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Universit “G. d'Annunzio” à Dipartimento di Scienze giuridiche La riforma del contratto a termine dopo la legge 247 del 2007 di Valerio Speziale N° 6 / 2008 1

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Universit “G. d'Annunzio”àDipartimento di Scienze giuridiche

La riforma del contratto a termine dopo la legge 247 del 2007

di Valerio Speziale

N° 6 / 2008

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VALERIO  SPEZIALE

Ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Chieti ­ Pescara

LA RIFORMA DEL CONTRATTO A TERMINE DOPO LA LEGGE 247 DEL 2007

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La diffusione dei contratti a termine al momento della riforma. – 3. La «storia» della legge (le «Linee guida» del Governo ed il Protocollo del 23 luglio 2007). – 4. La concertazione   della   l.   247/2007   e   le   finalità   perseguite   dal   legislatore.   –   5.   Il   contratto   a   t. indeterminato come “regola” e la conferma delle esigenze temporanee del lavoro a termine. – 6. La fissazione  di  un  «tetto»   alla   reiterazione   dei   contratti   a   t.   determinato   ed   il   limite   temporale massimo per rapporti a termine (art. 5, comma 4 bis, d.lgs. 368/2001). – 6.1. Il criterio di calcolo dei 36 mesi e la durata nel tempo del limite triennale. – 6.2. Le esclusioni dal «tetto» dei 36 mesi: le mansioni diverse e non equivalenti. La frode alla legge – 6.3. (Segue) Le tipologie contrattuali a termine escluse dal limite alla reiterazione. – 7. La possibilità di deroga al «tetto» dei 36 mesi ed i limiti collettivi alla durata del contratto a termine in deroga. – 8. Il regime sanzionatorio. 

1. La legge 24 dicembre 2007, n. 247, che è finalizzata ad attuare il Protocollo del 

23 luglio 2007 stipulato tra sindacati e Governo, modifica il d.lgs. 368/2001 in tema 

di   contratto   a   termine   (art.   1,   commi  da  39   a   43).  Questo   saggio   si   propone  di 

analizzare alcune delle innovazioni introdotte. Per ragioni di spazio e per la volontà di 

privilegiare soprattutto le novità che incidono su aspetti della materia di carattere più 

generale,  non mi occuperò  di  questioni   importanti  come il  diritto  di precedenza,   i 

limiti quantitativi che l’autonomia collettiva può stabilire nei rapporti a termine e la 

disciplina transitoria1. L’analisi delle nuove disposizioni verrà effettuata nell’ambito 

delle regole in materia di interpretazione della legge enucleate dalla giurisprudenza. 

Mi porrò nell’ottica del giudice o dell’operatore del diritto che si trovano dinanzi ad 

un testo normativo da «decifrare» ed applicare ad un caso concreto. Mi rendo conto 

che questi criteri interpretativi sono discutibili e che su essi vi è ampio dibattito2. Ma è 

altrettanto   vero   che,   come   dimostrano   le   numerose   sentenze   sull’art.   12   delle 

1 Ringrazio Arturo Maresca, che pubblica in questo stesso fascicolo un saggio sulla riforma del contratto a termine 

introdotta dalla l. 247/2007 e con il quale ho avuto un proficuo scambio di opinioni, non sempre coincidenti.2 Si rinvia, per tutti, a G. TARELLO, L’interpretazione della legge, Milano, 1980 e R. GUASTINI, L’interpretazione dei  documenti normativi, Milano, 2004.

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«preleggi», queste sono le «regole operative» che vengono usate dai giudici quando 

devono applicare la legge. E’ opportuno, quindi, utilizzarle anche per fornire soluzioni 

pratiche dei  numerosi problemi sollevati dalle nuove norme.

2. Prima di affrontare le questioni giuridiche, è opportuno fornire alcuni dati sulla 

diffusione dei contratti a termine. Le indicazioni provenienti dall’Istat e dal Governo 

mettono in evidenza che, dal 2002, vi è stata la crescita del lavoro a t. determinato3. 

Tuttavia,   la diffusione di queste  tipologie contrattuali  (incluse quelle  successive al 

2001) dimostra che vi sono oscillazioni in aumento o in diminuzione, anche se nel 

2005 – 2007 vi è stata un’accelerazione4. In sostanza le nuove riforme introdotte nel 

2001   e   nel   2003   hanno   sicuramente   inciso   sull’incremento   dei   rapporti   a   t. 

determinato ma senza che vi sia una stata una vera e propria «rivoluzione» (almeno 

sino ad oggi).

Il quadro è diverso se dall’analisi delle  quantità  passiamo a quelle della  qualità 

dell’occupazione a termine. Ad esempio l’Isfol, nel suo Rapporto 2007, ha rilevato 

che «la metà dei nuovi posti di lavoro (+ 9,7% rispetto al 2005) è a termine….» e che 

«si   sta   dunque   rapidamente   modificando   la   composizione   dell’occupazione 

dipendente, dove la componente permanente perde progressivamente peso al ritmo di 

un punto percentuale a biennio»5. Inoltre, l’Istat rileva che la tendenza alla crescita dei 

rapporti di lavoro temporaneo riguarda soprattutto i giovani e le donne, sottolineando 

l’esistenza di «aree ad alto rischio di precarietà»6. Un dato, questo, già rilevato dalla 

3  Dal 12,3 al 13,1% su tutti i lavoratori dipendenti nel 2006 (Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Occupazione e forme di lavoro precario, 13 novembre 2007,  www.lavoro.gov.it, 7). Anche i dati disponibili nel 2007 sembrano confermare una percentuale non lontana dal 13% (esattamente il 13,6 per il III trimestre 2007 ed il 13,4  per   il   II   trimestre  2007:   si  vedano   le  Rilevazioni   sulle   forze   lavoro,   l’ultima   pubblicata   il   20/12/2007, www.istat.it).4 E’ stato rilevato un incremento dei rapporti a termine dal 12,3% del 2005 al 13% circa attuale, anche se vi erano state oscillazioni negli anni precedenti (dal 10,9 del 1995, al 12,7 del 2000, con un calo costante sino all’11,8 del 2004) (Occupazione e forme di lavoro precario, cit., 7).5 Rapporto Isfol 2007, www.isfol.it, 39.6 Sono le parole pronunciate dal Presidente dell’Istat nel corso dell’audizione presso la Commissione Lavoro del Senato (7 novembre 2006) (p. 7) e sono riportate da  S. CIUCCIOVINO,  Il contratto a tempo determinato: la prima  stagione applicativa del d.lgs. n. 368 del 2001, DLRI, 2007, 456.

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Banca   D’Italia   e   dall’Isfol7.   Tra   l’altro,   si   è   osservato   che   «negli   ultimi   anni   è 

aumentata   la   percentuale   di   permanenza  nel   lavoro   temporaneo»8,   in   presenza  di 

«occupazioni davvero molto precarie, dentro le quali non pochi giovani rischiano di 

essere intrappolati»9, con possibilità assai ridotte di passare da uno (o più) rapporti 

instabili   ad   uno   a   tempo   indeterminato10.   In   questo   contesto,   parlare   di 

«precarizzazione» dei rapporti di lavoro non è certo un’esagerazione.

3.   Il Governo è certamente consapevole di questa precarietà  e ha manifestato, 

anche   in   documenti   ufficiali,   la   propria   volontà   di   combattere   il   fenomeno   e   di 

favorire la diffusione di lavoro stabile. In tale ambito vanno inquadrate le disposizioni 

contenute nella legge finanziaria 2007, con agevolazioni fiscali concesse soltanto alle 

imprese che hanno alle dipendenze o assumono lavoratori a tempo indeterminato. E, 

sempre  nel  medesimo  contesto,   vanno   lette   le   «Linee  guida»  per   un   riforma  del 

contratto a termine emesse dall’Esecutivo nel novembre 2006. In esse si afferma che 

«la forma normale di occupazione è il lavoro a tempo indeterminato» e che «tutte le 

tipologie  contrattuali  a   termine  devono essere motivate  sulla  base di  un oggettivo 

carattere temporaneo delle prestazioni richieste». In base a tali premesse si sostiene 

che   la   nuova   disciplina   in   materia   avrebbe   dovuto   essere   molto   simile   a   quella 

precedente al d.lgs. 268/2001, con causali specifiche previste dalla legge, potere alla 

contrattazione collettiva di individuarne ulteriori e di fissare percentuali massime di 

assunzioni a termine e così via11. Le reazioni delle parti sociali sono state diverse, con 

7 Si vedano i dati contenuti nel  Bollettino economico n. 46, (2006, www.bancaditalia.it, 42) dove si parla di un 26,4% di contratti a termine per i lavoratori dipendenti tra 15 e 29 anni. L’Isfol, inoltre (Rapporto, cit., 39), rileva come «il contratto di lavoro a tempo determinato è generalmente diffuso tra i giovani e le donne. A riguardo, permangono le perplessità sui rischi di precarizzazione che tali forme di lavoro comportano».8 Occupazione e forme di lavoro precario, cit., 10.9 E. REYNERI, Luoghi comuni e problemi reali del mercato del lavoro italiano, DLM, 7 – 8.10  E.   REYNERI,  op.   ult.   cit.,  rileva   che   «i   dipendenti   a   termine….hanno   una   probabilità   di   cadere   nella disoccupazione da 2 a 8 volte superiore a quella dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato…” (8). E ad analoghe conclusioni giungono il Cnel ed altri studi (cfr. V. SPEZIALE, L’articolazione della fattispecie, F. CARINCI (a c. di), Trattato Bessone, XXIV, t. II, 161, nt.183). 11 Il testo è reperibile nei siti www.lavoro.gov.it. e www.cgil.it.

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commenti positivi (CGIL), critiche di «metodo» (CISL e UIL) e valutazioni del tutto 

negative (Confindustria)12.

Vi è stata quindi l’apertura dei «tavoli negoziali», in cui si é discusso di pensioni, 

di  welfare  in genere e di mercato del lavoro, fino alla stipula del Protocollo del 23 

luglio 2007. L’accordo, contestato dalla FIOM – CGIL e da alcuni partiti di sinistra 

della coalizione (e firmato «con riserva» dalla CGIL, ma non in relazione ai contratti a 

termine), è stato sottoposto a referendum. I dati ufficiali parlano di cinque milioni e 

115 mila lavoratori che hanno partecipato alla consultazione, con l’81,62% che si è 

espresso   in   senso   favorevole.   Il  Protocollo  è   stato  bocciato  con una  maggioranza 

molto ridotta tra i metalmeccanici (solo il 52%) e con percentuali negative in alcune 

grandi aziende. I risultati del referendum sono stati accolti con grande soddisfazione 

da CGIL, CISL  e UIL13. 

In   seguito   il  Governo ha  predisposto  un disegno di   legge  che  avrebbe  dovuto 

formalizzare in atto normativo le intese raggiunte e, sollecitato dai partiti di sinistra 

della  coalizione  –  che  non erano  d’accordo  con  il   contenuto  del  Protocollo   ­,  ha 

introdotto   delle   modifiche   al   testo   concordato   con   le   parti   sociali.   Sindacati   e 

Confindustria hanno duramente protestato per le innovazioni,  ovviamente ciascuno 

dal   proprio   punto   di   vista.   Si   è   quindi   riaperta   la   fase   negoziale   ed   alla   fine 

l’Esecutivo ha predisposto un nuovo disegno di legge che ha trovato il pieno consenso 

delle parti sociali e nel quale sono stati eliminati gli elementi di contrasto (che, per i 

contratti   a   termine,   avevano   riguardato   soprattutto   la   disciplina   transitoria   per   i 

rapporti già in essere). Infine il 24 dicembre 2007 è stata emanata la legge 247, che 

riprende, nei suoi contenuti essenziali, l’accordo raggiunto14. In senso contrario, si è 

12 Cisl e Uil hanno rimproverato il Governo di voler scavalcare le parti sociali ed hanno ritenuto troppo breve il  periodo di tre mesi ad esse concesso per trovare un accordo, oltre a giudicare inaccettabile l’intervento legislativo. Le   varie   reazioni   delle   parti   sociali   sono   reperibili   nelle   news   del   4   novembre   2006   nei   siti www.atacfoggia.wordpress.com; www.labitalia.com (6 novembre 2006) e www.dirittidellavoro.cgillombardia.it.13  Per   i   dati   sul   referendum   e   per   i   commenti   delle   organizzazioni   sindacali   si   rinvia   alle   news   sul   sito www.rassegna.it (12 – 17 ottobre 2007) e www.corriere.it (11 ottobre 2007),14 La tensione tra parti sociali, Governo e Parlamento nella trasposizione in legge del Protocollo sono sottolineate anche da G. PROIA,  Le modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, in  M. PERSIANI,  G. PROIA  (a c. di),  La nuova disciplina del Welfare, Padova, 2008, 93;  G. FERRARO,  Il contratto di lavoro a tempo  

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parlato di differenze sostanziali tra Protocollo e legge, con riferimento in particolare 

alla   conversione   in   un   rapporto   a   t.   indeterminato15.   Il   confronto   tra   i   due   testi 

consente di confutare questa opinione, anche in relazione al sistema sanzionatorio (v. 

infra § 8), con differenze che non incidono sulla sostanza della disciplina concordata 

con le parti sociali.

4. Senza dubbio la l. 247/2007 è una legge concertata, frutto di un lungo processo 

negoziale   «triangolare».   Rispetto   al   modello   di   concertazione   tradizionale   –   che 

presuppone  una  condivisione  degli  obiettivi   e   l’autonomia  di   ciascuna  delle  parti 

negoziali (Governo incluso) per quanto riguarda gli interventi attuativi dell’intesa – la 

codecisione   ha   riguardato   non   solo   le   linee   guida   o   i   principi   generali   della 

regolazione, ma ha coinvolto anche la fase di dettaglio della definizione dei singoli 

articoli di legge. In questo caso, probabilmente per impedire le pressioni provenienti 

da alcuni settori  della maggioranza finalizzate a modificare un’intesa approvata da 

milioni di lavoratori, sindacati e Confindustria si sono fortemente impegnati affinché 

l’intesa raggiunta non venisse mutata in alcun elemento (anche marginale). Vi è stata 

quindi l’applicazione di un modello di concertazione «forte» parzialmente diverso da 

quello   già   sperimentato   in   precedenza16.  La   dura   reazione  delle   parti   sociali   alle 

modifiche   introdotte   dal   Governo   si   può   comprendere   se   si   tiene   conto   che   è 

consustanziale a qualsiasi tecnica concertativa il fatto che l’Esecutivo spenda tutto il 

suo   impegno   politico   affinché   l’accordo   venga   tradotto   in   legge   e   che,   quindi, 

costituisce una palese violazione di tale impegno presentare un progetto legislativo 

determinato, M. CINELLI–G. FERRARO (a c. di), Welfare, mercato del lavoro e competitività, I Supplementi di Guida  al  lavoro,   2/2008,   66.  Per   la   ricostruzione   delle   vicende   descritte   nel   testo   si   rinvia   alle   news   sul   sito www.rassegna.it (2 agosto 2007, 14 ottobre 2007, 17 ottobre 2007) e in www.lavoro.gov.it (21 ottobre 2007).15 G. FERRARO, op. cit., 66.16  L’attenzione delle parti sociali anche ai dettagli del testo che traduceva in legge il Protocollo nasceva dalla esistenza di   tensioni   all’interno del  Governo,  dove  una  parte  della  maggioranza  non  condivideva   i  contenuti dell’accordo e cercava di cambiarli. Vi è stata, quindi, una concertazione «forte» giustificata dalla «debolezza» di una   delle   parti   firmatarie   del   Protocollo.   Sulla   concertazione   si   rinvia   a  L.   BELLARDI,  Concertazione   e  contrattazione.   Soggetti,   poteri   e   dinamiche,   Bari,   1999;  ID.,  Istituzionalizzazione   e   (in)stabilità   della  concertazione sociale, ADL, 87 ss.

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che   alteri   i   contenuti   codeterminati   tra   le   parti.   In   sostanza   eventuali   modifiche 

avrebbero potuto essere inserite dal Parlamento, ma non certo dal Governo, che aveva 

assunto un vincolo negoziale quale «parte» di un contratto.   

