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Università degli Studi di Siena
Dipartimento di Economia politica e Statistica
Complementi di Economia internazionale
Sergio Cesaratto
Anno accademico 2019-20
Capitolo 3
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Capitolo 3
La teoria marginalista in economia chiusa ed aperta
Indice
1. Il marginalismo, parte reale e parte monetaria
2. Teoria marginalista del commercio interazionale
3. Movimenti internazionali dei “fattori produttivi”
4. Teoria monetaria della bilancia dei pagamenti
1. Il marginalismo, parte reale e parte monetaria
Origini della teoria marginalista o neoclassica9
Negli ultimi trent'anni del XIX° secolo si afferma la teoria economica "marginalista"
radicalmente diversa da quella antecedente Classica di Smith e Ricardo. Elemento centrale di tale
teoria era l’idea che non vi fosse una distribuzione del reddito “naturale” fra le classi sociali –
ovvero oggettivamente dettata da qualche legge iscritta nelle cose -, ma che essa dipendesse dai
rapporti di forza fra le stesse classi. Questa impostazione era già stata corrotta da autori di poco
successivi a David Ricardo. Altri autori, come i socialisti ricardiani e Marx, avevano invece tratto
dall'impostazione teorica classica implicazioni piuttosto radicali circa la natura della distribuzione
del reddito nella società capitalista, implicazioni tanto più pericolose per lo status quo in quanto
fondate sulle analisi di colui che era considerato il più grande degli economisti borghesi, David
Ricardo. Quanto la teoria marginalista sia stata una risposta a tali implicazioni è un problema
aperto. La questione più scottante era, evidentemente, quella dell'origine dei profitti, "residuale"
secondo la teoria classica (ciò che rimaneva del prodotto sociale una volta detratti i salari per i
lavoratori); legata al "sacrificio" che comporta l'accumulazione di capitale (sacrificio in termini di
rinuncia a consumare il prodotto allo scopo di investirlo) secondo la nuova impostazione. Il termine
oggi in voga per definire il marginalismo è di teoria "neo-classica" in seguito al tentativo,
soprattutto dell'economista inglese Alfred Marshall (1842-1924), fra i fondatori del marginalismo,
di rivendicare una continuità fra la vecchia impostazione (Classica) e la nuova. Chi ritenga però che
tale continuità abbia scarso fondamento, farà bene ad usare il termine "teoria neoclassica" con molta
consapevolezza. In voga per definire la teoria marginalista, soprattutto nei moderni manuali di
macroeconomia, è anche il termine di teoria “classica” – termine che invero introdusse lo stesso
Keynes per definire la teoria tradizionale -, quasi ad abolire del tutto la distinzione fra gli
economisti classici (Smith e Ricardo) ed i marginalisti. Uno studente universitario saprà ben
distinguere a seconda del contesto i casi in cui “classici” si riferisce agli economisti classici
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9 v. P.Garegnani e F.Petri, Marxismo e teoria economica oggi, in AA.VV. Storia del Marxismo, Einaudi, sez. 1 (parti a, c) e M.Pivetti, Economia Politica, Laterza, cap.1.
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propriamente detti da quelli in cui si riferisce ai fondatori del marginalismo. Ovviamente in questo
manuale il termine “classici” verrà impiegato nella prima, più corretta, accezione.
L’obiettivo che ci riproponiamo è dunque di studiare la determinazione della distribuzione e
del reddito nazionale (o prodotto nazionale) secondo gli economisti marginalisti. Al cuore di tale
determinazione vi sono, di nuovo, curve di domanda e offerta, non dei beni però, ma dei ‘fattori
produttivi (capitale e lavoro per semplicità). L’offerta dei fattori (come il lavoro, il capitale
[risparmio], le terre) proviene dalle famiglie. La domanda di fattori proviene dalle imprese sulla
base della loro convenienza ad utilizzarne di più o di meno. Dall’incrocio di domanda e offerta
otteniamo il prezzo di ciascun fattore (in particolare: salario per il lavoro, saggio di profitto per il
capitale) e la quantità di esso utilizzata in produzione. Conoscendo la quantità di fattori utilizzata in
produzione veniamo anche a conoscere la quantità di prodotto nazionale.
Come si vede per gli economisti marginalisti, la determinazione di reddito e distribuzione è
simultanea, per cui l’una influenza l’altra - per esempio se i salari non sono quelli di equilibrio, ciò
influenza direttamente i livelli di impiego del lavoro e della produzione. Nell’approccio Classico,
invece, la determinazione della distribuzione non è automaticamente connessa a quella del reddito
nazionale (per cui, per esempio, i salari reali possono variare senza che ciò abbia effetti automatici
sulla produzione).
Supporremo dunque una economia in cui è prodotto un solo bene, per esempio grano.
Questo semplifica molto l'esposizione e ci permette di concentrarci sul problema della teoria
marginalista della distribuzione e del livello del reddito esulando la teoria marginalista dei prezzi di
cui è necessario occuparsi per misurare il reddito in un mondo a più beni.11
10 Il resto lo è, parola di Oscar Wilde: “Miss Prims: ...Cecily, you will read your Political Economy in my absence. The chapter on the Fall of the Rupee you may omit. It is somewhat too sensational. Even these metallic problems have their melodramatic side.” Da The Importance of Being Earnest. 11 A rigore non si tratta neppure di una mera semplificazione in quanto si è rigorosamente dimostrato che le conclusioni della teoria marginalista sono validi esclusivamente in un mondo a un solo bene. Esamineremo questo punto più avanti.
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Fattori e funzione di produzione
I requisiti della produzione, cioè le risorse che con le tecnologie socialmente disponibili
sono necessarie per ottenere il prodotto sociale, sono dette dai teorici marginalisti "fattori della
produzione".
La funzione di produzione è un concetto centrale della teoria neoclassica. Indicando con Y
la quantità di prodotto (grano nel nostro caso semplificato), con K ed L i fattori della produzione,
rispettivamente "capitale" (misurato qui come quantità di grano) e lavoro (misurato in unità
lavorative), l'espressione
Y = F(K, L)
indica che la quantità di prodotto ottenibile è funzione della quantità di fattori impiegata. Se
le quantità disponibili di K ed L sono date, allora è la tecnologica, rappresentata dal termine "F", a
dettare la quantità di prodotto ottenibile. D'altra parte, dato un certo obiettivo di produzione, Y=Y*,
l'ipotesi più generale che si possa fare è che questo sia raggiungibile attraverso diverse
combinazioni di K ed L (per esempio con "tanto" K e "poco" L, o viceversa).
In questa teoria si assume che i rendimenti di scala siano costanti. Rendimenti di scala costanti
significa che se accresciamo di una medesima proporzione (per esempio raddoppiamo) la quantità dei
fattori, il prodotto aumenterà della medesima proporzione (raddoppia). Assumere rendimenti crescenti
(decrescenti) implicherebbe invece che la quantità di prodotto potrebbe accrescersi in maniera più
(meno) che proporzionale. Si assumono rendimenti di scala costanti per ragioni complicate. Una
ragione intuitiva è che vogliamo studiare come varia la produzione al variare della proporzione
relativa di ciascuno dei fattori utilizzati in produzione tenuta costante la quantità impiegata degli altri
(per esempio aumentando la quantità di lavoro data la quantità di capitale). Ma quando accresciamo
la quantità anche di un solo fattore varia la scala della produzione. Con rendimenti di scala
crescenti parte dell’aumento della produzione è attribuibile
all’”effetto di scala” e non al mero aumento del fattore considerato.12
Offerta di fattori
Supporremo che nella nostra economia l'offerta di fattori, lavoro e "capitale-grano" sia data,
e per esprimerlo scriveremo K = K* e L = L*. Rammentando che il saggio di profitto, r, è la
12 La funzione di produzione in forma analitica più nota ed usata dagli economisti neoclassici è quella Cobb- Douglas, che qui esprimiamo nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti per cui la somma degli esponenti di K ed L deve essere 1: Y AK L1 . In questa funzione A rappresenta il livello tecnologico. rappresenta la quota del prodotto che va a redditi da capitale; 1
è invece la quota che va a redditi da lavoro. Poiché
(1 ) 1 tutto il prodotto si esaurisce in profitto e salari.
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remunerazione del fattore "capitale"13, e w quella del fattore lavoro, la nostra supposizione può
essere espressa dicendo che l'offerta dei due fattori è rigida, cioè non varia al variare della loro
remunerazione - come sarebbe se, per esempio, quando aumenta il salario si offrisse più lavoro o se
all'aumentare del saggio di profitto aumentasse l'offerta di capitale-grano.14 Graficamente questo è
illustrato dalla figura 1:
13 Useremo in maniera intercambiabile la dizione tasso di profitto o tasso di interesse rammentando come dietro un capitale "reale" vi sia sempre un capitale finanziario. 14 Le quantità offerte di fattori, e la relativa remunerazione, sono relative all’unità di tempo prescelta. Così L può misurare i mesi-lavoro offerti al variare del salario mensile w; K potrebbe misurare la quantità di risparmio offerta annualmente al variare del tasso di interesse annuo i
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In effetti curve di offerta dei fattori “rigide” sono più plausibili di quelle crescenti, che pur
utilizzeremo. L’offerta di lavoro dipende infatti, almeno sopra un dato livello di salario considerato
il minimo “dignitoso”, dalla necessità di lavorare, e non tanto dalla prospettiva di salari sempre più
elevati. Così l’offerta di capitale (risparmio) dipende soprattutto dal reddito della famiglia che
risparmierà, se potrà, per motivi precauzionali, vecchiaia e così via, e non tanto dal tasso di
interesse percepito.
E' molto importante osservare che in questa economia semplificata l'offerta di "capitale-
grano" coincide con il risparmio offerto nell'unità di tempo considerata. Si rammenti che i risparmi
sono la parte del prodotto sociale non consumata:
S = Y - C.
Nella nostra economia semplificata di solo grano S = K*. Ci si può raffigurare questa economia
come una in cui a fine anno la parte del prodotto sociale Y non consumata come grano- farina viene
"risparmiata" e offerta come "capitale-sementi" per la produzione dell'anno successivo. Lo studente
continui ad identificare l’offerta di capitale con l’offerta di risparmio anche fuori la
metafora dell’economia-grano.15
Nei riguardi della curva di offerta di lavoro, l’abbiamo espressa come funzione di w, in
simboli
L0 L0 (w) , cioè del salario nominale (o monetario) in quanto c’è un unico bene, il grano,
il cui prezzo è posto uguale ad 1 (per cui il salario reale è w/p = w/1 = w). In generale tuttavia, con
più beni, si deve scrivere
L0 L0 (w / p), dove p è un indice dei prezzi, in quanto i lavoratori
quando offrono lavoro guardano al salario reale e non a quello nominale. Se si suppone che
una funzione crescente di w/p, la curva di offerta di lavoro avrà la forma della figura 2.
L0 sia
15 Anche laddove si considerassero, fuori dalla metafora dell’economia-grano, dei capitali fissi (vanghe, trattori ecc.), tali capitali avrebbero comunque la natura, nella visione neoclassica, di risparmi accumulati.
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Spesso anche la curva di offerta del capitale (risparmio) viene tracciata crescente rispetto al tasso di
interesse (lo faremo anche noi).
La domanda di fattori produttivi da parte della singola impresa: il prodotto marginale
Il prodotto marginale
Dal concetto di funzione di produzione discende quello di prodotto marginale. Questo è un
concetto importantissimo per i neoclassici. Matematicamente esso è la derivata parziale della funzione
di produzione rispetto a un fattore produttivo. Vediamo economicamente.
Supponiamo che in una impresa sia data la quantità di capitale - nella nostra economia il
capitale consiste di solo grano da usarsi come semente - e che l'imprenditore debba decidere quanto
lavoro impiegare. La parte superiore della figura 3 mostra come varia la quantità totale di prodotto
che si ottiene al variare della quantità applicata del L (fattore variabile) data una certa quantità del
K (fattore fisso). Si può osservare come gli incrementi di prodotto totale ottenuti da successivi
incrementi unitari del fattore variabile siano progressivamente più piccoli. Per esempio (v. tabella
1), dato un capitale-grano complessivo di 20 quintali, all’inizio l’impiego di un lavoratore fa
accrescere il prodotto totale di 10 quintali di grano, un secondo lavoratore di 11 q, e via dicendo,
sino al punto A del grafico. Questo è giustificato sostenendo che l’aumento progressivo dei lavoratori
consente una migliore organizzazione del lavoro, suddivisione delle mansioni ecc. che migliora i
risultati della semina del dato capitale-grano - si noti che qualitativamente i lavoratori sono per
ipotesi tutti egualmente capaci. Proseguendo nell’impiego del lavoro, l’incremento di produzione
attribuibile a ciascun lavoratore aggiuntivo è tuttavia progressivamente più piccolo. I
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vantaggi della migliore organizzazione cominciano infatti a scemare, anzi forse troppi lavoratori
cominciano ad affollarsi e il prodotto marginale potrebbe addirittura diventare negativo. Nell’esempio
il sesto lavoratore aggiunge 15 quintali alla produzione, quello successivo aggiunge solo 14, uno
ulteriore solo 13 e così via. Questi incrementi sono i prodotti marginali. Essi vengono indicati in
ordinata nella parte inferiore della figura 3, ottenendo la funzione del prodotto marginale.16
Economicamente l’andamento del prodotto marginale, prima crescente e poi decrescente, si
può dunque giustificare in quanto dosi successive di lavoro sono applicate a una quantità costante di
capitale o di terra (che costituiscono i “fattori fissi”). Per esempio due lavoratori seminano il grano
disponibile meglio di uno, tre ancor meglio ecc, ma gli incrementi di prodotto ottenuti da ciascun
lavoratore aggiuntivo sono prima crescenti, poi quando i lavoratori cominciamo a diventare molto
numerosi, magari si intralciano a vicenda, coordinarli diventa più difficile ecc, gli incrementi
cominciano a divenire sempre più piccoli. Come si vede, il massimo del prodotto marginale è in
corrispondenza al punto di cambiamento di concavità della funzione del prodotto totale
(matematicamente un punto di flesso).
Nell'ipotesi, dunque, di costanza della quantità di capitale (e di altri eventuali fattori fissi) è
plausibile ritenere che, almeno da un certo punto in poi, ogni lavoratore aggiuntivo aggiunga al
prodotto meno del lavoratore precedente. L'incremento di output ottenuto da un incremento del fattore
lavoro dato il fattore costante è detto prodotto marginale del lavoro (Pml). Matematicamente il Pml
è la derivata parziale rispetto ad L della funzione di produzione, in simboli PmL = Y/L.
Il prodotto marginale del lavoro è l'incremento di prodotto (per unità di tempo) ottenuto
incrementando la quantità di lavoro di una unità, data la quantità di capitale (e di altri eventuali
fattori fissi).
Nella figura 3 è anche mostrata la funzione del prodotto medio (cioè del prodotto per
lavoratore). Essa cresce nel primo tratto, in quanto riflette il fatto che ciascun nuovo lavoratore
aggiunge al prodotto totale più dell’unità precedente, dunque il prodotto medio cresce.
Nell’esempio, se il prodotto marginale del primo lavoratore era 10 q e del secondo 11q, il prodotto
medio è chiaramente 10,5q (v. la tabella 1). Graficamente la funzione del prodotto medio ha il suo
massimo dove essa incrocia la curva del prodotto marginale, a destra del massimo del prodotto
marginale. Intuitivamente: il prodotto medio continua a crescere anche quando il prodotto
marginale comincia a diminuire perché in quella ‘zona’ i prodotti marginali continuano ad essere
relativamente elevati rispetto a quelli relativi alle dosi iniziali e finali di lavoro, e la media continua
16 La studentessa provi a riportare i valori della tabella su un foglio quadrettato ottenendo le curve precise.
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a salire, almeno per un po’. Nell’esempio il PM è massimo in corrispondenza di 8 lavoratori con un
valore di 12,8 approssimativamente uguale al Pm che è 13.
Tabella 1 - Prodotto marginale e medio (capitale dato 20 q di sementi)
Quantità Prodotto Prodotto Prodotto rapporto K/L
lavoro marginale totale Medio (tecnica)
1
10
10
10,0
20,0
2 11 21 10,5 10,03 12 33 11,0 6,74 13 46 11,5 5,05 14 60 12,0 4,06 15 75 12,5 3,37 14 89 12,7 2,98 13 102 12,8 2,59 12 114 12,7 2,210 11 125 12,5 2,011 10 135 12,3 1,812 9 144 12 1,713 8 152 11,7 1,514 7 159 11,4 1,4
In corrispondenza del massimo del prodotto medio vi sarà un certo rapporto
capitale/lavoratore. Nell’esempio abbiamo supposto che il capitale dato (il fattore fisso) sia 20 q di
grano-sementi, e che in corrispondenza del massimo del prodotto medio l’impresa stia impiegando
8 lavoratori. Ciascuno utilizzerà 2,5 q di sementi, il capitale per lavoratore è cioè 2,5. Vi è allora da
ritenere che l’impresa, i cui ingegneri sanno che il massimo prodotto medio – dunque la tecnica
più efficiente - si ottiene dotando ciascun lavoratore di 2,5 q di sementi, sin dall’inizio adotti
questa tecnica di produzione. Ecco dunque la linea orizzontale in neretto, la quale indica che sin
dall’inizio l’impresa impiega il rapporto K/L = 2,5 che massimizza il prodotto medio. Nel tracciare
la curva del prodotto marginale, avevamo invece supposto che il primo lavoratore utilizzasse da solo
tutti e
20 i q. di sementi, poi quando i lavoratori diventavano due questi ne impiegassero 10 q cadauno
ecc., un modo di procedere chiaramente non razionale: infatti il loro prodotto medio risulterebbe
minore di quello ottenibile se l’impresa assegnasse la dotazione individuale ottimale di 2,5 q. cadauno
fin dall’inizio della produzione. Si conclude allora, a differenza della totalità dei libri di testo,17 che
la curva del prodotto marginale che rileva per ricavare la curva di domanda di lavoro
consiste dei tratti in grassetto della figura: il tratto orizzontale del prodotto medio più una parte
17 Tranne Pivetti, op.cit. L’analisi di Pivetti si rifà ad un punto di un famoso contributo di Piero Sraffa del 1925 pubblicato in italiano, e poi riassunto in inglese su invito di Keynes e pubblicato sull’Economic Journal del 1926.
