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64 Una possibile nuova definizione della parola Restauro Roberto Pasqualetti Nel corso dei secoli, il dibattito sul tema del restauro ha intrapreso percorsi teorici piuttosto differenti, spesso legati alla definizione stessa della parola restauro, che nel tempo ha acquisito varie accezioni, talvolta in aperta contraddizione; alcuni degli aggettivi utilizzati per indi- viduare linee di pensiero differenti sono stati: stilistico, romantico, storico, filologico, scientifico e critico 1 . 1 Nel corso dell’Ottocento, soprattutto in Francia, la cultura romantica del periodo contribuisce ad alimentare la presa di coscienza storica legata ai valori dell’arte e dell’architettura, quali valori essenziali della civiltà. Diviene prioritaria la conservazione del patrimonio storico e nascono due opposte teorie sulle metodologie del restauro: quella del francese Eugéne Viollet-Le-Duc e quella dell’inglese John Ruskin. Secondo Viollet-le-Duc (1814-1879), principale teorico del cosiddetto restauro stilistico: «Restaurare una costruzione, non vuol dire mantenerla, ripararla o rifarla, ma ristabilirla in uno stato completo che può non essere mai esistito fino a quel momento». Ciò consisteva nel cancellare la storia successiva alla nascita di un edificio, demolendo le porzioni incoerenti ed aggiungendo parti ritenute mancanti, per riportare il manufatto alla sua unitarietà stilistica. Esemplificativo l’intervento su Notre Dame di Parigi, iniziato nel 1844 da J.B. Lassus e dallo stesso Viollet-le-Duc. Oltre a restaurare la cattedrale, danneggiata durante la Rivoluzione Francese, furono aggiunti nuovi elementi in facciata, realizzata la guglia centrale tra coperture e transetto ed inserite le cinquantaquattro “gargolle” che ci osservano minacciose dall’alto, completando così, secondo lo spirito medievale ma arbitrariamente, un’opera che mai era stata compiuta. Di tutt’altro avviso l’intellettuale inglese John Ruskin (1819-1900), teorico del cosiddetto restauro romantico, che si oppose radicalmente a Viollet Le Duc, accusandolo di cancellare la memoria stessa del monumento e quindi di “mentire”. Ruskin, per il quale «il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni», sosteneva che un edificio nasceva, viveva e moriva; unica operazione consentita la sua conservazione; quando ciò non era più perseguibile per l’eccessivo degrado dell’opera, era giusto lasciarla “morire”, perché restaurarla Fig. 2. Andrea Brustolon, poltrona con de- corazioni simboliche del segno zodiacale della Bilancia, inizi del secolo XVIII. Giorgio Bonsanti, teorico del restauro, afferma «Se una sedia si rompe, viene riparata. Se la sedia è del Brustolon, viene restaurata». Fig. 1. Restituzioni grafiche per il restauro di dipinto.

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Una possibile nuova definizione della parola RestauroRoberto Pasqualetti

Nel corso dei secoli, il dibattito sul tema del restauro ha intrapreso percorsi teorici piuttosto differenti, spesso legati alla definizione stessa della parola restauro, che nel tempo ha acquisito varie accezioni, talvolta in aperta contraddizione; alcuni degli aggettivi utilizzati per indi-viduare linee di pensiero differenti sono stati: stilistico, romantico, storico, filologico, scientifico e critico1.