Le nuove disposizioni devono essere analizzate in modo approfondito. Va subito 

rilevato, peraltro, che la legge si pone chiaramente la finalità di limitare l’utilizzazione 

dei contratti a termine. Questa «intenzione del legislatore» (art. 12 disp. prel. c.c.) è 

ricavabile   da   vari   elementi   connessi   in   primo   luogo   all’iter   preparatorio   della 

normativa. Si consideri, ad esempio, la volontà – ribadita nelle «Linee guida» ­ di fare 

del t. indeterminato la «forma normale di occupazione» e di ritenere che il termine 

dovesse essere motivato da esigenze temporanee, nell’ambito di una politica, più volte 

espressa dal Governo in documenti ufficiali, diretta a ridurre la precarietà connessa 

alla   diffusione   del   contratto   a   t.   determinato.   Questa   finalità   è   stata   ribadita 

dall’Esecutivo nel Protocollo, con la disciplina restrittiva sopra descritta. La volontà 

di ridurre l’utilizzazione dei contratti a termine ha poi trovato un’ulteriore conferma 

nella   legge,   che   non   solo   ha   espressamente   ripreso   le   statuizioni   contenute 

nell’accordo tra le parti sociali,  ma le ha anche precisate con limiti ulteriori.  Basta 

pensare, per fare un esempio, al «tetto» dei 36 mesi, per il quale si è previsto che in 

esso non devono essere considerati «i periodi di interruzione che intercorrono tra un 

contratto   e   l’altro».   Lo   stesso   può   dirsi   per   la   sanzione   della   conversione   in   un 

contratto stabile,  che opera non solo nel caso in cui il  rapporto in deroga (oltre il 

limite massimo) sia stipulato senza l’assistenza del sindacato (come stabilito in sede 

di  concertazione),  ma anche nell’ipotesi  «di   superamento  del   termine  stabilito  nel 

medesimo contratto»17.

La giurisprudenza prevalente ritiene che l’«intenzione del legislatore» costituisce 

un criterio  sussidiario  di  interpretazione della   legge,  che deve operare soltanto nel 

caso di insufficienza del «significato proprio delle parole secondo la connessione di 

17  Una delle differenze più rilevanti della legge rispetto al Protocollo è  l’affidamento agli avvisi comuni della determinazione   della   durata   del   contratto   a   termine   stipulabile   oltre   i   36   mesi.   Qui,   dunque,   vi   è   stato   un 

«rafforzamento» del ruolo sindacale nel controllo del mercato del lavoro.

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esse»18. Tra l’altro la mens legis non va identificata con i lavori preparatori o con le 

opinioni personali  di coloro che parteciparono all’elaborazione della legge (se non 

corrispondenti al testo legislativo19), ma deve essere intesa come «volontà oggettiva 

della   legge»20,   e   deve   essere   desunta,   oltre   che   dalle   espressioni   letterali,   da 

un’adeguata valutazione del fondamento e dello scopo della norma21. Nel caso delle 

«leggi   negoziate»,   caratterizzate   da  un   lungo  processo  contrattuale  di   formazione 

extralegislativa che ha condizionato il contenuto delle norme, ritengo che gli accordi 

di   concertazione   dovrebbero   essere   presi   in   considerazione   nel   processo 

interpretativo,  anche se sempre   in  via  sussidiaria,  per  comprendere   la  volontà  del 

legislatore22.

Va detto, peraltro, che, per quanto attiene alle disposizioni della legge 247/2007 

sul   contratto   a   termine,   i   criteri   sopra  descritti   (quello   letterale,  «l’intenzione  del 

legislatore», i lavori preparatori e le vicende negoziali del processo di concertazione 

di cui la legge è stata l’attuazione) conducono tutti al medesimo risultato: la nuova 

normativa ha lo scopo di ridurre l’utilizzazione dei contratti a tempo determinato sia 

sotto il profilo della reiterazione temporale che della loro consistenza quantitativa. 

 

5. L’art. 1, comma 39, della l. 247/2007 aggiunge all’art. 1 del d.lgs. 368/2001 un 

primo  comma,   secondo  il  quale  «il   contratto  di   lavoro  subordinato  è   stipulato  di 18 Cass. 16 ottobre 1975, n. 3359; Cass. 23 settembre 1985, n. 4711; Cass. 17 novembre 1993, n. 11359; Cass. 6 aprile 2001, n. 5128; Cass. 18 agosto 2003, n. 12081 e molte altre.19 Cass. 27 maggio 1971, n. 1571; Cass.  1 marzo 1971, n. 507; Cass. 21 maggio 1973, n. 1455; Cass.  27 febbraio 1995, n. 2230 ed altre ancora. 20  Cass. 8 giugno 1979, n. 3276,  GC, 1979, I, 1616, in motivazione; Cass. 27 febbraio 1995, n. 2230; Cass. 1 marzo 1971 n. 507; Cass. 27 aprile 1978, n. 1985. 21 Cass. 21 febbraio 1980, n. 1255, GC, 1980, I, 1625, in motivazione; Cass. 27 febbraio 1995, n. 2230, GI, 1996, I, 1, 532 parla di «volontà obiettivamente espressa dalla legge, quale emerge dal suo dato letterale e logico».  R. GUASTINI, L’interpretazione, cit., 189, afferma che la «volontà oggettiva della legge» è «una cosa misteriosa», che «non vuole dire nulla di  preciso»,  se non l’irrilevanza,  nell’interpretazione,  dei  lavori  preparatori.   In verità   il concetto può  essere spiegato con il  fatto che l’intenzione del legislatore è  desumibile da elementi di  carattere logico sistematico derivanti da una interpretazione non soltanto letterale delle disposizioni, ma nel loro contesto 

complessivo.22 Se i lavori preparatori sono un ausilio, seppur non determinante, per ricostruire la volontà della legge (Cass. 1 febbraio 1974, n. 263; Cass. 20 aprile 1985, n. 2626) mi sembra che, in una normativa che sia frutto di un’attività negoziale di tipo extralegislativo, la volontà delle parti sociali assurga al medesimo valore ermeneutico in relazione alle caratteristiche specifiche di formazione della fonte primaria.

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regola   a   tempo   indeterminato»23.  Si   tratta  dell’unica  variazione  della  disposizione 

fondamentale   della   normativa   del   2001,   nella   quale   si   prevedono   le   esigenze 

economiche ed organizzative che giustificano il termine e l’obbligo di una specifica 

motivazione scritta. Pertanto è necessario chiedersi se ed in che misura l’innovazione 

incida   su   questa   disciplina.   Tra   l’altro,   in   colloqui   informali   con   altri   studiosi   e 

operatori di diritto, si è affacciata un’interpretazione secondo la quale il limite dei 36 

mesi complessivi alla reiterazione dei contratti non andrebbe letto soltanto come un 

argine alla precarietà, ma come espressione di una volontà della legge di operare in un 

senso preciso. Il legislatore avrebbe lasciato alle parti la facoltà di avere contratti a 

termine anche per esigenze stabili di lavoro fino al raggiungimento dei 36 mesi, oltre i 

quali si può  stipulare un solo contratto a t. determinato ed alle condizioni previste 

dalla legge. Questa lettura della riforma è, a mio giudizio, assolutamente insostenibile 

ed é smentita da una serie di elementi di carattere letterale, logico e sistematico.

Prima   di   approfondire   l’analisi   di   questi   aspetti,   è   bene   ricordare   che 

l’interpretazione dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001 aveva dato vita ad un vivace dibattito 

dottrinario. Sono stato tra i primi ad affermare che la causale introdotta dalla legge 

implicava che il  contratto dovesse essere fondato su esigenze temporanee e queste 

conclusioni sono state argomentate in base ad una lettura combinata della Direttiva 

1999/70/CE e della normativa nazionale e con un’interpretazione condotta in coerenza 

con   i   canoni   classici   (testo   della   legge,   intenzione   del   legislatore,   necessità   di 

decifrare la normativa nazionale alla luce della Direttiva, interpretazione sistematica e 

così via)24. Questa tesi è stata confutata da un diverso orientamento, secondo il quale, 

al contrario, il contratto a termine potrebbe basarsi anche su ragioni oggettive e non 

arbitrarie di lavoro stabile25. La giurisprudenza, dopo una prima importante decisione 

23  La legge, invece di riscrivere l’art.  1 del decreto delegato, introducendo un primo comma e modificando a scalare   la  numerazione degli  altri,  prevede un comma «01» che  lascia   immutati   i  numeri   successivi.  Si  è   in presenza di una tecnica legislativa del tutto inusuale.24 V. SPEZIALE, La nuova legge sul contratto a termine, DLRI, 2001, 361 ss.; ID., Il contratto a termine. Interessi e  tecniche nella disciplina del lavoro flessibile, Milano, 2003, 399 ss.25  Per  un’analisi  delle  diverse   teorie   rinvio  a  V.  SPEZIALE,  op.  ult.   cit.;  S.  CIUCCIOVINO,  Il   contratto  a   tempo  determinato, cit., 458 ss.;  L. MENGHINI,  Precarietà del lavoro e riforma del contratto a termine dopo le sentenze  

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della Cassazione che ha affermato che il termine è una «deroga» rispetto al tempo 

indeterminato26, si è espressa in prevalenza a favore della tesi della temporaneità. Non 

mancano   tuttavia   sentenze   che   non   richiedono   le   esigenze   temporanee   e   che 

legittimano   il   contratto   a   termine   anche   per   occasioni   stabili   di   lavoro27. 

Un’importante conferma della  natura temporanea delle esigenze che giustificano il 

termine è rinvenibile in una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea28 e per 

ragioni che ho altrove approfondito29.

L’applicazione dei principi in tema di interpretazione della legge («senso…fatto 

palese   dal   significato   proprio   delle   parole   secondo   la   connessione   di   esse», 

«intenzione del legislatore», lettura logico sistematica) conduce ad affermare che la 

nuova normativa conferma e rafforza la tesi delle esigenze temporanee quale causa 

legittima di apposizione del termine. Infatti:

a) se il tempo indeterminato è la «regola» (con una formulazione che richiama 

quella   della   direttiva   1999/70/CE   sulla   «forma   comune   del   contratto»),   il 

termine  è   una  deroga.   In   caso  contrario,   l’espressione   letterale  usata  dalla 

disposizione, e finalizzata a creare una «opposizione» rispetto a qualcosa che 

….«regola» non è, non avrebbe senso. Tra l’altro, non è possibile dire oggi che 

questa  norma possa  essere  considerata,  come nel  caso  della  Direttiva,  una 

della Corte di Giustizia,  RGL,  2006,  I,  698 ss.;  A.  VALLEBONA  (a c.  di),  Giustificazione del lavoro a termine, Colloqui giuridici sul lavoro, Il sole 24 ore ­ Pirola, 1, 2006, 9 ss. 26 Cass. 21 maggio 2002, n. 7468, RGL, 2003, II, 49.27 Per un riepilogo dei diversi orientamenti giurisprudenziali cfr. S. CIUCCIOVINO, Il contratto a tempo determinato, cit., 455 SS.; V. SPEZIALE,  Lavoro a tempo determinato,  N. IRTI, (a c. di),  Dizionario di diritto privato, Milano (in corso di pubblicazione), 1 ss. (bozze); L. MENGHINI, Precarietà del lavoro, cit.,  695 ss.; L. NANNIPIERI, La riforma del lavoro a termine: una prima analisi giurisprudenziale, q. Riv., 2006, I, 327 ss.28 C. Giust. 4 luglio 2006, causa 212/04, FI, 2007, IV, 72.29  V. SPEZIALE,  Lavoro a tempo determinato, cit.,  3 ss. Anche se la sentenza non riguarda le causali del primo contratto a tempo determinato, i riferimenti, contenuti nella decisione, alla «stabilità dell’impiego…come elemento portante della tutela dei lavoratori» (punto 62), e l’impossibilità di utilizzare la reiterazione dei contratti a termine per soddisfare «fabbisogni non limitati nel tempo, ma al contrario ‘permanenti e durevoli’ » (punto 88) dimostrano indirettamente  la necessità  delle esigenze temporanee.  Su tali  sentenze e sulle recenti  decisioni della Corte di Giustizia   v.  L.   MENGHINI,  op.   ult.   cit.,   706   ss.;  A.   GABRIELE,  Il   meccanismo   sanzionatorio   per   l’illegittima  successione di contratti a termine alle dipendenze della p.a. al vaglio della Corte di Giustizia, RGL, 2006, II, 614 ss.;  L.  NANNIPIERI,  La Corte di Giustizia e gli abusi nella reiterazione dei contratti a termine: il problema della  legittimità comunitaria degli artt. 5 d.lgs. n. 368/2001 e 36 d.lgs. n. 165/2001, q. Riv., 2006, II, 742 ss. (a questi autori si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche).  

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«indicazione   di   contesto…e   non   un   limite   legale»30.  Questa   tesi   non   era 

sostenibile neanche per la fonte comunitaria31. Nella legge italiana, comunque, 

il principio sopra descritto ha un carattere normativo indiscutibile, perché  è 

parte integrante della legge32; 

b) il   termine  può   essere   apposto  per   ragioni   economiche  ed  organizzative  di 

carattere   oggettivo   e   non   rimesse   alla   semplice   volontà   delle   parti   del 

contratto.  Quando il legislatore ha voluto affidare ai contraenti  la libertà  di 

scegliere se stipulare un rapporto a tempo indeterminato o a termine lo ha fatto 

con formulazioni diverse e senza prevedere una causale di tipo oggettivo (è 

questo il caso della locazione, della somministrazione di cose o del contratto di 

agenzia previsti dal codice civile)33;

c) le ragioni oggettive non possono essere le stesse del tempo indeterminato. Non 

si capirebbe, infatti, perché qualificare due tipologie contrattuali in rapporto di 

«regola» e «deroga», per poi ritenere che entrambe sono basate sulle stesse 

esigenze economiche ed organizzative;

d) la distinzione tra la «normalità» e la deroga deve essere effettuata in base a 

ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo e questo ci 

riporta   alla   coppia   stabilità   (t.   indeterminato)   ­   temporaneità   (termine).  E’ 

evidente, infatti, che se il t. determinato è una «deroga», la causale economica 

non può essere la stessa del contratto «normale» e deve necessariamente avere 

contenuto diverso. Si è   in presenza,  quindi, di due modelli  contrattuali  non 

«fungibili»,     e   la   distinzione   tra   essi   –   per   precisa   scelta   del   legislatore 

esplicitata  nell’art.  1  del  d.lgs  368/2001  ­  deve  essere  effettuata   in  base  a 30 S. CIUCCIOVINO, Il contratto a tempo determinato, cit., 460.31 Rinvio a V. SPEZIALE, La nuova legge, cit., 385 ss.; ID., Il contratto a termine, cit., 437 ss.32 Un valore particolare alla deroga, quale elemento che conferma il carattere temporaneo della causale, è attribuito da   M.TATARELLI,  Le novità   in materia di contratto di lavoro subordinato,   in  GLav,  2008, 2, p. 111. In senso 

analogo,  G. FERRARO,  Il  contratto,  cit.,  66 – 67.  Anche  C. ALESSI  (La flessibilità  del lavoro dopo la  legge di  attuazione del protocollo sul welfare: prime osservazioni, C.S.D.L.E.I,  68/2008),  www.lex.unict.it, 3 e 5) ritiene che la previsione della «regola» confermi l’eccezionalità del termine e la sussistenza delle esigenze temporanee.33  Nei   contratti   indicati   nel   testo   la   libertà   di   scelta   tra   termine   e   t.   indeterminato   è   espressa   con   formule inequivocabili e sempre senza causali (cfr. artt. 1750, 1569, 1573 e 1574 c. c.).

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ragioni   economiche   ed   organizzative.   Il   che   conduce   al   binomio   t. 

indeterminato, che si basa sulla necessità di occupazione stabile (un’esigenza 

cioè, non legata a fenomeni ab origine di durata limitata nel tempo) e contratto 

a termine, che deve necessariamente essere contrassegnato dalla temporaneità 

della causale34.

La   riforma,   indubbiamente,   si   propone  anche  di   introdurre  una  disciplina  che 

realizzi l'obiettivo della direttiva 99/70/CE di evitare gli «abusi derivanti dall'utilizzo 

di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato» (clausola 1, 

lettera   b   della   direttiva   99/70/CE),   anche   alla   luce   della   recente   giurisprudenza 

europea35. Tuttavia, la previsione della disposizione che vede nel t. indeterminato la 

«regola» persegue un obiettivo ulteriore: riaffermare il profilo causale del contratto a 

termine (già espresso dall'art. 1 del d.lgs. 368/2001 come norma che autorizza questo 

rapporto   solo   in   presenza   di   ragioni   oggettive),   sottolineando   la   sua   «alterità   di 

contenuto» rispetto al lavoro stabile. Se l'unico scopo fosse stato quello di stroncare la 

realtà elusiva della reiterazione dei contratti, non vi sarebbe stata alcuna necessità di 

aggiungere il comma «01» e sarebbe stato sufficiente introdurre il limite massimo dei 

36   mesi36.   Il   che   conferma,   insieme   alle   altre   argomentazioni   prima   descritte,   il 

carattere temporaneo  delle esigenze economiche ed organizzative37. 

Quelle descritte non sono le uniche ragioni a fondamento della tesi qui sostenuta. 

