), in Giust. civ., 1999, 1, p. 13 ss.; R. Montanaro, La figura giuridica di consumatore nei contratti di cui al Capo

XIV-Bis Titolo II del Libro IV del Codice civile, in Giust. civ., 1998, p. 219. Sulla nozione di contraente debole, v. V. Roppo, Il contratto, cit., p. 928 ss., il quale ravvisa una restrizione della libertà negoziale ogniqualvolta le parti di un rapporto contrattuale si trovino in posizioni di diseguale forza economico-sociale e, quindi, di diseguale potere contrattuale, che consentono al contraente “forte” di imporre la propria volontà al contraente “debole”, il quale è costretto a subirla. 537 Così V. Roppo, op. ult. cit., p. 921.

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commerciali538, le cui disposizioni sono state recentemente trasfuse nel d. lgs.

6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo)539.

Tale disciplina, infatti, nasce con la specifica finalità di regolare i

contratti fra “operatori economici” 540 e “consumatori” 541 , riguardanti la

fornitura di beni o la prestazione di servizi, in qualunque forma conclusi,

stipulati “fuori dei locali commerciali”542.

538 V. F. Astone, I contratti negoziati fuori dei locali commerciali, in Giur. sist. dir. civ.

comm., fondata da W. Bigiavi, I precedenti, a cura di G. Alpa, II, Torino, 2000, p. 993 ss.; G. De Cristofaro, Contratti a distanza e norme a tutela del consumatore, in Studium iuris, 1999, p. 1189; F. Torriello, La protezione dell’acquirente a distanza, in Corr. giur., 1999, p. 1066 ss.; G. De Marzo, I contratti a distanza, Milano, 1999; M. Crisostomo, Contratti negoziati

fuori dai locali commerciali: l’esordio di una disciplina, in Foro it., 1995, I, c. 2304; M. Gorgoni, Sui contratti negoziati fuori dei locali commerciali alla luce del d. leg. n. 50/1992, in Contratto e Impresa, 1993, p. 152; AA. VV. (a cura di N. Lipari), Attuazione della direttiva

n. 85/577/CEE in materia di contratti negoziati fuori dai locali commerciali, in Le nuove

leggi civ. comm., 1993, p. 176; M. Cartella, La disciplina dei contratti negoziati fuori dei

locali commerciali, in Giur. comm., 1992, I, p. 715 ss. 539 Tale decreto, in attuazione della delega contenuta nell’art. 7 L. n. 229/2003, ha riorganizzato l’intero settore della tutela dei consumatori, abrogando, fra gli altri, anche il d. lgs. n. 50/1992. 540 Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b) d. lgs. cit., deve intendersi per operatore commerciale “la persona fisica o giuridica che, in relazione ai contratti o alle proposte contrattuali disciplinati dal presente decreto, agisce nell’ambito della propria attività commerciale o professionale, nonché la persona che agisce in nome o per conto di un operatore commerciale”. 541 Ossia, “la persona fisica che, in relazione ai contratti o alle proposte contrattuali disciplinati dal presente decreto, agisce per scopi che possono considerarsi estranei alla propria attività professionale” (art. 2, comma 1, lett. a). Al riguardo, Cass., 10 agosto 2004, n. 15475, in Giust. civ. Mass., 2004, f. 7-8, ha precisato che <<ciò che rileva ai fini dell’assunzione della veste di “consumatore” è l’estraneità o meno dello scopo avuto di mira rispetto all’attività professionale dell’agente nel momento in cui questi ha concluso il contratto.; ne consegue che deve escludersi che possa qualificarsi "consumatore" la persona che, in vista di intraprendere un’attività imprenditoriale, cioè per uno scopo professionale, acquista gli strumenti indispensabili per l’esercizio di tale attività>>. In senso conforme, cfr. Cass., 14 aprile 2000, n. 4843, in Giust. civ., 2000, I, p. 2261 e in Foro it., 2000, I,c. 3196, con nota di Granieri. In dottrina, v. M. T. Annecca, Nozione di consumatore e rilevanza dello

scopo nei contratti negoziati fuori dai locali commerciali, in Riv. critica dir. priv., 1998, p. 527 ss. 542 Vale a dire, a norma dell’art. 1, comma 1, (ora art. 45 d. lgs. n. 206/2005): “a) durante la visita dell’operatore commerciale al domicilio del consumatore o di un altro consumatore ovvero sul posto di lavoro del consumatore o nei locali nei quali il consumatore si trovi, anche temporaneamente, per motivi di lavoro, di studio o di cura; b) durante una escursione

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L’attenzione del legislatore viene, quindi, rivolta a talune modalità di

contrattazione, caratterizzate dalla particolare intraprendenza delle imprese, le

quali raggiungono il consumatore nei luoghi in cui si trova (a casa, sul posto

di lavoro, per corrispondenza o mediante offerte televisive543), cogliendolo, il

più delle volte, alla sprovvista ed inducendolo, così, ad una decisione

affrettata o, comunque, non adeguatamente ponderata544.

In relazione a tali contratti545, la tutela del consumatore si sostanzia

nell’attribuzione del diritto di recesso546, della cui esistenza il consumatore

stesso dev’essere adeguatamente informato547.

organizzata dall’operatore commerciale al di fuori dei propri locali commerciali; c) in area pubblica o aperta al pubblico, mediante la sottoscrizione di una nota d’ordine, comunque denominata; d) per corrispondenza o, comunque, in base ad un catalogo che il consumatore ha avuto modo di consultare senza la presenza dell’operatore commerciale”. 543 Al riguardo, Cass., 14 gennaio 2000, n. 372, in Studium iuris, 2001, p. 81, ha precisato che <<qualora i “motivi di lavoro, di studio o di cura”, per i quali il consumatore si trova nel locale in cui conclude il contratto con l’operatore commerciale, non si riferiscano alla sua persona, ma riguardino soggetti diversi, non è integrata la fattispecie contemplata dall’art. 1 lett. a) d.lg. n. 50 del 1992, il quale pertanto non trova applicazione>>. 544 Ai sensi dell’abrogato art. 9, comma 1, le disposizioni contenute nel d. lgs. n. 50/1992 si applicavano anche alle forme di vendita definite “speciali”, realizzate “sulla base di offerte effettuate al pubblico tramite il mezzo televisivo o altri mezzi audiovisivi, e finalizzate ad una diretta stipulazione del contratto stesso, nonché ai contratti conclusi mediante l’uso di strumenti informatici e telematici”. Su tali particolari forme di vendita, v. C. Rossello, Contratti conclusi via Internet: i profili giuridici, con particolare riguardo alla direttiva sui

contratti a distanza con i consumatori e alla tutela dei dati personali, in Econ. dir. terziario, 1998, p. 369 ss.; G. Grisi, La frontiera telematica della contrattazione a distanza, in Europa e

dir. priv., 1998, p. 875 ss. 545 Sono esclusi dall’ambito di operatività della disciplina in esame i contratti indicati dall’art. 46 d. lgs. n. 206/2005, i quali, per il loro tenute valore economico o per l’oggetto, non fanno sorgere particolari esigenze di tutela. 546 Originariamente previsto dall’art. 4 d. lgs. n. 50/1992 ed attualmente disciplinato dagli artt. da 64 a 67 del Codice del consumo. 547 L’art. 47 d. lgs. n. 206/2005, nel dettare la disciplina specifica dell’informazione sul diritto di recesso, prescrive che questa venga fornita per iscritto e contenga: “a) l'indicazione dei termini, delle modalità e delle eventuali condizioni per l'esercizio del diritto di recesso; b) l'indicazione del soggetto nei cui riguardi va esercitato il diritto di recesso ed il suo indirizzo o, se si tratti di società o altra persona giuridica, la denominazione e la sede della stessa, nonché l'indicazione del soggetto al quale deve essere restituito il prodotto eventualmente già consegnato, se diverso”. Nell’ipotesi in cui il contratto preveda che l’esercizio del diritto di

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Il diritto di recesso consente, in sostanza, al consumatore di “pentirsi”,

sciogliendosi unilateralmente dal vincolo contrattuale, in tal modo liberandosi

dall’obbligo di pagare il prezzo ovvero recuperando quanto già pagato, con

conseguente restituzione del bene o rinuncia al servizio (artt. 66 e 67 d. lgs. n.

206/2005)548.

Infine, l’art. 10 d. lgs. n. 50/1992 - attualmente rientrante nella più

ampia previsione di cui all’art. 143 d. lgs. n. 206/2005 - sanciva la

irrinunciabilità del diritto di recesso549 , comminando la nullità di tutte le

pattuizioni in contrasto con le disposizioni del decreto550.

recesso non sia soggetto ad alcun termine o modalità, la norma in esame stabilisce che l’informazione contenga, comunque, gli elementi indicati nella lettera b). Secondo Cass., 3 ottobre 2003, n. 14762, in Vita not., 2004, p. 307, la clausola relativa al diritto di recesso del consumatore deve ottemperare (sia pur nel contesto delle altre clausole negoziali) a due precisi requisiti di forma, <<il primo relativo all’autonomia della clausola "de qua", che deve restare separata dalle altre onde rendere chiara, immediata e trasparente l’informazione (sicché deve ritenersi inammissibile il suo inserimento in un contesto uniforme di clausole di apparentemente pari rilevanza, inserite secondo una sequenza numerata), il secondo attenente alla evidenza grafica dell’informazione, che deve avere caratteri di scrittura eguali o superiori a quelli degli altri elementi indicati nel documento>>. Sull’obbligo di informazione, v. D. Valentino, Obblighi di informazione e vendite a distanza, in Rass. dir. civ., 1998, p. 377 ss. 548 V. N. Scannicchio, Vendite fuori dell’impresa, diritto di recesso ed effetti delle direttive

comunitarie nei rapporti tra privati, in Giur. it., 1996, I, 1, p. 99 ss.; G. Santosuosso, Il diritto

di ripensamento nei contratti negoziati fuori dai locali commerciali dell’imprenditore, in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, p. 130. 549 È interessante notare come l’art. 45, comma 2, d. lgs. n. 206/2005 - nell’evidente intento di garantire un’ampia tutela al consumatore - consenta il recesso, oltre che dai contratti, anche dalle proposte contrattuali, sia vincolanti che non vincolanti, effettuate dal consumatore in relazione alla fornitura di beni o alla prestazione di servizi e per le quali non sia ancora intervenuta l'accettazione del professionista. Tuttavia, il risultato ottenuto dal legislatore è eccessivo rispetto alle finalità di tutela, in quanto finisce per aggravare la posizione del consumatore, imponendo - in relazione ai contratti rientranti nell’ambito applicativo del decreto - il rispetto di termini e condizioni non contemplate dal diritto comune per il recesso dalle proposte contrattuali. 550 Il citato articolo 143, infatti, qualifica come irrinunciabili tutti i diritti attribuiti al consumatore dal codice, sanzionando con la nullità ogni pattuizione con questo contrastante. Inoltre, qualora le parti scegliessero di applicare al contratto una legislazione diversa da quella italiana, al consumatore sarebbero comunque riconosciute le condizioni minime di tutela previste dal codice.

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Finalità di tutela del consumatore erano sottese anche al d. lgs. 17

marzo 1995, n. 111, dettato, in attuazione della direttiva n. 90/314/CEE, nello

specifico settore dei viaggi, vacanze e circuiti “tutto compreso” 551.

Tale disciplina - confluita anch’essa nel d. lgs. n. 206/2005 - si applica

ai “pacchetti turistici” venduti od offerti in vendita nel territorio nazionale

dall’organizzatore o dal venditore552.

Parti del rapporto contrattuale sono l’organizzatore di viaggio553 o il

venditore554, da un lato, il consumatore, dall’altro555.

551 L. Pierallini, I pacchetti turistici, Milano, 1998; G. Iudica, La disciplina delle clausole abusive nel contratto di viaggio, in Resp. comunicazione imprese, 1997, p. 63 ss.; G. Silingardi-F. Morandi, La <<vendita di pacchetti turistici>>, Torino, 1996; G. Giacchero, Contratto di viaggio: obblighi e responsabilità nell’intermediazione e nell’organizzazione (nota a Pretura di Genova, 13 Luglio 1994), in Giur. merito, 1995, 3, p. 463 ss.; V. Roppo, Contratti turistici e clausole vessatorie, in Foro it., 1992, I, c. 1571 ss. 552 L’attuale disciplina, contenuta negli artt. 82 e ss. del Codice del consumo, presenta un ambito di operatività più ampio rispetto a quella previgente, sia perché, nelle definizioni di “organizzatore di viaggio” e di “venditore” è scomparso il riferimento all’autorizzazione richiesta dall’art. 9 L. n. 217/1983, sia perché essa si applica anche ai pacchetti turistici negoziati al di fuori dai locali commerciali e a distanza, ferme restando le disposizioni relative al diritto di recesso (art. 82, comma 2, d. lgs. n. 206/2005). Ai sensi dell’art. 84 d. lgs. n. 206/2005, <<i pacchetti turistici hanno ad oggetto i viaggi, le vacanze ed i circuiti “tutto compreso”, risultanti dalla prefissata combinazione di almeno due degli elementi di seguito indicati, venduti od offerti in vendita ad un prezzo forfettario, e di durata superiore alle ventiquattro ore ovvero estendentisi per un periodo di tempo comprendente almeno una notte: a) trasporto; b) alloggio; c) servizi turistici non accessori al trasporto o all’alloggio di cui all’art. 7, lettere i) e m) , che costituiscano parte significativa del pacchetto turistico>>. 553 Per organizzatore di viaggio deve intendersi il soggetto che realizza la combinazione degli elementi di cui al su riportato art. 84 e si obbliga, in nome proprio e verso corrispettivo forfettario, a procurare a terzi pacchetti turistici (art. 83). 554 Il venditore, di cui l’organizzatore di viaggio può avvalersi per la vendita di pacchetti turistici, è il soggetto che vende, o si obbliga a procurare pacchetti turistici realizzati ai sensi dell'articolo 84 verso un corrispettivo forfettario. 555 Inteso, ai sensi del citato art. 83, quale “l’acquirente, il cessionario di un pacchetto turistico o qualunque persona anche da nominare, purché soddisfi a tutte le condizioni richieste per la fruizione del servizio, per conto della quale il contraente principale si impegna ad acquistare senza remunerazione un pacchetto turistico”.

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L’art. 85 d. lgs. n. 206/2005 (ex art. 6 d. lgs. n. 111/1995) prescrive che

il contratto di vendita di pacchetti turistici venga redatto per iscritto, in termini

chiari e precisi, e che ne venga rilasciata copia al consumatore556.

In dottrina si discute se la mancanza della forma scritta comporti la

nullità totale ad assoluta del contratto, ovvero una nullità parziale e a

legittimazione riservata557.

Con particolare riferimento al profilo economico, il Codice del

consumo (come già il d. lgs. n. 111/95) lascia all’operatore turistico la libertà

di determinare il prezzo, limitandone, tuttavia, il potere di revisione in

aumento ai soli casi in cui esso sia espressamente pattuito ed in relazione alla

variazione di determinati elementi di costo (art. 90, comma 1).

Inoltre, la revisione al rialzo non può superare il 10% del prezzo ed, in

ogni caso, non è ammessa negli ultimi venti giorni prima della partenza (art.

90, commi 2 e 4).

556 Nell’ottica della trasparenza del rapporto, l’art. 86 elenca gli elementi che devono essere contenuti nel contratto di viaggio e l’art. 87 indica le informazioni che l’organizzatore ed il venditore devono fornire per iscritto al consumatore, alcune delle quali “nel corso delle trattative e, comunque, prima della conclusione del contratto”, altre, invece “prima dell’inizio del viaggio”. Tale articolo, infine, pone il divieto di fornire informazioni ingannevoli sulle modalità del servizio offerto, sul prezzo e sugli altri elementi del contratto qualunque sia il mezzo mediante il quale dette informazioni vengono comunicate al consumatore. Sul principio di trasparenza nei recenti interventi legislativi, v. G. D’Allura, Brevi note in tema di

comportamento concludente, in Giust. civ., 2003, 1, p. 3 ss. L’A. evidenzia come la recente legislazione speciale si caratterizzi “per una estesa formalizzazione (in senso ampio) delle fonti del rapporto, ove siano in gioco interessi di gruppi (di cui l’autore dell’atto - consumatore, utente, conduttore, ecc. - è parte) meritevoli di particolare tutela. Incontestabilità e trasparenza sono assicurate con prescrizioni che riguardano o la manifestazione, o la forma dell’atto, o entrambe”. 557 Tale seconda soluzione viene preferita da F. Caringella, op. ult. cit., p. 2365, in quanto maggiormente idonea a garantire la specifica tutela del consumatore.

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In caso di variazioni superiori, il consumatore, tuttavia, può recedere

dal contratto di viaggio (comma 3), senza la previsione di alcun diritto a

ricevere la prestazione al prezzo iniziale o a condizioni eque558.

Nell’ambito delle normative settoriali di protezione del consumatore,

anteriori alla disciplina di cui agli artt. 1469bis e ss. c.c., può, infine, citarsi

l’art. 125, comma 2, del d. lgs. n. 385/1993 (Testo Unico in materia bancaria e

creditizia), che attribuisce al consumatore che receda da un contratto di

credito al consumo, mediante adempimento anticipato, il diritto ad un’equa

riduzione del costo complessivo del credito559.

La continua evoluzione delle modalità di contrattazione - oramai

lontane dal tradizionale schema rappresentato dallo scambio

proposta/accettazione delineato dall’art. 1326 c.c. e fondato sulla uguaglianza

di potere contrattuale fra le parti560 - ha fatto sì che le istanze di tutela del

consumatore si manifestassero anche nella legislazione della seconda metà

degli anni Novanta561, fino a trovare un’organica ed unitaria espressione nello

558 Cfr. R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni contrattuali, cit., p. 248 ss. 559 Ai sensi della norma in parola, le facoltà di adempiere in via anticipata o di recedere dal contratto senza penalità spettano unicamente al consumatore senza possibilità di patto contrario. V. M. Gorgoni, Recesso e disciplina del credito al consumo: tutela rafforzata del

contraente <<extra moenia>>, in I contratti, 1999, p. 836 ss. Sul d. lgs. n. 385/1993, v. E. Minervini, Trasparenza ed equilibrio delle condizioni contrattuali nel Testo unico bancario,

in Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia privata, a cura di L. Ferroni, Napoli, 2002, p. 17 ss.; AA. VV. (a cura di A. Ambrosio e A. Cavallo), I contratti bancari, Milano, 1999; P. Sirena, I contratti bancari di credito al consumo, in Le nuove leggi civili comm., 1997, p. 1110. 560 In tal senso sembra deporre la disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 1326 c.c., secondo la quale “un’accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta”. Essa, infatti, ammettendo l’ipotesi che l’oblato possa, a sua volta, formulare una controproposta, presuppone che entrambi i contraenti dispongano di poteri contrattuali simmetrici ed assumano le proprie determinazioni su di un piano di perfetta parità. 561 A tale proposito possono richiamarsi il d. lgs. n. 58/1998 (testo unico in materia di intermediazione finanziaria), che prevede un regime di nullità a legittimazione riservata a vantaggio del cliente, in caso di violazione dei diritti a questo riconosciuti; il d. lgs. n.

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Statuto dei diritti dei consumatori e degli utenti (legge 30 luglio 1998, n. 281)

e, recentemente, nel Codice del consumo (decreto legislativo 6 settembre

2005, n. 206)562.

L’obiettivo perseguito dal legislatore attraverso l’elaborazione di tale

codice, infatti, consiste nella riorganizzazione sistematica delle numerose

leggi a tutela del consumatore succedutesi nell’ultimo ventennio, al fine di

coordinarle in una compilazione unitaria, eliminando “le incoerenze e le

sovrapposizioni tra le diverse regole derivanti da distinte direttive

comunitarie”563.

Di particolare rilievo è l’art. 2, comma 2, del d. lgs. n. 206/2005, il

quale, riproducendo la previsione contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. e) della

L. n. 281/1998, include espressamente fra i diritti fondamentali dei

consumatori il diritto “alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei

427/1998 sulla multiproprietà, che attribuiva all’acquirente il diritto, irrinunciabile, di recedere dal contratto (art. 5) e comminava la nullità delle clausole contrattuali o dei patti aggiunti di rinuncia dell’acquirente ai diritti in esso previsti, o di limitazione delle responsabilità poste a carico del venditore (art. 9); il d. lgs. n. 185/1999, relativo alla protezione dei consumatori nei contratti a distanza, che prevedeva il diritto di recesso da parte del consumatore, nonché obblighi informativi a carico del venditore; il d. lgs. n. 24/2002, che, introducendo la disciplina della vendita dei beni di consumo nel Codice civile (artt. 1159 bis ss.) ha previsto una serie di garanzie nella vendita dei beni mobili, nonché la nullità dei patti di rinuncia ai diritti conferiti al consumatore. Invero, le disposizioni contenute nelle citate normative - espressamente abrogate, al pari del d. lgs. n. 50/1992 e n. 111/1995, dal d. lgs. n. 206/2005 - trovano tuttora applicazione nella misura in cui risultano trasposte nel Codice del consumo. 562 L’introduzione di un’apposita normativa di riassetto delle numerose disposizioni vigenti in materia di tutela del consumatore, conferisce a quest’ultima uno spiccato carattere di autonomia rispetto al tradizionale assetto codicistico. Per una prima riflessione sul d. lgs. n. 206/2005, v. G. De Cristofaro, Il <<Codice del consumo>>: un’occasione perduta?, cit., p. 1137 ss. 563 Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 206/2005, par. 1. L’operazione di riordino, come si è già avuto modo di esporre, ha comportato l’abrogazione delle precedenti normative in tema di tutela del consumatore (quali, ad esempio, il d. lgs. n. 50/1992, il d. lgs. n. 11/1995, il d. lgs. n. 185/1999, nonché la stessa L. n. 281/1998), il cui contenuto è stato sostanzialmente riprodotto nelle disposizioni del Codice medesimo.

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rapporti contrattuali”, peraltro, irrinunciabile, al pari di ogni altro diritto

attribuito ai consumatori (art. 143, comma 1)564.

In tale prospettiva ed allo specifico fine di “migliorare l’informazione

del consumatore e di agevolare il raffronto dei prezzi”, l’art. 14, inserito nel

titolo relativo alle “Informazioni ai consumatori”, impone l’indicazione sui

prodotti offerti dai commercianti ai consumatori sia del prezzo di vendita che

del prezzo per unità di misura565.

In caso di inosservanza di tali prescrizioni - come di tutte le altre

contenute nel codice - i consumatori possono agire in giudizio, ai sensi

dell’art. 140, sia collettivamente, mediante le associazioni rappresentative, sia

individualmente, al fine di inibire gli atti ed i comportamenti lesivi e di

ottenere le misure idonee a correggere o ad eliminare gli effetti delle

violazioni medesime.

Difatti, il comma 9 del citato articolo, prevede espressamente che le

azioni collettive “non precludono il diritto ad azioni individuali dei

consumatori” che siano danneggiati dalla violazione delle norme contenute

nel decreto, fatte salve le norme sulla litispendenza, sulla continenza, sulla

connessione e sulla riunione dei procedimenti.

Alla luce delle richiamate norme, può affermarsi che i consumatori

sono legittimati a reagire, in caso di inosservanza dell’obbligo di trasparenza,

564 Il citato articolo 143 sancisce, altresì, la nullità di ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del codice. 565 Ai sensi dell’art. 13, per “prezzo di vendita” s’intende il prezzo finale, valido per una unità di prodotto o per una determinata quantità del prodotto, comprensivo dell'IVA e di ogni altra imposta; per “prezzo per unità di misura”, il prezzo finale, comprensivo dell'IVA e di ogni altra imposta, valido per una quantità di un chilogrammo, di un litro, di un metro, di un metro quadrato o di un metro cubo del prodotto o per una singola unità di quantità diversa, se essa è impiegata generalmente e abitualmente per la commercializzazione di prodotti specifici.

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contro i prezzi non equi ovvero contro le condizioni contrattuali inique,

chiedendo al giudice l’adozione dei provvedimenti ritenuti più adeguati566.

Da ciò discende che, nell’ambito della più recente normativa

consumeristica, in luogo dello stato di bisogno o di pericolo, di cui alle

tradizionali disposizioni in tema di rescissione, si va sostituendo come

circostanza rilevante al fine di consentire l’impugnazione dei contratti iniqui,

lo status di consumatore del contraente danneggiato, ove la controparte sia un

imprenditore567.

566 Cfr. R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni, cit., p. 248 ss., secondo cui si va delineando “un sistema in cui i consumatori - in ragione della loro posizione di svantaggio, nelle contrattazioni con le imprese - hanno normalmente la possibilità di impugnare i prezzi non equi, solo per effetto della violazione degli obblighi di trasparenza e di buona fede, a prescindere da ulteriori comportamenti abusivi o profittatori del professionista”. 567 Così R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni, cit., p. 249. V., altresì, F. Di Marzio, Ancora sulla nozione di «consumatore» nei contratti, cit., p. 688 ss.; Id., Intorno alla nozione

di «consumatore» nei contratti, cit., p. 2151 ss.

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CAPITOLO XI

LA TUTELA DELL’IMPRENDITORE DEBOLE. LA LEGGE 18 GIUGNO

1998, N. 192 E IL D. LGS. 9 OTTOBRE 2002, N. 231

A partire dalla fine degli anni Novanta si è avvertita, a livello sia

nazionale che comunitario, l’esigenza di salvaguardare, nei rapporti con

l’imprenditore, non soltanto il consumatore, col quale veniva tradizionalmente

identificato il contraente debole nell’ambito delle moderne contrattazioni, ma

anche l’imprenditore debole nei confronti di altri operatori del mercato dotati

di maggiore potere contrattuale.

Queste nuove esigenze, finalizzate ad impedire abusi di potere di

mercato nei rapporti fra imprese, hanno trovato una prima espressione nella

legge n. 192/1998 sulla subfornitura nelle attività produttive568.

Destinatario di tale disciplina è il subfornitore, ossia l’imprenditore che,

mediante contratto, “si impegna a effettuare per conto di una impresa

committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti

dalla committente medesima, o si impegna a fornire all’impresa prodotti o

568 Sul contratto di subfornitura, v. A. La Spina, La nullità relativa degli accordi in materia di

ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Rass. dir. civ., 2003, p. 117 ss.; F. Delfini, Dipendenza tecnologica del subfornitore e legge n. 192/1998, in I Contratti, 2000, p. 616; A. Mariani, Note in tema di subfornitura nelle attività produttive, in Nuova giur. civ.

comm., 2000, II, p. 109 ss.; R. Leccese, Subfornitura industriale tra nuove leggi e pronunce

nuove (e meno nuove), in Giur. sist. dir. civ. comm., fondata da W. Bigiavi, I precedenti, a cura di G. Alpa, II, Torino, 2000; Id., Il contratto di subfornitura, in Giur. Alpa-Bessone.

Aggiornamento, I, Torino, 1999, p. 889; A. Luminoso, La nuova disciplina dei contratti di

subfornitura, in Riv. giur. sarda, 1999, p. 599 ss.; AA. VV. (a cura di G. Alpa e A. Clarizia), La subfornitura, Milano, 1999; G. Cresci-F. Falco, I contratti di subfornitura (L. 18.6.1998 n.

192: Disciplina delle subforniture nelle attività produttive), in Materiali e commenti sul nuovo

diritto dei contratti, Padova, 1998; AA. VV. (a cura di G. De Nova e A. Chiesa), La

subfornitura, Milano, 1998; F. Bortolotti, I contratti di subfornitura, Padova, 1998.

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servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati

nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un

bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e

tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente” (art. 1,

comma 1, L. n. 192/1998), con esclusione dei contratti aventi ad oggetto “la

fornitura di materie prime, di servizi di pubblica utilità e di beni strumentali

non riconducibili ad attrezzature” (art. 1, comma 2)569.