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decrescente della funzione originaria del prodotto marginale. A ben vedere, infatti, se l’impresa sin
dall’inizio adotta il rapporto K/L che massimizza il prodotto medio, sino al punto B prodotto medio
e marginale coincidono. Nell’esempio, sino al punto B (8 lavoratori) ciascun lavoratore aggiunge
alla produzione la medesima quantità del compagno che lo ha preceduto.
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La curva del prodotto marginale può dunque essere tracciata come nella figura 4, in
corrispondenza delle parti in neretto della figura precedente:
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Ora possiamo determinare la quantità di lavoro domandata dall'impresa. Questa conosce,
per esempio dai contratti di lavoro o dalle consuetudini prevalenti in quel periodo, il salario per
unità di lavoro (e per unità di tempo come giorno o mese e misurato in grano) vigente nel mercato del
lavoro. L'impresa avrà convenienza a impiegare lavoro fintanto che un lavoratore aggiunge al
prodotto, cioè ha un prodotto marginale, almeno pari al suo costo, cioè al salario. Dunque l'impresa
domanderà una quantità di lavoro in corrispondenza all'eguaglianza Pml = w. Nel nostro esempio se
il salario fosse 10 l’impresa affitterebbe 11 lavoratori. L’undicesimo lavoratore rende infatti
all’impresa precisamente quanto è pagato (Pm = 11, w = 11). Se il salario scendesse a 9, l’impresa
domanderebbe 12 lavoratori, e così via. Il tratto decrescente della curva del prodotto marginale è
dunque la curva di domanda di lavoro dell’impresa (figura 5).
Si osservi che ciascuna unità di lavoro precedente a L* rende più di quanto è pagata. L'area
wAB consiste dunque dei profitti d'impresa. L'area OwBL* è il monte salari, ovvero W=wL.
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Vediamo un altro esempio (figura 6). Supponiamo che l’impresa che abbia un certo ammontare
di terra (per esempio 100 ettari), che consideriamo come il fattore tenuto fisso. Il rapporto terra/lavoro
che massimizza il prodotto medio di 10 ettari per lavoratore, cioè 10T/1L. L’impresa adotta questo
rapporto dall’inizio e ottiene un prodotto pro-capite di 10 q. L’impresa comincia ad impiegare prima
un lavoratore, poi due e così via, tutti della medesima efficienza. Sia il salario per giornata lavorativa
pari a 8 q di grano. Supponiamo che l’inserimento di un lavoratore consenta alla produzione di balzare
da zero (quando non si utilizza lavoro) a 10 q al giorno. Impiegando anche un secondo lavoratore la
produzione aumenta. Il secondo lavoratore aggiunge 10 q giornalieri al prodotto (ora il prodotto totale
è di 20 q), e via dicendo. E’ evidente che quando l’impresa impiegherà l’11mo lavoratore, essa dovrà
abbassare il rapporto T/L ottimale (ha infatti solo 100 ettari di T). Per esempio, l’11mo lavoratore
avrà un prodotto marginale di 9 q. Quanti lavoratori impiegherà l’impresa? Supponiamo che il 14mo
lavoratore aggiunga al prodotto 8,1 q, mentre il 15mo aggiunge solo 7,9 q. L’impresa, poiché
paga ciascun lavoratore 8 q, avrà convenienza ad impiegare 14 lavoratori, in quanto il 12mo gli
costerebbe al giorno più di quanto gli rende.
La stessa analisi potrà essere ripetuta considerando il lavoro in quantità fissa, per esempio
supponendo che l’impresa abbia a disposizione una squadra di 20 lavoratori, e studiando quanta
terra le converrà impiegare.
Nei fatti, quando tracciamo la curva di domanda di lavoro consideriamo solo il tratto
decrescente della curva del prodotto marginale. Se variasse il salario di mercato, varierebbe la
domanda di lavoro dell'impresa. Come si vede, sulla scorta del concetto di prodotto marginale del
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lavoro gli economisti marginalisti ritengono di poter affermare che fra livello del salario reale e
domanda di lavoro, e dunque occupazione, vi sia una relazione inversa.
Posizione e inclinazione della curva
Cosa accadrebbe alla curva di domanda di lavoro se la quantità di fattore fisso disponibile
aumentasse? Chiaramente il tratto orizzontale si prolungherebbe. Per esempio, se la quantità di terra
diventasse 120 ettari il tratto orizzontale si prolungherebbe sino a L = 12, in quanto 12 lavoratori sono
ora impiegabili col rapporto T/L che massimizza il prodotto medio. Inoltre, il tratto decrescente
scenderebbe più dolcemente. Quando viene impiegato il 13° lavoratore, infatti, il rapporto T/L
(=120/13) si allontana più lentamente dal rapporto ottimale (=120/12) di quanto accadeva quando T
= 100. In quel caso quando veniva impiegato l’11° lavoratore T/L =
100/11<120/13. Il prodotto marginale, di conseguenza, decresce più lentamente. Quindi la
posizione nello spazio (più a destra o più a sinistra) e la pendenza della curva di domanda di lavoro
dipendono dalla dotazione degli altri fattori produttivi.
Cosa accadrebbe se vi fosse progresso tecnico? Questo implicherebbe che i prodotti medi e
marginali sarebbero tutti più elevati. Dunque la funzione del prodotto marginale sarebbe più elevata
nel tratto orizzontale, e decrescerebbe più lentamente (il tratto decrescente sarebbe meno ripido). A
parità di salario l’impresa impiegherà più del fattore lavoro. Inoltre, anticipando alcuni elementi che
spiegheremo fra poco, data l’offerta di lavoro, il fatto che le curve di domanda di lavoro delle imprese,
e dunque quella collettiva, si spostino a destra, implica che il salario di equilibrio sarà più elevato
(dunque, in questa teoria, il salario beneficerà del progresso tecnico).
Esercizi 1. Il prodotto marginale del lavoro diventa a un certo punto decrescente: perché?
(a) si impiegano lavoratori via via meno capaci; (b) si utilizzano quantità del fattore tenuto
fisso di qualità decrescente; (c) vi sono rendimenti di scala decrescenti; (d) vi sono fattori
considerati dati in quantità fissa; (e) i lavoratori chiedono salari più elevati. (una sola risposta esatta)
2. Nell’esempio con la terra, se il salario scendesse a 7,8 q., quanti lavoratori impiegherebbe
l’impresa? E se il salario salisse a 10,1 q.?
Una analisi del tutto simile a quella che ci ha condotto alla curva di domanda di lavoro può
essere svolta nei confronti del capitale. Si tratta in questo caso di tracciare la curva del prodotto
marginale del capitale considerando come data la quantità di lavoro e ottenendo una funzione come
quella raffigurata nella figura 7.
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Il prodotto marginale del capitale è l'incremento netto di prodotto (netto dal capitale-grano
impiegato) ottenuto dall'impiego di una unità aggiuntiva di capitale, data la quantità disponibile di
lavoro.18 In maniera simile al lavoro, per conoscere la quantità di capitale effettivamente domandata
(e dunque impiegata) dall’impresa basta tracciare una retta orizzontale che rappresenta il tasso di
interesse i a cui le istituzioni finanziarie (banche, ecc.) concedono prestiti alle imprese (in questa
visione le banche hanno la funzione prestare alle imprese i risparmi delle famiglie). Dove Pmk = i,
si determina la quantità di capitale K* richiesta dall’impresa.
18 Nel grafico del Pml, quest’ultima grandezza è una quantità fisica (grano) da confrontarsi con un’altra unità fisica (il salario in grano). Nel grafico del Pmk, invece, apparentemente c’è un problema. Il Pm del capitale è una quantità fisica (l’incremento di grano prodotto ottenuto impiegando una unità aggiuntiva di capitale grano, data la quantità impiegata di lavoro). Tuttavia la remunerazione del capitale è il tasso di profitto (o tasso di interesse) che è un valore percentuale. Si deve ragionare così: si supponga, per esempio, un incremento di 1 tonn. della quantità di capitale grano impiegata. Sia 2,1 tonn. la produzione ottenuta in seguito all’impiego di capitale aggiuntivo. Il prodotto netto (al netto cioè del capitale-grano impiegato) sarà: 1,1t. – 1t. = 1,1t. Il Pmk netto è dunque 1,1t. In termini di tasso di profitto (che è il rapporto fra profitti assoluti, che qui coincidono con il prodotto netto, e il capitale impiegato per ottenerli), il Pmk sarà ovviamente: 1,1t/1t = 110%. Quindi, quando sulle ordinate segniamo il prodotto marginale netto, è immediato tradurre questa grandezza in tasso di profitto. Riassumendo: il Pmk è il prodotto netto ottenuto (nell’unità di tempo prescelta) da una unità aggiuntiva di K rapportata a tale unità, tenuta costante la quantità impiegata degli altri fattori utilizzati.
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Anche la posizione nello spazio e la pendenza della curva di domanda di capitale dipendono
dalla dotazione degli altri fattori. In particolare, se la popolazione lavoratrice aumenta, il prodotto
marginale del capitale decresce più lentamente. Se vi fosse invece progresso tecnico, come nel caso
già visto del lavoro, la curva del Pmk si sposterebbe verso destra scendendo più dolcemente.
Anticipando alcuni elementi che spiegheremo fra poco, data l’offerta di capitale, il fatto che le
curve di domanda di capitale delle imprese, e dunque quella collettiva, si spostino a destra, implica
che il tasso di interesse di equilibrio sarà più elevato.
La funzione di offerta di capitale (o di risparmio)19 è solitamente crescente all’aumentare del
saggio di interesse: l’idea è che un più elevato tasso di interesse stimoli gli individui a ridurre i
consumi presenti (dunque risparmiare di più) in vista di consumi futuri relativamente maggiori. In
verità sappiamo dall’analisi keynesiana (esaminata più oltre) che le decisioni di risparmio
dipendono dal reddito disponibile piuttosto che dal tasso di interesse. La funzione di offerta di capitale
(risparmio) è dunque quasi-verticale, dunque inelastica al tassi di interesse, mentre la sua posizione
dipende dal reddito disponibile.
La determinazione della distribuzione del reddito
Domanda aggregata dei fattori
Abbiamo sinora considerato la domanda di fattori per la singola impresa per la quale il costo
d’affitto del fattore (salario per unità di tempo di impiego del lavoro, saggio di interesse per unità di
tempo di impiego del capitale ecc.) sono un dato noto, per esempio, dai contratti collettivi di lavoro,
dai tassi di interesse bancari ecc. E’ nostro obiettivo ora determinare il prezzo dei fattori. Ne segue
che, w, i ecc. da variabili note (od esogene) si trasformano in variabili incognite (od endogene al
19 La funzione di offerta (domanda) di risparmio è l’espressione in termini di flusso della funzione di offerta (domanda) di capitale, che è invece espressa in termini di stock. Se il capitale fosse tutto circolante, cioè fosse tutto utilizzato e distrutto in un solo ciclo produttivo (non c’è capitale fisso), le due funzioni, rispettivamente in termini di flusso e di stock, coinciderebbero.
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modello). Il prezzo dei fattori sarà determinato dall’incontro delle curve di domanda e offerta dei
fattori nel mercato rispettivo (del lavoro, del capitale ecc.). Il passo preliminare sarà dunque quello
di determinare, a partire dalla curva di domanda dei fattori della singola impresa, quella collettiva o
di mercato. Cominciamo con la domanda di lavoro (il procedimento sarà il medesimo, mutatis
mutandis, per gli altri fattori).
Sommando a ciascun prezzo, salario o saggio di interesse, la quantità domandata di ciascun
fattore da ciascuna impresa si otterranno le curve di domanda aggregata dei fattori. Si supponga per
esempio (figura 9) che a w = 100$ l’impresa A affitti 150 lavoratori mentre l’impresa B ne affitta
50. In totale per l’intera economia al salario 100$ l’occupazione sarà 200. Si supponga poi che al w
= 120$ l’impresa A affitti 100 lavoratori mentre l’impresa B ne affitta 25. L’occupazione
nell’economia risulterà di 125 unità. Ripetendo l’esercizio per diversi ipotetici saggi del salario –
ma due sono sufficienti -, conoscendo le curve del Pml delle singole imprese si potrà dedurre la
curva di domanda di lavoro dell’intera economia.
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L'andamento sarà dunque decrescente, come per la singola impresa, sebbene in maniera
meno ripida. Accoppiando alla curva di domanda quella di offerta per ciascun fattore si può
determinare la remunerazione di ciascun fattore, che per la singola impresa era un dato, e dunque la
distribuzione del reddito.
Si osservi come la determinazione di w ed r sia nei fatti simultanea. Quando tracciamo il
Pml nella parte (a) della figura 10 è data la quantità di capitale esistente. Ma questa quantità è
precisamente quella determinata dalla domanda e offerta di capitale nella parte (b). E quando nella
parte (b) consideriamo data la quantità di lavoro impiegata nell’economia, questa è quella di
equilibrio determinata nella parte (a).
Si osservi anche che in questo approccio si suppone che gli imprenditori abbiano a disposizione
una innumerevole (al limite infinita) gamma di tecniche – cioè di combinazioni di L e K - con cui
produrre. Allora si può ritracciare la figura (b) come nella figura 11, considerando in luogo di K, il
rapporto K/L, in cui L è un dato determinato nella parte (a) della figura 10.
20
Il grafico mostra come per più bassi tassi di interesse (profitto), aumenta il rapporto K/L,
cioè la tecnica in uso diventa a maggiore “intensità di capitale”. Questo ha peraltro, secondo questa
teoria, un effetto positivo sul prodotto pro-capite: aumentando la dotazione di capitale per addetto,
aumenta il prodotto pro-capite. Quindi un aumento dell’offerta di risparmio che faccia diminuire il
tasso di interesse, ha effetti benefici sul prodotto per addetto e, dato L, accresce il reddito nazionale
del periodo successivo.
Esiste un modo alternativo a quello dei prodotti marginali di ricavare la domanda di fattori
produttivi. Si supponga infatti che gli imprenditori non abbiano la possibilità di variare le tecniche
in uso, cioè una merce sia producibile solo con quantità fisse di L e K. Per esempio, che una unità di
acciaio sia producibile solo con 10 unità di K e 5 di L (non è possibile cioè usare, per esempio 8 e
7). Non si possono ora più ricavare le curve del prodotto marginale (che come visto sopra implicano
la possibilità di combinazioni diverse di K ed L). Per ricavare le curve di domanda decrescenti dei
fattori si impiega allora un altro risultato della teoria marginalista: le curve di domanda decrescenti
per i prodotti. Si supponga che esitano due prodotti, CDs e lasagne, ciascuno producibile con una sola
tecnica che però differisce fra i due prodotti: sia per esempio un CD prodotto con una tecnica che usa
molto capitale e poco lavoro rispetto alle lasagne (es. 10 e 5, rispettivamente), e le lasagne, viceversa,
con una tecnica che usa poco capitale e molto lavoro (es. 5 e 10). Supponiamo che aumenti l’offerta
di risparmio. Ciò induce le banche, allo scopo di collocare il maggiore risparmio, a diminuire il tasso
di interesse a cui esse offrono prestiti alle imprese. La diminuzione del tasso di interesse costituisce
una diminuzione del costo del capitale. Questo implica che, a causa della
21
concorrenza fra i produttori,20 sia il prezzo dei CDs che delle lasagne diminuisce, ma quello dei
CDs di più in quanto impiegano relativamente più capitale. La domanda dei consumatori tenderà
dunque a spostarsi verso il bene divenuto meno caro e che utilizza relativamente più capitale,
accrescendo così, indirettamente, la domanda di capitale. Si può dunque di nuovo concludere che ad
una diminuzione del tasso di interesse aumenta la domanda di capitale.21
Concorrenza, stabilità e pieno impiego dei fattori
Esaminiamo il mercato del lavoro, ma ciò che sosterremo sarà valido anche, mutatis mutandis,
per il mercato del capitale. Il punto E della figura che segue è un punto di equilibrio. Una caratteristica
in genere ritenuta importante è quella della stabilità dell'equilibrio, cioè che se ci si allontana
dall'equilibrio vi saranno forze che faranno tendere di nuovo l'economia verso quel
punto22. Si dimostra che, almeno se le curve hanno la forma mostrata in figura 12, E è un equilibrio
stabile. Supponiamo infatti che il salario fosse w > we. A questo punto una quantità di lavoratori
pari a L-Le rimarrebbe disoccupata. Costoro sono “disoccupati involontari” in quanto lavorerebbero
al salario di equilibrio. I “disoccupati volontari”, per contro, sono coloro disponibili a lavorare solo
ad un salario superiore a quello di equilibrio. I disoccupati involontari si offrono infatti a un salario
minore di w facendo concorrenza agli occupati. In tal modo w diminuisce e l'occupazione cresce
sino a che si torna al punto E.
20 Si controlli di avere capito la ragione. 21 Sono naturalmente possibili risultati diversi. Si supponga per esempio che quando il prezzo dei CDs scende i consumatori decidano di consumarne una stessa quantità al mese, e con i soldi risparmiati acquistino un terzo bene “labour intensive”, per esempio biglietti di teatro. In questo caso la domanda di capitale non sarebbe aumentata. Se la domanda di CDs diminuisce a favore del teatro, la domanda di capitale potrebbe addirittura diminuire. 22 Perché la stabilità è importante? La teoria è una guida ai meccanismi della realtà, in questo caso quella economica, che non conosciamo sulla base della mera percezione sensoriale (esperienza). Per esempio il grafico del mercato del lavoro rappresenta una ipotesi teorica (quella neoclassica) su come nella realtà si determina il salario. Se la grandezza teorica determinata (in questo caso w) consistesse di un equilibrio instabile, se cioè appena ci si allontana anche di poco da esso il valore finisse chissà dove, la teoria sarebbe del tutto inutile. Presumiamo infatti che nella realtà prevalgano gli equilibri stabili – almeno su periodi consistenti di tempo. Peraltro, se la stessa realtà non presentasse equilibri, e/o se questi non fossero stabili, essa sarebbe difficilmente studiabile. In buona sostanza, se non ritenessimo che la realtà, per periodi di tempo sufficientemente significativi, non tendesse ad assestarsi attorno ad alcune grandezze, qualunque analisi teorica sarebbe impossibile. Presupponendo dunque che nella realtà, i cui meccanismi non conosciamo direttamente ma per mediazione delle teorie, vi siano equilibri stabili (ancorché, come è evidente, mutevoli con il tempo), allora anche la teoria deve individuare equilibri stabili. Si afferma in genere che gli equilibri devono essere anche unici, nel senso che la teoria deve guidarci verso il valore della grandezza oggetto di studio che si fisserà nella realtà. Se avessimo equilibri multipli non sapremmo come discriminare fra essi per individuare quello più rappresentativo delle tendenze della realtà. L’esempio classico è quello dello studio dell’effetto di una imposta, per esempio sui prezzi, la distribuzione del reddito ecc.. Dato l’equilibrio di partenza, una teoria efficace ci dovrebbe indicare verso quale equilibrio l’economia più plausibilmente tenderà dopo l’introduzione dell’imposta, potendo così decidere se introdurla o meno.