1 Nel corso dell’Ottocento, soprattutto in Francia, la cultura romantica del periodo contribuisce ad alimentare la presa di coscienza storica legata ai valori dell’arte e dell’architettura, quali valori essenziali della civiltà. Diviene prioritaria la conservazione del patrimonio storico e nascono due opposte teorie sulle metodologie del restauro: quella del francese Eugéne Viollet-Le-Duc e quella dell’inglese John Ruskin. Secondo Viollet-le-Duc (1814-1879), principale teorico del cosiddetto restauro stilistico: «Restaurare una costruzione, non vuol dire mantenerla, ripararla o rifarla, ma ristabilirla in uno stato completo che può non essere mai esistito fino a quel momento». Ciò consisteva nel cancellare la storia successiva alla nascita di un edificio, demolendo le porzioni incoerenti ed aggiungendo parti ritenute mancanti, per riportare il manufatto alla sua unitarietà stilistica. Esemplificativo l’intervento su Notre Dame di Parigi, iniziato nel 1844 da J.B. Lassus e dallo stesso Viollet-le-Duc. Oltre a restaurare la cattedrale, danneggiata durante la Rivoluzione Francese, furono aggiunti nuovi elementi in facciata, realizzata la guglia centrale tra coperture e transetto ed inserite le cinquantaquattro “gargolle” che ci osservano minacciose dall’alto, completando così, secondo lo spirito medievale ma arbitrariamente, un’opera che mai era stata compiuta. Di tutt’altro avviso l’intellettuale inglese John Ruskin (1819-1900), teorico del cosiddetto restauro romantico, che si oppose radicalmente a Viollet Le Duc, accusandolo di cancellare la memoria stessa del monumento e quindi di “mentire”. Ruskin, per il quale «il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni», sosteneva che un edificio nasceva, viveva e moriva; unica operazione consentita la sua conservazione; quando ciò non era più perseguibile per l’eccessivo degrado dell’opera, era giusto lasciarla “morire”, perché restaurarla

Fig. 2. Andrea Brustolon, poltrona con de-corazioni simboliche del segno zodiacale della Bilancia, inizi del secolo XVIII. Giorgio Bonsanti, teorico del restauro, afferma «Se una sedia si rompe, viene riparata. Se la sedia è del Brustolon, viene restaurata».

Fig. 1. Restituzioni grafiche per il restauro di dipinto.

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Ogni testo e studio combinato in materia di conservazione parte da qui, dalla defini-zione della parola, come dimostrano i contributi della presente pubblicazione. Come ad esempio quello di Paolo Bertoncini Sabatini, lucido excursus che lega il restauro all’architettura, il cui operare è un’arte di poesia e tecnica che richiede un «talento speciale, non comune». O come il testo di Alessandro Baldassari, che offre un’arguta chiave di lettura fra gli assunti del percorso teorico e della prassi operativa, al fine di guadagnare una maggiore consapevolezza nel fare. Oggi su Wikipedia, come ricorda anche Baldassari, la parola restauro è così definita: «il restauro è un’attività legata alla manutenzione, al recupero, al ripristino ed alla conservazione delle opere d’arte, dei beni culturali, dei monumenti ed in generale dei manufatti storici, quali ad esempio un’architettura, un manoscritto, un dipinto, un oggetto, qualsiasi esso sia, al quale venga riconosciuto un particolare valore». È certamente una delle definizioni di restauro al momento più attinenti, ma noi vogliamo cercare di coniarne una nuo-va che sia ancora più rispondente alle attuali condizioni di esercizio delle professioni

avrebbe significato dar vita a un manufatto diverso dall’opera originale. Su rielaborazioni ed integrazioni dei pensieri di Viollet Le Duc e di Ruskin, in Italia nacquero due nuove metodologie di restauro architettonico: Il cosiddetto restauro storico teorizzato da Luca Beltrami (1854-1933) che pur non distaccandosi dal restauro stilistico, sosteneva che eventuali integrazioni dovessero essere fondate su fonti archivistiche e non su un mero criterio di coerenza stilistica, ed il restauro filologico con il quale Camillo Boito (1836-1914) al congresso di Roma degli ingegneri ed architetti del 1883 pose le basi per il restauro scientifico in Italia. Boito stabilì una gerarchia degli interventi: i monumenti devono essere «piuttosto consolidati che riparati, piuttosto riparati che restaurati»; come Ruskin riconobbe il valore della conservazione e dei segni lasciati dal tempo definendo la patina come uno «splendido sudiciume del tempo», ma si contrappose all’inglese non accettando la “morte” del monumento e riconoscendo dunque l’importanza del restauro; come Viollet le Duc promosse lo studio rigoroso dell’edificio, ma rifiutò la sua accezione di restauro stilistico, considerandolo un inganno per i contemporanei; teorizzò infine il concetto della riconoscibilità dell’intervento: quando il restauro è indispensabile le parti nuove devono essere individuabili senza alterare l’aspetto complessivo del manufatto; gli elementi decorativi vanno limitati e le aggiunte devono ricondursi a semplici volumi essenziali.