Tale definizione, da cui si ricava che oggetto di tutela è la posizione di

un’impresa debole (subfornitrice) nei confronti di un’impresa forte

(committente), segna il superamento della consueta contrapposizione tra

professionista e consumatore e, quindi, l’ampliamento della categoria del

569 Dalla definizione contenuta nell’art. 1 della L. n. 192/1998 si ricava che i contratti di subfornitura non costituiscono un autonomo tipo contrattuale, bensì un’ampia categoria, caratterizzata da determinati elementi (inerenti, principalmente, alle parti ed alle prestazioni oggetto del contratto), a cui possono corrispondere diversi tipi contrattuali (si pensi alla vendita o all’appalto), con la conseguenza che al contratto di subfornitura si applicheranno sia le norme del tipo di appartenenza, sia quelle dettate dalla L. n. 192/1998, destinata, quest’ultima, a prevalere sulle prime, in caso di incompatibilità, in quanto lex specialis. La giurisprudenza di merito ha, ad esempio, ravvisato gli elementi della subfornitura nel contratto con cui un’impresa committente aveva subappaltato lavori di pavimentazione ad altra impresa, la quale, benché specializzata nella realizzazione di pavimentazioni industriali, aveva assunto l’obbligo di realizzare i lavori sulla base del progetto esecutivo fornito dalla committente e con le caratteristiche tecniche specificamente individuate dalla medesima (Tribunale L’Aquila, 13 dicembre 2002, in Foro it. 2003, I,c. 1275), nel contratto di concessione di vendita di autoveicoli (Tribunale Roma, 5 novembre 2003, in Giur. merito, 2004, p. 457), in quello avente per oggetto la gestione, per conto di una società petrolifera, del servizio di assegnazione dei buoni carburante (Tribunale Roma, 20 maggio 2002,in Foro it., 2002, I, c. 3208 con nota di Palmieri); ovvero, la fornitura di alcune migliaia di metri lineari di “mobiletti sotto finestra”, da realizzare sulla base dei disegni esecutivi predisposti dal committente e da inserire nella catena produttiva di quest’ultimo (Tribunale Udine, 27 aprile 2001, in Foro it., 2001, I, c. 2677). In dottrina, v. A. Tullio, La subfornitura industriale:

considerazioni in merito all’ambito di applicazione della legge n. 192 del 1998 e alla forma

del contratto di subfornitura, in Giust. civ., 1999, II, p. 251 ss.; G. Caselli, Osservazioni sulla

l. 18 giugno 1998 n. 192, in materia di subfornitura con particolare riferimento al suo ambito

di applicazione, in Contratto e Impresa, 1998, p. 1304.

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contraente debole, in precedenza incentrata quasi esclusivamente sulla

nozione di consumatore570.

Il rapporto di subfornitura si caratterizza per una dipendenza

tecnologico-organizzativa e, quindi, economica, del subfornitore nei confronti

del committente571.

L’obiettivo di tutela del contraente debole viene perseguito dal

legislatore attraverso numerose disposizioni inerenti alla forma del contratto,

alla trasparenza dell’operazione, ai termini di pagamento del prezzo al

subfornitore, alla nullità di alcune clausole considerate particolarmente

onerose per quest’ultimo.

In particolare, l’art. 2 richiede, per il contratto di subfornitura, la forma

scritta ad substantiam572, prevedendo, in caso di nullità per mancanza del

570 Lo scopo della disciplina in esame è la tutela dei collaboratori esterni all’impresa (lavoratori autonomi, imprese di piccole dimensioni), sprovvisti delle garanzie riservate ai lavoratori dipendenti. 571 La giurisprudenza di merito ha più volte ribadito che per aversi subfornitura industriale, oltre alla prestazione afferente il ciclo produttivo del committente, deve ricorrere anche l’elemento della dipendenza tecnologica del subfornitore verso il committente stesso (cfr. Tribunale Torino, 19 novembre 1999; Tribunale Taranto, 28 settembre 1999; Tribunale Taranto, 13 ottobre 1999, tutte in Foro it., 2000, I, c. 624 con note di Palmieri e Granieri). Infatti, sia che si tratti di subfornitura di lavorazioni che di subfornitura di beni o servizi, le lavorazioni o forniture del subfornitore sono eseguite in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente. Ciò comporta, inevitabilmente, che l’impresa subfornitrice è organizzata per produrre essenzialmente in funzione di una particolare e specifica impresa committente, il che la rende, appunto, dipendente da quest’ultima ed esposta al rischio di subire prevaricazioni nel rapporto contrattuale. Sul punto, v. F. Delfini, Dipendenza tecnologica del subfornitore e legge n.

192/1998, cit., p. 616 ss. 572 Ai sensi dell’art. 2, comma 1, L. cit., “costituiscono forma scritta le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effettuate per telefax o altra via telematica”. Inoltre, nel caso di proposta inviata dal committente secondo le modalità appena indicate, non seguita da accettazione scritta del subfornitore che, tuttavia, inizia le lavorazioni o le forniture, senza che abbia richiesto la modificazione di alcuno dei suoi elementi, il contratto si considera ugualmente concluso per iscritto. In tale ipotesi è comunque fatta salva l’applicazione dell’art. 1341 c.c. V. A. La Spina, La nullità relativa degli accordi

in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 117 ss.; A. Tullio, La

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requisito formale, il diritto del subfornitore al pagamento delle prestazioni già

effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini

dell’esecuzione del contratto573.

Nell’ottica di un trasparente svolgimento del rapporto, inoltre, l’articolo

in esame, al comma 5, impone che nel contratto di subfornitura siano descritti

i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti dal committente, mediante

precise indicazioni che consentano l’individuazione delle caratteristiche

costruttive e funzionali, o anche attraverso il richiamo a norme tecniche che,

quando non siano di uso comune per il subfornitore o non siano oggetto di

norme di legge o regolamentari, debbono essere allegate in copia; i termini e

le modalità di consegna, collaudo e pagamento; il prezzo pattuito quale

corrispettivo dei beni o servizi forniti.

Quest’ultimo dev’essere determinato o determinabile in modo chiaro e

preciso, tale da non ingenerare incertezze nell’interpretazione dell’entità delle

reciproche prestazioni e nell’esecuzione del contratto (comma 4).

L’art. 3 stabilisce che nel contratto siano fissati i termini di pagamento

della subfornitura (a decorrere dalla consegna del bene o dalla comunicazione

dell’avvenuta esecuzione della prestazione), nel rispetto, comunque, dei limiti

inderogabilmente individuati dalla disposizione medesima 574 e, in caso di

subfornitura industriale: considerazioni in merito all’ambito di applicazione della legge n.

192 del 1998 e alla forma del contratto di subfornitura, cit., p. 251 ss. 573 Contrariamente al principio espresso dal brocardo “quod nullum est nullum producit

effectum”, il contratto di subfornitura, benché nullo per mancanza di forma scritta ad

substantiam, produce effetti favorevoli per il subfornitore. Sull’efficacia del negozio nullo, v. G. Filanti, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli, 1983, p. 43 ss.; G. Passagnoli, Nullità speciali, cit., p. 77 ss. 574 Il comma 2 dell’art. 3 cit. stabilisce che “il prezzo pattuito deve essere corrisposto in un termine che non può eccedere i sessanta giorni dal momento della consegna del bene o della comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione. Tuttavia, può essere fissato un

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inosservanza di tali termini, impone al committente il pagamento, in favore

del subfornitore, di interessi sulla somma dovuta in misura superiore a quella

legale, decorrenti automaticamente, senza necessità di previa messa in

mora575. È, inoltre, fatta salva la possibilità di pattuire interessi moratori in

misura superiore, nonché il diritto al risarcimento del danno ulteriore.

Infine, qualora il ritardo nel pagamento ecceda di trenta giorni il

termine convenuto, il committente incorre in una penale pari al cinque per

cento dell’importo in relazione al quale non ha rispettato i termini576.

La legge n. 192/1998, inoltre, prevede la nullità di alcune clausole,

particolarmente vessatorie per il subfornitore, come quelle che attribuiscono

allo stesso la responsabilità per difetti di materiali o attrezzi fornitigli dal

committente per l’esecuzione del contratto (art. 5)577 , che conferiscono al

committente la facoltà di modificare unilateralmente le clausole del contratto

diverso termine, non eccedente i novanta giorni, in accordi nazionali per settori e comparti specifici, sottoscritti presso il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato da tutti i soggetti competenti per settore presenti nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro in rappresentanza dei subfornitori e dei committenti. Può altresì essere fissato un diverso termine, in ogni caso non eccedente i novanta giorni, in accordi riferiti al territorio di competenza della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura presso la quale detti accordi sono sottoscritti dalle rappresentanze locali dei medesimi soggetti di cui al secondo periodo”. 575 Secondo l’art. 3, comma 3, l’interesse dovuto dal committente, in caso di mancato rispetto del termine di pagamento, è determinato “in misura pari al saggio d’interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale effettuata il primo giorno di calendario del semestre in questione, maggiorato di sette punti percentuali, salva la pattuizione tra le parti di interessi moratori in misura superiore e salva la prova del danno ulteriore. Il saggio di riferimento in vigore il primo giorno lavorativo della Banca centrale europea del semestre in questione si applica per i successivi sei mesi”. Attesi i criteri di calcolo previsti dalla legge, R. Lanzillo, La

proporzione, cit., p. 209, definisce di tali interessi “punitivi”. 576 La disposizione è stata così modificata dall’art. 10 del d. lgs. n. 231/2002, in tema di ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali, di cui si tratterà in seguito. 577 Tale norma, d’altro canto, prevede la esclusiva responsabilità del subfornitore per il funzionamento e per la qualità della parte o dell’assemblaggio da lui prodotti o del servizio fornito secondo le prescrizioni contrattuali e a regola d’arte, comminando la nullità delle clausole attributive della medesima responsabilità al committente.

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o di recedere senza congruo preavviso (art. 6, commi 1 e 2)578, o con cui il

subfornitore disponga, a favore del committente e senza congruo corrispettivo,

di diritti di privativa industriale o intellettuale (comma 3)579.

La disciplina in esame, inoltre, vieta esplicitamente l’abuso, da parte di

una o più imprese, dello stato di dipendenza economica nel quale si trovi - nei

suoi o nei loro riguardi - un’impresa cliente o fornitrice580.

L’art. 9, comma 1, definisce la dipendenza economica come “la

situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti

commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di

obblighi”, richiamando, quindi, l’analoga espressione utilizzata dal legislatore

nella normativa dei contratti del consumatore (“significativo squilibrio dei

diritti e degli obblighi” di cui all’art. 1469bis, comma 1, c.c.)581, quasi a voler

circoscrivere la rilevanza dell’abuso ai soli squilibri giuridici, con esclusione

di quelli economici582.

578 Invero, nell’ottica della parificazione di poteri e facoltà riconosciuti alle parti, l’art. 6 cit., commina la nullità anche per le clausole attributive al solo subfornitore dello ius variandi e della facoltà di recesso senza congruo preavviso. 579 Tale previsione normativa, secondo V. Roppo, Il contratto, cit., p. 926, rappresenta, probabilmente, il “primo caso in cui, al di fuori del fenomeno dei prezzi imposti, la legge detta un imperativo così esplicito di <<adeguatezza>> o <<congruità>> del corrispettivo contrattuale, in contrasto col principio che lascia questo elemento nel dominio della libera contrattazione delle parti”. In questo caso, pertanto, la mera inadeguatezza oggettiva del corrispettivo determina la nullità del patto. Sull’impiego della nullità per sanzionare i patti contrari alle disposizioni contenute nel d. lgs. n. 231/2002 e per imporre la forma scritta, v. A. La Spina, op. cit., p. 128 ss. 580 V. T. Longu, Il divieto di abuso di dipendenza economica nei rapporti tra le imprese, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 349 ss.; F. Prosperi, Subfornitura industriale, abuso di dipendenza

economica e tutela del contraente debole: i nuovi orizzonti della buona fede contrattuale, in Rass. dir. civ., 1999, p. 639 ss. 581 In realtà, l’aggettivo “eccessivo” esprime una soglia di squilibrio che, per quanto elevata, non deve essere necessariamente “significativa”. Da tale differenza discende che la tutela riservata all’imprenditore “debole” nei rapporti con altri imprenditori, è meno intensa di quella del consumatore. 582 Cfr. C. Osti, L’abuso di dipendenza economica, in Mercato conc. reg., 1999, p. 9 ss.

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Tuttavia, l’art. 9, comma 2, nel descrivere, a titolo esemplificativo583, le

condotte integranti gli estremi dell’abuso di posizione dominante 584 ,

menziona, oltre al rifiuto di vendere o di comprare, e alla interruzione

arbitraria delle relazioni commerciali in atto, anche la imposizione di

“condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie”, tra le

quali sicuramente rientrano i corrispettivi585.

A favore della rilevanza non solo degli squilibri giuridici, ma anche di

quelli economici, inoltre, depone la formulazione dello stesso art. 9, comma 1,

secondo cui la dipendenza economica va valutata “tenendo conto anche della

reale possibilità per la parte che abbia subìto l’abuso di reperire sul mercato

583 Cfr. V. Roppo, Il contratto, cit., p. 926 ss.: “Il comportamento di abuso non è definito, ma

esemplificato: <<può…consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto>> (art. 9 co. 2). Queste dovrebbero essere le manifestazioni più gravi e diffuse dell’abuso, ma non le uniche: l’interprete è abilitato a trovarne altre”. 584 È interessante notare come le singole fattispecie di abuso di dipendenza economica descritte nell’art. 9, comma 1, L. n. 192/1998 presentino forti tratti di analogia con quelle indicate dall’art. 3 L. n. 287/1990, in tema di tutela della concorrenza. In particolare, anche questo articolo menziona, tra le varie condotte di abuso di posizione dominate, la imposizione di “condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose (art. 3, comma 1, lett. a). Cfr. M. S. Spolidoro, Riflessioni critiche sul rapporto fra abuso di posizione dominante e abuso

dell’altrui dipendenza economica, in Riv. dir. ind., 1999, I, p. 191 ss.; L. Delli Priscoli, L’abuso di dipendenza economica nella nuova legge sulla subfornitura: rapporti con la

disciplina delle clausole abusive e con la legge <<antitrust>>, in Giur. comm., 1998, I, p. 833 ss.. 585 In questo senso, v. R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 250 ss. Concorda con tale interpretazione D. Russo, Sull’equità dei contratti, cit., p. 86, il quale, in merito al comma 2 dell’art. 9 citato, osserva che <<o si ritiene che tale disposto abbia carattere pleonastico, che esprima cioè un significato equivalente a quello del comma 1°, ma sarebbe questa una chiara interpretatio

abrogans, oppure deve ammettersi che esso abbia un autonomo valore normativo, riferibile per l’appunto allo squilibrio economico, non sussumibile sotto la lettera del comma 1° afferente allo squilibrio dei “diritti e degli obblighi”. Che sia questa l’interpretazione corretta è confermato dall’utilizzo della parola “anche” ciò che lascia intendere come l’ipotesi di abuso ivi sanzionata sia una ulteriore rispetto a quella già precedentemente disciplinata >>.

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alternative soddisfacenti” intese, evidentemente, come alternative in termini di

prezzi e di convenienza economica586.

In sostanza, in base alla formulazione dell’art. 9, l’abuso può consistere

nell’imposizione all’impresa dipendente di un programma contrattuale

normativamente ovvero economicamente squilibrato.

La rilevanza, nell’ambito della disciplina in esame, anche degli squilibri

economici, consente al subfornitore di agire in giudizio contro i corrispettivi

iniqui e sproporzionati rispetto ai beni o ai servizi prestati, sempre che tale

squilibrio sia la conseguenza di un concreto approfittamento, da parte

dell’impresa committente, della posizione di dipendenza economica in cui

versa il subfornitore medesimo587.

Ai sensi dell’art. 9, comma 3, “il patto attraverso il quale si realizzi

l’abuso di dipendenza economica è nullo”.

Tale disposizione, a differenza dell’art. 1469quinquies c.c., non

chiarisce se si tratti di nullità assoluta o relativa, totale o parziale.

La mancanza di qualsiasi espressa previsione al riguardo, farebbe

intendere che il legislatore non ha inteso derogare alla disciplina generale

della nullità in punto di legittimazione a farla valere e di estensione della

586 Cfr. G. Cresci-F. Falco, I contratti di subfornitura, cit., p. 725 ss. 587 Cfr. Tribunale Catania, 5 gennaio 2004, in Gius, 2004, p. 2293 e in Danno e resp., 2004, p. 424, con nota di Palmieri, secondo cui l’abuso di dipendenza economica “presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un’impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l’abuso di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi”. Al riguardo vale la pena sottolineare che, perché l’abuso di dipendenza economica possa esser fatto valere dal subfornitore, non è necessario che l’impresa committente si trovi strutturalmente in una posizione dominante sul mercato, essendo sufficiente anche una dipendenza economica determinata da fattori casuali e contingenti.

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stessa all’intero contratto, secondo quanto previsto, rispettivamente, dagli artt.

1421 e 1419 c.c.

Di conseguenza, la nullità del patto in questione potrebbe essere

dichiarata ex officio ovvero su domanda di chiunque vi abbia interesse e,

quindi, anche dell’impresa sfruttatrice (art. 1421 c.c.).

Secondo parte della dottrina, tuttavia, la considerazione della ratio

sottesa al divieto di abuso di dipendenza economica - la cui violazione

determina, appunto, la nullità del patto - nonché riflessioni di carattere

sistematico, inducono a ritenere che si tratti di nullità relativa588.

In tal senso deporrebbe, innanzitutto, la natura individuale e non

collettiva dell’interesse tutelato dal divieto di abuso, identificato nella libertà

negoziale dell’impresa che versa in condizione di sudditanza economica; tale

circostanza giustificherebbe, appunto, il carattere relativo della nullità589.

In secondo luogo, si osserva che tutti i recenti interventi legislativi volti

a preservare l’equilibrio contrattuale da comportamenti prevaricatori

determinati dalla disparità di potere tra le parti, prevedono quale rimedio lo

588 Tale soluzione se, da un lato, appare coerente con l’intenzione del legislatore di tutelare il contraente debole, dall’altro, non essendo sostenuta da una espressa previsione di legge, potrebbe considerarsi non pienamente conforme al dettato dell’art. 1421 c.c., che, nel fissare il carattere assoluto della nullità, ammette delle deroghe, sempre che queste siano contemplate da una disposizione di legge. A tale riguardo, alcuni Autori parlano di “nullità virtuale a carattere relativo” in relazione alle norme imperative che - come l’art. 9, comma 3, della legge sulla subfornitura - non prevedono nulla per il caso della loro violazione, ma che tutelano interessi analoghi a quelli per i quali l’ordinamento ha già espressamente previsto la sanzione della nullità relativa. Cfr. D. Russo, Sull’equità dei contratti, cit., p. 89; A. Fedele, Della

nullità del contratto, in Commentario diretto da D’Amelio-Finzi, I, Firenze, 1948, p. 684; G. Passagnoli, Nullità speciali, cit., p. 223 ss. 589 Il carattere assoluto della nullità viene tradizionalmente spiegato attraverso il riferimento agli interessi pubblici o collettivi sottesi alla norma violata. Sul punto v. G. Passagnoli, op. ult.

cit., p. 115 ss.; Filanti, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, cit., p. 83 ss.

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strumento della nullità relativa, che, oltre ad essere rilevabile di ufficio dal

giudice, può essere fatta valere dal solo contraente debole.

Altro profilo non espressamente disciplinato dal citato articolo 9

riguarda il carattere totale o parziale della nullità dallo stesso comminata.

Tale aspetto assume particolare importanza ove si consideri che, alla

luce delle precedenti osservazioni, la clausola attraverso cui si realizza l’abuso

(e, per tale ragione, nulla) potrebbe riguardare anche il corrispettivo e, quindi,

un elemento essenziale del contratto di subfornitura, con la conseguente

eventualità che la nullità del singolo patto travolga l’intero contratto.

Invero, le medesime argomentazioni esposte a sostegno del carattere

relativo della nullità in questione, vengono richiamate per ritenere che si tratti

di nullità parziale590.

Diversamente, nelle ipotesi in cui il patto frutto di abuso preveda un

corrispettivo squilibrato, la mancanza di quest’ultimo per effetto della nullità

del patto medesimo, determinerebbe, ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c., la

nullità dell’intero contratto, con evidente danno per l’impresa subfornitrice, il

cui interesse è, evidentemente, quello di conseguire un equo corrispettivo

della propria prestazione591.

590 Sotto questo profilo, il rimedio adottato dal legislatore contro l’abuso di dipendenza economica ai danni del subfornitore richiama la sanzione della “inefficacia” comminata dall’art. 1469quinquies, comma 1, c.c. per le clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Sull’argomento, v. L. Prati, La sanzione di nullità nel contratto di subfornitura, in I Contratti, 1999, p. 293 ss.; A. Albanese, Abuso di dipendenza economica: nullità del contratto e

riequilibrio del rapporto, in Europa e dir. priv., 1999, p. 1179 ss. 591 Di “nullità relativa e legalmente parziale” parla D. Russo, op. ult. cit., p. 92. Secondo l’A., infatti, “la circostanza che la sanzione sia prevista a tutela del contraente debole conduce pianamente a questa soluzione, non essendo oltremodo razionale, nel momento in cui il legislatore dà (generale) rilevanza alla disuguaglianza di fatto dei contraenti, risolvere l’interpretazione delle nullità di protezione sulla base delle tradizionali posizioni teoriche”. Secondo V. Roppo, op. ult. cit., p. 928 “siamo in pieno campo delle <<nullità speciali>>, e il

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Tale soluzione necessariamente impone di individuare il meccanismo

attraverso cui pervenire alla determinazione del prezzo dovuto al subfornitore.

In tale prospettiva, si aprono ampi margini per ammettere un intervento

del giudice volto ad integrare il contenuto negoziale quanto al corrispettivo

dovuto, in sostituzione della pattuizione nulla592.

In questi casi, infatti, il principio di equità - principale fonte di

integrazione giudiziale - consentirebbe, in assenza di norme dispositive, di

riequilibrare il sinallagma, assumendo, a tal fine, come parametri di

riferimento, i valori espressi dal mercato593.

regime del contratto nullo per abuso di dipendenza economica non può non risentire della logica cui queste generalmente s’ispirano: così, pur in mancanza di espressa indicazione legislativa, è difficile pensare che la legittimazione a invocare la nullità non sia riservata in esclusiva alla parte dipendente, che subisce l’abuso”. Della stessa opinione è R. Lanzillo, op.

ult. cit., p. 252. 592 Favorevole ad una tale soluzione è R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 251. Sul punto si richiamano le osservazioni precedentemente svolte in merito alle conseguenze della nullità della clausola vessatoria relativa al prezzo inserita nel contratto concluso tra professionista e consumatore. Sul divieto di abuso di dipendenza economica quale deroga al principio di libertà contrattuale e sulla natura eccezionale dei poteri che tale divieto attribuisce al giudice, v. Tribunale di Bari, 2 luglio 2002, in Foro it., 2002, I, c. 3208, con nota di Palmieri e Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, in Giur. milanese, 2000, p. 307. In dottrina, v. U. Ruffolo, Il contratto di

subfornitura nelle attività produttive. Le nuove regole della l. 18 giugno 1998 n. 192:

<<Correzione>> della autonomia contrattuale a tutela del subfornitore come professionista

debole?, in Resp. comunicazione imprese, 1998, p. 403 ss. Cfr., altresì, A. Albanese, Abuso di

dipendenza economica: nullità del contratto e riequilibrio del rapporto, cit., p. 1179 ss. 593 Al riguardo, D. Russo, op. ult. cit., p. 93 ss., precisa che non basterebbe ridurre la sproporzione, eliminandone l’eccessività. Secondo l’A., in questi casi, <<il vizio … non è semplicemente nella eccessività della misura del corrispettivo. Lo squilibrio eccessivo è mero indice rivelatore “legale” e quindi infungibile dell’assenza di libertà del contraente debole di conformare il contenuto contrattuale. Si individua così un’ipotesi normativa di “contratto non negoziabile” da uno dei contraenti, a lui sostanzialmente “imposto” approfittando della posizione di debolezza. E per tali contratti il sistema esprime il principio dell’equità del sinallagma. La “misura consentita”, la cui individuazione è reclamata dalla natura legalmente parziale della nullità, non può allora che coincidere con quella indicata dalla norma dispositiva o con l’equilibrio delle prestazioni determinato alla stregua dei valori di mercato, … come si ricava dal complesso delle norme dispositive che si occupano della determinazione del corrispettivo in assenza di pattuizione. Il sistema di diritto privato ci dice insomma che il prezzo giusto è il prezzo liberamente convenuto dalle parti oppure, in mancanza ed è questo il caso in esame, il prezzo legale o di mercato. Il quale può esser “derogato” solo dalle parti

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Siffatto potere di controllo da parte del giudice sulla giustizia

contrattuale è, peraltro, suscettibile di vasta applicazione, ove si consideri che

l’art. 9 citato, in virtù della sua ampia formulazione, si estende ad ogni

contratto fra imprese594.

Dalle osservazioni che precedono, discende che la disciplina contenuta

nell’art. 9 della L. n. 192/1998 ricalca, in parte, quella dettata dall’art. 1448

c.c., con una differenza595.

Difatti, quanto agli elementi costitutivi di natura soggettiva, la

dipendenza economica e l’abuso evocano, rispettivamente, lo stato di bisogno

e l’approfittamento, ponendosi quali specificazioni di questi ultimi596.

Diversamente è a dirsi per il requisito oggettivo.

libere di contrattare, non da una determinazione unilaterale del corrispettivo in assenza di alternative per l’aderente. … Sempre in applicazione del principio di nullità parziale, può sostenersi, ma forse è soluzione solo apparentemente o formalmente diversa, che il venir meno della pattuizione nulla aziona il meccanismo integrativo di cui all’art. 1374: il contratto cioè si reputa come mancante ab origine di quel patto e dunque viene integrato mediante la disciplina positiva (o gli usi o la valutazione equitativa)>>. 594 Cfr. Tribunale di Catania, 5 gennaio 2004, cit.: “L’abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 l. n. 192 del 1998 configura una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura”. Invero, la norma in esame, benché inserita nella disciplina della subfornitura nelle attività produttive, presenta, rispetto a quest’ultima, un maggiore ambito di applicazione. Essa, infatti, vietando “l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice”, si riferisce ai rapporti tra imprese dominanti ed imprese clienti o fornitrici. Sul punto, cfr. G. Gioia, La subfornitura nelle

attività produttive, in Corr. giur., n. 8/1998, p. 887; R. Caso-R. Pardolesi, La nuova disciplina

del contratto di subfornitura (industriale): scampolo di fine millennio o prodromo di tempi

migliori?, in Riv. dir. priv., 1998, p. 723. Contra, Tribunale di Bari, 2 luglio 2002, cit. 595 Secondo D. Russo, op. ult. cit., p. 83, “lo sfruttamento della dipendenza economica sta alla nullità del contratto eccessivamente squilibrato (ex art. 9, comma 3° l. 192/98) come l’approfittamento dello stato di bisogno sta alla rescissione del contratto con sproporzione ultra dimidium”. 596 Sulla portata e sul significato dei presupposti di natura soggettiva di cui all’art. 1448 c.c., v. S. Orrù, I contratti in generale. La rescissione del contratto, ne Il diritto privato nella

giurisprudenza, a cura di P. Cendon, Torino, 2000, vol. X, p. 216 ss..

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Infatti, l’art. 9 richiede, sotto il profilo strettamente economico, la

“imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o

discriminatorie”, mentre l’art. 1448 c.c. la lesione eccedente “la metà del

valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al

tempo del contratto”.

L’eliminazione, nella legge speciale, del riferimento ad una

predeterminata soglia di sproporzione, è indice di una maggiore sensibilità al

problema dell’equilibrio contrattuale da parte del legislatore. Questi, infatti,

ha inteso dare rilevanza - seppur limitatamente ai rapporti tra imprese - anche

allo squilibrio economico che, pur essendo infra dimidum, si presenti,

comunque, eccessivo, lasciando all’interprete il compito di individuare i

parametri del sindacato sulla giustizia del contenuto contrattuale.

Tuttavia, la previsione della necessaria concorrenza di requisiti di

natura soggettiva conferma la indifferenza, per il nostro ordinamento

giuridico, dello squilibrio economico in sé e per sé considerato, a prescindere

da comportamenti scorretti o prevaricatori di una parte in danno dell’altra.

Nella medesima ottica di riequilibrare le posizioni tra imprenditori, si

colloca il d. lgs. n. 231/2002, attuativo della direttiva 2000/35/CE, in tema di

lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali597.