22
e
K K' – e
Il grafico di domanda e offerta di lavoro è al cuore della teoria neoclassica (figura 12). Esso
è al centro dei dibattiti odierni sulla flessibilità del mercato del lavoro – in pratica la possibilità
per le imprese di assumere e licenziare i propri lavoratori in maniera tale che la concorrenza dei
lavoratori disoccupati si faccia sentire sugli occupati. Flessibilità significa dunque possibilità effettiva
per i disoccupati di poter far concorrenza agli occupati offrendosi ad un salario inferiore. Chi sostiene
gli effetti benefici della flessibilità, si rifà a quel grafico. Il vantaggio della flessibilità sarebbe dunque
che al salario di concorrenza vi sarebbe la piena occupazione.
Esercizio: si dimostri che se w < we è la concorrenza fra le imprese a far tornare all'equilibrio.
Applicando un ragionamento simile, se le decisioni di risparmio delle famiglie si
accrescessero, cioè meno grano prodotto fosse impiegato per produrre pane, e più grano
"risparmiato" come sementi, questo condurrebbe a uno spostamento verso destra, da K e
a K ' ,
della funzione di offerta di capitale-grano (o "grano risparmiato") e, per effetto della concorrenza
fra le banche nell’offrire il maggiore risparmio, a un equilibrio a un minore tasso di interesse. Sino a
quando il tasso di interesse è re , lo stock di capitale e
' è inutilizzato (grano non seminato).
23
In questa teoria non v'è così posto per la disoccupazione dei fattori produttivi. La concorrenza,
in presenza di flessibilità dei prezzi dei fattori farà in modo che qualsiasi offerta di questi venga
utilizzata. V'è dunque sempre la piena occupazione sia del lavoro che del capitale (quest'ultimo frutto
delle decisioni di risparmio). Si noti anche che una decisione di risparmiare di più determina in questa
economia un aumento del prodotto sociale, ed è quindi benefica. Questo è evidente se si osserva nella
figura precedente che quando K aumenta, sia l'area corrispondente al prodotto complessivo che l'area
corrispondente ai salari si accrescono (delle porzioni tratteggiate).
E’ anche importante ritornare ora su quali fondamenti abbiamo considerato come “data” la
quantità di capitale quando abbiamo tracciato la curva del prodotto marginale del lavoro, e
simmetricamente, “data” la quantità di lavoro quando abbiamo tracciato la curva del prodotto
marginale del capitale. Le quantità totali, rispettivamente, di lavoro e di capitale disponibili presso
tutte le imprese non erano prese a caso, ma corrispondevano alle quantità di “pieno impiego” di 23
quei fattori, cioè Ke e Le .
Questa teoria è alle spalle della “costituzione economica europea” iscritta nei trattati e
nella pratica. L’UME (Unione Economica e Monetaria Europea) ritiene che l’occupazione sia
23 Nella nostra analisi abbiamo anche ipotizzato una data ripartizione di queste dotazioni fra le imprese, ma poiché si sono ipotizzati rendimenti costanti di scala, il risultato, cioè la curva aggregata di domanda di ciascun fattore, non è influenzato dalla dimensione delle singole imprese.
24
un fatto prettamente nazionale che ciascun paese deve risolvere da solo con le cosidette riforme
strutturali, vale a dire la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Secondo questa visione sono le
rigidità a creare la disoccupazione e non ha dunque senso chiedere all’Europa di fare di più per
combattere questo flagello. Dal punto di vista keynesiano la disoccupazione è invece un problema da
risolversi in primo luogo a livello internazionale.
Legge di Say e relazione risparmi investimenti nel marginalismo La Legge di Say
Come già accennato, alcuni economisti classici, incluso Ricardo, credevano nella Legge di
Say, o degli sbocchi – J.B.Say fu l'economista classico francese che per primo l'avanzò -, la quale
affermava che poiché da ultimo si produce per procurarsi del reddito attraverso il quale effettuare
degli acquisti, v'è certezza che tutto il reddito corrispondente a una data produzione venga speso
ovvero che, come si usa dire, ogni offerta avrebbe creato la propria domanda. In questa
formulazione venivano esclusi atti di risparmio, per così dire, fini a sé stessi. In tale visione chi
risparmia lo fa per investire sicché i risparmi, lungi da spezzare il circuito del reddito, si traducono
in domanda di beni di investimento. Nei termini della nostra semplice economia, chi non avesse
consumato il grano per fare il pane, lo avrebbe seminato, o prestato (per esempio via sistema
finanziario) ad imprenditori che lo avrebbero seminato. Dunque, secondo la Legge di Say, S
coincide con I, e ciò si scrive S I .
Si rammenterà che altri economisti Classici (v. cap. 3), come Marx, non credevano nella
Legge di Say, e ritenevano che il capitalismo soffrisse di sovra-produzione, cioè di una tendenza della
produzione a sorpassare le capacità di domanda dell’economia. In ciò Marx vedeva una
contraddizione del capitalismo: da un lato ciascun capitalista vorrebbe pagare ai suoi operai salari
reali bassi per godere di profitti più elevati, ma allo stesso tempo ciascuno desidererebbe che gli
altri capitalisti pagassero salari elevati in modo da poter vendere più prodotto. Notiamo dunque che
Ricardo e Marx condividevano la medesima teoria della distribuzione, ma non la stessa teoria del
livello della produzione – il primo credeva nella Legge di Say, il secondo no). Nell’approccio
Classico, dunque, la determinazione della distribuzione è distinta dalla determinazione del livello
della produzione. Naturalmente i due aspetti sono ritenuti collegati, ma vi è una certa libertà nello
stabilire il tipo di relazione. Per esempio Marx riteneva che più alti salari potessero condurre a una
maggiore domanda di beni di consumi sostenendo la produzione, mentre Ricardo riteneva, un po’
all’opposto, che maggiori profitti avrebbero accresciuto la produzione poiché i capitalisti, già
25
soddisfatti dei propri consumi, li avrebbero risparmiati e investiti. Oggi, dopo l’analisi di Keynes - che
considerò Marx fra i propri anticipatori - sappiamo che Marx aveva più ragione.
La formulazione marginalista della relazione risparmi-investimenti
Un dubbio può però sorgere che non necessariamente il grano risparmiato venga domandato come
grano-per-la-semina. Gli economisti marginalisti erano infatti consapevoli che non tutte le decisioni di
risparmio corrispondono a decisioni di investimento, e che quindi così come espressa originariamente, la
Legge di Say era esposta a evidenti critiche. Essi, tuttavia, sulla scorta dell’analisi della domanda e
offerta di capitale (risparmio) poterono, e ritengono a tutt’oggi di potere, ragionare così: il risparmio è
offerta di nuovo capitale che, per effetto della concorrenza, troverà certamente impiego nell'economia.
Considerando il mercato del capitale, un atto di risparmio si tradurrà in uno spostamento verso destra
dell'offerta di grano-sementi. Il tasso di interesse diminuisce in maniera tale che le imprese avranno
convenienza ad impiegare come investimento l’offerta di capitale aggiuntiva. Tipicamente la relazione
risparmio-investimento nella
teoria marginalista viene presentato come nella figura 14:
Figura 14
Nella figura la funzione decrescente I = I (i) mostra la domanda di beni di investimento (capitale)
come funzione del tasso di interesse. Come abbiamo visto nel caso semplificato del capitale-grano,
26
l’andamento di questa funzione riflette quello del Pmk. La funzione crescente rappresenta l’offerta di
risparmio S = S(i) come funzione del tasso di interesse.
Come si vede, dunque, per gli economisti neoclassici la Legge di Say è sempre confermata:
la flessibilità del tasso di interesse nel mercato finanziario, dove si incontrano l’offerta di risparmio (capitale) delle famiglie con la domanda di risparmio (investimento o capitale) delle imprese, assicura che
alle decisioni di risparmio delle famiglie corrispondano uguali decisioni di assorbimento di quel risparmio
(ovvero di investimento) da parte delle imprese. Il tasso di interesse di equilibrio è in genere chiamato tasso
naturale di interesse (vedi anche la seconda delle Sei lezioni).
Da osservare come in ambito marginalista la spesa pubblica effettuata dallo Stato assume un ruolo
negativo. Poiché infatti le risorse – secondo questa teoria – tendono ad essere sempre pienamente occupate,
se il settore pubblico cerca di appropriarsene di una parte, ciò avverrà a detrimento dei consumi o degli
investimenti privati. In particolare, se lo Stato si indebita per finanziare una spesa in deficit, la domanda di
prestiti da parte del governo entrerà in concorrenza con quella espressa dagli imprenditori per finanziare gli
investimenti. Come conseguenza aumenteranno i tassi di interesse e ciò scoraggerà gli investimenti privati
lasciando spazio alla spesa pubblica - gli economisti neoclassici si esprimono affermando che la spesa
pubblica spiazza gli investimenti (crowding out). Graficamente si può ritenere che la domanda di credito da
parte dello Stato si aggiunga a quella privata: nella figura 15 si parte da un equilibrio in cui l’offerta data
di
risparmio S è uguale agli investimenti per un tasso di equilibrio pari a i: S = I. Successivamente il governo
aggiunge una spesa pubblica G finanziata in disavanzo. Il tasso di interesse di equilibrio aumenta a i’ in
quanto la domanda di risparmio delo Stato si aggiunge a quella privata. Al nuovo tasso gli investimenti si
riducono a I’ “lasciando spazio alla spesa pubblica”: S = I’ + G.
Questa teoria è alle spalle dell’idea che non è necessario che l’UME abbia una politica fiscale basata su un
ampio bilancio federale. Il bilancio europeo è infatti poca cosa e si basa su versamenti da parte dei paesi
27
membri. La politica fiscale (di bilancio) europea si riduce infatti a vincoli agli stati membri al pareggio di
bilancio. Dal punto di vista keynesiano la rinuncia all’impiego della politica di bilancio in funzione anti-
ciclica è una assurdità.
La politica monetaria nella teoria marginalista
La teoria quantitativa della moneta e la dicotomia “classica”
Nella sua versione più tradizionale, la teoria neoclassica ritiene che si domandi moneta solo
per il “motivo delle transazioni”, cioè allo scopo di effettuare scambi. Intuitivamente: ciascuno di
noi ha una entrata mensile (il salario che riceve, l’assegno mensile dai genitori ecc.) che spende nel
corso del mese, o se lo risparmia, lo spende per acquistare titoli. Si ricordi che la moneta si
identifica non solo con le banconote ma, soprattutto, con ciò che i soggetti detengono nei conti correnti
bancari (depositi a vista). Se spendiamo molto velocemente la nostra entrata, in media avremo poco
nel nostro c/c. Se spendiamo un po’ al giorno, per esempio 1/30 al mese, avremo in media metà della
nostra entrata nel conto corrente).
Si supponga che un salario di 100€ venga speso 1/30 al mese, in media il soggetto avrà 50€
nel c/c (figura 16). Chiamiamo k la quota del reddito mensile (o annuale) che il soggetto detiene in
media in moneta. Nell’esempio k è 0,5. Se i soggetti velocizzano la propria spesa (- spende più
velocemente all’inizio del mese, più lentamente successivamente-, k diminuisce. Un soggetto che
spendesse tutto il proprio reddito a fine mese avrebbe invece k = 1. Si dice allora che k è l’inverso
della velocità di circolazione della moneta:
k 1
. La velocità di circolazione è il numero medio di v
scambi effettuato da una unità di moneta nell’unità di tempo. Se k = 1, v = 1. Ogni unità monetaria
effettua un solo scambio al mese. Se k = 0,5, v = 2, e così via.
La teoria quantitativa della moneta utilizza questi concetti per porre in relazione la quantità
di moneta offerta, M, con il livello dei prezzi, P, dato il livello del reddito reale Y (determinato in
corrispondenza al pieno impiego dei fattori):
28
Mv PY
oppure,
M 1v PY kPY
teoria quantitativa nella versione di Chicago, teoria quantitativa versione di Cambridge.
La prima equazione va così letta: dato M, se i soggetti cominciano a spendere più velocemente
il proprio reddito, P aumenta. Ma più interessante è guardarla in questo modo: se le autorità di politica
monetaria accrescono l’offerta di moneta, data la velocità di circolazione, questo ha come unico
effetto di aumentare il livello dei prezzi senza alcun effetto reale. Infatti il reddito reale è
irrevocabilmente fissato al livello di pieno impiego e la maggiore domanda di beni non può
accrescerne la produzione, ma solo il prezzo a cui sono offerti.
Si verifichi per esempio che se v = 2, Y = 20.000 t. di grano, M = 500€, il livello dei prezzi
(il costo di una t. di grano) sarà P = 1/20, e che se M diventa 1000€, il livello dei prezzi raddoppia.
Verificare anche che, analogamente, nella versione di Cambridge se M aumenta, date le abitudini di
spesa dei soggetti ed il reddito reale, l’unico effetto è sul livello dei prezzi.
Questo risultato è molto importante in quanto mostrerebbe l’inefficacia della politica
monetaria ad accrescere l’occupazione. Quest’ultima è determinata, se i salari sono flessibili, al livello
di pieno impiego, e non v’è verso (e peraltro necessità) di utilizzare la politica monetaria per
accrescerla. Si parla a questo proposito di dicotomia classica: il livello del reddito reale è determinato
nella parte reale del sistema; la parte monetaria determina il solo livello dei prezzi. Si noti che la teoria
quantitativa è valida poiché Y è a livello di pieno impiego. Se invece vi fosse disoccupazione, un
aumento di M potrebbe accrescere sia Y che P.
Naturalmente la studentessa più curiosa si può domandare come fa la banca centrale ad
accrescere la quantità di moneta in mano ai soggetti: gira forse con un elicottero lanciando
banconote (secondo una famosa metafora di Friedman)? Quella che si ha in realtà in mente è una
storia un pochino più complicata: la banca centrale crea moneta con le operazioni di mercato aperto,
come sappiamo; così facendo fa diminuire il tasso di interesse, gli investimenti e altre forme si
spesa sensibili al tasso di interesse (come la richiesta di mutui immobiliari) aumentano, questo, se si
è in piena occupazione, genera inflazione. Da ultimo il risultato è quello raccontato in maniera più
elementare dalla teoria quantitativa. Su questa base esaminiamo il contributo di Wicksell.
Tasso di interesse naturale e di mercato in Wicksell
Knut Wicksell fu un economista svedese, fra i fondatori più rigorosi della teoria
marginalista. La sua teoria monetaria è più elaborata di quella della teoria quantitativa. Wiksell
definisce come saggio di interesse naturale in
quello determinato dall’incrocio fra domanda e
offerta di risparmio. Il saggio di interesse monetario im
è quello che in pratica fissano le banche nel
29
n i
n
n
concedere i propri prestiti. Assumiamo che all’inizio in = im . Supponiamo poi che a causa del
progresso tecnico la funzione del Pmk e dunque la curva di domanda di investimenti si sposti verso
destra determinando un aumento della profittabilità degli investimenti e dunque un
aumento del tasso di interesse naturale che diventa
i ' . A questo punto '
> im . Se le banche non
aggiustano il tasso monetario al nuovo tasso di equilibrio, più elevato, nel mercato risparmio-
investimenti vi sarà uno squilibrio: il tasso di interesse praticato dalle banche sarà infatti più basso
di quello necessario affinché le imprese richiedano fondi bancari in misura corrispondente
all’offerta di risparmio, ne chiederanno di più. Infatti il tasso di remunerazione del capitale in è
superiore al costo del credito. Si genererà dunque un processo inflativo dovuto al fatto che alla
spesa per beni di consumo si somma una spesa per beni di investimento, finanziata da fondi bancari,
superiore ai risparmi disponibili (cioè alla rinuncia di beni di consumo da parte delle famiglie). Il
processo inflativo durerà sino a quando le banche non adegueranno im
al nuovo più alto livello di
i ' .
Supponiamo invece che nel paese considerato vi sia una epidemia. L’effetto sarà una
diminuzione dello stock di lavoro. Sappiamo che se si modifica la proporzione fra stock di lavoro e
stock di capitale a sfavore del primo, la funzione del Pmk si sposta verso sinistra e il saggio di interesse
naturale tende a diminuire. Ciò può essere sintetizzato dicendo che i livelli di
salario e tasso di interesse dipendono dalle proporzioni relative di K ed L. Se K/L aumenta (il
capitale diventa più abbondante rispetto al lavoro), in
tende a diminuire. Se le banche non adeguano
im al nuovo livello del tasso naturale, si avrà in questo caso un processo deflativo (ovvero di
diminuzione dei prezzi). Ciò è dovuto al fatto che le banche prestano ad un tasso superiore a quello
(naturale) al quale le imprese assorbono tutta l’offerta di risparmio. Il processo deflativo durerà sino
a quando le banche non adegueranno im
al nuovo più basso livello di in .
L’analisi di Wicksell è coerente con la teoria quantitativa della moneta. Ad esempio, se la
Banca Centrale fissasse un
im in , la domanda di moneta aumenterebbe e il sistema bancario,
Banca Centrale inclusa, la soddisferebbe. Dato il livello di piena occupazione del reddito reale,
tuttavia, l’unico effetto sarebbe un aumento del livello dei prezzi. A differenza della teoria quantitativa
però, la Banca Centrale agisce sul tasso di interesse piuttosto che sull’offerta di moneta.
In questo modello l’offerta di moneta appare “endogena” al modello, e cioè determinata da dalla
domanda di moneta dati in
e im .
L’analisi di Wicksell è assai interessante e moderna. Le banche svolgono un ruolo essenziale
nel mettere in moto l’economia: esse infatti prestano fondi alle imprese, avviando il processo
31
sportelli. Se tuttavia “indovinano” in = im , i fondi prestati saranno precisamente uguali ai risparmi
che le famiglie deporranno presso di esse una volta che il processo di produzione e di distribuzione
del reddito risulta avviato. E’ tuttavia assai probabile che esse sbaglino, poiché non conoscono
in .