Fig. 3. Eugéne Viollet-Le-Duc, intervento su Notre Dame

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di architetto, di archeologo e di stori-co, e che possa servire per una mag-giore comprensione da parte di tutti del concetto di tutela del patrimonio storico-artistico-architettonico.Cominciamo ad imbastire il ragiona-mento partendo da due riflessioni.

La prima è che con la parola “restau-ro” possiamo intendere tutte le ope-razioni necessarie per la trasmissione del bene al futuro, indipendente-mente dalla natura e dalla tipologia del bene stesso, dal dipinto all’edifi-cio, dalla stoffa alla cornice e così via.La manutenzione, il recupero, il ripristi-no, la conservazione, insite nella defi-

nizione di restauro, devono garantire la trasmissione del bene al futuro, comprese tutte le informazioni che vi sono contenute. Nel caso di un edificio tali informazioni possono essere di tipo formale, attinenti al sistema costruttivo e, soprattutto, alle caratteristi-che legate al suo utilizzo. La conseguente e necessaria rifunzionalizzazione presuppone una possibile trasformazione dell’edificio, poiché oltre all’eventuale consolidamento e ricostruzione della sua struttura fisica e formale, si innescherà automaticamente un processo relativo al suo adeguamento, mediante l’inserimento di nuovi impianti, di nuovi arredi o di nuovi infissi. E il manufatto, inevitabilmente, si trasformerà.Qual è allora il limite oltre il quale il restauro diventa trasformazione?E la trasformazione è di per sé restauro? Forse occorre superare la cultura che vede restauro ed architettura schierati su fronti antitetici: da un lato il restauro destinato al “vecchio” ed al rispetto rigoroso dell’integrità dell’opera e dall’altro l’architettura delegata soltanto al “nuovo”. Confrontarsi con l’esistente e col suo valore culturale, semantico e materico, considerare il contesto, l’ambiente, il territorio nel quale si in-serisce l’intervento, preservarne e valorizzarne le caratteristiche peculiari inserendo-ne anche di nuove che assolvano alle esigenze attuali, in poche parole “trasformare”, non è forse un progetto di architettura? E non è forse anche un progetto di restauro? Citiamo le parole di Giorgio Grassi: «il restauro si presenta in primo luogo come un problema di architettura […] e non v’è dubbio che si tratti di progettazione architet-tonica in senso stretto».

La seconda riflessione è che risulta fondamentale il riconoscimento del valore di cia-scun oggetto in quanto propedeutico all’attività di restaurare e, di conseguenza, sarà importante la struttura culturale della persona o della società che con esso si con-

Fig. 4. Eugéne Viollet-Le-Duc, ricostruzione di Carcassonne

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fronta, perché sarà proprio quella, in quel preciso momento storico, che determinerà detto valore. Abbiamo già assodato che fra gli oggetti “meritevoli” di restauro rien-trano tutti i manufatti con oltre cinquant’anni di vita, come teorizzato da Alois Riegl e normato dai Codici di tutela2.