597 Su tale disciplina, v. F. L. Gambaro, Disciplina dei pagamenti e subfornitura industriale, in Riv. dir. priv., n. 4/2003, p. 805 ss.; P. Sanna, L’attuazione della dir. 2000/35/Ce in materia

di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: introduzione al d. lgs. 9

ottobre 2002 n. 231, in Resp. civ. e prev., n. 1/2003, p. 247 ss.; S. Bastianon, Direttive

comunitarie e tutela del creditore in caso di ritardato pagamento nelle transazioni

commerciali: prime osservazioni a proposito del D.lgs. n. 231/2002, in Dir. Un. Eur., 2003, p. 395 ss.; M. Gentile, Rimosso finalmente un divieto anacronistico: procedimento monitorio

anche fuori dai confini, in Guida al diritto, 2002, fasc. 43, p. 24 ss.; Frignani e Cagnasso, L’attuazione della direttiva sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in I

contratti, n. 3/2003, p. 308 ss.; Pandolfini, La nullità degli accordi gravemente iniqui nelle

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Tale disciplina si applica “ad ogni pagamento effettuato a titolo di

corrispettivo in una transazione commerciale”, con esclusione dei debiti

oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore, delle richieste di

interessi inferiori a 5 euro e dei pagamenti effettuati a titolo di risarcimento

del danno, ivi compresi i pagamenti effettuati a tale titolo da un assicuratore

(art. 1).

Per “transazioni commerciali”, a norma dell’art. 2, comma 1, lettera a),

devono intendersi “i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra

imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o

prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il

pagamento di un prezzo”, indicandosi, col termine imprenditore, “ogni

soggetto esercente un’attività economica organizzata o una libera professione”

(lettera c)598.

transazioni commerciali, in I contratti, n. 5/2003, p. 501. I collegamenti tra la disciplina della subfornitura e quella dei ritardi di pagamenti sono confermati dalla L. n. 39/2002, contenente la delega al Governo per il recepimento della Direttiva 2000/35/CE, il cui art. 26, comma 2, lett. e), disponeva che l’attuazione della direttiva comunitaria dovesse essere ispirata a “coordinare la nuova disciplina con le disposizioni in materia di subfornitura nelle attività produttive di cui alla Legge 18 giugno 1998, n. 192, apportando a essa le opportune modifiche, in modo da uniformare il saggio degli interessi moratori di cui all’articolo 3, comma 3, della medesima Legge 192/1998 al livello degli interessi di mora (tasso legale) previsto dalle disposizioni in materia di ritardi di pagamento, di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera d), della direttiva”. 598 T. Senni, La direttiva 2000/35/CE sul ritardo nei pagamenti in rapporto alla disciplina

sulla subfornitura, in Dir. comm. internaz., n. 4/2001, p. 842, precisa che “Rientrano nel campo di applicazione anche le professioni liberali, quand’anche non siano considerate imprese e non comportino l’esercizio di attività commerciale”. Al riguardo, P. Sanna, L’attuazione della dir. 2000/35/Ce in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle

transazioni commerciali: introduzione al d. lgs. 9 ottobre 2002 n. 231, cit., p. 250, pone in evidenza che, mentre nella disciplina dei contratti del consumatore l’assimilazione dell’attività libero professionale a quella imprenditoriale, viene compiuta <<sotto l’insegna della nozione di “professionista”, nella disciplina in commento attività libero professionale ed imprenditoriale “coabitano” nella comune definizione di “imprenditore”>>. In merito all’equiparazione tra imprenditore e libero professionista, il 14° considerando della direttiva 2000/35/CE precisa che “il fatto che le professioni liberali ricadano nell’ambito di

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Da tale definizione, si ricava che il d. lgs. n. 231/2002 ha una portata

più ampia rispetto alla L. n. 192/1998, sotto il duplice profilo, soggettivo ed

oggettivo599.

Infatti, quest’ultima - come in precedenza illustrato - si rivolge alle

imprese subfornitrici, ossia alle imprese che stipulino con un’impresa

committente un contratto avente ad oggetto le “lavorazioni su prodotti

semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima”, ovvero

la fornitura di “prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque

ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella

produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi,

conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa

committente” (art. 1, comma 1, L. n. 192/1998)600.

Il d. lgs. n. 231/2002, invece, si applica ad ogni pagamento effettuato a

titolo di corrispettivo in una transazione commerciale, ossia in un contratto

avente ad oggetto, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la

applicazione della presente direttiva non comporta per gli Stati membri l’obbligo di trattarle come imprese o attività commerciali per fini diversi da quelli della presente direttiva”. 599 Osserva P. Sanna, op. cit., p. 248, che <<all’interno della definizione contenuta all’art. 2, lett. a), possono isolarsi un elemento di natura soggettiva, la qualitas delle parti contraenti, ed uno di carattere oggettivo, la tipologia contrattuale, che, seppur convenzionalmente differenziati, concorrono entrambi a strutturare la nozione di “transazione commerciale” e per suo tramite il campo di applicazione del d.lgs. n. 231/02>>. 600 In virtù di tali definizioni, le disposizioni contenute negli artt. 3 (termini di pagamento), 5 (responsabilità del subfornitore), 6 (nullità di clausole), operano soltanto in favore dell’imprenditore che sia parte di un contratto di subfornitura. Una tutela più ampia, sotto il profilo soggettivo, invece, sarebbe assicurata - secondo l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale sopra esposto - dall’art. 9, inerente al divieto di abuso di posizione dominante.

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prestazione di servizi, e di cui almeno una parte sia costituita da un

imprenditore o da un libero professionista601.

Tale disciplina, pertanto, è diretta a tutelare il professionista-creditore

nei confronti del debitore-committente moroso602.

Il più vasto ambito di operatività si spiega con la ratio sottesa alla

normativa in esame, consistente nel dettare una uniforme disciplina dei

pagamenti nel mercato europeo, quale rimedio alla prassi, enormemente

diffusa nei rapporti commerciali, di non rispettare i termini contrattuali di

pagamento, con evidente pregiudizio per le imprese di piccole e medie

dimensioni, poste in condizioni di inferiorità economica e, quindi, considerate

contraenti deboli603.

601 Secondo F. L. Gambaro, op. cit., p. 809, la L. n. 192/1998 si pone come norma speciale rispetto al d. lgs. n. 231/2002, il quale “si situa dunque in una zona, per così dire, intermedia tra le regole generali contenute nel codice civile e la norma sicuramente speciale contenuta nella Legge n. 192/1998; esso si indirizza agli imprenditori, alle pubbliche amministrazioni, ai professionisti che debbano eseguire (in veste di obbligati) o ricevere (in veste di aventi diritto) pagamenti effettuati a titolo di corrispettivo in transazioni commerciali”. A differenza del d. lgs. n. 231/2002, la l. n. 192/98 non contiene né la definizione di subfornitore, né quella di impresa o di imprenditore. 602 Cfr. sul punto il 16° considerando della direttiva 2000/35/CE: “I ritardi di pagamento costituiscono una violazione contrattuale resa finanziariamente attraente per i debitori nella maggior parte degli Stati membri per i bassi livelli degli interessi di mora e/o dalla lentezza delle procedure di recupero. Occorre modificare decisamente questa situazione anche con un risarcimento dei creditori, per invertire tale tendenza e per far sì che un ritardo di pagamento abbia conseguenza dissuasive”. 603 Sull’esigenza di uniformare la disciplina dei pagamenti a livello comunitario, cfr. la relazione al d. lgs. n. 231/2002, secondo cui la direttiva 2000/35/CE trae origine dalla constatazione che “il grande divario tra gli Stati dell’Unione europea, con riferimento ai termini contrattuali di pagamento, costituisce un ostacolo al buon funzionamento del mercato interno, limitando le transazioni commerciali, in contrasto con l’art. 14 del Trattato, a mente del quale gli operatori economici dovrebbero essere in grado di svolgere le proprie attività, in tutto il mercato interno, a condizioni tali da annettere alle operazioni transfrontaliere i medesimi rischi di quelle interne”. Inoltre, il 7° considerando della citata direttiva osserva che “i periodi di pagamento eccessivi e i ritardi di pagamento impongono pesanti oneri amministrativi e finanziari alle imprese, ed in particolare a quelle di piccole e medie dimensioni. … Tali problemi costituiscono una tra le principali cause d’insolvenza e determinano la perdita di numerosi posti di lavoro”. Sugli effetti pregiudizievoli dei ritardi nei

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L’art. 3 del d. lgs. n. 231/2002 stabilisce che “il creditore ha diritto alla

corresponsione degli interessi moratori, ai sensi degli articoli 4 e 5, salvo che

il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato

dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non

imputabile”604.

L’art. 4 fissa la decorrenza degli interessi moratori dal giorno

successivo alla scadenza del termine contrattuale di pagamento previsto nel

contratto, senza necessità di messa in mora del debitore 605 , ad un tasso

d’interesse determinato “in misura pari al saggio d’interesse del principale

strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato alla sua

più recente operazione di rifinanziamento principale effettuata il primo giorno

di calendario del semestre in questione, maggiorato di sette punti percentuali”

(art. 5)606.

La norma di maggiore interesse - ai fini della presente ricerca - è

rappresentata dall’art. 7, secondo cui “l’accordo sulla data del pagamento, o

sulle conseguenze del ritardato pagamento, è nullo se, avuto riguardo alla

corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del

contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i

pagamenti commerciali per le aziende creditrici, v. T. Senni, La direttiva 2000/35/CE sul

ritardo nei pagamenti in rapporto alla disciplina sulla subfornitura, cit., p. 841. 604 Su tali profili di disciplina, v. S. Bastianon, Direttive comunitarie e tutela del creditore in

caso di ritardato pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 395 ss. 605 L’art. 4 prevede che, qualora il termine di pagamento non sia stabilito nel contratto, gli interessi di mora decorrano automaticamente dopo trenta giorni dal ricevimento della fattura o della merce, secondo i casi indicati nel comma 2. Ove si tratti di prodotti alimentari deteriorabili, il termine è di sessanta giorni dalla consegna o dal ritiro. L’articolo in esame sancisce il principio della mora ex re alla scadenza del termine contrattuale o, in sua mancanza, di quello legale. 606 La disciplina in esame non assume carattere cogente, sia sotto il profilo della decorrenza della mora che sotto quello del saggio di interesse. Sul punto, cfr. F. Caringella, Studi di

diritto civile, cit., p. 2394.

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medesimi, nonché ad ogni altra circostanza, risulti gravemente iniquo in

danno del creditore”607.

Tale disposizione, quindi, commina la nullità dell’accordo che violi le

previsioni contenute negli articoli 4 e 5 sulla data del pagamento e sulle

conseguenze del ritardato pagamento, qualora, tenuto conto dei parametri

dalla stessa indicati, l’accordo medesimo risulti “gravemente iniquo” per il

creditore.

In particolare, a norma del comma 2 dell’art. 7, è reputato “gravemente

iniquo l’accordo che, senza essere giustificato da ragioni oggettive, abbia

come obiettivo principale quello di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a

spese del creditore, ovvero l’accordo con il quale l’appaltatore o il

subfornitore principale imponga ai propri fornitori o subfornitori termini di

pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto ai termini di pagamento ad

esso concessi”608.

L’art. 7, quindi, costituisce la prima norma che prevede espressamente,

nel nostro ordinamento giuridico, la “nullità per iniquità”609.

607 Pandolfini, La nullità degli accordi gravemente iniqui nelle transazioni commerciali, cit., p. 501 ss. 608 Sui problemi di coordinamento con la disciplina della subfornitura originati dalla disposizione in esame, v. R. Conti-G. De Marzo, I ritardi nei pagamenti della pubblica

amministrazione dopo il D. Lgs. n. 231/2002, Padova, 2004; T. Senni, La direttiva

2000/35/CE sul ritardo nei pagamenti in rapporto alla disciplina sulla subfornitura, cit., p. 841 ss.; F. L. Gambaro, op. cit., p. 814 ss.; S. Bastianon, Direttive comunitarie e tutela del

creditore in caso di ritardato pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 395 ss. 609 Invero, dottrina minoritaria già da tempo ha posto il problema se il giudice possa comminare la nullità di una clausola o dell’intero contratto ogniqualvolta la singola operazione economica appaia contraria al principio di equità, alla luce delle circostanze concrete. L’art. 7 del d. lgs. n. 231/2002 - seppur entro i limiti soggettivi ed oggettivi di operatività di tale normativa - attribuisce espressamente al giudice il potere di dichiarare la nullità della singola pattuizione che risulti, in concreto, iniqua. Cfr. F. Gazzoni, Equità e

autonomia privata, cit., p, 328 ss.; Id., Manuale di diritto privato, cit., p. 774: “Anche il collegamento dell’equità … al divieto di abusare del proprio diritto nel campo delle

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Peraltro, la diversa formulazione dei commi 1 e 2 dell’art. 7, induce a

ritenere che, mentre nel primo caso, la iniquità e, quindi, la nullità del patto

sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento,

scaturisce da un giudizio da effettuarsi caso per caso, alla stregua dei criteri

indicati dalla norma medesima, in caso di accordo avente ad oggetto liquidità

aggiuntive in favore del debitore o termini di pagamento fra appaltatore e

subfornitore, tale giudizio non è necessario, trattandosi di pattuizione

intrinsecamente iniqua610.

obbligazioni potrebbe dare una risposta più puntuale in termini di nullità quando la regola privata sia esclusivo frutto di intento emulativo o di approfittamento conseguente ad una posizione di supremazia”. 610 Si tratterebbe, in sostanza, di una forma legale di iniquità prevista per le intese disciplinate dal comma 2 dell’art. 7, che priverebbe di qualsiasi rilevanza, rispetto a tali accordi, i criteri generali del giudizio di iniquità indicati dal comma 1. In tal senso, v. P. Sanna, op. cit., p. 253 ss. Secondo l’A., infatti, <<la norma parrebbe introdurre una presunzione legale iuris tantum

di grave iniquità sia in relazione agli accordi che abbiano come obiettivo principale quello di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore, non trovando giustificazione in ragioni oggettive, sia con riferimento agli accordi con i quali l’appaltatore od il subfornitore principale impongano ai propri fornitori o subfornitori termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto a quelli loro concessi. Nel primo caso la grave iniquità sembrerebbe ricorrere quando risulti provata la sola circostanza che l’accordo miri principalmente, seppur non esclusivamente, a procurare liquidità aggiuntiva al debitore a danno del creditore, a meno che l’obbligato non dimostri la presenza di ragioni oggettive tali da escluderne la natura gravemente iniqua. Tuttavia>> - prosegue l’A. - <<se è vero che nella fattispecie in esame ai fini dell’accertamento della grave iniquità dell’accordo il giudice dovrà prescindere da una valutazione che tenga conto della corretta prassi commerciale, della natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, della condizione dei contraenti e dei rapporti commerciali tra i medesimi, nonché di ogni altro elemento, attribuendo rilevanza alla sola circostanza che il patto sia diretto a procurare liquidità aggiuntiva al debitore in danno del creditore, allora davvero non si comprende, una volta che ne sia accertata la sussistenza, quali “ragioni oggettive” possano sottrarre l’accordo al giudizio di grave iniquità. Sconta un tasso di problematicità non minore, seppur ontologicamente differente, anche la formulazione relativa alla fattispecie dell’accordo con il quale l’appaltatore od il subfornitore principale impongano ai propri fornitori o subfornitori termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto a quelli concessi loro. Nell’ipotesi considerata la grave iniquità potrà desumersi in via presuntiva dalla sola sussistenza di termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi nei rapporti tra appaltatore o subfornitore principale e fornitori o subfornitori, rispetto a quelli previsti nel rapporto tra committente ed appaltatore o subfornitore principale, mentre i criteri dettati dal primo comma potranno essere recuperati per giustificare il diverso termine di

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Il comma 3 dell’art. 7 prevede, infine, che il giudice “anche d’ufficio,

dichiara la nullità dell’accordo e, avuto riguardo all’interesse del creditore,

alla corretta prassi commerciale ed alle altre circostanze di cui al comma 1,

applica i termini legali ovvero riconduce ad equità il contenuto dell’accordo

medesimo”611.

Anche in questo caso, il legislatore non ha dettato alcuna specifica

disposizione relativa al carattere, assoluto o relativo, totale o parziale, delle

ipotesi di nullità contemplate dall’art. 7612.

Se da un lato, infatti, la ratio della normativa in esame farebbe

propendere per la qualificazione di tale nullità in termini di nullità relativa613 e

parziale614, dall’altro, l’assenza di espresse e specifiche previsioni al riguardo,

pagamento nei due ordini di rapporti, e dunque per escludere la grave iniquità dell’accordo ad esso relativo>>. Sull’argomento v., altresì, R. Conti-G. De Marzo, op. cit., p. 113 ss. 611 L’art. 9 del d. lgs. n. 231/2002, inoltre, consente alle associazioni di categoria di agire a tutela di interessi collettivi al fine di ottenere dal giudice l’accertamento della iniquità delle clausole di pagamento contenute in condizioni generali di contratto. 612 Come già osservato a proposito della disciplina della subfornitura e della garanzia nella vendita dei beni di consumo, il legislatore ha preferito qualificare la sanzione in termini di nullità, piuttosto che di inefficacia, evitando, limitatamente a questo profilo, i problemi interpretativi generati dalla previsione di cui all’art. 1469quinquies c.c. 613 Conformemente a quanto previsto dall’art. 1469quinquies c.c., infatti, potrebbe ritenersi legittimato a far valere la nullità di cui all’art. 7 citato il solo creditore, soggetto nel cui interesse la nullità medesima è prevista. 614 Lo stesso legislatore delegato, nella relazione governativa (in Guida al diritto, n. 43/2002, p. 14 ss.), afferma che “la traduzione del concetto di inefficacia rilevabile d’ufficio nelle coordinate del nostro ordinamento è assicurata con la previsione di una ipotesi di nullità parziale, alla quale consegue in termini effettuali l’inefficacia della pattuizione in esame”, e precisa che l’art. 7 citato introduce, appunto, una nuova ipotesi di nullità parziale testuale, “caratterizzata non solo dal tradizionale meccanismo di sostituzione della clausola nulla con la previsione legale ai sensi dell’art. 1339 c.c., ma anche dal più incisivo potere integrativo esercitato ex officio dal giudice”, con conseguente “frantumazione della categoria unitaria della nullità negoziale e del passaggio, per molti versi imposto dagli interventi comunitari, dalla nullità al sistema eterogeneo delle nullità”. Sul carattere parziale della nullità in esame, cfr., altresì, F. Caringella, op. ult. cit., p. 2399 ss.: “Il giudice, pertanto, dichiarata la nullità degli accordi posti in essere in violazione delle prescrizioni previste dai commi 1 e 2 dell’art. 4 e dall’art. 5, ha due soluzioni alternativamente praticabili: l’applicazione del regime legale che, sulla falsariga dell’art. 1419, comma 2, c.c., prevede la sostituzione automatica delle

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derogatorie della disciplina generale della nullità, osterebbe all’accoglimento

di una siffatta soluzione ermeneutica615.

Ad ogni modo, l’art. 7 del d. lgs. n. 231/2002 si distingue per la

introduzione di un potere di controllo assai penetrante da parte del giudice, di

natura correttiva ed integrativa, sotto il duplice profilo dell’equilibrio

normativo e della ragionevolezza economica delle pattuizioni, contribuendo,

in tal modo, “alla demolizione del dogma della volontà e dell’insindacabilità

delle scelte negoziali dei contraenti autonomamente e liberamente

formatesi”616.

clausole nulle con il regime legale suppletivo oppure la riconduzione ad equità del contenuto del contratto che si atteggia come soluzione più soggettiva rimettendo, alla valutazione del giudice, la soluzione del caso concreto. In entrambi i casi si tratta di soluzioni di stampo chiaramente conservativo e che, di conseguenza, precludono l’applicazione della caducazione dell’intero contratto ex art. 1419, comma 1, c.c.”. Secondo l’A. quindi, si tratta di “una nuova ipotesi di nullità parziale testuale caratterizzata, oltre che dal tradizionale meccanismo di sostituzione della clausola nulla ricavabile dal combinato disposto degli artt. 1339 e 1419, comma 2 c.c., anche dal più incisivo potere integrativo in precedenza analizzato, esercitato ex

officio dal giudice”. Al riguardo F. L. Gambaro, op. cit., p. 818, partendo dalla constatazione che i termini di pagamento influenzano il prezzo dedotto in contratto, osserva che la dichiarazione della nullità della clausola relativa agli stessi potrebbe estendersi all’intero contratto, non essendo invocabile in tale ipotesi, secondo l’A., la norma contenuta nel comma 2 dell’art. 1419 c.c., “poiché sia l’art. 4 che l’art. 5 del D. Lgs. n. 231/2002 sono derogabili per volontà delle parti. Tale conclusione tuttavia” - prosegue l’A. - “potrebbe contrastare con l’intenzione del legislatore che sembrerebbe privilegiare invece la continuità del contratto, tra l’altro, consentendo al giudice di ricondurre ad equità il contenuto dell’accordo sui termini di pagamento. Intento, per altro, perseguibile dal giudice della controversia ove si ritenga superato dalla norma qui esaminata, che appunto dispone diversamente, il divieto di convalida del contratto nullo posto dall’art. 1423 del nostro codice civile”. 615 Considerazioni di carattere sistematico, quindi, renderebbero dubbia la qualificazione della nullità ex art. 7 d. lgs. n. 231/2002 in termini di nullità di protezione. Sull’argomento, v. G. Passagnoli, Nullità speciali, cit.; L. Ferroni (a cura di), Le nullità negoziali di diritto comune,

speciali e virtuali , in Il diritto privato oggi, a cura di P. Cendon, Milano, 1998. 616 Così F. Caringella, op. ult. cit., p. 2398. Secondo l’A., la norma in esame “è fortemente eccentrica … per l’intensità del potere giudiziale perché è la prima volta che il legislatore conferisce al giudice il potere d’ufficio di piena sostituzione, a prescindere dall’offerta operata dal soggetto svantaggiato, della clausola contrattuale. Da questo punto di vista il regime è pienamente conservativo rispetto a quello imposto dal legislatore in tema di rescissione e risoluzione per eccessiva onerosità laddove il giudice può effettuare una riconduzione ad equità ma subordinatamente ad un’offerta che deve essere valutata”. Invero, il potere del

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Peraltro, l’affievolimento del dogma della volontà appare ancor più

evidente ove si consideri che il citato articolo 7 sembrerebbe attribuire al

giudice il potere di decidere se applicare i termini legali “ovvero” ricondurre

ad equità il contenuto dell’accordo, indipendentemente dalla volontà del

creditore-contraente debole, il quale potrebbe, ad esempio, preferire il primo

rimedio piuttosto che il secondo617.

Alla luce delle considerazioni che precedono, non v’è dubbio che le

discipline della subfornitura e dei ritardi di pagamento nelle transazioni

commerciali si pongano all’attenzione dell’operatore del diritto in virtù dei

peculiari - e, per certi profili, problematici - meccanismi di tutela in esse

previsti.

Oltre che per questi ultimi, tuttavia, le discipline in esame si segnalano

anche per l’inserimento, nella categoria contrattuale del “contraente debole”,

di una nuova figura, costituita dall’“imprenditore debole”618.

giudice appare ancor più incisivo ove si consideri che il d. lgs. n. 231/2002 non individua i parametri alla cui stregua effettuare concretamente la riconduzione ad equità. 617 Secondo F. Caringella, op. ult. cit., p. 2399 “in tal senso, del resto, depone la stessa normativa comunitaria ove compariva l’espressione <<a meno che>>. Interpretazione questa che sembrerebbe confermare che le prerogative concesse al giudice delineino un importante revirement del legislatore comunitario e, di conseguenza, di quello nazionale in materia di contratto: disegna, infatti, all’orizzonte un sistema di tutela giudiziale che supera il dogma dell’intangibilità del contratto per pervenire alla necessità, laddove l’autonomia negoziale sia mal governata, di un intervento correttivo riconducibile all’attività imparziale del giudice. Attività, peraltro, che dovrà essere orientata a salvaguardare non solo l’equilibrio negoziale ma anche la stabilità e la certezza dei traffici giuridici”. Concorda con tale orientamento P. Sanna, op. cit., p. 265, il quale ritiene la prospettata soluzione <<maggiormente orientata verso la valorizzazione del criterio oggettivo della “corretta prassi commerciale”>>. Nello stesso senso, cfr. R. Conti, Il d.lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati

pagamenti nelle transazioni commerciali, in Corr. giur., n. 1/2003, p. 99 ss. 618 Cfr. P. Sanna, op. cit., p. 265 ss.: “Se in un primo tempo gli interventi comunitari sembravano interessare esclusivamente l’area dei contratti del consumatore, creando un moto centrifugo di questi ultimi rispetto alla disciplina dei contratti commerciali, alla luce degli sviluppi attuali la divaricazione tra transazioni commerciali bilaterali pure, business to

business, ed unilaterali qualificate, business to consumer, sembra vada sempre più riducendo

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A tale riguardo è interessante notare come, per effetto di tale

inserimento, la figura dell’imprenditore, da sempre contrapposta a quella di

consumatore, finisca col collocarsi - seppur limitatamente a determinati

rapporti - accanto a questa nell’ambito del medesimo genus di “contraente

debole”, diventando destinataria di una specifica tutela619.

nel segno unificante di una esigenza generale “di correttezza nei rapporti contrattuali di cui è

teatro il mercato imprenditoriale nella sua concezione più evoluta”. Si assiste all’emersione del nuovo “paradigma” dei contratti caratterizzati da “asimmetria di potere contrattuale”, che pur edificato originariamente sulle discipline dei contratti del consumatore manifesta una forza espansiva che lo proietta al di là di quel campo e che prescinde da una riduttiva e rigida categorizzazione socio-economica delle parti contraenti. Il segno tangibile del new deal in campo contrattuale è rappresentato dai Principles of European Contract Law dove il ricorrere quasi ossessivo del principio di buona fede in senso oggettivo rappresenta una sorta di rito propiziatorio finalizzato alla introduzione di un controllo giudiziale di tutti quegli scambi che fuoriescono dagli usuali parametri mercantili proprio attraverso una correzione del contratto tale da renderlo conforme a buona fede e correttezza. In questo quadro si inscrive anche la previsione dell’art. 7, d.lgs. cit., che, nell’affidare al giudice il compito di ricondurre ad equità il contenuto dell'accordo gravemente iniquo, sembra vulnerare il principio della sanctity of

contract proprio all'interno del suo sancta sanctorum rappresentato dai rapporti contrattuali tra imprenditori”. Sull’argomento, v., altresì, R. Quadri, <<Nullità>> e tutela del <<contraente

debole>>, in Contratto e Impresa, n. 3/2001, p. 1143 ss.; F. Di Marzio, Ancora sulla nozione

di «consumatore» nei contratti, cit., p. 688 ss.; Id., Intorno alla nozione di «consumatore» nei

contratti, cit., p. 2151 ss. 619 Cfr. il considerando n. 13 della Direttiva 2000/35/CE sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, il quale afferma: “La presente direttiva dovrebbe essere limitata ai pagamenti effettuati a titolo di corrispettivo per una transazione commerciale e non disciplina i contratti con consumatori, gli interessi relativi ad altri pagamenti, ad esempio pagamenti a norma di legge per assegni o titoli di credito o pagamenti effettuati a titolo risarcimento danni ivi compresi i pagamenti effettuati da un assicuratore”. V. anche P. Sanna, op. cit., p. 265 ss.: “Sotto il profilo soggettivo la disciplina del recepimento riguarda esclusivamente transazioni commerciali bilaterali “pure”, ovvero contratti stipulati tra imprese o tra imprese e pubblica amministrazione. Il dato appare significativo giacché se è vero che al fine di circoscrivere il proprio ambito d’applicazione le direttive costituenti il diritto europeo dei contratti utilizzano generalmente un elemento soggettivo, lo status delle parti contraenti, affiancato da ulteriori elementi di natura oggettiva, non è meno vero che le norme europee disciplinano in prevalenza transazioni commerciali unilaterali qualificate, ovvero tra un consumatore ed un professionista, mentre del tutto residuale appare l’intervento del legislatore comunitario nel campo delle transazioni commerciali bilaterali pure. Il d.lgs. n. 231/02 s’iscrive invece proprio in tal ultimo novero a cui può de plano ricondursi anche la previgente disciplina della subfornitura nelle attività produttive, l. 18 giugno 1998, n. 192, che non a caso presenta alcune analogie con la nuova normativa e su cui quest’ultima è venuta ad incidere”.

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Questo profondo mutamento di prospettiva, conseguenza dei moderni

assetti economici, rappresenta il forte sintomo di una rinnovata attenzione, da

parte del legislatore, al problema dell’equilibrio contrattuale, riguardato

soprattutto sotto il profilo giuridico620.

620 Sul punto, v. P. Mengozzi, Lo squilibrio delle posizioni contrattuali, cit.

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CAPITOLO XII

LEGGE 7 MARZO 1996, N. 108: DISPOSIZIONI IN MATERIA DI USURA

Nell’ambito della legislazione extracodicistica volta a regolare il

fenomeno dello squilibrio contrattuale, assume una collocazione del tutto

peculiare la legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di

usura621.