Si  é   visto   che   la   legge  247/2007   si  è   formata   con  un  processo  di   concertazione 

«forte», nel quale le «Linee guida», che costituiscono l’antecedente del Protocollo e 

34 Per un approfondimento delle tematiche indicate nel testo, molte delle quali sono state già sviluppate prima della recente riforma, rinvio a V.SPEZIALE, La nuova legge, cit., 377 ss.; ID., Il contratto a termine, cit., 427 ss.35  Il riferimento è alla sentenza Adelener (v.  retro  note 28 e 29) che ha certamente dato impulso ad introdurre nuove disposizioni  che sanzionassero  in  modo più   radicale   il  divieto di  abuso derivante  dalla   successione di contratti a termine. In tal senso anche M.TATARELLI, op. cit., 112 e C. ALESSI, op. ult. cit., 3, nt. 6.36  In senso contrario la  CONFINDUSTRIA  (Circolare n. 19005/2008, 2), secondo la quale la disposizione altro non 

costituirebbe che la trasposizione nel nostro ordinamento del principio comunitario.37 G. PROIA  (Le modifiche, cit., 93) afferma che in realtà il comma 01 non muta la situazione preesistente e che, anzi, l’introduzione del «tetto» dei 36 mesi potrebbe indurre la giurisprudenza ad un’interpretazione meno rigida delle ragioni  economiche ed organizzative.  Mi sembra che  tutte   le argomentazioni  svolte  in  questo paragrafo 

conducano a conclusioni opposte.

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della legge negoziata, non solo ribadiscono che la «forma normale di occupazione è il 

lavoro   a   tempo   indeterminato»,   ma   si   fondano   sul   presupposto   del   «carattere 

temporaneo   delle   prestazioni»   realizzate   con   un   contratto   a   termine.   Questo 

presupposto è stato esplicitato sia nell’accordo con le parti sociali che nella legge con 

la formula del tempo indeterminato come «regola», che costituisce quindi l’attuazione 

concreta della volontà di riaffermare la temporaneità delle esigenze38. D’altra parte: 

una legge che si propone come obiettivo esplicito quello di ridurre l’utilizzazione dei 

rapporti   a   termine   ponendo   limiti   massimi   alla   reiterazione   dei   contratti   ed 

incrementando   la   possibilità   per   la   contrattazione   collettiva   di   introdurre   limiti 

quantitativi sarebbe del tutto in contraddizione con la facoltà, concessa alle parti, di 

apporre il termine anche per soddisfare esigenze stabili di lavoro.

L’interpretazione proposta trova conferma in altri  elementi.  Nella formulazione 

originaria del d.lgs. 368/2001, la disciplina della proroga e delle sanzioni in caso di 

prolungamento  del   rapporto  o  di   successione  di   contratti   (con   la   conversione  nel 

tempo   indeterminato)   depongono   a   favore   della   temporaneità   della   causale   del 

contratto.  Anche  se   lo   scopo principale  della  normativa  é  quello  di  prevenire  gli 

«abusi» (secondo quanto già detto), la trasformazione del rapporto è una sanzione che 

si giustifica solo perché la protrazione del lavoro dimostra che esso tende a soddisfare 

esigenze di carattere permanente, non compatibili con l’esistenza di un termine39. La 

legge 247/2007 non muta   l’assetto   sopra  descritto   (elemento  questo  già  di  per   sé 

significativo) e prevede la conversione del rapporto in uno a t. indeterminato quando 

si   superano   i  36  mesi,   a   conferma  della  valutazione  negativa  per   contratti   la   cui 

reiterazione  è   indice  della  volontà   di  utilizzare   il   termine  per  necessità   di   lavoro 

stabile.

38 Questa conclusione, dunque, è suffragata dall’utilizzazione del criterio sussidiario di interpretazione dei «lavori preparatori», nel senso in precedenza specificato (tutto il «materiale» ­ anche di carattere extra parlamentare ­ che ha concorso alla formazione della legge (v. retro note da 19 a 22).39 In coerenza anche con le conclusioni a cui è giunta la Corte di Giustizia Europea (v. retro note 28 e 29). Il tema era già stato da me altrove ulteriormente approfondito (V. SPEZIALE, Il contratto a termine, cit., 431 – 432).

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 Un altro elemento importante a favore della temporaneità è dato dalla necessità 

che   la   causale   economica   del   termine   sia   «consentita»   solo   in   presenza   di   una 

specifica motivazione scritta. Questo argomento aveva una notevole importanza anche 

prima   della   riforma   del   2007   che,   peraltro,   gli   ha   attribuito   un   rilievo   ancora 

maggiore. Oggi, infatti abbiamo una tipologia contrattuale espressamente qualificata 

come «regola» (il t. indeterminato) che non richiede alcuna giustificazione economica 

ed organizzativa, anche se, in genere, essa coinciderà con la necessità di un’attività 

lavorativa   senza   un   limite   temporale   già   predefinito.   Al   contrario   la   «deroga» 

presuppone ragioni  oggettive  che devono essere  esplicitate.  Se  il  datore  di   lavoro 

potesse   apporre   il   termine   anche   per   esigenze   di   lavoro   stabile,   non   si 

comprenderebbe per quale ragione sarebbe tenuto a giustificare specificatamente per 

iscritto la causale economica ed organizzativa: perché controllare la motivazione del 

contratto  se esso può  essere stipulato per  le stesse ragioni  del  t.   indeterminato? E 

come conciliare  tale possibilità  con il  fatto che il   termine é  oggi qualificato come 

qualcosa  di  diverso  dal   rapporto   senza   scadenza   finale?  Solo   la   necessità   che   la 

«deroga» si basi su differenti esigenze economiche ed organizzative può giustificare 

un obbligo così rigoroso della motivazione (la cui mancanza determina la nullità del 

termine: v. infra § 8). E se il t. indeterminato si collega naturalmente al lavoro stabile, 

il termine non può che esprimere un contenuto differente dalla «regola»   e, quindi, 

ragioni temporanee.

In   tempi   recenti   si   è   espressa   una   diversa   opinione   sulla   funzione   della 

motivazione.   La   causale   economico   organizzativa   espressa   nel   contratto 

cristallizzerebbe «la ragione posta a fondamento dell’assunzione: il datore di lavoro 

potrà utilizzare il dipendente assunto a termine – diversamente da quanto avviene per 

il personale a tempo indeterminato – solo ed esclusivamente in funzione della ragione 

di assunzione»,  che potrebbe anche coincidere con la necessità  di   lavoro stabile40. 

40  S.  CIUCCIOVINO,  Il   contratto  a   tempo  determinato,  cit.,   461.  Infatti,   «la   specifica   ragione  che  ha  motivato l’assunzione,  una volta  esternata,  diventa parte essenziale del programma contrattuale,  con la  conseguenza di esporre   la   legittimità   del   termine   alla   verifica   dell’esistenza   di   un   nesso   causale   tra   le   ragioni   dichiarate 

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Questa interpretazione, che è stata espressa prima della riforma del 2007, si prestava 

già a varie obiezioni41  e, a mio giudizio, può essere ulteriormente confutata dopo le 

recenti innovazioni. Una prima critica è quella che, in base a questa ricostruzione, la 

motivazione non sarebbe finalizzata a spiegare il «perché» del contratto a termine, ma 

servirebbe solo ad impedire che il  lavoratore venga utilizzato per diverse esigenze 

economiche   od   organizzative   (con   esclusione   o   notevole   compressione   dello  ius  

variandi).  Una simile   interpretazione  determina  una  «svalutazione»  della   funzione 

della  motivazione  che,  già   difficilmente   comprensibile   in  passato,   sarebbe  ancora 

meno plausibile dopo la legge 247/2007. Quest’ultima, infatti, ha la finalità di ridurre 

l’utilizzazione del contratto a termine e di favorire il t. indeterminato (che è la forma 

di lavoro «normale»). Sembra difficile poter affermare che, in un contesto normativo 

così restrittivo, la differenza tra le due tipologie contrattuali non debba basarsi sulla 

diversa natura delle causali economiche bensì nel fatto che – pur potendo entrambi i 

rapporti essere giustificati dalla necessità di lavoro stabile – nel termine vi sarebbe 

solo  una  maggiore   rigidità   nell’utilizzazione  del   lavoratore.  Si   tratterebbe  di   una 

soluzione interpretativa assai «riduttiva» rispetto agli scopi perseguiti dalla riforma. 

Ma vi  sono obiezioni  ulteriori.  La spiegazione del  ruolo della  motivazione qui 

criticata è in primo luogo contraddetta dal rigore della legge per quanto riguarda la 

proroga e le sanzioni in caso di prolungamento del rapporto oltre certi limiti temporali 

o per la successione dei contratti senza rispettare gli intervalli previsti dalla legge. Tali 

disposizioni sarebbero del tutto incomprensibili se la motivazione non riguardasse una 

causale differente rispetto al t. indeterminato. Infatti, perché convertire il contratto se, 

a mansioni  invariate, si lavora ventuno o trentuno giorni o, sempre in relazione alla 

medesima   «ragione   di   assunzione»,   non   si   rispettino   i   dieci   o   venti   giorni   di 

intervallo? La violazione dei limiti temporali, infatti, non inciderebbe sul contenuto 

dell’attività del lavoratore – che sarebbe sempre uguale e quindi «cristallizzata» ­ e 

dall’impresa nel contratto e la singola assunzione effettuata. Tale nesso non soltanto deve sussistere al momento dell’assunzione, ma deve permanere per tutto lo svolgimento del rapporto» (461).41 V. SPEZIALE, Lavoro a tempo determinato, cit., 2 ss.

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non vi sarebbe la necessità di applicare la sanzione. Quest’ultima si giustifica soltanto 

per lo sfavore del d.lgs.  368/2001 per un uso del contratto a termine per soddisfare le 

medesime esigenze che sono a fondamento del rapporto senza scadenza finale. D’altra 

parte, oggi è stato introdotto il comma 01 dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001 che qualifica 

il tempo indeterminato come «regola». La disposizione va letta insieme a quella che 

«consente»   il   termine   solo  per   precise   causali   economiche   e   che   impone   la   loro 

esplicitazione per iscritto. Nell’ambito, dunque, di una lettura combinata dei primi tre 

commi  dell’art.  1   (dopo  la   riforma),   la  motivazione  è   strumentale  ad  illustrare   le 

ragioni del contratto a t. determinato al fine di verificare se esse sono diverse rispetto 

a   quelle   del   «normale»   rapporto   di   lavoro.   Un’interpretazione   della   disposizione 

finalizzata soltanto ad impedire una utilizzazione flessibile del lavoratore a termine 

presuppone la totale obliterazione di specifiche previsioni normative ed una lettura 

«atomistica» della motivazione, avulsa dall’intero contesto della legge. 

L’insieme delle argomentazioni sopra espresse dimostra che la riforma rafforza il 

carattere   temporaneo  delle   esigenze  economiche  che   legittimano   l'apposizione  del 

termine, con ragioni ulteriori rispetto a quelle già desumibili in precedenza. Tra l'altro, 

l’interpretazione qui contestata può essere confutata con altri argomenti di carattere 

sistematico.   Se   il   legislatore   avesse   avuto   l’intenzione   di   lasciare   piena   libertà 

all'impresa di stipulare contratti per necessità stabili di lavoro fino al limite massimo 

di 36 mesi avrebbe dovuto lasciare inalterato l’art. 1 del d.lgs. 368/2001 relativo alla 

causale (o addirittura abrogarlo), eliminare la disciplina della proroga ed il sistema 

sanzionatorio  previsto nei commi 2 e 3 dell’art.  5 della   legge ed infine introdurre 

soltanto il  c.  4 bis e  la sanzione ivi  prevista (conversione del  contratto   in caso di 

violazione della procedura di derogabilità assistita o del nuovo termine di durata). Le 

nuove   disposizioni   o   quelle   conservate,   infatti,   sarebbero   del   tutto   inutili   e 

palesemente   contraddittorie   rispetto   alla   volontà   di   liberalizzare   il   termine   nella 

causale, prevedendo solo un «tetto» temporale. Il contenuto profondamente diverso 

della nuova normativa esclude in radice la coerenza della tesi qui criticata.

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6. Il nuovo comma 4 bis dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001 costituisce uno dei punti 

cardine della riforma. La disposizione prevede un limite massimo di 36 mesi per i 

rapporti a termine tra le stesse parti e con riferimento alle stesse mansioni o ad altre 

equivalenti.  Oltre questo limite è possibile stipulare soltanto un altro contratto alle 

condizioni previste dalla legge42.

Il   legislatore,   preoccupato   dell’eccessiva   diffusione   dei   rapporti   a   termine, 

confermata da dati statistici e da ricerche43, ha introdotto limiti ulteriori rispetto alla 

disciplina   del   d.lgs.   368.   La   normativa   del   2001   aveva   indubbiamente   reso   più 

agevole  il   ricorso al   t.  determinato rispetto  alla   legislazione  preesistente,  anche se 

aveva ribadito la necessità delle esigenze temporanee di lavoro. La riforma parte dal 

presupposto che le  regole vigenti  non sono sufficienti  ad arginare  la  diffusione di 

contratti a termine e soprattutto la loro reiterazione, con la creazione di una vera e 

propria   «trappola   nella   precarietà».   Accanto   alla   causale   oggettiva   di   carattere 

temporaneo   (che,   come   si  è   visto,   viene   espressamente   confermata)   viene  quindi 

inserito un limite  soggettivo44. Anche se esistono fondate ragioni per la stipula del 

contratto (la sostituzione di lavoratori assenti, gli incrementi di attività in determinati 

periodi,   la necessità  di  fare ricorso, per  tempi  limitati,  a particolari  professionalità 

ecc.), la legge impone un «tetto» massimo alla reiterazione dei rapporti. La volontà è 

quella   di   evitare   che,   pur   a   fronte   di   esigenze   legittime,   il   lavoratore   diventi   un 

«precario… a t. indeterminato». E’ vero che la riforma, in questo modo, può ridurre 

possibilità reali di impiego non stabile45. Ma il legislatore vuole impedire la nascita di 

un altro rapporto temporaneo che aggrava la «trappola della precarietà» e favorire la 

stabilizzazione   del   rapporto,   oltre   a   reprimere   gli   «abusi»   nella   successione   di 

42 G. FERRARO, Il contratto, cit., p. 67, ritiene, con un’opinione condivisibile, che l’accordo in deroga debba essere stipulato prima del decorso dei 36 mesi. Mentre, se effettuato successivamente, avrebbe valore dispositivo del 

diritto alla stabilità ormai maturato per effetto del superamento del triennio.43 V. retro note da 3 a 7.44 In tal senso anche G. PROIA, Le modifiche, cit., 94 – 95.45 G. PROIA, Le modifiche, cit., 95.

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contratti   a   t.   determinato46.   In   questi   casi,   dunque,   le   esigenze   economiche 

dell’impresa cedono dinanzi alla volontà  di  protezione del lavoratore.  Le necessità 

organizzative del  datore di   lavoro in  relazione a  determinate  mansioni  (o a quelle 

equivalenti) per le quali si è esaurito il limite del triennio (o la «deroga» successiva) 

potranno essere soddisfatte con il ricorso ad un rapporto a termine con un differente 

lavoratore o con le diverse tipologie contrattuali  escluse dal limite dei 36 mesi (v. 

infra § 6.3).

Dopo aver ribadito la vigenza del sistema sanzionatorio contenuto nei commi da 1 

a 4 dell’art.  5 del d.lgs. 368/200147,   il  comma 4 bis prevede che dopo 36 mesi di 

contratti con scadenza finale «il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato 

ai sensi del comma 2». I 36 mesi vanno calcolati «comprensivi di proroghe e rinnovi, 

indipendentemente  dai   periodi   di   interruzione   che   intercorrono   tra   un   contratto   e 

l’altro».   La   disposizione   non   è   chiarissima:   sarebbe   stato   meglio   utilizzare   la 

formulazione  «con esclusione»  dei  periodi  di   intervallo   tra   i   contratti.  Peraltro,   il 

mancato computo delle interruzioni risulta anche dal fatto che il comma 4 bis riferisce 

il «tetto» dei 36 mesi al «rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso 

lavoratore». Dunque, bisogna prendere in considerazione i tempi di lavoro effettivo 

derivante dalla «successione di contratti a termine» (anche prorogati o rinnovati) «per 

lo svolgimento di mansioni» e non quelli di assenza della prestazione48. 