2 Un importante contributo al concetto di restauro fu dato da Alois Riegl (1858-1905), storico dell’arte austriaco, appartenente alla Wiener Schule der Kunstgeschichte (Scuola viennese di Storia dell’Arte) per la sua teoria dei valori (la “DenkmalKultus”), a cui si lega la sua battaglia contro il “restauro stilistico” (teorizzato da Viollet-le-Duc). Secondo Riegl il restauratore deve operare con la consapevolezza dell’esistenza di diversi valori, agendo attraverso il confronto dialettico tra questi. Il “valore storico” che invita a garantire la leggibilità del documento storico, richiedendo l’eventuale reintegrazione di parti mancanti o perdute; il “valore d’antichità”, che invece reclama il non-intervento (andando contro la stessa conservazione) per tutelare gli effetti causati dal passaggio del tempo (e dunque, a favore della “patina” tanto amata da John Ruskin); il “valore di novità” che asseconda gli istinti di ripristino e rifacimento, è visibile nei restauri di Viollet-le-Duc; infine il “valore d’uso” che garantisce la sopravvivenza del documento storico a non mero resto archeologico. Nel corso del Novecento si fece strada la necessità di concepire il restauro in modo univoco, su basi più scientifiche che empiriche, ed i contenuti delle conferenze internazionali tra studiosi ed architetti sul tema furono di volta in volta racchiusi in quelle che sono state definite le “Carte del Restauro”. La prima Carta del Restauro del 1931 fu quella di Atene, che precedette di solo un anno la prima Carta Italiana del Restauro; alla formulazione di entrambe un contributo fondamentale fu dato da Gustavo Giovannoni (1873-1947) che, in continuità con il Boito, sosteneva che in ogni intervento fosse indispensabile sfruttare tutte le più moderne tecnologie, introducendo così il concetto di restauro scientifico, da suddividere in varie categorie di intervento: anastilosi o restauro di ricostruzione, ricomposizione con pezzi originali di una costruzione andata distrutta; plausibile utilizzo di elementi neutri, con le integrazioni distinguibili dalle parti antiche; restauro di completamento: aggiunta di parti “nuove” con il criterio della riconoscibilità; restauro di liberazione: rimozione delle superfetazioni ritenute di scarso valore storico-artistico; restauro di consolidamento per ristabilire un adeguato livello di sicurezza statica all’edifico; restauro di innovazione: integrazione di parti rilevanti anche “moderne”

Fig. 5. Luca Beltrami, Castello Sforzesco di Milano, 1894-1905. Restauro e ricostruzione

Fig. 6. Luca Beltrami, Giacomo Boni, ricostruzione campanile di San Marco a Venezia, 1912

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Ma forse anche un manufatto nuovissimo, rite-nuto di valore da chi deve, per qualsiasi ragio-ne, intervenirci, dovrebbe essere “trattato” con lo stesso protocollo del restauro. L’intervento su di un edificio recente progettato da un archi-tetto di fama internazionale non dovrebbe, ad esempio, essere considerato restauro? In questo caso è addirittura opinione unanime che l’edifi-cio vada considerato di pregio, come appurato applicando anche la serie di valori teorizzata da Riegl. E allora perché limitarsi a restaurare solo edifici vecchi di cinquant’anni? Basterà quindi che un oggetto sia “di valore” per essere suscet-

per il riutilizzo dell’edificio. A seguito delle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale in Italia ci fu un progressivo distacco dalle posizioni di restauro filologico-scientifico per virare verso il cosiddetto restauro critico, metodologia formulata principalmente da Cesare Brandi (1906-1988), storico dell’arte e direttore per molto tempo dell’Istituto Centrale del Restauro (oggi Istituto superiore per il restauro e la conservazione). Nel suo saggio del 1963 sosteneva che il restauro è «il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della trasmissione al futuro» aggiungendo anche che «si restaura solo la materia dell’opera d’arte» e che «il restauro deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo». Giorgio Bonsanti col suo “paradosso di Brustolon” (noto artista veneto del Settecento) ribadisce nuovamente lo stesso concetto: «Se una sedia si rompe, viene riparata. Se la sedia è del Brustolon, viene restaurata». Il Codice dei beni culturali e del paesaggio ha definito il restauro come un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale, al recupero del bene ed alla protezione e trasmissione dei suoi valori culturali, non delegandolo più soltanto alla conservazione “dell’aspetto visivo” dell’oggetto, mettendo perciò in crisi le basi del restauro critico che impostava la sua teoria proprio sul concetto di “opera d’arte”. Negli anni Settanta nasce la cosiddetta teoria della conservazione, che rifiutando ogni tipo di integrazione stilistica, seppur semplificata, promuove nell’edificio conservato integralmente l’inserimento di aggiunte palesemente moderne (tra i massimi esponenti Amedeo Bellini e Marco Dezzi Bardeschi).