In merito al fenomeno usurario, occorre premettere che il Codice civile

del 1865, coerentemente con la propria matrice liberale, sanciva la piena

libertà dei contraenti di fissare gli interessi per le operazioni di mutuo, con il

solo limite della forma scritta in caso di pattuizione di un tasso convenzionale

eccedente la misura legale; in caso di inosservanza di tale vincolo formale,

nessun interesse era dovuto622.

621 V. G. E. Napoli, Usura reale e rescissione per lesione, in Riv. dir. civ., 2004, p. 401; Guizzi, Congruità dello scambio e contratti di credito, in AA. VV., Squilibrio e usura nei

contratti, a cura di Vettori, Padova, 2002, p. 445; G. Meruzzi, Il contratto usurario tra nullità

e rescissione, cit., p. 410; D. Sinesio, Gli interessi usurari, Napoli, 1999; G. Collura, La

nuova legge dell’usura e l’art. 1815 c.c., in Contratto e Impresa, 1998, p. 602; A. Riccio, Le

conseguenze civili dei contratti usurari: è soppressa la rescissione per lesione ultra

dimidium?, cit., p. 1027; M. Cerase, L’usura riformata: primi approcci a una fattispecie

nuova nella struttura e nell’oggetto di tutela, in Cass. pen., 1997, p. 2595; L. Ferroni, La

nuova disciplina civilistica del contratto di mutuo ad interessi usurari, Napoli, 1997; R. Teti, Profili civilistici della nuova legge sull’usura, in Riv. dir. priv., n. 3/1997, p. 465; E. Quadri, Usura e legislazione civile, cit., p. 890; Id., Profili civilistici dell’usura, in Foro it., 1995, V, c. 337; G. Bonilini, La sanzione civile dell’usura, in I Contratti, 1996, p. 223; G. Alpa, Usura:

problema millenario, questioni attuali, in Nuova giur. civ. comm., 1996, p. 181. 622 Cfr. art. 1831 c.c. del 1865: “L’interesse è legale o convenzionale. L’interesse legale è determinato nel cinque per cento in materia civile e nel sei per cento in materia commerciale, e si applica nei casi in cui l’interesse sia dovuto e manchi una convenzione che ne stabilisca la misura. L’interesse convenzionale è stabilito a volontà dei contraenti. Nelle materie civili l’interesse convenzionale, eccedente la misura legale, deve risultare da atto scritto; altrimenti non è dovuto alcun interesse”. Come chiarito nella Relazione

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L’idea liberale ispirò anche il Codice penale del 1889, il quale, infatti,

non conteneva alcuna disposizione concernente l’usura623.

Tale scelta, tuttavia, condusse al dilagare di approfittamenti a danno dei

contraenti economicamente più deboli e, quindi, a veri e propri fenomeni

usurari624.

Una svolta fu segnata dal codice penale Rocco del 1930, che all’art. 644

puniva l’usuraio, cioè colui che “approfittando dello stato di bisogno di una

persona, si fa da questa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per

altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile,

interessi o altri vantaggi usurari”625.

ministeriale, la prescrizione di un vincolo formale per l’ipotesi di pattuizione di interessi extralegali “equivale ad un appello alla pubblica opinione ed esercita la più efficace influenza sul pudore del mutuante, il quale non oserebbe sfidare con cinico coraggio la pubblica riprovazione che colpisce l’usuraio”. È interessante notare come anche il Codice civile del 1942 prescriva, all’art. 1284, comma 3, la forma scritta per la pattuizione di interessi in misura ultralegale, anche se con una funzione diversa rispetto all’art. 1831 c.c. 1865. Difatti, mentre quest’ultima norma era dettata con specifico riguardo al contratto di mutuo, al fine di sanzionare i fenomeni usurari, l’art. 1284 cit. si inserisce nella disciplina generale delle obbligazioni pecuniarie, con la funzione, non sanzionatoria, bensì di “informare il debitore dell’onere ulteriore che si aggiunge alla prestazione principale” (così D. Sinesio, Interessi

pecuniari fra autonomia e controlli, Milano, 1989, p. 31 ss.). La funzione sanzionatoria un tempo assolta dall’art. 1831 c.c. 1865 è attualmente rinvenibile nell’art. 1815, comma 2, c.c., il quale prevede la perdita di qualsiasi remunerazione in caso di pattuizione di interessi usurari. 623 Cfr. G. Meruzzi, Il contratto usurario tra nullità e rescissione, cit., p. 425. 624 Cfr. A. Riccio, Il contratto usurario nel diritto civile, Padova, 2002, p. 32 ss.. 625 Secondo G. Meruzzi, op. ult. cit., p. 425, tale disposizione “finiva per coniugare, sotto l’insegna di un’unitaria sanzione penale, i due istituti dell’usura e della lesione, storicamente ben distinti tra loro, ma ormai assimilati dal comune profilo della sproporzione tra le prestazioni dedotte in contratto”. Riguardo all’originaria formulazione dell’art. 644 c.p., occorre evidenziare l’assenza di qualsiasi parametro attraverso cui valutare l’usurarietà dell’interesse o del vantaggio. In merito, cfr. Relazione ministeriale sul progetto del codice

penale, II, p. 467, secondo cui non sarebbe possibile individuare una soglia oltre la quale gli interessi sono sempre usurari, attese la varietà ed eterogeneità degli elementi da cui dipenderebbe il delitto di usura. In difetto di indicazioni legislative, la giurisprudenza enucleò la nozione di usurarietà con riferimento ai correnti prezzi di mercato, talvolta valutati unitamente alle condizioni soggettive dei contraenti. Cfr. Tribunale Torino, 14 giugno 1932, in Rep. Foro it., 1933, voce Usura, n. 11: “Sono usurari gli interessi notevolmente superiori a

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In base a tale disposizione, giurisprudenza e dottrina maggioritaria

ritennero che, sul piano civilistico, il contratto usurario dovesse qualificarsi

nullo per illiceità della causa, sempre che ricorressero, in concreto, tutti gli

elementi costitutivi del reato di usura (dazione o promessa di interessi o

vantaggi usurari; approfittamento dello stato di bisogno)626.

In tale contesto normativo si venne ad inserire il codice civile del 1942

che, a esplicita tutela della vittima del reato di usura, da un lato stabilì il

rimedio dell’azione generale di rescissione per lesione per i contratti usurari e,

dall’altro, dettò la cogente disposizione del vecchio testo dell’art. 1815 che,

per il caso di mutuo, sanciva la nullità della clausola di interessi usurari e

imponeva la “misura legale” per essi627.

quelli normalmente praticati sulla piazza”; Cass. Regno, 12 dicembre 1935, in Rep. Foro it., 1935, voce Interessi, nn. 22 e 23: “Perché l’interesse pattuito possa ritenersi usurario, non basta che esso superi quello legale, ma che superi in più o meno larga misura i limiti segnati dal prezzo di mercato del denaro, e dalla maggiore o minore sicurezza di recupero di questo”; Tribunale Torino, 18 novembre 1935, in Rep. Foro it., 1936, voce Usura, n. 18: <<Un beneficio si può chiamare “usurario”, quando è elevatamente sproporzionato alla controprestazione per cui viene accordato, in relazione sia alle condizioni generali del mercato economico del luogo e del momento, sia alle condizioni particolari delle persone contraenti, sia al rischio che si corre”. 626 Tale soluzione rappresentava un compromesso tra l’impostazione liberista del Codice civile del 1865 (che sanciva il principio di equivalenza soggettiva tra le prestazioni, in virtù del quale le parti erano libere di fissare la misura degli interessi) e quella solidaristica del Codice penale Rocco. Per ampi riferimenti agli Autori e alle sentenze che aderirono a tale orientamento, v. G. Meruzzi, op.ult. cit., p. 433 ss.. 627 Come si è visto in precedenza, il Codice civile del 1865 contemplava un unico rimedio, peraltro di carattere formale, contro il fenomeno usurario; quanto alla rescissione, esso ne limitava l’applicazione alle specifiche ipotesi di divisione (artt. 1038 ss.) e di vendita immobiliare (artt. 1529 ss.). In particolare, l’art. 1529, a differenza degli artt. 1447 e ss. c.c. 1942, prescindeva da ogni rilievo soggettivo e sanzionava il mero squilibrio tra le prestazioni, individuando quale lesione rilevante quella ultra dimidium: “Il venditore che è stato leso oltre la metà nel giusto prezzo di un immobile, ha il diritto di chiedere la rescissione della vendita, ancorché nel contratto avesse rinunziato espressamente alla facoltà di domandare una tale rescissione, ed avesse dichiarato di donare il di più del valore”. La previsione di un limite quantitativo per la esperibilità dell’azione di rescissione rispondeva all’esigenza di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, impedendo che la rescissione diventasse uno strumento per neutralizzare il principio di equivalenza soggettiva tra le prestazioni. Il concetto di lesione

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Tuttavia, nonostante la chiara intenzione del legislatore di introdurre,

mediante gli artt. 1448 e ss. c.c. - e, quindi, per i contratti diversi da quelli di

finanziamento, rientranti nella previsione dell’art. 1815, comma 2 - uno

specifico rimedio civilistico a tutela della vittima del reato di usura628, non

mancarono, in dottrina, orientamenti volti ad escludere che l’unico referente

civilistico sanzionatorio, in caso di usura realizzata mediante contratti diversi

da quelli di finanziamento, fosse rappresentato dalla normativa in tema di

rescissione per lesione629.

ultra dimidium, fu ripreso dall’art. 1448 c.c. 1942, con la ulteriore funzione di definire i limiti di configurabilità del delitto di usura, attesa la mancata indicazione, nel Codice penale Rocco, di qualsiasi parametro per la valutazione della usurarietà di interessi e vantaggi. Sul punto, cfr. Relazione del Guardasigilli, n. 186: “Poiché il codice penale non dà criteri per la determinazione del concetto di vantaggi usurari, mi è sembrata anzi utile una corrispondente disposizione del codice civile che in definitiva potesse intendersi come limite della nozione di usura”. 628 Cfr. la Relazione al Re, n. 125, nella quale si afferma che il Codice civile del 1942 si è voluto rigorosamente coordinare con l’art. 644 c.p. “fino al punto da lasciar presumere che si sia voluta dare una precisazione dei presupposti civilistici della sanzione comminata nell’art. 644 suddetto. È questa anzi la portata prevalente dell’azione generale di lesione introdotta con l’art. [1448], in quanto saranno rari i casi (permuta di immobili, contratti con reciproco scambio di prestazioni di fare) in cui l’azione stessa potrà operare al di fuori dell’ambito della norma penale”. Cfr., altresì, la Relazione della Commissione Reale, p. 14: “Si è voluto, con questa disposizione, colpire l’usura, nel più largo senso della parola, e nelle sue forme più varie. Perciò si è rinunziato allo stesso nome di usura, che spesso richiama l’idea di un semplice prestito ad un tasso troppo alto, e si è rinunziato anche, e tanto più, alla limitazione legale dei tassi d’interessi”. L’intenzione del legislatore di proteggere, mediante l’istituto rescissorio, la vittima dell’usura emerge, in particolare, dall’art. 1449 c.c., che, in tema di prescrizione dell’azione di rescissione, fa espresso riferimento alla ipotesi in cui il fatto integri gli estremi del reato. In proposito, v. Relazione della Commissione Reale, p. 14: “Occorreva difendere il contraente debole contro il più forte e cattivo, indipendentemente anche dalla punibilità di costui dal punto di vista del diritto penale”. Cfr. G. Passagnoli, Il contratto

usurario tra interpretazione giurisprudenziale e interpretazione <<autentica>>, in AA. VV., Squilibrio e usura nei contratti, cit., p. 34; G. Meruzzi, op. ult. cit., p. 442; E. Quadri, Profili

civilistici dell’usura, cit., c. 341; G. B. Ferri, Appunti sull’invalidità del contratto, dal codice

civile del 1865 al codice civile del 1942, in Riv. dir. comm., 1996, I, p. 367 ss.; Id., Interessi

usurari e criterio di normalità, in Riv. dir. comm., 1975, p. 289. 629 In estrema sintesi, all’orientamento dottrinale propenso ad una netta separazione tra il concetto di usura e quello di lesione (F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., p. 465 ss.; De Cupis, La distinzione fra usura e lesione nel codice civile vigente, in Dir. fall., 1946, I, p. 77 ss.; Stolfi, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, p. 218 ss.; G. Giampiccolo,

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La giurisprudenza, dal suo canto, continuò a distinguere il contratto

usurario dal contratto con lesione enorme, considerando il primo nullo ed il

secondo rescindibile630.

La sanzione della nullità veniva esclusa soltanto in presenza di un

contratto di mutuo 631 , operando, in tal caso, la diversa sanzione della

Comodato e mutuo, in Tratt. dir. civ., diretto da Grosso e Santoro Passarelli, V, 7, Firenze, 1972, p. 89 ss.), se ne è contrapposto un altro, che ha ravvisato, invece, una tendenziale identità tra le due nozioni (Alb. Candian, Contributo alla dottrina dell’usura e della lesione, cit., p. 50 ss.; G. Mirabelli, La rescissione del contratto, cit.; Simonetto, I contratti di credito, Padova, 1953; Iannuzzi, In tema di interessi usurari, in Giust. pen., 1953, II, c. 351 ss.; Ascarelli, Obbligazioni pecuniarie, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1968, p. 590 ss.). Secondo il primo orientamento, la locuzione “altra cosa mobile” contenuta nell’art. 644 c.p., andrebbe intesa in senso restrittivo, dovendo riferirsi alle sole cose mobili fungibili; in questo modo, l’operatività della norma penale risulta limitata alle ipotesi di mutuo usurario, sanzionate, sul piano civilistico, dall’art. 1815 cpv. c.c. (in particolare, cfr. De Cupis, op. cit., p. 80 ss. e G. Stolfi, op. cit., p. 219 ss.). Peraltro, la nozione penale di usura è considerata meno ampia di quella civilistica, in quanto, mentre l’art. 1815, comma 2, c.c. si riferisce esclusivamente agli “interessi usurari”, l’art. 644 c.p. richiede, quale ulteriore requisito, l’approfittamento dello stato di bisogno; da ciò discende il carattere autonomo della sanzione civile rispetto a quella penale (cfr. De Cupis, Usura e approfittamento dello stato di bisogno, in Riv. dir. civ., 1961, I, p. 506 ss.; G. Giampiccolo, op. cit., p. 90 ss.). Il secondo orientamento, più aderente alle intenzioni del legislatore del 1942, presenta, al proprio interno, diversi filoni. Secondo alcuni Autori, infatti, vi sarebbe perfetta coincidenza tra usura e lesione, per cui la rescissione rappresenta l’equivalente civilistico dell’usura e l’art. 1815, comma 2, c.c. va inteso quale norma speciale, inerente alla specifica ipotesi del mutuo (cfr. Simonetto, op. cit., p. 272 ss.; Mirabelli, op. cit., p. 128 ss.). Altri ritiene che la disciplina della rescissione abbia un ambito di applicazione più esteso rispetto all’usura, poiché, dal punto di vista soggettivo, richiede un atteggiamento psicologico meramente passivo (la consapevolezza dell’altrui stato di bisogno), mentre l’usura penale presuppone un comportamento efficiente, ossia l’approfittamento (cfr. A. Montel, Della rescissione del

contratto, cit., p. 758 ss.). Un terzo filone, infine, ricollega l’art. 1815 cpv. c.c. non all’art. 644 c.p., bensì all’art. 1448 c.c., considerandolo, rispetto a quest’ultimo, norma speciale, il cui elemento peculiare sarebbe rappresentato unicamente dalla sanzione e per la cui operatività sarebbero, quindi, richiesti i medesimi presupposti della rescissione (F. Carresi, Il comodato.

Il mutuo, in Tratt. dir. civ. diretto da Vassalli, VIII, 2, Torino, 1957, p. 110 ss.; Libertini, Interessi, in Enc. Dir., vol. XXII, Milano, 1972, p. 95 ss.). Per riferimenti più ampi ai vari orientamenti dottrinali, v. A. Riccio, Il contratto usurario nel diritto civile, cit., p. 92 ss. e G. Meruzzi, op. ult. cit., p. 442 ss.. 630 Cfr. Cass., 15 marzo 1947, n. 389, in Giur. it., 1948, I, p. 50, che distingue tra l’usura prevista dall’art. 644 c.p. ed il contratto con lesione oltre la metà di cui all’art. 1448 c.c., in base alla considerazione che “l’elemento soggettivo del delitto di usura non consiste nella semplice conoscenza dello stato di bisogno dell’altro contraente, bensì dalla volontà di porre in essere atti usurari”.

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riduzione della clausola usuraria prevista dall’art. 1815 cpv. c.c., sempre che

sussistesse l’elemento psicologico richiesto dall’art. 644 c.p.632.

Tale orientamento, fortemente criticato 633 , muoveva dalla diversa

intensità qualitativa-quantitativa dell’approfittamento dell’altrui stato di

bisogno634.

631 Cass., 20 novembre 1957, n. 4447, in Giur. it., I, 1, c. 1337 ss., con nota di M. Berri, Illiceità della causa di un contratto commutativo usurario ai sensi dell’art. 644 codice penale, precisa che “il delitto di usura può consumarsi non solo per mezzo del contratto di mutuo, ma anche per mezzo di ogni altro contratto in cui la prestazione di una delle parti o i vantaggi che essa ne ricava sono sproporzionati alla prestazione dell’altra parte, la quale sia stata costretta ad acconsentire un siffatto squilibrio in quanto versava in istato di bisogno”. 632 Cfr. Cass., 22 giugno 1968, n. 2104, in Rep. Foro it., 1968, voce Mutuo, n. 12: “La illiceità della convenzione usuraria, ai sensi dell’art. 1815, 2° comma, c.c., si verifica solo quando il patto di interessi superiori alla misura legale sia stipulato nelle condizioni richieste dall’art. 644 c.p., per la sussistenza del reato di usura”; Cass., 24 giugno 1966, n. 1615, in Rep. Foro

it,, 1966, voce Mutuo, n. 6: “La nullità della clausola con cui sono stati convenuti interessi usurari e la riduzione di questi alla misura legale contenuta nell’art. 1815 c.c. richiama necessariamente la nozione penalistica di usura e presuppone, quindi, oltre ad un vantaggio esagerato per il creditore, anche lo stato di bisogno del debitore, e il conseguente profitto trattone consapevolmente dall’altra parte contraente”; Cass., 16 maggio 1966, n. 1158, in Rep.

Foro it., voce Mutuo, n. 11: “La nullità del negozio per la pattuizione di interessi usurari può essere denunciata o rilevata di ufficio anche in sede di legittimità, purché nel giudizio di merito siano accertati tutti gli elementi che integrano gli estremi del reato di cui all’art. 644 c.p.”. 633 V. E. Quadri, Profili civilistici dell’usura, cit., c. 342, il quale ritiene che “la giurisprudenza, per una sorta di trascinamento delle soluzioni consolidate, ha sostanzialmente finito, al riguardo, col trascurare quasi integralmente l’avvenuta evoluzione della legislazione civile, perdendo l’occasione di sfruttarne le notevoli potenzialità”, in aperto contrasto con le intenzioni del legislatore, “fedelmente trasfuse nella configurazione dei presupposti dell’azione di rescissione, delineati in maniera del tutto corrispondente a quelli contemplati nell’art. 644 c.p. e consistenti nell’approfittamento, per trarne vantaggio, dell’altrui stato di bisogno”. Secondo l’A. si tratta di una evidente forzatura “che non trova assolutamente appiglio nel confronto dei testi delle due disposizioni in gioco, già a prima vista del tutto omogenee, e che, tra l’altro, finisce col rendere impraticabile ed inspiegabile l’art. 1449 c.c., laddove ipotizza, sotto il profilo della prescrizione dell’azione di rescissione, proprio la ricorrenza di un fatto costituente reato (che non può essere, ovviamente, se non quello previsto dall’art. 644 c.p.)”. La ricostruzione dei rapporti tra usura e rescissione operata dalla giurisprudenza è criticata anche da G. Meruzzi, op. ult. cit., p. 454 ss., sulla base di due argomentazioni, l’una di carattere giuridico, l’altra di carattere storico. Da un lato, infatti, l’A. evidenzia che “il reato di usura si caratterizza per l’illiceità ex uno latere del comportamento penalmente sanzionato. Il contratto usurario non è finalizzato a porre in essere un’operazione di per se stessa riprovevole, ma attinge la riprovevolezza che giustifica la sanzione penale dalla situazione di minorata libertà contrattuale in cui versa la vittima, dall’invasione della

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Esso, infatti, riteneva necessario, ai fini della configurabilità del delitto

di usura e, quindi, della nullità del contratto usurario per illiceità della causa,

un comportamento del contraente avvantaggiato diretto ad incidere sulla

determinazione della volontà del contraente bisognoso, per farsi dare o

promettere interessi o altri vantaggi usurari, laddove, ai fini della rescissione,

era sufficiente che l’agente, essendo a conoscenza dello stato di bisogno del

soggetto passivo, si fosse limitato a trarne profitto635.

sfera d’interessi di quest’ultima posta in essere dalla controparte contrattuale. Il soggetto usurato acquisisce, tramite, la stipulazione del contratto, un vantaggio economico in sé del tutto lecito, mirando egli a procurarsi un bene di cui ha bisogno per soddisfare le proprie necessità”. Pertanto, ad avviso dell’A., “la sanzione penale prevista per il reato di usura non è posta a tutela di un interesse di ordine pubblico, e non giustifica quindi l’illiceità ex se del contratto usurario. Più che di contrarietà all’ordine pubblico, e di conseguenza di contratto illecito, si dovrà in tale ipotesi parlare di contratto contrario a norme imperative. Qualificazione da cui discende, di norma, la sanzione della nullità (art. 1418, c. 1°), la quale può essere evitata, come nel caso dell’usura accade, tramite una diversa reazione da parte dell’ordinamento giuridico”. Inoltre, da un punto di vista storico e logico, ancor prima che normativo, l’A. osserva che “con l’avvento del capitalismo, che ha trasformato il contratto di mutuo da strumento per soddisfare esigenze di consumo ad operazione finalizzata ad avviare il ciclo economico, il vocabolo usura assume la diversa fisionomia concettuale che a tuttoggi lo caratterizza, di operazione sinallagmaticamente squilibrata”, con conseguente sovrapposizione dei concetti di usura e rescissione. Difatti, “se la remunerazione del capitale costituisce un lucro indebito solo nella misura in cui risulta eccessiva, la chiave di volta concettuale, per comprendere il fenomeno usura, diventa la nozione di sproporzione; ovvero la medesima nozione che, tramite il concetto di giustizia commutativa derivatoci dal diritto romano, è alla base dell’originaria nozione di rescissione. L’usura diviene, in tal modo, una nozione di specie rispetto alla lesione; se si preferisce, una forma qualificata di lesione”. 634 Così A. Riccio, Le conseguenze civili dei contratti usurari, cit., p. 1031. 635 Cfr. Cass., 15 marzo 1947, n. 389, cit.; Cass., 20 novembre 1957, n. 4447, cit.: “L’estremo caratterizzante il rapporto usurario sta nella volontà dell’agente di conseguire, coll’approfittarsi dello stato di bisogno della persona con cui vien stretto il rapporto, un vantaggio usurario. Invece la lesione ultra dimidium, contemplata nelle sue linee generali dall’art. 1448 codice civile, non si configura quale ipotesi delittuosa, prescinde dal dolo secondo intenzione e si concretizza nell’approfittamento (nella proporzione precisata da detta norma) della parte che sia stata anche semplicemente consapevole dello stato di bisogno dell’altro contraente”. Con tale statuizione la Corte di Cassazione intese fare chiarezza sulla questione inerente ai rapporti tra il delitto di usura e la rescissione per lesione, atteso che vi erano state, in precedenza, alcune pronunce che, in contrasto con Cass. n. 389/1947, avevano affermato la sostanziale sovrapponibilità tra le due figure. In particolare, Cass., 29 marzo 1950, n. 838, aveva individuato, quali elementi costitutivi del contratto usurario, gli stessi della rescissione

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In definitiva, secondo il pacifico e consolidato orientamento

giurisprudenziale, l’istituto civilistico della rescissione presentava, rispetto

alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 644 c.p., un autonomo ambito di

operatività, ricomprendente le ipotesi non costituenti reato636.

per lesione, vale a dire, il vantaggio usurario conseguito, lo stato di bisogno di uno dei contraenti, il profitto illegittimamente ottenuto dall’altro contraente in conseguenza dell’approfittamento di tale stato di bisogno. Distingue tra usura e rescissione anche Cass., 19 gennaio 1976, n. 55, in Mass. Giur. it., 1976, p. 19 e in Rep. Foro it., 1976, voce Prescrizione e decadenza, n. 166: “Per applicare all’illecito civile la più lunga prescrizione stabilita per l’illecito penale, non basta che nel primo sia eventualmente configurabile un’ipotesi di reato, ma occorre che il fatto che lo sostanzia integri in tutti gli estremi, oggettivi e soggettivi, i presupposti di cui la norma incriminatrice richiede l’esistenza per la configurabilità del fatto come reato. Da ciò consegue che la sola comunanza del presupposto dello stato di bisogno della vittima è inidonea a determinare la sostanziale coincidenza della fattispecie del contratto rescindibile per lesione ultra dimidium con quella del delitto di usura, giacché la previsione della norma penale include anche la pretesa, sia pure soltanto implicita, del vantaggio usurario da parte dell’agente, mentre la norma civilistica, più ampia, non richiede come necessario un comportamento diretto a operare sulla determinazione della volontà del contraente bisognoso, ma valuta come sufficiente all’effetto giuridico rescissorio anche la mera consapevolezza da parte del contraente avvantaggiato di trarre dalla stipulazione del contratto una immoderata utilità economica grazie allo stato di bisogno della controparte”. A ben considerare, tuttavia, tale pronuncia sembrerebbe discostarsi dal tradizionale orientamento giurisprudenziale, in quanto lascia intendere che, in presenza degli elementi costitutivi del delitto di usura, il contratto sia rescindibile (entro il termine di prescrizione del reato medesimo, anziché in un anno) e non nullo per illiceità della causa. Nello stesso senso, cfr. Cass., 26 gennaio 1980, n. 642, in Arch. civ., 1980, p. 681: “Il trasferimento della proprietà di un bene il cui valore sia di gran lunga superiore all’ammontare del debito che con quel trasferimento venga pagato integra quel vantaggio usurario che vale a configurare il debito di usura previsto dall’art. 644 cod. pen., sicché, ove sia dedotto come fatto costitutivo della rescissione del contratto per lesione ultra dimidium, il giudice deve accertare la sussistenza di tale fatto e la correlativa configurabilità, in concreto, del delitto di usura, al fine di applicare all’azione di rescissione la prescrizione prevista per l’azione penale relativa a tale delitto”. 636 Cfr., di recente, Cass., 22 gennaio 1997, n. 628, in Giur. it., 1998, p. 926, con nota di F. Riccio: “L’ipotesi delittuosa contemplata dall’art. 644 c.p. (usura), della quale è elemento costitutivo quello stesso approfittamento dell’altrui stato di bisogno che è requisito della fattispecie civilistica della rescissione del contratto per lesione (art. 1448 c.c.), presuppone la pretesa, sia pure soltanto implicita, del vantaggio usurario da parte dell’agente (si ha usura quando taluno <<si fa>> dare o promettere un immodico vantaggio, quando, cioè, si adoperi attivamente per ottenerlo), mentre la norma civilistica, più ampia, non richiede come necessario un comportamento diretto ad operare sulla determinazione della volontà del contraente bisognoso, ma valuta, come sufficiente all’effetto giuridico rescissorio, anche la mera consapevolezza, da parte del contraente avvantaggiato, di trarre dalla stipulazione del contratto una immoderata utilità economica, grazie allo stato di bisogno della controparte”.

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In queste ultime, peraltro, rientravano anche le ipotesi indicate con la

espressione “usura reale”, vale a dire le fattispecie concernenti prestazioni

aventi ad oggetto diritti immobiliari o servizi ed altre attività professionali, le

quali, attesa la originaria formulazione dell’art. 644 c.p., erano penalmente

irrilevanti637.

Negli ultimi quindici anni il legislatore italiano ha assunto un

atteggiamento più severo nei confronti del fenomeno usurario, evidenziato

dall’inasprimento del trattamento sanzionatorio previsto per l’ipotesi base,

nonché dall’ampliamento delle fattispecie penalmente rilevanti638.