Tuttavia la presenza di processi di deflazione o di inflazione le guiderà nell’abbassare o innalzare,
rispettivamente nei due casi, il tasso monetario. Nelle recentissime formulazioni (neoclassiche) di
politica monetaria alla Banca Centrale è proprio assegnato il compito di fissare un tasso di interesse
monetario pari a quello naturale - quello che si determina in corrispondenza della stabilità dei prezzi
e della piena occupazione (che vedremo è in corrispondenza del saggio naturale di disoccupazione).
Nella pratica delle Banche Centrali, invero, si ritiene che la fissazione del tasso di interesse
piuttosto che dell’offerta di moneta sia l’obiettivo principale della politica monetaria. Il dibattito sugli
effetti della politica monetaria è infatti centrale nella discussione corrente di politica economica.
La macroeconomia neoclassica studiata sinora è quella tradizionale pre-keynesiana. Nei
corsi più avanzati studierete formulazioni più recenti. Vi invito, quando le studierete, di rammentare
che quelle formulazioni non mutano di una virgola la sostanza della teoria tradizionale qui studiata,
in particolare la dicotomia fra settore reale e settore monetario, e l’inefficacia della politica
monetaria nel lungo periodo.
Questa teoria è alle spalle dell’idea che l’UME si basi su una banca centrale che abbia la sola
stabilità dei prezzi come obiettivo prioritario. Dal punto di vista keynesiano questo è un gravissimo
errore in quanto la politica monetaria dovrebbe invece coadiuvare la politica fiscale nel sostenere
crescita e occupazione.
Cos’è che non va nella teoria economica neoclassica: accenni ai problemi di teoria del
capitale
Da un punto di vista squisitamente teorico, i principali problemi della teoria marginalista
risiedono nella teoria del capitale. La questione della misurazione del capitale arrovellò alcuni dei
primi marginalisti, molto più scrupolosi dei loro moderni epigoni, ma è stato col tempo dimenticato,
sino a che nel 1960 un grande economista italiano, Piero Sraffa, lo risollevò generando una famosa
controversia sulla teoria del capitale fra la Cambridge inglese dove Sraffa risiedeva,24 e la
24 Figlio del Rettore della Bocconi, Sraffa (1998-1983) si laureò con Luigi Einaudi. Nel primo dopoguerra fu vicino a Gramsci, e diventò docente universitario. Inviso ai fascisti, che lo minacciarono più volte, e personalmente a Mussolini per alcuni suoi articoli sulle protezioni accordate dal regime alle malefatte delle banche italiane, nel 1926 Sraffa accetta l’invito di Keynes di stabilirsi a Cambridge. Pur sorvegliato, Sraffa può entrare e uscire dall’Italia, per cui diventa il principale referente intellettuale ed affettuoso amico di Gramsci nel frattempo imprigionato dal regime. Fu anche grandissimo amico e mentore del filosofo Wittgenstein. Su incarico della Royal Economic Society Sraffa si occupa di pubblicare l’edizione degli scritti
32
Cambridge americana, cioè il famoso MIT nel Massachussets. Gli americani erano guidati dal più
celebre economista contemporaneo, Paul Samuelson. Questi ultimi risultarono sconfitti. Sebbene la
vittoria degli italo-inglesi stimolò molta ricerca in direzione non neoclassica, anche questa volta il
problema è ritornato nel dimenticatoio. Non per tutti però. Un gruppo molto tenace di studiosi a livello
internazionale continua a perseguire la direzione di ricerca aperta da Sraffa. (v. A.Roncaglia, Sraffa e
la teoria dei prezzi, Laterza, Bari, 1981).
Un modo semplice per capire dove sono i problemi della teoria marginalista è il seguente. Si
consideri la natura del prezzo di un bene. Nell’analisi economica il prezzo di un bene è considerato
pari ai suoi costi di produzione. Per esempio, il prezzo di un libro su cui studiate è pari al salario per
le ore di lavoro di chi lo ha scritto, stampato, distribuito ecc., più il consumo dei materiali (carta,
inchiostro, carburante del mezzi di trasporto, ecc.), più il consumo dei mezzi di produzione
impiegati (computers, macchine tipografiche ecc.), più l’affitto o rendita sui terreni o spazi
impiegati per la produzione, più il profitto dell’imprenditore che ha anticipato i quattrini per la
produzione. Più precisamente l’editore intende realizzare un tasso di profitto sui capitali anticipati
almeno pari al tasso di interesse che avrebbe realizzato investendo altrimenti quel capitale, per
esempio in titoli di Stato (quel mancato guadagno viene detto “costo opportunità” – il costo
dell’opportunità non sfruttata). Si noti dunque che per conoscere il prezzo di un bene dobbiamo
conoscere il salario del lavoro, il tasso di profitto, il prezzo dei beni impiegati nella produzione.
di David Ricardo, il principale economista classico inglese. Questo lavoro va in parallelo alla riscoperta da parte di Sraffa di un approccio all’economia politica precedente al marginalismo, dovuto principalmente proprio a Ricardo, e radicalmente diverso da questo (il cap.II delle dispense si basa proprio su questa riscoperta). Nel 1957 riceve dall’Accademia Reale Svedese un premio speciale per l’edizione delle opere di Ricardo, premio assegnato in precedenza solo a Keynes ed assimilabile al premio Nobel, che per l’economia fu introdotto solo più tardi (peraltro l’attuale Nobel per l’Economia è un Nobel spurio, assegnato dalla Banca di Svezia e non dall’Accademia Svedese delle Scienze). Nel 1960 pubblicò un libro di poche decine di pagine che divenne immediatamente oggetto di grande dibattito. Questo dibattito culminò a metà anni ’60 nella famosa “controversia fra le due Cambridge” che vide contrapposte la Cambridge inglese, dove risiedeva Sraffa e numerosi allievi suoi e di Keynes (che era scomparso nel 1946), e quella USA nel Massachussets (dove c’è il famoso MIT) dove insegnava il decano degli economisti marginalisti, e primo premio Nobel, Paul Samuelson. Riporto da una mia pubblicazione in inglese alcune testimonianze (di parte marginalista) al riguardo: “Sheshinsky, a leading neoclassical economist, recalls ‘When I came to MIT at the end of 1963 …[I]t was ... times of polemics. Before the age of fax machines, notes and counterexamples were hurried across the Ocean. Bob [Solow] or Paul [Samuelson] would enter class with an airgram from Pasinetti [che ha insegnato alla Cattolica Milano] or Garegnani [che ha insegnato alla “Sapienza” e a Roma 3] or Robinson [una allieva di Keynes] in hand, read their (tedious) numerical examples, and conjecture that they did not satisfy some basic assumptions. We would then rush home to invert 4 x 4 indecomposable input- output matrices and send off the next salvo across the ocean’. (Sheshinky, 1990, p.41). Famously, Ferguson (1979, p.269) admitted that ‘Cambridge [inglese] Criticism is valid’ and that his (and Samuelson’s) belief in neoclassical theory was just ‘a statement of faith’”. Sraffa non volle mai acquisire la cittadinanza britannica, e avrebbe probabilmente voluto tornare in Italia, ma l’università italiana non
34
Dunque per conoscere il prezzo o valore di una merce dobbiamo conoscere il prezzo di altre merci e
la distribuzione del reddito (salario, profitto e rendita). Vediamo le conseguenze di ciò.
Quando abbiamo tracciato le curve dei prodotti marginali abbiamo fatto uso del concetto di
stock di capitale, di lavoro, di terra ecc. Lavoro e terra sono tuttavia misurabili in unità fisiche (ore
di lavoro, ettari di terra ecc.). Così quando, per esempio, sommiamo la quantità di lavoro impiegata
da ciascuna impresa a un dato salario per tracciare la domanda di lavoro dell’intera economia,
addizioniamo unità fra loro omogenee. Ma la stessa cosa non è vera per il capitale. Questo è costituito
da una pletora di mezzi di produzione fra loro non omogenei (aratri, torni, autotreni e
quant’altro), e, com’è noto, non ha senso sommare pere e mele.25 L’unico modo per calcolare lo
stock di capitale è misurandone il valore ottenuto come somma delle quantità fisiche di esso, ciascuna
valutata al suo prezzo (come si fa per il PIL). In altri termini lo stock di capitale offerto – il K che
usiamo per tracciare la curva di offerta del capitale, o che considero dato quando tracciamo la curva
del Pml – può essere misurato solo in valore. Ma per conoscere questo valore si devono conoscere i
prezzi dei beni e la distribuzione del reddito. Siamo così in un circolo vizioso: per conoscere la
distribuzione del reddito si deve conoscere il valore dello stock di capitale, ma per determinare
quest’ultimo deve essere già nota la distribuzione del reddito.
Poniamo la questione in altri termini: quando nel grafico 17 diciamo che E è il punto di
equilibrio fra domanda e offerta (K*) di capitale, stiamo dicendo che il valore dello stock di mezzi
di produzione che gli imprenditori intendono impiegare, cioè domandano, in corrispondenza al
punto E – valore determinato cioè sulla base del tasso di interesse e profitto relativi al punto E – è
uguale al valore del capitale offerto K*. Ma questo valore K* doveva essere noto prima di determinare
l’equilibrio dell’economia, ma su che base? Si sarebbe dovuto indicare un numero a caso, ma con
quale senso economico? Se potessimo supporre di conoscere il valore del capitale impiegato
nell’economia in corrispondenza del tasso di interesse identificato dal punto E, e
assumendo che esso sia pari al valore del capitale offerto, allora potremmo dire di conoscere K*.
25 Naturalmente 10 pere e 10 mele sono sommabili in un metro comune. Per esempio danno: 20 frutti – in tal caso l’unità di misura omogenea è il “frutto”; oppure 4 kg – in tal caso l’unità di misura è il Kg; infine sono sommabili “in valore”, conoscendone i prezzi, come facciamo quando calcoliamo il Pil.
35
35
Ma senza conoscere K* non possiamo conoscere E.26
Figura 17
Come si esprime Pierangelo Garegnani, l’allievo prediletto di Piero Sraffa: “i prezzi dei beni
capitali, al pari di quelli di qualsiasi prodotto, dipendono …da saggi di salario e profitto che, a loro
volta, dovrebbero essere spiegati sulla base di quegli stessi prezzi, in quanto elementi costitutivi
della ‘quantità’ di capitale” (1973, p.276). E’ chiaro dunque che il valore dello stock di capitale
impiegato nell’economia vada determinato simultaneamente a prezzi e distribuzione, e non possa
essere considerato noto prima di determinare queste grandezze. L’unico caso in cui il problema non
si pone è se esistesse un solo bene nell’economia, per esempio il grano. In questo caso per definizione
esso può essere misurato in unità fisiche invariabili al variare della distribuzione. Basti porre il prezzo
di una unità di grano pari ad 1: questa grandezza, essendo puramente definitoria, è indipendente dalla
distribuzione.
Questi problemi riguardano dunque la possibilità di tracciare la curva di offerta di capitale
senza incorrere in errori di logica, cioè conoscere in anticipo ciò che la teoria dovrebbe determinare.
Tale possibilità ci è negata. Difficoltà insorgono, tuttavia, anche nel tracciare la curva di domanda
di capitale, ma per questo rimandiamo alla letteratura specializzata.
La teoria neoclassica del commercio internazionale e la sua critica (una anticipazine)
Vedremo che per la teoria neoclassica, a parità di condizioni tecniche di produzione, ciascun
paese tenderà a specializzarsi nella produzione di quelle merci che utilizzano relativamente più del
fattore (o fattori) relativamente più abbondante in quel paese. Per esempio, se per produrre formaggio
si utilizza relativamente più lavoro rispetto alla terra mentre per produrre carne si impiega relativamente
più terra rispetto al lavoro, e la terra è relativamente più abbondante in Francia a confronto della
Germania, ecco che la Francia si specializzerà nella produzione di carne e la Germania in quella di
formaggio. La ragione è intuitiva: se la terra è più abbondante relativamente al lavoro in Francia rispetto
alla Germania, il prezzo di affitto della terra (o rendita) sarà relativamente più conveniente in Francia
che in Germania, sicché nel primo paese sarà più conveniente la produzione di carne che fa un uso
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36
relativamente maggiore di terra rispetto al lavoro. Simmetricamente, l’abbondanza relativa di lavoro in
Germania farà sì che i salari in questo paese siano relativamente più bassi rispetto alla Germania, e la
produzione di formaggio più conveniente dato il suo relativo maggior uso di lavoro rispetto alla terra.
Nell’esempio abbiamo utilizzato i due fattori della produzione più facilmente “misurabili”: il
lavoro in ore-lavoro, la terra in ettari. Avremmo tuttavia potuto fare un esempio col fattore “capitale”.
In questo caso avremmo, ad esempio, concluso che se la Germania è un paese in cui il capitale è
abbondante (rispetto a terra e lavoro) esso tenderà a specializzarsi in produzioni ad elevata intensità di
capitale.
In seguito, tuttavia, alle critiche in tema di teoria del capitale menzionate nel capitolo 2 delle Sei
lezioni, sappiamo che l’introduzione del fattore “capitale” comporta delle problematicità per la teoria
neoclassica. Si veda per una spiegazione introduttiva
http://nakedkeynesianism.blogspot.it/2011/10/more-on-free-trade.html.
Per gli economisti neoclassici una alternativa al commercio internazionale risiede nel
movimento dei fattori. In altri termini è la medesima cosa per un paese relativamente ricco di capitale
esportare beni ad alta intensità di capitale, oppure esportare capitale verso i paesi che ne sono
relativamente meno dotati. L’idea degli economisti neoclassici è dunque che i paesi del “nord” del
mondo, i cui reddito pro capite è più elevato e dunque risparmiano molto, tenderanno a esportare capitale
verso i paesi del “sud”, in cui il reddito pro capite è più basso e che dunque hanno una minore
disponibilità di risparmi. Si noti che il nord presta al contempo capitale finanziario e capitale reale: le
famiglie del nord prestano, via sistema finanziario, parte del proprio reddito al sud (aspetto finanziario);
gli imprenditori del sud impiegano questo risparmio per acquistare attrezzature dal nord. Sappiamo dalle
nostre nozioni di bilancia del pagamenti che ciò che stiamo osservando è un disavanzo di parte corrente
(l’importazione netta di beni capitali), che è la parte reale, coperta da un avanzo nei movimenti di
capitale, che è la parte finanziaria. Nel lungo periodo, così prosegue questo ragionamento, la maggiore
accumulazione di capitale consentita dall’afflusso di capitale estero consentirà a questi paesi di esportare
di più. Nel lungo periodo la situazione dovrà dunque ribaltarsi: i paesi del sud diverranno esportatori
netti con partite correnti in avanzo, potendo così restituire i debiti contratti nel passato coi paesi del
nord.
Peccato che in genere le cose non siano quasi mai andate così: in genere i flussi di capitale dal
nord sono andati a finanziare consumi e non investimenti nei paesi del sud. Questi si sono così indebitati
in maniera crescente sino, in molti casi, alla bancarotta. Vedremo l’esempio recente degli squilibri
europei. Negli anni più recenti si è inoltre sviluppato il paradosso – paradosso dal punto di vista della
teoria neoclassica dominante – di un flusso netto di capitali dal sud del mondo verso il nord. Questo
riguarda i cosiddetti squilibri globali.
37
37
Da un punto più teorico, rifacendosi alle lezioni di Keynes e Sraffa, non ci sorprende che a
presunti risparmi del nord non abbiano generalmente seguito investimenti nel sud, non essendovi alcuna
relazione causale fra risparmi e investimenti.
Passiamo ora alla teoria marginalista del commercio interazionale.
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2. Teoria marginalista del commercio interazionale
La teoria di Heckscher‐Ohlin
La teoria di Heckscher‐Ohlin ‐ dal nome dei due famosi economisti svedesi degli anni 1930 ‐ pone
l’accento sulle differenze delle dotazioni dei fattori.
Teorema di Heckscher‐Ohlin: ciascun paese esporta il bene la cui produzione richiede un impiego
relativamente più intenso del fattore di cui il paese ha una dotazione relativamente più abbondante.
Ipotesi: due paesi, due prodotti A e B , due fattori produttivi, il capitale K ed il lavoro L , assenza di
costi di trasporto, libero commercio, concorrenza perfetta e immobilità internazionale dei fattori.
Aggiungiamo a queste altre ipotesi semplificatrici:
1) funzioni di produzione aventi produttività marginali sempre positive e decrescenti e
omogenee di primo grado, ossia rappresentanti tecnologie a rendimenti di scala costanti. Tali funzioni
sono diverse per i due beni in ciascun paese, per questo si può parlare di due beni diversi, ma la
funzione di produzione del bene A è la stessa nel paese 1 e nel paese 2. Analogamente la funzione di
produzione del beneB . Se i rendimenti non fossero costanti, ma per esempio crescenti, un paese più
grande avrebbe una tecnologia più vantaggiosa, e noi vogliamo tener ferma l’ipotesi di medesima
tecnologia. Queste ipotesi stabiliscono l’assenza di differenze tecnologiche nei due paesi.
2) Gusti dei consumatori identici nei due paesi e proporzione consumata dei due beni
immutata per tutti i livelli di reddito, ossia l’elasticità della domanda rispetto al reddito è costante ed
unitaria, per cui la domanda dipende solo dai prezzi relativi.
3) Assenza di inversione delle intensità fattoriali dei due prodotti.
Le prime due ipotesi escludono ogni differenza tra i due paesi dal lato della tecnologia e della domanda,
in modo che ci possiamo concentrare sulle differenze delle dotazioni dei fattori. La terza ipotesi
permette di stabilire in modo univoco l’intensità d’uso dei fattori produttivi nella produzione dei due
beni. Approfondiamo questa ipotesi.
Supponiamo che, ad esempio, la produzione del bene A richieda un impiego relativamente più intenso
di capitale della produzione del bene B (ossia A ha una intensità di capitale maggiore di B ) se per
qualsiasi rapporto fra i prezzi dei fattori, il rapporto L
K nella produzione di A è maggiore del rapporto
L
K nella produzione di B .
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39
Se per entrambi i beni si utilizza un’unica tecnica con coefficienti tecnici fissi e costanti, le intensità
fattoriali possono essere facilmente determinate una volta per tutte. Se le funzioni di produzione sono
a tecniche variabili (come in questo caso), sulla base della minimizzazione dei costi si sceglieranno
tecniche diverse per ciascun bene a diversi rapporti fra i prezzi dei fattori. Può accadere, quindi, che si
verifichi l’inversione delle intensità fattoriali, ossia che per determinati rapporti fra i prezzi dei fattori,
il bene A abbia maggior intensità di capitale rispetto al bene B , mentre per altri valori di tale
rapporto, B abbia maggior intensità di capitale rispetto al bene A .