46 Vi sono settori, come quelli del terziario o delle banche, caratterizzati da elevatissimi turn over con contratti a termine molto brevi con lo stesso lavoratore, che si prolungano per anni e che costituiscono una forma tipica di lavoro precario. D’altra parte, come ho cercato già di sostenere in passato (V. SPEZIALE, La nuova legge, cit., 382), l’esistenza di esigenze temporanee molto ravvicinate é espressione di una necessità costante per quel tipo di attività ed è  quindi una caratteristica «permanente» di un certo tipo di produzione.  La scelta,  quindi,  di  spingere per l’assunzione a t. indeterminato (magari part time per far fronte alla variabilità dell’intensità del lavoro richiesta) è coerente con le stesse caratteristiche organizzative dell’impresa, oltre che per ragioni di tutela del lavoratore.47 Il comma 4 bis  inizia con l’inciso «ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti», che acquista un valore sintomatico del carattere temporaneo delle esigenze che giustificano il termine. La disposizione, infatti, lega vecchia e nuova disciplina, che esprimono la stessa logica ed i medesimi obiettivi. Non ha senso affermare la «fungibilità» tra t. determinato e lavoro stabile e poi penalizzare in misura radicale (con la conversione in t. indeterminato) il prolungamento del contratto oltre certi limiti, la successione di rapporti che non rispettino determinati intervalli o il superamento dei 36 mesi.48  In tal senso anche G. PROIA,  Le modifiche, cit., 97;  G. FERRARO,  op . ult. cit., 68;  C. ALESSI,  La flessibilità del  lavoro, cit., 7. Il riferimento al «rapporto» complessivo in opposizione ai singoli contratti potrebbe far pensare che il legislatore abbia usato il primo termine per indicare la «relazione di fatto» tra le parti in un certo arco temporale e non l’effettiva esistenza di vincoli giuridici, con la conseguenza che i periodi di intervallo andrebbero calcolati 

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Dal  punto di  vista   letterale,   si  potrebbe sostenere  che   il   comma 4­bis  riguardi 

soltanto la «successione di contratti a termine». Pertanto, sarebbe possibile stipulare 

un primo rapporto a t. determinato anche eccedente i 36 mesi (ad esempio per 4 anni), 

e sempre che, comunque, vi siano esigenze temporanee da soddisfare. Solo il contratto 

a termine successivo sarebbe illegittimo, visto che, dopo i 36 mesi, non si è osservata 

la procedura di «derogabilità  assistita»49. In realtà  questa interpretazione si scontra, 

innanzitutto,  con l’intenzione  del   legislatore  di evitare  che  i  contratti  a   termine  si 

estendano oltre il periodo massimo, con una finalità che è chiaramente dimostrata da 

una disciplina assai restrittiva per quanto attiene la possibilità  di superare il  limite 

triennale50. In questo contesto, ammettere un contratto – anche se basato su esigenze 

temporanee – che sin dall’origine superi i 36 mesi non sembra plausibile. Tra l’altro, 

la tesi qui criticata condurrebbe ad esiti paradossali: si potrebbe stabilire una durata 

iniziale assai lunga (ad es. 5 anni) e poi usufruire dell’ulteriore rapporto a termine in 

deroga. In questo modo si renderebbe ancora più evanescente la finalità di porre un 

«tetto» di tre anni all’utilizzazione dei contratti a t. determinato. Va detto, peraltro, 

che la tesi qui sostenuta trova conferma anche in dati testuali. Infatti, la durata del 

rapporto  di   lavoro   successivo  al   triennio  può   essere   stabilita   soltanto  «con avvisi 

comuni». La legge, dunque, delega soltanto l’autonomia collettiva ad «autorizzare» un 

termine di durata eccedente i 36 mesi e sottrae alle parti del contratto individuale la 

possibilità di fissare inizialmente una scadenza del rapporto che sia superiore a questo 

limite   temporale51.   Né   si   può   sostenere   che   questa   disposizione   presuppone   la 

"successione" di rapporti e non riguarda quindi un unico contratto iniziale. Infatti, se nei 36 mesi. In sostanza qui «indipendentemente dai», potrebbe avere il significato di «inclusivo dei». Tuttavia, mi sembra che,  quando la   legge afferma che il   triennio è  quello  che si  matura  per  effetto  della  «successione di contratti» finalizzati allo «svolgimento» della prestazione ed esprima la necessità di prendere in considerazione anche «proroghe o rinnovi», vi sia la chiara volontà di computare solo il «lavoro effettivo». D’altra parte, nel senso qui   contestato,   la  norma avrebbe  dovuto  parlare  di   semplice  «rapporto»  e  non  di  «rapporto  di   lavoro»,   che presuppone la relazione contrattuale. Infine l’interpretazione qui sostenuta trova espressa conferma nel Protocollo, 

dove il triennio è calcolato esclusivamente con riferimento ai contratti e non anche ai periodi di non lavoro.49 Così  G. PROIA, Le modifiche, cit., 95. Anche G. FERRARO (op. ult. cit., 67) ritiene che il limite dei 36 mesi non 

valga per un unico contratto iniziale a termine.50 Depongono in tal senso la «derogabilità assistita», i limiti temporali del nuovo contratto fissati dall’autonomia 

collettiva, la sanzione della conversione in tempo indeterminato se non si rispettano le regole e la durata.

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la  ratio  è quella di impedire l'uso del termine oltre 36 mesi se non alle condizioni 

previste   dalla   autonomia   collettiva,   sarebbe   incongruo   che  questa   finalità   venisse 

frustrata riattribuendo alle parti individuali la facoltà di superare il tetto triennale con 

un solo contratto52. 

Un elemento letterale contrario alla tesi qui sostenuta potrebbe essere costituito dal 

fatto   che   l'art.   4   del   d.lgs.   368/2001   sulla   proroga,   non   modificato   dalla   legge 

247/2007, prevede implicitamente la possibilità di un termine iniziale superiore ai tre 

anni.  La   tesi  era   sicuramente  plausibile  prima  della   riforma.  Tuttavia  oggi  questa 

disposizione va letta in coordinamento con il nuovo comma 4 bis. E l'interpretazione 

coordinata porta alle seguenti conclusioni: a) la proroga è possibile solo se il contratto 

ha meno di tre anni e fino al limite massimo dei 36 mesi; b) «la durata iniziale…

inferiore a tre anni» ­ specificata nell’art. 4 ­ è limite che opera solo in rapporto al 

prolungamento   del   contratto   e   non   può,   in   presenza   di   una   diversa   disposizione 

espressa che dice il contrario, essere considerato come «autorizzatoria» di un termine 

iniziale che ecceda il triennio53.

L’applicazione  dei principi   in materia  di  interpretazione  della   legge54  conferma 

dunque che i 36 mesi (salva l’eventuale  deroga) costituiscono un limite  temporale 

generale che opera per i contratti a t. determinato sin dalla fase iniziale di apposizione 

del   termine.   Il   limite   temporale  massimo,   inoltre,  non può  essere  superato  né  per 

effetto della successione di contratti (art. 5, comma 4 bis) né in conseguenza di un 

51 La seconda parte del comma 4­bis è chiarissima: «in deroga a quanto disposto dal primo periodo del presente comma» (e cioè fino ai 36 mesi), un nuovo rapporto a termine presuppone la «derogabilità assistita» e l’«ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti» (stipulabile una sola volta) deve avere la «durata» definita dalle organizzazioni sindacali contrapposte. Inoltre «nel caso di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto,   il   nuovo   contratto   si   considera   a   tempo   indeterminato».   Dunque   la   legge   configura   un   percorso derogatorio assai rigido – con la sanzione massima della conversione in un rapporto stabile – nel quale, dopo il triennio,   per   la   definizione   di   un   nuovo   rapporto   a   t.   determinato   non   vi   è   spazio   per   l’autonomia   privata 

individuale ma solo per quella collettiva.52  La vigenza del limite dei 36 mesi sin dal primo contratto è sostenuta anche da C. ALESSI,  La flessibilità del  lavoro, cit., 8.53 Anche C. ALESSI  (op. ult. cit, 8) propone un’interpretazione adeguatrice dell’art. 4 del d.lgs. 368/2001 che ne consenta il coordinamento con il limite dei 36 mesi anche per il primo contratto a termine.54 In particolare, la formulazione letterale delle disposizioni, l’intenzione del legislatore, la lettura sistematica delle 

norme.

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unico rapporto inferiore al «tetto» e poi prolungato oltre il triennio. In quest’ultimo 

caso è l’art. 4 del d.lgs. 368/2001 ad impedire la proroga oltre i 36 mesi55.

6.1. La nuova disposizione non specifica come calcolare i 36 mesi. In questo caso, 

come   nell’ipotesi   del   comporto   per   sommatoria   nella   malattia,   devono   essere 

considerati due termini: uno «interno» ­ i giorni di effettivo lavoro con contratti a t. 

determinato ­ e l'altro «esterno» (i tre anni). La giurisprudenza sul comporto, quando i 

termini   sono   fissati   a   mesi,   applica   la   regola   generale   del   computo   secondo   il 

«calendario comune»56. Questo principio è sicuramente estensibile anche all'ipotesi in 

cui la durata dei vari rapporti a termine è fissato in mesi. Ne deriva che, per stabilire 

l’estensione dei vari contratti, non si considerano i giorni, ma si calcolano i periodi 

temporali  per intero e si passa dalla data iniziale a quella corrispondente del mese 

finale. Pertanto, se il rapporto inizia il 7 gennaio ed ha durata semestrale, esso scadrà 

il 7 luglio57. Se, invece, i singoli contratti a termine sono fissati con date iniziali e 

finali   specifiche  (ad   es.,   1   marzo   ­   30   settembre),   le   regole   descritte   non   sono 

applicabili perché il termine interno è calcolato in giorni e quello esterno a mesi (36). 

Ritengo allora che occorra procedere in modo diverso per l'impossibilità di utilizzare 

una disciplina  (quella  del  «calendario  comune»)  nei   limiti   in  cui  essa presuppone 

soltanto il computo del mese e non un'altra unità di tempo. L'unica soluzione possibile 

in questi casi è quella di dividere i giorni dell'anno per 365 (o per 366 se è incluso un 

anno bisestile) e moltiplicare il risultato per 3658. In questo modo si otterrà un numero 

complessivo di giorni equivalente al triennio che potrà essere posto a confronto con 

55 G. PROIA, Le modifiche, cit., 96. La disposizione, infatti, prevede che, in caso di proroga «la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni».56 Cass. 2 aprile 2004 n.  6554;  Cass. 2 agosto 1999 n. 8358. Infatti, si è in presenza di un principio – enucleabile dagli artt. 155, c. 1, c.p.c. e 2963 c.c. ­ di portata generale in materia processuale e sostanziale (Cass. 12 settembre 

1991 n. 9536; 25 luglio 1987 n. 6479; 2 agosto 1999 n. 8358).57 S. RUPERTO, Computo dei termini di prescrizione, P. VITUCCI (a cura di), La prescrizione, t. II, Milano, 1999, 396 e 402; Cass. 12 agosto 2000, n. 10785; Cass. 27 agosto 1992 n. 9911. Inoltre, se nel mese di scadenza manca il  

giorno corrispondente a quello iniziale, il termine scadrà nell'ultimo giorno del mese (S. RUPERTO, op. ult. cit., 402).58  In un anno di 365 giorni,  dividendo per  12,   si  ottiene una durata media del mese pari  a 30,4 giorni.  Per un’applicazione di tale principio al comporto per malattia, v. T. Milano 14 marzo 2003, LG, 2003, 886.

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quelli di durata dei singoli contratti (incluse proroghe e rinnovi) per verificare se il 

limite massimo è stato superato o meno.

La legge non pone alcuna limitazione temporale  al  periodo entro il  quale deve 

essere preso in considerazione il «tetto» dei 36 mesi (come, al contrario, è previsto per 

il diritto di precedenza nelle assunzioni a t. indeterminato, che vale soltanto per un 

anno). Pertanto, se le parti, con rapporti a termine, hanno «consumato» 24 mesi su 36, 

il limite dei restanti 12 prima di raggiungere il triennio (ovviamente in relazione alle 

medesime mansioni o a quelle equivalenti) sarà in vigore... per sempre59. Quindi, se 

dopo molto   tempo  dall'ultimo  contratto   (ad  esempio  3/4  anni)   il  datore  di   lavoro 

volesse assumere a termine il medesimo lavoratore (sempre in relazione alle stesse 

attività  o per altre di uguale valore professionale), lo potrebbe fare soltanto per un 

massimo di 12 mesi e non per periodi superiori. Si tratta di un notevole irrigidimento 

della normativa e che forse va al di là della stessa finalità perseguita dalla legge che, 

per   ridurre   la  precarietà,   intende  evitare   l'abuso nascente  dalla   successione  (più  o 

meno) ravvicinata dei contratti e non introdurre un divieto assoluto ­ e «perenne» ­ di 

riassunzione   a   termine   per   il   medesimo   lavoratore60.   Va   detto,   peraltro,   che   la 

formulazione   letterale  della  disposizione  e   l’impossibilità,   in  assenza  di  parametri 

anche indiretti, di individuare un arco temporale massimo entro cui calcolare 36 mesi 

impongono l’interpretazione qui proposta, con una scelta del legislatore di cui si è 

ipotizzata   l’incostituzionalità61.  Il   limite   triennale   presuppone   lo   «stesso  datore   di 

lavoro» e non è  quindi  applicabile,  nel  trasferimento  di  azienda,  nei confronti  del 

59  In tal senso,  G. PROIA,  Le modifiche, cit., 97;  C. ALESSI,  La flessibilità del lavoro, cit., che parla di limite che riguarda «l’intera vita lavorativa» (7).60 In questo caso, il computo dei periodi pregressi nel tetto massimo dei 36 mesi, più che costituire un «argine» alla   precarietà,   assumerebbe   il   valore   di   una   compressione   ingiustificata   delle   possibilità   occupazionali   del 

lavoratore. Critiche a questa scelta legislativa anche da G. PROIA, Le modifiche, cit., 97.61 G. PROIA, op. ult. cit., 97. A me sembra che, ferme le critiche di merito, non si possa tacciare di incostituzionalità una disciplina che ha la finalità di incentivare lavoro stabile (nell’ambito, quindi, di una particolare lettura dell’art. 4 Cost.), anche in considerazione della discrezionalità del legislatore nello scegliere i mezzi più opportuni per 

perseguire la tutela dell’occupazione.

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cessionario62, mentre è operante per il cedente nel caso di ritorno al vecchio datore di 

lavoro (che è sempre «lo stesso») con un altro contratto a termine.

6.2 Il comma 4 bis prevede che, ai fini del computo del triennio, occorre prendere 

in considerazione soltanto i contratti  per mansioni equivalenti,  con tutti   i problemi 

teorici e pratici connessi a questa nozione63. Il riferimento ad attività di eguale valore 

professionale implica che devono essere computati anche i contratti riferiti a mansioni 

identiche, perché anche in questo caso vi è la stessa finalità di tutela. 

Il   limite  del   triennio  non opera se,  pur  essendo coinvolti  gli  stessi   soggetti,   il 

contratto riguardi mansioni diverse e, quindi, in relazione a professionalità superiori o 

inferiori.   In  questo  caso,   infatti,   poiché   si  è   in  presenza  di  diversi   contratti,   con 

autonomi rapporti obbligatori (salvo l’intento fraudolento), non vi sarà il divieto di 

riforma in peius previsto dall’art. 2103 cod. civ., che opera soltanto all’interno dello 

stesso contratto a termine o a t. indeterminato.   Potrà accadere che tra le parti vi sia 

una successione di rapporti con mansioni diverse. In base alla legge, i contratti per 

professionalità di livello superiore od inferiore sono esclusi dal calcolo dei 36 mesi. 

Ne consegue che il periodo massimo triennale potrebbe essere fortemente dilatato.

Un primo argine contro un’estensione «patologica» del «tetto» massimo è  dato 

dalla  necessità  che ogni  rapporto sia  fondato su ragioni  genuinamente   temporanee 

(con   una   riduzione,   quindi,   oggettiva   dell’eventuale   intento   elusivo).   Inoltre,   se 

l’adibizione alle mansioni inferiori o superiori sarà fittizia, il lavoratore potrà sempre 

contestare l’accaduto e, quindi, dimostrare che anche quel rapporto a termine (relativo 

ad attività   identiche  o equivalenti)  debba essere computato  nei  36 mesi.   Infine,   il 

dipendente interessato potrà tentare di dimostrare l’esistenza della frode alla legge e 

sostenere   che   la   successione   di   rapporti   con   diversi   contenuti   professionali   o 

62 G. PROIA, op. ult. cit., 96.63  Su tali aspetti si rinvia a  G. PROIA,  op. ult.  cit., 96;  M. TATARELLI,  Le novità, cit.,  115;  E. DE  FUSCO,  Nuovo contratto a termine: penalizzate le aziende stagionali, GLav, 2008, 2, 117; C. ALESSI, La flessibilità del lavoro, cit., 8;  G.  FERRARO,  Il   contratto,   cit.,   secondo  il   quale   in  questo  caso   la  nozione  di   equivalenza  dovrebbe  essere interpretata in senso più elastico rispetto a quella tradizionale (68).