Sulla base di tale consolidato principio, la sentenza in esame ha ribadito la nullità del contratto usurario per illiceità della causa. 637 Il citato articolo 644, infatti, si riferiva esclusivamente al “corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile”. In proposito, cfr. Cass., 22 gennaio 1997, n. 628, cit., secondo cui l’usura si può realizzare non solo mediante un contratto di mutuo, “ben potendo qualsiasi altro contratto, anche preliminare, che importi trasferimento di diritti od assunzione di obblighi verso un determinato corrispettivo, in danaro, beni o servizi, costituire il mezzo concreto utilizzato dall’agente per farsi dare o promettere, approfittando dell’altrui stato di bisogno, in corrispettivo di una somma di danaro o di altra cosa mobile, <<interessi o altri vantaggi usurari>> (art. 644, 1° comma, c.p.)”. 638 In tale prospettiva si colloca l’art. 11-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356, con il quale, al fine di contrastare la criminalità mafiosa, la pena edittale dell’art. 644 c.p. passò dalla reclusione fino a due anni alla reclusione “da un anno a cinque anni”, fu introdotta l’aggravante speciale del fatto commesso nell’esercizio di attività professionali o di intermediazione finanziaria ed, infine, venne inserito l’art. 644bis c.p. (usura impropria). Tale ultima norma - successivamente abrogata dalla L. n. 108/1996 - così recitava: “Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 644, approfittando delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria di persona che svolge una attività imprenditoriale o professionale, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da lire quattro milioni a lire venti milioni. Alla stessa pena soggiace chi, fuori dei casi di concorso nel delitto previsto dal comma precedente, procura ad una persona che svolge una attività imprenditoriale o professionale e che versa in condizioni di difficoltà economica o finanziaria una somma di denaro o un’altra cosa mobile, facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario. Si applica la disposizione del terzo comma dell’articolo 644”. Sulle finalità perseguite attraverso la introduzione del delitto di usura impropria, v. Albamonte, L’usura

impropria nella legge n. 356 del 1993, in Cass. pen., 1993, p. 226 ss.; Bellacosa, Usura

impropria, in Enc. giur., XXXII, Roma, 1994, p. 1 ss.; Prosdocimi, Aspetti e prospettive della

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In particolare, la legge 7 marzo 1996, n. 108 ha riscritto l’art. 644 c.p.,

interferendo con il parallelismo sussistente tra norma civile e norma penale in

tema di usura639.

Infatti, malgrado l’espresso intento di sostituire il citato art. 644 c.p.

(art. 1) e, quindi, di limitare la propria portata innovativa al diritto penale, la

legge in questione presenta notevoli risvolti in campo civile.

Precisi riscontri in tal senso possono rinvenirsi nello stesso art. 1 (ove vi

è un riferimento alle restituzioni e al risarcimento del danno in favore della

persona offesa dal reato), nell’art. 16 (dove si prescrive che l’attività di

intermediazione finanziaria sia svolta previa iscrizione in un apposito albo) e,

soprattutto, nell’art. 4.

Tale ultima disposizione, infatti, sostituisce il 2° comma dell’art. 1815

c.c., decretando la nullità della clausola di interessi usurari nel contratto di

mutuo, con conseguente conversione del contratto medesimo da oneroso in

gratuito (“la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”), in deroga a quanto

previsto dall’art. 1419, comma 1, c.c.640.

disciplina penale dell’usura, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, p. 575 ss.; E. Quadri, Profili

civilistici dell’usura, cit., c. 349. 639 Tale normativa si inserisce nel quadro di riforme istituzionali volte alla progressiva erosione degli organismi illeciti, mediante il depotenziamento dei tessuti economici e finanziari (sul punto, cfr. Martucci, Usura: moltiplicatore del circuito criminale, in Economia,

Società e istituzioni, 2000, p. 199 ss., il quale evidenzia come la capacità di muovere in breve tempo cospicue somme di denaro consenta alle organizzazioni criminali di riciclare facilmente i proventi delle proprie attività e di occultare le operazioni finanziarie illecite). Tuttavia, la nuova nozione di usura introdotta dalla disciplina de qua, ha generato non poche difficoltà interpretative e di armonizzazione con il diritto civile. 640 Cfr. F. Caringella, Studi di Diritto Civile, cit., p. 2427 ss., il quale parla di nullità conservativa del contratto, “una nullità, cioè, che non elimina l’intero contratto di mutuo usurario ma che incide, caducandola, solo sulla clausola con la quale si pattuiscono interessi usurari”. L’art. 1815, comma 2, c.c. viene collocato, da alcuni Autori, nell’ambito delle sanzioni civili indirette, in virtù del suo contenuto eminentemente sanzionatorio. In tal senso, cfr. F. Galgano, Alla ricerca delle sanzioni civili indirette, in Contratto e Impresa, 1987, p.

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Da quanto esposto, discende che l’attenzione rivolta dalla nuova

normativa ai profili civilistici dell’usura è circoscritta alla specifica ipotesi

della stipulazione di un contratto di mutuo usurario; quanto agli altri contratti

che la vittima dell’usura reale stipula con l’usuraio, è rimesso all’interprete il

compito di raccordare le varie norme a sua disposizione, al fine di stabilire se

tali negozi siano inficiati o meno, ed eventualmente in quale misura, da cause

di invalidità.

Orbene, considerato che la normativa che tradizionalmente ha dato

risposta civilistica all’usura reale è proprio quella che prevede il rimedio

dell’azione generale di rescissione per lesione, sarà opportuno porre a

raffronto la normativa penale con quella contenuta negli artt. 1448 ss. c.c..

A tal proposito, va osservato che, se prima della riforma del 1996 i

presupposti della rescindibilità di un contratto per lesione ex art. 1448 c.c.

potevano ritenersi presenti anche nella fattispecie di cui all’art. 644 c.p., in

seguito all’entrata in vigore della legge n. 108/1996 tale sovrapponibilità non

è più garantita641.

532; Prosdocimi, La nuova disciplina del fenomeno usurario, in Studium iuris, 1996, p. 781; G. Bonilini, La sanzione civile dell’usura, cit., p. 223; L. Ferroni, La nuova disciplina

civilistica del contratto di mutuo ad interessi usurari, cit., p. 72. Secondo C. M. Bianca, Il

contratto, cit., p. 689, la conversione del contratto di mutuo usurario da oneroso in gratuito, prevista dall’art. 1815 cpv. c.c., costituisce un esempio di pena privata. Contra, G. Collura, op. cit., p. 608 ss., il quale ritiene inadeguato l’inquadramento dell’art. 1815 cpv. c.c. nella categoria delle pene private, in quanto “l’effetto - per così dire - sanzionatorio non è perseguito attraverso l’attribuzione di una somma di denaro alla vittima dell’illecito, bensì attraverso la conservazione del contratto privato della remunerazione del godimento”. L’A., inoltre, esclude che l’art. 1815 cpv. c.c. possa essere collocato nell’ambito della conversione del negozio nullo, poiché quest’ultima “suppone un giudizio positivo sulla volontà ipotetica dei contraenti. Ma soprattutto l’inquadramento del dispositivo dell’art. 1815 nella previsione dell’art. 1424 impinge nella soluzione di continuità che l’eliminazione della clausola degli interessi introduce rispetto alla dimensione causale onerosa originariamente conferita dai contraenti al contratto”. 641 Cfr. C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 689.

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Infatti, l’art. 644, comma 1, c.p., nel testo vigente, punisce con la

reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 3.089 a euro 15.493,

chiunque si faccia dare o promettere “sotto qualsiasi forma, per sé o per altri,

in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri

vantaggi usurari”642.

Pertanto, la nuova formulazione dell’art. 644 c.p., diversamente dalla

precedente, non menziona, fra gli elementi costitutivi del reato,

l’approfittamento dello stato di bisogno (previsto, invece, quale circostanza

aggravante speciale643) ed individua l’oggetto della prestazione dell’usuraio,

oltre che nel denaro, in “altra utilità”, anziché in “altra cosa mobile”644.

Ulteriore differenza è costituita dalla introduzione del tasso-soglia del

reato di usura, ossia il “limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari”

(art. 644, comma 3, c.p.), stabilito dal legislatore in una volta e mezzo il tasso

642 Ai sensi del comma 2, la stessa pena si applica a chi “fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario”. 643 Secondo alcuni autori, atteso il suo nuovo ruolo assunto dalla nozione di “stato di bisogno”, la stessa andrebbe letta in chiave restrittiva, e cioè nel senso di atteggiamento psicologico connotato, sotto il profilo oggettivo, dalla necessità di soddisfare esigenze fondamentali per la persona, comprese quelle di natura morale, e sotto quello soggettivo, da una condizione di assillo non altrimenti fronteggiabile. In tal senso, cfr. De Angelis, Usura, in Enc. giur., XXXII, Roma, 1997, p. 2 ss.; L. Navazio, Usura. La repressione penale introdotta

dalla legge 7 marzo 1996, n. 108, Torino, 1998, p. 168; Realmonte, Stato di bisogno e

condizioni ambientali: nuove disposizioni in tema di usura e tutela civilistica della vittima del

reato, in Riv. dir. comm., 1997, p. 776. 644 Con conseguente ampliamento delle ipotesi riconducibili al fenomeno denominato “usura reale”. Con riguardo a tali ipotesi occorre precisare che, qualora ci si attenesse alla precisa lettera della disposizione di cui all’art. 644, comma 3, c.p., che fa riferimento al “tasso medio

praticato per operazioni similari”, bisognerebbe escludere dall’ambito di operatività della stessa i casi di usura non pecuniaria, in palese contrasto con la ratio della riforma, consistente nel rafforzare la tutela contro i fenomeni usurari. Pertanto, appare ragionevole prediligere una interpretazione estensiva del termine “tasso”, intendendo con esso il “prezzo” o, meglio, il “corrispettivo” della prestazione effettuata dall’usuraio. In tal senso, Manna, La nuova legge

sull’usura - Un modello di tecniche “incrociate” di tutela, Torino, 1997, p. 75.

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medio relativo alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso (ex art.

2, comma 4, L. n. 108/1996)645.

Inoltre, per evitare aggiramenti della disposizione contenuta nell’art.

644 c.p., vengono ricompresi nella nozione penale di usura “gli interessi,

anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto

riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per

operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla

prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando

chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o

finanziaria” (art. 644, comma 3, c.p.) 646.

645 L’art. 644 c.p. non individua direttamente il tasso-soglia oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, ma demanda alla legge il compito di stabilirlo. A tal fine, l’art. 2, comma 1, L. n. 108/1996, prevede la effettuazione, da parte del Ministro del Tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, di rilevazioni trimestrali dei tassi medi “degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti negli elenchi tenuti dall’Ufficio italiano dei cambi e dalla Banca d’Italia ai sensi degli articoli 106 e 107 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nel corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura”. Tale rilevazione trimestrale consente di determinare il tasso-soglia oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Difatti, ai sensi del successivo comma 4, il limite di cui all’art. 644, comma 3, c.p., è stabilito “nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà”. 646 Il significato da attribuire alla nozione di difficoltà economica o finanziaria è oggetto di dibattito in dottrina. Secondo Bellacosa, Usura impropria, cit., p. 2 ss., essa va intesa nel senso di debolezza economico-patrimoniale, “caratterizzata da una carenza di mezzi finanziari, tali da spingere l’imprenditore o il professionista a sobbarcarsi l’onere di un prestito erogato a condizioni usurarie”. Prosdocimi, Aspetti e prospettive della disciplina

penale dell’usura, cit., p. 584 ss., distingue tra difficoltà economica e difficoltà finanziaria, individuando il discrimen “nel fatto che quest’ultima si sostanzia in una carenza di liquidità, laddove la prima investe, in senso ampio, il complesso delle attività patrimoniali del soggetto passivo”. L’A., inoltre, considera la nozione di difficoltà economica o finanziaria sussidiaria rispetto a quella di stato di bisogno, con la conseguenza che “poiché l’interpretazione sistematica impone una lettura dell’elemento dello stato di bisogno assai più limitativa di quella che ci era stata proposta in passato, in direzione di un concetto di bisogno fortemente ancorato ai bisogni essenziali della persona”, la nuova normativa “quanto meno in rapporto alla situazione di chi non eserciti attività imprenditoriali o professionali, ha, di fatto, impoverito ed abbassato il livello della tutela”. Auspica una tipizzazione delle situazioni di difficoltà economica o finanziaria G. Vettori, Autonomia privata e contratto giusto, cit., p. 45

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In base alla nuova formulazione dell’art. 644 c.p., è possibile enucleare

due distinte ipotesi criminose: la prima caratterizzata dal superamento del

tasso-soglia; la seconda dal carattere comunque sproporzionato - ancorché

inferiore a tale soglia - di interessi, vantaggi o compensi rispetto alla

prestazione di denaro o altra utilità647.

Da ciò discende che il legislatore, ai fini dell’accertamento

dell’usurarietà delle prestazioni, ha individuato un criterio fisso, applicabile

soltanto alle ipotesi in cui il corrispettivo sproporzionato sia rappresentato da

ss.. Secondo l’A., infatti, “quando il legislatore dà rilievo alla posizione di fatto o alle qualità soggettive del contraente non sarà significativa ogni disparità del potere di supremazia. Si dovranno prendere in esame situazioni ove si può riconoscere una strutturale soggezione di una delle parti tramite un’attività di tipizzazione non dei contratti ma dei rapporti, al fine di individuare i tratti comuni di situazioni di fatto. … In ogni contratto corrispettivo, la difficoltà economica e finanziaria, che induce ad accettare condizioni usurarie, dovrà essere studiata come una modalità dello stato di bisogno (già presente nell’art. 1448 cod. civ.) caratterizzata appunto dal bisogno di moneta o dal bisogno di soddisfare una (diversa e più specifica) esigenza di ordine economico”. Sulla interpretazione del requisito della difficoltà economica o finanziaria e sulla sua differenziazione dal concetto di “concrete modalità del fatto”, v. A. Gentili, I contratti usurari: tipologie e rimedi, in Riv. dir. civ., 2001, III, p. 364, il quale suggerisce di individuarne i reali contorni ponendo attenzione alle caratteristiche della negoziazione. 647 Secondo G. Meruzzi, op. ult. cit., p. 469 ss., “il legislatore sostituisce quindi l’originario art. 644 c.p. con due autonome sanzioni penali, ciascuna delle quali, sebbene accomunata dalla identica collocazione sistematica e dalla medesima rubrica, è distinta dall’altra, sotto il profilo sia del bene giuridico tutelato, sia degli elementi costitutivi delle fattispecie astratte”. L’A. infatti, ritiene che “l’oggetto della tutela muti a seconda della fattispecie delittuosa considerata. Mentre il bene giuridico tutelato dal precetto contenuto nel 1° comma dell’art. 644 c.p. va ravvisato nel corretto esercizio dell’attività creditizia e finanziaria, il bene tutelato dal 3° comma di tale disposizione è ancor oggi, in linea con l’originaria formulazione della norma, la protezione del patrimonio di un soggetto che si trova in una situazione di particolare debolezza economica. Da ciò consegue che l’oggettivazione della fattispecie si è principalmente tradotta, sotto il profilo pratico, nell’introduzione nel sistema di una nuova ipotesi di usura (art. 644 c.p., c. 1°), finalizzata a perseguire obiettivi di tutela diversi ed ulteriori rispetto all’ipotesi tradizionale di delitto (art. 644 c.p., c. 3°)”. Nello stesso senso, L. Navazio, op. cit., p. 134 ss., secondo cui l’art. 644 c.p. tutela, al comma 1, l’ordinamento del credito, mentre al comma 3, il patrimonio privato. Sul punto, cfr. G. Vettori, op. ult. cit., p. 32, il quale evidenzia che, in seguito alla riforma del 1996, “al di là di rapporti fra parti qualificate soggettivamente, l’equità e la giustizia dei rapporti contrattuali hanno subito una profonda innovazione” e M. Cerase, L’usura riformata: primi approcci a una fattispecie nuova nella

struttura e nell’oggetto di tutela, cit., p, 6 ss..

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interessi pecuniari, ed un criterio di chiusura, relativo alle ipotesi in cui le

prestazioni non sono pecuniarie e gli interessi usurari, pur non essendo

superiori al tasso fisso, risultano essere comunque sproporzionati rispetto alla

prestazione di denaro o altra utilità (ovvero all’opera di mediazione), “avuto

riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per

operazioni similari … quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni

di difficoltà economica o finanziaria”648.

La previsione di tali criteri, unitamente alla mancata riproposizione

dell’approfittamento dello stato di bisogno tra gli elementi costitutivi del

reato, evidenzia l’intenzione del legislatore di punire non tanto il

comportamento riprovevole di una delle parti, quanto la oggettiva

sproporzione tra le prestazioni contrattuali649.

La norma in esame, pertanto, realizza un processo di oggettivazione

della tutela contro l’eccessivo squilibrio delle condizioni contrattuali 650 ,

individuando il fondamento del delitto di usura non più nella lesione della

volontà del contraente più debole, ma nell’alterazione della causa di

scambio651.

648 Così A. Riccio, Le conseguenze civili dei contratti usurari, cit., p. 1032. 649 Cfr. G. Bonilini, op. ult. cit., p. 233; E. Quadri, Profili civilistici dell’usura, cit., c. 346 ss.. 650 Cfr. F. Caringella, Studi di Diritto Civile, cit., p. 2442: “Quanto all’usura penale, il legislatore riscrive l’art. 644 c.p.: l’usura penale viene oggettivizzata nel senso che l’integrazione del reato di usura non richiede più l’elemento soggettivo dell’approfittamento dello stato di bisogno, ma solo quello oggettivo del superamento del tasso soglia, rilevato attraverso delle operazioni di verifica periodiche da parte del Ministero del Tesoro. E, quindi, ai fini penali, l’interesse è usurario quando supera una determinata soglia”. Sul punto, v. altresì S. Tolone, L’ordine della Legge ed il mercato, cit., p. 205 ss.. 651 Cfr. G. Vettori, op. ult. cit., p. 33: “Nel testo [della nuova disciplina] si elimina il requisito soggettivo e la protezione si rivolge direttamente all’alterazione della causa dello scambio o dell’attribuzione”. Nello stesso senso, cfr. A. Riccio, op. ult. cit., p. 1033 e F. Riccio, in Giur.

it., 1998, p. 927 (nota a Cass., 22 gennaio 1997, n. 628), secondo cui “l’usura si realizza ogni volta che si è in presenza di uno scambio di prestazioni, cui consegue una sproporzione”.

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In seguito alla riforma del 1996, in definitiva, l’art. 644 c.p. punisce le

ipotesi in cui, quale corrispettivo di una concessione di credito, vengano

richiesti non soltanto interessi usurari, ma anche altri vantaggi usurari

(prestazioni di dare o di facere, diverse dalla corresponsione di interessi),

nonché le ipotesi in cui, come corrispettivo di altra utilità, vengano richiesti

vantaggi usurari652.

La marcata accentuazione dei presupposti oggettivi dell’usura, a scapito

di quelli soggettivi - del tutto assenti, questi ultimi, nella principale ipotesi di

usura per semplice superamento del tasso soglia degli interessi, ove il solo

dato dell’esubero dal limite legale determina la punibilità - trova la propria

spiegazione nell’intento di reprimere in modo vigoroso i fenomeni di

criminalità, sotteso alla legge n. 108/1996653.

Inoltre, il forte carattere riformatore, ostile al fenomeno usurario nelle

sue varie manifestazioni, è confermato dalla misura dello squilibrio che porta

alla configurazione del reato, sconvolgendo le tradizionali interpretazioni del

vecchio testo dell’art. 644 c.p..

Infatti, l’accostamento tra la sproporzione richiesta per l’usura e il

superamento del limite dell’ultra dimidium richiesto per la rescissione perde

ogni fondamento sulla base della lettera della nuova legge antiusura, nella

quale la disparità economica, penalmente rilevante, tra le prestazioni delle

652 V. R. Teti, op. cit., p. 477; G. Vettori, op. ult. cit., p. 45. Al riguardo F. Riccio, op. cit., p. 927, osserva che lo scambio di prestazioni attraverso cui si realizza l’usura “può compiersi con qualsiasi tipo di contratto a prestazioni corrispettive e non esclusivamente con il contratto di mutuo, anche se, indubbiamente, questo è considerato lo strumento che meglio si atteggia alla commissione del reato stesso”. 653 Sulle finalità della L. n. 108/1996, cfr. L. Ferroni, op. ult. cit., p. 79; V. Carbone, Usura

civile: individuato il <<tasso soglia>>, in Corr. giur., 1997, p. 507; E. Quadri, Profili

civilistici dell’usura, cit., c. 337 ss.; Id., Usura e legislazione civile, cit., p. 890 ss..

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parti nei contratti di mutuo o di finanziamento in genere, non è quella ultra

dimidium prevista per la rescissione, ma quella superiore ad un terzo654.

Se si considerano, poi, le altre due ipotesi di usura previste dalla nuova

norma (ossia l’usura pecuniaria “in concreto” e quella “reale”), si nota che,

concorrendo il requisito delle condizioni difficoltà economica o finanziaria,

addirittura la sanzione penale è comminata anche se la sproporzione non

raggiunga tale soglia, ma le concrete modalità del fatto e il prezzo medio

praticato nelle operazioni di scambio di quel tipo, insieme alla situazione di

disagio economico della vittima, comportino il giudizio di disvalore

necessario per assegnare valenza impari alle prestazioni contrapposte e

connotazione di usurarietà al loro scambio655.

In ordine alle conseguenze civili dell’usura, non presentano particolari

difficoltà le ipotesi in cui il reato si realizzi mediante la stipulazione di un

contratto di mutuo o altro contratto di finanziamento656, in virtù della espressa

previsione contenuta nell’art. 1815 cpv. c.p., che sanziona con la nullità la

clausola illecita e, quindi, gli interessi usurari, trasformando il mutuo usurario

in mutuo gratuito657.

654 Per un’argomentazione tecnica a fondamento di tale impostazione, che prende le mosse dall’art. 2 co. 4 della l. n. 108/96, con riferimento all’art. 644 co. 3 c.p., v. G. E. Napoli, Usura

reale e rescissione per lesione, cit., p. 403, nota n. 50. 655 Al riguardo, si potrebbe affermare che la rilevanza delle lesione in misura anche inferiore ad 1/3 è giustificata dalla presenza della situazione di difficoltà economica o finanziaria della vittima del contraente debole. Sull’argomento, v. Realmonte, Stato di bisogno e condizioni

ambientali: nuove disposizioni in tema di usura e tutela civilistica della vittima del reato, cit., p. 775. 656 Cfr. C. M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1997, p. 196 ss., il quale ritiene applicabile l’art. 1815, comma 2, c.c., a tutte le ipotesi di concessione di denaro in godimento. V., altresì, L. Ferroni, op. ult. cit., p. 72 ss. e Realmonte, op. ult. cit., p. 771. 657 La nullità colpisce, sul piano civilistico, sia le ipotesi di usura “oggettiva”, che le ipotesi di usura pecuniaria “in concreto”. In merito alla unitarietà del concetto di interesse usurario, v. A. Riccio, Le conseguenze civili dei contratti usurari, cit., p. 1037, secondo cui “la legge

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Diversamente è a dirsi per i contratti riconducibili all’usura reale, in

assenza di specifiche previsioni normative sul punto658.

A tal proposito, si è già avuto modo di precisare che questo particolare

tipo di usura era considerato reato anche dal vecchio testo dell’art. 644 c.p., il

quale faceva riferimento alla prestazione non solo di denaro, ma anche di

“altra cosa mobile”.

Nella nuova formulazione della norma non si ritrova alcuna limitazione

in tal senso, essendo stata sostituita l’espressione “altra cosa mobile” con

quella, più ampia, di “altra utilità”, nella quale sono ricompresi, non solo i

trasferimenti di diritti su beni mobili ed immobili di qualunque specie o

genere, fungibili o infungibili, ma anche le prestazioni di facere659.

La mancanza di una specifica disciplina delle conseguenze civili

dell’usura reale, ha condotto verso differenti ricostruzioni in chiave

108/1996 ha individuato un criterio unico ai fini dell’accertamento del carattere usurario degli interessi, valevole sia nel settore civile che in quello penale ed ha fissato una soglia oltre la quale si determinano la considerazione del reato e la nullità della stipulazione. È così definitivamente tramontata la tesi … dell’autonomia del profilo civilistico rispetto alla connotazione di carattere penale”. L’A., inoltre, si sofferma sul rapporto tra l’art. 1815 cpv. c.c. e l’art. 1419 c.c., reputando, con riferimento al secondo comma di tale ultimo articolo, “incontrovertibile la tesi che la clausola nulla non può essere sostituita di diritto da norme imperative in quanto espressamente la nuova disposizione dell’art. 1815 c.c. stabilisce che <<non sono dovuti interessi>>. L’esclusione della debenza degli interessi implica che non si possono riconoscere al creditore usurario neppure gli interessi legali, e neppure … commissioni o spese, perché nel calcolo degli interessi si debbono contemplare anche queste due voci”. 658 E. Quadri, Usura e legislazione civile, cit., p. 895, sottolinea la mancanza di qualsiasi coordinamento tra la riforma del delitto di usura e l’art. 1448 c.c.. Osserva G. Meruzzi, op. ult.

cit., p. 494, che “il problema verte sul fatto che, mentre l’istituto civilistico della rescissione non ha subito modifica di sorta, la disciplina del reato di usura è stata ampliata, sia sostituendo alla nozione di <<stato di bisogno>>, degradata al ruolo di aggravante ad effetto speciale, quella di <<condizioni di difficoltà economica e finanziaria>>, sia espungendo dalla struttura del delitto il requisito psicologico dell’approfittamento”. 659 Cfr. A. Riccio, Il contratto usurario nel diritto civile, cit., p. 70.

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interpretativo-sistematica della rilevanza di tale forma di reato nel diritto dei

contratti.

A parere di alcuni Autori, le ipotesi delittuose in questione troverebbero

tuttora il proprio referente civilistico unicamente nell’azione generale di

rescissione per lesione, non essendo stata, quest’ultima, abrogata dalla riforma

del 1996660.

660 Cfr. Bizzelli, Mutuo usurario e invalidità del contratto, Torino, 2001, p. 174 ss.; B. Carpino, La rescissione del contratto, cit., p. 83 ss.; Grassi, Il nuovo reato di usura:

fattispecie penali e tutele civilistiche, in Riv. dir. priv., 1998, p. 246 ss.; G. Meruzzi, op. ult.

cit., p. 495 ss., secondo cui “un’analisi attenta alla realtà applicativa dell’istituto della rescissione consente non solo di affermare che a tuttoggi sussiste il rapporto di corrispondenza tra usura e rescissione, ma anzi di rilevare che, a seguito dell’intervento normativo, sono venuti meno gli argomenti addotti dalla giurisprudenza per distinguere i due istituti sotto il profilo soggettivo”. L’A., infatti, osserva che “da un lato, la giurisprudenza civilistica … ha ormai da tempo interpretato estensivamente il concetto di stato di bisogno di cui all’art. 1448 c.c., ricomprendendovi anche le ipotesi di temporanea difficoltà economica e finanziaria del contraente leso, ed al contempo ha limitato notevolmente la portata del requisito psicologico dell’approfittamento, desumibile in via presuntiva dal concorrere, in capo al soggetto attivo, della consapevolezza dell’altrui bisogno e della grave sproporzione delle prestazioni che caratterizzano il contratto rescindibile. Dall’altro, l’espunzione del requisito psicologico dell’approfittamento dalla fattispecie penalistica rende possibile la sanzionabilità di ipotesi criminose caratterizzate non, come in precedenza, da un comportamento psicologico efficiente del soggetto attivo, ma anche soltanto dalla consapevolezza, da parte sua, delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria della controparte e dello squilibrio tra le prestazioni dedotte in obbligazione”. Ciò determina, secondo l’A., “una sostanziale sovrapposizione, sotto il profilo soggettivo, tra l’istituto della rescissione e la condotta sanzionata dall’art. 644 c.p., c. 3°, a cui consegue un’identità strutturale tra le due ipotesi. Viene così meno quell’elemento psicologico, quel quid pluris legato al comportamento efficiente del soggetto attivo del reato, che consentiva alla giurisprudenza anteriore di distinguere, sotto il profilo intensivo, l’ipotesi riconducibile all’istituto civilistico della rescissione da quella riconducibile alla sanzione penale dell’usura. .. In tal modo, la rescissione civilistica congloba e sanziona tanto l’ipotesi base del delitto di usura quanto l’ipotesi aggravata dallo stato di bisogno della vittima (art. 644 c.p., c. 5°, n. 3), venendo così meno quel pericolo di inversione dell’ordine sanzionatorio che ha fatto talora propendere per la nullità del contratto usurario”. L’A., inoltre, precisa che “se tutte le ipotesi sanzionate dal 3° c. dell’art. 644, e non ricadenti tra quelle cui si applica il rimedio civilistico dell’art. 1815 cpv., vanno ricondotte all’ipotesi della rescindibilità, non tutti i casi di contratto rescindibile danno per ciò solo luogo ad ipotesi penalmente sanzionate, … in quanto al rigido criterio civilistico dell’ultra dimidium si contrappone il più elastico criterio della valutazione dello squilibrio sulla base del fatto concreto da parte del giudice penale”. Alla luce di tali considerazioni, l’A. conclude per l’utilizzo del limite civilistico dell’ultra dimidium “quale criterio tendenziale, ma non rigido, di delimitazione della fattispecie penale. Ciò nel senso che solo qualora la soglia della lesione superi di metà il

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245

Tale soluzione, tuttavia, viene criticata sulla base della considerazione

che la azionabilità del rimedio rescissorio ex art. 1448 c.c., renderebbe

inattaccabile, sul piano civilistico, il contratto usurario in cui la lesione non

superi la metà del valore, facendo, in questo modo, intervenire la sanzione

penale prima ancora che possa operare quella civile, in palese contrasto con la

funzione di extrema ratio ricoperta nel nostro ordinamento giuridico dalla

tutela penale661.