Noi supponiamo che questa inversione non si verifichi e ciò implica anche che ad ogni prezzo relativo
dei beni corrisponda un solo prezzo relativo dei fattori e viceversa.
Abbondanza relativa di un fattore. Indicando con 1K e 2K la disponibilità complessiva di capitale nei
paesi 1 e 2 rispettivamente e con 1L e 2L la disponibilità complessiva di lavoro nei paesi 1 e 2, ad
esempio diciamo che il paese 1 ha una dotazione relativamente più abbondante di capitale (è
relativamente più ricco di capitale) rispetto al paese 2, se è 2
2
1
1
L
K
L
K . Supponiamo che il bene A
abbia un’intensità di capitale maggiore del bene B e che il paese 1 sia relativamente ricco di capitale
rispetto al paese 2, ne segue che B ha un’intensità di lavoro maggiore di A e che 2 è relativamente
ricco di lavoro rispetto a 1.
La figura 18 mostra i casi a) di non‐inversione e b) di inversione delle intensità fattoriali.
Si noti che K è misurato in termini fisici (questo fanno in genere i libri di testo): stiamo sommando
aratri a trattori? Oppure misurando il capitale a peso? Questo è un assurdo! Il capitale è un “valore”
che muta al variare dei prezzi, potendo crescere di valore o diminuire, per cui l’inversione delle
intensità fattoriali è possibile e probabile (cap. 2 delle Sei lezioni).
40
40
Figura 18
Dobbiamo dunque dimostrare che il paese 1 esporterà il bene A ed il paese 2 esporterà il bene B .
Per fare questo consideriamo le curve di trasformazione (o curve delle possibilità di produzione) dei
due paesi; la pendenza (in valore assoluto) della curva di trasformazione è il saggio marginale di
trasformazione e misura il costo‐opportunità (marginale) di B in termini di A , cioè l’ammontare di A
al quale si deve rinunciare per ottenere un’unità aggiuntiva di B (si ripassi in un libro di micro). Per
riflettere l’ipotesi che il paese 1 sia relativamente ricco di capitale e che il bene A sia a maggior
intensità di capitale, tracciamo le due curve in questo modo (figura 19).
41
41
Figura 19
Non occorre che le due curve si intersechino, ma che abbiano pendenza diversa.
Infatti, indichiamo con pB la quantità di B inizialmente prodotta (supposta uguale per semplicità in
entrambi i paesi); spostandoci dal punto iniziale M al punto N, la quantità prodotta di B sarà dB .
Siano pA1 e pA2 le quantità prodotte del bene A in corrispondenza di pB dai paesi 1 e 2
rispettivamente e dA1 e dA2 le quantità di A prodotte da 1 e 2 in corrispondenza di dB . Ora,
rinunciando in entrambi i paesi alla produzione della quantità dp BB del bene B , abbiamo un
incremento pd AA 11 maggiore di pd AA 22 . Questo significa che il paese 1 ha prodotto una quantità maggiore del bene A rispetto a quella prodotta dal paese 2 e siccome A è per ipotesi a maggior intensità di capitale, ne consegue che tracciare le due curve in questo modo indica una ricchezza relativa di capitale maggiore in 1 che in 2 . (O viceversa, il fatto che spostando la produzione da M ad N, ovvero dal bene B a minore al bene A a maggiore intensità di capitale, la produzione di A aumenta di più nel paese 2 che è quello che ha più capitale, risorsa “più adatta” alla produzione di A.)
A
B 0
Curva del paese 1
Curva del paese 2
A
B 0 Bd Bp
A1d
A2d
A1p , A2p
M
N
42
42
Due osservazioni aggiuntive sulle curve di trasformazione: • Lungo le curve di trasformazione vi sono le combinazioni di A e B per cui tutte le risorse sono
impiegate (ipotesi di piena occupazione). E’ per questa ragione che se si aumenta la quantità prodotta di un bene si deve diminuire quella prodotta dell’altro bene. S vi fosse disoccupazione di lavoro e impianti, potremmo accrescere la produzione di un bene senza ridurre quella dell’altro ‐ o volendo accrescerle tutte e due sino a realizzare la piena occupazione.
• La loro curvature non è un fatto tecnico (qui per ipotesi la tecnologia è la medesima nei due paesi) ma dipende dalla differente dotazione fattoriale: ciascun paese l’ha più adatta a un certo tipo di bene.
Per dimostrare il teorema dobbiamo innanzitutto provare che il paese relativamente ricco di un fattore produce quantità maggiori del bene che ha un’intensità maggiore di quel fattore (nel nostro caso che il paese 1 ha una propensione per la produzione di A e il paese 2 per la produzione di B ).
Consideriamo un dato A
B
p
p (ragione di scambio internazionale), uguale nei due paesi.
A
B
p
p è
rappresentato dalle pendenze delle curve in 1H per il paese 1 e in 2H per il paese 2, che
rappresentano i SMT e sono uguali ( 11 pp e 22 pp parallele). La pendenza del raggio 1OR , data da tg
, misura la proporzione fra la produzione dei due beni per il paese 1, ed essa è maggiore della pendenza del raggio 2OR , data da tg , che misura la proporzione fra la produzione dei due beni per il paese 2,
quindi il rapporto fra la produzione di A e la produzione di B è maggiore nel paese 1 che nel paese 2. Ora dobbiamo dimostrare che ciascun paese esporta il bene a maggiore intensità del fattore relativamente più abbondante. Questo è semplice. Abbiamo visto che a parità di rapporto fra i prezzi il paese 1 produce più del bene A rispetto al bene
B e il paese 2 più del bene B rispetto al bene A (il rapporto (B
A in 1 è maggiore di
B
A in 2, dato che
in 1 è maggiore L
K), ma per l’ipotesi che la struttura della domanda sia identica nei due paesi e
indipendente dal livello del reddito, i due paesi vogliono consumare i beni nella stessa proporzione, quindi il paese 1 esporterà il bene A e importerà il bene B .
A
B 0
43
43
Riassumendo:
1° passo: dato un certo rapporto fra i prezzi (pB/pA) identico per i due paesi, il paese 1 produce
relativamente più del bene A.
2° passo: dato che a quei prezzi relative i due paesi hanno una struttura della domanda identica, e dato
che la proporzione (ideentica) in cui i due beni sono domandati in generale differirà dalle proporzioni
(differenti) in cui i due beni sono prodotti da ciascuno, allora ciscun paese scambierà l’eccesso del bene
in cui si specializza con l’altro paese (1 l’eccesso di A e 2 l’eccesso di B).
Come collaterale, il rapporto fra le quantità scambiate indicherà la ragione di scambio internazionale
Non c’è specializzazione complete (come accadeva in Ricardo): vantaggi della specializzazione sono
infatti decrescenti (poiché il prodotto marginale dei fattori è decrescente). Dunque, prima che un
paese acquisisca la produzione totale di un bene, i vantaggi relativi che detiene saranno scomparsi,
per cui si può parlare di specializzazione relativa, ma non assoluta.
A completamento vediamo il modello neoclassico del commercio internazionale. Questo mostra come
si realizzi l’equilibrio complessivo a partire dati i vantaggi di ciascun paese a specializzarsi in una
produzione – producendo dunque di un bene più di quanto ne venga domandato all’interno del
medesimo paese.
Il modello neoclassico del commercio internazionale
In economia aperta si può infatti ottenere un equilibrio in cui un paese ha eccesso di domanda di un
bene colmato dalle importazioni ed eccesso di offerta dell’altro bene che dà luogo ad esportazioni. Ci
dovrà quindi essere un altro paese in situazione opposta, cioè con un eccesso di offerta (esportazioni)
per il bene per cui c’è un eccesso di domanda nel primo paese e viceversa per l’altro bene.
Supponiamo un mondo con due soli paesi, 1 e 2, che usano gli stessi fattori, internazionalmente
immobili, e producono gli stessi beni A e B , perfettamente mobili, in assenza di costi di trasporto.
In autarchia entrambi i paesi presentano zero eccessi di domanda per tutti i beni. Supponiamo che il
prezzo relativo di equilibrio di economia chiusa sia diverso nei due paesi, ipotesi probabile per la
diversità delle dotazioni di fattori, la tecnologia e i gusti (un prezzo relativo uguale non darebbe luogo
al commercio internazionale), e che, ad esempio, esso sia maggiore nel paese 2, EOR nel grafico
seguente, che nel paese 1, EOP . Le curve di domanda di equilibrio generale per il bene A in funzione
del prezzo relativo B
A
p
p, sono AA DD 11 per il paese 1 e AA DD 22 per il paese 2. Analogamente, le curve
44
44
di offerta sono AASS 11 e AASS 22 rispettivamente (muovendosi da O verso sinistra si hanno valori
crescenti di A ). Lo scambio internazionale può verificarsi solo se il prezzo relativo internazionale o
ragione di scambio internazionale è compresa fra i prezzi relativi di equilibrio autarchico EOR e EOP .
Infatti, per ragioni di scambio maggiori di EOR in entrambi i paesi ci sarebbe un eccesso di offerta per
il bene A e quindi entrambi i paesi offrirebbero tale bene, mentre per ragioni di scambio minori di
EOP , ci sarebbe un eccesso di domanda per A , che sarebbe domandato da entrambi i paesi. In
entrambi i casi non potrebbe allora verificarsi alcun equilibrio internazionale.
Per ragioni di scambio internazionali comprese fra EOP e EOR , il paese 2 domanderà il bene A , che
sarà offerto dal paese 1 e l’equilibrio internazionale si stabilirà in corrispondenza della ragione di
scambio EOQ , in corrispondenza della quale AAAA XXMM 1122 : qui l’eccesso di domanda di A
(importazioni) da parte del paese 2 è uguale all’eccesso di offerta (esportazioni) da parte del paese 1.
Benefici del commercio internazionale
Grazie alla legge di Walras estesa al mercato internazionale,1 la ragione di scambio che eguaglia
domanda ed offerta di A nel mercato internazionale è la stessa che equilibra il mercato del bene B ,
per cui possiamo considerare soltanto uno dei due mercati (noi abbiamo scelto quello del bene A ).
Nel nostro caso, dunque, nel paese 2 c’è un eccesso di offerta del bene B ed un eccesso di domanda
di tale bene nel paese 1. Non sono considerati i movimenti di capitale, quindi non può esserci
indebitamento internazionale (ogni paese paga le importazioni con le proprie esportazioni).
1 Si veda Gandolfo cap. 18.
45
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I vantaggi del commercio internazionale si vedono con le curve di indifferenza sociale, usuali curve di
indifferenza per le quali la società è considerata come un individuo: tali curve rappresentano il
benessere della società nel suo complesso in corrispondenza di ogni combinazione dei due beni.
Consideriamo dapprima una economia chiusa ed osserviamo che qui il benessere sociale viene
massimizzato nel punto E , in cui una curva di indifferenza sociale è tangente alla curva di
trasformazione:
Con il commercio internazionale invece, consideriamo la ragione di scambio internazionale, retta RR, tangente alla curva di trasformazione nel punto E . La RR , d’altra parte, è anche tangente ad una curva di indifferenza sociale più alta rispetto a quella raggiungibile dal paese in economia chiusa,
determinando il punto di consumo CE e le quantità esportate, BB EH , e quelle importate, AA EH . Dal commercio internazionale si hanno benefici dovuti ad un benessere sociale maggiore: la curva di
indifferenza sociale tangente ad CE è più in alto rispetto a quella tangente ad E .
46
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Per completezza, enunciamo ora alcuni teoremi.
TEOREMA DEL PAREGGIAMENTO DEI PREZZI DEI FATTORI
Secondo questo teorema, con le stesse ipotesi fatte nel modello di Heckscher‐Ohlin, lo scambio
internazionale di merci uguaglia i prezzi dei fattori nei due paesi, sia relativi che assoluti, nonostante
l’immobilità internazionale dei fattori stessi.
La spiegazione intuitiva è la seguente. Prima dell’apertura agli scambi nternazionali, nel paese in cui il
lavoro è abbondante il salario è relativamente più basso del paese dove il lavoro è scarso. Con
l’apertura al commercio, tuttavia, se un paese ad abbondanza di lavoro esporta il bene che utilizza più
intensamente il lavoro nel paese in cui il lavoro è più scarso, in quest’ultimo il lavoro diventa
automaticamente meno prezioso (scarso), e così il salario si livella fra i due paesi. Lo stesso
ragionamento si applica al capitale: Se il paese dove il capitale è più abbondante esporta il bene ad
alta intensità di capitale, il capitale diventa meno “prezioso” nel paese ove questo è scarso, e il tasso
di rendimento del capitale si livella.
Nei fatti il commercio internazionale è sostitutivo della mobilità internazionale dei fattori ‐ che anche
ne livellerebbe il prezzo. Con mobilità dei fattori, infatti, il lavoro muoverebbe dal paese in cui è più
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abbondante e pagato meno, verso il paese in cui è più scarso e meglio pagato, come vedremo. Con il
commercio dei beni il lavoro si muove in quanto incorporato nei beni commerciati!
Dazi ed altre misure di politica commerciale
Consideriamo ora l’analisi marginalista dei dazi.
I dazi e le barriere non tariffarie sono manifestazioni del protezionismo, ossia un intervento da parte
dello stato che crea una divergenza fra i prezzi dei beni all’interno e i prezzi relativi internazionali.
Supponiamo che il dazio assuma la forma di una imposta ad valorem, cioè di una maggiorazione
proporzionale al prezzo del bene e per semplicità esaminiamo gli effetti di un dazio in un contesto di
equilibrio parziale, nel quale si considera soltanto il mercato del bene assoggettato a dazio,
trascurando le ripercussioni sul resto del sistema economico, considerate invece nel contesto di
equilibrio generale.
p prezzo prima dell’imposta, p(1+d) dopo l’imposta (alternativamente il dazio può essere sulle
quantità, per es. x euro per unità del bene importato).
La curva di domanda e quella di offerta di un bene scambiato internazionalmente, supposte lineari,
sono D e S ; supponiamo che il prezzo del bene sia inizialmente p , prezzo interno ed internazionale
in assenza di costi di trasporto, dazi, etc. A questo prezzo la quantità importata è FH , l’eccesso di
domanda interno del bene. Ora introduciamo un dazio 1d (aliquota dell’imposta) nella forma di una
maggiorazione proporzionale al prezzo del bene, così il prezzo viene maggiorato dell’imposta 1pd e
diventa 11 1 dppdp . La domanda diminuisce, la produzione interna del bene aumenta e la
quantità importata diminuisce da FH a 11HF . In specifico:
‐ il consumo diminuisce da 4q a 3q ‐ effetto consumo.
‐ la produzione interna aumenta da 1q a 2q ‐ effetto produzione o protettivo.
‐ le importazioni diminuiscono e diventano 32qq ‐ effetto importazione.
‐ Il dazio è un introito fiscale per lo stato. L’entrata complessiva dovuta al dazio è: valore del dazio
unitario per la quantità importata; il valore del dazio unitario (introito per unità di bene importato) è
pdpdp 111 . Quindi l’entrata complessiva è l’area del rettangolo 1111 HHFF ‐ effetto entrate
fiscali.
‐ Il prezzo incassato dai produttori nazionali è aumentato a spese dei consumatori nazionali
(redistribuzione di reddito fra le due categorie) – effetto redistribuzione.
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Nei fatti MNFF1 è un sussidio pagato dai consumatori alla produzione interna
Attenzione: Non ho mai studiato la cosa a fondo, ma domandiamoci: se con il dazio la produzione e
l’occupazione sono aumentate, c’è davvero un danno per i consumatori (intesi come lavoratori?)
quantità
prezzo prezzo
quantità
prezzo prezzo
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Dietro la trattazione neoclassica di tutti i problemi c’è sempre l’ipotesi di piena occupazione (cmq si
trova lavoro). Rimossa quella, i risultati dell’analisi in genere cambiano.
Costi sociali del dazio
Quando p p(1+d):
Costi
rendita consumatore ‐MHH1M
Benefici
Rendita produttori +MNFF1
Entrate fiscali +F1 F1 ‘H1’H1
Costo netto FF1 ‘F1 + H1’HH1
Dove FF1 ‘F1 è il costo del dazio dal lato della produzione (importando si sarebbe speso di meno), e
H1’HH1 è il costo dal lato del consumo.
Un caso limite è quello del dazio proibitivo, ossia un dazio 2d tale da portare il prezzo interno al livello
tale per cui domanda ed offerta si eguagliano:
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50
Contingentamenti
Il contingentamento è una restrizione quantitativa posta dallo stato all’importazione di un bene,
emanata con un decreto dal Ministro del commercio con l’estero. In genere il contingentamento si
esplica mediante la concessione di licenze d’importazione fino a concorrenza del quantitativo stabilito.
Supponiamo che p sia il prezzo mondiale del bene, di cui viene importata la quantità 41qq e che ad
un certo punto lo stato decida che le importazioni debbano essere ridotte. Lo stato stabilisce quindi
un contingente 32qq , che genera l’aumento del prezzo interno a p a causa della concorrenza fra i
consumatori dovuta alla diminuzione della quantità del bene importato.La produzione nazionale sale
di q1q2, le importazioni scendono di q3q4, le importazioni diventano (appunto) q2q3. Gli effetti del
contingentamento sulla produzione nazionale, sul consumo nazionale e sulle importazioni sono gli
stessi di quelli che si avrebbero in seguito all’imposizione di un dazio, ma mentre nel caso del dazio
1111 HHFF rappresenta un incasso da parte dello stato, nel caso del contingentamento lo stato non
incassa nulla e 1111 HHFF è il guadagno dei detentori delle licenze d’importazione (nell’ipotesi di
concorrenza perfetta fra i produttori esteri per cui il prezzo mondiale p resta inalterato).