Fig. 7. Ricostruzione elementi edilizi secondo la teoria del restauro filologico di Camillo Boito

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tibile di restauro.Continuando nel nostro ragiona-mento, vogliamo ancora andare ol-tre, applicando un ulteriore salto di scala.Cominciamo col citare alcuni gran-di architetti che, curiosamente, ne-gli ultimi anni, più dei teorici e degli storici dell’arte, con il loro “operato sul campo” hanno alimentato la di-scussione sul tema del recupero di grandi complessi edilizi. Per Giorgio Grassi ogni edificio restaurato deve misurarsi con la sua funzione e con il suo uso quotidiano integrandosi con il contesto urbano (o territoriale) nel quale si inserisce, perché è lo stesso contesto che forma parte della vita di un edificio. Da sottolineare che questo principio era già presente nei maestri “precursori” del restauro: per Ruskin l’architettura non era un’isola ma viveva in un contesto e doveva rispettare la sua unità; per Viollet-Le-Duc era l’intorno urba-nistico che doveva ancor di più valorizzare l’opera. Del resto, interventi di recupero recenti, proprio attraverso la ricostruzione di un intero isolato, hanno avuto grande incidenza sull’ambito urbano, come ad esempio il Neues Museum realizzato da David Chipperfield a Berlino.L’intervento su un edificio facente parte di un contesto storico-artistico, quale magari un centro storico, che dovrà essere adeguato all’uso attuale ed al quale verrà attribui-to un nuovo ruolo nel contesto urbano, può essere, per le teorie fino ad oggi accettate, considerato restauro.Se vale il concetto che restaurare significa non soltanto conservare ma, nell’accezio-ne più ampia del termine “trasformare per riutilizzare”, così come una sedia viene re-staurata per sedersi ed un edificio per essere riutilizzato, allora possiamo affermare che anche la ricucitura di uno spazio cittadino è restauro. Le ricostruzioni degli edi-fici distrutti durante la guerra, ma anche un “completamento” edilizio su un vuoto urbano di una via pubblica, sono operazioni di risanamento e ricucitura del tessuto edilizio e quindi vanno considerate come operazioni di restauro del quartiere o di

Fig. 8. Roberto Pasqualetti, intervento ex Macelli a Pisa

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quella parte di città. Se cambiamo il punto di vista ed introduciamo nuovi valori come quello della relati-vità dell’opera rispetto al contesto, il nostro ragionamento inizia ad avere una buona logica.Si restaura un oggetto, si restaura un edificio e si restaura una città, utilizzando gli stessi metodi di conservazione, trasformazione e rifunzionalizzazione.Così come è consentito parlare di restauro per un edificio, perché non dovrebbe esse-re lecito passare dal manufatto all’isolato, dall’isolato al borgo e da questo alla città ed anche al territorio?Del resto il codice dei beni culturali non prevede la tutela ed il restauro del territorio?«Lo Statuto del territorio che della pianificazione strutturale è lo snodo centrale, esprime le regole durevoli di utilizzazione delle risorse con lo scopo di conservarne

Figg. 9-10. Moritzburg Museo – Halle (D) - Nieto Sobejano Architectos

Fig. 12. S. Telmo Museum – San Sebastian (SP) - Nieto Sobejano Architectos

Fig. 11. Castillo de La Luz – La Palmas de Gran Canaria (SP) - Nieto Sobejano Architectos

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Fig. 15. Robbrecht en Daem architecten, Marie-josè Van Hee architecten, Market Hall, Ghent, Belgio

Fig. 13. AS. Architetture-studio, Novancia Business School, Parigi, Francia

Fig. 14. aMDL, Progetto di adeguamento architettonico e progetto sistema arredi biblioteca Laudense, Lodi

Fig. 16. James&Mau Architetti, Residenze San Vicente Ferrer, Madrid, Spagna

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Fig. 17. Massimo Carmassi, Ricostruzione di San Michele in Borgo, Pisa

Figg. 18-19. David Chipperfield, Neues Museum, Berlino

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o aumentarne la consistenza: conservazione, ma anche integrazione, risarcimen-to o addizione sono le azioni che suscita. In contesti in cui le tracce profonde delle trasformazioni di lungo periodo siano state alterate o corrose da eventi urbanisti-camente e architettonicamente deboli o nulli, il compito dell’architettura dovrebbe essere quello di contribuire a ricomporre le lesioni subite, proponendosi di ridare com-piutezza al senso dei luoghi mediante un “dialogo” esplicito con i caposaldi territoria-li e paesaggistici del contesto e facendosi carico di ricostruire i rapporti interrotti»3.In una parola restaurare il territorio. Ovvero fare un progetto di architettura.