Al fine di evitare tali incongruenze, altri Autori hanno preferito aderire

alla tesi giurisprudenziale della nullità del contratto usurario, argomentando

dalla diversità strutturale tra norma civile e norma penale conseguente alla

riforma del 1996662.

valore della controprestazione sarà possibile dar luogo non ipso iure alla sanzione, bensì al sindacato giudiziale ex art. 644 c.p., venendo meno in caso contrario il presupposto della sproporzione tra prestazioni che giustifica il sindacato medesimo. Al di sotto di tale soglia, non si potranno quindi ritenere sussistenti gli elementi costitutivi della fattispecie penale, ed i comportamenti contrattualmente illeciti assumeranno una rilevanza meramente civilistica, o quali indici sintomatici di un vizio del consenso o sotto forma di illecito civile”. 661 Così G. E. Napoli, op. cit., p. 420. 662 Cfr. L. Ferroni, op. ult. cit., p. 77 ss., secondo cui le fattispecie e gli strumenti giuridici previsti dall’usura e dalla rescissione “risultano fondati su presupposti e requisiti ben diversi”. In senso conforme si esprime R. Teti, op. cit., p. 491 ss., il quale ritiene che dalla nuova disciplina penale dell’usura emerga “un giudizio di disvalore dell’ordinamento non solo per il comportamento di un soggetto (com’era invece nella previgente disciplina), ma per il complessivo regolamento contrattuale voluto dalle parti. Nell’art. 644 c.p., così com’era stato consegnato nel codice del 1930, la legge non valutava negativamente l’acquisizione di un <<vantaggio usurario>>, ma il fatto che detto vantaggio fosse acquisito attraverso un particolare comportamento (<<l’approfittamento dello stato di bisogno>>); nella nuova disciplina viene valutato negativamente il <<vantaggio usurario>> (e quindi l’assetto di interessi voluto dalle parti) che non potrà mai essere realizzato da un contraente a danno dell’altro, essendo irrilevante il comportamento tenuto dal soggetto che si avvantaggia”. Secondo l’A., “se allora nella nuova norma penale, pur ponendosi soltanto il comportamento di una parte (in quanto è solo il comportamento del soggetto che si avvantaggia socialmente pericoloso), viene vietato sempre e comunque di realizzare un determinato assetto di interessi (e cioè lo squilibrio tra le prestazioni), è veramente difficile sfuggire alla conclusione che nel nuovo quadro normativo il contratto usurario è nullo”. Secondo E. Minervini, La rescissione

del contratto, in Rass. dir. civ., 1997, p. 764 ss., la nuova disciplina realizza “il divorzio tra usura e rescissione”, con la conseguenza che la sanzione della nullità totale si applicherà

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Tuttavia, all’accoglimento di tale soluzione osta la disposizione di cui

all’art. 1449 c.c. - che non ha subito alcuna modifica per effetto della L. n.

108/1996 - secondo cui, qualora il fatto costituisca reato, la prescrizione

dell’azione di rescissione non è annuale, ma è quella fissata per il reato

medesimo, ai sensi dell’art. 2947, comma 3, c.c.663.

Altri, ancora, ferma restando l’applicabilità della rescissione ai contratti

con lesione enorme, ha ravvisato il rimedio civilistico contro i contratti usurari

con lesione inferiore alla metà nelle norme che prevedono il risarcimento dei

danni causati da ogni comportamento non conforme a legge ed, in particolare,

nella disciplina riguardante l’obbligo di risarcimento del danno causato dal

reato (art. 185 c.p.) 664.

Più precisamente, si ritiene che, ove il contratto usurario non possa

essere rescisso per mancanza del requisito della lesione ultra dimidium, vi

sarebbe sempre una tutela di tipo risarcitorio, che consenta il recupero del

giusto valore della prestazione iniquamente retribuita. Inoltre, il soggetto che

subisce una lesione superiore alla metà, e che quindi gode della rescindibilità

del contratto, in virtù della portata generale delle norme risarcitorie, potrebbe

anche al contratto usurario concluso con l’aggravante dello stato di bisogno, apparendo irragionevole comminare la nullità per l’ipotesi più lieve e la rescindibilità per quella più grave. Parimenti irragionevole, per contrasto con l’art. 3 Cost., sarebbe, ad avviso di G. E. Napoli, op. cit., p. 420, ritenere inficiato da una causa di nullità (o di annullabilità), il contratto usurario che cagioni una lesione inferiore a quella richiesta dall’art. 1448 c.c.. Tale soluzione, infatti, determinerebbe la rescindibilità dei contratti usurari con lesione ultra dimidium e la più grave sanzione della nullità (o annullabilità) per i casi di lesione infra dimidium. 663 L’art. 1449 c.c. rappresenta un forte elemento a sostegno della correlazione tra la fattispecie dell’usura e quella della rescissione, poiché ipotizza che il medesimo fatto possa, al tempo stesso, costituire reato (in modo particolare, usura) ed essere rescindibile. V. G. Villa, Contratto e violazione di norme imperative, cit., p. 155 ss.; E. Quadri, Profili civilistici

dell’usura, cit., c. 341 ss.; G. B. Ferri, Interessi usurari e criterio di normalità, cit., p. 389 ss.; G. Mirabelli, op. ult. cit., p. 122 ss.. 664 Realmonte, op. cit., p. 783 ss.; Grassi, op. cit., p. 246 ss.; Albanese, Violazione di norme

imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, p. 185 ss..

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decidere se chiedere la rescissione o chiedere, anche in questo caso, il

risarcimento del danno665.

Tale soluzione, tuttavia, viene criticata sulla base della considerazione

che il sistema codicistico, il quale, interpretato sistematicamente, dovrebbe

risultare tendenzialmente attento ad evitare forti contrasti tra le norme che

regolano le contrattazioni private, non può consentire al soggetto una libera

scelta tra il rescindere del tutto il negozio e il farsi risarcire il danno

economico patito per un contratto iniquo666.

L’ipotesi risarcitoria è, inoltre, smentita dall’art. 1450 c.c., il quale

ammette sì una riconduzione ad equità (e, quindi, lo stesso risultato pratico

che si avrebbe con il risarcimento del danno), ma la affida alla assoluta

discrezione del contraente contro il quale è domandata la rescissione667.

Altra dottrina, facendo leva sul nuovo bene giuridico tutelato dal

novellato art. 644 c.p., costituito dalla “regolarità del mercato del credito” 668,

ritiene che i contratti con usura reale siano nulli ex art. 1418 co. 1 c.c.,

665 Cfr. Grassi, op. cit., p. 247. 666 In tal senso, cfr. G. E. Napoli, op. cit., p. 423. L’A. osserva che, se fosse ipotizzabile il diritto al risarcimento del danno, si avrebbero contratti conclusi cedendo alle uniche condizioni, inique, che la parte forte è disposta ad accettare e che realizzano la soddisfazione del bisogno della parte debole, la quale, poi, subito dopo il contratto, chiedendo al giudice il risarcimento medesimo, potrebbe ottenere, per tale via, quella parte di compenso mancata con la contrattazione: la rescissione sarebbe così, in via di fatto, pressocché inutilizzata. 667 G. E. Napoli, op. cit., p. 424. Secondo l’A., “esistendo quindi per i casi di cui si tratta una normativa peculiare, voluta dal legislatore proprio per far fronte alle ipotesi di sproporzione dipesa da condizioni di dissesto, la generale norma dell’art. 185 c.p. non va applicata: essa cede infatti qua il posto a un’altra normativa, quella che appunto prevede la rescissione per lesione”. 668 Secondo E. Quadri, Usura e legislazione civile, cit., p. 896, non si può più escludere l’applicazione dell’art. 1418, comma 1, c.c., in quanto la lesività, che nella fattispecie di usura previgente era considerata insita nel comportamento del soggetto, è divenuta caratteristica propria del contratto stesso. Del medesimo avviso è A. Riccio, Il contratto usurario nel diritto

civile, cit., p. 170 ss., il quale individua il bene giuridico nel corretto svolgimento delle relazioni economiche sul mercato del credito e, all’interno di questo, nei soggetti deboli.

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considerando in tal modo implicitamente abrogato l’istituto della rescissione

per lesione669.

669 Cfr. G. Oppo, Lo <<squilibrio>> contrattuale tra diritto civile e diritto penale, cit., p. 544, secondo cui “se, ad esempio, in luogo della prestazione monetaria usuraria si addiviene alla alienazione di un bene da parte della vittima a favore dell’usurario questa alienazione (<<novazione>> o datio in solutum) è puramente e semplicemente nulla; la cosa dovrà essere restituita e per il resto il giudizio sulla fattispecie va dato alla stregua del contenuto del contratto iniziale”. L’A., ritiene che l’art. 644 c.p. tolga spazio alla rescissione, in quanto “assorbe ed aggrava anche nel riflesso civilistico, la rilevanza negativa della sproporzione”. Ad avviso di G. Vettori, op. ult. cit., p. 33, poiché “la norma penale non vieta solo un contegno di un contraente ma vuol impedire sempre e comunque di realizzare un determinato assetto di interessi, … è difficile non ipotizzare una contrarietà del contratto usurario con la norma imperativa penale e una conseguente nullità”. A. Riccio, op. ult. cit., p. 1033 ss., ritiene che, in caso di usura realizzata mediante convenzioni sinallagmatiche diverse dal mutuo e dai contratti similari, si debba applicare il combinato disposto degli artt. 1418, comma 1° e/o 2°, c.c., e 644 c.p.. Diversamente opinando, secondo l’A., si verificherebbe una “assurda irragionevole ed irrazionale disparità di trattamento tra due situazioni equiparabili … [ossia] tra i contratti di finanziamento (mutuo e contratti affini), ai quali si applica l’art. 1815, comma 2°, c.c., che sanziona con la nullità la clausola usuraria perché illecita e non meritevole di tutela, e i contratti che non eseguono una operazione di credito, quindi diversi dal mutuo e dai contratti affini, ai quali non è applicabile l’art. 1815, comma 2°, c.c., ma l’art. 1448 c.c., che prevede requisiti molto più restrittivi dell’attuale art. 644 c.p., con la conseguenza assurda ed irragionevole che in mancanza di uno squilibrio ultra dimidium, si lascerebbe <<in vita>> un contratto (e/o una sua clausola) usurario, per ciò stesso illecito, immorale e riprovevole, così riprovevole che la legge penale lo punisce (art. 644), contrariamente a quanto avviene nell’ipotesi equiparabile di cui all’art. 1815, comma 2°, c.c.”. Secondo l’A., quindi, “considerare ancora oggi la rescissione per lesione l’unico rimedio e l’unica sanzione civile (di chiusura rispetto all’art. 1815 c.c.) contro il contratto usurario, significherebbe: a) configurare una questione di incostituzionalità per irragionevole disparità di trattamento tra due situazioni equiparabili; b) percorrere la direzione opposta a quella perseguita dall’attuale legislazione con la introdotta novella sull’usura, la quale si è conformata alla mutevole realtà sociale”. L’A., quindi, muovendo dal principio di conservazione del contratto, e dall’ “altrettanto consequenziale principio che la nullità parziale è la regola e la nullità dell’intero contratto è l’eccezione”, sostiene che “nel caso dei contratti usurari diversi dal mutuo e dai contratti affini, per effetto del combinato disposto degli artt. 1418, comma 1° e/o 2°, c.c., 1419 c.c. e 644 c.p., le clausole usurarie sono nulle e che, in base all’art. 12 delle preleggi, trattandosi di un caso simile o di una materia analoga a quella contenuta nell’art. 1815, comma 2°, c.c., (clausola usuraria), o comunque di un nuovo principio generale dell’ordinamento giuridico, il contratto usurario si converte in contratto gratuito, pertanto l’usurario non avrà più diritto alla controprestazione, e la persona offesa dal reato avrà diritto, anche ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 644 c.c., alle restituzioni delle prestazioni eseguite in esecuzione del contratto usurario e al risarcimento dei danni”. Tuttavia, l’A. dubita “del fatto che la fattispecie penale contenuta nel novellato art. 644 c.p. si sia ampliata al punto tale da far ricomprendere ed assorbire in sé la corrispondente fattispecie rescissoria. L’art. 644 c.p., infatti, richiede come necessario un comportamento diretto ad operare; dispone che si ha usura quando taluno <<si fa>> dare o promettere un immodico vantaggio; quando, cioè,

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A ben considerare, tale soluzione non è pienamente condivisibile.

Difatti, soltanto nel caso di usura oggettiva (determinata dal

superamento del tasso soglia degli interessi richiesti dal contraente) si può

affermare che la tutela del mercato del credito sia il bene principalmente

tutelato dalla norma, laddove nelle ipotesi di usura “in concreto” (per il caso

di interessi che risultano sproporzionati, anche se inferiori alla misura

massima consentita) e di usura reale, assume importanza preminente il bene–

patrimonio, con la conseguenza che, per tali ultime ipotesi, la sanzione della

nullità potrebbe considerarsi inadeguata670.

La soluzione della nullità è stata riproposta con riferimento alla

particolare tecnica di tutela prevista dall’art. 2035 c.c., cosicché chi riceve la

prestazione dell’usuraio non sarebbe tenuto alla restituzione in virtù

dell’immoralità della stessa671.

Invero, premesso che non è pacifico affermare che costituisca

contrarietà al buon costume una prestazione che soccorra un soggetto

l’agente prendendo l’iniziativa, si adoperi attivamente per ottenerlo. … Quindi se una parte si è limitata a trarre profitto, essendo consapevole delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria della controparte, dalla particolare ed immoderata vantaggiosità della proposta di vendita, senza però tenere un comportamento diretto ad incidere sulla determinazione della volontà contrattuale del soggetto passivo (ad esempio, provocando o sollecitando detta proposta), il contratto non sarebbe nullo ma rescindibile, in presenza dei tre requisiti-presupposti richiesti dall’art. 1448 c.c.”. Su tale ultimo profilo, in senso conforme, cfr. F. Riccio, op. cit., p. 927, secondo cui l’eliminazione, da parte del legislatore del 1996, del concetto di “stato di bisogno”, nonché dell’approfittamento, richiama l’attenzione dell’interprete “soprattutto sulla volontà di porre in essere un comportamento diretto ad incidere sulla volontà altrui (<<si fa dare o promettere>>)”. 670 Tale distinzione si giustifica in ragione della considerazione secondo cui la vera e propria oggettivazione della fattispecie descritta dal novellato art. 644 c.p. è riscontrabile soltanto in riferimento all’usura per superamento del tasso-soglia, laddove, in caso di usura pecuniaria “in concreto” e di usura “reale”, è richiesta la sussistenza di una condizione soggettiva, quale la situazione di difficoltà economica o finanziaria dell’usurato. In tal senso, cfr. L. Navazio, Usura. La repressione penale introdotta dalla legge 7 marzo 1996, n. 108, cit., p. 258 ss.. 671 Ingangi, Concreta applicabilità delle nuove norme sull’usura e conseguenze civilistiche del

reato sui contratti usurari, in Riv. pen. econ., 1996, p. 315.

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bisognoso prestandogli sollievo economico, anche se a condizioni inique672,

tale orientamento presta il fianco alla critica secondo cui la previsione

codicistica della semplice rescindibilità (e non nullità) del contratto con

lesione superiore alla metà induce ad escludere la contrarietà alla morale di

tali prestazioni ed, a maggior ragione, quelle di un contratto che comporti una

lesione infra dimidium.

Al fine di risolvere il problema della individuazione del regime

civilistico da applicare ai contratti usurari diversi dal mutuo, si è valutata la

possibilità di fare ricorso alla sanzione della nullità “di protezione”, che

sarebbe applicabile, secondo parte della dottrina, a tutela del contraente

debole, anche laddove il precetto imperativo vieti una determinata

pattuizione673, senza, tuttavia, comminare alcuna esplicita sanzione civilistica

in caso di violazione674.

Nel caso specifico dell’usura, il nuovo art. 644 c.p., nel vietare

fermamente il contratto usurario, taccia di nullità la clausola usuraria solo se si

tratta di “usura oggettiva”, nulla disponendo quanto a sanzioni civilistiche per

il caso di usura “in concreto” o usura reale: in relazione a tali ultimi casi

sarebbe allora possibile, tramite la via dell’art. 1418, comma 1, c.c.,

672 Grassi, Il nuovo reato di usura: fattispecie penali e tutele civilistiche, cit., p. 231 ss.. 673 Cfr. G. Passagnoli, Nullità speciali, cit., p. 138 ss.; V. Roppo, Il contratto, cit., p. 843 ss.; G. Gioia, La costruzione unitaria dell’usura, in Corr. giur., 1999, p. 608 ss.; G. Filanti, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, cit., p. 130 ss.. 674 G. E. Napoli, op. cit., p. 426 ss., il quale muove dalla constatazione che situazioni contrattuali, caratterizzate da differenti condizioni economiche delle parti, tali da determinare una debolezza della libertà negoziale di una di esse, sono state inserite, da parte di recenti interventi legislativi, tra le cause di nullità, anziché di rescindibilità o di annullabilità, di determinate pattuizioni, e disciplinate in modo diverso rispetto alle regole tradizionali vigenti in tema di nullità.

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considerare nullo l’atto negoziale quando ricorrano gli stessi presupposti di

ratio normativa delle ipotesi espresse.

Senonchè, la salvezza contenuta nel citato comma 1 dell’art. 1418 (“il

contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge

non disponga diversamente”) porta ad escludere che la figura della nullità

virtuale possa operare rispetto alla disciplina dell’usura, in virtù del

particolare atteggiarsi del quadro normativo di riferimento. Infatti, le

previsioni degli artt. 1448 e 1449 c.c. implicano un rinvio alla normativa

penale, secondo cui se il fatto che conduce a rescissione non è per forza reato

per l’art. 644 c.p., il reato è invece tutelato civilisticamente con la rescissione:

quindi in tal caso la legge “dispone diversamente”675.

La considerazione secondo cui la legge n. 108 del 1996 ha mutato i

parametri del solo reato di usura, senza conformemente adeguare gli elementi

previsti dall’art. 1448 c.c., induce un Autore a ritenere che il requisito

dell’ultra dimidium sia divenuto oggetto di una vera e propria abrogazione ad

opera delle disposizioni sull’usura reale676.

Conseguentemente, dovrà considerarsi rescindibile per lesione un

contratto in cui vi sia sproporzione tra le due prestazioni sinallagmatiche, ma

essa non è né lievissima né, a partire dal 1996, necessariamente

grandissima677.

675 Cfr. G. E. Napoli, op. cit., p. 434. 676 Così G. E. Napoli, op. cit., p. 434. 677 Cfr. però la soluzione di Rabitti, Contratto illecito e norma penale, Contributo allo studio

della nullità, Università degli studi di Roma La sapienza, Facoltà di Economia, Pubblicazioni

dell’istituto di Diritto Privato, a cura di G. Benedetti, Milano, 2000, p. 272 ss., il quale ritiene che si possa comunque avere rescissione nel solo caso di lesione ultra dimidium.

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Secondo questa tesi, inoltre, per effetto della sostituzione, nell’art. 644

c.p. del requisito dello “stato di bisogno” con quello delle “condizioni di

difficoltà economica o finanziaria” 678 , deve ritenersi che l’art. 1448 c.c.,

contempli, come requisito per l’azione, sia lo stato di bisogno, sia le

condizioni di difficoltà economica o finanziaria che non integrino tale stato, in

modo che nessuno dei due escluda l’altro e che ciascuno di essi sia sufficiente

da solo per l’esperimento dell’azione.

Pertanto, qualora tra la prestazione di una parte e quella dell’altra vi sia

una sproporzione dipesa dalle condizioni di difficoltà economica o finanziaria

oppure dallo stato di bisogno di una parte, di cui l’altra abbia approfittato per

trarne vantaggio, la parte danneggiata potrà domandare la rescissione del

contratto per lesione, fermo restando che il reato sussisterà solo nel caso in cui

siano presenti le condizioni di difficoltà economica o finanziaria679.

678 Cfr. G. Passagnoli, Il contratto usurario tra interpretazione giurisprudenziale ed

interpretazione <<autentica>>, cit., p. 31, il quale affida alla locuzione “condizioni di difficoltà economica o finanziaria” lo stretto significato di carenza di beni di liquidità, riferendo, invece, la nozione di “stato di bisogno” anche a tutte quelle altre condizioni di disagio che fanno sorgere la necessità di un determinato, qualsivoglia, contratto: un bisogno che riguarda la salute, il prestigio, la personalità e non necessariamente esigenze economiche o finanziarie. 679 Così G. E. Napoli, op. cit., p. 437. L’A. precisa, infine, che la rescissione potrà essere evitata dal soggetto contro il quale essa è domandata, offrendo una modificazione del contratto sufficiente a ristabilire la proporzionalità, ex art. 1450 c.c.; se si tratta, però, di reato, la riconduzione ad equità eseguita dalla parte attiva dell’azione criminosa non evita, nei confronti di quest’ultimo soggetto, la sanzione penale.

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PARTE QUARTA

L’EQUILIBRIO CONTRATTUALE NEI PRINCIPI UNIDROIT E NEI

PROGETTI DI CODIFICAZIONE EUROPEA

L’equilibrio contrattuale ha costituito oggetto di riflessione da parte

dell’UNIDROIT-International Institute for the Unification of Private Law,

dalla Commissione per il diritto europeo dei contratti e dall’Accademia dei

Giusprivatisti Europei, nell’ambito della realizzazione di progetti di

rielaborazione del diritto dei contratti680.

In particolare, i “Principi dei Contratti Commerciali Internazionali”

sono stati elaborati dall’UNIDROIT con l’intento di redigere un corpo

unitario di norme destinate ad operare nei rapporti del commercio

internazionale.

Trattandosi di regole di elaborazione dottrinale, essi non hanno efficacia

vincolante quali fonti del diritto; tuttavia, non sono del tutto sprovvisti di

rilievo pratico, atteso che le Corti arbitrali internazionali vi fanno spesso

riferimento, come accreditata fonte di cognizione della lex mercatoria.

Secondo quanto stabilito nel Preambolo, i Principi UNIDROIT si

applicano “quando le parti hanno convenuto che il loro contratto sia da essi

disciplinato” e possono applicarsi quando le parti “hanno convenuto che il

loro contratto sia regolato dai <<principi generali del diritto>>, dalla <<lex

680 Sul processo di costruzione di un diritto europeo dei contratti, v. S. Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, Torino, 2002.

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mercatoria>> o simili”; essi si pongono, inoltre, quale “modello per i

legislatori nazionali ed internazionali”681.

L’art. 3.10 dei Principi è specificamente dedicato all’“eccessivo

squilibrio” (gross disparity), e prevede che una parte possa annullare il

contratto o una sua singola clausola “se, al momento della sua conclusione, il

contratto o la clausola attribuivano ingiustificatamente all’altra parte un

vantaggio eccessivo”682.

A tal fine, vanno considerati, “tra gli altri fattori, a) il fatto che l’altra

parte abbia tratto un ingiusto vantaggio dallo stato di dipendenza, da difficoltà

economiche o da necessità immediate della prima parte, oppure dalla sua

imperizia, ignoranza, inesperienza o mancanza di abilità a trattare, e b) la

natura e lo scopo del contratto” (comma 1)683.

681 Al riguardo, v. V. Massari, L’efficacia dei Principi Unidroit nei contratti internazionali, in Diritto & Diritti, n. 10/2002. 682 V. F. Volpe, I principi Unidroit e l’eccessivo squilibrio del contenuto contrattuale (Gross

Disparity), in Riv. dir. priv., 1999, p. 40 ss.; M. Timoteo, Nuove regole in materia di

equilibrio contrattuale, cit., p. 141 ss.; D. Corapi, L’equilibrio delle posizioni contrattuali nei

Principi Unidroit, cit., p. 23 ss.. La diversa ipotesi di squilibrio tra le obbligazioni sopravvenuto alla conclusione del contratto, è regolato dai Principi UNIDROIT mediante l’istituto dell’“Hardship” (letteralmente <<durezza>>), disciplinato nella Sezione 2 del Capitolo 6 e che ricorre quando si verificano eventi che “alterano sostanzialmente l’equilibrio del contratto, o per l’accrescimento dei costi della prestazione di una delle parti, o per la diminuzione del valore della controprestazione” (art. 6.2.2). L’hardship fa venir meno la obbligatorietà del contratto, sempre che si tratti di eventi che si verificano, o divengono noti alla parte svantaggiata, dopo la conclusione del contratto, che non potevano essere da questa ragionevolmente presi in considerazione al momento della conclusione del contratto, estranei alla sua sfera di controllo, ed il cui rischio non sia stato dalla stessa assunto. L’hardiship fa sorgere, in capo alla parte svantaggiata, il diritto di chiedere la rinegoziazione del contratto. In caso di mancato accordo, il giudice, sollecitato da una delle parti, può risolvere il contratto ovvero modificarlo al fine di “ripristinare l’originario equilibrio” (art. 6.2.3.). 683 La disposizione richiama l’art. 4 della Direttiva 93/13/CEE secondo cui “il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni e dei servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto, o di un altro contratto da cui esso dipende”.

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Tale disposizione, pertanto, richiede due requisiti per l’annullamento (o,

come si preciserà di qui a poco, per l’adattamento) del contratto o di sue

singole clausole: l’eccessivo squilibrio fra le obbligazioni delle parti, tale da

attribuire ad una parte un vantaggio spropositato; l’ingiustizia di tale

vantaggio, derivante dallo sfruttamento di una posizione di debolezza

dell’altra parte nella contrattazione ovvero dall’assenza di qualsiasi

giustificazione684.

684 L’elaborazione dell’art. 3.10 è stata oggetto di non poche discussioni nel corso dei lavori preparatori dei Principi UNIDROIT. Infatti, nella prima stesura, erano previsti due distinti articoli, dedicati, l’uno all’ “Unequal bargaining power”, l’altro alla “Gross unfairness”. Il primo articolo stabiliva: “A party may avoid a contract when the other party has taken advantage of his dependence, economic distress or urgent needs, or of his improvidence, ignorance, inexperience or lack of bargaining skill, to obtain terms wich make the contract as a whole unreasonably advantageous for the other party and unreasonably disadvantageous for him”; il secondo: “A party may avoid or have revised a contract if at the time of the making of the contract there is an unconscionable disparity between the obligations of the parties or other unconscionable contract terms wich grossly upset the contractual equilibrium”. I contrasti riguardarono, in modo particolare, quest’ultima disposizione, ritenuta da alcuni necessaria, stante la insufficienza della prima a coprire tutte le ipotesi di contratti manifestamente iniqui, e da altri, invece, non in sintonia con le ulteriori disposizioni del medesimo capitolo, che si riferivano esclusivamente ad ipotesi di vizi del consenso. L’attuale formulazione della norma rappresenta, quindi, un compromesso tra i due opposti orientamenti ed è reputata dalla dottrina di grande interesse e di notevole portata innovativa. Cfr., in special modo, G. Alpa, La protezione della parte debole di origine internazionale (con particolare

riguardo al diritto uniforme), in Contratti commerciali internazionali e Principi UNIDROIT, a cura di M. J. Bonell e F. Bonelli, Milano, 1997, p. 233, il quale, anche in riferimento alla disciplina dello squilibrio sopravvenuto (Hardship-artt. 6.2.1 ss.), afferma che le soluzioni offerte dai Principi sono innovative “per due ragioni fondamentali: (i) perché si preoccupano di tracciare un confine tra lo spazio in cui una parte, per status, posizione economica, posizioni istituzionale, livello di informazione, etc., ha un vantaggio nei confronti dell’altra e lo sfrutta a proprio beneficio ma <<giustamente>>, e lo spazio in cui lo svantaggio è <<eccessivo>> sicché il suo sfruttamento si rivela <<ingiusto>>. Questo confine è segnato con due clausole generali: lo squilibrio <<eccessivo>> e il vantaggio <<ingiusto>>; spetterà a dottrina e giurisprudenza (arbitrale o ordinaria) definire i contenuti di queste formule; (ii) perché si preoccupano di individuare rimedi alle ipotesi in cui la parte debole sia esposta all’approfittamento di controparte, cercando di conservare il contratto piuttosto che non di porlo nel nulla, come avviene invece nel maggior numero di casi nel maggior numero di ordinamenti”. Esprime un giudizio positivo sull’art. 3.10 anche J. M. Perillo, UNIDROIT

Principles of International Commercial Contracts: The Black Letter Text and a Review, in 43 Fordham Law Review, 1994, p. 293 ss.: “One of the more interesting Principles provisions … Here civil law concepts of lesion merge with the common law notion of unconscionability”.