L’equivalenza degli effetti sulle importazioni di queste due misure di protezionismo si ha soltanto in
condizioni di concorrenza perfetta all’estero ed all’interno, altrimenti gli effetti possono essere molto
diversi.
quantità
Dazio proibitivo
prezzo
51
51
Lo stato può preferire il contingentamento al dazio perché solo il primo dà la sicurezza della desiderata
limitazione alle importazioni, infatti il calcolo del dazio che riduce le importazioni all’ammontare
stabilito può essere fatto solo se le curve D e S sono note con esattezza e non subiscono spostamenti,
i quali costringerebbero a ricalcolare continuamente il dazio. Nella realtà la determinazione delle curve
di domanda ed offerta (effettuata con metodi econometrici) è soggetta a larghi margini di errore. Lo
stato potrebbe preferire il contingentamento, anche per poter stabilire un monopolio; infatti, se nel
paese è presente un’industria potenzialmente monopolistica (per esempio delle sigarette), in presenza
del dazio essa non può alzare il prezzo al di sopra del prezzo internazionale più il dazio, pena il crollo
delle vendite dovuto al fatto che i consumatori nazionali acquisterebbero il bene importato con un
costo minore (il prezzo nazionale più il dazio, minore di quello dell’industria in questione). Con il
contingentamento, invece, l’industria nazionale può alzare il prezzo senza subire il crollo delle vendite
perché le importazioni non possono superare il dato contingente ed il monopolio potenziale può
diventare effettivo.
E’ vero che col contingentamento lo Stato non incassa nulla, però potrebbe mettere le licenze di
importazione all’asta (ma Gandolfo dice che è complicato).
quantità
prezzo
Effetti di un contingentamento
52
52
3. Movimenti internazionali dei “fattori produttivi”2
Movimenti di capitale
I flussi internazionali di capitale sono in genere distinti in : investimenti esteri diretti (lungo termine)
e flussi finanziari a breve termine.
I primi sono speso distinti in greenfield ‐ se viene l’impresa del paese A costruisce un impianto
produttivo ex novo nel paese B ‐ e brownfield ‐ se viene l’impresa del paese A acquista un impianto
produttivo già esistente del paese B.
Qui parleremo da un punto di vista generale di movimenti di capitale. Seguiremo dapprima il punto di
vista neoclassico (dominante) seguendo l’esposzione del libro di testo di Bernanke (ex Presidente della
Fed). Successivamente presenteremo un punto di vista alternativo, sostenuto però anche da eminenti
economisti monetari “mainstream”.
Risparmio nazionale
Ritorniamo su dei concetti già visti nel capitolo 1 con riferimento a concetti di contabilità nazionale,
dunque “oggettivi” in quanto sempre validi ex post (quando si tirano le somme di fine anno).
Consideriamo ora l’equazione del reddito nazionale
Y = C + I + G + (X – M) = C + I + G + NX,
dove NX = X‐M, ovvero
Y – C ‐ G = I + NX (1)
Considerando la spesa pubblica G come soli consumi pubblici (gli investimenti pubblici sono dunque
compresi in quelli privati I), sottraendo al reddito consumi pubblici e privati si ha il risparmio nazionale:
S = Y – C – G (2)
Considerando la (1) e la (2) si ottiene dunque:
S = I + NX ovvero
S ‐ I = NX (3)
Questa equazione ci racconta che se S > I, NX > 0
2 Per una semplice trattazione mainstream si veda Abel & Bernanke, Macroeconomia, Il mulino 1994, cap. 7, pp.259‐367, 371‐379.
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Vale a dire, se le partite correnti sono in attivo vuol dire che ha un eccesso di risparmio nazionale
rispetto agli investimenti, e a questo eccesso corrisponde un surplus commerciale, vale a dire l’eccesso
di merci prodotte all’interno (e né consumate né investite) e ceduto all’estero. Questo paese sta
accumulando attivi verso l’estero (o concedendo crediti, ovvero accumulando RU investite in titoli (in
gener) di Stato stranieri. Il paese “vive al di sotto dei propri mezzi”.
Viceversa se S < I, NX < 0, il paese “vive al di sopra dei propri mezzi” e accumula passività verso l’estero.
Il risparmio nazionale può anche essere visto come la somma di risparmio pubblico e risparmio privato
S = SP + SG (4)
Infatti, se alla (2) sottraiamo e aggiungiamo l’imposizione fiscale T otteniamo:
S = Y – C – G – T + T.
Riordinando si ottiene:
S = (Y – T – C) + (G – T) = SP + SG
dove
SP = (Y – T – C) (risparmio privato = reddito disponibile alle famiglie meno consumi)
SG = G – T (saldo del bilancio pubblico)
Dove T imposizione è l’imposizione fiscale netta dai trasferimenti, G sono consumi pubblici (gli
investimenti pubblici sono compresi in quelli privati). Considerando la (3) e la (4) e riordinando si
ottiene:
(SP – I) + SG = NX (5)
(SP – I) è il saldo del settore privato, SG quello del settore pubblico e NX quello del settore estero.3
Come già sappiamo dal capitolo 1, questi tre saldi si possono combinare in svariati modi. In Germania
essi hanno tre segni positivi. In Italia il saldo privato e quello estero sono attualmente positivi, e quello
pubblico negativo.
Tutto questo è contabilità e non ha a che vedere con le teorie. In verità nella teoria mainstream viene
spesso postulata una relazione causativa da un saldo pubblico negativo a uno estero negativo (twin
deficit hypothesis): politiche di bilancio in disavanzo volte a sostenere la domanda interna
porterebbero a disavanzi esteri. Si obietta, tuttavia, che disavanzi esteri segnalano perdita di
3 Più precisamente, poiché I comprende sia gli investimenti pubblici che quelli privati, I = Ig + Ip, il risparmio pubblico è SG = (G + Ig) – T e il saldo del settore privato è (SP – Ip).
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competitività esterna che indebolisce reddito ed entrate fiscali interne sì da generare disavanzi
pubblici (reversed twin deficit hypothesis) (vedi Chi non rispetta le regole pp. 30‐34).
Passiamo ora alla teoria neoclassica dei movimenti di capitale.
Teoria neoclassica dei movimenti di capitale
Flussi di capitale per una economia piccola
Ora passiamo dalla contabilità nazionale alla teoria marginalista. Supponiamo una piccola economia
aperta per la quale il tasso di interesse sui prestiti internazionali è un dato. Questa economia è in piena
occupazione (come ben sappiamo questo è un assunto teorico tipico della teoria marginalista). C’è
libertà di movimenti di capitale. Ciascuno muove i capitali liberamente da un paese all’altro.
Attenzione, oggi questo è dato per scontato, ma durante il regime di Bretton Woods e sino a fine anni
’70, non fu così. In Italia la liberalizzazione dei movimenti di capitale fu completata all’inizio degli anni
’90.
Abbiamo due casi, quello al quale ai tassi internazionali il piccolo paese si indebita (tasso di interesse
internazionale 2%), e quello al quale concede credito (tasso di interesse internazionale 6%) con il “tasso
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56
Due osservazioni
A) I tassi sui prestiti interazionali dipendono anche dalle aspettative di cambio, come sappiamo dalla
condizione di parità scoperta sui cambi. Regimi di cambio fisso, finché sono credibili, diminuiscono il
rischio di cambio (assunto o dal debitore o dal creditore a seconda della denominazione del contratto
di credito). L’euro ha per esempio favorito l’indebitamento della periferia europea.
B) I paesi si possono difendere da afflussi e deflussi indesiderati di capitale introducendo controlli sui
movimenti di capitale. Esistevano durante Bretton Woods, aboliti successivamente, ora persino il FMI
li ritiene una forma accettabile di difesa delle prerogative di politica economica nazionale. In assenza
di controllo dei movimenti di capitale, afflussi o deflussi di capitale possono destabilizzare il cambio. A
quel punto il paese deve fissare il tasso di interesse per evitare questi movimenti di capitale:
accrescerlo se l’attesa è di un’uscita di capitali, diminuirlo se l’attesa è di un ingresso di capitali. Ma in
tal modo il paese “perde la politica monetaria” ai fini della piena occupazione interna (ed
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eventualmente del controllo dell’inflazione). Durante il periodo di Bretton Woods l’assunto era che gli
obiettivi interni (piena occupazione in particolare) erano più importanti di quelli esterni (libertà di
merci e capitale). Purtroppo le priorità sono poi mutate.
Flussi di capitale fra due economie grandi
Si può pensare alla fig. 7.6 di A&B come alla determinazione del tasso di interesse mondiale fra due
grandi regioni, Nord e Sud (o “core” e periferia).
Si può pensare che il Nord ricco di capitale (risparmio) presti al Sud povero di capitale (risparmio). Nel
Nord il PMK è basso, nel Sud il PMK è alto.
(Si rammenti che in questa visione il risparmio è la fonte del capitale).
Per comodità riportiamo qui alcune pagine selezionate dall’Abel & Bernanke. Si notino quelle
sull’indebitamento dei paesi in via di sviluppo. E’ una interpretazione marginalista della questione ma
in parte condivisibile.
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According to neoclassical theory, international financial flows are an expression of the time‐honoured
loanable funds theory, by which loanable funds are the practical manifestation of the savings supply.
In the case of international loanable funds, they represent savings from capital‐rich countries –with a
lower natural interest rate incore ‐ that become available to countries with lower capital endowment –
and a higher natural interest rate inp. So the divergence between natural interest rates justifies a view
of capital movements as a general equilibrium phenomenon (Blanchard/Giavazzi 2002).
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Flussi di capitale (più in generale di “fattori”) e commercio internazionale
Nell’analisi neoclassica il commercio internazionale è un surrogato dei movimenti internazionali dei
fattori. Così paesi ricchi di capitale o esporteranno beni “capital intensive”, o esporteranno capitale;
paesi ricchi di lavoro si specializzeranno in beni “labour intensive”, o esporteranno lavoro. In ambedue
i casi si tende al livellamento del prezzo dei fattori.
Una visione alternativa dei flussi di capitale
Come s’è detto, nella visione marginalista, dietro ai flussi di capitale vi sono i risparmi. Quando in un
paese S > I, il paese può prestare all’estero. Il corrispettivo di tale prestito è un avanzo di partite
correnti NX > 0. C’è un problema di uovo e gallina qui. L’equazione S – I = NX è una identità contabile,
sempre vera ex post (a fine anno quando si fanno i bilanci). Ma durante l’anno, è S ‐ I che ha generato
NX o viceversa? Una identità contabile non ci chiarisce le causalità. I punto non è semplice , e non
molti economisti ce l’hanno chiaro.
Torniamo all’endogenità della moneta. Le banche non intermediano risparmio, creano moneta (creano
depositi attraverso la generazione di credito). Si può dunque ritenere che i capitali che finanziano le
importazioni dei paesi con partite correnti in disavanzo (NX < 0) siano create da banche. Queste
possono essere banche dei medesimi paesi periferici, ma possiamo anche pensare dei paesi “core”
(quelli più ricchi ed esportatori) che generano credito. Se le banche periferiche concedono facilmente
credito ai propri clienti, devono essere anche abbastanza sicure di potersi riapprovvigionare di riserve
presso banche estere.
Proviamo a fare un esempio (in inglese, non ho tempo di tradurlo). L’esempio è relative alla situazione
europea degli anni 1999‐2007 quando è maturata la crisi di indebitamento della periferia europea
(Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda).
To study an archetypal example of these events in the perspective of this paper, let us consider a
payment (100 €) for a German commodity by a Greek citizen financed by credit/money creation by a
representative Greek commercial bank (Alpha Bank).
Attanasio compra un Bosch
Following endogenous credit/money logic, Alpha Bank creates a deposit in favour of Athanasios:
Alpha Bank
+100 +100 D
(Loan) (Athanasios)
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Next, Athanasios instructs the bank to pay for the German good (say a Bosch fridge). Come abbiamo
visto, il pagamento avviene via il Sistema TARGET2.
Athanasios instructs the bank to pay for the German good (say a Bosch fridge). According to the
Eurosystem payment system Target 2, Alpha Bank deletes 100 € from Athanasios’s deposit and the
Bank of Greece cancels 100 € from the bank’s reserves; at the same time the Bundesbank (BB) credits
100 € of reserves to a representative German bank, Deutsche Bank (DB) that in turn credits 100 € to
Bosch. The BB matches its new liability with a Target 2 claim with the Eurosystem, while the BoG enters
a corresponding new Target 2 liability.
Notate che l’acquisto del Bosch crea un disavanzo commerciale (NX < 0 )della Grecia (verso la
Germania)
Supponiamo che la Bosch risparmi i 100€. Come già sappiamo, la Deutsche Bank presterà l’eccesso di
riserve alla Grecia. Ecco, dietro questo flusso di capitale possiamo dire che la Germania sta prestando
dei risparmi alla Grecia. Ma la Grecia non ha importato il Bosch sulla base di questo prestito. I risparmi
sono comparsi alla fine. L’importazione è stata finanziata da creazione di moneta endogena.
Foreign saving appears in a second phase (the east‐west arrow). The Greek bank is indeed short of
reserves ‐ the actual obligatory reserve coefficient in the euro area is 1%, so it must recover 99 € of
reserves ‐ while DB has a 99 € excess of reserves (since 1 € is held for the new deposit). If the interbank
market is functional, DB normally lends the excess reserves to Alpha Bank, and this almost regulates
the Target 2 imbalances. If you look at Bosch’s deposit as saving (suppose for the sake of the argument
that it has not been spent), then we may say that DB is funding Alpha Bank lending of German saving
(final finance).
International financing and funding (the case of TARGET2)
BCE
+100 T2 +100 T2
Bank of Greece (BoG) (Buba) Bundesbank
‐100 R ‐99 T2 ‐99 T2 +100 T2 +100 R
Alpha Bank +100 T2 Deutsche Bank
‐100 R ‐100 D ‐99 T2 (1 T2 (1 T2 ‐99 T2 ‐99 R +100 R +100 D
(Athanasios) +99 R residual) residual) (Bosch)
+99 R +99 (1 T2 (1 T2 +99 ‐99 R
(loan residual) residual) (loan to
from DB) Alpha B.)
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Applied to the eurzone crisis, the standard neoclassical interpretation is that German savers loaned to
peripheral countries – savings being equal to the current account (CA) surplus according to the well‐
known national account identity (where the German CA balance is simplified in the trade‐balance
component, standard notation):
SG‐ IG = (GG ‐ TG) + (XG ‐ MG)
From a logical (and endogenous money) point of view it is unclear how German savers could lend
abroad before Germany's trade‐surplus materializes. Indeed the Target2 story makes it clear that the
financial circuit begins with a loan granted in, say, Spain.
Si noti che quanto esposto non è relativo a una teoria – sebbene mostri come la vulgata della teoria
marginalista dei movimenti internazionali di capitale sia infondata. Infatti, quest’ultima teoria può
essere riesposta usando la teoria della moneta endogena ‐ lo fanno, ad esempio, due importanti
economisti marginalisti come Claudio Borio della Banca dei regolamenti internazionali e Piti Disyatat
della Bank of Thailand. La loro idea è che dietro i movimenti internazionali di capitale vi sia creazione
di credito ex nihilo da parte delle banche, seguita ex post dalla formazione e prestito di risparmio da
parte dei paesi in surplus di bilancia dei pagamenti. L’importante per loro è che nel mercato
internazionale prevalga il tasso di interesse naturale, quello della figura 7.6 di Abel & Bernanke. A quel
tasso risparmi e investimenti a livello globale sono in equilibrio.
La teoria marginalista è sbagliata per altri motivi, in particolare perché è fondata sulla nozione
neoclassica di capitale, che è errata, e con essa il concetto stesso di tasso di interesse naturale.
Nell’ambito alternativo di una genuina teoria keynesiana non esiste il tasso di interesse naturale. Nel
mercato finanziario internazionale le banche centrali più influenti influenzano i tassi prevalenti. In
certe circostanze storiche, tassi di interesse convenienti, libertà di movimenti di capitale e regimi di
cambio fissi, i paesi periferici tendono a indebitarsi con i paesi “core” (come nell’esempio della Grecia
nell’ambito dell’Unione monetaria europea). La sequenza di quello che Alberto Bagnai ha definito
“ciclo di Frenkel” (si veda la 5° delle Sei lezioni) comincia con la creazione di moneta ex nihilo da parte
delle banche (possono essere periferiche o dei paesi “core”). Questo può portare a crisi del debito.
Per approfondire
Cesaratto, S. (2017a) Initial and Final Finance in the Monetary Circuit and the Theory of Effective
Demand, Metroeconomica, 68 (2), 228–258. Available at:
http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/meca.12132/epdf.
81
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Cesaratto, S. (2013c) The implications of TARGET2 in the European balance of payment crisis and
beyond, European Journal of Economics and Economic Policies: Intervention, 10 (3), versioni working
paper: http://www.deps.unisi.it/it/ricerca/pubblicazioni‐deps/quaderni‐deps/anno‐2013/681the‐
implications‐target2‐european‐balance;
http://www.networkideas.org/featart/sep2013/fa03_TARGET_2.htm
Mobilità del lavoro (flussi migratori)
Tema molto attuale e controverso, Cominciamo con la visione neoclassica.
Nella figura, ripresa dal maggiore studioso convenzionale delle migrazioni, sono tracciate le funzioni
del prodotto marginale del lavoro nelle due aree Nord e Sud, più alta quella del nord più ricco di
capitale.
Il travaso di M lavoratori da Sud (dove l’offerta di lavoro si sposta da SS a SS*) a Nord (dove l’offerta di
lavoro si sposta da da SN a SN*) determina un aumento dei salari nel Sud e una diminuzione nel Nord
fino a che wN=wS=w* ‐ come sappiamo il movimento dei “fattori” porta tendenzialmente a una
convergenza delle loro rispettive remunerazioni.
Il prodotto nel Sud cala del trapezio C (trapezio, non solo il triangolo), e aumenta nel Nord del trapezio
A+B. Poiché B = C, c’è un guadagno netto di welfare mondiale pari al triangolo A. Secondo Borjas, il
mondo sta utilizzando più efficientemente le proprie risorse.
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Non v’è dubbio, tuttavia, che i salari nel Nord sono diminuiti. I lavoratori del nord erano pagati LNwN,
ora son pagati LNw* (la studentessa individui graficamente il rettangolino che rappresenta la perdita).
Gli M lavoratori del Sud che si spostano guadagnavano MwS e ora Mw*, con un guadagno netto (lo si
individui graficamente). Guadagnano anche i “capitalisti” in quanto il triangolo A corrisponde ai
profitti.
Ma anche al riguardo dei presunti vantaggi, Borjas si domanda se un’immigrazione massiccia e molto
rapida non trascini con se le inefficienti istituzioni4 socio‐economiche del Sud al Nord, determinando
un deterioramento delle istituzioni locali del Nord (un esempio: la n’drangheta ora diffusa nel nord
d’Italia; la mafia siciliana negli USA, ecc).