3 Gianfranco Gorrelli, Territori, paesaggi e architetture, in Architettura contemporanea nel paesaggio toscano, Edizioni Edifir, Pisa giugno 2008.

Fig. 20. Massimo Carmassi, progetto mura città di Pisa

Fig. 21. Massimo Carmassi, vista assonometrica del settore nord delle mura urbane di Pisa

Fig. 22. Progetto di riqualificazione del settore dal Duomo alla Cittadella

Figg. 23-24. Massimo Carmassi, piano urbanistico città di Pisa. Il progetto del verde e degli edifici ordinari

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Fig. 25. Pont du Garde, acquedotto romano Fig. 26. Viadotto autostradale

Fig. 27. Ambrogio Lorenzetti, Buon governo, 1338 Fig. 28. Gerardo Stamina, La Tebaide, primi del ’400

Fig. 29. Agnolo Gaddi, Leggenda della Croce (1330-1394) Fig. 30. Campagna di Montepulciano

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Operare in architettura o in urbanistica (ma c’è differenza?) utilizzando tutti i metodi sin qui esposti ed adattandoli di volta in volta al contesto ed alle caratte-ristiche dell’opera sia essa un monumen-to, un isolato un borgo, un pezzo di città, o un territorio vuol dire “restaurare”.«Se prediamo atto (come dobbiamo) di questa realtà, ovvero se riconosciamo con convinzione che il paesaggio è un paesaggio abbondantemente architet-tato e costruito nel corso dei secoli; se non possiamo disconoscere che l’inter-vento dell’uomo ha creato un paesaggio che tutti considerano prodigioso e affa-scinante, perché dovremmo sospendere le opportunità di intervenire con attua-li contributi creativi su questo organi-smo? Siamo forse più barbari, incapaci, o imbecilli dei nostri predecessori? Am-mettiamolo pure (non senza una buona dose di scetticismo); tuttavia non si può accettare il principio che la storia debba essere interrotta per il veto insindacabi-le di un soprintendente che sembrereb-be l’unico depositario di ciò che è bello e di ciò che è brutto, di ciò che è ammissi-bile e di ciò che è inammissibile, ossia per il giudizio di un burocrate che spesso ap-pare scarsamente dotato di sensibilità culturale e di qualità progettuali»4.Arriviamo quindi alla conclusione del nostro ragionamento affermando che: ogni in-tervento dell’uomo teso a trasformare l’esistente per adeguarlo ai propri usi in modo sostenibile, mantenendone le caratteristiche di valore, si può definire restauro. Citando Oscar Wilde: «Se la natura fosse stata comoda gli uomini non avrebbero inventato l’architettura». E non è forse invece proprio l’opera d’arte che non è possibile restaurare perché non può essere modificata senza alterare i suoi valori comunicativi? Nell’opera d’arte non si cerca un utilizzo funzionale, ma il suo significato di valori estetici e culturali. Un

4 Carlo Cresti, Il paesaggio costruito, in Architettura contemporanea nel paesaggio toscano, Edizioni Edifir, Pisa giugno 2008.

Fig. 31. Jean Nouvel, Colle Val d’Elsa, progetto di riqualificazione

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edificio meraviglioso si autocelebra o diventa un museo, l’opera d’arte si ammira e ci commuove. E se restauro vuol dire conservazione e restituzione del manufatto, del quartiere, della città o del territorio alla sua utilizzazione, paradossalmente è proprio l’opera d’arte che non potrà essere restaurata perché non è ne giusto ne necessario modificare il suo stato per conservarla nel tempo. Non potendo intervenire senza modificarla e ridurne quindi il valore semantico, me-glio lasciarla all’usura; ci trasmetterà comunque il suo codice, arricchito dalla patina del tempo. Ma qui dovremmo aprire un altro capitolo di discussione.

Fig. 32. Iotti + Paravani, Marazzi, progetto di nuovo stadio a Siena, 2005

Fig. 33. Piero Sartogo, Nathalie Grenon. Cantina “L’ammiraglia” di Frescobaldi, Montiano (GR)

Fig. 34. Archea, Cantina Antinori nel Chianti, in Toscana