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Si tratta di requisiti di differente natura, il primo di carattere sostanziale,

il secondo di carattere procedurale, la cui contestuale presenza determina,

quindi, l’annullabilità (o adattabilità) del contratto, analogamente a quanto

previsto dagli artt. 1447 e 1448 c.c. i quali, ai fini della rescindibilità del

contratto, richiedono, appunto, il concorso di un presupposto sostanziale

(condizioni inique; sproporzione ultra dimidium) e di uno procedurale (stato

di pericolo noto alla controparte; stato di bisogno di una parte, di cui l’altra

abbia approfittato per trarne vantaggio)685.

Se, quindi, da un lato, gli istituti della gross disparity e della rescissione

risultano accomunati dalla ratio di sanzionare gli abusi che siano, allo stesso

tempo, procedurali e sostanziali, dall’altro presentano profonde differenze.

Infatti, con specifico riferimento al requisito sostanziale dell’eccessivo

squilibrio, mentre l’art. 1448 c.c. richiede una lesione ultra dimidum, l’art.

3.10 non precisa l’entità dello svantaggio da ritenere eccessivo, né pone limiti

minimi alla sua rilevanza, rimettendo, quindi, al giudice la relativa

valutazione686.

685 Sulla necessità della contestuale presenza di entrambi i presupposti, v. U. Drobnig, Protection of the Weaker Party, in Contratti commerciali internazionali e Principi

UNIDROIT, cit., p. 222: “I have also difficulties in agreeing with the official interpretation of litt. (b) as an alternative ground of invalidità. In my opinion it is meant as a cumulative factor that must be complied with in addition to litt. (a) in order to constitute gross disparity. The word <<and>> that connects letter (a) and (b) may militate in favour of such cummulation”. Contra M. J. Bonell, Un “Codice” Internazionale del Diritto dei Contratti. I Principi

UNIDROIT dei Contratti Commerciali Internazionali, Milano, 1995, p. 128, secondo cui: <<Eccezionalmente, il vantaggio ottenuto da una parte può essere ingiustificato anche quando questa non abbia abusato del suo superiore potere contrattuale. Se questo sia il caso o meno dipende essenzialmente dalle circostanze, e tra esse il 1° comma, lett. (b) dell’art. 3.10 menziona espressamente “la natura e lo scopo del contratto”. Gli standards in base ai quali il contratto (o la singola clausola) in questione vanno valutati sono le pratiche commerciali e la generalità dei contratti dello stesso tipo conclusi da parti con eguale potere contrattuale>>. 686 Cfr. il Commento 1 all’art. 3.10: “Anche una considerevole disparità tra il valore ed il prezzo, o qualche altro elemento che turbi l’equilibrio tra prestazione e controprestazione, non

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Quanto al presupposto di natura procedurale, rispetto agli artt. 1447 e

1448 c.c., che individuano quali circostanze rilevanti ai fini della rescindibilità

del contratto, rispettivamente, lo stato di pericolo e lo stato di bisogno, la

formulazione dell’art. 3.10 dei Principi UNIDROIT è più ampia, dal momento

che in essa figurano ulteriori circostanze in presenza delle quali lo squilibrio è

da ritenersi ingiustificato687.

Un’altra, significativa, differenza tra le discipline in esame riguarda la

possibilità di ricondurre il contratto ad equità, atteso che, mentre l’art. 1450

c.c. legittima esclusivamente il contraente avvantaggiato a formulare l’offerta

di modificazione del contratto rescindibile, l’art. 3.10 consente anche alla

parte lesa di salvare il regolamento contrattuale.

è sufficiente a permettere l’annullamento … del contratto in base al presente articolo. Quel che si richiede è che lo squilibrio, nelle singole circostanze, sia così grande da colpire la coscienza di una persona ragionevole”. Sul punto v. R. Lanzillo, La proporzione, cit., p. 256. 687 Nell’ambito di tali presupposti, non poche incertezze suscita lo “stato di dipendenza” in merito al quale il Commento 2(a) all’art. 3.10 afferma che “un maggiore potere contrattuale derivante dalle condizioni del mercato da solo non sarà sufficiente”. Tuttavia, ad avviso di M. J. Bonell, Un “Codice” Internazionale del Diritto dei Contratti. I Principi UNIDROIT dei

Contratti Commerciali Internazionali, cit., p.128, “resta comunque da vedere sino a che punto ciò vale anche in situazioni di monopolio o oligopolio. Una parte può benissimo sfruttare la sua posizione dominante per imporre un contratto (o una singola clausola) manifestamente iniqua all’altra parte, e non si vede per quale motivo quest’ultima non dovrebbe in tal caso essere legittimata ad annullare il contratto (o la singola clausola) in base all’articolo in esame. Solo qualora la parte dominante ottenesse un vantaggio eccessivo senza sfruttare la dipendenza economica dell’altra parte, e quest’ultima subisse uno svantaggio solo nei confronti dei suoi concorrenti, si potrebbe affermare che il caso esula dall’ambito di applicazione di questa disposizione, e che ad esso dovrebbero tutt’al più trovare applicazione le (eventuali) norme che vietano le pratiche restrittive della concorrenza”. Critica la poca chiarezza del concetto di “stato di dipendenza” anche U. Drobnig, Protection of the Weaker

Party, cit., p. 221: “[The status of dependance] is given a rather broad meaning by the official comments. These indicate that one contracting party may depend upon the other party; unfortunately, that potentially rather far-reaching conception is not specified. Instead, one merely finds the negative and rather obvious statement that a superior bargaining power due to market conditions alone does not constitute such dependence. This unclarity concerning the concept of dependence must be regretted”.

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Tale ultima norma, infatti, oltre a prevedere che il contraente

avvantaggiato possa chiedere che il contratto sia modificato, anziché del tutto

annullato - purché ne informi prontamente l’altra parte, dopo aver ricevuto

l’avviso di annullamento e prima che quest’ultima abbia agito facendovi

affidamento (comma 3) 688 - dispone che, su richiesta della parte lesa, il

giudice possa “adattare il contratto o le sue clausole in modo da renderlo

conforme ai criteri ordinari di correttezza nel commercio”.

Infine, mentre l’art. 1449 c.c. fissa in un anno il termine di prescrizione

dell’azione di rescissione o, qualora il fatto costituisca reato, il termine

eventualmente più lungo previsto dalla legge penale, a decorrere dalla

conclusione del contratto689 , l’art. 3.15 dei Principi UNIDROIT non pone

termini rigidi per proporre l’impugnazione del contratto, prescrivendo soltanto

che l’avviso di annullamento venga comunicato “entro un tempo ragionevole

avuto riguardo alle circostanze”, decorrente “dal momento in cui l’altra parte

intende avvalersi della clausola” annullabile ai sensi dell’art. 3.10690.

Oltre a sanzionare, attraverso la previsione contenuta nell’art. 3.10, gli

abusi congiuntamente procedurali e sostanziali, i Principi UNIDROIT

prevedono dei rimedi anche contro i soprusi che siano, esclusivamente,

procedurali o sostanziali.

688 In tale ipotesi, qualora vi sia disaccordo tra le parti sulla procedura da seguire, spetterà al giudice decidere se il contratto debba essere annullato o adattato e, in quest’ultimo caso, a quali condizioni. 689 Inoltre, ai sensi del secondo comma della norma in parola, è preclusa la possibilità di opporre in via di eccezione la rescindibilità del contratto quando sia prescritta l’azione. 690 Quando l’annullabilità del contratto non derivi dalla gross disparity, ai sensi del comma 1 dell’art. 3.15, il tempo ragionevole entro cui deve essere dato l’avviso di annullamento decorre “dal momento in cui la parte interessata che intende annullare il contratto abbia conosciuto o non avrebbe potuto ignorare i motivi di annullamento o sia stata in grado di agire liberamente”.

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Con riferimento ai primi, vanno segnalati l’art. 3.8 (Dolo), in virtù del

quale “una parte può annullare il contratto quando sia stata indotta a

concluderlo dall’inganno della controparte, attuato anche con parole o

comportamenti, o nascondendo dolosamente alla parte stessa circostanze che

in base ai criteri ordinari di correttezza nel commercio avrebbe dovuto

comunicarle” e l’art. 3.9 (Violenza), il quale prevede che una minaccia

costituisce motivo di annullamento del contratto se è, al tempo stesso, ingiusta

e così imminente e grave “da non lasciare alcuna ragionevole alternativa”691.

A tali disposizioni se ne aggiungono altre che regolano la prassi

commerciale internazionale, consistente nell’utilizzo di condizioni generali o

clausole standard, al fine di tutelare la parte aderente692.

In tale contesto si colloca, innanzitutto, l’art. 2.19 (Uso di clausole

standard), in base al quale le regole generali sulla formazione dei contratti si

applicano anche nel caso in cui una o entrambe le parti facciano uso di

clausole standard693, con la conseguenza che le clausole standard costituiranno

691 Tale ultima norma precisa che “una minaccia è ingiusta se l’atto o l’omissione con i quali la parte è stata minacciata sono illeciti di per sé, o è illecito usarli come mezzo per ottenere la conclusione del contratto”. 692 In relazione ai rimedi fin qui descritti, è interessante notare come, mediante la disposizione contenuta nell’art. 3.11, la loro operatività venga estesa alle ipotesi in cui l’eccessivo squilibrio tra le prestazioni, il dolo, la violenza (e l’errore) “siano imputabili o siano noti o avrebbero dovuto essere noti ad un terzo per i cui atti la controparte è responsabile”. In tali casi “il contratto può essere annullato alle stesse condizioni che se il comportamento o la conoscenza fossero stati quelli della controparte in persona” (comma 1). Ai sensi del comma 2, “qualora il dolo, la violenza o lo squilibrio eccessivo tra le prestazioni siano imputabili ad un terzo per i cui atti la controparte non è responsabile, il contratto può essere annullato se la controparte era a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza del dolo, della violenza o dello squilibrio eccessivo delle prestazioni, o comunque se al tempo in cui il contratto è stato annullato essa non aveva ancora agito facendo affidamento sul contratto”. 693 Ai sensi dell’art. 2.19, comma 2, per clausole standard “si intendono le disposizioni preparate in anticipo da una parte per un uso generale e ripetuto ed effettivamente usate senza aver costituito oggetto di trattative con la controparte”.

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parte integrante del contenuto contrattuale, qualora alle stesse sia fatto

esplicito od implicito riferimento694.

Ciò nonostante, in considerazione delle consuete modalità con le quali

tali clausole vengono predisposte e sottoposte all’aderente, potrebbe accadere

che questi le accetti senza avere piena consapevolezza dei loro effetti695.

Per ovviare a tali inconvenienti, l’art. 2.20 (Clausole a sorpresa) priva di

efficacia la disposizione “contenuta in clausole standard che prevede un

carattere tale che l’altra parte non avrebbe ragionevolmente potuto

attendersela, salvo che quella parte l’abbia espressamente accettata” (comma

1), individuando come parametri per stabilire il carattere della clausola il suo

contenuto, la sua formulazione linguistica e presentazione grafica” (comma

2)696.

Nella medesima ottica, l’art. 2.21 (Conflitto tra clausole standard e altre

disposizioni) stabilisce che, in caso di conflitto tra una clausola standard ed

una clausola non standard, prevalga quest’ultima, trattandosi, evidentemente,

di clausola elaborata in seguito a trattativa individuale.

694 Secondo M. J. Bonell, Un “Codice” Internazionale del Diritto dei Contratti. I Principi

UNIDROIT dei Contratti Commerciali Internazionali, cit., p. 114, i requisiti prescritti dall’art. 2.19 sono “decisamente più restrittivi di quelli previsti … dal codice civile italiano, secondo il quale per l’efficacia delle condizioni generali è sufficiente che la parte non predisponente le conosceva o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza”. 695 Osserva M. J. Bonell, op. cit., p. 114 che “Le condizioni generali sono in genere piuttosto copiose e, per di più, sono stampate in caratteri minuscoli e redatte in uno stile che almeno ad una prima lettura non sempre è di agevole comprensione. Di conseguenza, può anche darsi che l’aderente le accetti senza essere stato in grado di leggerle tutte e/o di comprenderne interamente le implicazioni giuridiche”. 696 Il Commento 1 all’art. 2.20 chiarisce che lo scopo della norma è di “evitare che una parte possa servirsi delle clausole standard per trarre un ingiustificato vantaggio dalla sua posizione tentando subdolamente di imporre all’altra parte clausole che quest’ultima avrebbe difficilmente accettato, se solo le avesse conosciute”.

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Nell’ambito dei criteri ermeneutici, infine, l’art. 4.6, in ossequio alla

regola della interpretatio contra proferentem, prevede che, in caso di

significato ambiguo di clausole unilateralmente predisposte, si dia preferenza

ad una loro interpretazione sfavorevole alla parte che le abbia elaborate697.

Come accennato in precedenza, i Principi UNIDROIT regolano anche

l’ipotesi degli abusi di carattere sostanziale, predisponendo, tuttavia, dei

rimedi applicabili esclusivamente a due specifiche categorie di clausole: le

clausole di esonero da responsabilità e quelle che prevedono il pagamento di

una somma determinata in caso di inadempimento698.

Quanto alle prime, l’art. 7.1.6 prevede che non ci si possa avvalere di

una clausola che limiti o escluda la responsabilità di una parte per

inadempimento o che permetta ad una delle parti di eseguire una prestazione

sostanzialmente differente da quella che l’altra parte ragionevolmente si

aspetta se “avuto riguardo alle finalità del contratto, sarebbe manifestamente

ingiusto farlo”699.

697 Tale disposizione richiama l’art. 1370 c.c. 698 Al riguardo, osserva M. J. Bonell, op. cit., p. 117, che “i Principi UNIDROIT non contengono una disposizione generale che consenta di eliminare qualsiasi clausola contrattuale o, quanto meno, clausole contenute in condizioni generali, per il solo fatto che le stesse risultino sostanzialmente inique”. 699 Su tale disposizione, v. C. Castronovo, Inadempimento ed esatto adempimento nei Principi

UNIDROIT, in Contratti commerciali internazionali e Principi UNIDROIT, cit., p. 271 ss.. Secondo l’A. (p. 292) la norma in questione “non è costruita sul criterio di imputazione della responsabilità, ma in vista del risultato finale che l’esonero o la limitazione inducono nell’equilibrio tra le prestazioni contrattuali. Una impostazione rigorosamente oggettiva, che non si attarda a valutare le condotte per il significato di disvalore sociale che esse possono rappresentare, bensì si preoccupa che mediante clausole del genere si possa introdurre un elemento di grave squilibrio, ‘avuto riguardo alle finalità del contratto’. … Le ragioni di questa scelta possono dirsi almeno due. Da un lato la coerenza sistematica imponeva che non si facesse riferimento alla colpa e al dolo, nel momento in cui la responsabilità per inadempimento ne prescinde. Stando infatti all’art. 7.1.7, il debitore non risponde dell’inadempimento solo nelle ipotesi che la rubrica della stessa norma sinteticamente riconduce alla categoria della forza maggiore. D’altra parte non altrimenti si sarebbe potuta

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Ai sensi dell’art. 7.4.13, inoltre, le clausole che prevedono il pagamento

di una indennità in caso di inadempimento sono da considerarsi pienamente

valide, indipendentemente dal fatto che vi sia o meno corrispondenza fra la

somma fissata a titolo di indennità ed il danno effettivamente subito.

Tuttavia, se tale somma dovesse risultare manifestamente eccessiva, in

relazione al danno effettivo ed alle altre circostanze, essa “può essere ridotta

ad un ammontare ragionevole”700.

Analoghe tendenze emergono dai Principi di Diritto Europeo dei

Contratti, elaborati dalla Commissione presieduta da Ole Lando701.

Tali principi, benché siano sprovvisti di efficacia normativa -

trattandosi, al pari dei Principi UNIDROIT, di una mera elaborazione

dottrinale - si segnalano in quanto costituiscono espressione delle più recenti

esigenze avvertite a livello europeo nell’ambito della disciplina generale dei

contratti702.

dare disciplina alle clausole limitative nel momento in cui le si è associate in un’unica norma ad altre clausole che pure tendono a far scemare il peso o più semplicemente il costo del contratto per una delle parti, ma propriamente non possono dirsi clausole di limitazione o di esonero da responsabilità”. 700 Riguardo a tale disposizione, che richiama l’art. 1384 c.c., M. J. Bonell, op. cit., p. 123, fa notare che la somma stabilita in caso di inadempimento “può solo essere ridotta, non completamente ignorata. Solo in presenza delle condizioni richieste dall’art. 3.10 per l’annullamento della rispettiva clausola per eccessivo squilibrio, essa perderebbe qualsiasi valore e si potrebbe dar luogo alla condanna al pagamento di una somma corrispondente all’esatto ammontare del danno derivante dall’inadempimento. D’altro canto, se la somma fissata dalle parti dovesse risultare eccessivamente bassa, nel senso di essere chiaramente insufficiente per compensare il danno prevedibile, una clausola del genere potrebbe essere considerata come una clausola di limitazione della responsabilità e come tale essere inefficace alla stregua dell’art. 7.1.6, sempreché ricorrano le condizioni ivi previste, in quanto sarebbe manifestamente ingiusto che la parte inadempiente se ne volesse avvalere”. 701 Cfr. G. Alpa, I “Principles of European Contract Law” predisposti dalla Commissione

Lando, in Riv. critica dir. priv., 2000, p. 483 ss.. 702 V. R. Zimmermann, Lineamenti di un diritto europeo dei contratti, in Studium iuris, n. 3/1999, p. 233 ss..

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Essi, infatti, ai sensi dell’art. 1:101, si pongono quali norme generali di

diritto dei contratti dell’Unione europea e trovano applicazione “quando le

parti hanno convenuto di inserirli nel contenuto del contratto o hanno

convenuto che il contratto sia regolato da essi”.

Inoltre, possono trovare applicazione quando le parti hanno convenuto

che il contratto sia regolato dai <<principi generali del diritto>>, dalla <<lex

mercatoria>> o non hanno scelto altro sistema di regole o altre norme di

diritto per disciplinare il contratto (comma 3).

Infine, possono fornire la soluzione alla controversia da decidere nelle

ipotesi in cui “il sistema o le norme della legge applicabile non vi

provvedano” (comma 4).

I Principi Lando dedicano, nel Capitolo VI (Contenuto ed effetti),

diversi articoli alla determinazione del prezzo secondo criteri di

ragionevolezza703.

In particolare, l’art. 6:104 stabilisce che, nell’ipotesi in cui non sia

fissato il prezzo o il modo per determinarlo, si considera che le parti abbiano

convenuto un prezzo ragionevole (<<reasonable price>>)704.

703 Nei Principi UNIDROIT la determinazione del prezzo è regolata dall’art. 5.7, secondo cui “1) se un contratto non fissa il prezzo né contiene disposizioni che consentano di determinarlo, si reputa che le parti, in assenza di alcuna indicazione contraria, abbiano fatto riferimento al prezzo generalmente praticato al momento della conclusione del contratto per prestazioni dello stesso tipo in circostanze analoghe nel settore commerciale considerato, o se tale prezzo non sia determinabile, ad un prezzo ragionevole. 2) Se il prezzo deve essere stabilito da una delle parti e la determinazione da questa effettuata sia manifestamente irragionevole, tale prezzo deve essere sostituito con un prezzo ragionevole, senza tenere conto di alcuna eventuale clausola contraria”. 704 Ai sensi dell’art. 1:302, “è da ritenersi ragionevole ciò che chiunque in buona fede e nella stessa situazione delle parti dovrebbe considerare ragionevole. Nella valutazione di ragionevolezza si dovrà tenere conto, in particolare, della natura e dell’oggetto del contratto, delle circostanze del caso e degli usi e pratiche dei traffici o delle professioni interessate”.

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In caso di determinazione unilaterale del prezzo, o di altra clausola, che

sia manifestamente iniqua (<<grossly unreasonable>>), l’art. 6:105 prescrive

che, “nonostante qualsiasi previsione in contrario, sarà adottato in sostituzione

un prezzo equo o una clausola alternativa”705.

Dalla combinata lettura delle disposizioni testé citate, emerge una

contrapposizione tra il concetto di ragionevolezza e quello di manifesta

iniquità, come, peraltro, confermato dall’art. 6:106, il cui comma 2, in

particolare, stabilisce che, in caso di determinazione del prezzo o altra

clausola rimessa ad un terzo e manifestamente iniqua, “in sostituzione sarà

adottato un prezzo equo o altra clausola ragionevole”706.

Nell’ambito delle tutele speciali per l’inadempimento (Capitolo IX),

inoltre, l’art. 9:401 riconosce alla parte che abbia accettato una prestazione

non conforme al contratto, il diritto alla riduzione del prezzo707.

La norma in esame prescrive che la riduzione sia “proporzionata alla

diminuzione di valore della prestazione al momento dell’adempimento

rispetto al valore che in pari tempo avrebbe avuto una prestazione

705 La norma in esame ammette, quindi, la possibilità che il prezzo venga fissato da una soltanto delle parti, purché tale determinazione sia ragionevole. In caso contrario, “il giudice può proteggere il debitore nei confronti del creditore che fissi il prezzo in maniera abusiva. … La norma può essere applicata nel senso contrario del rapporto se è il debitore che deve fissare il prezzo. In questo caso il giudice può aumentare un prezzo del tutto insufficiente” (così il Commento all’art. 6:105, cit., p. 346). Al riguardo, è interessante notare come, a differenza dei Principi Lando, il Codice civile italiano ammetta espressamente solo la determinazione dell’oggetto e del prezzo da parte di un terzo (artt. 1349 e 1473); da tale constatazione, parte della dottrina fa discendere la inammissibilità della determinazione unilaterale di tali requisiti. A tal riguardo, v. R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit.. 706 Il comma 1 dell’articolo in parola prevede che quando il terzo non possa o non voglia procedere alla determinazione, a lui rimessa dalle parti, del prezzo o di altra clausola, “si presume che le parti abbiano voluto investire il giudice del potere di nominare un’altra persona che provveda alla determinazione”. 707 La norma in esame, pertanto, generalizza il rimedio dell’actio quanti minoris.

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conforme”708, prevedendo che la parte legittimata a chiedere tale riduzione,

che abbia già pagato una somma superiore al prezzo ridotto, possa ripetere

l’eccedenza dall’altra parte709.

Restando in tema di tutele speciali per l’inadempimento, l’art. 9:509,

analogamente a quanto previsto dall’art. 7.4.13 dei Principi UNIDROIT,

reprime l’abuso di carattere sostanziale che si verifichi nella specifica ipotesi

di convenzione di una clausola di liquidazione forfettaria del danno710.

Infatti, qualora la somma prevista risulti “manifestamente eccessiva

rispetto alla perdita conseguente all’inadempimento e in relazione alle altre

circostanze”, la stessa può essere ridotta ad un “ammontare congruo”,

nonostante qualsiasi contrario accordo711.

Ai fini della presente indagine, particolare interesse riveste, altresì, l’art.

4.109, espressamente dedicato all’“ingiusto profitto o vantaggio iniquo”

(excessive benefit or unfair advantage).

708 Il rimedio opera nelle ipotesi in cui la non conformità riguardi la quantità, la qualità, la tempestività dell’adempimento o altro profilo di questo. Cfr. Commento all’art. 9:401, cit., p. 486. 709 Ai sensi del comma 3, la riduzione del prezzo costituisce un rimedio alternativo al risarcimento del danno per la riduzione di valore della prestazione. Tuttavia, la parte non inadempiente “può pretendere il ristoro di ogni altra perdita subita, nella misura in cui questa sia risarcibile secondo quanto previsto dalla sezione quinta del presente capitolo”. 710 Il comma 1 del citato articolo stabilisce che tale somma è dovuta “a prescindere dal verificarsi di una effettiva perdita”. 711 Cfr. Commento all’art. 9:509, lett. B., cit., p. 514: “Dare alle parti completa libertà di fissare la somma da pagare nel caso di inadempimento può portare ad abusi. Se c’è grande differenza tra la somma pagabile per l’inadempimento e la perdita effettiva subita dal creditore, il giudice può ridurre la somma anche se al momento della stipulazione del contratto questa ha potuto apparire adeguata. Dato che l’intento è quello di controllare le clausole che siano abusive al momento in cui devono essere applicate (abusive in their effect), il potere di riduzione del giudice è esercitatile solo quando sia chiaro che la somma convenuta eccede in misura significativa il danno effettivo. Il potere del giudice ha un limite: deve rispettare la volontà delle parti di prevenire l’inadempimento e perciò non deve ridurre la pronuncia sui danni al danno effettivo. Il giudice deve attenersi a un valore intermedio”.

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La norma in esame consente ad una parte di annullare il contratto se, al

momento della conclusione di esso “fosse in situazione di dipendenza o

avesse una relazione di fiducia con l’altra parte, si trovasse in situazione di

bisogno economico o avesse necessità urgenti, fosse affetto da prodigalità,

ignorante, privo di esperienza o dell’accortezza necessaria a contrattare” (lett.

a) e “l’altra parte era o avrebbe dovuto essere a conoscenza di ciò e, date le

circostanze e lo scopo del contratto, ha tratto dalla situazione della prima un

vantaggio iniquo o un ingiusto profitto” (lett. b).

La ratio della disposizione consiste nel sanzionare gli squilibri

soggettivi, ossia le situazioni caratterizzate da asimmetria di potere

contrattuale tra le parti, comminando la annullabilità del contratto che ne

derivi.

In questo senso depone, infatti, la previsione, oltre al requisito oggettivo

dell’ingiusto profitto o vantaggio iniquo, della condizione di debolezza o di

bisogno della parte svantaggiata nonché della conoscenza o conoscibilità di

tale situazione da parte del contraente che ne abbia tratto vantaggio712.

Ne discende la irrilevanza dello squilibrio tra i valori delle prestazioni

scambiate, in sé e per sé considerato, a prescindere dalle concrete modalità di

contrattazione713.

712 V. G. Alpa, I “Principles of European Contract Law” predisposti dalla Commissione

Lando, cit., p. 492, secondo cui l’art. 4:109, a differenza degli artt. 1447 e 1448 c.c., non tratta distintamente le fattispecie di contratto concluso in stato di pericolo e in stato di bisogno, richiedendo per la propria applicabilità delle condizioni meno restrittive rispetto alle richiamate disposizioni codicistiche. 713 Cfr. Commento all’art. 4:109, lett. A., Pacta sunt servanda e approfittamento, in Principi di

diritto europeo dei contratti-Parte I e II. Edizione italiana a cura di C. Castronovo, Milano, 2001, p. 288: “La disciplina dei contratti non pretende che gli affari siano equi nel senso che le prestazioni oggetto dello scambio debbano essere di pari valore. Normalmente si ritiene che le parti siano i giudici migliori riguardo ai valori di quanto viene scambiato. Tuttavia molti

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267

Peraltro, nell’ottica di tutelare il contraente debole, la norma in esame

trova applicazione non soltanto in presenza di scambi eccessivamente

squilibrati in termini meramente economici714 , ma anche quando sia stato

ottenuto un vantaggio iniquo attraverso un comportamento scorretto, come

risulta dall’alternativo riferimento al “vantaggio iniquo” o all’“ingiusto

profitto” contenuto nel comma 1 lett. b) dell’art. 4:109715.

Ai sensi del comma 2, inoltre, su domanda della parte legittimata

all’annullamento, il giudice può, “ove il rimedio sia adeguato, modificare il

contratto in modo da metterlo in armonia con quanto avrebbe potuto essere

convenuto nel rispetto della buona fede e della correttezza”716.