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l’alternanza tra i contratti a termine previsti dal comma 4 bis e quelli ulteriori esentati 

dal limite triennale (v.  infra  § 6.3), aveva la finalità  elusiva di «bypassare» il tetto 

massimo64. 

Va detto, peraltro, che l’applicazione della disciplina della frode alla legge pone 

delicati   problemi.   Il   tema,   infatti,   è   molto   controverso,   tra   i   fautori   della   teoria 

«oggettiva»65, coloro che sostengono quella «soggettiva»66  e chi prospetta soluzioni 

diverse67. Ora, senza avere la pretesa di analizzare approfonditamente questioni così 

complesse,  va detto  che i  36 mesi,  superabili  solo a  precise condizioni,  sono una 

«norma   imperativa»   (intesa   come   disposizione   «proibitiva   o   limitativa   posta   a 

garanzia  di  un  precetto   inderogabile»)68.  Depongono  in   tal   senso,   la   formulazione 

letterale (nel caso di superamento del triennio «il rapporto di lavoro si considera a 

tempo   indeterminato»)   e   la   previsione   di   una   deroga   al   limite   temporale   assai 

«rigida»,  che  conferma  il   carattere   imperativo  del  «tetto»69.  La  successione   tra   le 

stesse   parti   di   una   pluralità   di   rapporti   a   termine   (per   le   stesse   mansioni   o   per 

mansioni  equivalenti  o diverse) o con differenti   tipologie  contrattuali  (contratto  di 

apprendistato, rapporti esclusi dal limite triennale dalla contrattazione collettiva) (v. 

infra § 6.3) può comportare il superamento del periodo massimo e costituire frode alla 

legge   (e   cioè   «il   mezzo   per   eludere   l’applicazione   di   una   norma   imperativa»)70. 

64 E’ un principio consolidato, in giurisprudenza, quello secondo il quale chi sostiene in giudizio l’elusione della legge ha il relativo onere probatorio e può utilizzare anche «testimoni e presunzioni»: Cass. 21 luglio 2006, n. 16759.65 «La frode alla legge può pertanto definirsi come l’utilizzazione di un contratto, in sé lecito, per realizzare un risultato vietato mediante la combinazione con altri atti giuridici. Il carattere fraudolento dell’operazione prescinde dall’intento   elusivo»   (C.M.   BIANCA,  Il   contratto,   Milano,   1984,   587;  E.   BETTI,  Teoria   generale   del   negozio  giuridico, Napoli, 1994 (ristampa), 379 ss.66  Il negozio in frode alla legge è diretto a realizzare un risultato «equivalente» o «analogo» a quello vietato e presuppone l’esistenza dell’intento elusivo (L. CARRARO, Il negozio in frode alla legge, Padova, 1943; F. SANTORO PASSARELLI,  Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1986, 191 ss.;  F. GALGANO,  Il negozio giuridico,  Milano, 2002, 288 ss.67 U. MORELLO,  Frode alla legge,  Digesto IV – sez. civ.,  VIII, Torino, 1992, 501 ss.;  ID.,  Negozio in frode alla  legge, in EGT, XX, 1990, 1 ss.68 E. BETTI, op. ult. cit., 379; C.M. BIANCA, La norma giuridica, I soggetti, Milano, 1982, 12.69 Infatti la disciplina in materia – v. retro nel testo e note 50 e 51 ­ conferma indirettamente il carattere cogente 

del periodo massimo dei 36 mesi.70  La possibile applicazione dell’art. 1344 c.c. è confermata anche da  C. ALESSI,  La flessibilità del lavoro, cit., secondo la quale, peraltro, dopo la nuova disciplina, questo istituto avrà un’utilizzazione «residuale» (7). In senso 

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Questo accadrà quando sia dimostrabile l’intento elusivo delle parti71 o quando l’arco 

temporale   di   utilizzazione   dei   contratti   a   termine   sia   così   ampio   da   determinare 

oggettivamente la volontà  di elusione, perché si traduce nello «svuotamento» della 

norma   imperativa72.   In   quest’ultimo   caso   non   rileva   che   le   parti   abbiano   usato 

contratti tutti leciti e potenzialmente «cumulabili» tra loro. La successione di rapporti 

per   periodi   così   lunghi   (ad   es.   per   5   o   6   anni)   può   essere   considerata   come 

presunzione   della   volontà   fraudolenta73  o   come   espressione   di   un’elusione 

«oggettiva», perché lede il principio del superamento del limite massimo temporale74. 

Tra l’altro si è sottolineato che la stretta successione temporale tra contratti tra loro 

collegati può costituire indice della volontà di aggirare il limite imposto dalla legge75, 

con un principio particolarmente significativo nel caso in cui il termine massimo di 

durata  costituisce  la  norma imperativa  da rispettare.  Senza contare,   inoltre,  che la 

giurisprudenza, pur aderendo in prevalenza alla teoria soggettiva, individua l’intento 

elusivo   da   fattori   oggettivi,   come   le   particolari   caratteristiche   dei   contratti76  o   li 

desume da fatti evidenti che rivelano l’elusione (ad es. il licenziamento e l’immediata 

contrario all’uso della frode alla legge si è espresso  G. FERRARO,  Il contratto, cit., 68, perché la reiterazione dei contratti è rigidamente prefissata e solo parzialmente derogabile. In realtà queste considerazioni non escludono che, se vi sono gli estremi dell’art. 1344 c.c., questa disposizione possa essere applicata anche in questa ipotesi,  come in qualunque altra che persegua gli scopi vietati dalla norma ed attuati con contratti  tutti  leciti.  Non ha rilievo, inoltre, che l’intento fraudolento sia soprattutto del datore di lavoro e venga «subito» dal lavoratore. Infatti, quando la norma imperativa violata preveda un soggetto «contrattualmente debole» ­ come nel divieto di patto commissorio (art. 2744 c.c.) – il fatto che l’intento elusivo sia soprattutto del soggetto «forte» (il creditore) non esclude l’operatività dell’art. 1344 c.c., come dimostra il costante orientamento giurisprudenziale e dottrinario in questa materia. Analoghi principi sono applicabili nel contratto a termine.71 A questo fa riferimento la giurisprudenza che, aderendo alla teoria soggettiva, parla di «consapevole volontà delle parti»: (Cass., S.U., 1981, n. 4414; Cass. 9 dicembre 1971, n. 3568; Cass. 4 gennaio 1995, n. 66; Cass.   7 

agosto 2004, n. 15308), che, come già spiegato, nel ns. caso vuol dire soprattutto volontà del datore di lavoro.72 U. MORELLO, Negozio in frode, cit., 503.73 Non vi sono limiti, in questo ambito, all’utilizzazione della prova per presunzioni (Cass. 22 luglio 1981, n. 4709; v. anche Cass. 16759/2006 cit.). Ed una conferma della «presunzione di frode» potrebbe essere rinvenuta anche 

nella alternanza di diverse tipologie contrattuali per sfruttare tutte le «deroghe» ammesse dalla legge.74  Secondo  la  teoria per  la quale é  decisivo «il   fatto oggettivo della contrarietà   allo spirito  legale» e non  la 

consapevole volontà fraudolenta (E. BETTI, Teoria generale, cit., 382).75 U. MORELLO, Negozio in frode, cit., 13.76 E’ questo il caso, ad es., del divieto di patto commissorio «aggirato» con una vendita a scopo di garanzia, dove la giurisprudenza dà rilievo al fatto dell’attribuzione irrevocabile del bene al creditore solo in caso di inadempienza 

del debitore (Cass., S.U., 3 aprile 1989, n. 1611; Cass. 11 giugno 2007, n. 13621).

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riassunzione del lavoratore per frazionare l’indennità di anzianità77, la successione di 

proroghe di  contratti   di   lavoro   temporaneo  per   la   stessa   attività78  e   così  via).  Mi 

sembra, dunque, che qualunque sia l’approccio teorico prescelto, la frode alla legge 

sia, in questi casi, concretamente configurabile. Inoltre, spetterà  al datore di lavoro 

dimostrare che – nonostante gli  elementi  oggettivi  prima descritti   ­   l’elusione non 

sussiste79. 

A parte   le   ipotesi   fraudolente,   la  violazione  del  comma 4 bis  determinerà  una 

ripartizione dell’onere della prova sulle parti diversa, a seconda che si accolga la tesi 

secondo cui  è  solo la norma sostanziale  a  definire   il   rispettivo  ambito degli  oneri 

probatori o se, oltre ad essa, deve essere preso in considerazione anche il contenuto 

dell’azione giudiziaria proposta80.

6.3. Il comma 4 bis dell’art. 5 non si riferisce a tutti i contratti a termine. Sono 

esclusi dal limite dei 36 mesi (con relativa disciplina derogatoria) i rapporti di lavoro 

con   i   dirigenti81  e   le   attività   stagionali   «definite   dal   decreto  del   presidente   della 

Repubblica  7 ottobre  1963, n.  1525 e successive modifiche  ed  integrazioni»82.  La 

giurisprudenza,   in   relazione   alla   legislazione   precedente   alla   l.   247/2007,   ha 

77 Cass. 21 luglio 1984, n. 4289; Cass. 23 febbraio 1983, n. 1359 e molte altre.78  A. Milano 5 ottobre 2001,  GC, 2002, I, 475.  V., sul punto, anche  C. ALESSI,  op. ult.  cit., 7. Tra i fatti che dimostrano   l’intento   elusivo  va   incluso  anche   il   collegamento   funzionale   tra   operazioni  di   frazionamento  di un’azienda per evitare la disciplina dell’art. 2112 c.c. (Cass. 20 aprile 1998, n. 4010).79 In tal senso la giurisprudenza, ad es., che, in caso di licenziamento e riassunzione per frazionare l’indennità di anzianità, ritiene che spetterà al datore di lavoro provare l’esistenza di un’effettiva novazione (Cass. 23 febbraio 1983, n. 1359; Cass. 21 luglio 1984, n. 4289).80 Rinvio sul punto, per la ricostruzione dei diversi orientamenti dottrinari, a V. SPEZIALE, La nuova legge, cit., 398 – 399. Se é  solo il comma 4 bis a definire la ripartizione degli oneri probatori,  il  lavoratore dovrà dimostrare soltanto il superamento del limite temporale o l’adibizione a mansioni non diverse (ma identiche o equivalenti), mentre il datore di lavoro dovrà provare le condizioni di legittimità della deroga (in tal senso  M. TATARELLI,  Le novità, cit., 115). Se, invece, valore determinante è connesso anche al contenuto dell’azione giudiziaria, si potrebbe affermare che, se il dipendente deduce  anche  la mancanza dei requisiti di legittimità delle deroga, sarà tenuto a dimostrare questa circostanza,  che è  diventata, per sua scelta processuale,  un «fatto negativo» (non esistono i 

requisiti di legittimità della deroga) e «costitutivo».81 Art. 1, comma 41, lettera c), l. 247/2007, che modifica l’art. 10, comma 4, del d.lgs. 368/2001, prevedendo una 

«deroga» al comma 4 bis.82 Si veda il comma 4 ter  dell’art. 5, aggiunto dall’art. 1, comma 40, della l. 247/2007. Sulle esclusioni cfr. anche 

G. PROIA, op.ult. cit., 99; G. FERRARO,  op. ult. cit., 70 ss.; C. ALESSI, La flessibilità del lavoro, cit., 13 ss.

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interpretato in senso restrittivo l’elencazione contenuta nel decreto, ritenendo che essa 

fosse   tassativa83,   non   estensibile   in   via   analogica84  e   che,   anche   se   l’attività   era 

ricompresa nel DPR, tuttavia doveva avere carattere autenticamente stagionale e non 

svolgersi   in  modo  continuativo85.  Mi   sembra  che  questa   interpretazione   restrittiva 

vada confermata anche oggi, con esclusione, quindi, delle attività non espressamente 

previste nel decreto o in relazione a diverse forme di stagionalità  (come, ad es., le 

«punte stagionali», regolate dall’art. 8 bis della l. 79/1983, oggi abrogato). Una tale 

conclusione,   oltre   che   dalla   finalità   della   legge   (limitare   l’uso   del   contratto   a 

termine), che impone una lettura restrittiva anche delle deroghe al principio generale, 

trova fondamento anche nell’interpretazione letterale del comma 4 ter ed in una sua 

lettura sistematica con altre disposizioni del d.lgs. 368/200186.

La norma analizzata delega la contrattazione collettiva e gli «avvisi comuni» ad 

introdurre ulteriori eccezioni al limite massimo dei tre anni87. Si è sostenuto che la 

formulazione   letterale   del   comma   4   ter   consentirebbe   all'autonomia   collettiva   di 

escludere   solo   attività   stagionali   ulteriori   rispetto   a   quelle   contenute   nel  DPR  n. 

83 Cass. 8 maggio 2006, n. 10442; Cass. 12 ottobre 2006, n. 21825; Cass. 15 giugno 2005, n. 12820.84 Cass. 15 giugno 2005, n. 12820.85 Cass. 28 ottobre 1999, n. 12120; Cass. 29 gennaio 2003, n. 1095.86 La nuova normativa, infatti, se da un lato si riferisce espressamente solo al DPR n. 1525/1963 per le eccezioni al tetto dei 36 mesi, al contrario ha lasciato immutato l’art. 10, comma 7, lettera b) del d.lgs. 368/2001 per quanto attiene   l’esenzione   dai   limiti   quantitativi.   Questa   disposizione   fa   riferimento   a   ragioni   «di   stagionalità,   ivi comprese le attività già previste nell’elenco allegato al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525..» e,  quindi,   lascia  intendere che sono  incluse anche  le attività   stagionali  diverse da quelle contemplate nell’elenco. Le differenti formulazioni utilizzate dalla l. 247/2007 e la mancata modifica della norma citata (che è stata riformata in altri aspetti, a riprova che in questo caso il «silenzio» della legge non è casuale) rafforzano la volontà di non estendere la deroga dei 36 mesi a tutte le prestazioni stagionali, bensì solo a quelle contenute nel 

DPR n. 1525/1963.87  Nella   realtà   sindacale,   mutuata   dalla   esperienza   europea,  gli   «avvisi   comuni»   (già   diffusi   in   settori  quali l’edilizia e l’agricoltura) sono accordi quadro, che, senza avere il valore vincolante degli accordi interconfederali, definiscono   orientamenti   programmatici   e   linee   guida   di   carattere   generale   e   che   dovrebbero   orientare   la contrattazione collettiva vera e propria (C. ALESSI, La flessibilità del lavoro, cit., 12 – 13). L’intento del legislatore è quello di abilitare sia gli «avvisi» che i ccnl a definire nuove ipotesi oltre quelle previste dalla legge. Nel caso in cui la «delega normativa» venga esercitata alternativamente dalle due tipologie contrattuali non vi sarà nessun problema, perché entrambe sono dotate di poteri normativi attribuiti dalla legge. Al contrario, se, oltre all’avviso comune, per una determinata categoria vi fosse anche il contratto nazionale che introduce tipologie diverse, si creerebbe un «conflitto di competenze» normative che, probabilmente, dovrebbe essere risolto a favore del ccnl. Quest’ultimo,  infatti,  per espressa volontà  delle parti  sociali,  ha un contenuto contrattuale vincolante estraneo all’avviso.

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1525/196388. Ed in effetti la disposizione potrebbe avvalorare questa tesi, ma anche 

quella che, al contrario, estende la competenza sindacale ad ipotesi diverse rispetto 

alla sola stagionalità89. Tuttavia, la seconda interpretazione mi sembra più fondata in 

base ad una lettura sistematica con il precedente comma 4 bis e con le successive 

previsioni relative ai limiti quantitativi che possono essere introdotti dall'autonomia 

collettiva.  Sarebbe strano che la   legge attribuisse poteri  così  estesi  e penetranti  ai 

sindacati in relazione alla durata del contratto che ecceda i 36 mesi o sul quantum di 

rapporti  a   termine   in  un'azienda  e  poi,   in   relazione  alle  esclusioni  delle   tipologie 

contrattuali, limitasse tutto soltanto alle attività stagionali. Vi sarebbe una restrizione 

delle facoltà concesse all’autonomia collettiva che sarebbe in contrasto con il ruolo 

determinante   ad  essa   attribuito  dalla   legge   su  aspetti   essenziali   della  materia.  Mi 

sembra quindi che la disposizione affidi ad avvisi comuni e contratti  collettivi una 

«delega in bianco» e cioè la libertà di introdurre ipotesi normative anche diverse da 

quelle previste dalla legge e non soggette alla regola del periodo massimo triennale90. 