A questo si aggiungono i costi di congestione, l’aggravio sul welfare pubblico ‐ gli studi suggeriscono
che la multietnicità non favorisca il consenso del ceto medio verso il welfare pubblico, ecc.
Naturalmente la visione marginalista può essere criticabile in quanto usa curve di domanda e offerta
che, a nostro avviso, sono analiticamente criticabili. La visione alternativa che ci proviene da Marx non
porta, tuttavia, a risultati molto diversi.
L’esercito industriale di riserva di Marx
E’ uno dei concetti più importanti introdotti da Marx. Obiettivo dei capitalisti è di valorizzare il capitale
nel circuito denaro‐merce‐denaro, D‐M‐D’ dove D’ > D e D’ – D = plusvalore (si veda la 1° delle Sei
lezioni). Se tuttavia il tasso di accumulazione del capitale diventa molto rapido, la domanda di lavoro
aumenta, il potere contrattuale dei lavoratori aumenta e così i salari, facendo cadere il saggio del
profitto. Secondo Marx, dunque, un capitalismo ben funzionante richiede la costante presenza di un
pool di lavoratori disoccupati che calmierino il mercato del lavoro, l’esercito industriale di riserva (EIR).
Questo sarà tipicamente composto da bambini, donne, immigrati, vagabondi, lavoratori anziani,
diversamente abili, figure tenute normalmente fuori del mercato del lavoro, ma richiamate in servizio
qualora il nerbo della forza lavoro composta da maschi in età matura non possa far fronte alle necessità
dell’accumulazione, la forza contrattuale dei lavoratori si accresca, i salari tendano ad aumentare. Nel
4 In Italia per istituzioni si intendono soprattutto quelle pubbliche, in contrapposizione alla società civile. In economia il termine indica piuttosto tutte le regole di convivenza e di relazione che le società si danno, in maniera sia informale che formale. Da esse dipende, per esempio, la fiducia reciproca, un elemento importante in società avanzate e scarso in molte società arretrate dove prevale una logica di clan familiare. Famoso lo studio sul familismo amorale del Mezzogiorno italiano introdotto da Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (trad. it.: Le basi morali di una società arretrata, 1976).
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lungo periodo anche la fertilità tenderà ad adeguarsi alle necessità dell’accumulazione, ma questo
richiede tempi assai lunghi. L’importazione di lavoro immigrato sarà ad esempio un metodo più rapido
per calmierare i salari. L’introduzione di macchinario sarà un altro metodo adottato dai capitalisti per
creare disoccupazione e preservare l’EIR.
La crisi è infine un ulteriore metodo con cui, se l’EIR si inaridisce, i capitalisti lo ricreano. Gli economisti
non ortodossi ritengono ad esempio che l’elevata disoccupazione nei paesi occidentali dagli anni 1970
sia una scelta del capitalismo dopo la sbornia della piena occupazione dei due decenni precedenti e la
conseguente indisciplina sindacale alla fine degli anni 1960.
Il concetto di esercito industriale di riserva fu ripreso e sviluppato, fra gli altri, da Michal Kalecki (1899‐
1970), un grande economista polacco che può ben essere definito il Keynes marxista, in un breve
saggio, che trovate in fondo al capitolo, che vi svela perché nel capitalismo non c’è la piena
occupazione (mentre si saprebbe come ottenerla). Il saggio è fondamentale per comprendere la realtà
perversa, come si esprimerebbe lo stesso Kalecki, in cui viviamo. La lettura fa parte dell’esame.
Immigrazione e mercato del lavoro
La discussione corrente è focalizzata sulla natura sostitutiva (gli stranieri portano via il lavoro) o
complementare (gli stranieri svolgono lavori non più accettati dagli italiani).
Se è vera la prima ipotesi, l’immigrazione ha contribuito a determinare l’abbassamento dei salari reali
e dei diritti in Italia (read my lips: contribuito), processo che attendibilmente potrebbe continuare e
peggiorare con ulteriori afflussi.
Se fosse vera la seconda, i bassi salari degli immigrati dipenderebbero dalla bassa qualità delle
mansioni svolte e dallo scarso potere contrattuale; mentre i bassi salari degli autoctoni sarebbero
dovuti ad altre cause (sconfitta storica del lavoro dall’inizio anni ’80; alta disoccupazione e politiche di
austerità; concorrenza dai paesi emergenti ecc.).
Gli immigrati non fanno concorrenza agli italiani che farebbero bene, anzi, ad allearsi con gli immigrati
per combattere le cause dell’abbassamento generale dei salari (sì da sollevarli in ambedue i settori).
Testare empiricamente queste due ipotesi è complicato. Si potrebbe infatti legittimamente sostenere
che la segmentazione “etnica” del mercato del lavoro sia un risultato dell’immigrazione: vale a dire
certe mansioni semplici erano svolte da italiani sino ad anni recenti, poi espulsi con l’arrivo della
concorrenza degli stranieri. Come affermano Barba e Pivetti (2016, p. 144, corsivo degli autori):
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“Qualsiasi misurazione dell’impatto dell’immigrazione sui salari è resa estremamente problematica dal
fatto che sul loro livello e andamento agiscono continuamente una molteplicità di circostanze che non
restano immutate a fronte di variazioni dei flussi migratori.”
Gli stessi autori citano Borjas, che avrebbe “gradualmente cambiato idea sulla questione finendo per
ammettere nel 2003 che ‘l’evidenza empirica suggerisce invariabilmente che l’immigrazione ha
effettivamente arrecato pregiudizio alle opportunità di impiego dei lavoratori indigeni concorrenti... e
che a livello nazionale essa esercita un effetto considerevole sul salario dei lavoratori concorrenti”.
In un recente studio, proprio per formarsi un’idea sugli effetti dei recenti flussi migratori in Europa,
Borjas (2017) studia alcuni esempi storici. Le conclusioni (ibid. p. 53) non lasciano adito a dubbi:
“La nostra analisi empirica dei quattro episodi storici di shock di offerta di rifugiati insegna una
importante lezione. Sebbene questi episodi differiscono per innumerevoli ragioni, un tema universale
sembra legare i risultati empirici. Detto senza giri di parole, i principi umanitari che incoraggiano i paesi
di accoglienza ad accettare quanti più migranti è possible hanno importanti conseguenze distributive,
come predetto dal modello canonico di offerta e domanda nel mercato del lavoro.”
I quattro casi storici esaminati sono: (1) l’afflusso di rifugiati cubani a Miami nel 1980; (2) quello di
rifugiati dall’Algeria (francesi e algerini) in Francia nel 1962; (3) l’ingresso dei rifugiati ebrei provenienti
dall’ex URSS in Israele nei primi anni ’90; (4) il flusso di profughi dalla ex Jugoslavia verso alcuni paesi
europei fra il 1991 e il 2001.
Dove eterodossi e ortodossi possono concordare in tema di immigrazione
Al riguardo ci sono due aspetti da considerare.
Dal lato dell’offerta di lavoro, da Smith, passando per Marx, Keynes e Kalecki sino ai marginalisti un
aumento dell’offerta, ceteris paribus, comporta una diminuzione dei salari reali. A parità di condizioni,
perché abbiamo esempi storici di economie in rapido sviluppo che hanno attirato massicci flussi
migratori che, non senza tensioni nel breve periodo, non hanno però ostacolato la crescita dei salari
nel lungo. Nel caso dell’Italia parliamo attualmente di una massiccia pressione dell’offerta su una
domanda a dir poco stagnante. Le conclusioni di Borjas nei riguardi degli effetti di una maggiore offerta
di lavoro sui salari sono pertanto condivisibili (e naturalmente confutabili da altri studi).
Dal lato della domanda di lavoro l’analisi classico‐keynesiana si distacca certamente da quella del
marginalismo e di Borjas. Per gli economisti eterodossi l’occupazione dipende dalla domanda
aggregata, e questa fondamentalmente dalle politiche economiche e dalla distribuzione del reddito.
Per i marginalisti dall’offerta di “fattori produttivi” fra cui il lavoro. Non sappiamo se Borjas ritenga
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che, pur al prezzo di minori salari (anzi, proprio attraverso minori salari), i flussi migratori abbiano
accresciuto l’occupazione, come si deduce dal “modello canonico di offerta e domanda nel mercato
del lavoro” da lui richiamato. Chissà se qualche brava tesista vorrà studiare cosa sostiene Borjas al
riguardo. Dal nostro punto di vista non vediamo ragione alcuna perché l’immigrazione determini
occupazione aggiuntiva, che anzi l’effetto negativo sui salari deprime domanda aggregata e
occupazione. Potrebbero certamente verificarsi mutamenti nella struttura produttiva e occupazionale,
a favore per esempio di servizi ad elevato sfruttamento di mano d’opera e bassi salari, e di disincentivo
all’innovazione risparmiatrice di lavoro. In questo senso l’immigrazione avrebbe contribuito a
determinare una sua propria domanda, segmentando il mercato del lavoro. Ma non si tratterebbe
comunque di occupazione aggiuntiva.
Dal punto di vista di politiche progressiste, sia la mobilità del capitale che quella del lavoro devono
essere controllate e non liberalizzate.
Circa la problematica dell’immigrazione ci sarebbero tanti altri aspetti da considerare: impatto sul
welfare, contributo al riequilibrio demografico, integrazione ecc. Tema vastissimo e attuale per una
tesi su uno degli aspetti.
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4. Teoria monetaria della bilancia dei pagamenti
Abbiamo già trattato di aspetti monetari parlando di movimenti di capitale. Analizzeremo ora la teoria
monetaria marginalista dell’aggiustamento della bilancia dei pagamenti. Il quesito che ci poniamo è:
esistono (dal punto di vista marginalista) meccanismi automatici di aggiustamento della bilancia dei
pagamenti?
Premessa I. La teoria della parità dei poteri d’acquisto (purchasing power parity, PPP)
Da riassumere: USARE S per tasso di cambio, non r.
Premessa II. Il price‐specie‐flow mechanism di Hume
Il più antico meccanismo di aggiustamento automatico della bilancia dei pagamenti è noto come il
price‐specie‐flow mechanism di David Hume. Siamo in un sistema aureo in cui le monete
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rappresentano quantità d’oro. In sostanza quindi gli scambi avvengono utilizzando una contropartita
in oro (o di valute convertibili in oro). Un sistema aureo di questo tipo è per definizione un sistema a
cambi fissi (il rapporto di scambio fra le valute è definito in base al loro contenuto aureo). Un sistema
di questo tipo, definito gold standard è prevalso nella seconda metà del XIX° secolo sino al primo
conflitto mondiale. Ripreso nel primo dopoguerra, è definitivamente tramontato con la grande crisi
degli anni trenta dello scorso secolo.
Se un paese ha un avanzo di bilancia dei pagamenti esso importerà oro. Seguendo la teoria
quantitativa della moneta, la maggiore circolazione aurea farà crescere il livello dei prezzi. Per questa
ragione il paese perderà competitività. La bilancia dei pagamenti andrà in passivo e il paese perderà
oro. In tal modo il processo inflazionistico si arresterà. Simmetricamente, il paese in disavanzo avrà
perduto oro e attraversato un periodo di deflazione per tramite del quale avrà ristabilito la propria
competitività di prezzo, procedendo verso un aggiustamento dello squilibrio di bilancia dei
pagamenti. L’esito finale del doppio aggiustamento è un equilibrio globale delle bilance dei
pagamenti.
Questo processo incontra in realtà due ostacoli:
1) Il paese in surplus può adottare politiche volte a impedire il processo inflazionistico (per
esempio riducendo la spesa pubblica). In questo caso il paese non rispetta le cosiddette
“regole del gioco” del gold standard (v. Chi non rispetta le regole?)
2) La deflazione nel paese in disavanzo può incontrare la resistenza dei lavoratori alla caduta dei
salari nominali. Far cadere i salari può implicare un lungo periodo di elevata disoccupazione
(il perché lo sapete avendo letto Kalecki) che può anche comportare la chiusura definitiva di
impianti produttivi e la perdita definitiva di capacità produttiva e competenze tecnologiche.
Inoltre, la deflazione è un flagello dell’economia: la caduta dei prezzi manda in rovina i
debitori (i quali vedono cadere i redditi nominali a fronte di rate del debito che rimangono al
medesimo livello), e con essi il sistema bancario e l’intera economia.
La logica dell’aggiustamento delle BdP europee sostenuto dalle istituzioni europee si è
basato, fondamentalmente, proprio su questa logica: i paesi i disavanzo avrebbero dovuto
riacquistare competitività attraverso una feroce deflazione interna (la cosiddetta svalutazione
interna).5 Nel caso della Grecia, ma anche dell’Italia, ciò ha avuto conseguenze disastrose.
5 La tradizionale svalutazione esterna, molto più indolore, non era ovviamente possibile dato che i paesi periferici non avevano più una propria moneta. Anche da questo punto di vista si vede come l’euro sia una moneta straniera.
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Il modello monetario con cambi flessibili
Esaminiamo ora il modello monetario nel caso dei cambi flessibili.6
Ipotesi:
1) Vale la parità dei poteri d’acquisto (PPP o PPA), vale a dire ph = Spf (attenzione, r è
denominato S in Harvey). La PPP afferma che il livello dei prezzi è il medesimo in tutto il
mondo, una volta che si tenga conto del tasso di cambio. La concorrenza tende all’affermarsi
di questa “legge del prezzo unico”. Se, per esempio, i prezzi europei sono superiori a quelli
americani, ph > pf, le exp europee ne soffriranno, cala la domanda di euro per cui esso si
deprezza (r aumenta) sicché ph = Spf . Alternativamente, la minore domanda di beni europei
ne fa diminuire il prezzo (viceversa per i beni US). Si osservi la fig. 1 di Harvey dov’è
rappresentata la ph = Spf .
Sull’asse delle ordinate vi sono i prezzi domestici. Sulle ascisse c’è il tasso di cambio. L’inclinazione
della semiretta sono i prezzi esteri. Al di sopra della PPP c’è un disavanzo di partite correnti, al di
sotto un avanzo. In questo modello si tende a stare lungo la semiretta.
2) l’economia tende alla piena occupazione in seguito alla flex di prezzi e salari (alla studentessa
sia chiaro che questo è frutto di una specifica teoria, quella neoclassica o marginalista). Nella
figura 2 di Harvey il reddito di piena occupazione (o naturale, termine ovviamente fuorviante)
è rappresentato da una retta verticale in corrispondenza di Y0. Questa è la curva di offerta Ys.
6 Siete vivamente consigliate di consultare e integrare con Harvey (2017, limitatamente alle pp. 506‐512): Teaching the Greek crisis (and more) from the perspectives of competing models, October 2017, Review of Keynesian Economics 5(4): 503‐518, https://www.researchgate.net/publication/320551255_Teaching_the_Greek_crisis_and_more_from_the_perspectives_of_competing_models
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La figura mostra anche una curva di domanda ricavata dalle seguenti ipotesi.
3) l’offerta di moneta è esogena e la velocità di circolazione della moneta è costante. Su questa base
scriviamo l’equazione della teoria quantitative della moneta MV = phY Dati M e V, l’equazione descrive
una curva di domanda aggregate Yd (figura 2).
Se M aumenta, la curva scivola verso l’alto in quanto i soggetti spendono l’eccesso di moneta e questa
fa aumentare i prezzi (il reddito è di po). Restano così determinati livello dei prezzi e reddito.
Se le autorità di politica monetaria accrescono M, la Yd si sposta in Yd’, e il livello dei prezzi aumenta.
Questo porta inizialmente l’economia in B nella figura di destra, dove la BdP è in disavanzo (figura 3
Harvey). Questo fa però deprezzare il cambio, per cui l’economia torna nel punto C dove la BdP è di
nuovo in equilibrio.
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Il modello monetario: caso con cambi fissi
Le ipotesi sono le medesime, però ora il riaggiustamento esterno non può passare per la flex del
cambio. Inoltre, il Paese è impegnato a difendere un certo tasso di cambio, il che richiede riserve
valutarie (eventualmente prestate dall’estero).
Nel grafico (fig. 4) sull’asse verticale v’è la quantità di moneta M creata in parte con canali interni DC
(domestic currency) e in parte col canale estero FX (foreign exchange). La banca centrale (BC) controlla
DC, che costituisce l’intercetta verticale della semiretta M=DC+FX. FX varia quando la BC interviene ad
acquistare valuta estera. Per esempio, se il cambio sta apprezzandola BC crea moneta nazionale con
cui acquista FX e si scorre verso l’alto lungo la M=DC+FX. Se, viceversa, la BC deve impedire un
deprezzamento, essa deve vendere FX con M ed FX che dimuniscono.
Prendiamo ora la figura 5. Muoviamo dai punti A (full employment and external balance). La BC
accresce m da DC0 a DC1, sicché la M=DC+FX si transla verso l’alto e ci troviamo in B).
Corrispondentemente anche la Yd transla verso l’alto e il livello dei prezzi cresce (punto B). Infine, al
più elevato livello dei prezzi, nel grafico di destra siamo in trade deficit (punto B). Il caso è simile ai
cambi flex, ma ora sono fissi. R (S0 nel grafico) non muta.
Ma a questo punto il cambio tende a deprezzare (perché?), e la banca centrale deve impiegare FX per
difendere la parità. Si noti che la moneta nazionale che la BC acquista resta distrutta. In questo modo
la FX diminuisce (nei fatti il disavanzo delle partite correnti comporta distruzione di reserve, ovvero il
canale estero funziona da distruttore di moneta). Si scivola dunque nel punto C in cui M torna al livello
precedente. Ma in tal modo anche il livello dei prezzi torna a P0.
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Quindi, come spiega Harvey, ogni aumento iniziale di moneta dai canali interni DC è compensato da
corrispondenti diminuzioni di FX.
Il processo assomiglia molto al price‐specie‐flow mechanism di Hume. Lì un paese in disavanzo di BdP
perde oro, questo fa diminuire l’offerta di moneta domestica e il livello dei prezzi, sino a che la BdP
non torna in equilibrio.
Un’applicazione alla spiegazione mainstream della crisi greca
Nel caso di un paese dell’UME non c’è moneta domestica e l’offerta di moneta è costituita da solo FX
(come uno Stato degli US). (Questo non è così vero: la creazione di moneta è endogena quando le
banche concedono credito e, per es., la Banca d’Italia crea reserve a loro favore; prediamo però la cosa
per buona, tanto più che i monetaristi non credono alla moneta endogena). In base a questa ipotesi,
un disavanzo di BdP porta a distruzione di FX e viceversa un avanzo.