Tale disposizione, quindi, consente al contraente svantaggiato di

preferire all’annullamento del contratto eccessivamente squilibrato la

conservazione del rapporto717, mediante modifica e sostituzione, da parte del

giudice, delle clausole inique718.

ordinamenti non danno riconoscimento ai contratti che implicano un grave evidente squilibrio tra i valori delle due prestazioni quando questo sembri essere conseguenza di una qualche debolezza contrattuale di una parte, della quale l’altra abbia tratto consapevole vantaggio”. 714 In riferimento ai quali, comunque, non è prevista alcuna soglia minima di rilevanza, a differenza dell’art. 1448 c.c. 715 Cfr., ancora, Commento all’art. 4:109, lett. D. (Ingiusto profitto) e E. (Vantaggio iniquo), cit., pp. 290 e 291. 716 Sulle differenze con la disciplina codicistica della rescissione, v. G. Alpa, op. ult. cit., p. 492, il quale, con specifico riferimento alla riconduzione ad equità, evidenzia come questa sia esclusa per il contratto concluso in stato di pericolo (essendo prevista soltanto la liquidazione di un equo compenso alla parte avvantaggiata per l’opera prestata) e sia ammessa, ma solo su richiesta della parte avvantaggiata, in caso di contratto concluso in stato di bisogno. 717 Ai sensi dell’art. 4:112, l’annullamento “deve essere fatto mediante comunicazione all’altra parte” e produce effetti restitutori e risarcitori secondo quanto previsto dagli artt. 4:115 e 4:117. 718 Sul punto, il Commento all’art. 4:109, lett. G. (Tutela), cit., p. 291, afferma espressamente che “secondo il comma 2 il giudice può perciò sostituire le clausole inique”. Il giudice, peraltro, ai sensi del comma 3, può modificare il contratto iniquo anche su domanda della parte avvantaggiata, alla quale sia stata inviata la comunicazione di annullamento, a condizione che “la parte che ha inviato la comunicazione ne sia informata prontamente da

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In definitiva, la norma de qua introduce il principio in base al quale il

contratto che, sin dal momento della sua stipulazione719, attribuisce ad una

parte un vantaggio eccessivo e che determina il conseguimento di un

vantaggio ingiusto, quando questo appaia essere il risultato dell’inferiore

potere contrattuale di una parte e del consapevole avvantaggiarsi dell’altra,

può essere invalidato o modificato su richiesta della parte svantaggiata720.

Al pari dei Principi UNIDROIT, anche i Principi di Diritto Europeo dei

Contratti contengono delle norme volte a reprimere gli abusi procedurali.

A tale proposito, si segnala, innanzitutto, l’art. 4:106, che riconosce il

diritto al risarcimento del danno (secondo quanto previsto dall’art. 4:117,

quella che l’ha ricevuta e prima che abbia potuto agire confidando nella comunicazione”. Le disposizioni contenute nei commi 2 e 3 dell’art. 4:109 ricalcano le corrispondenti norme dei Principi UNIDROIT, in precedenza richiamate. 719 Diversa è l’ipotesi in cui lo squilibrio sia conseguenza di un mutamento delle circostanze successivo alla conclusione del contratto, che abbia determinato una eccessiva onerosità della prestazione. In questi casi, l’art. 6:111 prevede un obbligo di rinegoziazione, sempre che tale mutamento non fosse ragionevolmente prevedibile al momento della conclusione del contratto e non rientrasse nei rischi che la parte può essere tenuta a sopportare, in relazione al contratto. In caso di mancato accordo “in un tempo ragionevole”, il giudice può “(a) sciogliere il contratto a far data da un termine ed alle condizioni che il giudice stesso stabilirà o (b) modificare il contratto in modo da distribuire tra le parti in maniera giusta ed equa le perdite e i vantaggi derivanti dal mutamento di circostanze” (comma 3). In entrambe le ipotesi, “il giudice può condannare al risarcimento dei danni per la perdita cagionata dal rifiuto di una parte di intavolare trattative o dalla rottura di esse in maniera contraria alla buona fede e alla correttezza”. Al riguardo, è interessante notare come l’art. 6:111 distingua tra l’ipotesi in cui la prestazione sia divenuta più onerosa (more onerous) e quella in cui sia divenuta eccessivamente onerosa (excessively onerous), limitando la propria operatività soltanto in presenza di quest’ultima. Sul punto, v. R. Zimmermann, op. cit., p. 239, il quale osserva che “sia secondo gli Unidroit-Principles sia secondo la disciplina delineata dalla Commissione Lando, nel caso di <<hardiship>>, o, rispettivamente, di <<change of circumstances>>, le parti debbono in primo luogo impegnarsi in nuove trattative, al fine di modificare o di risolvere il contratto: una regola, questa, che meglio di ogni altra corrisponde evidentemente al principio generale dell’autonomia privata”. La disciplina appena descritta si discosta da quella contenuta negli artt. 1467 ss. c.c., in quanto quest’ultima non prevede alcun potere del giudice di interferire nel piano di ripartizione dei rischi, dei vantaggi e degli svantaggi, ma consente soltanto alla parte contro la quale è domandata la risoluzione, di evitarla, offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. 720 Così R. Rolli, Le attuali prospettive di <<oggettivazione dello scambio>>, cit., p. 635 ss..

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commi 2 e 3) alla parte che abbia concluso il contratto fidando su

informazioni inesatte dell’altra parte, “anche quando le informazioni non

abbiano cagionato un errore essenziale ai sensi dell’art. 4:103, salvo che la

parte che le ha fornite avesse ragione di credere che le informazioni fossero

esatte”721.

Ancora, l’art. 4:107 legittima all’annullamento del contratto la parte che

sia stata indotta a concludere il contratto dai raggiri usati dall’altra parte,

“mediante parole o comportamenti o qualsiasi mancata informazione che

invece secondo buona fede e correttezza avrebbe dovuto esserle rivelata”

(comma 1), precisando che i raggiri o la mancata rivelazione costituiscono

dolo quando hanno lo scopo di trarre in inganno (comma 2) 722.

Nel medesimo contesto va inscritto l’art. 4:108, in virtù del quale “il

contratto può essere annullato dalla parte che è stata indotta a concluderlo

dall’altra parte mediante la minaccia grave e seria di un atto: (a) che sia

illecito in sé, o (b) che sia illecito usare come strumento per ottenere la

conclusione del contratto, salvo che nelle circostanze la parte minacciata

avesse un’alternativa ragionevole”.

721 Tale norma rievoca, anche se con una formulazione molto più ampia, l’art. 1338 c.c., nonché le recenti disposizioni extracodicistiche che prevedono obblighi di trasparenza a tutela del consumatore. Essa pone a carico della parte che ha fornito l’informazione l’onere di dimostrare che aveva ragionevoli motivi per credere che fosse la verità. Sul punto, cfr. Commento all’art. 4:106, cit., p. 275. 722 Con riferimento alla condotta di mancata rivelazione di una informazione che, secondo buona fede e correttezza, avrebbe dovuto essere fornita, tale norma si pone quale completamento dell’art. 4:106. Ai sensi del comma 3, al fine di stabilire se la buona fede e correttezza imponevano ad una parte di rivelare una determinata informazione, deve aversi riguardo “a tutte le circostanze, e in particolare: (a) alla specifica competenza della parte; (b) al costo al quale ha potuto conseguire l’informazione in questione; (c) alla capacità dell’altra parte di conseguire da sé l’informazione; (d) all’importanza apparente dell’informazione per l’altra parte”. La disposizione in esame comporta l’annullabilità del contratto anche nell’ipotesi in cui l’informazione inesatta sia stata fornita con dolo e, cioè, con la consapevolezza della sua inesattezza e con l’intenzione di ingannare.

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I Principi, infine, contengono una norma specificamente destinata a

sanzionare lo squilibrio normativo.

L’art. 4:110, infatti, prevede l’annullabilità della clausola che non sia

stata oggetto di trattativa individuale se, in contrasto con la buona fede e la

correttezza, provochi un “significativo squilibrio nei diritti e nelle

obbligazioni contrattuali delle parti”, tenuto conto della natura della

prestazione, delle altre clausole del contratto e delle circostanze al momento

in cui il contratto è stato concluso (comma 1)723.

Tale disposizione, per espressa previsione del comma 2, “non si applica

a: (a) la clausola che fissa l’oggetto del contratto, sempre che essa sia

formulata in un linguaggio chiaro e comprensibile, né (b) all’adeguatezza del

valore delle obbligazioni di una parte rispetto al valore delle obbligazioni

dell’altra”.

La norma appena riportata presenta un evidente collegamento con gli

artt. 1469bis ss. c.c., dai quali, tuttavia, si discosta per taluni profili di

disciplina.

723 Qualora si tratti semplicemente di clausole che non siano state oggetto di trattativa individuale, l’art. 2:104 riconosce efficacia vincolante solo se su di esse la parte che le invoca abbia attirato in modo ragionevole l’attenzione della controparte, anteriormente o durante la conclusione del contratto. Al riguardo, il comma 2 precisa che “le clausole non si considerano portate adeguatamente all’attenzione dell’altra parte quando il documento contrattuale si limiti a farne mera menzione, anche quando tale parte abbia sottoscritto il documento”. In merito, v. G. Alpa, I “Principles of European Contract Law” predisposti dalla Commissione Lando, cit., p. 489, secondo cui la disciplina dettata dal Codice civile italiano del 1942 in tema di clausole unilateralmente predisposte “è più liberale, perché le ritiene efficaci se esse erano conoscibili secondo l’ordinaria diligenza; non è necessario che la parte che le invoca si attivi per attirare l’attenzione della controparte su di esse”. L’A. ravvisa, invece, una coincidenza tra la disciplina codicistica ed i Principi Lando “sul fatto che la sottoscrizione delle clausole di per sé è considerata indice di avvenuta conoscenza, sempre che - per quanto riguarda i PECL - la sottoscrizione sia separata e riguardi un documento e non il testo stesso del contratto, e, per quanto riguarda il cod.civ.it., le clausole non siano vessatorie, perché in tal caso esse debbono esser sottoscritte partitamene (artt. 1341 e 1342); anche in questo caso, però, la sottoscrizione partitamene effettuata è produttiva di effetti”.

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Innanzitutto, l’art. 4:110 è dotato di un ambito di operatività più ampio,

in quanto è privo di limitazioni di carattere soggettivo, legate a particolari

status dei contraenti, riferendosi tanto ai contratti tra soggetti privati, quanto ai

contratti commerciali724.

In secondo luogo, non contiene una elencazione delle clausole a priori

reputate abusive, rimettendo, quindi, al giudice il compito di accertare

l’iniquità della clausola che non sia stata oggetto di trattativa individuale725.

La norma in esame, inoltre, mediante l’utilizzo della espressione “in

contrasto con la buona fede”, quale parametro per accertare la abusività della

clausola, e l’esplicito riferimento all’annullabilità, quale rimedio

sanzionatorio726, non fa sorgere i dubbi interpretativi che, invece, sono stati

724 Secondo G. Alpa, op. ult. cit., p. 493, l’art. 4:110 è del tutto innovativo, perché “riporta all’interno delle regole generali sul contratto la disciplina delle clausole vessatorie contenute nei contratti dei consumatori”. Al riguardo, cfr., altresì, C. Castronovo, I <<Principi di diritto

europeo dei contratti>> e l’idea di codice, in Riv. dir. comm., 1995, I, p. 30: “I <<Princìpi di diritto europeo dei contratti>> sono regole che intendono applicarsi ai contratti in generale, secondo la prospettiva tradizionale dei codici, i quali vollero riguardare l’uomo senza qualità, a prescindere cioè da status i quali, per la loro funzione particolarizzante tendono invece a discipline differenziate. È chiaro infatti che la norma, la quale testualmente si riferisce non soltanto alle condizioni generali di contratto, ma alle clausole non individualmente negoziate, può trovare di per sé applicazione non solo nei rapporti tra imprenditori e consumatori, ma pure nei rapporti tra imprenditori ed eventualmente tra soli consumatori. Il risultato è apparentemente paradossale: la generalizzazione operata dai Princìpi a riguardo di una norma concepita originariamente a tutela di soggetti deboli identificati con i consumatori, rende applicabile la disciplina in questione anche nei rapporti tra soggetti appartenenti allo stesso status, in particolare tra imprenditori”. 725 A tale riguardo, nel Commento all’art. 4:110, lett. A., si osserva che “nei contratti tra professionisti una elencazione di clausole contrattuali da considerare per sé inique, a causa della diversità dei contratti commerciali, è generalmente ritenuta del tutto impraticabile”. 726 Peraltro, mentre l’art. 1469 quinquies c.c. statuisce che, nell’ipotesi di vessatorietà e, quindi, di inefficacia di una clausola “il contratto rimane efficace per il resto”, l’art. 4:116 dei Principi Lando prevede che l’annullamento di singole clausole “riguarderà soltanto queste salvo che, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, risulti irragionevole mantenere il contratto per la parte restante”.

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generati, nel nostro ordinamento giuridico, dalla non altrettanto chiara

formulazione degli artt. 1469bis e 1469 quinquies c.c.727.

Al pari di quanto stabilito dall’art. 1469ter c.c., l’art. 4:110 esclude che

possa costituire oggetto di valutazione da parte del giudice o degli arbitri la

relazione tra il prezzo e la prestazione qualificante del contratto728.

L’ambito di operatività della tutela contro i soprusi di natura

procedurale è esteso, in virtù del disposto dell’art. 4:111, ai comportamenti

posti in essere da terzi, non soltanto quando la parte debba rispondere del loro

operato (perché, ad esempio, si tratta di mandatari o dipendenti) o, comunque,

presti il consenso alla partecipazione del terzo alla formazione del contratto,

ma anche quando non debba risponderne729.

Con riferimento alla prima ipotesi, l’art. 4:111 stabilisce che quando un

terzo provochi un errore nel fornire una informazione; è, o dovrebbe, essere a

conoscenza di un errore; fornisca una formazione inesatta; agisca in modo

fraudolento; commetta violenza o tragga un ingiusto profitto od un vantaggio

iniquo, si applicano i mezzi di tutela previsti negli articoli precedenti, “sulla

727 Su cui v. supra, parte Terza, Capitolo IX. 728 Cfr. Commento all’art. 4:110, lett. D. Oggetto del contratto, cit., p. 298. Ancora più esplicita la lett. E. Clausole abusive e profitto sproporzionato, nella quale, in riferimento al rapporto tra gli artt. 4:109 e 4:110 si afferma che essi si occupano di situazioni differenti. Infatti, il primo “disciplina l’ipotesi in cui A approfitta della situazione difficile di B. La norma regola l’ipotesi in cui il prezzo o altre prestazioni qualificanti del contratto ovvero le condizioni generali siano eccessive in un senso o in un altro. L’art. 4:110 si occupa delle condizioni generali e non del prezzo. Esso riguarda un’ipotesi del tutto frequente, che è quella in cui una parte ha predisposto in anticipo le clausole”. 729 L’art. 4:111 trova il proprio corrispondente nei Principi UNIDROIT nell’art. 3.11, il quale effettua una distinzione sulla base della circostanza che la parte avvantaggiata sia o meno responsabile degli atti del terzo. Nel primo caso, il contratto può essere annullato “alle stesse condizioni che se il comportamento o la conoscenza fossero stati quelli della controparte in persona” (comma 1); nel secondo, “se la controparte era a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza del dolo, della violenza o dello squilibrio eccessivo delle prestazioni, o comunque se al tempo in cui il contratto è stato annullato essa non aveva ancora agito facendo affidamento sul contratto” (comma 2).

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base dei medesimi presupposti, come se si trattasse della condotta o della

conoscenza della parte stessa”730.

Qualora tali condotte siano poste in essere da un “qualsiasi altro

soggetto”, i predetti mezzi di tutela si applicano “se la parte conosceva o

doveva conoscere i fatti relativi, o al momento dell’annullamento non ha agito

facendo affidamento sul contratto”731.

L’intero sistema dei rimedi contro gli abusi predisposto dai Principi

Lando, infine, è caratterizzato dalla inderogabilità, in virtù dell’art. 4:118, che

espressamente vieta la esclusione e la limitazione delle tutele previste per il

dolo, la violenza, l’ingiusto profitto o vantaggio iniquo, nonché del diritto

all’annullamento della clausola abusiva che non sia stata oggetto di trattativa

individuale732.

730 Nel nostro ordinamento giuridico, cfr., per la responsabilità contrattuale, l’art. 1391, comma 1, c.c., secondo cui “nei casi in cui è rilevante lo stato di buona o di mala fede, di scienza o d’ignoranza di determinate circostanze, si ha riguardo alla persona del rappresentante, salvo che si tratti di elementi predeterminati dal rappresentato” e, per la responsabilità aquiliana, l’art. 2049 c.c., che prevede la responsabilità di padroni e committenti per i danni arrecati ”da fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. 731 Come chiarito nel Commento all’art. 4:111, lett. D., cit., è sembrato equo “consentire alla parte che ha stipulato il contratto a causa del dolo, ecc. di un terzo, o a causa di un errore che un terzo conosceva o doveva conoscere, annullare il contratto anche quando l’altra parte non conosceva e non aveva ragione di conoscere tale situazione, a condizione che la parte che intende annullare il contratto provi che l’altra non ha ancora agito confidando nella validità dello stesso, persino lasciandosi sfuggire altre occasioni”. Con riferimento alla rilevanza che possono assumere, nel nostro ordinamento giuridico, le azioni di un terzo del quale la parte non debba rispondere, ai fini della validità del contratto, cfr. gli artt. 1434 e 1439, comma 2, c.c., dalla cui diversa formulazione discende che la violenza, contrariamente al dolo - che per avere rilevanza nei contratti deve provenire dall’altro contraente o quanto meno essergli noto - produce l’annullabilità del negozio anche se esercitata da un terzo, indipendentemente da uno stato soggettivo di scienza dell’altro contraente. Anche per l’azionabilità del rimedio rescissorio gli artt. 1447 e 1448 c.c. richiedono la conoscenza, da parte del contraente (o del suo rappresentante) dello stato di pericolo o di bisogno in cui versa la controparte. 732 Si tratta, quindi, di una espressa deroga al principio dell’autonomia contrattuale, in base al quale “le parti possono escludere l’applicazione di una qualsiasi norma contenuta nei Principi o derogarvi o modificarne gli effetti” (art. 1:102).

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Alla luce di quanto fin qui osservato, si può affermare che sia Principi

UNIDROIT che i Principi di Diritto Europeo dei Contratti, manifestano -

rispetto a quanto previsto dal nostro Codice civile - una marcata tendenza ad

ampliare le possibilità di impugnazione dei contratti sperequati, soprattutto in

presenza di situazioni caratterizzate da disparità di potere contrattuale tra le

parti733.

La medesima tendenza è, inoltre, ravvisabile nel Progetto di Codice

europeo dei contratti elaborato dall’Accademia dei Giusprivatisti Europei.

In particolare, l’art. 30, comma 3, prevede un rimedio denominato

“rescissione per lesione”, il quale, tuttavia, si discosta notevolmente dal

tradizionale istituto rescissorio contemplato dal nostro Codice civile,

avvicinandosi, piuttosto, all’“excessive benefit or unfair advantage” dei

Principi Lando ed alla “gross disparity” dei Principi UNIDROIT.

Difatti, in base a tale norma, è rescindibile, in relazione all’art. 156, “il

contratto con il quale una parte, abusando dello stato di pericolo, di necessità,

di incapacità di intendere e di volere, di inesperienza, di soggezione

733 Secondo R. Lanzillo, La proporzione, cit., p. 258, entrambi i progetti “includono l’esplicita ammissione dell’impugnabilità dei contratti sperequati, per ragioni attinenti alla disparità di potere contrattuale fra le parti. Non solo, ma i requisiti oggettivi e soggettivi per l’impugnazione sono talmente ampi e generici da rimettere sostanzialmente alla discrezionalità del giudice la valutazione circa il carattere più o meno razionale e giustificato delle scelte di prezzo degli operatori economici, secondo un modello che è tipico della common law”. Per una considerazione complessiva sui Principi Lando, cfr. anche G. Alpa, I “Principles of European Contract Law” predisposti dalla Commissione Lando, cit., pp. 496 e 497, il quale osserva che <<pur essendo frequenti i richiami alla intenzione delle parti, il contratto è considerato nella sua oggettività; è palese la volontà dei redattori di salvare l’operazione economica, attraverso gli interventi del giudice; è palese altresì l’intento di moralizzare il comportamento contrattuale, con i frequenti richiami alla buona fede e alla correttezza e con i rimedi volti a sopprimere l’abuso del potere contrattuale; la funzionalità del contratto prevale sulla volontà delle parti; l’equilibrio contrattuale non è intangibile, quando circostanze esterne straordinarie e imprevedibili, o gravi squilibri originari pongano le parti in una situazione fortemente differenziata. L’intervento del giudice volto a “riscrivere” il contratto in luogo delle parti denuncia l’inesorabile tramonto della “sanctity of contract”>>.

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economica o morale della controparte, fa promettere o dare a sé o a terzi una

prestazione, o altri vantaggi patrimoniale, manifestamente sproporzionati

rispetto alla controprestazione da lei data o promessa” 734.

Evidenti appaiono le differenze rispetto agli artt. 1447 e 1448 c.c., per

quanto concerne, innanzitutto, i presupposti di carattere soggettivo.

Infatti, l’art. 30 del Codice dell’Accademia dei Giusprivatisti europei -

al pari dell’art. 3.10 dei Principi UNIDROIT e dell’art. 4:109 dei Principi

Lando - indica una più ampia tipologia di situazioni soggettive che possono

determinare una condizione di inferiorità di una parte nei confronti dell’altra

e, quindi, favorire comportamenti prevaricatori735.

Quanto ai presupposti di carattere oggettivo, a differenza dell’art. 1448

c.c., l’art. 30, comma 3, non fissa alcuna soglia minima di rilevanza,

rimettendo, quindi, al giudice, il compito di stabilire - in relazione alle

circostanze concrete - quale sia il livello di sproporzione tollerabile.

In definitiva, sia dalla elaborazione dei Principi UNIDROIT che dai

progetti di codificazione europea, emerge in modo evidente la propensione, da

734 L’art. 156 stabilisce che la parte che intenda procedere alla rescissione del contratto “deve indirizzare alla controparte una dichiarazione, contenente le necessarie indicazioni, alla quale si applicano le disposizioni di cui agli artt. 21 e 36, comma 2”. Inoltre, ai sensi del comma 5, “l’intenzione o comunque la consapevolezza di una parte di abusare della situazione di inferiorità o di inesperienza della controparte possono risultare dalle circostanze; ma devono comunque escludersi nei contratti aleatori e qualora la controparte medesima abbia manifestato la volontà di versare un corrispettivo elevato a motivo della sua particolare affezione per l’oggetto del contratto, oppure se dai rapporti fra le parti sia dato dedurre che esse hanno voluto concludere un contratto misto, a titolo sia oneroso che lucrativo”. Il successivo comma 6 stabilisce che la rescissione del contratto “non ha luogo se il contenuto di esso viene ricondotto ad equità in base all’accordo delle parti stesse, o, su istanza di una di esse, da un provvedimento del giudice”. 735 Secondo A. D’Angelo, La buona fede, cit., p. 289, l’art. 30, comma 3, del Codice dell’Accademia dei Giusprivatisti europei “ripete dal §138 del BGB la qualificazione di illiceità, e fonde elementi delle fattispecie definiti da quest’ultimo, dall’art. 428 e dagli artt. 1447 e 1448 c.c. e dall’art. 9 della legge sulla subfornitura”.

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parte della dottrina più recente, a sanzionare gli abusi nella formazione del

contratto, in cui lo squilibrio non rileva di per sé, ma in correlazione a

circostanze e condotte della fase formativa.

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NOTE DI RIEPILOGO

Esiste nel nostro sistema giuridico un principio generale di adeguatezza

del corrispettivo contrattuale?

Per rispondere all’interrogativo, la ricerca prende le mosse dalla

disciplina codicistica, ed individua gli strumenti da questa offerti a garanzia

della congruità dello scambio.

In tale prospettiva, vengono anzitutto prese in considerazione la

rescissione e la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, istituti

espressamenti destinati a regolare il rapporto tra i valori delle prestazioni.

Sono, altresì, prese in considerazione le ulteriori disposizioni

codicistiche - alcune facenti parte dello statuto generale dei contratti (ad es.,

art. 1349 c.c.), altre della disciplina di singoli tipi contrattuali (ad es., artt. ,

1474, 1537, 1538, 1664, 1657, 1709, 2225, 2233 c.c.) - inerenti al requisito

dell’oggetto del contratto o del corrispettivo della prestazione, che prevedono,

in talune ipotesi, un potere giudiziale di determinazione del contenuto

contrattuale.

Nell’ottica di individuare altri rimedi codicistici contro i contratti

sperequati, vengono, nel contempo, esaminati la incapacità naturale, il dolo e

l’errore, allo scopo di valutarne la rilevanza nell’ambito dell’equilibrio

contrattuale.

All’esame dei tratti essenziali della normativa codicistica sulla

congruità dello scambio, segue la ricostruzione del percorso tracciato dalla

elaborazione giuriprudenziale, che da una iniziale indifferenza nei confronti

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del problema della proporzione contrattuale, giunge, attraverso la

valorizzazione del requisito causale, ad una vera e propria oggettivazione

dello scambio, richiedendo, ai fini della validità del contratto, l’equivalenza,

almeno tendenziale, fra le prestazioni.

Tra le pronunce esaminate, interessante si rivela una sentenza del

Pretore di Salerno del 23 febbraio 1993 che, malgrado la declaratoria di nullità

per mancanza di causa di un contratto di fornitura a domicilio di prestazioni

didattiche, concluso a condizioni particolarmente onerose, in realtà consente

l’impugnativa di siffatto contratto in ragione della disparità di forze fra le

parti.

La pronuncia evidenzia, così, uno spostamento dell’attenzione della

giurisprudenza dal problema dell’equilibrio economico fra le prestazioni a

quello dell’equilibrio delle posizioni delle parti, nonché alla connessa tematica

dei rapporti tra autonomia contrattuale ed intervento del giudice, come,

peraltro, confermato dalla nota sentenza della Corte Costituzionale tedesca del

19 ottobre 1983.

Tale orientamento ravvisa l’implicazione di un precetto di giustizia

contrattuale nella clausola generale di buona fede, esprimentesi in pronunce di

invalidità dei contratti sperequati per violazione di principio imperativo.

La funzione non soltanto integrativa, ma anche correttiva

dell’autonomia privata attribuita alla buona fede - che ha trovato una decisa

espressione nella sentenza della Cassazione n. 10511/1999, sulla riducibilità

ex officio della penale eccessiva - impone una riflessione sui rapporti con

l’equità, quale ulteriore fonte di integrazione del contratto, nonché sul ruolo

da questa svolto in relazione all’equilibrio contrattuale.

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La tendenza, manifestatasi nella giurisprudenza degli ultimi dieci anni,

a preservare l’equilibrio delle posizioni delle parti, piuttosto che l’equilibrio

tra i valori di beni scambiati, trova ulteriori e significativi riscontri nella più

recente normativa, specie di derivazione comunitaria.

In particolare, la disciplina dei contratti del consumatore, della

subfornitura nelle attività produttive, dei diritti dei consumatori e degli utenti,

ed il decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo),

testimoniano l’esigenza, sempre più pressante, da parte del legislatore, di

tutelare il contraente debole da comportamenti prevaricatori (generalmente

definiti in termini di “abuso”) della controparte, dotata di una posizione

contrattuale più vantaggiosa, predisponendo rimedi più incisivi di quelli

previsti dagli artt. 1341 e 1342 c.c.; non mancano, tuttavia, interventi che

denotano una rinnovata attenzione ai profili prettamente economici del

rapporto contrattuale, come avviene nella disciplina sull’usura.

Analoghe tendenze volte a porre rimedio all’asimmetria di potere

contrattuale tra le parti si ravvisano, altresì, nei Principi Unidroit e nei progetti

di codificazione europea, nei quali la tutela del contraente debole viene

assicurata, in misura più intensa che nel nostro ordinamento giuridico, in

particolar modo attraverso gli istituti della “gross disparity” (art. 3.10 Principi

Unidroit), dell’ “excessive benefit or unfair advantage” (art. 4.109 Principi

Lando) e della “rescissione per lesione” prevista dall’art. 30, comma 3, del

Progetto di Codice europeo dei contratti elaborato dall’Accademia dei

Giusprivatisti Europei, i quali si distinguono dal tradizionale rimedio

rescissorio, per un ampliamento delle condizioni soggettive idonee a favorire

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comportamento prevaricatori e per la mancanza di qualsiasi soglia minima di

rilevanza della sproporzione.

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