L’unico   limite   sarà   quello   di   non   poter   ampliare   le   eccezioni   in   modo   tale   da 

vanificare completamente il «tetto» dei 36 mesi previsto dal comma 4 bis (rendendolo 

operativo solo per una parte assai esigua di rapporti a termine). In quest’ultimo caso, 

infatti, non si tratterebbe di «integrazione» della norma ma di «rovesciamento» del 

rapporto regola (comma 4 bis), deroga (comma 4 ter) certamente non consentita dalla 

legge.   In   sostanza,   la   legge   impone   un   «vincolo   di   scopo»,   consistente 

nell’abilitazione a porre limiti alla disciplina generale e non permette certamente di 

trasformare la  regola  in …eccezione.  Ovviamente,   fino a quando avvisi  comuni o 

88 C. ALESSI, op. ult. cit., 13 ­ 14.89  Confermano quest’ultima tesi  G. FERRARO,  op. ult. cit., 70 e  M. TATARELLI,  op. ult. cit., 115, senza analizzare l'ambiguità testuale della disposizione. Infatti, le parole «nonché di quelle» contenute nel comma 4 ter potrebbero essere   alternativamente   riferite   alle   sole  «attività   stagionali»  o,  più   in  generale,   alle   «attività»  «che   saranno individuate…», e quindi anche ad altre prive del carattere della stagionalità.90 Cass., S.U., 2 marzo 2006, n. 4588; Cass. 23 agosto 2006, n. 18378, entrambe riferite all’art. 23 della l. 56/1987. Mi sembra che, pur nell’ambito di consistenti differenze, vi sia una evidente analogia tra la nuova disposizione e l’art. 23 oggi abrogato, almeno sotto il profilo della ratio. L’autonomia collettiva, pertanto, sarà libera di introdurre nuove deroghe (ad esempio anche le «punte stagionali» non ricomprese nelle attività incluse nell’elenco del DPR n. 1525/1963 o diverse tipologie di attività produttive).

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contratti collettivi non vi saranno, le esenzioni previste dalla legge saranno le uniche 

applicabili.

  I   contratti   descritti   non   sono   gli   unici   esclusi   dal   limite   del   triennio.   La   l. 

247/2007   riforma   l’art.   5   del   d.lgs.   368/2001,   ma   non   modifica   l’art.   10   della 

medesima   legge   nei   commi   dove   sono   regolate   le   esclusioni   «dal   campo   di 

applicazione  del  presente decreto   legislativo».  Dunque  le   tipologie  contrattuali   ivi 

previste sono fuori dall’ambito applicativo della disciplina generale del termine, con 

una   regola   che,   applicabile   alla   legge   originaria,   va   ribadita   anche   oggi   dopo   la 

riforma e che riguarda, quindi, tutte le innovazioni introdotte nel 2007, non estensibili 

a questi contratti91. E questo anche in considerazione del fatto che non si tratta di una 

«svista» del legislatore, che ha innovato l’art. 10 del 368/2001 nei commi 7 e seguenti 

(sui limiti quantitativi ai rapporti a termine che possono essere apposti dai contratti 

collettivi) (art. 1, comma 41, della l. 247/2007). Dunque, la conservazione dei commi 

da 1 a 6 dell’art. 10 sembra espressione di una precisa scelta della riforma. Va anche 

detto,   peraltro,   che   un’operazione   di   «aggiornamento»   della   legge   sarebbe   stata 

opportuna. La lettera a) del comma 1 dell’art. 10 fa riferimento al lavoro temporaneo, 

che è stato abrogato92, mentre la lettera b) esclude i contratti di formazione e lavoro, 

oggi applicabili solo al settore pubblico93. Il comma 6 dell’art. 10 cita due tipologie di 

rapporti  a  termine anch’esse abrogate94.  Un’operazione di ricostruzione sistematica 

delle esenzioni è quindi opportuna.

Va in primo luogo rilevato che la somministrazione a t. determinato è tra i contratti 

esclusi. Il comma 4 bis, infatti, fa riferimento a contratti «fra lo stesso datore di lavoro 

e   lo   stesso   lavoratore».   Al   contrario,   se   dopo   più   rapporti   a   termine   diretti,   il 

lavoratore  venga assegnato  per  una  missione  a   t.  determinato  presso   il  medesimo 91  Il t. indeterminato come «regola», il limite massimo dei 36 mesi con la deroga, il diritto di precedenza ecc. Anche C. ALESSI (La flessibilità del lavoro, cit., 14) conferma la non applicabilità della nuova disciplina ai contratti esclusi dal campo di applicazione del 368/2001 dall’art. 10 di questa legge.92 Art. 85, comma 1, lettera f), del d.lgs. 276/2003.93 Art. 86, comma 9, del d.lgs. 276/2003.94 L’art. 10 della l. 53/2000 è stato abrogato dall’art. 86, comma 2, lettera t) del d.lgs. 151/2001. L’art. 75 della l. 

388/2000 è stato abrogato dall’art. 1, comma 17, della l. 243/2004.

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imprenditore, egli sarà dipendente dell’Agenzia per il lavoro e non di colui in favore 

del quale effettua la prestazione95. Se si considera la scarsa deterrenza del maggior 

costo della somministrazione nelle aree economicamente più avanzate del paese dove 

maggiormente si usa questo istituto e che l’opinione assolutamente prevalente ritiene 

che questo contratto  non richiede  esigenze  temporanee96,  vi  potrebbero essere due 

effetti   negativi:   l’incentivo   ad   utilizzare   la   somministrazione   come   alternativa 

permanente del contratto a termine e, in ogni caso, la dilatazione a dismisura dei 36 

mesi,  con  l’alternanza   tra  contratti  a   t.  determinato  e  forniture  di  mano d’opera a 

termine. Anche nel rapporto di lavoro tra Agenzia e lavoratore a t. determinato non si 

applica il limite triennale. Infatti, l’art. 1, comma 42, della l. 247/2007 ha modificato 

il comma 2 dell’art. 22 del d.lgs. 368/2001 ed ha previsto che nel contratto a termine 

con l’Agenzia non si applicano le «disposizioni di cui all’art. 5, commi 3 e seguenti», 

ivi incluso quindi anche il comma 4­bis, che prevede il tetto dei 36 mesi97.

Anche   il   contratto   di   inserimento   deve   essere   computato   nel   limite   massimo 

triennale.   Si   tratta   di   una   tipologia   contrattuale   ovviamente   non   contemplata   nel 

regime  delle   esclusioni  previsto  dalla   formulazione  originaria  del  d.lgs.  368/2001 

(perché   introdotta  nel   2003)   e   che   tuttavia   il   legislatore   del  2007  non  ha  voluto 

inserire nei primi sei commi dell’art. 10 del decreto delegato, con la chiara volontà di 

non modificare la normativa preesistente e di non aggiungere altri rapporti a termine 

sottratti alla disciplina generale. Il contratto di inserimento è,  inoltre, salva diversa 

disposizione della contrattazione collettiva, un contratto soggetto alla disciplina del 

95 Tra l’altro nel Protocollo si afferma chiaramente che la somministrazione non è inclusa nel limite temporale del triennio.  L’esclusione  della   somministrazione  è   confermata  da  G.  PROIA,  op.  ult.   cit.,   99  e  da  CONFINDUSTRIA, Circolare, 4.96  Per  un’analisi   approfondita  della  questione  e  delle  diverse  opinioni   sul   tema v.  R.  ROMEI,  Il   contratto  di  somministrazione di lavoro, DLRI, 2006, 424 ss.97  La conseguenza dell’esclusione sopra descritta  sarà  quella  di  un ulteriore   incentivo alla  utilizzazione della somministrazione. Non solo, infatti, il lavoratore somministrato non è considerato ai fini del tetto nel rapporto con l'utilizzatore (che non è «lo stesso datore di lavoro»), ma anche rispetto all'Agenzia non vi sarà il limite temporale complessivo di 36 mesi. Vi potrà quindi essere reiterazione molto accentuate di assunzioni a termine con l'Agenzia e di missioni a tempo determinato presso l'utilizzatore con lo stesso lavoratore, con una dilatazione abnorme del triennio.   In  questo   caso   la   frode  alla   legge   (v.  retro  §  6.2)   assume   un'importanza   fondamentale   per   evitare fenomeni elusivi.

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d.lgs. 368/2001, nei limiti della compatibilità, qui certamente esistente98. Ovviamente, 

la contrattazione collettiva potrebbe stabilire che il contratto di inserimento non vada 

calcolato ai fini del limite triennale.

In definitiva, a parte le esclusioni espressamente previste dalla riforma del 2007, 

sono esentati dai limiti triennali soltanto i contratti a termine previsti dai commi da 1 a 

6 dell’art. 10 ancora in vigore99. Inoltre, nel caso di successione nel tempo tra rapporti 

ricompresi nel limite dei 36 mesi e quelli estranei al «tetto» (disciplinati dalla legge o 

previsti  dalla  contrattazione  collettiva),  bisognerà  verificare  se  vi  sono gli  estremi 

della frode alla legge già esaminati. Se si considerano i dati sulla precarietà (v. retro § 

2),   forse   il   legislatore   avrebbe   dovuto   prevedere   un   limite   massimo   speciale   di 

rapporti a termine solo per i giovani, inclusivi anche di quelli a contenuto formativo. 

Infatti, se la contrattazione collettiva abiliterà anche il contratto di inserimento tra le 

deroghe al limite triennale ed a queste tipologie si aggiungono le esenzioni previste 

dall’art. 10 del d.lgs. 368/2001 e la somministrazione a termine, vi sarà per i giovani 

la possibilità  di una reiterazione molto lunga di rapporti  a  t.  determinato,  che non 

risolverà il problema della «trappola» della precarietà prima analizzata100. 

7. Il triennio massimo di durata per i contratti a termine può essere derogato «una 

sola volta» e con l'assistenza del sindacato101. Si è in presenza di un'ulteriore ipotesi di 

«autonomia individuale assistita»102, nella quale alla Direzione provinciale del lavoro 

98 Art. 58, comma 1, d.lgs. 276/2003. A ben vedere i 36 mesi si pongono come limite «esterno» alla reiterazione dei contratti e non incidono sulla disciplina interna del contratto di inserimento, senza che si pongano, quindi problemi di compatibilità.99 Apprendistato, rapporti di «formazione attraverso il lavoro» senza vincolo di subordinazione, operai agricoli, contratti   non   superiori   a   tre   giorni   nel   turismo   e   nei   pubblici   esercizi,   contratti   con   aziende   di   prodotti  ortofrutticoli. In tal senso anche G. PROIA, Le modifiche, cit., 99.100 Un giovane, infatti, potrebbe essere prima assunto con uno stage, poi con un contratto di inserimento per una diversa professionalità, seguito da un apprendistato di diverso contenuto formativo e da normali contratti a termine e di somministrazione.101 Sul punto si rinvia a M. TATARELLI, Le novità, cit., 114; G. PROIA, Le modifiche, cit., 98; G. FERRARO, Il contratto, cit., 68 – 69; C. ALESSI, La flessibilità del lavoro, cit., 10 ss.102  Si   rinvia   sul   punto   a  R.   VOZA,  L'autonomia   individuale   assistita   nel   diritto   del   lavoro,   Bari,   2007;  A. VALLEBONA,  Norme inderogabili e certezza del diritto: prospettive per la volontà assistita,  DL, 1992, I, 479 ss. Riconducono la nuova disposizione nell’ambito di questo istituto anche G. FERRARO (op. ult. cit., 69), M. TATARELLI, op. ult. cit., 114 , G. PROIA, op. ult. cit., 98; C. ALESSI, op. ult. cit., 10.

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ed al sindacato si affida il compito di rimuovere il  limite legale dei 36 mesi (che, 

come   si   è   visto,   è   disposizione   inderogabile).   La   funzione   attribuita   al   soggetto 

pubblico ed al rappresentante sindacale, oltre a quella di informare il lavoratore dei 

suoi diritti e di supportare la formazione di una volontà individuale «consapevole», è 

quella di  controllare  il profilo «causale» del contratto,  con una funzione di vera e 

propria «derogabilità assistita»103. In sostanza, si chiederà alla DPL ed al sindacato di 

verificare: a) il superamento dei 36 mesi; b) l'esistenza di esigenze temporanee alla 

base del nuovo contratto; c) il fatto che il rapporto «in deroga» abbia la durata prevista 

negli   avvisi   comuni.   In  mancanza  di  un’espressa  disposizione   speciale   (come,   ad 

esempio nel caso della certificazione)104, si deve ritenere che la competenza territoriale 

della DPL debba essere desunta ai sensi degli artt. 410 e 413 cpc.

Ovviamente, non si potrà escludere il possibile controllo giurisdizionale su tutti i 

profili di legittimità del contratto sopra descritti105. Infatti, anche se l'attività della DPL 

è   finalizzata  ad autorizzare  un rapporto a   termine   in  deroga,   il  comma 4 bis  non 

esclude   il   sindacato   del   giudice,   come,   al   contrario,   sostiene   una   parte   della 

giurisprudenza, per contratti a termine soggetti all'autorizzazione di organi pubblici106 

103  R.  VOZA,  op.  ult.   cit.,  200.  G.  PROIA    (Le modifiche,   cit.,  98)  dubita  della   legittimità   costituzionale  della disposizione  (in   relazione all’art.  39 Cost.)  nella  parte   in  cui   limita   l’assistenza sindacale  alle  organizzazioni comparativamente   più   rappresentative,   perché   questo   criterio   è   utilizzabile   quando   si   tratti   di   atti   o   attività destinate a produrre i loro effetti oltre la sfera degli iscritti e non, come in questo caso, solo nei confronti del singolo lavoratore. A me sembra che, se questa è la logica, poiché la stipula del contratto a t. determinato in deroga costituisce   uno   strumento   che,   eccezionalmente,   estende   le   ipotesi   di   legittima   apposizione   del   termine,   la selezione del soggetto sindacale comparativamente più rappresentativo sia pienamente comprensibile e rispecchia la  medesima finalità  dell’art.  23  della   l.  56/1987  (garantire  soltanto  a  determinate  organizzazioni   sindacali   il controllo del mercato del lavoro). Il che è coerente con la costante interpretazione della Corte Costituzionale sulla legittimità di una selezione tra le organizzazioni sindacali a cui affidare diritti particolari. 104  L’art. 77 d.lgs. 276/2003 sulla certificazione espressamente prevede, per le DPL, un criterio di competenza territoriale (la commissione nella cui circoscrizione si trova l’azienda o una sua dipendenza).105 La possibilità per il giudice di effettuare un controllo causale sulle ragioni obiettive del contratto è sostenuta da R.VOZA, op. ult. cit., 200. Anche C. ALESSI (La flessibilità del lavoro, cit., 11) giunge alle stesse conclusioni in base al fatto che la contraria opinione costituirebbe una lesione del diritto costituzionale alla difesa ed in coerenza con la funzione della procedura sindacale che è diretta solo a consentire il superamento dei 36 mesi con un altro contratto a termine. 106 In relazione, infatti, alle ipotesi delle c.d. «punte stagionali» (previste dalla l. 18/1978 e dalla l. 79/1983) si è detto che «il giudice ordinario può esercitare, a richiesta del lavoratore, unicamente un controllo di legittimità, diretto ad accertare l'esistenza dei presupposti formali del provvedimento, che non può estendersi anche al merito delle valutazioni con lo stesso operate in ordine all'identificazione dei periodi dell'anno in cui si verificano, nelle singole  province,   le  c.d.  punte  stagionali,  nonché   in  ordine alla   sussistenza delle  altre  condizioni   legittimanti l'assunzione   a   termine,   trattandosi   di   valutazioni   di   carattere   tecnico   rimesse   espressamente   dalla   legge   alla 

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e come si è affermato anche in relazione all’analoga disposizione del Protocollo, oggi 

recepita con modifiche nella l. 247/2007107. La tesi che esclude il controllo giudiziale 

è smentita da vari elementi. La legge, in primo luogo, non utilizza in questo caso una 

formulazione «preclusiva» come quella dell'art. 2113, ultimo comma, c.c. per quanto 

attiene alle rinunce e transazioni in sede sindacale (dove non è possibile contestare il 

contenuto dell'atto, se non sotto il profilo dei vizi della volontà). Inoltre, il contratto di 

lavoro,   anche   se   autorizzato   con   un   provvedimento   amministrativo,   è   un   atto   di 

autonomia privata distinto ed autonomo, soggetto al normale controllo di coerenza 

con   la   legge   da   parte   del   giudice   ordinario   indipendentemente   dall’attestazione 

emessa dall’organo pubblico108. In ogni caso, poi, secondo le regole generali, qualora 

la valutazione della legittimità del provvedimento amministrativo fosse necessaria per 

valutare anche il contenuto del contratto, il giudice potrebbe sempre disapplicare il 

provvedimento che fosse in contrasto con la legge109.