Anche il grafico (figura 6) all’estrema sinistra va modificato, nel senso che v’è un solo tasso di cambio
fra moneta domestica e straniera: 1 (essendo la medesima moneta, euro).
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In questo caso il governo Greco si indebita con l’estero (non potendo “stampare moneta” in proprio)
e la sequanza è simile a quella della figura 5. Naturalmente il governo Greco può continuare a
indebitarsi.
Nel lungo periodo la Grecia può restituire il debito solo collocandosi al di sotto della PPP, con una
ragione di scambio a lei sfavorevole. Questa è l’austerità che non può non risultare da un tentativo di
vivere al di sopra dei propri mezzi indebitandosi con l’estero (si veda la tabella 1 più sotto)
Naturalmente si può dare una interpretazione keynesiana alla storia, in particolare nei riguardi
dell’efficacia dell’austerità, specie se non accompagnata dalla possibilità di svalutare, si’ da sostenere
il riaggiustamento, e da un condono di un debito insostenibile. Però c’è anche del vero nella storia del
vivere al di sopra dei propri mezzi.
Conclusioni sul modello monetario (neoclassico/monetarista) della BdP
Il modello si basa su assunzioni molto discutibili, in primo luogo la piena occupazione.
Squilibri di BdP sono posti in connessione con politiche monetarie eccessivamente espansive.
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Naturalmente anche in un modello keynesiano (in cui non vi è po) politiche monetarie e/o fiscali
eccessiamente espansivevolte a realizzare la po possono determinare problemi di BdP, e tassi di
cambio flessibili possono aiutare ad allentare il vincolo estero (v. Sei lezioni cap. 4).
Vedremo trattando della parte reale dell’EI come l’analis neoclassica ritenga che la flex dei mercati
conduca sia al pieno impiego che all’equilibrio delle partite correnti. Vale a dire per i neoclassici non
esiste il vincolo estero! Tutti I paesi trovano qualcosa da vendere all’estero purché i salari siano flex.
Per i keynesiani più genuini questo non è vero. Esiste un vincolo estero alla crescita in quanto vi sono
paesi tecnologicamente e isttuzionalmente più moderni e altri meno. Spesso i paesi più arretrati
cercano di bypassare il vincolo estero attraverso l’indebitamento estero, e ciò finisce in tragedia, come
nel caso Greco. La vicenda greca è inquadrabile nel “ciclo di Frenkel” (Sei lezioni cap. 5).
Sugli esiti recenti della vicenda greca si veda, per esempio,
http://politicaeconomiablog.blogspot.com/2018/07/grecia‐cravatte‐o‐cappi.html
Una buona lettura più avanzata è: Reinhart, C.M. and C. Trebesch (2015), ‘The pitfalls of external
dependence: Greece, 1829–2015’, NBER Working Paper No 21664.
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Appendice
MICHAIL KALECKI
ASPETTI POLITICI DEL PIENO IMPIEGO
(1943, versione riveduta nel 1970)
Il problema di garantire il pieno impiego tramite l’espansione della spesa pubblica, finanziata col debito
pubblico, è stato largamente discusso negli ultimi anni. Tale discussione si è tuttavia concentrata sul
lato puramente economico di tale problema, senza la dovuta considerazione dei suoi aspetti politici.
La premessa che il governo di uno Stato capitalistico manterrà il pieno impiego, se soltanto saprà come
farlo, non è assolutamente ovvia. L’avversione del grande capitale al mantenimento del pieno impiego
tramite le spese statali ha a questo proposito un’importanza fondamentale. Tale attitudine si è
manifestata chiaramente all’epoca della grande crisi economica degli anni trenta, quando i capitalisti
hanno combattuto costantemente gli esperimenti volti ad accrescere l’occupazione per mezzo della
spesa pubblica in tutti i paesi, con l’eccezione della Germania hitleriana. Non è facile spiegarsi tale
posizione. E’ chiaro infatti che un più elevato livello della produzione e dell’occupazione è favorevole
non soltanto ai lavoratori ma anche ai capitalisti, poiché i loro profitti si accrescono. D’altra parte la
politica di pieno impiego, basata sulle spese statali finanziate in deficit, non incide negativamente sui
profitti in quanto appunto non richiede l’istituzione di nuove imposte. In una situazione di crisi i
“capitani d’industria” si struggono per la ripresa. Perché quindi non accolgono con gioia la “ripresa
artificiale” che lo Stato offre loro? E’ di tale difficile problema, di non comune interesse, che noi
vogliamo occuparci in questo articolo.
I
1. Le ragioni dell’opposizione dei capitalisti al pieno impiego realizzato dal governo tramite la spesa
pubblica possono venir suddivise in tre categorie: 1) l’avversione all’ingerenza dello Stato nella
questione dell’occupazione in genere; 2) l’avversione nei confronti della direzione delle spese
pubbliche (gli investimenti pubblici e le sovvenzioni del consumo); 3) l’avversione alle trasformazioni
sociali e politiche derivanti dal mantenimento costante del pieno impiego. Esaminiamo quindi in
dettaglio ognuno dei tre tipi di obiezioni alla politica di espansione economica dello Stato.
2. Consideriamo quindi in primo luogo l’avversione dei “capitani d’industria” all’intervento pubblico
nelle questioni dell’occupazione. Ogni allargamento dell’ambito dell’attività economica dello Stato è
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visto con sospetto dai capitalisti; ma l’accrescimento dell’occupazione tramite le spese statali ha un
aspetto particolare che rende la loro opposizione particolarmente intensa. Nel sistema del laissez faire
il livello dell’occupazione dipende in larga misura dalla così detta atmosfera di fiducia. Quando questa
si deteriora, gli investimenti si riducono, cosa che porta a un declino della produzione e
dell’occupazione (direttamente, o indirettamente, tramite l’effetto di una riduzione dei redditi sul
consumo e sugli investimenti). Questo assicura ai capitalisti un controllo automatico slla politica
governativa. Il governo deve evitare tutto quello che può turbare l’ “atmosfera di fiducia”, in quanto
ciò può produrre una crisi economica. Ma una volta che il governo abbia imparato ad accrescere
artificialmente l’occupazione tramite le proprie spese, allora tale “apparato di controllo”perde la sua
efficacia. Anche per questo il deficit del bilancio, necessario per condurre l’intervento statale, deve
venir considerato come pericoloso. La funzione sociale della dottrina della “finanza sana” si fonda sulla
dipendenza del livello dell’occupazione dalla “atmosfera di fiducia”.
3. L’avversione dei “capitani d’industria” alla politica di espansione della spesa pubblica diventa ancor
più acuta allorché si cominciano a considerare i fini per cui tale spese possono venir destinate, e cioè
gli investimenti pubblici e la sovvenzione del consumo di massa. Il fine cui mira l’intervento statale
richiede che gli investimenti pubblici si limitino agli oggetti che non competono con l’apparato
produttivo del capitale privato (ad esempio ospedali, scuole, strade, ecc.), in caso contrario infatti
l’accrescimento degli investimenti pubblici potrebbe aver un effetto negativo sul rendimento degli
investimenti privati, e la caduta di questi potrebbe compensare l’effetto positivo degli investimenti
pubblici sull’occupazione. Tale concezione è per i capitalisti interamente di loro gusto, ma l’ambito
degli investimenti pubblici di tale tipo è piuttosto ristretto e vi può essere la possibilità che il governo,
agendo secondo la logica di tale politica possa spingersi a nazionalizzare i trasporti o i servizi pubblici,
per poter allargare l’ambito del suo intervento7. Ci si può quindi attendere che i “capitani d’industria”
e i loro esperti abbiano una disposizione più favorevole nei confronti del sovvenzionamento del
consumo di massa (tramite gli assegni familiari, i sussidi volti alla riduzione del prezzo degli articoli di
prima necessità, ecc.) piuttosto che nei confronti degli investimenti pubblici: nel sovvenzionare il
consumo lo Stato non interferirebbe infatti in alcuna misura nella sfera dell’ “attività imprenditoriale”.
In realtà tuttavia la questione si presenta altrimenti: la sovvenzione dei consumi di massa incontra
un’avversione ancora più aspra di tali esperti che nei confronti degli investimenti pubblici. Ci
7 Occorre qui osservare che gli investimenti nei rami nazionalizzati possono contribuire alla risoluzione del problema della disoccupazione solo nel caso in cui vengano eseguiti con criteri diversi da quelli con cui operano le imprese private. Le imprese pubbliche devono eventualmente accontentarsi di un tasso inferiore di profitto e programmare i loro investimenti in maniera tale da attenuare le crisi economiche.
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imbattiamo qui infatti in un principio “morale” della più grande importanza: le basi dell’etica
capitalistica richiedono che “ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte” (a meno che tu non
viva dei redditi del capitale).
4. Abbiamo già considerato le ragioni politiche dell’opposizione alla politica di creazione di
occupazione tramite la spesa pubblica Ma anche se tale posizione fosse vinta, cosa che può in realtà
verificarsi sotto la pressione delle masse, il mantenimento del pieno impiego porterebbe a
trasformazioni politiche e sociali che darebbero nuova forza all’opposizione dei “capitani d’industria”.
Infatti, in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura
disciplinare. La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e
la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle
condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica. E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in
un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire. Persino la crescita dei
salari derivante dalla posizione più forte dei lavoratori verrebbe ad agire piuttosto in direzione di un
accrescimento dei prezzi che di una riduzione di profitti e in tale maniera verrebbe a colpire soprattutto
gli interessi dei redditieri. Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti
per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione
non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema
capitalistico normale.
II
1. Una delle funzioni importanti del fascismo, come si può vedere nel caso dell’hitlerismo, fu
l’eliminazione dei motivi per l’avversione dei capitalisti nei confronti del pieno impiego. L’avversione
alle spese pubbliche come tali viene superata dal fascismo col fatto che la macchina statale è sotto il
controllo diretto di una associazione del grande capitale col vertice fascista. Il mito della “finanza sana”
che era necessario per impedire al governo di agire contro una “crisi di fiducia” tramite la spesa
pubblica è ora superfluo. Nello Stato democratico non si sa con sicurezza come sarà il governo
seguente, mentre nello Stato fascista non c’è governo seguente. L’avversione nei confronti delle spese
statali per gli investimenti pubblici e per sovvenzionare il consumo di massa viene superata dalla
concentrazione delle spese statali negli armamenti. Infine, “la disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità
politica” con il pieno impiego sono assicurate dal “nuovo ordine”,di cui vengono a far parte vari mezzi:
dallo scioglimento dei sindacati ai campi di concentramento. La pressione politica sostituisce qui la
pressione economica della disoccupazione.
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2. Il fatto che gli armamenti sono il nerbo della politica fascista di pieno impiego ha un’influenza
profonda sul carattere economico di questa. Il riarmo su larga scala si accompagna all’espansione delle
forze armate e a piani di conquista. In tale maniera lo scopo principale dell’espansione della spesa
pubblica si trasferisce gradualmente dal pieno impiego alla realizzazione del massimo effetto di riarmo.
Ciò porta alla limitazione del consumo al di sotto del livello che potrebbe venir ottenuto in
corrispondenza del pieno impiego. Il sistema fascista inizia col vincere la disoccupazione, si sviluppa
in “economia di guerra” che tende inevitabilmente alla guerra.
III
1. Quali saranno le conseguenze pratiche dell’opposizione dei capitalisti nei confronti della politica di
pieno impiego nella democrazia capitalistica? Cercheremo di rispondere a tale domanda sulla base
delle analisi delle ragioni di tale opposizione che abbiamo appena condotto. Abbiamo mostrato che
occorre aspettarsi un’avversione dei “capitani d’industria” su tre piani: 1) un’opposizione di principio
nei confronti dell’espansione della spesa pubblica; 2) un’opposizione nei confronti del fatto che le
spese totali siano dirette sia verso gli investimenti pubblici (ciò che può provocare l’inserimento dello
Stato in nuovi settori di attività economica) sia verso il sovvenzionamento del consumo di massa; 3)
l’opposizione nei confronti di un mantenimento costante del pieno impiego.
Occorre prima di tutto affermare che il periodo nel quale i “capitani d’industria” potevano permettersi
di combattere qualsiasi forma di intervento statale, avente come scopo una attenuazione delle crisi
economiche, appartiene ormai piuttosto al passato. Attualmente non si pone in questione la necessità
dell’intervento pubblico in tempo di crisi. La controversia si riferisce piuttosto ancora alla direzione di
tale intervento e al fatto se esso debba venir posto in essere soltanto al fine di attenuare la crisi, o
anche deve tendere ad assicurare un costante pieno impiego.
2. Nelle discussioni correnti su tale tema riemerge continuamente la concezione secondo cui la crisi
deve essere contrastata tramite la stimolazione dell’investimento privato. Tale stimolazione può
consistere nell’abbassamento del tasso d’interesse, nella riduzione dell’imposta sui profitti o anche nel
sovvenzionamento diretto degli investimenti privati in questa o quella maniera. Non c’è niente di
strano nel fatto che per i capitalisti tali metodi di intervento siano attraenti. Il capitalista resta
l’intermediario tramite il quale l’intervento viene ad essere effettuato. Qualora la situazione politica
non gli dia fiducia, allora non si fa “comprare” e non accresce i suoi investimenti. Nello stesso tempo
tale tipo di intervento non porta lo Stato a “giocare agli investimenti” (pubblici), non fa “buttar via i
soldi” nel sussidiare il consumo. E’ possibile tuttavia dimostrare che l’incentivazione dell’investimento
privato non è un metodo adeguato per prevenire la disoccupazione di massa. Occorre a tale proposito
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considerare due casi. a) In tempo di crisi il tasso d’interesse o l’imposta sui profitti vengono ridotti
fortemente e vongono cresciuti in periodo di ripresa. In tale caso sia il periodo, come l’ampiezza del
ciclo congiunturale possono venir ridotti. Ma l’economia può rimanere lontana dallo stato di pieno
impiego non solo in tempo di crisi, ma anche in tempo di ripresa congiunturale; cioè la disoccupazione
media può essere ancora elevata, nonostante le sue oscillazioni siano più deboli. b) In periodo di crisi
ancora una volta il tasso d’interesse e l’imposta sui profitti vengono ad essere ridotti, ma nel boom
successivo non vengono rialzati. In tale caso il boom durerà più a lungo, ma terminerà di nuovo in una
nuova crisi, in quanto la semplice riduzione del tasso d’interesse o dell’imposta si profitti non elimina
ovviamente le forze che suscitano le oscillazioni congiunturali nell’economia capitalistica. Nella nuova
crisi occorrerà ulteriormente ridurre il tasso d’interesse o l’imposta sui profitti e così via. In tale
maniera in un tempo non troppo lontano il tasso d’interesse dovrebbe diventare negativo e l’imposta
sui profitti dovrebbe essere sostituita da un sussidio. Lo stesso si verificherebbe qualora si cercasse di
mantenere il pieno impiego con l’aiuto di incentivi per gli investimenti privati. Il tasso d’interesse e
l’imposta sui profitti dovrebbero venir continuamente ridotti. In aggiunta a questo fondamentale
difetto del combattere la disoccupazione incentivando gli investimenti privati esiste ancora una
difficoltà ulteriore di carattere pratico. La reazione degli imprenditori all’impiego degli strumenti dei
quali abbiamo parlato non è sicura. In tempi di crisi grave possono aver aspettative molto pessimistiche
e la riduzione del tasso d’interesse e dell’imposta sui profitti può allora per lungo tempo agire in
maniera molto ridotta sugli investimenti e quindi sul livello della produzione e dell’occupazione.
3. Persino coloro che si dichiarano favorevoli a combattere la crisi creando degli incentivi per gli
investimenti privati, spesso non fanno affidamento esclusivamente su tale metodo, ma prendono in
considerazione ugualmente gli investimenti pubblici. La situazione si presenta attualmente come se i
“capitani d’industria” e i loro esperti avessero tendenza ad accettare, come “male minore”, una
attenuazione della crisi tramite le spese pubbliche finanziate per via del deficit di bilancio. Sembra
tuttavia che essi siano ancora ostinatamente contrari ad un accrescimento dell’occupazione ottenuto
sovvenzionando il consumo e agli sforzi di mantenere il pieno impiego. Tale stato di cose sarà forse
sintomatico per il futuro sistema economico delle democrazie capitalistiche. Il tempo di crisi o in
seguito alla pressione delle masse, e forse anche senza di questo, si metteranno in moto gli
investimenti pubblici finanziati tramite il deficit di bilancio, allo scopo di contrastare la disoccupazione
di massa. Ma qualora si facciano dei tentativi per utilizzare tali metodi al fine di mantenere l’elevato
livello di occupazione raggiunto nel boom successivo, si andrà incontro probabilmente ad una aspra
opposizione da parte dei “capitani d’industria”. Come abbiamo già mostrato più sopra, essi non
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desiderano assolutamente un pieno impiego costante. I lavoratori diventano in tale situazione
“recalcitranti” e i “capitani d’industria” diventano ansiosi di “dar loro una lezione”. Inoltre la crescita
dei prezzi in tempo di boom agisce a svantaggio dei redditieri piccoli e grandi, cosicché oggi essi
cominciano ad avversare l’alta congiuntura. In tale situazione si forma probabilmente un blocco del
grande capitale e delle rendite, e tale blocco trova probabilmente più di un economista pronto a
dichiarare che la situazione è estremamente poco sana. La pressione di tutte queste forze, e in
particolare del grande capitale, induce sicuramente il governo al ritorno alla politica tradizionale di
pareggio del bilancio. In tale maniera subentra la crisi, nella quale la politica di espansione delle spese
pubbliche riacquista di nuovo il proprio significato. Tale schema di “ciclo congiunturale politico” non è
del tutto ipotetico, in quanto uno sviluppo analogo degli avvenimenti si è verificato negli Stati Uniti
negli anni 193738. L’interruzione del boom nella seconda metà del 1937 fu in realtà la conseguenza di
una forte riduzione del deficit del bilancio. D’altra parte nell’acuta crisi che di nuovo ne derivò, il
governo ritornò rapidamente alla politica di espansione delle spese pubbliche. Per cui il regime del
“ciclo congiunturale politico” non assicurerebbe il pieno impiego tranne che nel punto massimo del
boom, me le crisi sarebbero relativamente moderate e di breve durata.
(da www.libertaegiustizia.it)
HARVEY