Spetta   agli   «avvisi   comuni»   stipulati   dai   sindacati   comparativamente   più 

rappresentativi stabilire la «durata» dell'ulteriore contratto. Quest'ultimo deve, in ogni 

caso, essere basato su esigenze temporanee. A tale risultato si giunge con la lettura 

coordinata dell'art. 1 del d.lgs. 368/2001, che consente il contratto solo se vi sono le 

ragioni  oggettive  di   carattere   temporaneo,   e  del   comma  4  bis   che  prevede   limiti 

aggiuntivi rispetto a quelli «causali» previsti dall’altra disposizione e che certo non 

modifica le condizioni generali che legittimano la costituzione del rapporto. Inoltre, 

l'interpretazione  qui   proposta  è   coerente   con   la   finalità   della   legge  di   introdurre, 

valutazione discrezionale e tecnica dell'autorità amministrativa» (Cass. 23 aprile 1999, n. 4065; Cass. 26 settembre 

1998, n. 9658; contra, Cass., Sez. Un., 11 aprile 1994, n. 3354).107 Si è sostenuto, infatti, che in questo caso il giudice potrebbe solo verificare la «legittimità del procedimento» sindacale di assistenza al lavoratore e non il contenuto del contratto a termine (A. VALLEBONA, Il lavoro a termine  nel protocollo del luglio 2007, MGL, 2007, 699).108 Lo stesso accade quando, ad esempio, nel caso di una rinuncia o transazione effettuata dinanzi alla DPL, il 

giudice accerta il contenuto dell’atto e l’assenza dei vizi di volontà.109  Nel caso,  ad es.,  dell’assenza delle esigenze temporanee, per violazione della durata del contratto stabilita dall’autonomia collettiva o del computo dei 36 mesi. Si tratterebbe di un’ipotesi di «disapplicazione incidentale», che si ha «quando la controversia ha ad oggetto un diritto soggettivo rispetto al quale “la disciplina dettata dall’atto funge da presupposto”» (S.  MENCHINI,  La tutela del giudice ordinario,  S.  CASSESE  (a c.  di),  Trattato di diritto  amministrativo, t. IV, Milano, 2000, 3707).

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accanto alla sussistenza di esigenze economiche organizzative (proprie dell'impresa e 

di natura oggettiva), anche i limiti soggettivi alla reiterazione di contratti con lo stesso 

lavoratore.   In   un   contesto   del   genere   sarebbe   incoerente   ammettere   un   «ultimo» 

contratto a termine tra le stesse parti  che non abbia le medesime caratteristiche di 

quelle  precedenti.   In   realtà  qui   la   legge  vuole  solo ulteriormente   ridurre  gli  spazi 

dell'autonomia privata, prevedendo un «tetto» massimo di durata anche per le ragioni 

temporanee, al fine di evitare la eccessiva precarietà del lavoratore110.

8. La riforma del 2007 modifica anche il regime sanzionatorio del d.lgs. 368/2001. 

Accanto   alle   ipotesi   originarie   di   conversione   del   contratto   in   uno   a   tempo 

indeterminato, ne sono state aggiunte due: a) superamento del periodo complessivo 

dei 36 mesi previsto dal comma 4 bis; b) stipulazione del contratto «in deroga» al tetto 

massimo triennale senza aver rispettato la procedura di derogabilità assistita o senza 

aver osservato il termine di durata massimo fissato dall’avviso comune. Nel primo 

caso il contratto si converte dalla scadenza del triennio111 ed ovviamente il momento 

esatto di conversione muterà a seconda che il calcolo venga effettuato sulla base del 

totale   dei   mesi   o   dei   giorni   corrispondenti.   Si   è   ipotizzato   che   la   conversione 

opererebbe dopo 36 mesi e 20 giorni112. La formulazione letterale della disposizione 

consente due distinte interpretazioni: a) i 36 mesi sono un'ipotesi aggiuntiva rispetto a 

quelle della prosecuzione del rapporto oltre i 20 giorni (se inferiore a sei mesi) o 30 

giorni (se superiore) in base alle quali si determina il momento di conversione del 

contratto;   b)   la   norma,   oltre   a   prevedere  un   caso   ulteriore   di   trasformazione   del 

rapporto ex nunc  trascorso il periodo massimo del triennio, stabilisce anche che i 20 

110  La tesi contraria non può  trovare sostegno neanche nel fatto che la conversione del contratto può avvenire soltanto qualora vi sia il «superamento del termine stabilito nel medesimo contratto» e senza quindi il riferimento alle   ragioni   oggettive   previste   dall'articolo   1.   Qui   infatti   legislatore   si   è   preoccupato   soltanto   del   regime sanzionatorio speciale ­ in misura analoga con quanto previsto da altri commi del medesimo articolo 5 del d.lgs. 368/2001   ­   senza   attribuire   rilievo   alla   mancanza   delle   condizioni   che   attengono   alle   esigenze   economiche organizzative.111 Sul nuovo regime sanzionatorio v. M. TATARELLI, Le novità, cit., 114; G. PROIA, Le modifiche, cit., 97 ­ 98; G. FERRARO, Il contratto, cit., 68 – 69; C. ALESSI, La flessibilità del lavoro, cit., 9.112 G. PROIA, op. ult. cit., 97; CONFINDUSTRIA, Circolare, cit., 3.

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giorni   costituiscono   un'estensione   fisiologica   dei   36   mesi   che   impedisce   la 

conversione immediata e la fa operare dopo tre anni e 21 giorni113. Quest'ultima lettura 

mi sembra più corretta anche per la finalità originaria del comma 2 dell'art. 5 del d.lgs. 

368/2001, che voleva impedire che un errore nel prolungamento di fatto del rapporto 

oltre la scadenza potesse penalizzare il datore di lavoro con l'automatica conversione 

in un contratto a t. indeterminato.  La riforma, nell'introdurre l'inciso all'interno della 

vecchia disposizione (senza prevederne una aggiuntiva come sarebbe stato naturale) 

vuole anche in questo caso evitare che il superamento del "tetto" triennale per un solo 

giorno   (o   per   poco   tempo)   possa   produrre   la   stabilizzazione   del   contratto114.  La 

conversione opererà ex nunc anche nell’ipotesi di violazione delle regole sul rapporto 

in deroga, perché la disposizione afferma che «il nuovo contratto si considera a tempo 

indeterminato» e, quindi, fissa la trasformazione dal momento di stipula del rapporto 

eccedente i 36 mesi 115.  

La nuova legge, come nel precedente assetto, non regola altre ipotesi di violazione 

della   normativa   (mancanza   delle   esigenze   economiche   ed   organizzative   che 

giustificano il termine o delle ragioni oggettive che ne consentono la proroga; assenza 

della   forma   scritta  ad   substantiam;   mancato   rispetto   dei   divieti   di   stipula   del 

contratto).   Dopo   l’emanazione   del   d.lgs.   368/2001   si   erano   confrontate   due   tesi. 

Secondo la prima, nelle ipotesi descritte, si applica l’art. 1419, comma 2, cod. civ., 

con conversione del contratto in uno a tempo indeterminato. Una seconda tesi, invece, 

afferma che, ai sensi dell’art. 1419, comma 1, c.c. ed in base alla ricostruzione della 

volontà   delle   parti,   il   contratto   sarebbe   colpito   da   nullità   totale   e,   senza   alcuna 

conversione, si applicherebbe solo l’art. 2126 c.c. La tesi della trasformazione in un 

113 La seconda interpretazione, tra l'altro, sembra ­ in una lettura analitica del periodo ­ più fondata, in quanto il "nonché" congiunge le parole inserite (“decorso il periodo complessivo di cui al comma 4 bis”) a quelle precedenti ("in   caso   di   contratto   di  durata   inferiore   a   sei  mesi")   e   sembra  quindi   introdurre  due   ipotesi   equivalenti   di conversione non immediata, ma che avviene dopo 21 giorni.114 CONFINDUSTRIA, Circolare, cit., 3.115 In tal senso anche C. ALESSI, La flessibilità del lavoro, cit. 13 e G. PROIA, op. ult. cit., 98, che osserva, inoltre, che in questo caso non è richiamata la disposizione dell’art. 5, secondo comma, del d.lgs. 368 del 2001. 

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rapporto stabile è stata fatta propria dalla giurisprudenza prevalente, anche se vi sono 

(poche) decisioni favorevoli all’opinione contraria 116. 

In   tempi   recenti   si  è   sostenuto  che   la  mancanza  delle   ragioni  che   legittimano 

l’apposizione del termine costituirebbe «un difetto di un presupposto essenziale per la 

scelta   del   tipo»  che   impedirebbe  «a  monte»   l’accesso   al  modello   contrattuale.   Il 

giudice,   pertanto,   convertirebbe   il   rapporto   in  uno  a   tempo   indeterminato  non   in 

applicazione della sanzione della nullità bensì perché procederebbe a «qualificare il 

tipo, secondo gli schemi contrattuali inderogabilmente previsti dal legislatore»117. 

Questa   tesi   deve   essere   approfondita.   La   «riqualificazione»   del   modello 

contrattuale operata dal giudice presuppone che, a fronte di un’operazione economica 

riconducibile   ad   un   contratto   tipico   (ad   esempio,   il   lavoro   subordinato)   le   parti 

abbiano invece utilizzato un diverso  tipo (il   lavoro autonomo),  venendo  in questo 

modo a «disporre» della tipologia contrattuale inderogabile prevista dalla legge118. In 

questo   caso   il   giudice   riqualifica   il   contratto   in   modo   corretto.   Tuttavia   questa 

operazione richiede un contrasto tra «tipo legale» previsto dall’ordinamento e la scelta 

delle parti di un diverso contratto tipico per regolare la fattispecie concreta. Il rapporto 

a   termine   non   può   certamente   essere   definito   un   «tipo   a   sé   stante»   di   lavoro 

subordinato qualunque sia la teoria tipologica che venga utilizzata e, quindi, manca il 

presupposto  essenziale   per   il   procedimento  di   riqualificazione  del   contratto119.  La 

116 Per un riepilogo dei diversi orientamenti dottrinari e giurisprudenziali sul tema v. V. SPEZIALE, La nuova legge, cit., 405 ss.; ID., Il contratto a termine, cit., 448 ss.; ID. Lavoro a tempo determinato, cit., 8 ss.; S. CIUCCIOVINO, Il  contratto a tempo determinato, cit., 480 ss.; L. MENGHINI, Precarietà del lavoro, cit., 707  ss.;   A. VALLEBONA (a c. di), Giustificazione del lavoro a termine, cit., 44 ss.; L .NANNIPIERI, La riforma del lavoro a termine, cit., 348 ss. La tesi dell’applicazione dell’art. 1419, comma 2, c.c. è nettamente prevalente in dottrina e giurisprudenza.117 S.CIUCCIOVINO, Il contratto a tempo determinato, cit., 479.118  Infatti,  nonostante una contraria opinione (A. VALLEBONA,  La nullità  dei contratti di lavoro «atipici»,  ADL, 2005, 532), i caratteri costitutivi dei tipi contrattuali non sono disponibili dalle parti (« mentre le parti sono libere di convenire l’interpretazione del contratto tra loro concluso, o di una o più clausole in esso contenute, dando così luogo ad un negozio  interpretativo,   le  parti  non possono disporre  della  qualificazione.   Il  nomen  iuris  dato al contratto   non   vincola   il   giudice,   né   nel   procedimento   interpretativo,   né   nel   procedimento   qualificativo   del contratto»: G. ALPA, La causa e il tipo, E. GABRIELLI (a c. di), I contratti in generale, I, Torino, 1999, 523; conf.  R. SACCO, La qualificazione, R. SACCO – G. DE NOVA (a c. di), Il contratto, II, 1993, Torino, 443).119 Per una ricostruzione delle diverse teorie in materia di identificazione del tipo e del sottotipo, come pure della distinzione tra rapporto generale e speciale, mi permetto di rinviare a V. SPEZIALE, L’articolazione della fattispecie, cit., 115 – 132 e 166 – 171. L’analisi delle diverse interpretazioni sui caratteri costituivi del «tipo» consente di giungere alle conclusioni indicate nel testo. 

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situazione peraltro potrebbe essere diversa se, in coerenza con alcune interpretazioni, 

si affermasse che il contratto a t. determinato è un sottotipo, che ha tutti i caratteri del 

tipo   generale   (il   lavoro   subordinato   stabile)   più   un   elemento   «specializzante»   (il 

termine)120.   In   questo   caso,   infatti,   la   mancanza   delle   condizioni   economiche   ed 

organizzative   che   legittimano   il   rapporto   –   e   che   qualificano   il   sottotipo   ­ 

determinerebbe una nullità parziale e non travolgerebbe tutto il contratto. Pertanto, vi 

sarebbe l'automatica riconduzione del rapporto al modello principale. 

Si   è   affermato   che,   in   realtà,   la   violazione   delle   disposizioni   imperative   che 

regolano   le   condizioni   di   accesso   al   sottotipo   flessibile   determinerebbe   la   nullità 

dell'intero contratto  e non un’invalidità  parziale,  che «non può   riguardare clausole 

caratterizzanti   lo   schema   negoziale   voluto».   Inoltre,   poiché   il   contratto   é   nullo, 

occorrerebbe   individuare  «l'eventuale  volontà  del   legislatore,  espressa  o   tacita»,  e 

verificare   se   essa   é   finalizzata   ad   imporre   il   ritorno   al   tipo   generale   oppure   a 

consentire soltanto l'applicazione dell'art. 2126 c.c. Solo nel primo caso vi potrebbe 

essere   la   conversione   nel   lavoro   subordinato   a   t.   indeterminato121.   Alla   prima 

obiezione si può replicare che di nullità di tutto il contratto si può parlare soltanto nel 

caso   di   «conflitto   tra   tipi»,   quando,   cioè,   le   parti   hanno   utilizzato   un   modello 

negoziale   completamente   dissonante   da   quello   previsto   dalla   legge   (ad   es. 

associazione   in   partecipazione   invece   di   lavoro   subordinato)   e,   quindi,   il   tipo 

utilizzato   è   integralmente   nullo   perché   violativo   delle   regole   imperative   che 

consentono l’accesso al modello negoziale. Ma se, al contrario, l’invalidità riguarda 

soltanto   la   mancanza   dell’elemento   «specializzante»   (ad   esempio   la   formazione 

nell’apprendistato o il termine), non si comprende perché essa dovrebbe travolgere il 

contratto nella sua interezza e non il solo elemento che qualifica il «sottotipo». In 

120   A. CATAUDELLA, Spunti sulla tipologia dei rapporti di lavoro, DL, 1983, I, 89; L. MENGONI, La questione della  subordinazione in due trattazioni recenti, in q. Riv., 1986, I, 13. La tesi, che trova la sua origine in F. Carnelutti, è stata   accolta   anche   da   altri   autori   tra   cui  A.   VALLEBONA,  op.   ult.   cit.,   528   ss.   (rinvio,   per   le   indicazioni bibliografiche, a V. SPEZIALE, L’articolazione della fattispecie, cit., 118).121 A. VALLEBONA, La nullità dei contratti, cit., 535, 536, 538, 540. Tra l’altro, secondo questo a., la conversione è espressamente esclusa per il primo contratto a termine (544).

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questo caso, infatti, non sono in discussione le caratteristiche che connotano l’intero 

contratto (e non vi sono, pertanto, i presupposti per un’invalidità integrale), ma si è in 

presenza di  una violazione  di   legge  che riguarda  solo «l’elemento  aggiuntivo»  (il 

termine)122. Il che determina soltanto l’invalidità di tale carattere specializzante e non 

di tutto il modello negoziale, che ritorna ad essere quello generale123.  

Per quanto riguarda la seconda obiezione, va detto che gli artt. 1418 e 1419 c.c. 

parlano   di   «norme   imperative»   e   di   nullità   di   «parte»   del   contratto   o   delle   sue 

clausole,   senza che sia possibile fare alcuna distinzione relativa a disposizioni che 

attengono   al   contenuto   del   contratto   o   all'accesso   al   tipo.   Anzi,   se   il   carattere 

imperativo è  dato dalla natura degli  interessi  e dei fini perseguiti  dalla  norma124  o 

comunque   dall’esistenza   di   un   «interesse   generale»125,   non   vi   è   dubbio   che   le 

disposizioni che delineano gli elementi costitutivi del tipo o del sottotipo hanno tali 

caratteristiche perché sono finalizzate a ridurre l'autonomia contrattuale ­ e quindi la 

libertà  dei   soggetti   ­  entro  modelli  negoziali  predefiniti   e  per   finalità  di  carattere 

generale126. Per quanto attiene infine alla presunta necessità di ricostruire la "volontà 

del legislatore", va osservato che, nel momento in cui la legge consente l'accesso ad 

un determinato tipo o sottotipo in presenza di specifiche caratteristiche, l’«intenzione 

del legislatore» è stata già concretamente manifestata al momento della creazione del 

122  Tra   l’altro   secondo  A.   CATAUDELLA,   (op.   ult.   cit.,   80)   il   sottotipo   «deve   presentare   tutti   gli   elementi indispensabili   per   la   configurazione   del   tipo   ed,   inoltre,   qualche   nota   ulteriore,   che   valga   a   caratterizzarlo nell’ambito   del   tipo»,   per   cui   «si   ha   sottotipo   solo   quando   vi   sia   una   caratterizzazione   determinata dall’introduzione di un elemento non contemplato come essenziale nello schema del tipo». Questo elemento è per l’a.   il   termine   (89).   In   base   a   tale   ricostruzione,   l’invalidità   del   termine   (carattere   non   «essenziale») necessariamente deve produrre il ritorno agli elementi costitutivi del tipo (il t. indeterminato) rispetto al quale si caratterizzava come sottospecie.123 Anche A. VALLEBONA (op. ult. cit., 536) ritiene che, forse, nel caso del venir meno dell’elemento caratterizzante del sottotipo si potrebbe parlare di nullità parziale. Tuttavia, la nullità, secondo questo A., non determinerebbe la conversione del contratto perché  il datore di lavoro, al momento della stipula, voleva il sottotipo e non quello generale.   Quando,   peraltro,   sono   in   gioco   le   caratteristiche   dei   modelli   negoziali   non   vi   è   spazio   per   la ricostruzione della volontà dei contraenti, ai sensi dell’art. 1419, comma 1, c.c. Qui, infatti, il carattere generale degli interessi coinvolti (l’applicazione dei modelli contrattuali imposti dalla legge con norme imperative) esclude qualsiasi rilievo alle intenzioni delle parti ed impone la riaffermazione della tipologia imposta dalla legge.124 R. DE LUCA TAMAJO, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976, 20.125 C. M. BIANCA, La norma giuridica, cit., 12.126 Tra l’altro, nessun dubbio può sussistere sul fatto che l’apposizione del termine costituisca una «clausola» ai sensi  dell’art.   1419  cod.   civ.,   come dimostra   la   costante  giurisprudenza   in   tema di   contratto   a   termine  o  di apposizione di una scadenza finale al contratto di locazione. 

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modello negoziale.  Pertanto, il  giudice,  quando rileva che le parti  hanno nominato 

come autonomo un contratto che ha le caratteristiche della subordinazione altro non 

può   fare   che   riqualificarlo   nell'ambito   dell'art.   2094   c.   c.   Allo   stesso   modo,   il 

magistrato,   se   accerta   l'inesistenza   del   carattere   «specializzante»   che   connota   il 

sottotipo,  deve necessariamente ricondurlo al  modello  generale  per   il  venire  meno 

degli elementi di specialità che abilitano l’accesso al contratto «particolare» (nel ns. 

caso il rapporto a termine), con conseguente automatica conversione in un rapporto a 

t. indeterminato. Ed in entrambi i casi il giudice non ha alcuna discrezionalità, perché 

si trova in presenza di requisiti costitutivi «imposti» dalla legge che ha individuato i 

tipi (o sottotipi) contrattuali indisponibili per le parti e nell’ambito dei quali devono 

essere   «costrette»   le   operazioni   economiche   effettuate   dai   contraenti   e   ad   essi 

riconducibili.

Va detto, peraltro, che, se anche si volesse dare rilievo alla volontà del legislatore, 

le   conseguenze   non   sarebbero   diverse.   La   legge,   infatti,   prevede   che   il   t. 

indeterminato  è   la   «regola»   e   consente   l’accesso  al   sottotipo   solo   in   presenza  di 

presupposti formali e sostanziali precisi, qualificando il rapporto a termine come una 

deroga al modello generale. La rigidità delle condizioni in base alle quali è possibile 

stipulare il contratto ed il regime sanzionatorio previsto in molteplici ipotesi (con la 

conversione in lavoro stabile) sono tutte caratteristiche dal significato inequivocabile. 

Esse dimostrano che il legislatore, quando mancano dei requisiti specifici, vuole che 

si riaffermi la vigenza del lavoro a t. indeterminato. L’insieme degli elementi descritti 

esprime una preferenza indiscutibile per il lavoro stabile, che va letta come una chiara 

volontà del legislatore ad «un ritorno obbligato al tipo generale»127 anche nei casi in 

cui  manchi   la  sanzione espressa ed occorra utilizzare   i  principi   in  tema di  nullità 

parziale per il venir meno dell’elemento che qualifica il sottotipo.

La trasformazione del  rapporto a  termine  in  uno stabile  può  essere giustificata 

anche in modo diverso e sempre in applicazione della disciplina prevista dagli artt. 

127 A. VALLEBONA, op. ult. cit., 540.

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1419   e   1339   c.c.   Tra   l’altro,   questa   differente   interpretazione   prescinde   dalla 

qualificazione del termine come un «sottotipo» ed evita, quindi, di confrontarsi con le 

teorie   tipologiche,   nell’ambito   di   categorie   molto   controverse   per   quanto   attiene 

all’individuazione delle caratteristiche che specificano il «tipo» e le sue sottospecie128. 

La conversione del contratto ai  sensi del secondo comma dell’art.  1419 c.c,  che è 

quella assolutamente dominante in dottrina e giurisprudenza, od anche in base all’art. 

1339 c.c., è stata da me già sostenuta, anche alla luce di un’importante decisione della 

Corte  Costituzionale   secondo   la  quale,   nel   caso  di  norme  poste   a   protezione  del 

lavoratore (come nel lavoro a termine),  «sarebbe palesemente irrazionale che dalla 

violazione di una norma imperativa…posta proprio al  fine di  tutelare   il   lavoratore 

contro la pattuizione di clausole vessatorie, potesse derivare la liberazione del datore 

di   lavoro   da   ogni   vincolo   contrattuale»129.   E,   questa,   si   badi,   sarebbe   proprio   la 

conseguenza a cui si arriverebbe se si volesse affermare che la nullità  del termine 

dovrebbe travolgere   l’intero contratto.  Senza voler   ripercorrere  tutto   il  dibattito   in 

materia,   in   questa   sede   intendo   limitare   la   mia   analisi   alle   novità   legislative   o 

giurisprudenziali recentemente intervenute. 

Va subito detto che prima della riforma si poteva già  sostenere che il rapporto 

stabile era la «regola» e che solo in presenza delle condizioni tassativamente previste 

nel decreto delegato era possibile derogare ad essa. In sostanza, in base ad elementi 

desumibili dalla legge e dalla Direttiva 99/70/CE, si poteva affermare che il contratto 

a   tempo   indeterminato   era   la   «norma   imperativa   implicita»   che,   a   fronte   della 

violazione delle disposizioni inderogabili contenute nel d.lgs. del 2001, si sostituiva 

«di   diritto»   (art.   1419,   c.   2,   c.c.)   alle   pattuizioni   delle   parti   e   determinava   la 

conversione del contratto130. La riforma del 2007 ha reso «esplicito» ciò che prima era 

solo indirettamente definito, affermando che il t. indeterminato è la «normalità». Il 

128 Su tali aspetti mi permetto di rinviare a V. SPEZIALE, L’articolazione della fattispecie, cit., 115 ss.129 C. Cost. 11 maggio 1992, n. 210, FI, 1992, I, 3232 ss. Rinvio, sul punto, a V. SPEZIALE, La nuova legge, cit., 405 ss.; ID., Il contratto a termine, cit., 448 ss.; ID., Lavoro a tempo determinato, cit., 8 ss.130 Su tali aspetti, rinvio a V. SPEZIALE, Lavoro a tempo determinato, cit., 9 ss. 

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carattere imperativo della disposizione, oltre che dal «tono incisivo» utilizzato131   è 

ricavabile   dal   «tipo   di   interessi   tutelati   e   d(ai)   fini   perseguiti   dalla   norma»132, 

consistenti nel rendere il lavoro stabile la «regola» ed il termine «la deroga»133. La 

disposizione,   dunque,   ha   un   valore   «cogente»   che   si   rafforza   ulteriormente   se   il 

comma 01 viene letto insieme a tutte le altre disposizioni del d.lgs. 368/2001, che 

dimostrano come il termine sia ammesso solo alle condizioni tassative previste dalla 

legge e non possa costituire la «forma comune» di lavoro subordinato.  Nei casi in cui 

il contratto a termine è stipulato in assenza delle ragioni giustificative o della forma 

vincolata,   oppure   in   contrasto   con   i   divieti   o   in   mancanza   delle   condizioni 

economiche ed organizzative che legittimano la proroga, la clausola appositiva del 

termine  è  nulla  per  contrasto con queste  disposizioni   imperative  e  viene sostituita 

dalla norma inderogabile e cioè il lavoro stabile134. In queste ipotesi, inoltre, la volontà 

delle  parti   sulla  sopravvivenza  o meno del  contratto  a  seguito  della  sua invalidità 

parziale  è   irrilevante,  perché   sono  in  gioco   interessi   superindividuali   (di  carattere 

pubblico o privato) espressi da norme inderogabili che prevalgono sui contenuti del 

contratto ed  anche in relazione a clausole qualificate dai contraenti come essenziali135.

Il   dibattito   è   stato   recentemente   rianimato   da   una   sentenza   della   Corte 

costituzionale136.  La  Corte   si  occupa  del   lavoro  a   tempo  parziale   regolato  da  una 

disposizione   (l'art.   5,   comma 2,  del  d.l.   30  ottobre  1984,  n.  726,   convertito,   con 

modificazioni,  nella  l.  19 dicembre 1984, n.  863) oggi non più  vigente e che,  per 

pacifica interpretazione, imponeva per il part­time la forma ad susbtantiam. Il giudice 

delle  leggi afferma che,  in caso di mancanza di atto  scritto,  si  può  applicare  l'art. 131 R. DE LUCA TAMAJO, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976, 20.132 R. DE LUCA TAMAJO, op. ult. cit., 20.133 G. FERRARO (Il contratto, cit., 67) afferma che il comma «01» rafforza la tesi dell’applicazione dell’art. 1419, comma 2, c.c. In senso analogo M. TATARELLI, Le novità, cit., 111.134  In questo caso l’invalidità opera ai sensi dell’art.  1419, comma 2, (o 1339) c.c. anche in mancanza di una disposizione che espressamente preveda la nullità e l’effetto sostitutivo. Rinvio, su tali aspetti a  V. SPEZIALE,  La  nuova   legge,   cit.,   407   ss.;  ID.,  Lavoro   a   tempo   determinato,   cit.,   9   (con   indicazioni   bibliografiche   e giurisprudenziali) e, più recentemente, a P. M. PUTTI, La nullità parziale, Napoli, 2002, 168 ss. 135 Per le indicazioni bibliografiche degli autori civilistici su tali aspetti rinvio a V. SPEZIALE, La nuova legge, cit., 406 ed a P.M. PUTTI, op. ult. cit., 150 ss.136 C. Cost. 15 luglio 2005, n. 283, ADL, 2005, 895 ss.

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1419, comma 1, c. c., con conservazione del contratto «sempre che la clausola nulla 

non risulti avere carattere essenziale per entrambe le parti del rapporto nel senso che, 

in particolare, anche il lavoratore, il  quale di regola aspira ad un impiego a tempo 

pieno, non avrebbe stipulato il contratto se non con la clausola di riduzione di orario». 

La   sentenza  è   stata   interpretata   nel   senso  della   possibile   applicazione,   anche  nel 

rapporto di lavoro, dell'art. 1419, comma 1, c.c., con la necessità, nel contratto a t. 

determinato, di ricostruire la volontà delle parti al fine di verificare l'essenzialità  o 

meno del termine137. E, qualora quest’ultima fosse verificata, vi dovrebbero essere le 

conseguenze  già  descritte   (estinzione  del  contratto,  applicazione  dell'art.  2126 c.c. 

ecc.). 

Va   subito   osservato   che   la   sentenza   del   2005   sembra   affermare,   almeno 

indirettamente,  che il   tempo pieno é  una "regola"  imperativa,  rispetto alla quale  il 

part­time  si  pone come eccezione   (che  doveva  essere  espressamente  stipulato  per 

iscritto, a pena di invalidità)138. Ma se è così, va ricordato che, ai sensi dell'art. 1419, 

comma 2, c.c. la sostituzione con la norma imperativa prevale sulla volontà delle parti 

anche   se   l'invalidità   sarebbe,   per   i   soggetti   stipulanti,   tale   da   inficiare   l'intero 

contratto.   In   questo   caso,   in   sostanza,   il   primo   comma   dell'art.   1419   c.c.   non   è 

applicabile, perché le intenzioni dei contraenti sono irrilevanti per l’esigenza di far 

prevalere il regolamento imperativo della legge e gli interessi da questa tutelati. Per le 

stesse ragioni, il principio espresso dalla Corte Costituzionale non potrebbe mai essere 

esteso al contratto a termine, dove sono norme imperative sia quella che prevede il t. 

indeterminato come «regola», sia quelle che disciplinano le condizioni per la legittima 

apposizione del termine (e vi è quindi spazio solo per il secondo comma dell’art. 1419 

c.c.).  

137 S. CIUCCIOVINO, Il contratto a tempo determinato, cit., 481 ss. ed ev. altri.138 La sentenza, infatti, qualifica il  part time  come un «sottotipo derogatorio del normale rapporto di lavoro ad orario pieno» (C. Cost. 283/2005, cit. a nt. 136, 897 e 898) e ribadisce che tra i due modelli contrattuali vi é un rapporto regola ed eccezione. Essa, inoltre, conferma che la forma ad substantiam   del contratto a tempo parziale aveva finalità di protezione del lavoratore proprio in funzione di questa relazione tra «normalità» e deroga (898).

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Alla sentenza n. 283/2005 sono stati attribuiti significati del tutto estranei al suo 

contenuto139.   Comunque   se,   ignorando   le   considerazioni   prima   svolte,   si   volesse 

applicare il principio enucleato dalla Corte nel 2005 al contratto a t. determinato, le 

conclusioni non sarebbero diverse. Infatti, secondo il giudice delle leggi, occorrerebbe 

dare rilievo prevalente alla volontà del lavoratore140 e l’invalidità dell’intero contratto 

vi sarebbe soltanto se essa costituisse per lui un vantaggio. E’ a questo che la Corte si 

riferisce  quando  afferma  che  occorre   indagare   se   il   lavoratore  voleva  o  meno un 

contratto  part­time, oppure «di regola» aspirava «ad un impiego a tempo pieno»141. 

Nel   ns.   caso,   è   sufficiente   che   il   lavoratore   affermi   che,   in   conseguenza 

dell’illegittimità   del   termine,   non   vuole   che   si   determini   l’invalidità   dell’intero 

contratto e che egli, sin dall’origine, aveva interesse alla stipula di un rapporto stabile 

perché il rapporto si conservi senza la scadenza finale e si converta, quindi, in uno a 

tempo indeterminato142.

139 Si è detto, infatti, che la Corte avrebbe affermato che «la conversione legale automatica del contratto di lavoro invalido opera  solo  laddove  è   espressamente  prevista  dal   legislatore» e  che essa  «non è   ricavabile   in  via  di interpretazione analogica» e «dipende dalla discrezionalità del legislatore» (A. VALLEBONA, La conversione legale  automatica dei contratti di lavoro atipici invalidi non è costituzionalmente necessitata,  ADL, 2005, 835 ss.). La prima e la terza affermazione non sono rinvenibili in alcuna parte della motivazione. Mentre, per quanto attiene all’applicabilità   in   via   analogica   della   conversione,  questa   asserzione  va  ascritta   alla  «Corte   (di  Cassazione) remittente» (C. Cost. 283/2005, cit. a nt. 136, 896) e non certo al giudice delle leggi che non fa mai proprio tale principio. D’altra parte, la Corte costituzionale non esprime alcuna valutazione sul carattere «costituzionalmente necessitat(o)» o meno della conversione (A. VALLEBONA,  op.  ult.  cit.,  836),  ma si   limita ad affermare che alla trasformazione di un rapporto a  t.  parziale in uno  full­time,  si  può  giungere con l’applicazione dell’art.  1419, comma 1, c.c., con l’erronea applicazione dei principi civilistici che è già stata censurata nel testo.140 S. CIUCCIOVINO, op.ult.cit., 482.141 C. Cost. 283/2005, cit. a nt. 136, 898.142 In senso analogo, L. MENGHINI, Precarietà del lavoro, cit., 709, nt. 43. 

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